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Anno III n. 20 del 14/05/2008 | www.cortecostituzionale.it |
Deposito del 14/05/2008 (dalla 130 alla 141) |
S.130/2008 del 05/05/2008 Camera di Consiglio del 12/03/2008, Presidente BILE, Relatore DE SIERVO Norme impugnate: Art. 2, c. 1°, del decreto legislativo 31/12/1992, n. 546, come sostituito dall'art. 12, c. 2°, della legge 28/12/2001, n. 448. Oggetto: Giurisdizioni speciali - Giurisdizione tributaria - Controversie riguardanti le sanzioni irrogate dall'Agenzia delle Entrate per l'impiego di lavoratori non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria - Attribuzione alla giurisdizione tributaria di tutte le controversie aventi ad oggetto le sanzioni amministrative, comunque irrogate da uffici finanziari, in linea con l'indirizzo interpretativo seguito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione e assunto come 'diritto vivente' - Estraneità della materia delle sanzioni concernenti l'impiego di lavoratori irregolari. all'ambito oggettivo della giurisdizione tributaria Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale Atti decisi: ord. 621, 622 e 702/2007 |
S.131/2008 del 05/05/2008 Udienza Pubblica del 01/04/2008, Presidente BILE, Relatore MAZZELLA Norme impugnate: Artt. 5, 6 e 8 della legge della Regione Calabria 10/01/2007, n. 4. Oggetto: Cooperazione allo sviluppo e solidarietà internazionale - Norme della Regione Calabria -Definizione degli obiettiv i e modi di intervento anche in ipotesi di emergenza, impiego diretto di risorse, umane e finanziare, in progetti destinati ad offrire vantaggi socio-economici alle popolazioni e agli Stati beneficiari. Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale - non fondatezza Atti decisi: ric. 15/2007 |
S.132/2008 del 05/05/2008 Udienza Pubblica del 01/04/2008, Presidente BILE, Relatore TESAURO Norme impugnate: Art. 1, c. 69°, della legge 23/08/2004, n. 239. Oggetto: Energia - Attività di distribuzione del gas - Regime transitorio degli affidamenti e concessioni - Previsione con norma di interpretazione autentica della salvezza della fa coltà di riscatto anticipato, ove stabilita nei relativi atti di concessione o affidamento. Dispositivo: non fondatezza Atti decisi: ord. 708/2007 |
S.133/2008 del 05/05/2008 Udienza Pubblica del 01/04/2008, Presidente BILE, Relatore NAPOLITANO Norme impugnate: Legge 27/12/2006 n. 296 (legge finanziaria 2007), discussione limitata all'art. 1, c. 892°, 893°, 894° e 895°. Oggetto: Amministrazione pubblica - Norme della legge finanziaria 2007 - Misure per la realizzazione su tutto il territorio nazionale dei progetti per la "Società dell'informazione" e Fondo per il sostegno agli investimenti per l'innovazione negli enti locali - De terminazione delle modalità di realizzazione degli interventi e di erogazione dei finanziamenti con atti ministeriali. Dispositivo: non fondatezza - inammissibilità Atti decisi: ric. 14/2007 |
S.134/2008 del 05/05/2008 Udienza Pubblica del 01/04/2008, Presidente BILE, Relatore DE SIERVO Conflitto: Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati 22/11/2005. Oggetto: Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento penale a carico dell'on. Alberto Di Luca per diffamazione a mezzo stampa nei confronti del giudice Maria Clementina Forleo - Deliberazione di insindacabil ità della Camera dei deputati. Dispositivo: accoglie il ricorso Atti decisi: confl. pot. mer. 4/2006 |
S.135/2008 del 05/05/2008 Udienza Pubblica del 15/04/2008, Presidente BILE, Relatore NAPOLITANO Conflitto: Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione del Senato della Repubblica 30/01/2007. Oggetto: Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento penale, per il reato di diffamazione aggravata, a carico del senatore Raffaele Iannuzzi, per le opinioni da questi espresse, in un articolo pubblicato su un periodico, nei confronti del defunto sindacalista Domenico Geraci - Deliberazione di i nsindacabilità del Senato della Repubblica. Dispositivo: accoglie il ricorso Atti decisi: confl. pot. mer. 8/2007 |
S.136/2008 del 05/05/2008 Camera di Consiglio del 16/04/2008, Presidente BILE, Relatore SILVESTRI Norme impugnate: Art. 157, c. 8° bis, del codice di procedura penale, aggiunto dall'art. 2, c. 1°, del decreto legge 1/02/2005, n. 17, convertito con modificazioni in legge 22/04/2005, n. 60. Oggetto: Processo penale - Notificazioni all'imputato non detenuto - Notificazioni successive - Notificazione del decreto di citazione a giudizio - Prevista esecuzione, in caso di nomina di difensore di fiducia, mediante consegna a i difensori. Dispositivo: non fondatezza Atti decisi: ord. 447/2006 e 617/2007 |
O.137/2008 del 05/05/2008 Camera di Consiglio del 02/04/2008, Presidente BILE, Relatore MAZZELLA Norme impugnate: Art. 3, c. 1°, della legge 19/02/1981, n. 27. Oggetto: Ordinamento giudiziario - Indennità giudiziaria - Disciplina antecedente alle modifiche di cui all'art. 1, comma 325, della legge n. 311/2004 - Spettanza ai magistrati assenti dal lavoro per maternità e puerperio - Esclusione. Dispositivo: manifesta infondatezza Atti decisi: ord. 703, 704, 705 e 706/2007 |
O.138/2008 del 05/05/2008 Camera di Consiglio del 02/04/2008, Presidente BILE, Relatore NAPOLITANO Norme impugnate: Art. 4, c. 1°, lett. a), del decreto legislativo 28/08/2000, n. 274, in combinato disposto con l'art. 74 del codice di procedura penale e l'art. 7 del codice di procedura civile. Oggetto: Processo penale - Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace - Possibilità dell'esercizio dell'azione civile oltre i limiti di competenza per valore dell'omologo giudice civile. Dispositivo: manifesta infondatezza Atti decisi: ord. 681/2007 |
O.139/2008 del 05/05/2008 Udienza Pubblica del 15/04/2008, Presidente BILE, Relatore AMIRANTE Norme impugnate: Art. 1 del decreto legge 08/02/2003, n. 18, convertito con modificazioni in legge 07/04/2003, n. 63, sostitutivo dell'art. 113, c. 2°, del codice di procedura civile. Oggetto: Procedimento civile - Procedimento davanti al giudice di pace - Controversie relative ai contratti conclusi mediante moduli o formulari (cd. contratti di massa) - Giudizio di equità nelle cause di valore non eccedente i millecento euro - Esclusione. Dispositivo: manifesta infondatezza Atti decisi: ord. 505/2007 |
O.140/2008 del 05/05/2008 Udienza Pubblica del 15/04/2008, Presidente BILE, Relatore DE SIERVO Norme impugnate: Disegno di legge costituzionale, approvato con deliberazione Consiglio dei ministri nella seduta n. 45 del 5/4/2007; relativo atto di presentazione alla Camera dei deputati, da parte del Ministro dell'Interno il 17/4/2007 (Atto Camera n. 2525); art. 45, c. 4°, della legge 25/5/1970, n. 352. Disegno di legge costituzionale, approvato con deliberazione Consiglio dei ministri nella seduta n. 52 del 23/5/2007; relativo atto di presentazione alla Camera dei deputati, da parte del Ministro dell'Interno il 4/6/2007 (Atto Camera n. 2727); art. 45, c. 4°, della legge 25/5/1970, n. 352. Oggetto: Regioni - Variazioni territoriali - Distacco del comune di Noasca dalla Regione Piemonte e sua aggregazione alla Region e Valle d'Aosta - Distacco del comune di Carema dalla Regione Piemonte e sua aggregazione alla Regione Valle d'Aosta - Lamentata omessa assunzione del parere del Consiglio regionale della Valle d'Aosta ai sensi dell'art. 132, secondo comma, della Costituzione, e mancato intervento, per assenza di comunicazione, del Presidente della Regione alla seduta del Consiglio dei ministri ai sensi dello statuto. Regioni - Variazioni territoriali - Proposta per il distacco-aggregazione di un Comune da una Regione ad un'altra, approvata mediante referendum - Obbligo in capo al Ministro dell'interno di presentazione alla Camera dei deputati di un conforme disegno di legge costituzionale o ordinario - Richiesta della Regione Valle d'Aosta alla Corte costituzionale di autorimessione di questione incidentale. Dispositivo: cessata materia del contendere Atti decisi: confl. enti 5 e 6/2007 |
O.141/2008 del 05/05/2008 Camera di Consiglio del 16/04/2008, Presidente BILE, Relatore TESAURO Conflitto: Ammissibilità di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati 02/02/2005. Oggetto: Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento penale per il reato di diffamazione a mezzo della stampa e della televisione a carico dell'on. Guglielmo Rositani per le opinioni espresse nei confronti di Mauro Meli, all'epoca dei fatti sovrintendente del Teatro Lirico di Cagliari - Deliberazione di insindacabilità della Camera dei deputati. Dispositivo: ammissibile Atti decisi: confl. pot. amm. 17/2007 |
ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'articolo 2, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), come sostituito dall'articolo 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448 concernente «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2002)», promossi con ordinanze del 3 agosto 2006 (numero 2 ordinanze) dalla Commissione tributaria regionale dell'Emilia-Romagna e del 29 novembre 2006 dalla Commissione tributaria provinciale di Udine, rispettivamente iscritte ai nn. 621, 622 e 702 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 36 e 40, prima seri e speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 12 marzo 2008 il Giudice relatore Ugo De Siervo. Ritenuto in fatto 1. - Con due ordinanze di contenuto analogo pronunciate in data 3 agosto 2006 in due distinti procedimenti, la Commissione tributaria regionale dell'Emilia-Romagna ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 102, secondo comma, e VI disposizione transitoria della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della L. 30 dicembre 1991, n. 413), nella parte in cui non esclude dall a giurisdizione tributaria le controversie riguardanti le sanzioni di cui all'art. 3, comma 3, del decreto-legge 22 febbraio 2002, n. 12 (Disposizioni urgenti per il completamento delle operazioni di emersione di attività detenute all'estero e di lavoro irregolare), convertito in legge dall'art. 1 della legge 23 aprile 2002, n. 73. In entrambi i giudizi il rimettente è chiamato a decidere sull'appello proposto dall'Agenzia delle entrate, Ufficio di Ravenna, avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di quella città la quale aveva accolto il ricorso proposto da una società contro l'atto di irrogazione della sanzione amministrativa disposta nei suoi confronti per l'impiego di lavoratori non risultanti dalle scritture obbligatorie. La commissione tributaria ritiene pregiudiziale, rispetto all'esame del merito della controversia, verificare la sussistenza della propria giurisdizione in ordine alla applicazione delle sanzioni previste dall'art. 3 del decreto-legge n. 12 del 2002. Al riguardo ricorda che la Corte costituzionale, con le ordinanze n. 94, n. 93, n. 36 e n. 34 del 2006, ha dichiarato manifestamente inammissibili le numerose censure di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, sollevate dai giudici tributari in relazione alla attribuzione alla giurisdizione tributaria delle controversie in esame, perché non avevano previamente compiuto il tentativo di dare della disposizione censurata un'interpretazione «costituzionalmente corretta». Il giudice a quo, «pur dubitando della propria giurisdizione», dichiara di prendere atto della giurisprudenza della Corte di cassazione secondo la quale, benché la materia disciplinata dall'art. 3 del decreto-legge n. 12 del 2002 sia estranea rispetto a quella tributaria, sussiste la giurisdizione delle commissioni tributarie in relazione alle controversie in esame, in quanto l'art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992 attribuisce a detti organi le controversie concernenti le sanzioni amministrative comunque irrogate da uffici finanziari. La funzione nomofilattica attribuita alla Cassazione comporterebbe, infatti, che debba essere considerata come diritto vivente l'interpretazione della norma censurata data dalla suprema Corte, «esonerando la Commissione dall'obbligo di ricercare divergenti interpretazioni». Tuttavia, il rimettente ritiene che la disposizione censurata contrasti con l'art. 102, secondo comma, prima parte, e con la VI disposizione transitoria della Costituzione. La Corte costituzionale, infatti, ha affermato che il potere del legislatore di riordinare i giudici speciali ai sensi della VI disposizione transitoria della Costituzione incontra il duplice limite di non snaturare la materia attribuita alla loro rispettiva competenza e di assicurare la conformità a Costituzione. Pertanto, la giurisdizione tributaria dovrebbe essere limitata alla materia dei tributi. La sanzione di cui all'art. 3, comma 3, del decreto-legge n. 12 del 2002, invece, avrebbe per presupposto l'impiego di lavoratori dipendenti non risultanti dalle scritture obbligatorie e dunque l'inosservanza di norme «lavoristico-previdenziali». L'unico riferimento al campo tributario sarebbe costituito dalla attribuzione della competenza ad irrogare la sanzione agli uffici finanziari, elemento ritenuto dalla Cassazione sufficiente per radicare la giurisdizione tributaria. In tal modo, però, ad avviso del rimettente, sarebbe snaturata la funzione del giudice tributario, che verrebbe così trasformato «in giudice speciale dell'amministrazione tributaria, in palese violazione dell'art. 102 e VI disposizione transitoria Cost.». Inoltre, l'attribuzione a tale giudice della cognizione delle sanzioni amministrative in una materia sostanzialmente previdenziale sarebbe in contrasto con gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto irrazionale e lesiva del diritto di difesa del cittadino. Infatti, la controversia che avrebbe ad oggetto l'accertamento dell'esistenza di un rapporto di lavoro irregolare renderebbe necessaria una attività istruttoria basata essenzialmente sulla prova testimoniale, la quale, invece, non è consentita nel processo tributario. 2. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, la quale rileva innanzitutto come, successivamente alla pronuncia dell'ordinanza di rimessione, il decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito nella legge 4 agosto 2006, n. 248, ha profondamente modificato l'art. 3 del decreto-legge n. 12 del 2002, trasformando i criteri di determinazione della sanzione e assegnando la competenza ad irrogarla alla direzione provinciale de l lavoro territorialmente competente. Poiché tale ultima modifica determinerebbe la devoluzione delle controversie concernenti le sanzioni in esame al giudice del lavoro, si imporrebbe la restituzione degli atti al rimettente affinché valuti se ciò comporti uno spostamento della giurisdizione anche in relazione alla controversia al suo esame. Nel merito la questione sarebbe infondata. L'attribuzione alla giurisdizione tributaria delle controversie in esame troverebbe la propria giustificazione nella circostanza che la normativa di cui al decreto-legge n. 12 del 2002, avrebbe quale scopo ulteriore rispetto a quello di tutela del lavoratore, anche quello di consentire l'emersione del lavoro sommerso che «costituisce manifestazione di reddito certamente rilevante dal punto di vista tributario ai fini impositivi». Pertanto, non irragionevolmente, il legislatore avrebbe ritenuto prevalenti le finalità tributarie perseguite dalla disposizione e avrebbe perciò attribuito la giurisdizione al giudice tributario. Infondate sarebbero altresì le censure sollevate con riguardo agli artt. 3 e 24 Cost., dal momento che l'esperibilità di un'attività istruttoria piuttosto che di un'altra non è lesiva del diritto di difesa ove non impedisca sostanzialmente - come accade nel processo tributario - una difesa efficace. 