Ultime pronunce pubblicate deposito del 10/07/2008
 
257/2008 pres. BILE, rel. FLICK   visualizza pronuncia 257/2008
258/2008 pres. BILE, rel. GALLO   visualizza pronuncia 258/2008
259/2008 pres. BILE, rel. AMIRANTE   visualizza pronuncia 259/2008
260/2008 pres. BILE, rel. FLICK   visualizza pronuncia 260/2008
261/2008 pres. BILE, rel. FLICK   visualizza pronuncia 261/2008
262/2008 pres. BILE, rel. FLICK   visualizza pronuncia 262/2008
263/2008 pres. BILE, rel. FLICK   visualizza pronuncia 263/2008
264/2008 pres. BILE, rel. FLICK   visualizza pronuncia 264/2008
265/2008 pres. BILE, rel. FLICK   visualizza pronuncia 265/2008
266/2008 pres. BILE, rel. GALLO   visualizza pronuncia 266/2008
267/2008 pres. BILE, rel. SILVESTRI   visualizza pronuncia 267/2008
268/2008 pres. BILE, rel. MAZZELLA   visualizza pronuncia 268/2008
269/2008 pres. BILE, rel. GALLO   visualizza pronuncia 269/2008
270/2008 pres. BILE, rel. MAZZELLA   visualizza pronuncia 270/2008

 
 

Deposito del 10/07/2008 (dalla 257 alla 270)

 
O.257/2008 del 07/07/2008
Camera di Consiglio del 11/06/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Artt. 69, c. 4° (come modificato dall'art. 3 della legge 05/12/2005, n. 251), e 99 (come sostituito dall'art. 4 della legge 05/12/2005, n. 251) del codice penale.

Oggetto: Reati e pene - Circostanze del reato - Concorso di circostanze aggravanti e attenuanti - Divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle circostanze inerenti alla persona del colpevole nel caso previsto dall'art. 99, quarto comma, cod. pen. (recidiva reiterata).
Reati e pene - Recidiva - Determinazione della pena in caso di recidiva reiterata - Previsione di un aumento obbligatorio fisso di pena.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ordd. 9, 20, 71, 282, 283, 318, 341, 345, 348, 382, 394, 417, 420, 485, 513, 514, 515, 517, 534, 537, 598, 607, 679 e 736/2007 e 18/2008
O.258/2008 del 07/07/2008
Camera di Consiglio del 11/06/2008, Presidente BILE, Relatore GALLO


Norme impugnate: Art. 31, c. 8°, della legge 28/02/1986, n. 41.

Oggetto: Imposte e tasse - Contributo per le prestazioni del Servizio sanitario nazionale - Determinazione del relativo importo in misura percentuale del reddito complessivo rilevante ai fini dell'I.R.P.E.F. - Inclusione nella base imponibile dell 'I.R.P.E.F. e, conseguentemente, nella base di calcolo del contributo per il Servizio sanitario nazionale, quali somme assimilate ai redditi di lavoro dipendente, degli assegni periodici, comunque denominati, alla cui produzione non concorrono attualmente né capitale né lavoro, compresi quelli indicati alle lettere c) e d) dell'art. 10, comma 1, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 tra gli oneri deducibili - Omessa previsione dell'esclusione dalla base di calcolo del detto contributo degli assegni periodici di mantenimento percepiti in forza di provvedimento dell'autorità giudiziaria a seguito di separazione legale, in considerazione della ritenuta loro natura assistenziale e risarcitoria.

Dispositivo: manifesta infondatezza
Atti decisi: ord. 23 e 24/2008
O.259/2008 del 07/07/2008
Udienza Pubblica del 06/05/2008, Presidente BILE, Relatore AMIRANTE


Norme impugnate: Artt. 4, c. 2°, lett. b), e 5, lett. e), della legge 26/07/1984, n. 413.

Oggetto: Previdenza e assistenza sociale - Lavoratori marittimi assunti con contratto di arruolamento su galleggianti privi di mezzi di propulsione e non addetti al servizio dei porti, delle rade e del pilotaggio - Tutela previdenziale di cui alla legge n. 413 del 1984 - Esclusione.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 570/2007
O.260/2008 del 07/07/2008
Camera di Consiglio del 21/05 /2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20/02/2006, n. 46; art. 10 della legge 20/02/2006, n. 46.

Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Preclusione, salvo nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen. - Inammissibilità dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella

Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens
Atti decisi: ordd. 16, 751 e 752/2007
O.261/2008< /a> del 07/07/2008
Camera di Consiglio del 21/05/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20/02/2006, n. 46; art. 10 della legge 20/02/2006, n. 46.

Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Preclusione, salvo nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen. - Inammissibilità dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella.

Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens
Atti decisi: ordd. 51, 52 e 55/2007
O.262/2008 del 07/07/2008
Camera di Consiglio del 21/05/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20/02/2006, n. 46; art. 10 della legge 20/02/2006, n. 46.

Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Preclusione, salvo nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen. - Inammissibilità dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella.

Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens
Atti decisi: ordd. 58, 59, 63, 253, 302 e 401/2007
O.263/2008 del 07/07/2008
Camera di Consiglio del 21/05/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20/02/2006, n. 46; art. 10 della legge 20/02/2006, n. 46.

Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Preclusione, salvo nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen. - Inammissibilità dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ordd. 136 e 330/2007
O.264/2008 del 07/07/2008
Camera di Consiglio del 21/05/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20/02/2006, n. 46; art. 10 della legge 20/02/2006, n. 46.

Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Preclusione, salvo nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen. - Inammissibilità dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella.

Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens
Atti decisi: ordd. 138/2007 e 30/2008
O.265/2008 del 07/07/2008
Camera di Consiglio del 21/05/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20/02/2006, n. 46; art. 10 della legge 20/02/2006, n. 46.

Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Preclusione, salvo nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen. - Inammissibilità dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: o rd. 304/2007
O.266/2008 del 07/07/2008
Camera di Consiglio del 11/06/2008, Presidente BILE, Relatore GALLO


Norme impugnate: Art. 11 quaterdecies, c. 16°, del decreto legge 30/09/2005, n. 203, convertito con modificazioni in legge 02/12/2005, n. 248; art. 36, c. 2°, del decreto legge 04/07/2006, n. 223, convertito con modificazioni in legge 04/08/2006, n. 248.

Oggetto: Imposte e tasse - Imposta comunale sugli immobili (ICI) - Nozione di area fabbricabile ai fini dell'applicazione dell'imposta - Norme di interpretazione autentica secondo cui l'edificabilità deve essere ritenuta solo sulla base delle disposizioni del piano regolatore generale, anche in assenza degli strumenti urbanistici attu ativi.

Dispositivo: manifesta infondatezza - manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 775 e 836/2007; 33/2008
O.267/2008 del 07/07/2008
Camera di Consiglio del 11/06/2008, Presidente BILE, Relatore SILVESTRI


Norme impugnate: Art. 294 del codice di procedura penale.

Oggetto: Processo penale - Misure cautelari personali - Interrogatorio della persona sottoposta a misura cautelare personale - Mancata previsione dell'obbligo dell'interrogatorio nel caso di aggravamento della misura di garanzia disposto ai sensi dell'art. 276, comma 1, cod. proc. pen. dopo la pronuncia della sentenza di primo grado e fino all'inizio del giudizio d i appello.

Dispositivo: manifesta infondatezza
Atti decisi: ord. 837/2007
O.268/2008 del 07/07/2008
Udienza Pubblica del 24/06/2008, Presidente BILE, Relatore MAZZELLA


Norme impugnate: Art. 14 bis, c. 4°, del decreto legislativo 03/04/1993, n. 96.

Oggetto: Previdenza - Dipendenti della soppressa Agensud transitati nelle Amministrazioni dello Stato - Beneficio della restituzione dei contributi previdenziali versati in eccedenza rispetto alla riserva matematica necessaria ai fini pensionistici e, quindi, non utili a pensione - Limitazione al personale cessato dal servizio dopo il 13 ottobre 1993 e fino al 15 febbraio 1995 - Applic azione del beneficio della restituzione dei contributi a tutti i dipendenti della Agensud transitati presso amministrazioni statali che abbiano ricongiunto il servizio prestato in precedenza presso l'Agensud e non abbiano scelto il mantenimento della posizione di provenienza.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 757/2007
O.269/2008 del 07/07/2008
Camera di Consiglio del 25/06/2008, Presidente BILE, Relatore GALLO


Norme impugnate: Art. 2 del decreto legislativo 31/12/1992, n. 546, come modificato dall'art. 3 bis, c. 1°, lett. b). del decreto legge 30/09/2005, n. 203, convertito con modificazioni in legge 02/12/2005, n. 248.

Oggetto: Giurisdizioni speciali - Giurisdizione tributaria - Controversie relative alla debenza del canone per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche - Impugnazione del relativo avviso di pagamento - Illogicità dell'attribuzione delle dette controversie alla giurisdizione delle commissioni tributarie, anziché alla giurisdizione del giudice ordinario in coerenza con il diritto vivente circa la ritenuta natura non tributaria del canone dovuto.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 814/2007
O.270/2008 del 07/07/2008
Camera di Consiglio del 25/06/2008, Presidente BILE, Relatore MAZZELLA


Norme impugnate: Artt. 2 e 2 bis della legg e 12/06/1990, n. 146.

Oggetto: Processo penale - Astensione collettiva degli avvocati dalle udienze - Mancata previsione a carico degli avvocati dell'obbligo di versare ad un costituendo fondo una somma corrispondente al valore-udienza ovvero di altro strumento che consenta di equiparare sotto il profilo economico l'astensione dell'avvocato a quella del lavoratore dipendente.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 673/2007

pronuncia successiva

ORDINANZA N. 257

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 69, quarto comma, e 99 del codice penale, come modificati dagli artt. 3 e 4 della legge 5 dicembre 2005, n, 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promossi con ordinanze del 21 giugno 2006 dalla Corte d'appello di Genova, del 15 luglio 2006 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catania, del 19 maggio e del 5 ottobre (nn. 2 ordd.) 2006 dal Tribunale di Cagliari, del 15 giugno 2006 dal Tribunale di Ragusa, sezione distaccata di Vittoria, del 7 novembre 2006 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Novara, del 20 dicembre 2006 dal Tribunale di Urbino, del 6 luglio 2006 dal Tribunale di Reggio Emilia, del 19 gennaio 2007 dal Tribunale di Roma, del 17 novembre 2006 dal Tribunale di Ragusa, del 6 dicembre 2006 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Novara, del 16 gennaio 2007 dalla Corte d'appello di Torino, del 22 febbraio 2007 dal Tribunale di Roma, del 14 (nn. 2 ordd.) e del 28 novembre e del 21 dicembre 2006 dal Tribunale di Prato, del 1° febbraio 2007 dal Tribunale di Roma, del 18 dicembre 2006 dal Tribunale di Torino, del 17 aprile 2007 dal Tribunale di Roma, del 16 febbraio 2007 dalla Corte d'appello di Torino, del 13 marzo 2007 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Prato, del 31 maggio 2007 dal Tribunale di Reggio Emilia e del 23 aprile 2007 dal Tribunale di Tempio Pausania, rispettivamente iscritte ai nn. 9, 20, 71, 282, 283, 318, 341, 345, 348, 382, 394, 417, 420, 485, da 513 a 515, 517, 534, 537, 598, 607, 679 e 736 del registro ordinanze 2007 e al n. 18 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 7, 8, 10, 17, 18, 20, 21, 22, 23, 26, 27, 32, 35, 36, 39 e 43, prima serie speciale, dell'anno 2007 e n, 8 prima serie speciale, dell'anno 2008.

      Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

      udito nella camera di consiglio dell'11 giugno 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catania, con ordinanza emessa il 15 luglio 2006 (r.o. n. 20 del 2007), il Tribunale di Roma, con ordinanza emessa il 19 gennaio 2007 (r.o. n. 382 del 2007), e il Tribunale di Tempio Pausania, con ordinanza emessa il 23 aprile 2007 (r.o. n. 18 del 2008), hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 69, quarto comma, del codice penale, come modificato dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al cod ice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui, nel disciplinare il concorso di circostanze eterogenee, vieta di ritenere le circostanze attenuanti prevalenti sull'aggravante della recidiva reiterata, prevista dall'art. 99, quarto comma, cod. pen.;

    che, ad avviso dei rimettenti, la norma censurata si porrebbe in contrasto con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza, determinando un «appiattimento» del trattamento sanzionatorio di situazioni assai diverse: e ciò - secondo l'ordinanza r.o. n. 382 del 2007 - anche all'interno della stessa categoria dei recidivi reiterati, parificando gli imputati ritenuti meritevoli di una pluralità di attenuanti e quelli ai quali ne sia riconosciuta una sola; i recidivi per reati «bagatellari» e quelli per reati gravissimi; i recidivi per reati risalenti nel tempo e quelli per reati commessi recentemente;

    che la disposizione denunciata rischierebbe, altresì, di imporre l'applicazione di pene manifestamente sproporzionate per eccesso, inidonee, come tali, ad esplicare una funzione rieducativa del condannato: fenomeno, questo, puntualmente riscontrabile nei giudizi a quibus, concernenti reati di detenzione o cessione illecita di sostanze stupefacenti da ritenere di lieve entità, ai fini dell'applicazione dell'attenuante speciale di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza); attenuante i cui sensibilissimi effetti di mitigazione della pen a rimarrebbero neutralizzati dal divieto censurato;

    che l'ordinanza r.o. n. 382 del 2007 rileva, altresì, come l'art. 52 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468) consenta tuttora, per i reati di competenza del giudice di pace e in relazione alla recidiva reiterata infraquinquennale, quel giudizio di prevalenza delle attenuanti che la norma censurata nega per i reati di competenza di giudici superiori, in caso di mera recidiva reiterata: donde un ulteriore profilo di irrazionalità della norma stessa;

    che analoga questione di legittimità costituzionale è sollevata dal Tribunale di Torino con ordinanza emessa il 18 dicembre 2006 (r.o. n. 537 del 2007);

    che, a parere del rimettente, con il novellato art. 69, quarto comma, cod. pen. il legislatore avrebbe introdotto un irragionevole automatismo, presumendo nell'imputato recidivo reiterato - senza possibilità di prova contraria - una capacità a delinquere talmente elevata da non poter essere sopravanzata da attenuanti, di qualsiasi genere e numero;

    che tale automatismo potrebbe imporre l'applicazione di sanzioni manifestamente sproporzionate, con conseguente lesione del principio di eguaglianza e della finalità rieducativa della pena: lesione apprezzabile specie in presenza di circostanze attenuanti cosiddette indipendenti, che presuppongono una valutazione legislativa di particolare tenuità dell'offesa  (quale, nella specie, quella di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990); nonché quando i precedenti penali che costituiscono lo status di recidivo reiterato risultino di modesta gravità o risalenti nel tempo;

    che emblematica dell'irragionevolezza della scelta legislativa sarebbe, altresì, l'eclatante disparità di trattamento che la norma denunciata si presta ad indurre fra i concorrenti nel medesimo fatto: disparità di trattamento puntualmente riscontrabile nel giudizio a quo, in cui - a fronte d'una cessione illecita di stupefacenti di modestissima gravità oggettiva, commessa in concorso da due imputati, uno dei quali recidivo semplice e l'altro recidivo reiterato - quest'ultimo si troverebbe esposto all'applicazione di una pena minima sei volte superiore a quella irrogabile al primo;

    che la legittimità costituzionale - in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. - del divieto sancito dall'art. 69, quarto comma, cod. pen. è posta in dubbio anche il Tribunale di Prato, con ordinanze emesse il 14 novembre 2006 (r.o. n. 513 e n. 514 del 2007), il 28 novembre 2006 (r.o. n. 515 del 2007) e il 21 dicembre 2006 (r.o. n. 517 del 2007);

    che il Tribunale rimettente osserva come il divieto censurato determini non solo disparità di trattamento per situazioni fattuali obiettivamente omogenee (ad esempio, nel caso di detenzione di un quantitativo mimino di stupefacenti da parte di due soggetti in concorso, uno dei quali soltanto recidivo reiterato); ma anche risposte sanzionatorie più gravi per casi meno gravi (ad esempio, nel caso di detenzione di quantitativi minimi di stupefacente da parte del recidivo reiterato, rispetto alla detenzione di quantitativi superiori da parte di soggetto incensurato, che possa comunque fruire dell'attenuante di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990);

    che la disposizione denunciata violerebbe, altresì, l'art. 27, terzo comma, Cost., impedendo al giudice di applicare, tramite il giudizio di comparazione tra circostanze, una sanzione proporzionata alla gravità del fatto commesso, con conseguente compromissione della funzione rieducativa della pena;

    che una ulteriore, analoga questione di legittimità costituzionale è sollevata dal Tribunale di Urbino, con ordinanza emessa il 20 dicembre 2006 (r.o. n. 345 del 2007);

    che il giudice a quo esclude preliminarmente che la disposizione impugnata si presti ad interpretazioni «correttive»: quale quella di ritenere che - stante il carattere tuttora facoltativo dell'aumento di pena per la recidiva reiterata - il censurato divieto di prevalenza delle attenuanti rimanga inoperante ove il giudice, sulla base di una valutazione discrezionale, decida di non applicare l'aumento di pena;

    che una simile soluzione interpretativa si scontrerebbe, difatti, con il riferimento dell'art. 69, quarto comma, cod. pen. alle circostanze aggravanti «ritenute»: formula a fronte della quale il divieto de quo andrebbe considerato operante in tutti i casi in cui si ritengano esistenti i presupposti della recidiva, indipendentemente dall'applicazione o meno del relativo aumento di pena; e ciò tenuto conto anche dell'intento del legislatore della legge n. 251 del 2005, di inasprire comunque il trattamento sanzionatorio del recidivo reiterato;

    che, ciò premesso, il rimettente assume che l'art. 69, quarto comma, cod. pen. comprometta la finalità rieducativa della pena, la quale presuppone la proporzionalità della sanzione alle connotazioni oggettive del fatto: rapporto, di contro, infranto dalla norma impugnata, la quale conferirebbe rilievo preminente ad una circostanza inerente alla persona del colpevole, consistente nell'aver riportato una pluralità di condanne, a prescindere dalla natura dei reati commessi;

    che sarebbe leso, altresì, il principio di eguaglianza, giacché la disposizione censurata determinerebbe, da un lato, una irragionevole disparità di trattamento di situazioni analoghe (l'imputato nel giudizio a quo, solo perché recidivo reiterato, dovrebbe essere punito con una pena sei volte superiore nel minimo rispetto a chi abbia commesso il medesimo fatto senza essere recidivo); e, dall'altro lato, un trattamento irragionevolmente eguale di situazioni assai differenti tra loro (l'imputato, per la detenzione di un modesto quantitativo di hashish, verrebbe punito allo stesso modo di chi detenga un quantitativo molto maggiore dello stesso stupefacente, o anche di «droghe pesanti»);

    che il nuovo testo dell'art. 69, quarto comma, cod. pen. è reputato contrastante, in parte qua, con gli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., dal Tribunale di Reggio Emilia, con ordinanze emesse il 6 luglio 2006 (r.o. n. 348 del 2007) e il 31 maggio 2007 (r.o. n. 736 del 2007), e dal Tribunale di Roma, con ordinanze emesse il 22 febbraio 2007 (r.o. n. 485 del 2007), il 1° febbraio 2007 (r.o. n. 534 del 2007) e il 17 aprile 2007 (r.o. n. 598 del 2007);

    che, ad avviso dei rimettenti, la norma impugnata lederebbe il principio di eguaglianza, parificando nel trattamento sanzionatorio situazioni profondamente diverse sia sul piano della gravità oggettiva, che su quello della personalità degli autori; nonché - secondo il Tribunale di Reggio Emilia - sanzionando in modo ingiustificatamente diverso situazioni pressoché equivalenti, solo in ragione della presenza, in un caso e non nell'altro, di precedenti penali, ancorché modesti, remoti e privi di relazione con il reato oggetto di giudizio;