3. - Con ordinanza in data 29 novembre 2006, la Commissione tributaria provinciale di Udine ha sollevato, in riferimento all'art. 102, secondo comma, e alla VI disposizione transitoria della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, del decreto legislativo n. 546 del 1992 nella parte in cui attribuisce alle commissioni tributarie la giurisdizione sulle controversie relative a sanzioni di natura non tributaria. Il rimettente premette di essere chiamato a decidere sul ricorso proposto da una società avverso l'atto di irrogazione di sanzioni emesso dall'Agenzia delle entrate di Gemona in relazione all'impiego di mano d'opera, formalmente alle dipendenze di altra società, ma di fatto utilizzata dalla ricorrente, in forza di apparente contratto di appalto. La Commissione tributaria ritiene pregiudiziale alla decisione sul ricorso la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992. Benché la Corte costituzionale, nelle ordinanze n. 35 e n. 34 del 2006, abbia invitato i giudici di merito a esplorare eventuali interpretazioni conformi a Costituzione, il giudice a quo ritiene che tale strada risulti ormai preclusa dall'orientamento espresso dalla giurisprudenza delle sezioni unite della Cassazione. Ciò posto, il rimettente afferma che non sarebbe consentito al legislatore espandere la giurisdizione speciale oltre l'ambito delle controversie tributarie, incontrando il limite posto dall'art. 102, secondo comma, Cost. il quale, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale, va interpretato in relazione alla VI disposizione transitoria. Questa, infatti, se autorizza la trasformazione dei giudici speciali preesistenti all'entrata in vigore della Costituzione, tuttavia non consente di snaturare le materie attribuite alla loro competenza. Tale limite sarebbe stato superato dalla disposizione censurata, la quale definirebbe l'ambito della giurisdizione delle commissioni tributarie non solo in base alla materia oggetto del contendere, ma anche con riferimento «al dato meramente soggettivo dell'ufficio preposto all'irrogazione della sanzione, a prescindere dalla natura, tributaria o meno, di quest'ultima». La rilevanza della questione - sostiene il rimettente - emergerebbe dalla circostanza che l'eventuale difetto di giurisdizione delle commissioni tributarie derivante dalla dichiarazione di incostituzionalità della norma precluderebbe qualunque decisione di merito nel giudizio a quo. 4. - È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, la quale chiede che venga disposta la restituzione degli atti al rimettente dal momento che, successivamente all'ordinanza di rimessione, l'art. 3 del decreto-legge n. 12 del 2002 sarebbe stato modificato dal decreto-legge n. 223 del 2006. Detta ordinanza, infatti, pur essendo stata depositata il 29 novembre 2006, sarebbe stata deliberata nella camera di consiglio dell'11 aprile 2006, dunque anteriormente al mutamento del quadro normativo di riferimento. Per effetto delle modifiche introdotte dal citato decreto, attualmente l'art. 3, comma 5, del decreto-legge n. 12 del 2002 attribuisce la competenza ad irrogare la sanzione alla direzione provinciale del lavoro. Secondo l'Avvocatura, ciò potrebbe determinare uno spostamento della competenza giurisdizionale anche in relazione alle controversie già pendenti. Nel merito la questione sarebbe infondata per le medesime ragioni già espresse nell'atto di intervento relativo al giudizio promosso dalla Commissione tributaria regionale dell'Emilia-Romagna. Considerato in diritto 1. - La Commissione tributaria regionale dell'Emilia-Romagna dubita della legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), nella parte in cui - secondo il diritto vivente - «non esclude dalla giurisdizione tributaria le controversie riguardanti le sanzioni» previste dall'art. 3, comma 3, del decreto-legge 22 febbraio 2002, n. 12 (Disposizioni urgenti per il completamento delle operazioni di emersione di attività detenute all'estero e di lavoro irregolare) per l'impiego di lavoratori dipendenti non risultanti dalle scritture o altra documentazione obbligatorie. In particolare, il rimettente ritiene che la disposizione censurata violi l'art. 102 e la VI disposizione transitoria della Costituzione in quanto assegna alla giurisdizione delle Commissioni tributarie controversie che «nulla hanno a che fare con i tributi», sulla base della mera attribuzione ad un organo finanziario della competenza ad irrogare le sanzioni, così trasformando il giudice tributario in giudice speciale dell'amministrazione tributaria. La disposizione censurata violerebbe, inoltre, gli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal momento che sarebbe irrazionale e lesiva del diritto di difesa del cittadino l'attribuzione al giudice tributario della cognizione di controversie che, avendo ad oggetto l'accertamen to dell'esistenza di un rapporto di lavoro irregolare, richiederebbero lo svolgimento di un'attività istruttoria basata sulla prova testimoniale, non consentita nel processo tributario. Anche la Commissione tributaria provinciale di Udine ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, in riferimento all'art. 102 e alla VI disposizione transitoria della Costituzione. Il rimettente censura la suddetta disposizione nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione del giudice tributario le controversie aventi ad oggetto le sanzioni amministrative comunque irrogate da uffici finanziari, «anche a prescindere dalla natura tributaria degli illeciti sanzionati e delle relative sanzioni». 2. - Preliminarmente, deve essere disattesa la richiesta di restituzione degli atti ai rimettenti formulata dall'Avvocatura dello Stato in ragione del sopravvenuto mutamento del quadro normativo di riferimento. L'art. 36-bis del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), introdotto in sede di conversione dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, ha modificato in più parti l'art. 3 del decreto-legge n. 12 del 2002, tra l'altro attribuendo alla direzione provinciale del lavoro - anziché alla Agenzia delle entrate - la competenza ad irrogare la sanzione ivi prevista per l'impiego di lavoratori non risultanti dalle scritture obbligatorie. Tale modifica normativa è entrata in vigore il 12 agosto del 2006, cioè in data successiva alle ordinanze di rimessione della Commissione tributaria regionale dell'Emilia-Romagna emesse in data 3 agosto 2006. Ritiene l'Avvocatura che la modifica in questione avrebbe determinato la devoluzione delle controversie relative alle sanzioni per l'impiego di lavoratori irregolari alla giurisdizione del giudice ordinario e che pertanto dovrebbe essere disposta la restituzione degli atti al rimettente.
In realtà,
ai sensi dell'art. 5 del codice di procedura civile, la giurisdizione si
determina «con riguardo alla legge vigente (.) al momento della
proposizione della domanda e non hanno rilevanza rispetto ad esse i
successivi mutamenti della legge». Conseguentemente, la perpetuatio
jurisdictionis impedisce che la modifica normativa in base alla
quale, secondo l'Avvocatura, si determina l'effetto di attribuire al
giudice ordinario la giurisdizione sulle controversie in questione,
incida sui giudizi a quibus, in quanto al momento della
proposizione della domanda sussisteva - secondo la prospettazione del
rimettente - la giurisdizione del giudice tributario (ordinanza n. 297
del 2007). Quanto all'ordinanza di rimessione della Commissione tributaria provinciale di Udine, essa risulta pubblicata, mediante deposito in cancelleria, in data 29 novembre 2006, dunque successivamente alla modifica dell'art. 3, comma 5, del decreto-legge n. 12 del 2002. Di conseguenza, non vi è alcun mutamento del quadro normativo successivo alla proposizione della questione di legittimità costituzionale, che abbia effetti sui giudizi a quibus e possa perciò giustificare una pronuncia di restituzione degli atti ai rimettenti. 3. - La questione sollevata dai rimettenti in riferimento all'art. 102, secondo comma, e alla VI disposizione transitoria della Costituzione è fondata nei termini di seguito specificati. L'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992 individua l'oggetto della giurisdizione tributaria stabilendo che appartengono ad essa «tutte le controversie aventi ad oggetto i tributi di ogni genere e specie comunque denominati, compresi quelli regionali, provinciali e comunali e il contributo per il Servizio sanitario nazionale, nonché le sovrimposte e le addizionali». Stabilisce, inoltre, che appartengono alla medesima giurisdizione «le sanzioni amministrative, comunque irrogate da uffici finanziari, gli interessi e ogni altro accessorio». La giurisprudenza di legittimità - come rilevato dai rimettenti - interpreta tale disposizione nel senso di attribuire alla giurisdizione tributaria non solo le controversie concernenti i tributi, ma anche, in via residuale, le controversie concernenti le sanzioni irrogate in relazione ad infrazioni connesse alla violazione di norme le quali non necessariamente attengono a tributi. In tal caso, sufficiente a radicare la giurisdizione tributaria, in forza dell'esplicito disposto dell'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, è ritenuta la natura finanziaria dell'organo competente ad irrogare la sanzione. 3.1 - Questioni analoghe a quelle in esame sono già state sottoposte al vaglio di questa Corte la quale le ha dichiarate inammissibili, dal momento che i rimettenti non avevano verificato la possibilità di dare dell'art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992 un'interpretazione conforme a Costituzione, la quale valorizzasse «la natura tributaria del rapporto cui deve ritenersi imprescindibilmente collegata la giurisdizione del giudice tributario», limitandosi, invece, a considerare unicamente il profilo soggettivo concernente la natura dell'organo competente ad irrogare la sanzione (ordinanza n. 34 del 2006; si vedano, inoltre, le ordinanze n. 395 del 2007; n. 94 e n. 35 del 2006). La Commissione tributaria regionale dell'Emilia-Romagna e la Commissione tributaria provinciale di Udine, pur conoscendo le citate decisioni, ritengono di doversi adeguare all'interpretazione data dalla Corte di cassazione, a sezioni unite, nell'ordinanza 10 febbraio 2006, n. 2888, ritenendola, tuttavia, in contrasto con l'art. 102, secondo comma, della Costituzione. In particolare, il giudice di legittimità ha ritenuto che appartengono alla giurisdizione delle Commissioni tributarie le controversie concernenti l'irrogazione della sanzione per l'impiego di lavoratori dipendenti non risultanti dalle scritture o altra documentazione obbligatorie prevista dall'art. 3, comma 3, del decreto-legge n. 12 del 2002. Infatti, poiché il comma 5 dell'art. 3 citato - nel testo originario - stabilisce che «competente alla irrogazione della sanzione amministrativa di cui al comma 3 è l'Agenzia delle entrate», troverebbe applicazione l'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, secondo il quale rientrano nella giurisdizione tributaria le sanzioni comunque irrogate da uffici finanziari. A tale conclusione la Cassazione è pervenuta pur affermando espressamente che le controversie relative alle sanzioni di cui all'art. 3 del decreto-legge n. 12 del 2002 non hanno natura tributaria, in considerazione delle finalità perseguite da tale normativa, volta a favorire l'emersione del lavoro irregolare. Tale interpretazione della disposizione censurata è stata confermata dalla Suprema Corte anche in decisioni successive a quella richiamata dai rimettenti, e successive, altresì, alle ordinanze di questa Corte sopra citate. 3.2 - Questa Corte ha, anche di recente, ribadito che «la giurisdizione tributaria deve essere considerata un organo speciale di giurisdizione preesistente alla Costituzione» (sentenza n. 64 del 2008). Ha, poi, riconosciuto che l'oggetto di tale giurisdizione, così come la disciplina degli organi speciali, ben possano essere modificati dal legislatore ordinario, il quale, tuttavia, incontra precisi limiti costituzionali consistenti nel «non snaturare (come elemento essenziale e caratterizzante la giurisprudenza speciale) le materie attribuite» a dette giurisdizioni speciali e nell'«assicurare la conformità a Costituzione» delle medesime giurisdizioni (ordinanza n. 144 del 1998). «Da tale giurisprudenza si desume che il menzionato duplice limite opera con riferimento ad ogni m odificazione legislativa riguardante l'oggetto delle giurisdizioni speciali preesistenti alla Costituzione (sia in sede di prima revisione, sia successivamente) e, altresì, che il mancato rispetto del limite di "non snaturare" le materie originariamente attribuite alle indicate giurisdizioni si traduce nell'istituzione di un "nuovo" giudice speciale, espressamente vietata dall'art. 102 Cost. L'identità della "natura" delle materie oggetto delle suddette giurisdizioni costituisce, cioè, una condizione essenziale perché le modifiche legislative di tale oggetto possano qualificarsi come una consentita "revisione" dei giudici speciali e non come una vietata introduzione di un "nuovo" giudice speciale» (ancora sentenza n. 64 del 2008). Con specifico riguardo alla giurisdizione tributaria, questa Corte ha poi precisato con riguardo a questioni di legittimità analoghe a quelle in esame, che essa «deve ritenersi imprescindibilmente collegata» alla «natura tributaria del rapporto» e che la medesima non può essere ancorata «al solo dato formale e soggettivo, relativo all'ufficio competente ad irrogare la sanzione» (ordinanza n. 34 del 2006). Sulla base di tali considerazioni, nella più volte citata sentenza n. 64 del 2008 si è affermato che «l'attribuzione alla giurisdizione tributaria di controversie non aventi natura tributaria comporta la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali. Tale illegittima attribuzione può derivare, direttamente, da una espressa disposizione legislativa che ampli la giurisdizione tributaria a materie non tributarie ovvero, indirettamente, dall'erronea qualificazione di "tributaria" data dal legislatore (o dall'interprete) ad una particolare materia (come avviene, ad esempio, allorché si riconducano indebitamente alla materia tributaria prestazioni patrimoniali imposte di natura non tributaria)». 3.3 - Non c'è dubbio che la lettura che dell'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, dà il diritto vivente, finisce per attribuire alla giurisdizione tributaria le controversie relative a sanzioni unicamente sulla base del mero criterio soggettivo costituito dalla natura finanziaria dell'organo competente ad irrogarle e, dunque, a prescindere dalla natura tributaria del rapporto cui tali sanzioni ineriscono. Essa, dunque, si pone in contrasto con l'art. 102, secondo comma, e con la VI disposizione transitoria della Costituzione, risolvendosi nella creazione di un nuovo giudice speciale. 4. - Resta assorbita la questione sollevata dalla Commissione tributaria regionale dell'Emilia-Romagna con riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), nella parte in cui attribuisce alla giurisdizione tributaria le controversie relative alle sanzioni comunque irrogate da uffici finanziari, anche laddove esse conseguano alla violazione di disposizioni non aventi natura tributaria. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Ugo DE SIERVO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 14 maggio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale avente ad oggetto gli artt. 5, 6 e 8 della legge della Regione Calabria 10 gennaio 2007, n. 4 (Cooperazione e relazioni internazionali della Regione Calabria), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri notificato il 12 marzo 2007, depositato in cancelleria il 14 marzo 2007 ed iscritto al n. 15 del registro ricorsi 2007. Visto l'atto di costituzione della Regione Calabria; udito nell'udienza pubblica del 1° aprile 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella; uditi l'avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Giuseppe Naimo per la Regione Calabria. Ritenuto in fatto 1. - Con ricorso notificato il 12 marzo 2007 e depositato in cancelleria il 14 marzo successivo, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, con riferimento all'art. 117, secondo comma, lettera a), terzo comma, della Costituzione, in relazione alla legge statale 26 febbraio 1987, n. 49 (Nuova disciplina della cooperazione dell'Italia con i Paesi in via di sviluppo), questione di legittimità costituzionale degli artt. 5, 6 e 8 della legge della Regione Calabria 10 gennaio 2007, n. 4 (Cooperazione e relazioni internazionali della Regione Calabria). Secondo il ricorrente, la legge in esame, che regola azioni ed interventi di solidarietà internazionale della Regione Calabria, eccede la competenza legislativa concorrente attribuita alle Regioni dall'art. 117, terzo comma, Cost. in materia di «rapporti internazionali e con l'Unione europea». La materia della cooperazione allo sviluppo, attenendo, alla cooperazione internazionale, quale «parte integrante della politica estera dell'Italia» (come stabilito dall'art. 1, comma 1, della legge n. 49 del 1987), rientrerebbe nella competenza esclusiva statale ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera a), Cost. Per la difesa erariale, la legge presenterebbe diversi profili di illegittimità costituzionale. In primo luogo, gli artt. 5, 6 e 8, nello stabilire gli obiettivi e i modi di intervento della cooperazione internazionale anche in ipotesi di emergenza, e nel prevedere, altresì, l'impiego diretto di risorse, umane e finanziarie, in progetti destinati a offrire vantaggi socio-economici alle popolazioni e agli Stati beneficiari, autorizzerebbero e disciplinerebbero una serie di attività tipiche della politica estera, riservata in modo esclusivo allo Stato dall'art. 117, secondo comma, lettera a), Cost. In secondo luogo, le norme impugnate si porrebbero inoltre in contrasto con l'art. 2, comma 2, della legge n. 49 del 1987, che rimette al Ministro degli affari esteri, tra l'altro, «la scelta delle priorità delle aree geografiche e dei singoli Paesi, nonché dei diversi settori nel cui ambito dovrà essere attuata la cooperazione allo sviluppo e la indicazione degli strumenti di intervento». Riferisce la difesa erariale che in tal senso si sarebbe pronunciata anche la Corte costituzionale, che, con la sentenza n. 211 del 2006, ha giudicato incostituzionali, in quanto incidenti nella materia della «politica estera», alcune disposizioni della legge della Provincia di Trento 15 marzo 2005, n. 4 (Azioni ed interventi di solidarietà internazionale della Provincia autonoma di Trento) aventi contenuto a suo dire analogo a quello degli articoli della legge in es ame sopra censurati. 2.- Si è costituita in giudizio la Regione Calabria e ha eccepito l'inammissibilità del ricorso, perché la motivazione dello stesso sarebbe eccessivamente generica, abbracciando ambiti eterogenei dell'intervento regionale, per di più privi di rilievo internazionale. Nel merito, la Regione ha dedotto che, diversamente da quanto sostenuto dal Presidente del Consiglio e da quanto rilevato dalla Corte costituzionale con riferimento alla legge provinciale di Trento n. 4 del 2005, la legge calabrese prevede delle attività che, ben lungi dall'essere autonome e scoordinate rispetto alla politica estera nazionale, si muovono all'interno degli obiettivi e degli strumenti della stessa, potendo dunque ritenersi ricomprese nei ristretti confini del "potere estero" delle Regioni, previsto dall'art. 117, quinto comma, della Costituzione. 3. - Con memoria depositata il 13 marzo 2008, l'Avvocatura generale ha contestato l'eccezione di genericità della censura sollevata dalla Regione Calabria, sostenendo che le norme impugnate riguarderebbero nella totalità delle loro previsioni e articolazioni l'attività di cooperazione internazionale che la Corte costituzionale ha già ritenuto far parte della politica estera dello Stato. 4. - Con memoria depositata il 19 marzo 2008, la Regione Calabria ha insistito nella sollevata eccezione di inammissibilità e, nel merito, nella richiesta di rigetto della questione. Considerato in diritto 1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, dubita, con riferimento all'art. 117, secondo comma, lettera a), terzo comma, della Costituzione, in relazione alla legge statale 26 febbraio 1987, n. 49 (Nuova disciplina della cooperazione dell'Italia con i Paesi in via di sviluppo), della legittimità costituzionale degli artt. 5, 6 e 8 della legge della Regione Calabria 10 gennaio 2007, n. 4 (Cooperazione e relazioni internazionali della Regione Calabria). La legge della Regione Calabria n. 4 del 2007 contiene una disciplina generale dell'attività internazionale della Regione. Essa, in particolare, individua i Paesi destinatari degli interventi regionali (art. 1, comma 1) e le finalità generali dell'attività internazionale della Regione (art. 1, comma 2). Prevede, poi, che tale attività si articola in cinque diversi tipi di interventi: la «attività di cooperazione con Regioni e territori dei paesi membri dell'Unione Europea» (art. 3); la «attività di collaborazione e partenariato istituzionale e relazioni istituzionali» (art. 4); 3) la «attività di cooperazione internazionale» (art. 5); la «attività di cooperazione umanitaria e di emergenza» (art. 6); la «internazionalizzazione del sistema economico-produttivo» (art. 7). Stabilisce, inoltre, che tu tte le descritte attività siano oggetto di un documento di indirizzo programmatico triennale approvato annualmente dal Consiglio regionale e di un piano operativo annuale di attuazione e che le funzioni amministrative di attuazione del piano regionale siano svolte dalla Giunta regionale (art. 8). Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l'art. 5, riguardante la «attività di cooperazione internazionale», l'art. 6, riguardante la «attività di cooperazione umanitaria e di emergenza», e l'art. 8, che disciplina la «programmazione degli interventi e modalità di attuazione», ritenendo che tali norme contrastino con l'art. 117, secondo comma, lettera a), della Costituzione, che attribuisce alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia della politica estera e richiamando, a sostegno delle proprie ragioni, la sentenza della Corte costituzionale n. 211 del 2006. 2. - La Regione ha eccepito l'inammissibilità del ricorso per genericità, poiché le norme impugnate riguarderebbero àmbiti di intervento eterogenei. L'eccezione non è fondata. Gli artt. 5 e 6 della legge regionale n. 4 del 2007 disciplinano ciascuno una categoria omogenea di interventi internazionali della Regione: rispettivamente, quelli di «cooperazione internazionale» e di «cooperazione umanitaria e di emergenza». Tali categorie sono accomunate, nella prospettazione dell'Avvocatura, dall'intrinseca attinenza alla materia della cooperazione allo sviluppo e, quindi, alla politica estera statale. La descrizione dei singoli interventi contenuta, rispettivamente, nel comma 4 dell'art. 5 e nel comma 3 dell'art. 6, non è altro, dunque, che l'elencazione delle possibili iniziative attuabili nell'ambito di tale materia. Il ricorrente deduce che le norme impugnate, nello stabilire gli obiettivi e i modi di intervento della cooperazione internazionale anche in ipotesi di emergenza, e nel prevedere, altresì, l'impiego diretto di risorse, umana e finanziaria, in progetti destinati a offrire vantaggi socio-economici alle popolazioni e agli Stati beneficiari, autorizzano e disciplinano una serie di attività tipiche della politica estera. In sostanza il ricorrente contesta in radice la competenza della Regione a disciplinare interventi che abbiano le caratteristiche descritte nel comma 1 dell'art. 5 e dell'art. 6. Il thema decidendum sottoposto alla Corte è, dunque, sufficientemente chiaro ed univoco. Esso consiste nella verifica dell'attinenza alla sfera di competenze regionali ovvero alla materia della "politica estera" delle attività di "cooperazione internazionale" e di "cooperazione umanitaria e di emergenza" così come definite negli artt. 5 e 6. 3. - Nel merito, le questioni sono in parte fondate. 3.1. - Deve premettersi che questa Corte ha affermato che «l'art. 117, comma secondo, lettera a), nel delineare la competenza legislativa spettante in via esclusiva allo Stato, sottolinea una dicotomia concettuale tra meri "rapporti internazionali" da un lato e "politica estera" dall'altro, che non si ritrova nel terzo comma dello stesso art. 117, che individua la competenza regionale concorrente in materia internazionale. La politica estera, pertanto, viene ad essere una componente peculiare e tipica dell'attività dello Stato, che ha un significato al contempo diverso e specifico rispetto al termine "rapporti internazionali". Mentre i "rapporti internazionali" sono astrattamente riferibili a singole relazioni, dotate di elementi di estraneità rispetto al nostro ordinamento, la "politica estera" concerne l'attività internazionale dello Stato unitariamente considerata in rapporto alle sue finalità ed al suo indirizzo» (sentenza n. 211 del 2006). In base a quanto affermato nella citata pronuncia, devono dunque ritenersi lesive della competenza statale in materia di politica estera le norme regionali che prevedano, in capo alla Regione, il potere di determinazione degli obiettivi di cooperazione internazionale e di interventi di emergenza nonché dei destinatari dei benefici sulla base di criteri fissati dalla stessa Regione. Tali norme, infatti, implicando l'impiego diretto di risorse, umane e finanziarie, in progetti destinati a offrire vantaggi socio-economici alle popolazioni e agli Stati beneficiari ed entrando in tal modo nella materia della cooperazione internazionale, finiscono con l'autorizzare e disciplinare una serie di attività di politica estera, riservata in modo esclusivo allo Stato. Alcune competenze contemplate negli articoli censurati riguardano, però, la materia della cooperazione allo sviluppo solo a livello di studio e di sensibilizzazione della pubblica opinione della Regione. Per il carattere di norme attinenti ad attività da svolgersi all'interno della Regione, esse non interferiscono con la politica estera statale. La legge regionale censurata, infatti, dà una definizione di cooperazione internazionale impropria e, sostanzialmente, più vasta di quella delineata nella sentenza n. 211 del 2006, facendovi rientrare anche iniziative e progetti volti a sostenere, in modo più generale, l'affermazione dei diritti dell'uomo e dei principi democratici all'interno della Regione ed all'estero. E', pertanto, indispensabile esaminare analiticamente le singole previsioni della le gge regionale, al fine di stabilire quali di esse riguardino la politica estera dello Stato. 3.2 - In tale prospettiva, sono senz'altro da considerare invasive della competenza statale le attività elencate alle lettere a), b) e c) del comma 4 dell'art. 5, le quali, riguardando aspetti della cooperazione allo sviluppo analoghi a quelli previsti dalla legge statale in materia, la crescita ed il consolidamento della democrazia e dello Stato di diritto nei Paesi interessati, la promozione e la salvaguardia dei diritti dell'uomo, interferiscono con la politica estera dello Stato. Analogamente, le competenze elencate nelle lettere i), j), k), l), m), o) e p) dello stesso articolo rientrano tutte nella nozione di cooperazione allo sviluppo, così come definita dalla sentenza n. 211 del 2006. In particolare, la previsione di cui alla lettera i) (sostegno ai programmi di tutela e di valorizzazione delle risorse paesaggistiche-ambient ali e culturali) non avrebbe senso se non riferita a iniziative di cooperazione con paesi esteri; il «supporto ad iniziative per la tutela dei minori e dei diritti dell'infanzia, attuazione delle politiche di genere», di cui alla lettera j), rientra nella predetta nozione di cooperazione, dato che promuovere attività dirette a valorizzare la parità tra uomo e donna e ad eliminare i fattori che la ostacolino in concreto, comporta un'ingerenza nelle politiche sociali di altri paesi con risorse dello Stato italiano; le «attività di studio, di ricerca, di scambi di esperienze, di informazione e di divulgazione, volte a promuovere l'unità e l'identità europea, l'estensione del concetto di cittadinanza e la partecipazione ai processi istituzionali a tutti i livelli», di cui alla lettera k), le «iniziative di informazione, consulenza, predisposizione di progetti di fattibilità e loro realizzazione, al fine di determinare il trasferimento di sistemi e tecnologie appropriate, realizzate da imprese calabresi nell'ambito di programmi di cooperazione finanziati da organismi nazionali ed internazionali», di cui alla lettera l), e «l'impiego, anche attraverso convenzioni con Enti regionali strumentali e territoriali, di personale qualificato con compiti di assistenza tecnica, amministrazione e gestione, valutazione e monitoraggio dell'attività di cooperazione internazionale», di cui alla lettera m), sono tutte direttamente attinenti alla cooperazione allo sviluppo. Anche gli «interventi innovativi e di sperimentazione nel mercato del lavoro, nel settore del credito e del commercio internazionale, nelle politiche pubbliche per lo sviluppo locale anche ai fini dell'integrazione degli interventi di cooperazione con le attività di sviluppo economico», di cui alla successiva lettera o), in quanto necessariamente coordinati con iniziative di politica estera, non possono che spettare allo Stato. Anche il «miglioramento dei flussi immigratori nel territorio calabrese», da attuare «anche favorendo la selezione positiva, la formazione, l'integrazione e la regolarizzazione degli immigrati, valorizzando le loro rimesse nei paesi di origine e favorendo l'occupazione in tali paesi», di cui alla lettera p), è competenza che interferisce direttamente con le politiche di immigrazione, inderogabilmente riservate allo Stato. Al contrario, le attività indicate nelle lettere d), e), f), g), h) del comma 4 dell'art. 5, sono rivolte ai cittadini residenti nella Regione e hanno come unica finalità quella di sensibilizzare la comunità regionale a una cultura della tolleranza e della cooperazione. Si tratta di iniziative destinate a esplicarsi all'interno del territorio regionale ed in quanto tali non rientrano nella definizione di cooperazione allo sviluppo adottata dalla Corte nella sentenza n. 211 del 2006. Un discorso analogo può essere svolto anche per quanto attiene alla previsione contenuta nella lettera q) dello stesso comma 4 dell'art. 5 (valorizzazione delle comunità di origine calabrese all'estero), per la quale può ritenersi che la stessa contempli mere attività di promozione e di tutela dell'identità culturale di tali comunità di interesse tipicamente regionalistico. Più articolata è la valutazione della previsione contenuta nella lettera n) del predetto comma 4 dell'art. 5. Infatti, mentre la «formazione professionale e promozione sociale di cittadini stranieri da svolgersi in Calabria ed in altri Paesi», rivolte a cittadini dei Paesi in via di sviluppo, sono comunque attività oggettivamente idonee a creare vincoli di riconoscenza e legami con Stati esteri e rientrano nel concetto di cooperazione allo sviluppo cui fa riferimento la sentenza n. 211 del 2006; la «formazione di personale residente in Italia destinato a svolgere attività di cooperazione internazionale», può farsi rientrare, per contro, nella competenza regionale in materia di formazione professionale, essendo destinata a cittadini italiani residenti in Calabria. In tale prospettiva deve essere ritenuta immune dalle censure formulate. 3.3. - Quanto all'art. 6, relativo alla cooperazione umanitaria e di emergenza, esso è da ritenere illegittimo con riferimento alle previsioni di cui alle lettere a), c), e) ed f). Rientrano, infatti, nella politica estera dello Stato, come iniziative di cooperazione, sia la fornitura di materiali di prima necessità e attrezzature alle popolazioni colpite, implicando delle scelte nella individuazione delle popolazioni da aiutare (si pensi al conflitto armato tra due Stati); sia la collaborazione tecnica, anche mediante l'invio di personale regionale, ed eventuale coordinamento delle risorse umane messe a disposizione da associa zioni, istituti, Enti pubblici o privati, che presuppone la scelta delle aree geografiche e delle popolazioni cui offrire la collaborazione tecnica; sia il sostegno a Enti che operano per finalità di cooperazione umanitaria e di emergenza; sia, infine, la raccolta e la costituzione di fondi, con la promozione di pubbliche sottoscrizioni di denaro da far affluire su apposito capitolo di bilancio per interventi a favore delle popolazioni colpite da emergenze. Al contrario, la lettera b) dello stesso comma 3 dell'art. 6, concernente la «assistenza sanitaria e ospedaliera a cittadini stranieri che, per gli effetti degli eventi di cui al comma 1, sono ospitati nella Regione, e l'accoglienza di eventuali accompagnatori, purché regolarmente autorizzati alla permanenza sul territorio italiano», e la successiva lettera d), che contempla la mera «raccolta e diffusione di informazioni sulle azioni di aiuto e di emergenza organizzate da soggetti regionali nonché azioni finalizzate al loro raccordo con le richieste e le iniziative dell'Amministrazione statale, dell'Unione europea e delle Organizzazioni internazionali» sono legittimi, dato che, quanto al primo, l'assistenza sani taria e ospedaliera viene predisposta in favore di persone che si trovano legittimamente sul territorio nazionale, quanto al secondo, la previsione ha carattere solo accessorio rispetto alle iniziative umanitarie e di emergenza propriamente dette. 