    che risulterebbero altresì vulnerati i principi di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena, i quali postulano l'individualizzazione della risposta sanzionatoria, escludendo che possano prevedersi, in nome di supposte esigenze di difesa sociale, trattamenti punitivi uniformi per determinate categorie di soggetti, ispirati ad irrazionale durezza e, come tali, inidonei a conseguire la risocializzazione del reo;

    che la stessa norma è impugnata, in riferimento al solo art. 3 Cost., dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Prato, con ordinanza emessa il 13 marzo 2007 (r.o. n. 679 del 2007), sul rilievo che essa impedisce il riconoscimento della prevalenza delle attenuanti - e, segnatamente, di quella ad effetto speciale di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 - sulla recidiva reiterata, senza alcun riferimento ad «indicatori di tipo oggettivo» (mezzi, modalità e circostanze dell'azione; qualità e quantità delle sostanze stupefacenti): introducendo, con ciò, una ingiustificata disparità di trattamento rispetto, ad esempio, alla detenzione da parte di un soggetto incensurato di quantitativi superiori di stupefacenti, ma co munque rientranti nell'ambito di applicabilità della predetta attenuante;

    che, con ordinanze emesse il 7 novembre 2006 (r.o. n. 341 del 2007) e il 6 dicembre 2006 (r.o. n. 417 del 2007), il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Novara ha sottoposto a scrutinio di costituzionalità la medesima disposizione, in riferimento al solo art. 27, terzo comma, Cost.;

    che il giudice a quo rileva come le funzioni che la Costituzione assegna alla pena - retributiva e afflittiva, in un'ottica di difesa sociale e di prevenzione generale; rieducativa e di prevenzione speciale, in vista del recupero del reo - coesistano all'interno di un sistema che risente della dinamica dei fenomeni deliquenziali: sicché il legislatore potrebbe, nelle sue scelte di politica criminale, valorizzare l'una piuttosto che l'altra, a patto, però, che nessuna di esse risulti obliterata;

    che nella specie, di contro, il legislatore avrebbe privilegiato la linea repressiva, obliterando del tutto la finalità di rieducazione: giacché, inibendo il giudizio di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata, avrebbe precluso al giudice la possibilità di individuare, in concreto, il trattamento sanzionatorio adeguato alla gravità del fatto commesso e alla personalità del colpevole, tale da consentire l'auspicato recupero sociale del condannato;

    che con ordinanza emessa il 19 maggio 2006 (r.o. n. 71 del 2007), il Tribunale di Cagliari ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., come modificato dall'art. 3 della legge n. 251 del 2005, con riguardo alla stessa articolazione precettiva;

    che il Tribunale rimettente ritiene che il divieto censurato violi, anzitutto, il principio di eguaglianza: giacché, per un verso, imporrebbe di punire allo stesso modo fatti di diversa gravità concreta (nella specie, la detenzione illecita di stupefacenti di lieve entità verrebbe punita con la medesima pena prevista i fatti non lievi); e, per un altro verso, farebbe sì che vengano puniti in modo diverso fatti oggettivamente analoghi, sulla base del solo elemento differenziale rappresentato dalla qualità di recidivo reiterato dell'autore;

    che la norma censurata introdurrebbe, in sostanza, un «automatismo sanzionatorio» atto a determinare una «indiscriminata omologazione» dei recidivi reiterati, sulla base di una presunzione assoluta di pericolosità che - prescindendo dalla natura dei delitti cui si riferiscono le precedenti condanne, dall'epoca della loro commissione e dalla identità della loro indole rispetto a quella del nuovo reato - potrebbe non trovare riscontro nei fatti;

    che tale «automatismo», ancorato alla sola personalità del colpevole, lederebbe anche l'art. 25, secondo comma, Cost., il quale sancisce un legame indissolubile tra la sanzione penale e la commissione di un «fatto», impedendo, quindi, che si punisca la mera pericolosità sociale;

    che la norma censurata - impedendo l'adeguamento della risposta punitiva alle caratteristiche del singolo caso - si porrebbe in contrasto, infine, con i principi di personalità della responsabilità penale, di proporzionalità della pena e della funzione rieducativa della medesima, posti dall'art. 27, primo e terzo comma, Cost.;

    che il Tribunale di Cagliari ha sollevato questione di legittimità costituzionale della stessa norma, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, Cost., con due ulteriori ordinanze, emesse entrambe il 5 ottobre 2006 (r.o. n. 282 e n. 283 del 2007);

    che il giudice a quo osserva come, ai sensi dell'art. 133 cod. pen., la «pena giusta» debba essere determinata combinando in maniera sintetica, ma razionale, il giudizio in ordine alla gravità del reato e quello concernente la capacità a delinquere, desunta, fra l'altro, dai precedenti penali e giudiziari;

    che tale ultimo indice si presenta, peraltro, «del tutto indipendente dalla valutazione del fatto»: con la conseguenza che quanto maggiore è la rilevanza ad esso accordata, tanto più la sanzione - «a causa dell'efficacia determinante svolta dal "tipo d'autore"» - acquisterebbe caratteri di «esemplarità», incompatibili non soltanto con il principio della finalità rieducativa della pena, ma anche con il principio di offensività desumibile dall'art. 25, secondo comma, Cost.;

    che, limitando i possibili esiti del giudizio di comparazione delle circostanze - e, in particolare, impedendo che elementi di segno contrario possano travolgere l'indice negativo rappresentato dalla reiterazione del reato - la norma censurata avrebbe introdotto, in effetti, una sorta di presunzione legale di pericolosità sociale del recidivo reiterato;

    che tale previsione si rivelerebbe peraltro irrazionale, alla luce del carattere «perpetuo» della recidiva: la quale si configura - fatta eccezione per la recidiva infraquinquennale - a prescindere dal tempo trascorso dalla commissione dell'ultimo reato, e dunque anche in casi in cui, essendosi di fronte a precedenti penali remoti, l'indicata presunzione di pericolosità non trovi in concreto giustificazione;

    che il divieto di «subvalenza» della recidiva reiterata opererebbe, inoltre - altrettanto irrazionalmente - in rapporto a tutte indistintamente le circostanze attenuanti: e, dunque, anche in relazione alle attenuanti a carattere oggettivo, disomogenee rispetto all'aggravante de qua, in quanto espressive del minor disvalore del fatto, a prescindere dalla personalità dell'autore; nonché alle attenuanti ad effetto speciale, cui è spesso sottesa - come nell'ipotesi di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 - una valutazione del tutto diversa della gravità del fatto, col rischio di imporre l'applicazione di pene palesemente inique;

    che, con ordinanze emesse il 16 gennaio 2007 (r.o. n. 420 del 2007) e il 6 febbraio 2007 (r.o. n. 607 del 2007), la Corte d'appello di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., come modificato dall'art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 sulla recidiva reiterata;

    che la Corte rimettente esclude, anzitutto, che il divieto in parola possa essere reso inoperante dal giudice, semplicemente decidendo - in relazione al carattere discrezionale dell'applicazione della recidiva reiterata - di non tenere conto di tale aggravante nel calcolo della pena: e ciò in quanto il divieto è stabilito con riferimento all'ipotesi in cui le circostanze aggravanti siano «ritenute»; formula che lascerebbe intendere come sia sufficiente che il giudice reputi corretta la contestazione della recidiva reiterata affinché il divieto stesso scatti;

    che, in tale ottica, la norma impugnata violerebbe l'art. 27, terzo comma, Cost., ponendo un limite alla discrezionalità del giudice nella determinazione della pena, legato ad una qualità personale del colpevole (essere già stato condannato almeno due volte per delitto), che può comportare - specie quando si discuta di attenuanti ad effetto speciale, quale quella dell'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 - l'applicazione di pene sproporzionate per eccesso rispetto alla gravità oggettiva del fatto, inidonee ad esplicare effetti risocializzanti proprio perché percepite soggettivamente come inique;

    che la previsione normativa censurata comporterebbe, inoltre - con particolare riguardo all'attenuante anzidetta - una violazione del principio della necessaria proporzionalità tra la pena inflitta ed il fatto commesso, desumibile come «corollario» del principio di offensività del reato (che trova fondamento, in primis, nell'art. 25, secondo comma, Cost.) e del principio di ragionevolezza della pena (art. 3 Cost.);

    che il limite alla discrezionalità del giudice nella determinazione della pena, derivante dal divieto denunciato, non sarebbe infatti connesso al grado e all'intensità dell'offesa che il fatto arreca al bene protetto, ma alle precedenti condanne riportate da chi lo ha realizzato: donde il pericolo che venga punita prevalentemente la «colpevolezza per la condotta di vita» tenuta dal soggetto nel tempo che ha preceduto la commissione del reato, riesumando, in sostanza, la figura del «tipo di autore»;

    che la Corte d'appello di Genova, con ordinanza emessa il 21 giugno 2006 (r.o. n. 9 del 2007), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 69, quarto comma, e 99 cod. pen., come modificati dagli artt. 3 e 4 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui stabiliscono il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata;

    che, a parere del giudice a quo, il divieto in questione sancirebbe un «inaccettabile automatismo giuridico», evocativo del «superato concetto di delitto o colpa d'autore»: con l'effetto di omologare, sul piano del trattamento sanzionatorio, situazioni del tutto disomogenee, in violazione del principio di eguaglianza;

    che, in particolare, un'ipotesi di cessione illecita di stupefacenti, quale quella oggetto del giudizio a quo, da considerare oggettivamente lieve per la modesta quantità dello stupefacente ceduto e le modalità dell'azione, dovrebbe essere punita con la medesima pena, estremamente severa, applicabile ai sensi del comma 1 dell'art. 73 del d.P.R. n. 309 del 1990 a fatti ben più gravi;

    che ne deriverebbe, al tempo stesso, un trattamento sanzionatorio ingiustificatamente differenziato dei medesimi fatti di lieve entità, i quali, solo perché commessi da un recidivo reiterato, sarebbero puniti con pena di gran lunga superiore a quella irrogabile al non recidivo: e ciò sulla base di una presunzione di pericolosità da ritenere affatto irrazionale, in quanto svincolata dalla natura e dalla gravità dei reati per i quali sono state pronunciate le precedenti condanne;

    che risulterebbe leso, infine, l'art. 27, terzo comma, Cost., giacché le norme denunciate rischierebbero di imporre - come nel caso di specie - l'applicazione di pene manifestamente sproporzionate, l'espiazione delle quali non consentirebbe la rieducazione del condannato;

    che con ordinanze emesse, rispettivamente, il 17 novembre 2006 (r.o. n. 394 del 2007) e il 15 giugno 2006 (r.o. n. 318 del 2007), il Tribunale di Ragusa e il Tribunale di Ragusa, sezione distaccata di Vittoria, hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27 Cost. - e, limitatamente all'ordinanza r.o. n. 394 del 2007, anche in riferimento all'art. 24 Cost. - questioni di legittimità costituzionale: a) dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., come modificato dall'art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui vieta di ritenere le circostanze attenuanti prevalenti sulla recidiva reiterata; b) dell'art. 99, quarto comma, cod. pen., c ome sostituito dall'art. 4 della medesima legge, nella parte in cui prevede un aumento di pena obbligatorio e fisso per le ipotesi di recidiva reiterata;

    che le norme censurate lederebbero i principi di eguaglianza e di ragionevolezza, determinando - secondo l'ordinanza r.o. n. 394 del 2007 - illogiche disuguaglianze tra imputati dei medesimi reati; e - secondo l'ordinanza r.o. n. 318 del 2007 - un irrazionale livellamento del trattamento sanzionatorio dei recidivi reiterati, indipendentemente dal numero delle circostanze attenuanti ravvisabili, nonché dalla natura e dalla gravità dei precedenti penali;

    che un ulteriore profilo di violazione dell'art. 3 Cost. emergerebbe dal raffronto con il trattamento sanzionatorio riservato al delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti: delitto riguardo al quale l'art. 74, comma 6, del d.P.R. n. 309 del 1990 - ove l'associazione sia costituita per commettere fatti di lieve entità - opera un rinvio all'art. 416 cod. pen.; prevedendo, così - secondo i rimettenti - una fattispecie autonoma di reato, e non già una semplice diminuzione di pena rispetto alle ipotesi associative più gravi previste dai commi 1 e 2 del medesimo art. 74;

    che da ciò deriverebbe che mentre il recidivo reiterato, per la cessione anche solo di qualche grammo di stupefacente, verrebbe punito con la pena della reclusione da sei a venti anni, oltre la multa, stante la natura circostanziale dell'ipotesi di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 e il divieto di prevalenza di detta circostanza; il medesimo recidivo reiterato che - commettendo un fatto da ritenere senz'altro più grave - partecipi o si renda promotore di una associazione dedita al narcotraffico, anche di cosiddette droghe pesanti, per fatti di lieve entità, sarebbe punito con la minore pena della reclusione da uno a cinque anni (nel caso di mera partecipazione) o da tre a sette anni (nel caso di promozione del sodalizio cri minoso);

    che sarebbero altresì compromessi i principi di materialità e offensività del reato, desumibili dall'art. 25, secondo comma, Cost., i quali impongono al legislatore di costituire l'illecito penale come accadimento esteriore, lesivo di interessi penalmente rilevanti: precetto viceversa eluso se il giudice, nel commisurare la pena, potesse tenere conto solo di fattori legati alla personalità del soggetto, desunta dalle precedenti condanne, a prescindere dalle connotazioni concrete del fatto commesso;

    che verrebbe leso, ancora - secondo l'ordinanza r.o. n. 318 del 2007 - il principio di personalità della responsabilità penale, in forza del quale la quantità della pena dipende dalla commissione di un fatto colpevole e dalla misura della riprovazione cui esso si espone: rimanendo con ciò escluso che l'autore possa essere punito maggiormente per esigenze di difesa sociale, indipendenti dal fatto commesso;

    che i nuovi artt. 69, quarto comma, e 99, quarto comma, cod. pen. - col prevedere un trattamento sanzionatorio modellato prettamente sul «tipo di autore» - comprometterebbero, inoltre, le diverse funzioni della pena (di prevenzione, sia generale che speciale, retributiva e rieducativa): funzioni che presuppongono la proporzionalità e l'individualizzazione della risposta punitiva; ostacolando, al tempo stesso, la resipiscenza del condannato, il quale non avrebbe alcuno stimolo a porre in essere condotte riparatorie o risarcitorie post factum, quali quelle rilevanti ai fini dell'applicazione dell'art. 62, numero 6), cod. pen.;

    che, secondo l'ordinanza r.o. n. 394 del 2007, risulterebbe vulnerato, infine, il diritto di difesa (art. 24 Cost.): giacché, nel caso di specie, il meccanismo sanzionatorio censurato - imponendo l'irrogazione di una pena minima non inferiore a sei anni di reclusione - priverebbe l'imputato della possibilità di accedere al «patteggiamento»; rito viceversa ammissibile «per altre ipotesi, pure riconducibili all'art. 73» del d.P.R. n. 309 del 1990 «e non espressamente escluse dall'art. 444» del codice di procedura penale, «quando il bilanciamento delle circostanze e la riduzione per il rito consenta di irrogare una pena non superiore ad anni cinque»;

    che in tutti i giudizi di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate infondate.

    Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche od analoghe, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione;

    che questa Corte ha già scrutinato questioni di legittimità costituzionale in tutto simili a quelle odierne, dichiarandone l'inammissibilità per non avere i giudici rimettenti verificato la praticabilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei dubbi di costituzionalità ipotizzati, e tale da determinare il possibile superamento di detti dubbi, o da renderli comunque non rilevanti nei casi di specie (sentenza n. 192 del 2007; ordinanze n. 33 e n. 90 del 2008, n. 409 del 2007);

    che anche gli odierni rimettenti censurano, difatti, il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, sancito dal nuovo testo dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., sull'assunto che la norma denunciata avrebbe indebitamente limitato il potere-dovere del giudice di adeguamento della pena al caso concreto - adeguamento funzionale alla realizzazione dei principi di eguaglianza, di necessaria offensività del reato, di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena - introducendo un «automatismo sanzionatorio», correlato ad una irrazionale presunzione iuris et de iure di pericolosità sociale del recidivo reiterato;

    che ad avviso dei rimettenti, cioè, il fatto che il colpevole del nuovo reato abbia riportato due o più precedenti condanne per delitti non colposi farebbe inevitabilmente scattare il meccanismo limitativo degli esiti del giudizio di bilanciamento tra circostanze prefigurato dalla norma impugnata: con l'effetto di "neutralizzare" - anche quando si sia in presenza di precedenti penali remoti, non gravi e scarsamente significativi in rapporto alla natura del nuovo delitto - la diminuzione di pena connessa alle circostanze attenuanti concorrenti, indipendentemente dalla natura e dalle caratteristiche di queste ultime;

    che la maggior parte dei giudici a quibus giunge a tale conclusione muovendo dal presupposto - per lo più solo implicito, e comunque indimostrato - che, a seguito della legge n. 251 del 2005, l'aumento di pena per la recidiva reiterata, di cui all'art. 99, quarto comma, cod. pen., sia divenuto obbligatorio, e non possa essere, dunque, discrezionalmente escluso dal giudice in correlazione alle peculiarità del caso concreto: regime, questo, che - unitamente al carattere fisso del predetto aumento - forma oggetto di parallela denuncia di incostituzionalità da parte del Tribunale di Ragusa e del Tribunale di Ragusa, sezione distaccata di Vittoria;

    che, per contro, la Corte d'appello di Torino e il Tribunale di Urbino, pur ritenendo che la recidiva reiterata abbia mantenuto il pregresso carattere di facoltatività, assumono che tale carattere - attenendo alla sola applicazione dell'aumento di pena - non varrebbe comunque a sottrarre l'aggravante, correttamente contestata, all'obbligatorio giudizio di comparazione con le attenuanti concorrenti, che provoca la necessaria elisione di queste ultime in base all'art. 69, quarto comma, cod. pen.;

    che quella prospettata dai giudici rimettenti non rappresenta, tuttavia - sotto ambedue i versanti dianzi indicati - la sola lettura possibile del vigente quadro normativo;

    che, in primo luogo, infatti - per le ragioni specificate nella sentenza n. 192 del 2007 - è possibile ritenere che la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria unicamente nei casi previsti dall'art. 99, quinto comma, cod. pen. (rispetto ai quali soltanto tale regime è espressamente contemplato), e cioè ove concernente uno dei delitti indicati dall'art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale (il quale reca un elenco di reati ritenuti dal legislatore, a vari fini, di particolare gravità e allarme sociale); salvo, poi, l'ulteriore problema interpretativo di stabilire quale delitto debba rientrare in tale catalogo, affinché scatti l'obbligatorietà: se il delitto oggetto della preced ente condanna; ovvero il nuovo delitto che vale a costituire lo status di recidivo; o indifferentemente l'uno o l'altro; o addirittura entrambi;

    che, in fatto, nessuno degli odierni rimettenti risulta procedere per delitti compresi nell'elenco di cui alla citata disposizione del codice di rito; e, d'altra parte, le ordinanze di rimessione o non specificano a quali delitti attengano le precedenti condanne riportate dagli imputati; ovvero fanno riferimento a delitti che - alla stregua delle indicazioni contenute nelle ordinanze stesse - esulano anch'essi dall'elenco;

    che, in secondo luogo, poi, nei limiti in cui si escluda che la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria, è possibile sostenere che il giudice debba procedere al giudizio di bilanciamento - soggetto alla disciplina limitativa di cui all'art. 69, quarto comma, cod. pen. - unicamente quando ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea a determinare, di per sé, un aumento di pena per il fatto per cui si procede: il che avviene - alla stregua dei criteri di corrente adozione in tema di recidiva facoltativa - solo allorché il nuovo episodio delittuoso appaia concretamente significativo, in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo;

    che la Corte d'appello di Torino e il Tribunale di Urbino basano, in effetti, l'opposta conclusione sul mero riferimento alla formula - in sé affatto anodina - «circostanze aggravanti ritenute», che figura nell'art. 69, quarto comma, cod. pen.: senza considerare, tuttavia, che anche il giudizio di comparazione tra circostanze attiene al momento commisurativo della pena;

    che, al riguardo, va difatti osservato che qualora si ammettesse che la recidiva reiterata, da un lato, mantenga il carattere di facoltatività, ma dall'altro abbia efficacia comunque inibente in ordine all'applicazione di circostanze attenuanti concorrenti, ne deriverebbe la conseguenza - primo visu paradossale - di una circostanza "neutra" agli effetti della determinazione della pena (ove non indicativa di maggiore colpevolezza o pericolosità del reo), nell'ipotesi di reato non (ulteriormente) circostanziato; ma in concreto "aggravante" - eventualmente, anche in rilevante misura - nell'ipotesi di reato circostanziato "in mitius" (in sostanza, la recidiva re iterata non opererebbe rispetto alla pena del delitto in quanto tale e determinerebbe, invece, un sostanziale incremento di pena rispetto al delitto attenuato);

    che la stessa giurisprudenza di legittimità - che in un primo tempo si era espressa sul tema in modo contrastante - appare, del resto, ormai consolidata nel senso dell'adesione alla linea interpretativa dianzi tratteggiata;

    che le questioni vanno dichiarate, pertanto, manifestamente inammissibili: e ciò a prescindere dalla inesattezza dei presupposti normativi della denuncia di violazione dell'art. 24 Cost. formulata dal Tribunale di Ragusa nell'ordinanza r.o. n. 394 del 2007 (la quale non tiene conto né dei criteri di computo della pena, comprensivi della diminuzione connessa al rito, previsti dall'art. 444, comma 1, cod. proc. pen. ai fini dell'accesso al cosiddetto patteggiamento allargato, né della preclusione prevista in rapporto ai recidivi reiterati dal comma 1-bis del medesimo articolo); nonché a prescindere dall'ulteriore considerazione che, nelle fattispecie concrete all'esame dello stesso Tribunale di Ragusa e del Tribunale di Ragusa, sezione distaccata di Vittoria, la censurata fissità dell'aumento di pena per la recidiva reiterata rimarrebbe comunque irrilevante: giacché, per affermazione degli stessi rimettenti, detto aumento resterebbe neutralizzato, in caso di applicazione dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., dal giudizio di equivalenza con l'attenuante concorrente.