3.4 - La Regione ha sostenuto che la compatibilità delle iniziative previste con la politica estera nazionale possa ritenersi salvaguardata dalla previsione dell'art. 1, comma 2, in base alla quale le attività di promozione devono essere in sintonia con la cooperazione governativa e comunitaria. Al contrario, questa Corte, nella sentenza n. 211 del 2006, ha già ritenuto clausole simili a quelle invocate dalla Regione inadeguate a salvaguardare le prerogative statali. In tale prospettiva non è sufficiente neppure il richiamo più esplicito, contenuto nell'art. 8, comma 7, del meccanismo di raccordo tra l'attività regionale e le determinazioni della politica nazionale, predisposto all'articolo 6 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla L.Cost. 18 ottobre 2001, n. 3), per effetto del quale il documento di programmazione triennale ed il piano operativo annuale sono comunicati al Ministero degli affari esteri ed alla Presidenza del Consiglio dei ministri per la verifica della compatibilità delle iniziative regionali con gli indirizzi di politica estera statale. Infatti il citato art. 6 della legge n. 131 del 2003, inserito nella legge statale di attuazione della riforma del titolo V della parte II della Costituzione, concerne l'attività di Regioni e Province riguardanti il cosiddetto potere estero delle Regioni, che si concreta esclusivamente nella potestà di attuazione e di esecuzione degli accordi internazionali, nella conclusione di intese con enti territoriali interni a Stati esteri e nella pattuizione, con Stati esteri, di accordi esecutivi ed applicativi di accordi internazionali entrati in vigore o accordi di natura tecnico-amministrativa, o accordi di natura programmatica. Esso, dunque, è norma circoscritta entro il limitato àmbito della competenza concorrente in materia di relazioni internazionali delle Regioni e non può trovare applicazione pe r consentire la ratifica successiva, da parte dello Stato, di un'attività regionale che invade la competenza esclusiva di esso Stato in materia di politica estera. Come affermato nella sentenza n. 211 del 2006, il menzionato art. 6 è destinato a trovare applicazione solo con riguardo ad attività di stretta competenza internazionale delle Regioni, non potendo fare un riferimento, che sarebbe di per sé contraddittorio, ad iniziative di competenza statale esclusiva. In altri termini, una legge regionale non può estendere il meccanismo di controllo, previsto dall'articolo 6 della legge n. 131 del 2003, al di fuori del campo di applicazione dettato dalla stessa legge statale che l'ha introdotto nell'ordinamento. D'altro canto, l'attività degli apparati dello Stato è necessariamente definita e disciplinata solo dalle leggi statali e non può essere incrementata per effetto di una legge regionale. Ne consegue che il comma 7 del censurato art. 8, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo. Per effetto della dichiarazione di incostituzionalità delle sole norme che contemplano competenze lesive delle prerogative statali, l'articolo censurato deve ritenersi immune dalle censure formulate negli altri commi. negli altri commi. LA CORTE COSTITUZIONALE 1. dichiara l'illegittimità costituzionale: - dell'art. 5 della legge della Regione Calabria 10 gennaio 2007, n. 4 (Cooperazione e relazioni internazionali della Regione Calabria), limitatamente al comma 4, lettere a), b), c), i), j), k), l), m), n) (quest'ultima limitatamente alle parole «la formazione professionale e promozione sociale di cittadini stranieri da svolgersi in Calabria ed in altri Paesi»), o) e p); - dell'art. 6 della stessa legge regionale, limitatamente alle competenze previste dalle lettere a), c), d), e) ed f); - dell'art. 8, comma 7, della medesima legge regionale; 2. dichiara non fondate le altre questioni di legittimità costituzionale degli artt. 5, 6 ed 8 della legge della Regione Calabria n. 4 del 2007, promosse, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera a), e terzo comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Luigi MAZZELLA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 14 maggio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 69, della legge 23 agosto 2004, n. 239 (Riordino del settore energetico, nonché delega al Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia), promosso con ordinanza del 29 maggio 2007 dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto sui ricorsi proposti da Vampa Gas s.p.a., ora ENEL Rete Gas s.p.a., contro il Comune di Mirano, iscritta al n. 708 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti l'atto di costituzione di ENEL Rete Gas s.p.a. nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 1° aprile 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro; uditi l'avvocato Luigi Manzi per la ENEL Rete Gas s.p.a. e l'avvocato dello Stato Fabio Tortora per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. - Il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, con ordinanza del 29 maggio 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 69, della legge 23 agosto 2004, n. 239 (Riordino del settore energetico, nonché delega al Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia), nella parte in cui prevede che «La disposizione di cui all'articolo 15, comma 5, del decreto legislativo 23 maggio 2000, n. 164, relativa al regime transi torio degli affidamenti e delle concessioni in essere al 21 giugno 2000, data di entrata in vigore del medesimo decreto legislativo, va interpretata nel senso che è fatta salva la facoltà di riscatto anticipato, durante il periodo transitorio, se stabilita nei relativi atti di affidamento o di concessione. Tale facoltà va esercitata secondo le norme ivi stabilite». 2. - Il rimettente è investito dei ricorsi proposti dalla società concessionaria del servizio di distribuzione del gas metano nel territorio del Comune di Mirano per l'annullamento degli atti relativi e conseguenti alla decisione del detto Comune di avvalersi della facoltà di riscattare il servizio a far data dal 31 dicembre 2003, ai sensi dell'art. 6 della convenzione in essere tra le parti, nonché per l'annullamento delle successive determinazioni di proroga del rapporto di concessione. Il giudice a quo premette che le parti hanno recepito nella convenzione stipulata in data 7 luglio 1979, con scadenza al 31 dicembre 2008, la disciplina del riscatto contenuta nell'art. 24 del regio decreto 15 ottobre 1925, n. 2578 (Approvazione del testo unico della legge sull'assunzione diretta dei pubblici servizi da parte dei comuni e delle province), conformemente al disposto dell'art. 26 dello stesso regio decreto, secondo il quale «I comuni, che intendano concedere all'industria privata qualcuno dei servizi indicati all'art. 1°, debbono sempre nel relativo contratto di concessione riserbarsi la facoltà del riscatto con tali condizioni e termini che non sieno, pei comuni medesimi, più onerosi» di quelli previsti dal citato art. 24. In base all'art. 24 del r.d. n. 2578 del 1925, i comuni possono valersi «delle facoltà consentite dall'art. 1°» - ossia l'assunzione dell'impianto e l'esercizio diretto dei pubblici servizi - quando sia trascorso un terzo della durata complessiva della concessione; tuttavia hanno sempre diritto al riscatto quando siano passati venti anni dall'effettivo cominciamento dell'esercizio, ma in ogni caso non possono esercitarlo prima che ne siano passati dieci (primo comma); dopo le epoche così determinate, non possono valersi della facoltà di riscatto se non trascorso un quinquennio, e così in seguito di cinque in cinque anni (secondo comma). 3. - Rileva il rimettente, richiamando alcune pronunce del Consiglio di Stato, che, dopo l'entrata in vigore del decreto legislativo 23 maggio 2000, n. 164 (Attuazione della direttiva 98/30/CE recante norme comuni per il mercato interno del gas naturale, a norma dell'articolo 41 della legge 17 maggio 1999, n. 144), la giurisprudenza amministrativa aveva ritenuto che il potere autoritativo di riscatto, riconosciuto dall'art. 24 del r.d. n. 2578 del 1925 in funzione dell'assunzione diretta del servizio da parte dell'ente concedente, fosse venuto meno per incompatibilità con il nuovo assetto normativo, connotato, in linea con il preminente obiettivo dell'apertura al mercato, dall'affidamento del servizio di distribuzione del gas naturale mediante gara. Il giudice a quo aggiunge che, pur in mancanza di un'espressa abrogazione delle pertinenti norme del r.d. n. 2578 del 1925, non poteva ritenersi che il riscatto anticipato fosse sopravvissuto nel periodo transitorio di cui all'art. 15 del d. lgs. n. 164 del 2000, giacché la disciplina di diritto intertemporale contenuta nella norma era destinata, non a mantenere in vita il preesistente regime, bensì a rendere possibile, in tempi certi, il nuovo sistema della "esternalizzazione". Invero, l'art. 15, comma 5, del d. lgs. n. 164 del 2000 - stabilendo tra l'altro che «Per l'attività di distribuzione del gas, gli affidamenti e le concessioni in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché quelli alle società derivate dalla trasformazione delle attuali gestioni, proseguono fino alla scadenza stabilita, se compresa entro i termini previsti dal comma 7 per il periodo transitorio. Gli affidamenti e le concessioni in essere per i quali non è previsto un termine di scadenza o è previsto un termine che supera il periodo transitorio, proseguono fino al completamento del periodo transitorio stesso» - non accenna alla possibilità di una risoluzione anticipata del rapporto. 4. - A parere del rimettente, pertanto, i primi due periodi del censurato art. 1, comma 69, della legge n. 239 del 2004 hanno reintrodotto nell'ordinamento, «sotto la specie dell'interpretazione autentica», l'istituto del riscatto anticipato, sia pure convertendolo a strumento giuridico atipico, rivolto «ad una sorta di recesso dal rapporto convenzionale» in vista del nuovo affidamento del servizio di distribuzione del gas naturale secondo la disciplina dell'evidenza pubblica. Il TAR per il Veneto, riportando ampi stralci dei lavori preparatori relativi alla censurata norma, ammette che il legislatore è stato mosso dalla volontà di superare, per via d'interpretazione autentica, l'anzidetto orientamento del giudice amministrativo e di consentire, dunque, nel corso del periodo transitorio, l'esercizio da parte degli enti locali del potere di riscatto, secondo le norme del r.d. n. 2578 del 1925. Ma, al di là degli intenti enunciati e della formulazione letterale della disposizione, esclude che «possa riconoscersi natura interpretativa, e quindi efficacia retroattiva, ad una disciplina che [...] privilegi un'esegesi precedentemente non consentita alla stregua degli ordinari canoni dell'ermeneutica legislativa» e ritiene pertanto che debba «dubitarsi della costituzionalità di disposiz ioni legislative [...] laddove esse risultino finalizzate - mediante una ben evidente forzatura letterale - ad attribuire ad una disposizione previgente un significato precettivo da essa obiettivamente non detraibile». Il giudice a quo, sotto tale profilo, contesta la giurisprudenza del Consiglio di Stato, secondo cui l'art. 1, comma 69, della legge n. 239 del 2004 - facendo salva unicamente la facoltà di riscatto stabilita negli atti di affidamento o di concessione, e non anche quella prevista dall'art. 24 del r.d n. 2578 del 1925, ai fini del nuovo affidamento del servizio ad imprese selezionate con apposita gara - costituisce effettivamente norma d'interpretazione dell'art. 15, comma 5, del d. lgs. n. 164 del 2000, disposizione, quest'ultima, che lasciava spazio a differenti opzioni ermeneutiche, in quanto «non affrontava espressamente l' aspetto della reale incidenza dello ius superveniens sui rapporti convenzionali in essere» (Cons. Stato, sez. V, decisione 17 luglio 2005, n. 3817). Egli, infatti, ritiene che non possa concepirsi un riscatto "convenzionale" in modo indipendente dal riscatto contemplato in via generale ed astratta dal più volte citato regio decreto e sostiene che proprio la norma denunciata ha immesso nel "sistema" un «istituto nuovo ed atipico», in alcun modo riconducibile alla volontà espressa dalle parti in sede di stipula delle convenzioni di concessione o di affidamento del servizio. Solleva, quindi, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 69, della legge n. 239 del 2004, il quale, in contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, avrebbe reintrodotto retroattivamente l'istituto del riscatto «a fini del tutto antitetici rispetto a quelli suoi propri, per di più travisando la stessa funzione della recezione dello stesso nell'ambito dei singoli contratti stipulati tra amministrazioni concedenti e gestori», ledendo altresì i princípi di buon andamento ed imparzialità dell'azione amministrativa, implicanti l'affidamento della parte privata nelle convenzioni da essa stipulate con la pubblica amministrazione. 5. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo di dichiarare la questione inammissibile, perché posta dal rimettente con riferimento cumulativo ai parametri evocati, senza una analitica esposizione delle ragioni della dedotta incostituzionalità, o comunque infondata. Nel merito, la difesa erariale sostiene che la norma censurata ha natura interpretativa, essendo intervenuta a chiarire la portata dell'art. 15, comma 5, del d. lgs. n. 164 del 2000, il quale si prestava a diverse letture là dove «non regolava il campo delle possibili interferenze, sul piano intertemporale, tra il principio di esternalizzazione di nuovo corso e quello della tendenziale indifferenza al mutato quadro normativo del diritto potestativo di riscatto, eventualmente concordato in passato tra le parti». 6. - Si è costituita ENEL Rete Gas s.p.a., parte del giudizio a quo, concludendo per la fondatezza della questione in base ad argomenti in larga misura coincidenti con quelli contenuti nell'atto introduttivo del giudizio e deducendo, altresì, profili di censura ulteriori. Così, la società costituita fa derivare dal preteso carattere innovativo della censurata norma, dunque dal suo contenuto dispositivo retroattivo «di ben quattro anni», la violazione, non solo degli artt. 3 e 97, ma anche degli artt. 2 e 41 della Costituzione, sul rilievo che la «possibilità per gli enti di anticipare la cessazione (già ex lege anticipata) delle concessioni in essere al momento dell'entrata in vigore del d. lgs. n. 164 del 2000» pregiudicherebbe le posizioni giuridiche dei concessionari, senza tener conto degli effetti determinati dallo stesso decreto delegato in punto di legittimo affidamento, comprimendo peraltro la libertà d'iniziativa economica «che le imprese esercitano proprio sulla base delle indicazioni date dalla legge». Invero, l'art. 14, comma 1, del d. lgs. n. 164 del 2000, introducendo per il futuro un divieto di affidamento del servizio di distribuzione del gas senza gara pubblica, e l'art. 15, comma 5, del medesimo decreto delegato, imponendo la cessazione anticipata delle concessioni in essere affidate senza gara pubblica, avevano già determinato, secondo la parte costituita, una grave lesione dei diritti e delle consolidate aspettative riposte dai concessionari. In tale ottica, l'art. 15, comma 5, aveva previsto la prosecuzione dei rapporti in essere fino al completamento del periodo transitorio «proprio al fine di bilanciare equamente gli interessi in gioco e di rendere ragionevolmente tollerabile per i concessionari l'anticipata cessazione della gestione del servizio rispetto alla scadenza naturale prevista dalla convenzioni». Inoltre, quanto all'art. 97 della Costituzione, l'introduzione, con effetto retroattivo, della possibilità per gli enti di riscattare il servizio e quindi le strutture ad esso funzionali, anche se finalizzata all'affidamento mediante gara pubblica, implicherebbe un passaggio improvviso della titolarità delle gestioni, perciò inciderebbe negativamente sulla efficacia, sulla efficienza e sulla economicità del servizio medesimo. «In via subordinata», la parte costituita considera che l'art. 1, comma 69, della legge n. 239 del 2004 andrebbe interpretato nel senso che il riscatto può essere esercitato solo se l'ente locale concedente lo abbia «ex ante funzionalizzato» all'espletamento di una procedura di evidenza pubblica, onde consentire il «passaggio del servizio, senza soluzione di continuità, da un concessionario ad un altro». Considerato in diritto 1. - La questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto ha ad oggetto l'art. 1, comma 69, della legge 23 agosto 2004, n. 239 (Riordino del settore energetico, nonché delega al Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia), nella parte in cui prevede che la disposizione di cui all'articolo 15, comma 5, del decreto legislativo 23 maggio 2000, n. 164 (Attuazione della direttiva 98/30/CE recante norme comuni per il mercato interno del gas naturale, a norma dell'articolo 41 della legge 17 maggio 1999, n. 144), relativa al regime transitorio degli affidamenti e delle concessioni in essere al 21 giugno 2000, data di entrata in vigore del medesimo decreto legislativo, «va interpretata nel senso che è fatta salva la facoltà di riscatto anticipato, durante il periodo transitorio, se stabilita nei relativi atti di affidamento o di concessione. Tale facoltà va esercitata secondo le norme ivi stabilite». Ad avviso del rimettente, i «primi due periodi» del citato art. 1, comma 69, si pongono in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, in quanto hanno un contenuto innovativo e comportano la reintroduzione, nel settore della distribuzione del gas naturale, dell'istituto del riscatto anticipato - venuto meno per effetto dell'entrata in vigore del d. lgs. n. 164 del 2000 - «a fini del tutto antitetici rispetto a quelli suoi propri», travisando «per di più» la volontà espressa dalle parti alla firma delle convenzioni; allo stesso tempo, proprio perché comprimono l'affidamento dei privati nelle convenzioni stipulate con la pubblica amministrazione, violano i principi di buon andamento ed imparzialità dell'azione amministrativa, dunque l'art. 97 della Costituzione. 2. - In via preliminare, deve essere rigettata l'eccezione d'inammissibilità sollevata dal Presidente del Consiglio dei ministri in relazione ad un preteso difetto di motivazione quanto alla non manifesta infondatezza della questione, giacché dall'ordinanza di rimessione emergono con sufficiente chiarezza i termini delle singole censure. La questione, inoltre, va esaminata entro i limiti del thema decidendum individuato nell'atto introduttivo, non potendosi considerare le doglianze svolte dalla parte del giudizio principale con riferimento a parametri costituzionali ed a profili non evocati dal giudice a quo (ex plurimis, sentenze n. 349 del 2007, n. 310 e n. 234 del 2006). 3. - Nel merito, la questione non è fondata. Il d. lgs. n. 164 del 2000, nel dare attuazione alla direttiva 98/30/CE, recante norme comuni per il mercato interno del gas naturale, ha ridefinito il regime della attività di distribuzione del gas, espressamente qualificata come servizio pubblico, stabilendo all'art. 14 il principio che il servizio «è affidato esclusivamente mediante gara, per periodi non superiori a dodici anni», mentre sono riservate agli enti locali le sole attività di indirizzo, di vigilanza, di programmazione e di controllo. L'art. 15 del medesimo decreto delegato regola la transizione nell'attività di distribuzione del gas e, al comma 5, dispone che «gli affidamenti e le concessioni in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché quelli alle società derivate dalla trasformazione delle attuali gestioni, proseguono fino alla scadenza stabilita, se compresa entro i termini previsti dal comma 7 per il periodo transitorio. Gli affidamenti e le concessioni in essere per i quali non è previsto un termine di scadenza o è previsto un termine che supera il periodo transitorio, proseguono fino al completamento del periodo transitorio stesso». Tale norma - che non riguarda gli affidamenti e le concessioni già attribuiti mediante gara (art. 15, comma 9, del d. lgs. n. 164 del 2000) - è oggetto dell'interpretazione fornita dall'art. 1, comma 69, della legge n. 239 del 2004, secondo la quale è fatta salva la facoltà di riscatto anticipato, durante il periodo transitorio, ma solo se stabilita nei relativi atti di affidamento o di concessione. Successivamente è intervenuto l'art. 23 del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 273 (Definizione e proroga di termini, nonché conseguenti disposizioni urgenti), convertito, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 23 febbraio 2006, n. 51, che ha nuovamente determinato la durata del periodo transitorio, prorogandolo al 31 dicembre 2007 ed automaticamente prolungandolo fino al 31 dicembre 2009 in presenza di almeno una delle condizioni indicate al comma 7 dell'art. 15 del d.lgs. n. 164 del 2000, nonché consentendo agli enti locali di disporre una ulteriore proroga di un anno di tali termini per comprovate ragioni di pubblico interesse e facendo ancora salva la facoltà di riscatto anticipato nella fase di transizione. 4. - I dubbi di legittimità costituzionale dedotti dal rimettente si fondano sull'assunto che l'art. 1, comma 69, della legge n. 239 del 2004, indipendentemente dalla formulazione letterale e dagli intenti desumibili dai lavori parlamentari, non esprima affatto l'interpretazione autentica dell'art. 15, comma 5, del d. lgs. n. 164 del 2000, ma ne modifichi retroattivamente il contenuto. Secondo il giudice a quo, infatti, già nel periodo transitorio sarebbe «inequivocabilmente» venuta meno la possibilità per le amministrazioni di avvalersi di una potestà, quella di riscatto, che, in quanto destinata dal r.d. n. 2578 del 1925 alla gestione diretta del servizio, perseguiva finalità non più contemplate dall'ordinamento. Nel senso della implicita abrogazione delle norme sul riscatto anticipato, prima della emanazione della legge n. 239 del 2004, sarebbe stata univoca la lettura della giurisprudenza amministrativa. 5. - Ai fini del presente giudizio, dunque, deve anzitutto verificarsi quale sia la natura della denunciata norma. In base ai princípi affermati da questa Corte, sono interpretative «quelle norme obiettivamente dirette a chiarire il senso di norme preesistenti ovvero a escludere o a enucleare uno dei sensi fra quelli ragionevolmente ascrivibili alla norma interpretata»; i caratteri dell'interpretazione autentica, quindi, sono desumibili da un rapporto fra norme «tale che il sopravvenire della norma interpretante non fa venir meno la norma interpretata, ma l'una e l'altra si saldano fra loro dando luogo a un precetto normativo unitario» (sentenze n. 311 del 1995, n. 94 del 1995, n. 397 del 1994, n. 424 del 1993, n. 455 del 1992). Nella specie, la conservazione della potestà di riscatto anticipato in capo agli enti locali, in funzione dell'affidamento del servizio mediante gara, ha costituito una delle possibili varianti di lettura dell'art. 15, comma 5, del d. lgs. n. 164 del 2000, avallata da alcuni giudici di primo grado. L'esame della giurisprudenza amministrativa anteriore all'emanazione della legge n. 239 del 2004 rivela, infatti, una situazione di incertezza sul dato normativo, tale che, ad un indirizzo prevalente nel senso indicato dal giudice a quo, se ne contrapponeva uno minoritario, secondo cui il riferimento, contenuto nel citato art. 15, comma 5, alla prosecuzione delle concessioni e degli affidamenti per i quali non fosse previsto un termine di scadenza o per i quali fosse previsto un termine eccedente il periodo transitorio, doveva essere interpretato nel significato del mantenimento del rapporto in corso, ivi comprese le norme che regolavano la sua possibile anticipata risoluzione sul piano strettamente contrattuale. In base a tale orientamento, la previsione di un gra duale passaggio dal vecchio al nuovo regime, in difetto di un'espressa previsione abrogativa della facoltà di riscatto, non poteva aver introdotto alcuna obbligatoria prosecuzione del rapporto e neppure poteva equivalere ad un indifferenziato divieto di porvi fine anticipatamente, in spregio alle pattuizioni intercorse tra le parti. La legge impugnata, dunque, non ha inciso su un orientamento giurisprudenziale a tal punto consolidato da far ritenere implausibili diverse soluzioni, bensì ha privilegiato un'interpretazione tra quelle possibili, come dimostrano anche le affermazioni del Consiglio di Stato successive alla legge n. 239 del 2004, cui lo stesso rimettente ha fatto cenno, sia pure solo per contestarne la fondatezza. In presenza di siffatti indirizzi giurisprudenziali, in conclusione, può ritenersi che effettivamente la norma denunciata sia intervenuta a chiarire il senso dell'art. 15, comma 5, del d.lgs. n. 164 del 2000, saldandosi con quest'ultimo e dando luogo ad un precetto unitario, che impone, per la durata del periodo transitorio, il mantenimento dei rapporti in essere come regolati negli atti di affidamento o concessione, conservando validità alle clausole di riscatto ivi previste nonostante l'art. 14, comma 1, dello stesso decreto delegato consenta agli enti locali di avvalersene soltanto per l'espletamento di una procedura di evidenza pubblica. E, sotto l'aspetto del controllo di ragionevolezza, questa Corte ha anche di recente ribadito che «la norma che deriva dalla legge di interpretazione autentica non può ritenersi irragionevole ove si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario» (sentenze n. 234 del 2007, n. 274 del 2006, n. 39 del 2006). 6. - Altrettanto infondata è la questione sotto il profilo della lesione dell'«affidamento dei privati nelle convenzioni stipulate con le amministrazioni» prima della riforma del settore della distribuzione del gas. Invero, là dove il riscatto anticipato aveva formato l'oggetto di espressa riserva da parte delle amministrazioni, le aspettative delle imprese di distribuzione in ordine alla gestione del servizio per l'intera durata del periodo transitorio non possono certo ritenersi legittimamente fondate sulle convenzioni intercorse sotto la vigenza del precedente regime. Al riguardo, è ininfluente che sia ora inibita alle amministrazioni l'assunzione diretta dell'attività di distribuzione, giacché l'interesse pubblico soddisfatto dal provvedimento di riscatto attiene pur sempre alla riorganizzazione del servizio, in vista di un assetto più confacente alle esigenze della comunità. In tale prospettiva, l'opzione per il sistema dell'esternalizzazione del servizio configura una diversa modalità di realizzazione del medesimo interesse pubblico dedotto nelle clausole di riscatto contenute negli atti di concessione o affidamento e, rispetto ad essa, è coerente la previsione di salvaguardia, nella fase della transizione, del diritto di riscatto concordato tra le parti. D'altra parte, se il riscatto diviene necessariamente strumentale all'espletamento di una gara, il titolare del pregresso rapporto, potendo parteciparvi senza limitazioni (art. 15, comma 10, del d. lgs. n. 164 del 2000), gode di un'opportunità che, nel caso della riassunzione in proprio del servizio da parte dell'ente concedente, gli era preclusa. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 69, della legge 23 agosto 2004, n. 239 (Riordino del settore energetico, nonché delega al Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giuseppe TESAURO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 14 maggio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 892, 893, 894 e 895, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), promosso con ricorso della Regione Lombardia, notificato il 26 febbraio 2007, depositato in cancelleria il 7 marzo 2007 e iscritto al n. 14 del registro ricorsi 2007. Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 1° aprile 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano; uditi l'avvocato Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Lombardia e l'avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.- La Regione Lombardia - con ricorso notificato il 26 febbraio 2007, depositato in cancelleria il successivo 7 marzo - ha sollevato questione di legittimità costituzionale di numerose disposizioni della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), tra le quali i commi 892, 893, 894 e 895 dell'art. 1, nella parte in cui, come è affermato nell'atto, «prevedono misure per la realizzazione di progetti per la "Società dell'informazione" (comma 892), istituiscono un Fon do per il sostegno agli investimenti per l'innovazione negli enti locali (comma 893), ne stabiliscono criteri di distribuzione (comma 894) e priorità dei progetti da finanziare (comma 895)», per contrasto con gli artt. 117, 118, 119 della Costituzione, nonché in riferimento ai «principi di leale collaborazione (art. 120 Cost.), buon andamento (art. 97 Cost.) e ragionevolezza (art. 3 Cost.)». La ricorrente ha prospettato specifiche censure in ordine a ciascuno dei commi impugnati. 2.- Riguardo al comma 892 - il quale viene ad autorizzare una spesa annuale di 10 milioni di euro, per il triennio 2007-2009, disponendo altresì che il Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione, di concerto, per gli interventi relativi alle Regioni e agli enti locali, con il Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali, entro quattro mesi dall'entrata in vigore della citata legge, con decreto di natura non regolamentare, venga ad individuare «le azioni da realizzare sul territorio nazionale, le aree destinatarie della sperimentazione e le modalità operative e di gestione di tali progetti» - la Regio ne sottolinea che lo stesso si riferisce alle «Linee guida del Governo per lo sviluppo della Società dell'Informazione nella legislatura», emanate dal Consiglio dei ministri in data 31 maggio 2002, nonché a quei progetti di «grande contenuto innovativo, di rilevanza strategica, di preminente interesse nazionale», cui fa riferimento il comma 1 dell'art. 27 della legge 16 gennaio 2003, n. 3 (Disposizioni ordinamentali in materia di pubblica amministrazione). La ricorrente afferma che l'attribuzione al Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali di un potere concertativo nell'emanazione del decreto di cui al comma 892 e l'estensione a tutto il territorio nazionale dell'ambito di sperimentazione, con la specifica indicazione delle modalità operative e di gestione di questi progetti, violi le competenze regionali poiché tra i destinatari della previsione della disposizione rientrano le Regioni e gli enti locali. Ciò sarebbe ulteriormente confermato dall'aver affidato ad un decreto di natura non regolamentare (emanato dal Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro degli A ffari regionali e delle autonomie locali) la determinazione delle aree destinatarie della sperimentazione e le modalità operative di gestione di tali progetti, al fine, da parte dello Stato, di evitare l'applicazione dell'art. 117, sesto comma, Cost., «che limita la competenza regolamentare dello Stato alle sole materie di competenza esclusiva». Quanto, poi, al comma 893, che istituisce presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, il «Fondo per il sostegno agli investimenti per l'innovazione negli enti locali», di 15 milioni di euro, per ciascuno degli anni 2007, 2008, 2009, la Regione ricorrente afferma che il Fondo di cui trattasi, avendo come obiettivo quello di finanziare progetti che investono l'organizzazione amministrativa degli enti locali, relativi agli interventi di «digitalizzazione dell'attività amministrativa, in particolare per quanto riguarda i procedimenti di diretto interesse dei cittadini e delle imprese», abbia travalicato l'ambito delle materie di competenza esclusiva dello Stato debordando in quello della competenza residuale regionale. Riguardo alle disposizioni censurate, la Regione ricorrente lamenta, altresì, che le violazioni sono aggravate dalla assenza della «benché minima forma di collaborazione con i soggetti destinatari degli interventi». Troppo «debole», infatti, appare il coinvolgimento delle Regioni, consistente nella semplice consultazione non vincolante con la Conferenza unificata, prevista dal successivo comma 894, nel momento della definizione dei criteri di distribuzione ed erogazione del Fondo, da effettuarsi per mezzo del decreto del Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione e del Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze. La ricorrente, richiamando la sentenza n. 31 del 2005 - che pur avendo attribuito alla competenza esclusiva dello Stato, e cioè all'ambito dell'art. 117, secondo comma, lettera r), Cost., la materia oggetto della disposizione impugnata, afferma, tuttavia, che, quando l'esercizio della potestà legislativa statuale presenti «un contenuto precettivo idoneo a determinare una forte incidenza sull'esercizio concreto delle funzioni» in materia di organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti locali, «la previsione del mero parere della Conferenza unificata non costituisce [...] una misura adeguata a garantire il rispetto del principio di leale collaborazione» - ritiene che, anche nel caso in oggetto, occor ra «un più incisivo coinvolgimento» realizzabile solo «mediante lo strumento dell'intesa». Infine, la ricorrente denuncia l'illegittimità costituzionale anche del comma 895, nella parte in cui stabilisce «norme tecniche e di dettaglio sulle caratteristiche da privilegiare nella valutazione dei progetti da finanziare [.] idonee ad avere sicure ripercussioni sulle modalità di organizzazione delle amministrazioni che le adotteranno [.] senza prevedere nessun tipo d'intesa (neanche la semplice consultazione con la Conferenza unificata)». In prossimità dell'udienza pubblica, la difesa della Regione ha depositato una memoria illustrativa con cui, richiamando ulteriori pronunce della Corte, ribadisce le argomentazioni già svolte nell'atto di intervento. La ricorrente, relativamente alle disposizioni censurate, sottolinea, inoltre, come il decreto ministeriale di attuazione delle stesse, emanato in data 18 giugno 2007 dai Ministri per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione e per gli affari regionali e le autonomie locali, di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, abbia accentuato l'eccessiva incisività delle disposizioni impugnate «su aspetti direttamente riconducibili alla materia dell'organizzazione amministrativa degli enti locali». 4.- Si è costituito nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che il ricorso sia rigettato. In particolare, l'Avvocatura dello Stato osserva come sia pacifico che la materia sia di competenza statuale e deduce che la doglianza investe il mancato coinvolgimento della Regione, se non in modo estremamente «debole» e parziale, nella elaborazione della normativa di dettaglio. Riguardo a tale doglianza, l'Avvocatura sottolinea come gli interventi di cui trattasi debbano, per la loro stessa natura, essere regolati con uniforme trattamento su tutto il territorio nazionale, secondo un indirizzo che è costante nella stessa giurisprudenza costituzionale. Peraltro, conclude la difesa pubblica, «la tutela delle legittime aspettative e competenze regionali è assicurata, in pieno spirito di leale collaborazione, attraverso il concerto con le autonomie locali previsto dal comma 892 e la consultazione con la Conferenza unificata, richiamata al comma 894». 5.- All'udienza pubblica le parti hanno insistito per l'accoglimento delle conclusioni formulate nella difesa scritta. Considerato in diritto 1.- Con ricorso notificato il 23 febbraio 2007 e depositato il successivo 7 marzo, la Regione Lombardia ha impugnato, unitamente ad altre disposizioni della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), i commi 892, 893, 894 e 895 dell'art. 1 della medesima. 2.- Le disposizioni censurate sono qui trattate congiuntamente tra loro, ma separatamente rispetto alle altre questioni promosse con il suddetto ricorso, in quanto aventi ad oggetto una materia omogenea. I commi denunciati, infatti, prevedono interventi di sostegno economico per la realizzazione di progetti finalizzati alla "società dell'informazione" nonché all'individuazione delle relative priorità (commi 892 e 895), e istituiscono un Fondo per il finanziamento di progetti degli enti locali per la «digitalizzazione dell'attività amministrativa», stabilendo i criteri di erogazione di tale Fondo, sentita la Conferenza unificata Stato-Regioni, città e autonomie loc ali e acquisito il parere della Commissione permanente per l'innovazione tecnologica nelle Regioni e negli enti locali (commi 893 e 894). 3.- La ricorrente censura le disposizioni in questione in riferimento agli artt. 117, 118, 119 della Costituzione, nonché ai «principi di leale collaborazione (art. 120 Cost.), buon andamento (art. 97 Cost.) e ragionevolezza (art. 3 Cost.)». 