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 69, quarto comma, e 99 del codice penale, come modificati dagli artt. 3 e 4 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevate dalla Corte d'appello di Genova, dal Giudice per le indagi ni preliminari del Tribunale di Catania, dal Tribunale di Cagliari, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Novara, dal Tribunale di Urbino, dal Tribunale di Reggio Emilia, dal Tribunale di Ragusa, dal Tribunale di Roma, dal Tribunale di Ragusa, sezione distaccata di Vittoria, dalla Corte d'appello di Torino, dal Tribunale di Prato, dal Tribunale di Torino, dalla Corte d'appello di Torino, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Prato e dal Tribunale di Tempio Pausania, con le ordinanze indicate in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 258

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 31, comma 8, della legge 28 febbraio 1986, n. 41 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 1986), promossi con due ordinanze, entrambe depositate il 23 gennaio 2007, dalla Commissione tributaria regionale della Liguria nei giudizi vertenti tra l'Agenzia delle entrate, ufficio di Genova, e Maria Galeotti, iscritte, rispettivamente, ai nn. 23 e 24 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell'anno 2008.

      Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

      udito nella camera di consiglio dell'11 giugno 2008 il Giudice relatore Franco Gallo.

    Ritenuto che, con due ordinanze di identico contenuto, depositate il 23 gennaio 2007, la Commissione tributaria regionale della Liguria - nel corso di due giudizi di appello aventi ad oggetto le sentenze con le quali il giudice di primo grado aveva accolto le impugnazioni proposte da una contribuente avverso le cartelle di pagamento relative al contributo per il Servizio sanitario nazionale per gli anni 1993 e 1994 - ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 31, comma 8, della legge 28 febbraio 1986, n. 41 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 1986);

    che la Commissione tributaria regionale censura detta disposizione nella parte in cui - stabilendo che il contributo per il Servizio sanitario nazionale (SSN) è dovuto in una misura percentuale del «reddito complessivo ai fini dell'IRPEF per l'anno precedente a quello cui il contributo di riferisce, con esclusione dei redditi già assoggettati a contribuzione per le prestazioni del Servizio sanitario nazionale e dei redditi da pensione» - non esclude dalla base di calcolo del contributo per il SSN gli assegni periodici corrisposti al coniuge separato indicati «alla lettera h) del comma 1 dell'art. 10 della legge n. 47 del 1986» [recte: «alla lettera c) del comma 1 dell'art. 10 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), richiamato dalla lettera i) del comma 1 dell'art. 47 del medesimo decreto del Presidente della Repubblica, nel testo applicabile anteriormente al 1° gennaio 2004»];

    che il rimettente muove dalla premessa che, ai sensi dell'art. 47, comma 1, lettera i), del d.P.R. n. 917 del 1986, gli indicati assegni periodici corrisposti al coniuge in conseguenza di separazione legale concorrono a determinare - nella misura in cui risultano da provvedimenti dell'autorità giudiziaria - il reddito imponibile, ai fini dell'IRPEF, di chi li percepisce e, pertanto, in forza della disposizione censurata, debbono essere computati nella base di calcolo del contributo per il SSN;

    che il giudice a quo ritiene, tuttavia, che tale normativa si ponga in contrasto con gli evocati parametri, perché: a) in violazione dell'art. 3 Cost., prevede un trattamento tributario identico di situazioni diverse, in quanto assimila ingiustificatamente la percezione dei suddetti assegni periodici a quella dei redditi da lavoro dipendente, trascurando il fatto che tali assegni hanno una natura «essenzialmente assistenziale e risarcitoria»; natura che è riconosciuta dalla legge e dalla giurisprudenza all'assegno corrisposto una tantum al coniuge separato e che non può venir meno per effetto di una diversa modalità di corresponsione (cioè periodica, invece che in unica soluzione) del medesimo assegno; b) in violazione dell'art. 53 Cost., l'indicata natura «assistenziale e risarcitoria» dei menzionati assegni periodici esclude che la loro percezione possa essere assunta ad indice e parametro di capacità contributiva;

    che il giudice rimettente afferma, infine, la rilevanza delle sollevate questioni, perché, nei giudizi principali, la contribuente ha chiesto l'annullamento delle impugnate cartelle di pagamento relative agli anni 1993 e 1994 negando la legittimità del computo degli assegni periodici a lei corrisposti dal coniuge separato nella base imponibile per il calcolo del contributo per il SSN;

    che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in entrambi i giudizi, deducendo che i giudici a quibus: a) erroneamente equiparano l'assegno periodico con l'assegno corrisposto in unica soluzione, l'importo del quale, a differenza del primo, non è deducibile, ai fini dell'IRPEF, dal coniuge erogante e non ha natura reddituale per il coniuge percipiente; b) inammissibilmente censurano la previsione normativa del computo nell'imponibile IRPEF di qualunque genere di assegno periodico corrisposto al coniuge (salvi quelli destinati al mantenimento dei figli) in conseguenza di separazione legale, scioglimento o annullamento del matri monio o cessazione dei suoi effetti civili; c) sollevano questioni che attengono alla base imponibile relativa al calcolo non solo del contributo per il SSN, ma anche dell'IRPEF; d) erroneamente attribuiscono all'assegno periodico percepito dal coniuge separato natura risarcitoria, invece che (come sottolineato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 383 del 2001) di sostentamento; e) omettono di considerare che la tassazione in capo a chi percepisce l'assegno periodico è già valutata dal giudice allorché determina la misura di tale assegno e che, pertanto, la norma censurata - non incidendo sulla funzione di soddisfare le esigenze di vita del percipiente - costituisce una insindacabile scelta discrezionale del legislatore; f) non considerano che il pagamento del contributo in contestazione rientra tra i doveri cui sono tenuti tutti i cittadini;

    che la difesa erariale chiede, pertanto, che le questioni siano dichiarate inammissibili «perché» manifestamente infondate e che, «comunque», siano rigettate.

    Considerato che, con due ordinanze di identico contenuto, la Commissione tributaria regionale della Liguria dubita, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, della legittimità dell'art. 31, comma 8, della legge 28 febbraio 1986, n. 41 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 1986), nella parte in cui - stabilendo che il contributo per il Servizio sanitario nazionale (SSN) è dovuto in una misura percentuale del «reddito complessivo ai fini dell'IRPEF per l'anno precede nte a quello cui il contributo di riferisce, con esclusione dei redditi già assoggettati a contribuzione per le prestazioni del Servizio sanitario nazionale e dei redditi da pensione» - non esclude dalla base di calcolo del contributo per il SSN gli assegni periodici corrisposti al coniuge legalmente ed effettivamente separato, indicati «alla lettera h) del comma 1 dell'art. 10 della legge n. 47 del 1986» [recte: «alla lettera c) del comma 1 dell'art. 10 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), richiamato dalla lettera i) del comma 1 dell'art. 47 del medesimo decreto del Presidente della Repubblica, nel testo applicabile anteriormente al 1° gennaio 2004»];

    che, secondo la Commissione tributaria regionale, la disposizione denunciata víola: a) l'art. 3 Cost., perché prevede un trattamento tributario identico di situazioni diverse, in quanto ingiustificatamente assimila la percezione dei suddetti assegni periodici a quella dei redditi da lavoro dipendente, trascurando il fatto che tali assegni, diversamente dai menzionati redditi, non hanno una natura reddituale, ma «essenzialmente assistenziale e risarcitoria» (con riguardo al contributo apportato al nucleo familiare, prima della separazione, dal coniuge separato); natura che è riconosciuta dalla legge e dalla giurisprudenza all'assegno corrisposto una tantum al coniuge separato e che non può venir meno per effetto di una diversa modalità di corresponsione (cioè periodica, invece che in unica soluzione) del medesimo assegno; b) l'art. 53 Cost., perché la indicata natura «assistenziale e risarcitoria» dei menzionati assegni periodici esclude che la loro percezione possa essere assunta ad indice e parametro di capacità contributiva;

    che i giudizi di legittimità costituzionale, in considerazione dell'identità delle questioni sollevate, debbono essere riuniti per essere congiuntamente esaminati e decisi;

    che dette questioni sono manifestamente infondate;

    che il giudice a quo non pone in discussione la norma secondo cui la base di calcolo del contributo per il SSN è costituita dall'imponibile IRPEF dell'anno precedente, ma denuncia l'illegittimità costituzionale della disposizione censurata con riguardo alla inclusione in detto imponibile dell'importo degli assegni periodici di mantenimento percepiti dal coniuge separato;

    che, in particolare, il rimettente giunge alla conclusione dell'illegittimità costituzionale della disposizione denunciata muovendo dalle seguenti due erronee premesse: a) che l'assegno erogato in unica soluzione al coniuge legalmente ed effettivamente separato (e casi assimilati) corrisponde necessariamente alla capitalizzazione degli assegni periodici erogati al medesimo coniuge; b) che sia l'assegno corrisposto una tantum sia gli assegni periodici hanno natura «essenzialmente assistenziale e risarcitoria» e non reddituale;

    che, quanto alla prima premessa, questa Corte ha già precisato, con riguardo ai casi (analoghi a quello della separazione legale tra i coniugi) di scioglimento o cessazione del vincolo matrimoniale, che le due suddette forme di adempimento dell'obbligo di mantenimento dell'ex coniuge, pur avendo entrambe la funzione di regolare i rapporti patrimoniali, hanno connotazioni giuridiche e di fatto diverse, tali da legittimare il legislatore a prevedere, nella sua discrezionalità, diversi regimi fiscali e una conseguente diversa distribuzione del carico tributario (ordinanze n. 113 del 2007 e n. 383 del 2001);

    che, al riguardo, va osservato che, mentre l'assegno periodico costituisce per il percipiente un reddito determinato dal giudice in base ai parametri indicati dall'art. 156 del codice civile e dal comma 6 dell'art. 5 della legge 1° dicembre 1970, n. 898, con possibilità di revisione in aumento o in diminuzione, invece l'assegno versato una tantum, pur avendo anch'esso natura reddituale, non corrisponde necessariamente alla capitalizzazione dell'assegno periodico, è sottoposto al solo controllo di equità da parte del giudice ed è liberamente concordato dalle parti, al fine di configurare un definitivo e complessivo assetto degli interessi personali, familiari e patrimoniali dei coniugi, che consenta l oro di tenere conto anche del particolare regime fiscale dell'assegno medesimo (il quale resta perciò escluso da ogni revisione economica, ai sensi del comma 8 dello stesso art. 5);

    che tali differenze, fondate sul maggiore spazio riservato dalla legge all'autonomia privata nella determinazione dell'assegno versato una tantum rispetto a quello periodico, sono state non irragionevolmente prese in considerazione dal legislatore fiscale;

    che, infatti, quest'ultimo, nel caso di corresponsione di un capitale una tantum, ha preferito tutelare l'accipiens - cioè il "coniuge" economicamente piú debole, che, ai sensi del citato art. 156 cod. civ., «non abbia adeguati redditi propri», ovvero, ai sensi del parimenti citato comma 6 dell'art. 5 della legge n. 898 del 1970, «non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive» -, scegliendo la soluzione, più radicale, dell'esclusione dalla tassazione per il relativo importo piuttosto che quella dell'assoggettamento a un regime di tassazione separata, e lasciando simmetricamente immutato l'ordinario carico fiscale del solvens, senza prevedere alcuna deduzione per tale esborso;

    che lo stesso legislatore, nel caso degli assegni periodici stabiliti iussu iudicis, ha invece ritenuto di assimilarli ai redditi di lavoro dipendente, assoggettandoli all'ordinaria tassazione in capo al "coniuge" che li percepisce e correlativamente prevedendone la deducibilità da parte del "coniuge" che li corrisponde; e ciò, in ragione sia della loro periodicità (e, quindi, della loro pertinenza a piú periodi d'imposta), sia del loro importo, normalmente inferiore a quello dell'assegno una tantum, sia della possibilità di una loro revisione economica per sopraggiunti giustificati motivi;

    che, per le considerazioni sopra esposte, non è palesemente irragionevole, come già affermato da questa Corte, la scelta che il legislatore ha effettuato - tra le molte compatibili con la Costituzione - di differenziare il regime fiscale dell'assegno corrisposto una tantum da quello degli assegni periodici;

    che anche la seconda premessa da cui muove il rimettente è erronea, perché, contrariamente a quanto da lui affermato, gli assegni periodici di mantenimento del "coniuge" - al pari dell'assegno una tantum - non hanno funzione risarcitoria di un danno subíto, ma la diversa e piú complessa funzione di adempiere l'obbligo di assistenza coniugale (in caso di separazione legale tra i coniugi) o postconiugale (in caso di cessazione del vincolo matrimoniale) riguardante il mantenimento del "coniuge" privo di adeguati redditi propri;

    che, stante la loro funzione di sopperire all'inadeguatezza dei redditi del "coniuge", detti assegni hanno, come visto, natura reddituale, con la conseguente non irragionevolezza della loro assimilazione, ai fini fiscali, ai redditi da lavoro dipendente;

    che tale scelta costituisce espressione della discrezionalità del legislatore esercitata nell'àmbito di una pluralità di soluzioni costituzionalmente compatibili (ad esempio, il legislatore avrebbe anche potuto escludere o attenuare l'incidenza fiscale degli assegni periodici per l'accipiens, concedendogli detrazioni d'imposta, come poi è stato disposto da varie leggi con riferimento a periodi d'imposta successivi a quelli oggetto dei giudizi principali);

    che, dunque, il rimettente, nel censurare l'assimilazione, ai fini dell'IRPEF e del contributo per il SSN, dei menzionati assegni periodici ai redditi da lavoro dipendente, muove da presupposti interpretativi erronei e ripropone sostanzialmente, senza addurre profili nuovi o comunque tali da indurre la Corte a modificare il precedente orientamento, le stesse questioni già dichiarate manifestamente non fondate da questa Corte con le pronunce citate.

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 31, comma 8, della legge 28 febbraio 1986, n. 41 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 1986), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria regionale della Liguria con le ordinanze indicate in epigrafe.

    Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 259

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 4, lettera b), e 5, lettera e), della legge 26 luglio 1984, n. 413 (Riordinamento pensionistico dei lavoratori marittimi), promosso dal Tribunale di Pescara nel procedimento civile vertente tra la Fratelli Cosulich s.p.a. e l'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 1° marzo 2007 iscritta al n. 570 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visto l'atto di costituzione dell'INPS nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 6 maggio 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante;

    uditi l'avvocato Antonino Sgroi per l'INPS e l'avvocato dello Stato Giuseppe Albenzio per il Presidente del Consiglio dei ministri.

    Ritenuto che, nel corso di un giudizio in cui dalla società ricorrente era stato contestato l'inquadramento assegnatole dall'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), per averla esclusa dal novero delle imprese armatoriali, il Tribunale di Pescara ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 4, lettera b), e 5, lettera e), della legge 26 luglio 1984, n. 413 (Riordinamento pensionistico dei lavoratori marittimi), nella parte in cui riservano il regime previdenziale per i lavorat ori marittimi soltanto al personale assunto con contratto di arruolamento ed impiegato sui galleggianti iscritti nei registri delle navi minori e addetti al servizio dei porti, delle rade e del pilotaggio, qualunque ne sia la stazza, purché abbiano mezzi di propulsione propri;

    che il remittente chiarisce come il galleggiante armato dalla ricorrente, iscritto nel registro delle navi minori e galleggianti, sia di stazza superiore alle 71.000 tonnellate, non possieda un autonomo propulsore, non sia addetto al servizio dei porti e delle rade, bensì utilizzato per lo stoccaggio di olii minerali, attività accessoria rispetto al trasporto del greggio, e come vi siano imbarcati marinai in possesso di specifici titoli professionali, i quali svolgono le attività tipiche dei marittimi (in quanto esposti ai rischi presenti sulle navi maggiori), qualificate ancora più usuranti rispetto a quelle del personale in servizio sui galleggianti autopropulsi addetti ai porti ed alle rade;

    che, osserva il giudice a quo, il legislatore, con la censurata normativa,  nell'individuare la nave ed i mezzi a questa equiparati richiede espressamente che il galleggiante sia autopropulso e sia destinato ad un servizio predeterminato, escludendo, di conseguenza, l'applicabilità del regime speciale previsto per i lavoratori marittimi nei casi in cui non ricorrano le caratteristiche in questione;

    che la differenziazione del sistema previdenziale in ragione della presenza o meno di sistemi di autopropulsione, nonché delle modalità di utilizzazione del galleggiante, sembra al Tribunale irragionevole (in rapporto alla parificazione, ai fini dell'assicurazione per gli infortuni, demandata all'Istituto di previdenza per il settore marittimo - IPSEMA - del personale imbarcato su navi e galleggianti, senza distinzione alcuna) e lesiva degli artt. 3 e 38 Cost., in quanto la disparità di trattamento, dalla quale discende il diverso regime previdenziale per il marittimo e per l'armatore, non sarebbe giustificata alla luce della medesima natura del rapporto lavorativo;

    che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo, anche in una memoria depositata nell'imminenza dell'udienza, la declaratoria d'inammissibilità della questione per insufficiente motivazione sulla rilevanza (consistente nella mancata esposizione delle ragioni per cui la decisione del giudizio a quo dipenderebbe dall'accoglimento della questione) nonché per mancanza di una soluzione costituzionalmente obbligata, e concludendo, comunque, nel merito, per la non fondatezza, vertendosi in una disciplina speciale giustificata da motivi ragionevoli;

    che nel giudizio dinanzi a questa Corte si è costituito l'INPS, concludendo per la declaratoria d'inammissibilità o comunque di non fondatezza della questione, specificando come  la società ricorrente avesse richiesto la condanna dell'INPS ad effettuare la variazione del proprio inquadramento, ritenendo quello armatoriale meno gravoso economicamente, anche in quanto avrebbe permesso di reperire più agevolmente marittimi abilitati da imbarcarsi sul galleggiante, senza incorrere nel mutamento di gestione previdenziale, e rilevando, altresì, il difetto di motivazione circa la rilevanza del regime previdenziale dei lavoratori in una controversia sulla legittimità di un provvedimento amministrativo di variazione dell'inquadramento di u n datore di lavoro.