4.- La Regione sostiene che il comma 892, pur riferendosi alle «Linee guida del Governo per lo sviluppo della società dell'informazione», emanate dal Consiglio dei ministri in data 31 marzo 2002, ed ai progetti di «grande contenuto innovativo, di rilevanza strategica e di preminente interesse nazionale» (di cui al comma 1, dell'art. 27 della legge 16 gennaio 2003, n. 3 «Disposizioni ordinamentali in materia di Pubblica Amministrazione»), violi le competenze regionali poiché tra i destinatari della disposizione rientrerebbero le Regioni e gli enti locali. La ricorrente ritiene che tale comma violi la competenza delle Regioni anche là dove affida al Ministero per le riforme e le innovazioni tecnologiche nella pubblica amministrazione, di concerto con il Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali, l'individuazione, con un decreto di natura non regolamentare, delle «aree destinatarie della sperimentazione», nonché «le modalità operative e di gestione di tali progetti», senza prevedere alcuna collaborazione ed alcun coinvolgimento dei soggetti interessati, quali, appunto, le Regioni e gli enti locali. La Regione Lombardia sostiene, altresì, che in analoga violazione incorra il comma 895, in quanto detta una normativa di dettaglio ai fini della «valutazione dei progetti da finanziare con lo stanziamento di cui al comma 892», idonea ad avere sicure ed incisive ripercussioni «sulle modalità di organizzazione delle amministrazioni che le adotteranno», senza prevedere, anche a questo riguardo, «nessun tipo di intesa (neanche la semplice consultazione con la Conferenza unificata)». 5.- La difesa della Regione ritiene altresì che anche il comma 893, che istituisce il «Fondo per il sostegno agli investimenti per l'innovazione negli enti locali» leda le competenze regionali perché il Fondo stesso, finanziando i progetti per la «digitalizzazione dell'attività amministrativa» ed in particolare quelli di «diretto interesse dei cittadini e delle imprese», opera in un ambito «idoneo a determinare una forte incidenza sull'esercizio concreto delle funzioni» in materia di organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti locali. Tale violazione, sempre per la Regione ricorrente, è tanto più evidente se si considera che il collegato e successivo comma 894 demanda ad un decreto del Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione, da adottarsi congiuntamente con il Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali, e di concerto con il Ministro dell'economia e delle finanze, la definizione dei criteri di distribuzione ed allocazione del Fondo, di cui al comma 893, limitandosi, quanto al coinvolgimento dei soggetti destinatari della disciplina, a prevedere il «mero parere della Conferenza unificata». Infatti, secondo la Regione Lombardia, il mero parere non costituirebbe «una misura adeguata a garantire il rispetto del principio di leale collaborazione», rispetto che può ritenersi realizzato solo attraverso lo strumento dell'intesa, che assicura un più effettivo ed incisivo coinvolgimento. 6.- In primo luogo, le questioni prospettate della Regione Lombardia in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione devono essere dichiarate inammissibili. Secondo il costante orientamento di questa Corte, le Regioni possono far valere il contrasto con norme costituzionali diverse da quelle attributive di competenza solo ove esso si risolva in una lesione di sfere di competenza regionali (così, fra le tante, le sentenze n. 401 del 2007, n. 116 del 2006, n. 383 del 2005). Nel caso di specie, le censure dedotte, oltre ad essere generiche, non sono prospettate in maniera tale da far derivare dalla pretesa violazione dei richiamati parametri costituzionali una compressione dei poteri delle Regioni, con conseguente inammissibilità delle stesse. 7.- Le ulteriori questioni sollevate nei confronti dell'art. 1, commi 892 e 895, della legge n. 296 del 2006, con riferimento agli artt. 117, 118, 119 della Costituzione nonché con riferimento al principio di leale collaborazione (art. 120 Cost.), non sono fondate. Occorre innanzitutto individuare la materia sulla quale dette norme vanno ad incidere. Le disposizioni di cui trattasi si riferiscono, innanzitutto, all'amministrazione dello Stato e degli enti pubblici nazionali e, quindi, rinvengono la loro legittimazione nell'art. 117, secondo comma, lettere g) e r), della Costituzione, che assegnano alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, rispettivamente, le materie «ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali» e «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale». 7.1.- Le norme in questione sono suscettibili, tuttavia, di trovare applicazione anche nei confronti delle Regioni e degli enti locali, come risulta dalla previsione di cui al comma 892, che richiede, per l'emanazione del decreto di natura non regolamentare da parte del Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione, il concerto con il Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali «per gli interventi relativi alle Regioni e agli Enti locali». Peraltro, questa Corte ha, in proposito, già avuto modo di sottolineare che le disposizioni che attengono a questo genere di questioni devono essere interpretate nel senso che le stesse - nella parte riguardante le Regioni e gli enti territoriali - costituiscono espressione della potestà legislativa esclusiva statale nella materia del «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale», ex art. 117, secondo comma, lettera r), della Costituzione (sentenza n. 31 del 2005). 7.2.- L'attribuzione a livello centrale della suddetta materia, del resto, corrisponde alla necessità di «assicurare una comunanza di linguaggi, di procedure e di standard omogenei, in modo da permettere la comunicabilità tra i sistemi informatici della pubblica amministrazione» (sentenze n. 31 del 2005 e n. 17 del 2004). Infatti, il comma 895 indica come priorità, per il finanziamento dei progetti, l'utilizzo o lo sviluppo di «applicazioni software a codice aperto» e prevede, ai fini della comunicabilità, che i «codici sorgente, gli eseguibili e la documentazione dei software sviluppati» vengano mantenuti «in un ambiente di sviluppo cooperativo, situato in un web individuato dal Ministero per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione al fine di poter essere visibili e riutilizzabili». 7.3.- Nella citata sentenza n. 17 del 2004 si rilevava che il potere di coordinamento attribuito al Ministero per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione - proprio in relazione alla regolazione dell'esercizio di funzioni organizzative - espresso con l'emanazione di un decreto di natura non regolamentare, era un potere meramente tecnico che atteneva alla «qualità dei servizi» e alla «razionalizzazione della spesa in materia informatica». 7.4.- E' necessario sottolineare che, rispetto alle disposizioni legislative statali che erano state alla base delle citate decisioni di questa Corte, il dato normativo attualmente impugnato è sostanzialmente diverso. Nel comma 7 dell'art. 29 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2002), oggetto della sentenza n. 17 del 2004, si prevedeva, infatti, che il Ministro per l'innovazione e le tecnologie definisse gli «indirizzi per l'impiego ottimale dell'informatizzazione nelle pubbliche amministrazioni». Ancor più significativamente, nei primi tre commi dell'art. 26 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2003), oggetto della sentenza n. 31 del 2005, si prevedeva un Fondo per il finanziamento di progetti di innovazione tecnologica nella pubblica amministrazione, nonché incisivi interventi del Ministro pe r l'innovazione e le tecnologie che potevano riguardare «l'organizzazione e la dotazione tecnologica delle Regioni e degli enti territoriali» al «fine di assicurare una migliore efficacia della spesa informatica e telematica sostenuta dalle pubbliche amministrazioni, di generare significativi risparmi eliminando duplicazioni e inefficienze, promuovendo le migliori pratiche e favorendo il riuso, nonché di indirizzare gli investimenti nelle tecnologie informatiche e telematiche, secondo una coordinata e integrata strategia». Si trattava, quindi, di interventi che, anche se ascrivibili ad una materia di competenza esclusiva dello Stato (la già ricordata lettera r del secondo comma dell'art. 117 Cost.) avevano un contenuto precettivo che veniva ad incidere su competenze regionali, relative, nelle fattispecie previste dai primi tre commi dell'art. 26 della legge n. 289 del 2002, alla «materia dell'organizzazione amministrativa delle Regioni», come afferma la sentenza n. 31 del 2005. Nel caso attualmente in esame, in cui le disposizioni legislative censurate non incidono su specifiche competenze delle Regioni, ma individuano queste ultime semplicemente come aree territoriali su cui può svolgersi la sperimentazione e come possibili soggetti interlocutori dei progetti per i quali viene autorizzata una spesa d'importo non particolarmente significativo (10 milioni di euro per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009), non si ravvisano esigenze che rendano necessarie forme di coinvolgimento. 7.5.- Vi è, al riguardo, da precisare che l'art. 14 del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell'amministrazione digitale), ha affrontato la questione dell'esatta identificazione di uno degli aspetti maggiormente problematici nei rapporti, in questa materia, tra Stato e Regioni, vale a dire il confine ed i limiti del potere di coordinamento. Detta disposizione si prefigge l'esplicita funzione di definire un assetto organico dei rapporti tra Stato, Regioni ed enti locali in materia di informatica che risulti conforme al dettato della lettera r) del secondo comma dell'art. 117 Cost., come precisato dalla giurisprudenza costituzionale. L'art 14 del Codice dell'amministrazione digitale è il risultato, infatti, nella sua formulazione, del confronto tra il legislatore delegato e la Conferenza unificata Stato-Regioni-Città-Autonomie locali ed insieme della elaborazione che il legislatore delegato ha fatto della giurisprudenza costituzionale. In questa prospettiva, nel primo comma dell'art. 14 si identifica il limite della competenza esclusiva dello Stato, di cui alla lettera r), secondo comma, dell'art. 117 Cost., là dove esso individua il concretizzarsi del coordinamento nella definizione di regole tecniche, che possono anche investire aspetti di carattere organizzativo, allorché gli stessi siano «ritenuti necessari al fine di garantire la omogeneità nella elaborazione e trasmissione dei dati» (sentenza n. 31 del 2005). Ne consegue che la citata disposizione deve essere intesa nel senso che lo Stato disciplina il coordinamento informatico, oltre che per mezzo di regole tecniche, anche quando sussistano esigenze di omogeneità ovvero anche «profili di qualità dei servizi» e di «razionalizzazione della stessa», funzionali a realizzare l'intercomunicabilità tra i sistemi informatici delle amministrazioni (sentenza n. 17 del 2004). I commi 892 e 895 della legge n. 296 del 2006 si collocano all'interno di questo confine, in quanto dettano regole tecniche funzionali alla comunicabilità dei sistemi ed al loro sviluppo collaborativo, favorendo il riuso dei software elaborati su committenza del Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione con lo scopo di razionalizzare la spesa e, contemporaneamente, favorire l'uniformità degli standard. Né, d'altro canto, può essere evocata una violazione del principio di leale collaborazione, in quanto lo stesso risulta rispettato proprio in base al dettato del citato art. 14 del Codice, che assolve la funzione di superare possibili conflittualità in ordine al contenuto ed ai limiti del coordinamento conferito in via esclusiva allo Stato dall'art. 117, secondo comma, lettera r), Cost. 8.- Le questioni di legittimità costituzionale relative ai commi 893 e 894, promosse dalla Regione Lombardia, sempre con riferimento agli artt. 117, 118, 119 Cost., nonché al principio di leale collaborazione (art. 120 Cost.), non sono ugualmente fondate. 8.1.- I commi sopra richiamati, infatti, oltre a rientrare nella competenza esclusiva dello Stato, di cui alla lettera r), secondo comma, dell'art. 117 della Costituzione, trovano fondamento nella lettera p) dello stesso secondo comma che attribuisce alla legislazione esclusiva dello Stato la materia delle «funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane». Il Fondo, infatti, ha la finalità di finanziare «progetti degli enti locali relativi agli interventi di digitalizzazione dell'attività amministrativa, in particolare per quanto riguarda i procedimenti di diretto interesse dei cittadini e delle imprese». Esso costituisce, quindi, uno strumento per agevolare lo svolgimento, da parte degli enti territoriali, di quelle «funzioni fondamentali» che la Costituzione afferma costituiscano una loro ineliminabile attribuzione. Né risulta contraddittorio che il successivo comma 894 conferisca ad un decreto del Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione e del Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali il potere di stabilire «i criteri di distribuzione ed erogazione del Fondo», dato che, avendo questi interventi la finalità di sviluppare le più idonee tecnologie che permettano all'intero sistema degli enti locali di svolgere al meglio le suddette funzioni fondamentali, vi è la necessità che sia assicurato un esercizio unitario della sperimentazione. Da ciò la giustificazione dell'intervento in sussidiarietà da parte dello Stato. 8.2.- E' opportuno precisare che l'intervento in sussidiarietà delle funzioni amministrative viene, in questa fattispecie, effettuato con riferimento a materie - quelle di cui alle già ricordate lettere p) e r) del secondo comma dell'art. 117 Cost. - rientranti nella competenza legislativa esclusiva dello Stato. In ogni caso, il censurato comma 894 prevede - richiamando specificamente il comma 3-bis dell'art. 14 del decreto legislativo n. 82 del 2005 - che debba essere sentito il parere della Commissione permanente per l'innovazione tecnologica nelle Regioni e negli enti locali oltre che quello della Conferenza unificata Stato-Regioni-Città ed Auton omie locali, provvedendo, quindi, a coinvolgere i soggetti interessati ai progetti. L'individuazione, infine, con decreto ministeriale dei criteri con cui determinare le priorità tra i progetti di digitalizzazione che dovranno essere finanziati dal Fondo istituito dal comma 893 della legge n. 296 del 2006 assolve la funzione di realizzare, anche nella fase progettuale, un coordinamento informatico idoneo ad assicurare uniformità dei procedimenti su tutto il territorio nazionale. LA CORTE COSTITUZIONALE riservata a separate pronunce la decisione delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), promosse dalla Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe; 1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 892, 893, 894 e 895, della legge n. 296 del 2006, promosse, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dalla Regione Lombardia, con il ricorso in epigrafe; 2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1 della medesima legge n. 296 del 2006, commi 892, 893, 894 e 895, promosse, in riferimento agli artt. 117, 118, 119 e 120 della Costituzione, dalla Regione Lombardia, con il ricorso in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 14 maggio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della delibera della Camera dei deputati del 22 novembre 2005, relativa alla insindacabilità, ai sensi dell'articolo 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dall'onorevole Alberto Di Luca nei confronti della dottoressa Mariaclementina Forleo, promosso con ricorso del giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale ordinario di Roma, notificato il 26 luglio 2006, depositato in cancelleria il 1° agosto 2006 ed iscritto al n. 4 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2006, fase di merito. Visto l'atto di costituzione della Camera dei deputati; udito nell'udienza pubblica del 1° aprile 2008 il Giudice relatore Ugo De Siervo; udito l'avvocato Stefano Grassi per la Camera dei deputati. Ritenuto in fatto 1. - Nel corso di un procedimento penale per diffamazione a mezzo stampa a carico del deputato Alberto Di Luca, il giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale ordinario di Roma, con ordinanza del 10 febbraio 2006, pervenuta a questa Corte lo stesso 10 febbraio 2006, ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti della Camera dei deputati, in relazione alla delibera del 22 novembre 2005 (Doc. IV-quater, n. 118), con la quale la Camera dei deputati, accogliendo la proposta della Giunta per le autorizzazio ni, ha dichiarato l'insindacabilità delle dichiarazioni rilasciate dal deputato, dalle quali è originato il procedimento penale. Il ricorrente premette che le dichiarazioni attribuite all'imputato, e comparse su due comunicati dell'ANSA del 4 febbraio 2005 «del tutto simili», si riferiscono sia alla sentenza con cui il giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Milano, dottoressa Mariaclementina Forleo, ha assolto in data 21 gennaio 2005 taluni imputati dall'accusa di associazione con finalità di terrorismo internazionale, sia alla decisione del medesimo giudice, assunta il 4 febbraio 2005, di negare il proprio consenso all'espulsione di uno degli imputati, Mohamed Daki, disposta dal Ministro dell'interno, ai sensi dell'art. 13 del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero). Il deputato, in relazione al secondo di tali atti del GUP di Milano, ha sostenuto che esso «appariva di tipo politico e anteponeva astratte ragioni procedurali, certamente più formali che sostanziali, alla difesa della sicurezza di tutti gli italiani e dello Stato»; in relazione ad entrambe le pronunce del giudice, l'imputato ha aggiunto che esse mettevano «seriamente in crisi» l'efficacia dell'art. 270-bis del codice penale e l'istituto dell'espulsione, indebolendo gli strumenti di lotta al terrorismo internazionale. Su querela della dottoressa Forleo, il PM ha richiesto al GUP ricorrente il rinvio a giudizio del parlamentare. Nelle more del procedimento, è sopraggiunta la delibera della Camera, in relazione alla quale il GUP romano ha sollevato il conflitto, chiedendone l'annullamento. Il ricorrente, richiamata la giurisprudenza costituzionale ed in particolare la sentenza n. 120 del 2004, ritiene che le dichiarazioni incriminate non siano espressive di attività parlamentare. La Giunta per le autorizzazioni prima e la Camera poi avrebbero ravvisato il cosiddetto nesso funzionale, alla luce di due elementi: l'interrogazione al Ministro della giustizia presentata dal deputato Paniz successivamente alla sentenza di proscioglimento del 21 gennaio 2005; l'attività svolta dal deputato Di Luca il 2 febbraio 2005 presso il Comitato Schengen-Europol, che egli presiedeva, durante la quale si sarebbe decisa l'audizione della dottoressa Forleo su questioni concernenti i «flussi migratori». Quanto a tale ultimo atto, il ricorrente contesta che esso possa ricollegarsi alle dichiarazioni concernenti il diniego di consenso all'espulsione, poiché anteriore alla decisione assunta dal giudice Forleo in proposito, e poiché in ogni caso resterebbe oscuro il legame tra le pronunce del giudice di Milano e l'attività del Comitato, specie con riguardo ai «flussi migratori». Il ricorrente aggiunge che la Camera dei deputati non ha neppure appurato quale atto sia stato specificamente compiuto dal parlamentare in seno al Comitato, su quali questioni specifiche l'audizione della dottoressa Forleo dovesse avere luogo (la Camera sul punto si è basata sulle asserzioni dello stesso deputato) e quali siano le funzioni spettanti al Comitato. Quanto all'interrogazione parlamentare, il ricorrente rileva che essa poteva avere per oggetto la sola sentenza di proscioglimento, e non già il diniego di consenso all'espulsione, che è stato adottato successivamente; inoltre tale atto non proviene dall'imputato e non è provato che questi abbia contribuito a redigerlo. La delibera della Camera, oltre a ritenere erroneamente sussistente il nesso funzionale, sarebbe perciò viziata da «un'assoluta mancanza di riscontri ed una generica indicazioni di elementi», e si porrebbe parimenti in contrasto con la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, in punto di proporzionalità «tra il fine perseguito della tutela del parlamentare e i mezzi impiegati nell'esercizio di tale tutela». 2. - Il conflitto è stato dichiarato ammissibile con ordinanza n. 293 del 2006. Il ricorrente ha provveduto a notificare tempestivamente tale ordinanza ed il ricorso introduttivo alla Camera dei deputati, ed a depositarli entro i termini previsti. 3. - Si è costituita in giudizio la Camera dei deputati, in persona del suo Presidente, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile ed infondato, poiché le dichiarazioni rilasciate dal deputato Di Luca troverebbero corrispondenza in numerosi atti tipici posti in essere sia da quest'ultimo, sia da parlamentari del medesimo gruppo, aventi ad oggetto problematiche legate al terrorismo internazionale. 4. - Nell'imminenza dell'udienza pubblica la Camera dei deputati ha depositato memoria, insistendo nelle conclusioni già formulate. Considerato in diritto 1. - Il giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma contesta che spettasse alla Camera dei deputati deliberare, nella seduta del 22 novembre 2005 (Doc. IV-quater, n. 118), che i fatti per i quali era in corso procedimento penale nei confronti del deputato Alberto Di Luca, al quale era stato contestato il reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa in danno della dottoressa Mariaclementina Forleo, giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale ordinario di Milano, riguardavano opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle funzioni parlamentari e pertanto insindacabili ai sensi del primo comma dell'art. 68 della Costituzione. In particolare, era contestato al deputato di avere offeso la reputazione della dottoressa Forleo, avendo egli dichiarato all'ANSA, con due comunicati analoghi del 4 febbraio 2005, che due provvedimenti assunti dal giudice milanese il 24 gennaio 2005 e il 3 febbraio successivo, nei confronti di imputati del reato di associazione con finalità di terrorismo internazionale, apparivano l'uno «di tipo politico» ed entrambi capaci di privare lo Stato «dell'unico strumento, già debole, che consente di combattere il terrorismo internazionale». Il giudice ricorrente ritiene insussistenti i presupposti dell'insindacabilità di cui all'art. 68, primo comma, della Costituzione, mancando il nesso funzionale con alcun atto parlamentare del deputato riguardante i fatti di cui alle dichiarazioni oggetto del giudizio penale. 2. - Si è costituita la Camera dei deputati, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile ed infondato. Secondo la difesa della Camera, le dichiarazioni oggetto del procedimento penale troverebbero corrispondenza nella «intensa partecipazione» del deputato Di Luca «al dibattito politico-parlamentare relativo al terrorismo internazionale», e negli atti parlamentari tipici posti in essere a tale proposito sia dallo stesso deputato, sia da altri parlamentari del suo medesimo gruppo. 3. - Deve preliminarmente essere ribadita l'ammissibilità del conflitto, sussistendone i presupposti soggettivi ed oggettivi, come già ritenuto da questa Corte nell'ordinanza n. 293 del 2006. 4. - Nel merito, il ricorso è fondato. Spetta a questa Corte valutare se le dichiarazioni rese dal deputato, di cui la Camera di appartenenza ha dichiarato l'insindacabilità ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, siano legate da nesso funzionale con le attività svolte dall'interessato nella sua qualità di membro della Camera, ed in particolare se esse siano «sostanzialmente riproduttive di un'opinione espressa in sede parlamentare» (tra le molte, sentenze n. 28 del 2005; n. 11 e n. 10 del 2000). L'ampiezza della motivazione posta a base della delibera di insindacabilità non ha pertanto rilievo in sé, come parrebbe ritenere la difesa della Camera, ma per la sola parte in cui essa dà conto di tale requisito, giacché «la Corte non può limitarsi a verificare la validità o la congruità delle motivazioni espresse a sostegno della delibera» (sentenza n. 10 del 2000). Va da sé, invece, che non è compito di questa Corte spingere la propria valutazione fino all'apprezzamento dell'effettiva riconducibilità della condotta del parlamentare nell'area del penalmente rilevante: per tale piano, sussiste invece l'esclusiva competenza dell'Autorità giudiziaria procedente. Così circoscritta l'indagine di cui questa Corte deve farsi carico, non assumono rilievo né gli atti attribuibili ad altri parlamentari (sentenze n. 151 del 2007; n. 193, n. 164 e n. 146 del 2005; n. 347 del 2004), quand'anche del medesimo gruppo (sentenze n. 315 e n. 314 del 2006), né quelli posti in essere dal deputato Di Luca in data posteriore alle dichiarazioni oggetto del presente giudizio (sentenze n. 260 del 2006; n. 223, n. 164, n. 146 e n. 28 del 2005; n. 347 e n. 246 del 2004; n. 521 del 2002; n. 289 del 1998). In particolare, non è quindi utilmente richiamabile in giudizio l'interrogazione sottoscritta il 26 gennaio 2005 dal deputato Paniz. Pertanto, la verifica circa la sostanziale identità di contenuti tra attività parlamentare e dichiarazioni oggetto di declaratoria di insindacabilità deve essere circoscritta ai soli atti parlamentari riferibili direttamente al deputato e menzionati dalla difesa della Camera. Va, inoltre, ribadito che il mero "contesto politico" o comunque l'inerenza a temi di rilievo generale dibattuti in Parlamento, entro cui le dichiarazioni oggetto del presente conflitto si possano collocare, non connota di per sé tali dichiarazioni quali espressive della funzione parlamentare. Infatti, ove esse non costituiscano la sostanziale riproduzione delle specifiche opinioni manifestate dal parlamentare nell'esercizio delle proprie attribuzioni e quindi non siano il riflesso del peculiare contributo che ciascun deputato o ciascun senatore apporta alla vita parlamentare mediante le proprie opinioni e i propri voti (come tale coperto, a garanzia delle prerogative delle Camere, dall'insindacabilità), esse devono essere considerate come un diverso contributo al dibattito p olitico, riferito alla pubblica opinione usufruendo della libera manifestazione del pensiero assicurata a tutti dall'art. 21 della Costituzione (sentenze n. 302 del 2007 e n. 260 del 2006). Per tale ragione, nessuno degli atti parlamentari propri del deputato Di Luca, menzionati dalla difesa della Camera, valgono a sorreggere la dichiarazione di insindacabilità: essi, infatti, precedono cronologicamente le particolari vicende cui sono legate le dichiarazioni oggetto del procedimento penale, e non hanno per tale evidente ragione alcuna sostanziale coincidenza con le stesse dichiarazioni. Quanto, poi, all'intento di convocare la querelante da parte del Comitato parlamentare per l'attuazione dell'accordo di Schengen, di cui il deputato era presidente, esso è stata manifestato il 2 febbraio 2005 in ragione della «opportunità di sentire il magistrato che ha emesso la sentenza di Milano, riguardante l'assoluzione di cinque islamici accusati di terrorismo internazionale, al fine di acquisire maggiori elementi di conoscenza al riguardo»: appare evidente che in tale atto non è contenuto alcuno dei giudizi di merito che sono stati successivamente espressi dal parlamentare anche in ordine alla sentenza in oggetto. Né, ovviamente, tale convocaz ione poteva essere riferibile al provvedimento con cui la querelante ha negato l'espulsione di tale Mohamed Daki dal territorio nazionale. 5. - In assenza di ulteriori atti parlamentari con cui porre a raffronto le dichiarazioni in questione, l'impugnata delibera di insindacabilità ha violato l'art. 68, primo comma, della Costituzione, ledendo le attribuzioni dell'Autorità giudiziaria ricorrente, e pertanto deve essere annullata. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara che non spettava alla Camera dei deputati deliberare che i fatti per i quali era in corso procedimento penale nei confronti del deputato Alberto Di Luca, di cui al ricorso in epigrafe, riguardano opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni parlamentari ai sensi del primo comma dell'art. 68 della Costituzione; annulla, per l'effetto, la deliberazione di insindacabilità adottata dalla Camera dei deputati nella seduta del 22 novembre 2005 (Doc. IV-quater, n. 118). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Ugo DE SIERVO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 14 maggio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai Signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso Quaranta " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della delibera del senato della Repubblica del 30 gennaio 2007 (doc. IV-ter, n. 1) relativa alla insindacabilità, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dal senatore Raffaele Iannuzzi nei confronti di Domenico Geraci, promosso con ricorso del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, notificato il 4 dicembre 2007, depositato in cancelleria il 13 dicembre 2007 ed iscritto al n. 8 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2007, fase di merito. Visto l'atto di costituzione del Senato della Repubblica; udito nell'udienza pubblica del 15 aprile 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano, sostituito per la redazione della sentenza dal Presidente Franco Bile; udito l'avvocato Stefano Grassi per il Senato della Repubblica. Ritenuto in fatto 1. - Con atto del 12 giugno 2007, depositato nella cancelleria della Corte il 20 giugno 2007, il Giudice per le indagini preliminari (GIP) del Tribunale di Milano ha promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica in relazione alla deliberazione del 30 gennaio 2007 (doc. IV-ter, n. 1) con la quale, in conformità alla proposta formulata dalla Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, è stato dichiarato che i fatti per i quali è in corso un procedimento penale a carico del senatore Raffaele Iannuzzi per il reato di diffamazione a mezzo stampa costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni e sono pertanto insindacabili ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione. 1.2. - Riferisce il giudice ricorrente che il procedimento pendente davanti a sé vede imputato il senatore Iannuzzi del reato di diffamazione commessa col mezzo della stampa per avere offeso la memoria del defunto sindacalista Domenico Geraci − già dirigente provinciale dell'associazione sindacale UIL − nell'articolo, a firma dello stesso senatore, pubblicato sul settimanale «Panorama» del 10 ottobre 2002 e intitolato «Il codice segreto dell'ultimo pentito». In particolare, dal capo di imputazione riprodotto dal ricorrente risultano le seguenti affermazioni: «. Il boss di Caccamo del '98, un sindacalista molto discusso, che avrebbe fatto da tramite tra la mafia ed ambienti di sinistra (si disse perfino che Geraci era su quello stesso aereo su cui viag giavano da Palermo a Roma Luciano Violante e Giovanni Brusca) .». Rileva il GIP del Tribunale di Milano che il procedimento trae origine dalla querela proposta dai signori Giuseppe Geraci e Vincenza Scimeca, rispettivamente figlio e vedova di Domenico Geraci, nei confronti del sen. Iannuzzi, in ragione delle opinioni da questi manifestate nell'articolo sopra menzionato. Precisa il ricorrente che i querelanti lamentano che il loro congiunto − ucciso nell'ottobre del 1998 − sia stato indicato come «sindacalista molto discusso», che «avrebbe fatto da tramite tra la mafia ed ambienti di sinistra»; affermazioni da essi ritenute diffamatorie in quanto costituenti «una gravissima offesa alla memoria del defunto, offendendone la personalità morale, delineandone una collocazione criminale». Osserva, quindi, il ricorrente che - allo stato degli atti - non risulterebbe «provata la verità oggettiva dei fatti riferiti», né sarebbe possibile «registrare un effettivo rigore nel modo di riportare i fatti per come appaiono emergere dalle fonti»; così che «appare sussistere una fattispecie a soluzioni aperte meritevole di approfondimento dibattimentale e ciò anche al fine di accertare l'effettiva verità dei fatti esposti». Nel riprodurre uno stralcio della relazione della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, rileva il GIP che la Giunta ed il Senato avrebbero individuato, quali atti tipici delle funzioni parlamentari posti in essere dal senatore Iannuzzi, a dimostrazione della sussistenza del "nesso funzionale" esistente tra questi ed i fatti oggetto del procedimento, due disegni di legge, presentati dal parlamentare, rispettivamente, il 25 giugno 2003 e il 19 febbraio 2004, inerenti la gestione dei collaboratori di giustizia. La Giunta e il Senato avrebbero quindi ritenuto «di dover porre l'accento sul fatto, incontestabile e ampiamente noto, che l'impegno politico e parlamentare de l senatore Iannuzzi sui temi della criminalità mafiosa e del contrasto alla stessa ha rappresentato - e rappresenta - in certo qual modo la naturale proiezione del suo impegno giornalistico e che tale impegno ha avuto ad oggetto in modo sostanzialmente esclusivo le predette problematiche. . non si vede come si possa negare al senatore Iannuzzi l'insindacabilità ai sensi dell'art. 68 primo comma della Costituzione, per le dichiarazioni contenute nell'articolo qui specificamente considerato, articolo relativo a una vicenda - quella del pentito Giuffrè - che rientra senz'altro tra quei temi che, da sempre sono stati al centro dell'attività giornalistica e dell'impegno politico dello stesso senatore». Il ricorrente ritiene di non condividere la soluzione adottata dal Senato della Repubblica in quanto in contrasto con quanto affermato da numerose sentenze della Corte costituzionale (sono citate le sentenze n. 10 e n. 11 del 2000; n. 52, n. 207 e n. 294 del 2002; n. 120 del 2004; n. 373 del 2006; n. 96 e n. 151 del 2007). 