    Considerato  che il Tribunale di Pescara dubita della legittimità costituzionale degli artt. 4, lettera b), e 5, lettera e), della legge 26 luglio 1984, n. 413 (Riordinamento pensionistico dei lavoratori marittimi), nella parte in cui dette norme, riservando il regime previdenziale dei lavoratori marittimi al personale arruolato sui galleggianti iscritti nei registri delle navi minori e dei galleggianti addetti al servizio dei porti, delle rade e del pilotaggio, qualunque ne sia la stazza, purché abbiano mezzi di pro pulsione propri (e, così, escludendo coloro che siano imbarcati su mezzi privi di dette caratteristiche), risulterebbero lesive dell'art. 3 Cost. - per la differenziazione del regime previdenziale per il marittimo impiegato a bordo di galleggianti e per l'armatore, legata alla presenza o meno di sistemi di autopropulsione nonché alle modalità di utilizzazione del galleggiante, non giustificabile alla luce della medesima natura del rapporto lavorativo - e dell'art. 38 Cost., per l'asserita insufficienza della tutela previdenziale;

    che la questione è manifestamente inammissibile per molteplici ragioni;

    che l'ordinanza, emessa in un giudizio vertente tra impresa datrice di lavoro e istituto previdenziale nel quale si controverte in ordine all'inquadramento della prima ai sensi dell'art. 49 della legge 9 marzo 1989, n. 88 (Ristrutturazione dell'Istituto nazionale della previdenza sociale e dell'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro), non espone le ragioni secondo le quali dall'esito di tale controversia dipenderebbero la natura e l'entità delle prestazioni spettanti ai lavoratori assicurati;

    che tali lacune argomentative si riflettono negativamente anche sulla congruità e sufficienza della motivazione inerente alla non manifesta infondatezza della questione, tanto più che il giudice a quo (analogamente a quanto verificatosi nel giudizio deciso da questa Corte con ordinanza n. 270 del 2006) neppure espone sotto quali profili l'attuale tutela di cui godono i lavoratori - alle cui posizioni  previdenziali egli si riferisce - qualificata come "insufficiente", sarebbe deteriore rispetto al regime di cui fruirebbero qualora la norma censurata fosse ritenuta costituzionalmente illegittima;

    che, inoltre, il remittente, con specifico riferimento alla posizione dell'impresa ricorrente, non ha espletato il doveroso tentativo di dare all'impugnata normativa un'interpretazione suscettibile di fugare i suoi dubbi di illegittimità costituzionale, seguendo un indirizzo viceversa emerso nella prevalente giurisprudenza di merito e, più recentemente, anche in quella di legittimità (Cass., sentenza 11 luglio 2007, n. 15496), sulla base della valorizzazione del requisito della stazza lorda.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli articoli 4, lettera b), e 5, lettera e), della legge 26 luglio 1984, n. 413 (Riordinamento pensionistico dei lavoratori marittimi), sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 38 della Costituzione, dal Tribunale di Pescara con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Francesco AMIRANTE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 260

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco             BILE       Presidente

- Giovanni Maria     FLICK        Giudice

- Francesco          AMIRANTE        "

- Ugo                DE SIERVO       "

- Paolo              MADDALENA       "

- Alfio              FINOCCHIARO     "

- Alfonso            QUARANTA        "

- Franco             GALLO           "

- Luigi              MAZZELLA        "

- Gaetano            SILVESTRI       "

- Sabino             CASSESE         "

- Maria Rita         SAULLE          "

- Giuseppe           TESAURO         "

- Paolo Maria        NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e dell'art. 10 della stessa legge, promossi nell'ambito di diversi procedimenti penali, con ordinanze del 20 giugno 2006 e del 23 gennaio (nn. 2 ordd.) 2007 dalla Corte d'appello di Perugia, rispettivamente iscritte ai nn. 16, 751 e 752 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 7 e 45 prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Udito nella camera di consiglio del 21 maggio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che, con tre ordinanze sostanzialmente coincidenti nella parte motiva (r.o. nn. 16, 751 e 752 del 2007), la Corte d'appello di Perugia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 97, 111 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e dell'art. 10 della medesima legge;

    che la Corte d'appello rimettente premette che in forza dell'art. 10 della legge n. 46 del 2006 - il cui art. 1, sostituendo l'art. 593 cod. proc. pen., ha sottratto al pubblico ministero il potere di appellare le sentenze di proscioglimento - i giudizi a quibus dovrebbero essere definiti con ordinanze non impugnabili di inammissibilità, trattandosi di impugnazioni proposte, dall'organo dell'accusa, avverso sentenze dibattimentali di proscioglimento (in particolare, nei giudizi di cui alle r.o. n. 16 e 751 del 2007, di sentenze di non doversi procedere per difetto e remissione di querela);

    che, nel merito, la Corte d'appello di Perugia dubita, in riferimento a plurimi parametri costituzionali, della legittimità costituzionale dell'art. 593 cod. proc. pen., nel testo novellato dalla legge n. 46 del 2006, nella parte in cui non consente al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento, se non nel caso previsto dall'art. 603, comma 2, dello stesso codice, ossia quando sopravvengano o si scoprano nuove prove dopo il giudizio di primo grado e sempre che tali prove risultino decisive;

    che il giudice a quo − escluso che le modifiche ai poteri di impugnazione del pubblico ministero introdotte dalla legge n. 46 del 2006 siano imposte da norme internazionali (fra queste, in particolare, dall'art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984 ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98) − ritiene che la disciplina censurata sacrifichi «in maniera del tutto ingiustificata ed irrazionale la parità delle parti nel processo e la stessa sua funzione di pervenire comunque (o di avvicinarsi tendenzialmente) alla verità storica, inibendo un controllo g iurisdizionale su eventuali errori di merito», con conseguente violazione degli artt. 3 e 111 Cost.;

    che, infatti, il «radicale sacrificio» dei poteri d'appello dell'organo dell'accusa non sarebbe «compensato da alcuna previsione di favore per la parte pubblica, né altrimenti giustificato»: l'incisiva limitazione dei poteri del pubblico ministero non troverebbe invero giustificazione né nell'esigenza di salvaguardare il principio della ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 Cost. − al contrario seriamente compromesso dall'aumento dei gradi di giudizio e dall'allungamento inevitabile dei tempi processuali − né in quella di garantire il principio di oralità e immediatezza nel giudizio di secondo grado;

    che del tutto «teorica e marginale» si profilerebbe, del resto, la residua possibilità di impugnazione delle sentenze di proscioglimento nell'ipotesi in cui sopravvengano o si scoprano nuove prove dopo il giudizio di primo grado;

    che l'irragionevolezza della disciplina censurata sarebbe evidente anche sotto un diverso profilo: e, precisamente, sotto il profilo della «contemporanea pendenza dello stesso processo in gradi diversi», nel caso, tutt'altro che teorico, in cui avverso la medesima sentenza siano proposti mezzi di impugnazione diversi;

    che, nel lamentare la «manifesta irragionevolezza delle soluzioni normative adottate, tanto nella disciplina a regime quanto in quella transitoria», la Corte rimettente evidenzia, altresì, come il potere di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento sia stato invece conservato in capo alla parte civile;

    che, inoltre, la normativa censurata si porrebbe in contrasto con l'art. 97 Cost., «per la concreta ingestibilità del processo», soprattutto con riferimento al regime transitorio, nonché, proprio in relazione a quest'ultimo, con l'art. 112 Cost., in quanto la «dilatazione dei tempi dovuta al decorso del termine per proporre appello e all'intervallo tra la sua presentazione e la fissazione dell'udienza», comporta «una sostanziale vanificazione della pretesa punitiva dello Stato», considerati anche i nuovi termini di prescrizione dei reati.

    Considerato che il dubbio di costituzionalità sottoposto a questa Corte ha per oggetto la preclusione - conseguente alla sostituzione dell'art. 593 del codice di procedura penale ad opera dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) - dell'appello delle sentenze dibattimentali di proscioglimento da parte del pubblico ministero e l'immediata applicabilità di tale regime, in forza dell'art. 10 della legge, ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima;

    che, stante l'identità delle questioni proposte, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia;

    che, successivamente alle ordinanze di rimessione, questa Corte, con la sentenza n. 26 del 2007, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della citata legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva», e dell'art. 10, comma 2, della stessa legge, «nella parte in cui prevede che l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesi ma legge è dichiarato inammissibile»;

    che, alla stregua della richiamata pronuncia di questa Corte, gli atti devono pertanto essere restituiti ai giudici rimettenti per un nuovo esame della rilevanza delle questioni.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    ordina la restituzione degli atti alla Corte d'appello di Perugia.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 261

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco             BILE       Presidente

- Giovanni Maria     FLICK        Giudice

- Francesco          AMIRANTE        "

- Ugo                DE SIERVO       "

- Paolo              MADDALENA       "

- Alfio              FINOCCHIARO     "

- Alfonso            QUARANTA        "

- Franco             GALLO           "

- Luigi              MAZZELLA        "

- Gaetano            SILVESTRI       "

- Sabino             CASSESE         "

- Maria Rita         SAULLE          "

- Giuseppe           TESAURO         "

- Paolo Maria        NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e dell'art. 10 della stessa legge, promossi, nell'ambito di diversi procedimenti penali, con ordinanze del 2, del 16 maggio e del 26 giugno 2006 dalla Corte d'appello di Ancona, rispettivamente iscritte ai nn. 51, 52 e 55, del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Udito nella camera di consiglio del 21 maggio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che, con tre ordinanze di identico contenuto (r.o. nn. 51, 52 e 55 del 2007), la Corte d'appello di Ancona ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e dell'art. 10 della medesima legge, nella parte in cui escludono il potere di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento in capo al pubblico ministero, rendendo applicabile tale disciplina ai procedimenti in corso;

    che la Corte d'appello rimettente premette di essere investita degli appelli proposti dal pubblico ministero avverso tre sentenze dei Tribunali di Ascoli Piceno, Ancona e Fermo, con le quali è stato dichiarato non doversi procedere per difetto (r.o. nn. 51 e 55 del 2007) e intervenuta remissione di querela (r.o. n. 52 del 2007);

    che - sopravvenuta nelle more la legge n. 46 del 2006, immediatamente applicabile, in forza dell'art. 10, anche ai processi in corso - tali impugnazioni dovrebbero essere dichiarate inammissibili, donde la rilevanza della questione proposta;

    che, nel merito, la disciplina censurata si porrebbe in contrasto con l'art. 3 Cost., per violazione del principio di ragionevolezza;

    che, infatti, l'organo della pubblica accusa sarebbe privato del potere di appellare le sentenze di proscioglimento sulla base dell'inaccettabile assunto secondo cui, per l'imputato assolto in primo grado, continuerebbe ad esistere sempre, in caso di riforma della sentenza in appello, un "ragionevole dubbio" circa la sua innocenza, così escludendosi a priori la possibilità che la sentenza assolutoria di primo grado possa essere errata;

    che irragionevole si paleserebbe altresì l'estensione del divieto di impugnazione anche alle sentenze di non luogo a procedere emesse ex art. 428 cod. proc. pen., «laddove il patrimonio probatorio valutabile non è neppure definitivamente stabilizzato ed è solo prospetticamente apprezzato»;

    che contraria ai canoni di ragionevolezza sarebbe anche la circostanza che la legge n. 46 del 2006 abbia sottratto al pubblico ministero il potere di impugnare le sentenze di proscioglimento, mantenendo tuttavia in capo all'organo della pubblica accusa il potere di appellare le sentenze di condanna, in tal modo irragionevolmente «tutelando un interesse processuale di ben minore consistenza»;

    che la norma censurata violerebbe, inoltre, il principio della parità fra le parti, sancito dall'art. 111, secondo comma, Cost., posto che la soppressione del potere di appello del pubblico ministero - vale a dire l'eliminazione di uno «strumento processuale volto a vedere affermata nel giudizio la pretesa punitiva» - non trova simmetria in una corrispondente riduzione dei poteri dell'imputato, «che invece con la riforma rimane pienamente titolare del potere di impugnare la decisione a lui sfavorevole»;

    che, infine, sarebbe violato anche l'art. 24 Cost., sotto il profilo della lesione dell'interesse delle vittime del reato «ad ottenere giustizia»; interesse indirettamente tutelato dal potere di appello del pubblico ministero.

    Considerato che il dubbio di costituzionalità sottoposto a questa Corte ha per oggetto la preclusione - conseguente alla sostituzione dell'art. 593 del codice di procedura penale ad opera dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) - dell'appello delle sentenze dibattimentali di proscioglimento da parte del pubblico ministero e l'immediata applicabilità di tale regime, in forza dell'art. 10 della legge, ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima;

    che, stante l'identità delle questioni proposte, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia;

    che, successivamente alle ordinanze di rimessione, questa Corte, con la sentenza n. 26 del 2007, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della citata legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva», e dell'art. 10, comma 2, della stessa legge, «nella parte in cui prevede che l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesi ma legge è dichiarato inammissibile»;

    che, alla stregua della richiamata pronuncia di questa Corte, gli atti devono pertanto essere restituiti ai giudici rimettenti per un nuovo esame della rilevanza delle questioni.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    ordina la restituzione degli atti alla Corte d'appello di Ancona.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 262

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco             BILE       Presidente

- Giovanni Maria     FLICK        Giudice

- Francesco          AMIRANTE        "

- Ugo                DE SIERVO       "

- Paolo              MADDALENA       "

- Alfio              FINOCCHIARO     "

- Alfonso            QUARANTA        "

- Franco             GALLO           "

- Luigi              MAZZELLA        "

- Gaetano            SILVESTRI       "

- Sabino             CASSESE         "

- Maria Rita         SAULLE          "

- Giuseppe           TESAURO         "

- Paolo Maria        NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 593, comma 2, del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), promossi, nell'ambito di diversi procedimenti penali, con ordinanze del 15 maggio, del 12 e del 6 giugno, del 10 novembre, del 30 maggio e del 10 novembre 2006 dalla Corte d'appello di Messina, rispettivamente iscritte ai nn. 58, 59, 63, 253, 302 e 401 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9 prima serie speciale, dell'anno 2007, nella edizione straordinaria del 26 aprile 2007 e nn. 18 e 22 prima serie speciale, dell'anno 2007.< /SPAN>

    Udito nella camera di consiglio del 21 maggio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che, con sei ordinanze sostanzialmente identiche nella parte motiva (r.o. nn. 58, 59, 63, 253, 302, 401 del 2007), la Corte d'appello di Messina ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 593, comma 2, del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappell abilità delle sentenze di proscioglimento), «nella parte in cui preclude al pubblico ministero la possibilità di appellare contro le sentenze di proscioglimento»;

    che la Corte rimettente - chiamata a delibare appelli proposti dal pubblico ministero avverso sentenze di non doversi procedere (per intervenuta prescrizione, intervenuta concessione in sanatoria ed altro) emesse in primo grado da diversi tribunali - motiva la rilevanza della questione sulla base del disposto dell'art. 10 della citata legge n. 46 del 2006, che prevede l'immediata applicabilità delle nuove norme ai procedimenti in corso e l'inammissibilità degli appelli proposti prima della entrata in vigore della legge;

    che, nel merito, la Corte d'appello lamenta la lesione degli artt. 3, 111, secondo comma, e 112 Cost.;

    che, in particolare, la disciplina censurata, privando il pubblico ministero e l'imputato della possibilità di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento, solo apparentemente soddisferebbe l'esigenza di parità garantita dall'art. 111 Cost., atteso che, per un verso, i limiti all'appello delle sentenze di proscioglimento assumono «preponderanza e rilievo centrale» solo per il pubblico ministero (poiché già in precedenza all'imputato era inibito l'appello di sentenze di proscioglimento con formula piena) e che, per l'altro, solo l'organo della pubblica accusa ha interesse ad impugnare tali sentenze;

    che la previsione della possibilità di appello nel caso disciplinato dall'art. 603, comma 2, cod. proc. pen., non consentirebbe di ritenere superabili i prospettati dubbi di costituzionalità, trattandosi di «ipotesi praticamente inattuabile», in quanto legata alla sopravvenienza di prove decisive nel ristretto lasso temporale tra la pronuncia della sentenza di primo grado e la scadenza del termine per appellare;

    che la disparità che in tal modo si determina fra il pubblico ministero, cui è impedito l'appello delle sentenze di proscioglimento, e l'imputato, abilitato ad appellare le sentenze di condanna, non troverebbe giustificazione alcuna nella tutela di altri interessi costituzionalmente rilevanti (in particolare, né in esigenze di accelerazione dell'iter processuale né nella particolare posizione istituzionale del pubblico ministero);

    che la scelta legislativa sarebbe, inoltre, censurabile sul piano della ragionevolezza, in quanto è stato conservato in capo al pubblico ministero il potere di proporre appello avverso le sentenze di condanna, «al solo scopo di ottenere una pena diversa da quella comminata»;

    che, infine, la Corte d'appello rimettente ritiene violato anche il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale: consapevole dell'orientamento della giurisprudenza costituzionale che, dopo la sentenza n. 177 del 1971, ha sempre negato che il potere di impugnazione del pubblico ministero costituisca estrinsecazione dell'azione penale, il giudice a quo invoca un mutamento di indirizzo da parte della Corte che tenga conto delle prerogative e delle attribuzioni istituzionali del pubblico ministero, come definite negli artt. 73 e 74 delle norme sull'ordinamento giu diziario e richiamate dagli artt. 102, 107, 108 e 112 Cost.

    Considerato che il dubbio di costituzionalità sottoposto a questa Corte ha per oggetto la preclusione - conseguente alla sostituzione dell'art. 593 del codice di procedura penale ad opera dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) - dell'appello delle sentenze dibattimentali di proscioglimento da parte del pubblico ministero;

    che, stante l'identità delle questioni proposte, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia;

    che, successivamente alle ordinanze di rimessione, questa Corte, con la sentenza n. 26 del 2007, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della citata legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva», e dell'art. 10, comma 2, della stessa legge, «nella parte in cui prevede che l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesi ma legge è dichiarato inammissibile»;

    che, alla stregua della richiamata pronuncia di questa Corte, gli atti devono pertanto essere restituiti ai giudici rimettenti per un nuovo esame della rilevanza delle questioni.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    ordina la restituzione degli atti alla Corte d'appello di Messina.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 263

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco             BILE       Presidente

- Giovanni Maria     FLICK        Giudice

- Francesco          AMIRANTE        "

- Ugo                DE SIERVO       "

- Paolo              MADDALENA       "

- Alfio              FINOCCHIARO     "

- Alfonso            QUARANTA        "

- Franco             GALLO           "

- Luigi              MAZZELLA        "

- Gaetano            SILVESTRI       "

- Sabino             CASSESE         "

- Maria Rita         SAULLE          "

- Giuseppe           TESAURO         "

- Paolo Maria        NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e dell'art. 10 della stessa legge, promossi, con ordinanze del 20 aprile e dell'8 agosto 2006, dalla Corte d'appello di Trieste nei procedimenti penali a carico di L. A. e di M. F., iscritte ai nn. 136 e 330 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 13 e 19, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Udito nella camera di consiglio del 21 maggio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che, con due ordinanze sostanzialmente coincidenti nella parte motiva (r.o. nn. 136 e 330 del 2007), la Corte di appello di Trieste ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) - nella parte in cui non consente al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento, se non nel caso previsto dall'art. 603, comma 2, cod. proc. pen., ossia quando sopravvengano o si scoprano nuove prove dopo il giudizio di primo grado e sempre che tali prove risultino decisive - e dell'art. 10 della medesima legge, recante il relativo regime transitorio;

    che la Corte rimettente premette di essere investita degli appelli proposti dal pubblico ministero, prima dell'entrata in vigore della legge n. 46 del 2006, avverso sentenze di non luogo a procedere pronunciate (per difetto di querela e perché il fatto non è previsto dalla legge come reato) rispettivamente dal Giudice per le indagini preliminari, in funzione del Giudice dell'udienza preliminare, del Tribunale di Gorizia (r.o. n. 136 del 2007) e di Udine (r.o. n. 330 del 2007);

    che in forza dell'art. 10 della legge n. 46 del 2006 - il cui art. 1, sostituendo l'art. 593 cod. proc. pen., ha sottratto al pubblico ministero il potere di appellare le sentenze di proscioglimento - i giudizi dovrebbe essere definiti con ordinanze non impugnabili di inammissibilità;

    che, nel merito, la disciplina censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost., per violazione dei principi della parità fra le parti e della ragionevole durata del processo;

    che, quanto al primo profilo, la Corte d'appello rimettente rileva che, secondo la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, la previsione di limiti al potere di impugnazione del pubblico ministero - di per sé non in contrasto con la Costituzione - deve trovare una «ragionevole giustificazione» nella peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, nella funzione allo stesso affidata e nelle esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia;

    che il giudice a quo osserva che nei lavori preparatori della legge, e segnatamente nella relazione di accompagnamento alla proposta di legge, le ragioni dell'intervento normativo sono ricondotte esclusivamente alla necessità di dare attuazione al principio affermato dall'art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984 ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98, con riferimento al «diritto al doppio grado di giurisdizione in materia penale per chiunque venga dichiarato colpevole di una infrazione penale da un tribunale»;

    che tali ragioni si paleserebbero, tuttavia, non solo estranee a quelle che, secondo la giurisprudenza richiamata, potrebbero legittimare una limitazione dei poteri di impugnazione del pubblico ministero, ma anche «del tutto prive di fondamento», atteso che la Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che «il doppio grado di giurisdizione di merito non forma oggetto di garanzia costituzionale» e che l'art. 2 sopra menzionato «non legittima una interpretazione per cui il riesame ad opera di un tribunale superiore debba coincidere con un giudizio di merito»;

    che la limitazione del potere di impugnazione del pubblico ministero non sarebbe giustificata neppure dalla circostanza che l'appello è formalmente precluso anche all'imputato, «ben diverso essendo il rispettivo interesse sostanziale a proporre impugnazione avverso una sentenza di proscioglimento»;

    che, pertanto, la disciplina censurata, in quanto introduce una limitazione dei poteri del pubblico ministero priva di idonee ragioni giustificative, si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost.;

    che sarebbe, inoltre, violato il principio della durata ragionevole del processo sancito dall'art. 111, secondo comma, Cost., atteso che la legge n. 46 del 2006, eliminando l'appello avverso le sentenze di proscioglimento e ampliando i motivi di ricorso per cassazione, ha determinato un aumento dei gradi di giudizio, con conseguente allungamento dei tempi processuali e rischio di prescrizione dei reati;

    che ciò risulterebbe tanto più evidente in relazione alla disciplina transitoria contenuta nell'art. 10 della legge n. 46 del 2006, poiché la previsione di una «indiscriminata declaratoria di inammissibilità» degli appelli proposti prima dell'entrata in vigore della legge, «derogando al principio tempus regit actum che governa la materia processuale, non solo sacrifica ineludibilmente un atto di gravame tempestivamente proposto, costringendo la parte interessata a presentarne un altro, ma comporta l'inevitabile differimento della presentazione di esso all'eseguita notifica del provvedimento di inammissibilità e, pertanto, ad un termine futuro ed incerto».

    Considerato che la Corte d'appello di Trieste dubita, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui non consente al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglim ento, al di fuori delle ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, dello stesso codice, e dell'art. 10 della medesima legge;

    che, stante l'identità delle questioni proposte, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia;

    che l'art. 593 cod. proc. pen. disciplina, al comma 2, l'appello del pubblico ministero e dell'imputato avverso le sentenze dibattimentali di proscioglimento, stabilendo − per effetto delle modifiche introdotte dall'art. 1 della legge n. 46 del 2006 ed immediatamente applicabili in forza dell'art. 10 della medesima legge − che l'appello è consentito solo nell'ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen., se la nuova prova è decisiva;

    che dalle ordinanze di rimessione risulta che la Corte rimettente è investita degli appelli proposti dal pubblico ministero avverso sentenze di non luogo a procedere pronunciate, ai sensi dell'art. 425 cod. proc. pen., dal Giudice per le indagini preliminari, in funzione di Giudice dell'udienza preliminare;

    che il regime di impugnazione delle sentenze di non luogo a procedere è disciplinato dall'art. 428 cod. proc. pen. (sostituito dall'art. 4 della legge n. 46 del 2006);

    che, dunque, la Corte rimettente sottopone a scrutinio di costituzionalità una norma (l'art. 593 cod. proc. pen.) - unitamente al relativo regime transitorio - di cui non deve fare applicazione nei giudizi a quibus;

    che l'inesatta indicazione della norma oggetto di censura (aberratio ictus) comporta, per costante giurisprudenza di questa Corte, la manifesta inammissibilità della questione (ex plurimis, ordinanze n. 79 e 150 del 2008).

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e dell'art. 10 della medesima legge, sollevate, in riferimento agli art. 3 e 111 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Trieste, con le ordinanze in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 264

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco             BILE       Presidente

- Giovanni Maria     FLICK        Giudice

- Francesco          AMIRANTE        "

- Ugo                DE SIERVO       "

- Paolo              MADDALENA       "

- Alfio              FINOCCHIARO     "

- Alfonso            QUARANTA        "

- Franco             GALLO           "

- Luigi              MAZZELLA        "

- Gaetano            SILVESTRI       "

- Sabino             CASSESE         "

- Maria Rita         SAULLE          "

- Giuseppe           TESAURO         "

- Paolo Maria        NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e dell'art. 10 della stessa legge, promossi con ordinanze del 20 aprile e dell'8 agosto 2006 dalla Corte d'appello di Trieste nei procedimenti penali a carico di A.A. e di L.A. ed altro, iscritte ai nn. 138 del registro ordinanze 2007 e 30 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13 prima serie speciale, dell'anno 2007 e n. 9 prima serie speciale, dell'anno 2008.

    Udito nella camera di consiglio del 21 maggio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che, con due ordinanze sostanzialmente coincidenti nella parte motiva (r.o. n. 138 del 2007 e n. 30 del 2008), la Corte di appello di Trieste  ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscio glimento), nella parte in cui non consente al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento, se non nel caso previsto dall'art. 603, comma 2, cod. proc. pen. - ossia quando sopravvengano o si scoprano nuove prove dopo il giudizio di primo grado e sempre che tali prove risultino decisive - e dell'art. 10 della medesima legge, recante il relativo regime transitorio;

    che la Corte rimettente premette, ai fini della rilevanza, di essere investita degli appelli proposti dal pubblico ministero, prima dell'entrata in vigore della legge n. 46 del 2006, avverso due sentenze del Tribunale di Udine, rispettivamente di non doversi procedere per difetto di querela (r.o. n. 138 del 2007) e di assoluzione con la formula perché il fatto non sussiste (r.o. n. 30 del 2008);

    che in forza dell'art. 10 della legge n. 46 del 2006 - il cui art. 1, sostituendo l'art. 593 cod. proc. pen., ha sottratto al pubblico ministero il potere di appellare le sentenze di proscioglimento - i giudizi dovrebbe essere definiti con ordinanze non impugnabili di inammissibilità;

    che, nel merito, la disciplina censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost., per violazione dei principi della parità fra le parti e della ragionevole durata del processo;

    che, quanto al primo profilo, la Corte d'appello rimettente rileva che, secondo la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, la previsione di limiti al potere di impugnazione del pubblico ministero - di per sé non in contrasto con la Costituzione - deve trovare una «ragionevole giustificazione» nella peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, nella funzione allo stesso affidata e nelle esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia;

    che il giudice a quo osserva che nei lavori preparatori della legge, e segnatamente nella relazione di accompagnamento alla proposta di legge, le ragioni dell'intervento normativo sono ricondotte esclusivamente alla necessità di dare attuazione al principio affermato dall'art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984 ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98, con riferimento al «diritto al doppio grado di giurisdizione in materia penale per chiunque venga dichiarato colpevole di una infrazione penale da un tribunale»;

    che tali ragioni si paleserebbero, tuttavia, non solo estranee a quelle che, secondo la giurisprudenza richiamata, potrebbero legittimare una limitazione dei poteri di impugnazione del pubblico ministero, ma anche «del tutto prive di fondamento», atteso che la Corte costituzionale ha ripetutamente affermato che «il doppio grado di giurisdizione di merito non forma oggetto di garanzia costituzionale» e che l'art. 2 sopra menzionato «non legittima una interpretazione per cui il riesame ad opera di un tribunale superiore debba coincidere con un giudizio di merito»;

    che la limitazione del potere di impugnazione del pubblico ministero non sarebbe giustificata neppure dalla circostanza che l'appello è formalmente precluso anche all'imputato, «ben diverso essendo il rispettivo interesse sostanziale a proporre impugnazione avverso una sentenza di proscioglimento»;

    che, pertanto, la disciplina censurata, in quanto introduce una limitazione dei poteri del pubblico ministero priva di idonee ragioni giustificative, si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost.;

    che sarebbe, inoltre, violato il principio della durata ragionevole del processo sancito dall'art. 111, secondo comma, Cost., atteso che la legge n. 46 del 2006, eliminando l'appello avverso le sentenze di proscioglimento e ampliando i motivi di ricorso per cassazione, ha determinato un aumento dei gradi di giudizio, con conseguente allungamento dei tempi processuali e rischio di prescrizione dei reati;

    che ciò risulterebbe tanto più evidente in relazione alla disciplina transitoria contenuta nell'art. 10 della legge n. 46 del 2006, poiché la previsione di una «indiscriminata declaratoria di inammissibilità» degli appelli proposti prima dell'entrata in vigore della legge, «derogando al principio tempus regit actum che governa la materia processuale, non solo sacrifica ineludibilmente un atto di gravame tempestivamente proposto, costringendo la parte interessata a presentarne un altro, ma comporta l'inevitabile differimento della presentazione di esso all'eseguita notifica del provvedimento di inammissibilità e, pertanto, ad un termine futuro ed incerto».

    Considerato che il dubbio di costituzionalità sottoposto a questa Corte ha per oggetto la preclusione - conseguente alla sostituzione dell'art. 593 del codice di procedura penale ad opera dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) - dell'appello delle sentenze dibattimentali di proscioglimento da parte del pubblico ministero e l'immediata applicabilità di tale regime, in forza dell'art. 10 della legge, ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima;

    che, stante l'identità delle questioni proposte, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia;

    che, successivamente alle ordinanze di rimessione, questa Corte, con la sentenza n. 26 del 2007, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della citata legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva», e dell'art. 10, comma 2, della stessa legge, «nella parte in cui prevede che l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesi ma legge è dichiarato inammissibile»;

    che, alla stregua della richiamata pronuncia di questa Corte, gli atti devono pertanto essere restituiti ai giudici rimettenti per un nuovo esame della rilevanza delle questioni.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    ordina la restituzione degli atti alla Corte d'appello di Trieste.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 265

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 593, comma 2, del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), promosso con ordinanza del 13 giugno 2006 dalla Corte d'appello di Messina nel procedimento penale a carico di G.G. ed altra, iscritta al n. 304 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell'anno 2007.

      Udito nella camera di consiglio del 21 maggio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che con l'ordinanza in epigrafe la Corte d'appello di Messina ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 593, comma 2, del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), «nella parte in cui preclude al pubblic o ministero la possibilità di appellare contro le sentenze di proscioglimento»;

    che la Corte rimettente premette di essere investita dell'appello proposto dal pubblico ministero, prima dell'entrata in vigore della legge n. 46 del 2006, avverso la sentenza di non luogo a procedere «per non aver commesso il fatto» e perché «il fatto non sussiste» emessa dal Giudice per le indagini preliminari, in funzione di Giudice dell'udienza preliminare, del Tribunale di Messina;

    che, ai sensi dell'art. 10 della medesima legge, l'appello dovrebbe essere dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile;

    che, nel merito, la Corte d'appello lamenta la lesione degli artt. 3, 111, secondo comma, e 112 Cost.;

    che, in particolare, la disciplina censurata, privando il pubblico ministero e l'imputato della possibilità di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento, solo apparentemente soddisferebbe l'esigenza di parità garantita dall'art. 111 Cost., atteso che, per un verso, i limiti all'appello delle sentenze di proscioglimento assumono «preponderanza e rilievo centrale» solo per il pubblico ministero (poiché già in precedenza all'imputato era inibito l'appello di sentenze di proscioglimento con formula piena) e che, per l'altro, solo l'organo della pubblica accusa ha interesse ad impugnare tali sentenze;

    che la previsione della possibilità di appello nel caso disciplinato dall'art. 603, comma 2, cod. proc. pen. non consentirebbe di ritenere superabili i prospettati dubbi di costituzionalità, trattandosi di «ipotesi praticamente inattuabile», in quanto legata alla sopravvenienza di prove decisive nel ristretto lasso temporale tra la pronuncia della sentenza di primo grado e la scadenza del termine per appellare;

    che la disparità che in tal modo si determina fra il pubblico ministero, cui è impedito l'appello delle sentenze di proscioglimento, e l'imputato, abilitato ad appellare le sentenze di condanna, non troverebbe giustificazione alcuna nella tutela di altri interessi costituzionalmente rilevanti (in particolare, né in esigenze di accelerazione dell'iter processuale né nella particolare posizione istituzionale del pubblico ministero);

    che la scelta legislativa sarebbe, inoltre, censurabile sul piano della ragionevolezza, in quanto è stato conservato in capo al pubblico ministero il potere di proporre appello avverso le sentenze di condanna, «al solo scopo di ottenere una pena diversa da quella comminata»;

    che, infine, la Corte d'appello rimettente ritiene violato anche il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale: consapevole dell'orientamento della giurisprudenza costituzionale che, dopo la sentenza n. 177 del 1971, ha sempre negato che il potere di impugnazione del pubblico ministero costituisca estrinsecazione dell'azione penale, il giudice a quo invoca un mutamento di indirizzo da parte della Corte che tenga conto delle prerogative e delle attribuzioni istituzionali del pubblico ministero, come disciplinate dagli artt. 73 e 74 delle norme sull'ordinamento giudiziario e richiamate dagli artt. 102, 107, 108 e 112 Cost.

    Considerato che la Corte d'appello di Messina dubita, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 593, comma 2, del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), «nella parte in cui preclude al pubblico ministero la possibilità di appellar e contro le sentenze di proscioglimento»;

    che l'art. 593 cod. proc. pen. disciplina, al comma 2, l'appello del pubblico ministero e dell'imputato avverso le sentenze dibattimentali di proscioglimento, stabilendo − per effetto delle modifiche introdotte dall'art. 1 della legge n. 46 del 2006 ed immediatamente applicabili in forza dell'art. 10 della medesima legge − che l'appello è consentito solo nell'ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen., se la nuova prova è decisiva;

    che dalla stessa ordinanza di rimessione risulta che la Corte rimettente è investita dell'appello proposto dal pubblico ministero avverso la sentenza di non luogo a procedere pronunciata, ai sensi dell'art. 425 cod. proc. pen., dal Giudice per le indagini preliminari, in funzione di Giudice dell'udienza preliminare;

    che il regime di impugnazione delle sentenze di non luogo a procedere è disciplinato dall'art. 428 cod. proc. pen. (sostituito dall'art. 4 della legge n. 46 del 2006);

    che, dunque, la Corte rimettente sottopone a scrutinio di costituzionalità una norma (l'art. 593 cod. proc. pen.) di cui non deve fare applicazione nel giudizio a quo;

    che l'inesatta indicazione della norma oggetto di censura (aberratio ictus) comporta, per costante giurisprudenza di questa Corte, la manifesta inammissibilità della questione (ex plurimis, ordinanze n. 79 e 150 del 2008).

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

     dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 593, comma 2, del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Messina, con l'ordinanza in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 266

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 11-quaterdecies, comma 16, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, e 36, comma 2, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248, promossi con ordinanze depositate il 30 agosto 2006 dalla Commissione tributaria regionale del Lazio, il 6 settembre ed il 9 ottobre 2007 dalla Commissione tributaria provinciale di Ancona, rispettivamente iscritte ai nn. 775 e 836 del registro ordinanze 2007 ed al n. 33 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell'anno 2007 e nn. 3 e 10, prima serie speciale, dell'anno 2008.

      Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

      udito nella camera di consiglio dell'11 giugno 2008 il Giudice relatore Franco Gallo.

    Ritenuto che, nel corso di un giudizio di appello avente ad oggetto la sentenza con cui il giudice di primo grado aveva rigettato il ricorso proposto da una società a responsabilità limitata avverso un avviso di accertamento dell'ICI, la Commissione tributaria regionale del Lazio, con ordinanza depositata il 30 agosto 2006 (r.o. n. 775 del 2007), ha sollevato - in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, «nonché» ai «principi di ragionevolezza, ra zionalità e non contraddizione» - questioni di legittimità costituzionale degli artt. 11-quaterdecies, comma 16, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, e 36, comma 2, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248;

    che, secondo quanto premesso in punto di fatto dal giudice rimettente: a) con l'avviso impugnato, il Comune di Ladispoli aveva accertato, ai fini dell'ICI relativa all'anno 1999, il valore di alcuni terreni della suddetta s.r.l., stimandoli in base al loro valore venale in comune commercio, invece che in base al reddito dominicale risultante in catasto; b) i terreni erano inseriti in una zona qualificata come edificabile dalla variante al piano regolatore generale, ma per la quale non erano stati adottati strumenti urbanistici attuativi del piano generale; c) l'adíta Commissione trib utaria provinciale di Roma aveva rigettato il ricorso proposto dalla società avverso il menzionato avviso di accertamento, affermando che «la semplice iscrizione del terreno in zona edificatoria induce la potenzialità edificatoria dello stesso»; d) con atto d'appello, la medesima società aveva dedotto, tra i motivi di gravame, che detti terreni non erano edificabili nel 1999, ma lo erano divenuti solo successivamente, a séguito di «lottizzazione d'ufficio» dell'area, effettuata con deliberazione comunale del 25 marzo 2002;

    che, secondo quanto premesso in punto di diritto dal medesimo giudice rimettente: a) l'art. 2, comma 1, lettera b), primo periodo, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), stabilisce che, ai fini dell'imposta comunale sugli immobili (ICI), «per area fabbricabile si intende l'area utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici generali o attuativi ovvero in base alle possibilità effettive di edificazione determinate secondo i criteri previsti agli effetti dell'indennità di espropriazione per pubblica utilità»; b) era insorto un contrasto giurisprudenziale sull'in terpretazione di detta disposizione con riguardo all'assoggettabilità all'ICI come "fabbricabili" delle aree che, pur essendo considerate "utilizzabili a scopo edificatorio" dal piano regolatore generale, non erano effettivamente suscettibili di edificazione a causa della mancata approvazione dei necessari piani attuativi ovvero dell'esistenza di misure di salvaguardia adottate dal Comune (il rimettente cita, in senso favorevole alla qualificabilità come fabbricabili di dette aree, la sentenza della Corte di cassazione n. 16751 del 2004; in senso sfavorevole, la sentenza della stessa Corte n. 21573 del 2004); c) a dirimere detto contrasto sono sopravvenute, nella pendenza del giudizio di appello, le due denunciate disposizioni di legge, aventi entrambe (come il rimettente desume dalla loro formulazione letterale e dalla loro ratio) indubbia natura di interpretazione autentica (per la parte che qui interessa ai fini di causa) dell'art. 2, com ma 1, lettera b), primo periodo, del decreto legislativo n. 504 del 1992 e, pertanto, dotate entrambe di efficacia retroattiva; d) la piú recente delle due citate disposizioni interpretative (cioè l'art. 36, comma 2, del decreto-legge n. 223 del 2006) ha comportato «l'abrogazione implicita» della prima (cioè dell'art. 11-quaterdecies, comma 16, del decreto-legge n. 203 del 2005), stabilendo (con norma ritenuta dal rimettente di «identico significato» rispetto a quella abrogata) che un'area è da considerare fabbricabile, ai fini dell'ICI (oltre che ai fini delle imposte sui redditi e di registro), «se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal comune, indipendentemente dall'approvazione della regione e dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo»;

    che, in ordine alla non manifesta infondatezza delle sollevate questioni, il giudice a quo afferma che «la norma d'interpretazione autentica denunciata», nell'equiparare ai fini fiscali, quanto alla potenzialità edificatoria, un'area qualificata come "edificabile" dal piano regolatore generale, per la quale - a causa della mancanza di uno strumento urbanistico attuativo del piano regolatore - non è concedibile il permesso di costruire, ad un'area per la quale (data la presenza dello strumento attuativo) detto permesso è, invece, concedibile, víola: a) l'art. 3 Cost., perché irragionevolmente sottopone al medesimo trattamento fiscale situazioni che l'ordinamento giuridico (avendo separato lo ius aedificandi dal diritto di proprietà e configurato un differente regime edificatorio dei terreni a seconda che sia stato o no adottato uno strumento urbanistico di attuazione del piano regolatore generale) considera diverse ai fini dell'edificabilità; b) l'art. 53 Cost., perché «prescinde dalla capacità contributiva reale che è necessariamente mediata dalle norme imperative relative allo ius aedificandi»;

    che, al riguardo, il giudice rimettente osserva che, se è insindacabile nel merito la scelta discrezionale del legislatore di sottoporre un immobile ad una imposta patrimoniale annuale (quale l'ICI) commisurandola al valore venale del bene in comune commercio, tuttavia, nella specie, tale discrezionalità non ha rispettato i «requisiti e principi di logica, congruenza e non contraddizione»; che in particolare - prosegue il giudice a quo -, poiché è in concreto edificabile soltanto il terreno per il quale uno strumento attuativo del piano regolatore generale prevede la possibilità di rilasciare la concessione edilizia, è «[.] contraddittorio e illogico ritenere, per interpretazione autentica, che l'edi ficabilità si realizzi solo sulla base della previsione del PRG» (cioè del piano regolatore generale), e «ciò per due ordini di motivi»: in «primo luogo», perché eventuali clausole di salvaguardia adottate dal Comune impedirebbero, per un periodo di almeno quindici anni, «secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale», il rilascio del permesso di costruire; in «secondo luogo», perché, «anche scaduta la validità delle norme di salvaguardia e nell'impossibilità di reiterarle, l'edificabilità sarebbe legata ai ristretti limiti del PRG, solitamente identici a quelli in vigore con gli strumenti attuativi per le zone agricole, il che riporta il valore del terreno appunto a quella qualificazione agricola che si sarebbe voluta negare»;

    che la normativa denunciata - conclude il rimettente -, assimilando l'edificabilità di un terreno assistito da uno strumento attuativo a quella di un terreno soltanto inserito in una zona edificabile del piano regolatore generale, «intende sovrapporre la realtà giuridica a quella di fatto», con «atteggiamento sicuramente vessatorio, proprio di regimi ben diversi dalla democrazia»;

    che, in ordine alla rilevanza delle questioni, il giudice a quo afferma che l'indubitabile natura interpretativa e, quindi, la valenza retroattiva delle disposizioni denunciate le rende applicabili anche ai periodi d'imposta oggetto del giudizio principale, con conseguente rigetto dell'appello (basato sulla dedotta impossibilità giuridica di costruire sui terreni indicati nell'avviso impugnato), ove dette disposizioni non siano dichiarate costituzionalmente illegittime;

    che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate infondate;

    che la difesa erariale preliminarmente osserva che il contrasto giurisprudenziale menzionato dal rimettente è stato composto dalle sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 25506 del 2006, secondo cui le norme denunciate dal giudice a quo hanno evidenziato un coerente sistema normativo in base al quale, da un lato, la legislazione fiscale - al fine di adeguare il prelievo alle variazioni nel tempo dei valori economici dei suoli - considera fabbricabile un'area sin dal suo inserimento tra le zone edificabili del piano regolatore generale (inserimento che normalmente già influenza il valore di mercato, determinato dalla effettività e prossimità della utilizzabilità edificatoria del suolo e dall'entità degli eventuali fut uri oneri di urbanizzazione) e, dall'altro, la legislazione urbanistica - al fine di garantire il corretto uso del territorio urbano e di contemperare gli interessi individuali con quelli della collettività - considera esercitabile lo ius aedificandi solo dopo il perfezionamento di tutti gli strumenti urbanistici previsti dalla legge (indipendentemente dal valore di mercato nel frattempo raggiunto dal terreno);

    che l'Avvocatura generale dello Stato afferma, pertanto, che: a) la denunciata violazione degli evocati parametri costituzionali è esclusa proprio dalle riferite argomentazioni contenute nella citata sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione, in quanto è ragionevole distinguere le finalità del legislatore fiscale da quelle del legislatore urbanistico ed in quanto l'edificabilità di un terreno sulla base del solo piano regolatore, anche se privo di strumenti attuativi, è già sufficiente, di norma, a far lievitare il valore di mercato di detto terreno; b) contrariamente a quanto ritenuto dal giudice rimettente, la valutazione come terreno agricolo, ai fini fiscali, di un'area qualificata come edificabile da un piano regolatore gene rale privo di strumenti attuativi creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla valutazione di un'area qualificata come edificabile da uno strumento attuativo, perché - come già osservato - in entrambi i casi il valore di mercato del bene è superiore a quello risultante dalle rendite catastali agricole;

    che, nel corso di due giudizi - nell'àmbito dei quali è stata disposta la riunione di più ricorsi -, aventi ad oggetto l'impugnazione e la sospensione dell'efficacia di alcuni avvisi di accertamento dell'ICI relativi agli anni 2000, 2001, 2002 e 2003, la Commissione tributaria provinciale di Ancona, con due ordinanze depositate rispettivamente in data 6 settembre 2007 (r.o. n. 836 del 2007) e 9 ottobre 2007 (r.o. n. 33 del 2008), ha sollevato - in riferimento agli artt. 3, 53, 97, 102 e 111 della Costituzione, nonché, nella sola ordinanza r.o. n. 33 del 2008, all'art. 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in tema di statuto dei diritti del contribuente), ritenuta fonte a «normatività rafforzata» - questioni di legittimità costituzionale degli artt. 11-quaterdecies, comma 16, del decreto-legge n. 203 del 2005, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge n. 248 del 2005, e 36, comma 2, del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge n. 248 del 2006;

    che il suddetto giudice rimettente si limita a premettere, in punto di fatto, che le aree dei ricorrenti sono considerate «fabbricabili», e come tali assoggettate ad ICI, perché ricomprese «in uno strumento urbanistico adottato dal comune»;

    che, in ordine alla non manifesta infondatezza delle sollevate questioni, la Commissione tributaria provinciale afferma che le disposizioni censurate violano gli evocati parametri costituzionali sotto diversi profili;

    che, in primo luogo, il giudice rimettente - sulla base del duplice presupposto che «in materia fiscale gli interventi interpretativi [.] Non sono ispirati [.] alla esigenza di realizzare la certezza del diritto, ma soltanto a garantire gli interessi di una delle parti in causa», e che, nel caso di specie, non è facile «distinguere l'amministrazione finanziaria, parte in causa, dal legislatore, posto che la norma interpretativa è stata approvata con decreto-legge del Governo, convertito in una legge, la cui approvazione è stata condizionata dal voto di fiducia al Governo» - denuncia la violazione: a) dell'art. 102 Cost., perché «la giurisdizione deve essere esercitata dai giudici, non da un Legislatore d'urgenza che faccia pendere la bilancia della giustizia in proprio favore con una legge pretesamente interpretativa di quella che i giudici debbono applicare»; b) dell'art. 111 Cost., perché «il processo - qualsiasi processo - è regolamentato sulla base della parità delle parti in causa di fronte alla legge e al giudice, con ovvia impossibilità per ciascuna delle parti di intervenire in proprio favore sulla legge stessa da applicare»; c) dell'art. 97 Cost., perché «Neppure la pubblica amministrazione può farsi giustizia da sola, e meno che mai con questi mezzi» (cioè con leggi di interpretazione autentica volte a predeterminare l'esito delle controversie di cui essa stessa è parte);

    che, in secondo luogo, il rimettente denuncia sia «l'insostenibile parificazione fiscale» fra «aree con edificabilità concreta e reale» ed «aree con edificabilità "astratta" e meramente virtuale», parificazione che ridonda in una lesione dell'art. 3 Cost., sia la violazione del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.);

    che la Commissione tributaria provinciale precisa, al riguardo, che le disposizioni denunciate violano l'art. 53 Cost., perché «il necessario presupposto di legittimità di un tributo [è] una capacità contributiva non meramente ipotetica e virtuale (spesso un flatus vocis amministrativo, cui nulla segue), ma caratterizzata da una ragionevole certezza»;

    che, in terzo luogo, il rimettente - sul presupposto che la legge n. 212 del 2000 è caratterizzata da una «normatività rafforzata» o da una «superiore efficacia», che «rischia di restare priva di precisi contorni specie nel contrasto, sempre più frequente, fra lo statuto e le leggi tributarie successive» - denuncia la violazione dell'art. 3 della legge n. 212 del 2000, il quale, stabilendo il principio dell'irretroattività delle leggi fiscali, vieta interpretazioni autentiche, che sono «ovviamente retroattive»;

    che il medesimo giudice afferma, infine, che le questioni sono rilevanti, perché, nell'àmbito dei giudizi di impugnazione dei menzionati avvisi di accertamento, deve decidere sulla richiesta di sospensione cautelare degli avvisi e, pertanto, deve fare applicazione delle disposizioni denunciate, al fine della «valutazione pregiudiziale del fumus boni iuris»;

    che il rimettente ha, pertanto, sospeso l'efficacia degli atti impugnati solo «fino all'esito del giudizio di costituzionalità»;

    che, anche in questi giudizi (r.o. n. 836 del 2007 e n. 33 del 2008), è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate;

    che la difesa erariale eccepisce l'inammissibilità delle questioni, sia perché la mancata descrizione della fattispecie da parte del giudice rimettente rende impossibile valutare la rilevanza delle questioni medesime, sia perché, quanto al giudizio principale in cui è stata emessa l'ordinanza r.o. n. 836 del 2007, le norme denunciate, anche ove avessero natura innovativa (come affermato dal rimettente in detta ordinanza, secondo l'Avvocatura generale) e non interpretativa, si applicherebbero quantomeno dalla data della loro entrata in vigore e, quindi, anteriormente alla data di inizio del giudizio a quo (avente ad oggetto «ricorsi riuniti iniziati nel maggio 2007»);

    che, nel merito, la medesima difesa erariale afferma che le questioni sono infondate, perché: a) le denunciate disposizioni hanno natura autenticamente interpretativa, rendendo obbligatorio un significato tra quelli astrattamente attribuibili alle disposizioni interpretate; b) non è dubbio che uno strumento urbanistico in itinere conferisce al terreno da esso qualificato come edificabile un valore ben superiore a quello precedente;

    che, al riguardo, l'Avvocatura generale dello Stato aggiunge - nel solo atto di intervento relativo al giudizio di costituzionalità promosso con l'ordinanza r.o. n. 836 del 2007 - che, nel caso di «ritiro del piano» attributivo della qualifica di area fabbricabile, v'è comunque un sistema di rimborsi a favore degli interessati e, perciò, nemmeno sotto tale profilo vi è una lesione degli evocati parametri costituzionali.

    Considerato che la Commissione tributaria regionale del Lazio (r.o. n. 775 del 2007) - in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, «nonché» ai princípi di ragionevolezza, razionalità e non contraddizione - e la Commissione tributaria provinciale di Ancona (r.o. n. 836 del 2007 e n. 33 del 2008) - in riferimento agli artt. 3, 53, 97, 102 e 111 della Costituzione, nonché, nella sola ordinanza r.o. n. 33 del 2008, all 'art. 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in tema di statuto dei diritti del contribuente) - dubitano della legittimità degli artt. 11-quaterdecies, comma 16, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, e 36, comma 2, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, legge 4 agosto 2006, n. 248;

    che, in ragione dell'identità delle norme denunciate e della parziale coincidenza delle censure proposte, i giudizi di legittimità costituzionale debbono essere riuniti per essere congiuntamente decisi;

    che i giudici rimettenti muovono, nella sostanza, dalla comune premessa che le disposizioni censurate - e, in particolare, l'art. 36, comma 2, del decreto-legge n. 223 del 2006, il quale stabilisce che un'area è da considerare fabbricabile, ai fini dell'ICI (oltre che ai fini delle imposte sui redditi e di registro), «se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal comune, indipendentemente dall'approvazione della regione e dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo» - sono dotate di efficacia retroattiva ed incidono, pertanto, sulla precedente definizione di area fabbricabile rilevante ai fini dell'ICI e contenuta nell'art. 2, comma 1, lettera b), primo periodo, del decreto legislat ivo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), in forza del quale «per area fabbricabile si intende l'area utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici generali o attuativi ovvero in base alle possibilità effettive di edificazione determinate secondo i criteri previsti agli effetti dell'indennità di espropriazione per pubblica utilità»;

    che, ad avviso della rimettente Commissione tributaria regionale del Lazio (r.o. n. 775 del 2007), le suddette disposizioni censurate víolano gli evocati parametri costituzionali, perché: a) sottopongono irragionevolmente al medesimo trattamento fiscale situazioni che l'ordinamento giuridico (avendo separato lo ius aedificandi dal diritto di proprietà e configurato un differente regime edificatorio dei terreni a seconda che sia stato o no adottato uno strumento urbanistico di attuazione del piano regolatore generale) considera diverse ai fini dell'edificabilità; b) prescindono «dalla capacità contributiva reale che è necessariamente mediata dalle norme imperative relative allo ius aedificandi»;

    che tali questioni sono in parte manifestamente inammissibili ed in parte manifestamente infondate;

    che, in via preliminare, vanno dichiarate manifestamente inammissibili, per difetto di rilevanza, le questioni concernenti l'art. 11-quaterdecies, comma 16, del decreto-legge n. 203 del 2005, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge n. 248 del 2005, perché di tale disposizione il giudice rimettente non deve fare applicazione nel giudizio a quo;

    che, infatti, come affermato dallo stesso giudice rimettente e come già rilevato da questa Corte nell'ordinanza n. 41 del 2008, l'art. 36, comma 2, del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge n. 248 del 2006, ha sostituito con effetto ex tunc, abrogandola, la disciplina dettata dal citato art. 11-quaterdecies, comma 16, del decreto-legge n. 203 del 2005, con la conseguenza che detto art. 36, comma 2, è l'unica disposizione, delle due denunciate, a trovare applicazione nel giudizio principale;

    che, nel merito, le questioni sollevate dalla rimettente Commissione tributaria regionale del Lazio con riguardo al menzionato art. 36, comma 2, del decreto-legge n. 223 del 2006 debbono essere dichiarate manifestamente infondate;

    che, infatti, questioni identiche a quelle sollevate dal giudice a quo sono già state dichiarate manifestamente infondate con l'ordinanza n. 41 del 2008, con cui questa Corte ha affermato che «è del tutto ragionevole che il legislatore: a) attribuisca alla nozione di "area edificabile" significati diversi a seconda del settore normativo in cui detta nozione deve operare e, pertanto, distingua tra normativa fiscale, per la quale rileva la corretta determinazione del valore imponibile del suolo, e normativa urbanistica, per la quale invece rileva l'effettiva possibilità di edificare, secondo il corretto uso del territorio, indipendentemente dal valore venale del suolo; b) muova dal presupposto fattuale che un'area in relazione alla quale non è ancora ottenibile il permesso di costruire, ma che tuttavia è qualificata come "edificabile" da uno strumento urbanistico generale non approvato o attuato, ha un valore venale tendenzialmente diverso da quello di un terreno agricolo privo di tale qualificazione; c) conseguentemente distingua, ai fini della determinazione dell'imponibile dell'ICI, le aree qualificate edificabili in base a strumenti urbanistici non approvati o non attuati (e, quindi, in concreto non ancora edificabili), per le quali applica il criterio del valore venale, dalle aree agricole prive di detta qualificazione, per le quali applica il diverso criterio della valutazione basata sulle rendite catastali»;

    che, in particolare, «la potenzialità edificatoria dell'area, anche se prevista da strumenti urbanistici solo in itinere o ancora inattuati, costituisce notoriamente un elemento oggettivo idoneo ad influenzare il valore del terreno e, pertanto, rappresenta un indice di capacità contributiva adeguato, ai sensi dell'art. 53 Cost., in quanto espressivo di una specifica posizione di vantaggio economicamente rilevante» (citata ordinanza n. 41 del 2008);

    che il giudice rimettente non prospetta, pertanto, profili diversi da quelli già presi in esame con la più volte citata pronuncia n. 41 del 2008, o comunque tali da indurre questa Corte a modificare il precedente orientamento;

    che tali questioni, dunque, devono essere dichiarate manifestamente infondate;

    che, ad avviso della rimettente Commissione tributaria provinciale di Ancona (r.o. n. 836 del 2007 e n. 33 del 2008), le suddette disposizioni censurate violano gli artt. 3, 53, 97, 102 e 111 della Costituzione, nonché l'art. 3 della legge n. 212 del 2000, perché: a) creano un'«insostenibile parificazione fiscale» fra «aree con edificabilità concreta e reale» ed «aree con edificabilità "astratta" e meramente virtuale» e considerano, quale presupposto del tributo, una capacità contributiva «meramente ipotetica e virtuale»; b) ledono la riserva di giurisdizione di cui all'art. 102 Cost. ed i princípi della parità delle parti nel processo e di imparzialità della pubblica amministrazione quand'essa è parte processuale, essendo dette disposizioni d'interpretazione autentica - contenute in decreti-legge la cui conversione «è stata condizionata dal voto di fiducia al Governo» - finalizzate ad incidere sui processi in corso a vantaggio della stessa amministrazione finanziaria, che avrebbe assunto, nella fattispecie, anche veste di legislatore; c) contrastano con il principio dell'irretroattività delle leggi fiscali stabilito dall'art. 3 della legge n. 212 del 2000, essendo le leggi di interpretazione autentica «ovviamente retroattive»;

    che tali questioni sono manifestamente inammissibili, per omessa descrizione delle fattispecie oggetto dei giudizi a quibus;

    che infatti il giudice rimettente non ha indicato quali strumenti urbanistici disciplinano, per gli anni d'imposta in contestazione, le aree oggetto degli impugnati avvisi d'accertamento, ma si limita a rilevare, al riguardo, che dette aree sono «considerate» come «fabbricabili» perché ricomprese «in uno strumento urbanistico adottato dal comune»;

    che, pertanto, le ordinanze di rimessione non specificano - con riferimento a ciascun periodo d'imposta oggetto dei giudizi principali - se, per le aree indicate dagli impugnati avvisi di accertamento, potesse essere rilasciato o no titolo abilitativo a costruire;

    che, dunque, il rimettente non chiarisce se a dette fattispecie si applicano le disposizioni denunciate;

    che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l'insufficiente descrizione della fattispecie, poiché impedisce, come nel caso di specie, di vagliare l'effettiva applicabilità delle norme denunciate ai casi dedotti nei giudizi principali, si risolve in carente motivazione sulla rilevanza delle questioni sollevate, determinandone, conseguentemente, la manifesta inammissibilità (ordinanze n. 129 e n. 31 del 2007; ord. n. 289 del 2006).

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 11-quaterdecies, comma 16, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, sollevate dalla Commissione tributaria regionale del Lazio - in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, «nonché» ai princípi di ragionevolezza, razionalità e non contraddizione - con l'ordinanza indicata in epigrafe;

    dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 36, comma 2, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248, sollevate dalla medesima Commissione tributaria regionale del Lazio - in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, «nonché» ai princípi di ragionevolezza, ra zionalità e non contraddizione - con l'ordinanza indicata in epigrafe;

    dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 11-quaterdecies, comma 16, del decreto-legge n. 203 del 2005, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge n. 248 del 2005, e 36, comma 2, del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge n. 248 del 2006, sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Ancona - in riferimento agli artt. 3, 53, 97, 102 e 111 della Costituzione, nonché all'art. 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in tema di statuto dei diritti del contribuente) - con le ordinanze indicate in epigrafe.

    Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 267

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 294 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 6 settembre 2007 dal Tribunale di Napoli, sezione per il riesame, iscritta al n. 837 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell'anno 2008.

      Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

      udito nella camera di consiglio dell'11 giugno 2008 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.

    Ritenuto che il Tribunale di Napoli, sezione per le impugnazioni dei provvedimenti cautelari, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 294 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l'obbligo di interrogare la persona nei cui confronti sia stato disposto l'aggravamento della misura cautelare, ai sensi del precedente art. 276, comma 1, nella fase compresa tra la pronuncia della sentenza di primo grado e l'inizio del giudizio di appello;

    che dinanzi al rimettente è impugnata l'ordinanza con la quale la Corte d'appello di Napoli ha respinto l'istanza, presentata dalla difesa dell'imputato, di declaratoria dell'inefficacia - per mancato espletamento dell'interrogatorio di garanzia - della misura della custodia cautelare in carcere, disposta ai sensi dell'art. 276, comma 1, cod. proc. pen., a seguito di trasgressione delle prescrizioni inerenti l'originaria misura degli arresti domiciliari;

    che l'aggravamento della misura, precisa il rimettente, era stato disposto dal giudice di primo grado, dopo la pronuncia della sentenza di condanna e prima della trasmissione degli atti alla Corte d'appello per il giudizio di gravame;

    che, riferisce ancora il giudice a quo, in sede di appello cautelare la difesa dell'imputato ha contestato, tra l'altro, il presupposto sul quale è motivato il rigetto dell'istanza de libertate, e cioè che, trattandosi di misura cautelare disposta nell'ambito della «procedura sanzionatoria» regolata dall'art. 276 cod. proc. pen., non occorresse procedere ad un successivo interrogatorio di garanzia ai sensi dell'art. 294 cod. proc. pen.;

    che secondo la tesi difensiva occorrerebbe distinguere tra l'ipotesi di aggravamento della misura cautelare prevista dall'art. 276, comma 1-ter, cod. proc. pen. (violazione della prescrizione di non allontanarsi dal luogo degli arresti domiciliari), nella quale l'interrogatorio non sarebbe richiesto, e l'ipotesi di aggravamento disposto ai sensi del comma 1 del medesimo art. 276, nella quale, invece, l'interrogatorio dovrebbe ritenersi prescritto a pena di estinzione della misura;

    che il rimettente condivide l'interpretazione della difesa e ritiene, in linea con il più recente indirizzo della Corte di cassazione (sono richiamate le sentenze 2 ottobre 2006, n. 1600 e 7 aprile 2005, n. 21407), che l'aggravamento disposto ai sensi del comma 1 dell'art. 276 cod. proc. pen. si caratterizza per l'esercizio di un potere «largamente discrezionale» del giudice, non dissimile, sotto il profilo dell'incidenza sulla libertà personale, da quello che connota l'applicazione ex novo di una misura coercitiva, con la conseguenza che l'interessato dovrebbe poter rappresentare immediatamente le proprie ragioni in ordine alla sussistenza e alla rilevanza della trasgressione;

    che da ciò discenderebbe la necessità dell'interrogatorio di garanzia, quale unico strumento idoneo ad assicurare adeguatamente il diritto di difesa, non potendo riconoscersi un valore equivalente ai rimedi impugnatori;

    che, precisata in tal senso l'opzione interpretativa alla base della questione, il rimettente osserva come, nel caso di specie, l'aggravamento della misura sia stato disposto dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, e prima della trasmissione degli atti alla corte d'appello, cioè in un momento in cui, secondo l'art. 294 cod. proc. pen., l'interrogatorio di garanzia non era dovuto, in quanto la predetta norma «espressamente limita l'obbligo dell'interrogatorio al momento in cui è dichiarato aperto il dibattimento»;

    che il giudizio principale, di conseguenza, dovrebbe essere definito con il rigetto del gravame;

    che, pertanto, il giudice a quo censura la disposizione contenuta nell'art. 294 cod. proc. pen., ritenendola contrastante con il diritto di difesa, nella parte in cui non impone la verifica immediata, e nella pienezza del contraddittorio, delle condizioni che giustificano il provvedimento di aggravamento;

    che, inoltre, ad avviso del rimettente, la stessa norma si porrebbe in contrasto con l'art. 3 Cost., in quanto riserva un trattamento deteriore al soggetto che, nel periodo compreso tra la conclusione del giudizio di primo grado e l'inizio del giudizio d'appello, subisca la modifica in peius del regime cautelare, ai sensi dell'art. 276, comma 1, cod. proc. pen., rispetto al soggetto che tale aggravamento abbia subito nel periodo intercorrente tra la richiesta di rinvio a giudizio e l'udienza preliminare, ovvero tra la trasmissione degli atti al giudice di primo grado e l'apertura del dibattimento (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 1999);

    che il rimettente procede, quindi, all'esame dell'ordinanza n. 230 del 2005 della Corte costituzionale, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità degli artt. 294 e 302 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono l'obbligo dell'interrogatorio di garanzia della persona sottoposta a custodia cautelare «anche dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento», per evidenziare come tale pronuncia, a suo dire, non possa incidere sull'odierna questione;

    che infatti, secondo il giudice a quo, nel caso di specie si discuteva delle garanzie de libertate a fronte di una misura disposta «nel corso del dibattimento», tanto che la Corte avrebbe argomentato l'infondatezza della questione allora sollevata «avuto riguardo alle peculiarità che caratterizzano la fase del dibattimento e alla adeguatezza del livello di garanzie de libertate apprestato in esso dal sistema»;

    che, diversamente, la fattispecie in esame si caratterizza per l'ormai intervenuta definizione del giudizio di primo grado, sicché mancherebbe la possibilità di verificare con immediatezza «sia la legittimità dello status, sia la permanenza delle condizioni che determinarono l'adozione della misura custodiale» (è richiamata ancora la sentenza n. 32 del 1999), essendo tra l'altro inapplicabile la previsione contenuta nell'art. 494 cod. proc. pen., che riconosce all'imputato la facoltà di rendere dichiarazioni in ogni stato del dibattimento;

    che, inoltre, il rimettente pone a raffronto l'ipotesi prevista dall'art. 276, comma 1, cod. proc. pen. e quella prevista dall'art. 275, comma 1-bis, dello stesso codice, che disciplina la misura cautelare emessa «contestualmente o successivamente alla sentenza di condanna», e per la quale si esclude la necessità dell'interrogatorio di garanzia;

    che tale disciplina, ad avviso del giudice a quo, trova giustificazione proprio in quanto la misura è emessa all'esito del dibattimento, nel quale si realizza quella «coesistenza e assorbimento delle funzioni cautelari in quelle di merito, nel che sta quel valore di "immanenza" richiamato dalla sentenza n. 32 del 1999» (è nuovamente richiamata l'ordinanza n. 230 del 2005), ciò che non avverrebbe nell'ipotesi di aggravamento della misura a seguito di trasgressione, nella quale il giudice che procede esercita esclusivamente le attribuzioni incidentali di natura cautelare di cui all'art. 276 cod. proc. pen.;

    che, peraltro, il riconoscimento della necessità dell'interrogatorio di garanzia, nei termini fin qui prospettati, non incontrerebbe ostacoli di carattere sistematico, atteso che la già affermata eccentricità dell'istituto in esame rispetto alla fase dibattimentale non sussisterebbe «dopo la chiusura della fase in questione e rispetto ad un fatto che non attiene al merito dell'imputazione per cui si procede»;

    che il giudice a quo evidenzia, ancora, che «l'intervallo di tempo intercorrente tra la pronunzia della sentenza di primo grado e l'inizio del giudizio di appello può essere (o meglio, è) caratterizzato da un'estensione maggiore rispetto a quella intercorrente tra la richiesta di rinvio a giudizio e l'udienza preliminare», e sottolinea come identica considerazione, avuto riguardo al tempo intercorrente tra la trasmissione degli atti e l'apertura del dibattimento, sia posta alla base della dichiarazione di illegittimità parziale dell'art. 294 cod. proc. pen. intervenuta con la già richiamata sentenza n. 32 del 1999;

    che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso nel senso dell'inammissibilità o, comunque, dell'infondatezza della questione;

    che, quanto al presupposto interpretativo posto alla base della questione, la difesa erariale richiama il diverso orientamento della Corte di cassazione che esclude la necessità dell'interrogatorio di garanzia in caso di aggravamento della misura cautelare disposto ai sensi dell'art. 276, comma 1, cod. proc. pen. (sono richiamate, tra le altre, le sentenze 21 settembre 2007, n. 37948, 13 dicembre 2006, n. 7394 e 23 novembre 2006, n. 41204), di talché la questione dovrebbe essere dichiarata inammissibile, risultando irrilevante;

    che, nel merito, l'Avvocatura generale richiama la decisione con la quale la Corte costituzionale ha già affermato che la necessità dell'interrogatorio di garanzia è imposta fino all'apertura del dibattimento (ordinanza n. 230 del 2005);

    che, in particolare, sono richiamati passaggi motivazionali della citata ordinanza n. 230 del 2005, nei quali si trova affermato che il diritto di difesa può ammettere modulazioni differenziate, e che «in particolare, e proprio sul versante dell'interrogatorio di garanzia della persona sottoposta a custodia cautelare è evidente come un simile atto presenti connotazioni ben diverse, non soltanto a seconda dello stadio raggiunto dal procedimento - e con esso dal corrispondente tasso di cristallizzazione dell'accusa e del relativo materiale di prova - ma anche in rapporto alle specifiche attribuzioni del giudice chiamato ad intervenire in quello specifico segmento del procedimento»;

    che pertanto, osserva la difesa erariale, una volta aperto il dibattimento, lo stretto contatto tra giudice ed imputato escluderebbe in radice la necessità dell'interrogatorio di garanzia;

    che, inoltre, pur essendo incontestabile il rilievo del giudice a quo, circa l'assenza di contatto immediato tra giudice e imputato nel lasso di tempo che intercorre tra la pronuncia della sentenza di primo grado e l'apertura del dibattimento di appello, tuttavia, secondo l'Avvocatura generale, la pienezza della cognizione che necessariamente precede la sentenza di condanna renderebbe superfluo lo svolgimento dell'interrogatorio di garanzia, là dove le questioni inerenti all'esistenza, all'entità ed alla eventuale irrilevanza della trasgressione possono essere fatte valere con gli ordinari rimedi impugnatori.

    Considerato che il Tribunale di Napoli, in sede di appello de libertate, solleva, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 294 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l'obbligo dell'interrogatorio di garanzia della persona sottoposta ad aggravamento della misura cautelare, ai sensi del precedente art. 276, comma 1, nella fase compresa tra la pronuncia della sentenza di primo grado e l'inizio del giudizio di appello;

    che, pertanto, oggetto di censura è la norma prevista dal comma 1 dell'art. 294 cod. proc. pen.;

    che l'odierno rimettente, con riferimento alla peculiare fattispecie dell'aggravamento di misura cautelare disposto a seguito di trasgressione, vorrebbe che l'obbligo di effettuare l'interrogatorio di garanzia fosse esteso alle fasi successive all'apertura del dibattimento;

    che, nel suo nucleo essenziale, la questione è già stata esaminata da questa Corte, e dichiarata manifestamente infondata con l'ordinanza n. 230 del 2005;

    che nella citata ordinanza è stata affermata la ragionevolezza della scelta legislativa attuata, all'indomani della sentenza n. 32 del 1999, con il decreto-legge 22 febbraio 1999, n. 29 (Nuove disposizioni in materia di competenza della corte d'assise e di interrogatorio di garanzia), convertito, con modificazioni, dalla legge 29 aprile 1999, n. 109, e la conseguente adeguatezza dei rimedi impugnatori de libertate nella fase successiva all'apertura del dibattimento;

    che, inoltre, il giudice a quo trascura di considerare che l'art. 294, comma 1, cod. proc. pen., contiene una norma fondata sul particolare significato della dichiarazione di apertura del dibattimento, quale momento di inizio effettivo del giudizio di merito, a partire dal quale, «proprio in virtù di quella fisiologica coesistenza e assorbimento delle funzioni cautelari in quelle di merito - nel che sta quel valore di "immanenza" richiamato dalla sentenza n. 32 del 1999 -, si realizza appieno il costante controllo sulla indispensabilità del permanere della misura, che l'interrogatorio [.] dovrebbe - per sé solo - assicurare» (ordinanza n. 230 del 2005);

    che, in tale prospettiva, il limite all'obbligatorietà dell'interrogatorio di garanzia, come previsto dalla norma censurata, non può che trovare applicazione per l'intero corso del processo, essendo allo stesso modo irrilevante che la celebrazione del dibattimento sia diluita nel tempo, ovvero che si versi in una delle possibili situazioni di sospensione, o, ancora, in una delle fasi di passaggio tra i diversi gradi del giudizio;

    che, pertanto, ed a prescindere dalla opzione interpretativa circa la necessità dell'interrogatorio di garanzia nei casi di aggravamento della misura cautelare, la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata.

    Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 294, comma 1, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Napoli con l'ordinanza in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 268

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 14-bis, comma 4, del decreto legislativo 3 aprile 1993, n. 96 (Trasferimento delle competenze dei soppressi Dipartimento per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno e Agenzia per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno, a norma dell'art. 3 della legge 19 dicembre 1992, n. 488), promosso con ordinanza del 25 maggio 2007 dal Tribunale di Roma nei procedimenti civili riuniti vertenti tra Massimo Vanni ed altra e l'I.N.P.D.A.P., iscritta al n. 757 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visto l'atto di costituzione dell'I.N.P.D.A.P. nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 24 giugno 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella;

    uditi gli avvocati Flavia Incletolli e Maria Morrone per l'I.N.P.D.A.P. e l'avvocato dello Stato Luca Ventrella per il Presidente del Consiglio dei ministri.

    Ritenuto che nel corso di due giudizi civili riuniti promossi da Vanni Massimo e Perticaroli Paola contro l'Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti dell'amministrazione pubblica (INPDAP), il Tribunale di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 36, 38 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 14-bis, comma 4, del decreto legislativo 3 aprile 1993, n. 96 (Trasferimento delle competenze dei soppressi Dipartimento per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno e Agenzia per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno, a norma dell'art. 3 della legge 19 d icembre 1992, n. 488), «nella parte in cui consente una interpretazione volta a non applicare il beneficio della restituzione dei contributi a tutti i dipendenti della ex Agensud, che, cessato ex lege il rapporto di lavoro con tale Agenzia ed esercitata l'opzione "b" di cui all'art. 14-bis, comma 1 dello stesso decreto, siano transitati presso amministrazioni statali ricongiungendo il servizio prestato in precedenza presso l'Agensud e non abbiano scelto il mantenimento della posizione pensionistica di provenienza»;

    che il giudice a quo espone che il Consiglio di Stato, il quale inizialmente aveva affermato che anche gli ex dipendenti della Agenzia per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno (AGENSUD) che non fossero cessati dal servizio nel periodo indicato dalla norma censurata (cioè dal 13 ottobre 1993 all'8 febbraio 1995) avevano diritto ad ottenere la restituzione dei contributi non utili a fini pensionistici, successivamente si è espresso in senso contrario sia in sede consultiva, sia in sede giurisdizionale;

    che il rimettente, dopo aver criticato questo più recente orientamento del consesso amministrativo, afferma che, in generale, in caso di soppressione di enti, è prevista la restituzione dei contributi previdenziali non più utili a fini pensionistici per effetto del passaggio a nuova e diversa gestione previdenziale e che, invece, nel caso degli ex dipendenti dell'AGENSUD, l'infelice formulazione dell'art. 14-bis, comma 4, del d. lgs. n. 96 del 1993 consente un'interpretazione letterale (secondo cui il beneficio della restituzione dei contributi spetterebbe solamente ai lavoratori cessati dal servizio tra il 13 ottobre 1993 e l'8 febbraio 1995) incompatibile con la Costituzione;

    che, in particolare, il Tribunale di Roma ricorda che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 219 del 1998, sollecitata sugli artt. 14 e 14-bis, commi 1 e 3, del d. lgs. n. 96 del 1993, ha rigettato le censure di illegittimità costituzionale delle decurtazioni dello stipendio e del trattamento pensionistico subite dagli ex dipendenti della AGENSUD al momento del passaggio alle dipendenze delle amministrazioni statali, affermando che, a fronte di quelle decurtazioni, erano previsti alcuni benefici, fra i quali la restituzione dei contributi non più utili a fini pensionistici;

    che, ad avviso del rimettente, nell'occasione la Corte costituzionale non ha però affrontato specificamente il problema della compatibilità dell'art. 14-bis, comma 4, del d. lgs. n. 96 del 1993 con i precetti costituzionali;

    che, secondo il giudice a quo, se le decurtazioni di stipendio e trattamento pensionistico costituiscono un disagio subito da tutti gli ex dipendenti della AGENSUD e la loro legittimità si giustifica grazie alla fruizione di una serie di benefici, allora questi ultimi devono essere accordati a tutti, pena la violazione dei principi di eguaglianza ex art. 3 Cost., di imparzialità ex art. 97 Cost., di parità di retribuzione a parità di qualità e quantità di lavoro svolto, di cui all'art. 36 Cost., e di quelli che governano il diritto a pensione ai sensi dell'art. 38 Cost.;

      che si è costituito l'INPDAP, il quale eccepisce l'inammissibilità della questione perché irrilevante e perché la Corte costituzionale già si è pronunciata su di essa con la sentenza n. 219 del 1998;   

    che, nel merito, l'ente previdenziale deduce la manifesta infondatezza della questione alla luce del principio generale dell'ordinamento secondo cui i contributi versati alla gestione di appartenenza restano a questa acquisiti anche se non siano in concreto utili per la costituzione di un trattamento pensionistico;

    che l'INPDAP nega che sussista violazione degli artt. 3, 38 e 97 Cost., poiché il legislatore gode di ampia discrezionalità nell'attuazione degli obiettivi di previdenza pubblica e può incidere anche in senso peggiorativo su pregresse situazioni in itinere e sostiene che la censura formulata dal rimettente in riferimento al «principio di parità di retribuzione a parità di qualità e quantità di lavoro svolto, di cui all'art. 36 Cost.» è infondata, poiché tale principio non esiste, l'art. 36 Cost. limitandosi a prevedere l'adeguatezza e la proporzionalità della retribuzione in relazione al lavoro prestato;

      che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale chiede che la questione sia dichiarata inammissibile (poiché essa è finalizzata ad ottenere l'avallo della Corte a favore di una determinata interpretazione della norma censurata) o, in subordine, manifestamente infondata, perché in materia previdenziale vige il principio generale secondo cui coloro che transitano da un'amministrazione ad un'altra acquisiscono una nuova posizione previdenziale relativa ai contributi versati, anche quando questi ultimi non siano utili all'insorgenza di un trattamento pensionistico.

    Considerato che il Tribunale di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 36, 38 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 14-bis, comma 4, del decreto legislativo 3 aprile 1993, n. 96 (Trasferimento delle competenze dei soppressi Dipartimento per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno e Agenzia per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno, a norma dell'art. 3 della legge 19 dicembre 1992, n. 488), «nella parte in cui consente una interpretazione volta a non applicare il beneficio della restituzione dei contributi a tutti i dipendenti della ex Agensud, ch e, cessato ex lege il rapporto di lavoro con tale Agenzia ed esercitata l'opzione "b" di cui all'art. 14-bis, comma 1 dello stesso decreto, siano transitati presso amministrazioni statali ricongiungendo il servizio prestato in precedenza presso l'Agensud e non abbiano scelto il mantenimento della posizione pensionistica di provenienza»;

      che la norma censurata prevede che gli ex dipendenti della AGENSUD transitati, a seguito della soppressione dell'Agenzia, alle dipendenze delle amministrazioni statali e che siano cessati dal servizio tra il 14 ottobre 1993 e l'8 febbraio 1995 hanno diritto alla restituzione dei contributi versati allorché erano alle dipendenze dell'AGENSUD e non più utili a pensione dopo l'iscrizione nella gestione previdenziale dell'INPDAP (e relativo trasferimento dei contributi stessi a quest'ultimo ente);

      che il giudice a quo, dopo aver dato atto che il più recente orientamento del Consiglio di Stato (e quello maggioritario dei giudici ordinari di merito) è nel senso dell'insussistenza del diritto dei dipendenti ex AGENSUD ancora in servizio dopo l'8 febbraio 1995 ad ottenere il rimborso dei contributi non utili a fini pensionistici e dopo aver esposto gli argomenti che i giudici amministrativi deducono a sostegno di tale loro tesi, ha svolto una serie di serrate critiche a quegli argomenti ed ha esposto, a sua volta, i motivi per i quali invece la norma censurata dovrebbe essere interpretata nel senso opposto;

      che il rimettente non indica le ragioni che gli impedirebbero di adottare, nella decisione della controversia, l'interpretazione da esso ritenuta costituzionalmente corretta e, anzi, afferma che «la questione è a tutt'oggi irrisolta e più che mai attuale, se si considera la pendenza di un contenzioso gravoso innanzi le corti di merito, il contrasto di orientamenti giurisprudenziali recentemente insorto fra i giudici sia ordinari sia amministrativi»;

      che, anche nella formulazione del petitum sottoposto alla Corte, il giudice a quo afferma che la disposizione censurata semplicemente consentirebbe un'interpretazione a suo avviso confliggente con la Costituzione, mentre, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, nessuna disposizione di legge può essere dichiarata costituzionalmente illegittima sol perché suscettibile di essere interpretata in contrasto con precetti costituzionali, ma deve esserlo soltanto quando non sia possibile attribuirle un significato che la renda conforme a Costituzione;

      che è evidente, dunque, che la questione sia diretta ad ottenere l'avallo della Corte ad una determinata interpretazione della norma censurata e per tale motivo la questione medesima deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 14-bis, comma 4, del decreto legislativo 3 aprile 1993, n. 96 (Trasferimento delle competenze dei soppressi Dipartimento per gli interventi straordinari nel Mezzogiorno e Agenzia per la promozione dello sviluppo del Mezzogiorno, a norma dell'art. 3 della legge 19 dicembre 1992, n. 488), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 36, 38 e 97 della Costituzione, dal Tribunale di Roma con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nelle sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 269

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE        Presidente

- Giovanni Maria  FLICK         Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), come modificato dall'art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, promosso con ordinanza depositata il 9 agosto 2007 dal Tribunale ordinario di Roma nel procedimento civile vertente tra il condominio di piazza Annibaliano, n. 4, ed il Comune di Roma, iscritta al n. 814 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell'anno 2008.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 25 giugno 2008 il Giudice relatore Franco Gallo.

    Ritenuto che nel corso di un giudizio, nel quale un contribuente aveva proposto opposizione avverso un avviso di pagamento, notificatogli dal Comune di Roma, relativo ad una somma dovuta a titolo di canone di occupazione permanente di spazi ed aree pubbliche (COSAP) per l'anno 2005, il Tribunale ordinario di Roma, con ordinanza depositata il 9 agosto 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 102, secondo comma, e 25, primo comma, della Costituzione, questioni di legittimità dell'art. 2 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) - come modificato dall'art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 -, nella parte in cui stabilisce, nel secondo periodo del comma 2, che appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie relative alla debenza del suddetto canone;

    che il Tribunale rimettente premette, in punto di fatto, che: a) il contribuente ha chiesto - oltre alla declaratoria della giurisdizione del giudice ordinario sulla controversia, previa rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità del citato art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992 per violazione degli artt. 3, 24, 25, 102, 103 Cost. e VI disposizione transitoria della Costituzione - che ven ga dichiarata «l'infondatezza», totale o parziale, della pretesa al pagamento di una somma a titolo di COSAP, avanzata dal Comune convenuto con l'avviso impugnato; b) il Comune di Roma, costituitosi in giudizio, ha preliminarmente eccepito il difetto di giurisdizione del giudice adíto, essendo la controversia devoluta alla giurisdizione delle commissioni tributarie in forza del novellato art. 2 del d. lgs. n. 546 del 1992;

    che il giudice a quo premette altresí, in punto di diritto, che: a) le commissioni tributarie sono organi aventi natura giurisdizionale «compatibili» con il dettato costituzionale, essendo preesistenti all'entrata in vigore della Costituzione (richiama, al riguardo, le sentenze n. 50 del 1989; n. 21 del 1986; n. 196 del 1982; n. 63 del 1982; n. 215 del 1976; n. 287 del 1974; nonché le ordinanze n. 144 del 1998; n. 351 del 1995 della Corte costituzionale); b) la loro giurisdizione è limitata alle «controversie tributarie» e ciò «costituisce garanzia di compatibilità con il divieto di istituzione di nuovi giudici speciali» (richiama, in proposito, la menzi onata ordinanza n. 144 del 1998 della Corte costituzionale); c) «la natura strettamente tributaria della prestazione che costituisce oggetto della controversia» è, dunque, limite «intrinseco ed invalicabile» della giurisdizione di dette commissioni, come più volte ribadito dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (ordinanze n. 94, n. 35 e n. 34 del 2006) e da quella di legittimità (ordinanze n. 7388 del 2007; n. 20067 del 2006; n. 16776 del 2005);

    che, quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente afferma, sulla base delle indicate premesse, che la disposizione censurata - nello stabilire che «appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie relative alla debenza del canone per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche previsto dall'articolo 63 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni» - attribuisce alla cognizione delle commissioni tributarie controversie aventi ad oggetto prestazioni che, secondo la giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenze n. 20067 del 2006; n. 14864 del 2006; n. 1239 del 2005; n. 5462 del 2004; n. 12167 del 2003) e s econdo la prassi amministrativa (Ministero delle finanze, circolare n. 256/E/I/166.089 del 3 novembre 1998; Agenzia delle entrate, risoluzione n. 25/E del 5 febbraio 2003), non hanno natura tributaria, inerendo a diritti soggettivi rientranti nella giurisdizione del giudice ordinario;

    che il fatto stesso che la disposizione censurata attribuisca espressamente alla giurisdizione del giudice tributario la cognizione delle controversie in tema di COSAP costituisce, secondo il giudice rimettente, «una evidente dimostrazione della natura non tributaria del canone in questione», perché, qualora detto canone avesse avuto già in precedenza natura tributaria, «il legislatore nel dicembre 2005 non avrebbe avuto alcuna necessità di attribuire espressamente le relative controversie al giudice tributario, al quale esse sarebbero spettate in base alla previsione generale dell'art. 12 della legge n. 448/2001 che [.] ha esteso la giurisdizione tributaria a "tutte le controversie aventi ad ogg etto i tributi di ogni genere e specie" e [.] "comunque denominati"»;

    che, per il giudice a quo, la norma denunciata comporta, dunque, la violazione sia del divieto di istituzione di nuovi giudici speciali (art. 102, secondo comma, Cost.), sia del principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25, primo comma, Cost.), perché attribuisce alla giurisdizione del giudice tributario controversie relative a diritti estranee alla "materia tributaria", sottraendole al proprio "giudice naturale", cioè a quello ordinario;

    che, per lo stesso giudice a quo, tali dubbi di costituzionalità non sono superati dalla giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione;

    che, in particolare, la sentenza di detta Corte n. 2888 del 2006, nel prendere atto della «tendenza espansiva dell'ambito della giurisdizione tributaria», ha affermato che detta giurisdizione non incontra «precisi limiti costituzionali, fatto salvo in ogni caso il principio di ragionevolezza»;

    che tale orientamento, secondo il giudice rimettente, non è condivisibile, perché la discrezionalità del legislatore nella configurazione del riparto fra giurisdizioni «non è affatto illimitata», ma incontra precisi limiti in Costituzione (come si desume dalla giurisprudenza costituzionale: sentenza n. 204 del 2004; ordinanze n. 94, n. 35 e n. 34 del 2006; n. 144 del 1998);

    che, ad avviso del giudice a quo, non può condividersi neppure la sentenza della Corte di cassazione n. 4895 del 2006, la quale, sul presupposto che i "canoni" indicati nella disposizione censurata, al pari di quelli previsti dalla tariffa di igiene ambientale (TIA), «attengono tutti ad entrate che in precedenza rivestivano indiscussa natura tributaria», ha ritenuto manifestamente infondata una analoga questione di legittimità costituzionale in tema di giurisdizione tributaria sulla TIA;

    che, infatti, per il rimettente, tale pronuncia: a) si fonda su un'argomentazione che «si risolve in una petizione di principio (i canoni de quibus sarebbero oggi tributi solo perché lo erano in passato)»; b) si pone in contrasto con un'altra pronuncia delle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza n. 3274 del 2006, in tema di tariffa per il servizio di raccolta dei rifiuti urbani); c) postula che una norma processuale attributiva della giurisdizione su determinate controversie possa modificare la natura giuridica sostanziale delle prestazioni oggetto di quelle stesse cont roversie, mentre, per quanto riguarda in particolare la giurisdizione delle Commissioni tributarie, «la natura necessariamente [.] tributaria della prestazione costituente oggetto della controversia deve precedere la norma processuale che attribuisce la giurisdizione alle commissioni tributarie»;

    che, infine, quanto alla rilevanza, il Tribunale di Roma osserva che qualunque decisione - «compresa quella relativa all'istanza di sospensione» - «non può prescindere dall'eccezione di difetto di giurisdizione» sollevata dal convenuto e che la fondatezza di tale eccezione dipende dall'applicabilità, nel giudizio principale, della disposizione censurata;

    che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in giudizio ed ha chiesto dichiararsi l'infondatezza delle sollevate questioni;

    che, nel merito, la difesa erariale afferma che: a) «Un ampliamento della competenza delle Commissioni Tributarie non equivale ad istituzione di un nuovo giudice speciale»; b) «l'intervenuta revisione non vincola il legislatore ordinario a mantenere immutati nell'ordinamento e nel funzionamento le Commissioni Tributarie come già revisionate»; c) «Non può dirsi che la mera attribuzione della competenza a conoscere dei canoni di concessione per l'occupazione dei suoli pubblici snaturi le competenze originarie delle Commissioni: tale competenza si aggiunge a quella relativa alla materia propriamente tributaria, in una logica di sistema che considera la natura pubblicistica dell'entrata la quale, pur non essendo "stricto sensu" tributaria, è certamente "fiscale" ed altrettanto certamente non è "privatistica", retta, come è, da principi e regole non dissimili da quelli che presiedono la "tassa"».

    Considerato che il Tribunale ordinario di Roma dubita, in riferimento agli artt. 102, secondo comma, e 25, primo comma, della Costituzione, della legittimità dell'art. 2 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) - come modificato dall'art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 -, nella parte in cui stabilisce, nel secondo periodo del comma 2, che appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie relative alla debenza del canone per l'occupazione di spazi ed aree pubblici (COSAP);

    che questa Corte, con la sentenza n. 64 del 2008, successiva alla pronuncia dell'ordinanza di rimessione, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di detto art. 2, comma 2, secondo periodo, proprio nella parte in cui stabilisce che «Appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie relative alla debenza del canone per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche previsto dall'articolo 63 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni»;

    che, una volta dichiarata l'illegittimità costituzionale - a séguito della citata sentenza - della denunciata norma attributiva alla giurisdizione tributaria delle controversie in tema di canone per l'occupazione di spazi ed aree pubblici (COSAP), la questione di costituzionalità relativa alla medesima norma, sollevata dal rimettente Tribunale ordinario di Roma, è divenuta priva di oggetto e, pertanto, deve essere dichiarata manifestamente inammissibile;

    che a tale conclusione si giunge in considerazione del fatto che la questione in esame riguarda la stessa norma già dichiarata incostituzionale con la richiamata sentenza n. 64 del 2008 e quindi, in forza dell'efficacia ex tunc di tale pronuncia di illegittimità, è preclusa al giudice a quo una nuova valutazione della perdurante rilevanza della sollevata questione, valutazione che sola potrebbe giustificare la restituzione degli atti al giudice rimettente (ex multis, ordinanze n. 290 e n. 34 del 2002; n. 575 del 2000; n. 525 del 1995; n. 233 del 1995; n. 171 del 1992; n. 246 del 1991).

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 199 1, n. 413) - come modificato dall'art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 - sollevata, in riferimento agli artt. 25, primo comma, e 102, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedente

ORDINANZA N. 270

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2 e 2-bis della legge 12 giugno 1990, n. 146 (Norme sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell'attuazione della legge), promosso con ordinanza del 15 dicembre 2006 dal Tribunale di Pesaro nel procedimento penale a carico di Roberto Marzocco, iscritta al n. 673 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 2007.

      Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 25 giugno 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella.

    Ritenuto che, con ordinanza del 15 dicembre 2006, il Tribunale di Pesaro ha sollevato, con riferimento agli articoli 3, 40, 39 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 2 e 2-bis della legge 15 giugno 1990, n. 146 (Norme sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell'attuazione della legge), nelle parti in cui non prevedono l'imposizione a carico degli avvocati che intendon o astenersi dalle udienze, in adesione ad astensioni collettive proclamate dagli organismi sindacali dell'Avvocatura, di oneri economici equiparabili alla mancata percezione del salario o dello stipendio dal lavoratore dipendente;

    che il rimettente riferisce: che il difensore dell'imputato ha aderito all'astensione collettiva nazionale dalle udienze proclamata dall'Organismo Unitario dell'Avvocatura per i giorni 14, 15 e 16 dicembre 2007; che è stato nominato un difensore di ufficio, in sostituzione del difensore di fiducia, ex art. 97, quarto comma, del codice di procedura penale;

    che questa Corte, con sentenza n. 171 del 1996, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, commi 1 e 5, della legge n. 146 del 1990, nella parte in cui non prevedeva, in caso di astensione collettiva dall'attività giudiziaria degli avvocati e dei procuratori legali, l'obbligo di un congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale dell'astensione né prevedeva gli strumenti idonei a individuare e assicurare le prestazioni essenziali, nonché le procedure e le misure conseguenziali nell'ipotesi di inosservanza;

    che nell'attuale disciplina dell'astensione collettiva degli avvocati dalle udienze residuerebbero elementi di contrasto con principi costituzionali, che, in caso di dichiarazione di illegittimità, comporterebbero l'illiceità dell'astensione collettiva proclamata e, conseguentemente, l'inammissibilità del rinvio del processo ad altra udienza;

    che - prosegue il rimettente - secondo la sentenza n. 171 del 1996, per quanto l'astensione collettiva dalle udienze promossa dalle organizzazioni forensi non sia riconducibile alla nozione di sciopero, nondimeno alla stessa deve ritenersi applicabile in parte qua la disciplina della legge n. 146 del 1990;</ SPAN>

    che, ancora secondo il rimettente, presupposto logico dell'applicazione della disciplina dello sciopero nei servizi pubblici essenziali all'astensione degli avvocati dalle udienze è il fatto che tale astensione presenta gli elementi essenziali dello sciopero, tra i quali la perdita, per il singolo lavoratore, della retribuzione per tutta la durata dello sciopero laddove l'astensione dalle udienze non costerebbe nulla all'avvocato; che tutto ciò determinerebbe l'illegittimità costituzionale della legge n. 146 del 1990 nella parte in cui, per effetto della sentenza n. 171 del 1996 della Corte costituzionale, disciplina, oltre all'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, l'esercizio del diritto di astensione dalle udienze proclamato dalle organizzazio ni sindacali degli avvocati, senza prevedere a carico degli avvocati oneri economici;

    che, a giudizio del rimettente, il fatto che gli avvocati non siano lavoratori dipendenti ma liberi professionisti impone la previsione legislativa dell'obbligo, a carico dell'avvocato che intenda astenersi dall'udienza, di versare ad un fondo apposito, costituito eventualmente presso l'amministrazione della giustizia, in quanto danneggiata dall'astensione, una somma corrispondente al valore-udienza, da determinarsi per legge in relazione alla natura dell'attività giudiziaria in concreto mancata per effetto dell'astensione, o comunque la previsione di strumenti che consentano di equiparare in concreto, sotto il profilo economico, l'astensione dell'avvocato a quella del lavoratore dipendente;

    che, aggiunge il giudice a quo, la mancata previsione legislativa di siffatto obbligo sarebbe in contrasto con gli articoli 3, 40, 39 e 97 della Costituzione: la violazione dell'art. 3 discenderebbe dalla macroscopica e irragionevole disparità di trattamento tra situazioni analoghe con riferimento sia alla condotta (astensione dalle udienze) che agli effetti (turbativa dell'amministrazione della giustizia), a causa delle diverse condizioni personali e sociali dei soggetti che si astengono dalle udienze, lavoratori autonomi gli avvocati, lavoratori dipendenti i magistrati e il personale amministrativo; la violazione dell'art. 40 Cost. si concretizzerebbe nella equiparazione allo sciopero di una attività priva di un elemento essenzia le, inscindibile dalla nozione storica e giuridica dello sciopero; la violazione dell'art. 39 sarebbe insita nella disparità di trattamento riservato dalla legge n. 146 del 1990 alle attività sindacali comportanti l'astensione dalle udienze poste in essere dalla organizzazione degli avvocati rispetto a quelle poste in essere dalle organizzazioni dei magistrati e del personale amministrativo; la violazione dell'art. 97 conseguirebbe, infine, al fatto che ogni astensione determina il rinvio di processi e di udienze, anche a data lontana di mesi e talora di anni, e sconvolge i calendari delle udienze;

    che, intervenuto nel giudizio, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata, sottolineando in primo luogo che il rimettente avrebbe del tutto omesso la motivazione circa la rilevanza della questione in relazione all'art. 2 della legge n. 146 del 1990, a suo giudizio inapplicabile alla fattispecie;

      che, secondo la difesa erariale, il rimettente avrebbe poi omesso di illustrare le ragioni per cui la regolamentazione dell'astensione collettiva dalle udienze, prevista dal predetto articolo e affidata alla Commissione di Garanzia di cui all'art. 12 della legge citata, non consentirebbe di ritenere superati gli evidenziati profili di incostituzionalità; o, in ogni caso, le ragioni per le quali egli non abbia ritenuto di disapplicare direttamente la regolamentazione provvisoria adottata dalla Commissione di Garanzia, di rango sub primario;

      che l'Avvocatura dello Stato sottolinea altresì l'inammissibilità della questione per il carattere additivo della invocata pronuncia, mentre, nel merito, evidenzia l'infondatezza della questione, per l'erroneità del presupposto logico da cui parte il rimettente, ossia l'equiparazione dell'astensione degli avvocati allo sciopero dei lavoratori subordinati.

      Considerato che il Tribunale di Pesaro dubita, con riferimento agli articoli 3, 40, 39 e 97 della Costituzione, della legittimità costituzionale degli articoli 2 e 2-bis della legge 15 giugno 1990, n. 146 (Norme sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell'attuazione della legge), nelle parti in cui non prevedono, a carico degli avvocati che intendono astenersi dalle udienze, in adesione ad astensi oni collettive proclamate dagli organismi sindacali dell'Avvocatura, l'imposizione di oneri economici equiparabili alla mancata percezione della retribuzione da parte del lavoratore dipendente;

      che le due norme vengono censurate senza che il rimettente specifichi, se non a titolo meramente esemplificativo, la natura, le modalità di pagamento e la destinazione degli oneri che dovrebbero essere imposti;

      che, in tal modo, lo stesso rimettente, sostanzialmente, invoca una sentenza additiva, in una materia riservata alla discrezionalità del legislatore, proprio in virtù della varietà e pluralità delle soluzioni possibili (in tal senso, ex plurimis, ordinanze n. 380 del 2006, n. 199 e n. 225 del 2007);

      che la questione è manifestamente inammissibile per le ragioni già indicate nell'ordinanza n. 116 del 2008 di questa Corte che ha esaminato identica questione sollevata dal medesimo rimettente.

      Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

      dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli articoli 2 e 2-bis della legge 15 giugno 1990, n. 146 (Norme sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell'attuazione della legge), sollevata dal Tribunale di Pesaro, in riferimento agli articoli 3, 39, 40 e 97 della Costituzione, con l'ordinanza in epigrafe.

      Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 7 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA



 
    I testi delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale, trasmessi dalla newsletter "Palazzo della Consulta" sono offerti alla consultazione per fini esclusivamente di informazione.

    Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16 marzo 1956).

   Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale su quello qui riportato, in caso di divergenza.