1.3. - Il giudice ricorrente conclude quindi nel senso che l'impugnata deliberazione del Senato della Repubblica non appare in linea con i canoni interpretativi fatti propri dalla giurisprudenza costituzionale, così come delineati, atteso che essa «non contiene alcun elemento concreto da cui poter desumere la sussistenza di una corrispondenza sostanziale tra i contenuti degli articoli oggetto delle querele e le opinioni già espresse dal senatore in specifici atti parlamentari, non essendo sufficiente una mera comunanza di tematiche e un generico riferimento alla rilevanza dei fatti pubblici». Pertanto, lo stesso, sospeso il giudizio, ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica, chiedendo alla Corte costi tuzionale di dichiarare che non spettava a quest'ultimo affermare l'insindacabilità, a norma dell'art. 68, primo comma, Cost., delle dichiarazioni attribuite al senatore Iannuzzi e, conseguentemente, di annullare la deliberazione adottata nella seduta del 30 gennaio 2007 (doc. IV-ter, n. 1). 2. - Il conflitto è stato dichiarato ammissibile con l'ordinanza n. 399 del 2007, depositata in cancelleria il 23 novembre 2007. Il ricorrente ha provveduto a notificarla al Senato della Repubblica, unitamente all'atto introduttivo del giudizio, in data 4 dicembre 2007. Il conseguente deposito è stato effettuato in data 13 dicembre 2007. 2.1. - Si è costituito in giudizio il Senato della Repubblica, depositando documenti e svolgendo deduzioni, a conclusione delle quali ha chiesto che la Corte dichiari il ricorso «inammissibile, improcedibile e comunque infondato». La difesa del Senato della Repubblica contesta, in particolare, la fondatezza del ricorso proposto dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano. Secondo la stessa difesa, l'Assemblea del Senato e la Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, facendo esplicito riferimento ai principi enunciati dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, hanno correttamente ricondotto nell'ambito dell'art. 68, primo comma, Cost., le affermazioni rese dal senatore Iannuzzi nell'articolo di stampa pubblicato a sua firma dal settimanale « Panorama». 2.2. - La difesa sottolinea che il Senato della Repubblica, nel deliberare di costituirsi nel presente giudizio, ha tenuto ben presenti gli orientamenti della giurisprudenza costituzionale in materia di insindacabilità di cui all'art. 68, primo comma, Cost., giurisprudenza secondo la quale non dovrebbe mai mancare una «sostanziale corrispondenza tra le dichiarazioni rese extra moenia e quelle rese [.] intra moenia» (sentenza n. 416 del 2006 e sentenza n. 193 del 2005; sono menzionate, inoltre, le sentenze n. 260 del 2006, n. 347 del 2004, n. 283 del 2002 e n. 10 del 2000). Infatti, proprio tale sostanziale corrispondenza tra le dichiarazioni rese extra moenia e l'attività parlamentare del senatore Iannuzzi, la Giunta, prima, e l'Assemblea del Senato, poi, avrebbero ravvisato, «in particolare attraverso la Relazione al Disegno di Legge n. 2292 e la Relazione alla Proposta di inchiesta parlamentare di cui al Doc. XXII n. 25». La difesa del Senato evidenzia ancora come, nella piena coscienza, da parte del Senato della Repubblica, dell'indirizzo seguito dalla giurisprudenza costituzionale e nella consapevolezza che «l'interpretazione fornita nel caso concreto dai propri organi si pone ai limiti dell'indirizzo rigoroso più volte ribadito» dalla Corte costituzionale, si fosse sottolineata la possibilità di chiedere, in relazione al presente conflitto, «che venga effettuata una puntualizzazione dell'indirizzo» della Corte costituzionale «verso una più larga concezione, sul piano sostanziale, della ratio delle prerogative che l'art. 68, primo comma, Cost. riconosce al parlamentare, per garantirne in modo pieno l'autonomia di giudizio e di divulgazione de lle sue iniziative». 3. - In prossimità dell'udienza pubblica il Senato della Repubblica ha depositato memoria, illustrando le precedenti difese e insistendo affinché la Corte dichiari il ricorso «inammissibile e comunque infondato». 3.1. - In via preliminare, la difesa del Senato eccepisce l'inammissibilità del ricorso, in ragione del fatto che l'autorità giudiziaria ricorrente non avrebbe correttamente riportato le dichiarazioni del senatore Iannuzzi della cui insindacabilità si controverte. 3.2. - Quanto al merito, la difesa del Senato ribadisce gli argomenti già esposti nell'atto di costituzione in giudizio a sostegno dell'infondatezza del ricorso. Considerato in diritto 1. - Il Giudice per le indagini preliminari (GIP) del Tribunale di Milano, con atto del 12 giugno 2007, ha proposto conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica in relazione alla deliberazione del 30 gennaio 2007 (doc. IV-ter, n. 1) con la quale, in conformità alla proposta formulata dalla Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, è stato dichiarato che i fatti per i quali è in corso un procedimento penale a carico del senatore Raffaele Iannuzzi costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni e sono pertanto ins indacabili ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione. Il giudice ricorrente riferisce che il senatore è imputato del reato di diffamazione a mezzo stampa in relazione al contenuto dell'articolo a sua firma apparso sul settimanale «Panorama» del 10 ottobre 2002, intitolato «Il codice segreto dell'ultimo pentito», ritenuto offensivo della memoria del sindacalista Domenico Geraci, ucciso nell'ottobre del 1998. Nel capo di imputazione - riprodotto dal ricorrente nell'epigrafe dell'atto introduttivo del giudizio - sono contestate al parlamentare, in particolare, le seguenti affermazioni: «. Il boss di Caccamo del '98, un sindacalista molto discusso, che avrebbe fatto da tramite tra la mafia ed ambienti di sinistra (si disse perfino che Geraci era su quello stesso aereo su cui viaggiavano da Palermo a Roma Luciano Violante e Giovanni Brusca) .». Rileva, peraltro, il GIP del Tribunale di Milano, nella parte espositiva del ricorso, che il procedimento pendente davanti a sé trae origine dalla querela proposta dai signori Giuseppe Geraci e Vincenza Scimeca, rispettivamente figlio e vedova di Domenico Geraci, i quali lamentano che il loro congiunto sia stato indicato nell'articolo di stampa come «sindacalista molto discusso», che «avrebbe fatto da tramite tra la mafia ed ambienti di sinistra»; affermazioni ritenute dai querelanti gravemente offensive della memoria del proprio familiare in quanto idonee a delinearne una collocazione criminale. Il giudice ricorrente deduce, in sintesi, l'insussistenza dei presupposti dell'insindacabilità di cui all'art. 68, primo comma, Cost., mancando un nesso funzionale tra le predette dichiarazioni e alcun atto parlamentare del senatore. 2. - Preliminarmente, deve essere ribadita l'ammissibilità del conflitto, sussistendone i presupposti soggettivi e oggettivi, come già ritenuto da questa Corte con l'ordinanza n. 399 del 2007. 2.1. - Non è fondata, al riguardo, l'eccezione di inammissibilità formulata dalla difesa del Senato della Repubblica sull'assunto che il giudice ricorrente non avrebbe riportato correttamente nell'atto introduttivo del giudizio le espressioni del senatore sulle quali verte il conflitto. In particolare, la difesa del Senato sostiene che il GIP del Tribunale di Milano, nel riportare le espressioni ritenute diffamatorie, avrebbe travisato le parole del senatore, il quale apparirebbe attribuire l'epiteto «il boss di Caccamo» al sindacalista Domenico Geraci, laddove invece, come si evince dalla lettura dell'articolo a sua firma, esso era riferito al pentito Antonino Giuffrè. Nell'atto introduttivo del giudizio il giudice ricorrente riproduce, nell'epigrafe dello stesso, l'imputazione formulata dal pubblico ministero. In tale imputazione, tra le affermazioni offensive della memoria del sindacalista Domenico Geraci ascritte al senatore, figura l'epiteto «il boss di Caccamo»; espressione che, dalla lettura dell'articolo a firma del parlamentare prodotto dalla difesa del Senato, risulta invece riferita al pentito Antonino Giuffrè. Tale circostanza, le cui eventuali conseguenze sul piano processuale spetterà valutare alle competenti autorità giudiziarie investite del procedimento, non è però tale da determinare una carenza dell'atto introduttivo del giudizio nei prospettati termini della inidoneità dello stesso a consentire l'esatta identificazione delle dichiarazioni rese dal parlamentare extra moenia. Infatti il giudice ricorrente, dopo avere riprodotto, nell'epigrafe dell'atto introduttivo del giudizio, l'imputazione formulata dal pubblico ministero, procede ad esporre le ragioni del conflitto. In tale esposizione il giudice precisa che l'azione penale è stata esercitata a seguito della proposizione di querela da parte di due prossimi congiunti del defunto sindacalista e specifica le espressioni - riferite, nell'articolo di stampa, a Domenico Geraci - ritenute dai querelanti offensive e in relazione alle quali essi hanno manifestato perciò la volontà che si proceda penalmente nei confronti del senatore: «sindacalista molto discusso», che «avrebbe fatto da tramite tra la mafia ed ambienti di sinistra». A tali espressioni dell'articolo a firma del senatore, qua li risultanti dal contenuto della querela, il ricorrente fa in seguito riferimento anche nell'esporre le ragioni che renderebbero illegittima la deliberazione di insindacabilità adottata dal Senato della Repubblica. E, in effetti, tali espressioni, esplicitamente riprese dal contenuto della querela, costituiscono le opinioni del senatore assunte dalla Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari ad oggetto delle relazione di accompagnamento alla proposta di deliberazione comunicata alla Presidenza del Senato l'8 novembre 2006. Non è dubbio, quindi, che il giudice ricorrente abbia puntualmente individuato e riportato, come esige il principio di autosufficienza del ricorso, le dichiarazioni rese extra moenia dal parlamentare, e ritenute offensive dai querelanti, permettendo così a questa Corte di compiere «l'accertamento del nesso funzionale tra le frasi pronunciate [.] e gli eventuali atti parlamentari tipici di cui le frasi stesse potrebbero essere la divulgazione esterna» (così la sentenza n. 79 del 2005). 3. - Nel merito, il ricorso è fondato. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, per l'esistenza di un nesso funzionale tra le dichiarazioni rese extra moenia da un parlamentare e l'espletamento delle sue funzioni di membro del Parlamento - alla quale è subordinata la prerogativa dell'insindacabilità di cui all'art. 68, primo comma, Cost. - è necessario che tali dichiarazioni possano essere identificate come espressione dell'esercizio di attività parlamentare (sentenze n. 10 e n. 11 del 2000). Nel caso in esame, i soli atti parlamentari riferibili al senatore menzionati nella relazione della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato e richiamati dalla difesa sono il disegno di legge n. 2292, XIV legislatura, avente ad oggetto «Istituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta sulla gestione di coloro che collaborano con la giustizia», comunicato alla Presidenza il 29 maggio 2003, con la relativa relazione e la proposta di inchiesta parlamentare doc. XXII, n. 25, XIV legislatura, avente ad oggetto «Istituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta sulla gestione di coloro che collaborano con la giustizia», comunicata alla Presidenza il 19 febbraio 2004, anch'essa con la relativa relazione, atti entrambi di iniziativa del senatore e altri.</ P> Al riguardo occorre tuttavia rilevare, per un verso, la mancanza di un legame temporale tra tali atti parlamentari e le dichiarazioni esterne tale per cui queste ultime possano assumere una finalità divulgativa dei primi, entrambi successivi nel tempo. Per altro verso, la mancanza di sostanziale corrispondenza di significato tra le dichiarazioni esterne e le opinioni espresse nella sede parlamentare - in specie, nelle relazioni ai due atti richiamati - ove si consideri che in queste ultime i parlamentari, nell'esporre le ragioni delle proposte di istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulla gestione dei cosiddetti «pentiti», si limitano a menzionare la vicenda del collaboratore di giustizia Giuffrè e la circostanza che egli avrebbe taciuto «sull'omicidio più eclatante consumato a Caccamo n egli ultimi anni, quello ai danni del sindacalista Mico Geraci», senza manifestare tuttavia alcun apprezzamento critico nei confronti di quest'ultimo; solo nelle affermazioni formulate nell'articolo di stampa figura, invece, l'addebito negativo, rivolto al Geraci, di essere stato «un sindacalista molto discusso» che «avrebbe fatto da tramite tra la mafia e ambienti della sinistra». In definitiva, fa difetto, nella presente fattispecie, il nesso funzionale tra le affermazioni formulate dal parlamentare nell'articolo di stampa e gli atti compiuti nella sede parlamentare indicati nella relazione della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari e richiamati dalla difesa del Senato a sostegno della legittimità della delibera di insindacabilità impugnata dal giudice ricorrente. Nella relazione della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari si espone, peraltro, chiaramente, che la Giunta, nel formulare la propria proposta, ritenne «di dover porre l'accento sul fatto, incontestabile e ampiamente noto, che l'impegno politico e parlamentare del senatore Iannuzzi sui temi della criminalità mafiosa e del contrasto alla stessa ha rappresentato - e rappresenta - in certo qual modo la naturale proiezione del suo impegno giornalistico e che tale impegno ha avuto ad oggetto in modo sostanzialmente esclusivo le predette problematiche». Ciò premesso, la Giunta aveva ritenuto non potersi disconoscere l'insindacabilità, ai sensi dell'articolo 68, primo comma, Cost., delle dichiarazioni contenute nell'articolo a firma del senatore Iannuzzi in quanto «relativo ad una vicenda - quella del pentito Giuffrè - che rientra senz'altro fra quei temi che [.] da sempre sono stati al centro dell'attività giornalistica e dell' impegno politico dello stesso senatore». Tuttavia - secondo la giurisprudenza di questa Corte - il mero riferimento all'attività parlamentare o comunque all'inerenza a temi di rilievo generale (pur anche dibattuti in Parlamento), entro cui le dichiarazioni si possano collocare, non vale in sé a connotarle quali espressive della funzione, ove esse, non costituendo la sostanziale riproduzione di specifiche opinioni manifestate dal parlamentare nell'esercizio delle proprie attribuzioni, siano non già il riflesso del peculiare contributo che ciascun deputato e ciascun senatore apporta alla vita parlamentare mediante le proprie opinioni e i propri voti (come tale coperto dall'insindacabilità, a garanzia delle prerogative delle Camere e non di un «privilegio personale [...] con seguente alla mera "qualità" di parlamentare»: sentenza n. 120 del 2004), ma un'ulteriore e diversa articolazione di siffatto contributo, elaborata ed offerta alla pubblica opinione nell'esercizio della libera manifestazione del pensiero assicurata a tutti dall'art. 21 Cost. (sentenze n. 302, n. 166 e n. 152 del 2007). 4. - In conclusione, le dichiarazioni del senatore non rientrano nell'esercizio della funzione parlamentare. L'impugnata deliberazione del Senato della Repubblica di insindacabilità delle stesse ha quindi violato l'art. 68, primo comma, Cost., ledendo le attribuzioni dell'autorità giudiziaria ricorrente e deve, conseguentemente, essere annullata. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara che non spettava al Senato della Repubblica affermare che i fatti per i quali è in corso davanti al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano il procedimento penale a carico del senatore Raffaele Iannuzzi, di cui al ricorso in epigrafe, costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione; annulla, per l'effetto, la deliberazione di insindacabilità adottata dal Senato della Repubblica nella seduta del 30 gennaio 2007 (doc. IV-ter, n. 1). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente e Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 14 maggio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Franco GALLO " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 157, comma 8-bis, del codice di procedura penale (aggiunto dall'art. 2, comma 1, del decreto-legge 21 febbraio 2005, n. 17, recante: «Disposizioni urgenti in materia di impugnazione delle sentenze contumaciali e dei decreti di condanna», convertito con modificazioni dalla legge 22 aprile 2005, n. 60), promossi con ordinanze del 21 ottobre 2005 e del 20 novembre 2006 dal Tribunale di Firenze, iscritte, rispettivamente, al n. 447 del registro ordinanze 2006 ed al n. 617 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, edizione straordinaria del 2 novembre 2006, prima serie speciale, dell'anno 2006 e n. 36, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2008 il Giudice relatore Gaetano Silvestri. Ritenuto in fatto 1.− Con due ordinanze di tenore sostanzialmente analogo, depositate il 21 ottobre 2005 (r.o. n. 447 del 2006) e il 20 novembre 2006 (r.o. n. 617 del 2007), il Tribunale di Firenze, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli articoli 111, terzo comma, e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, comma 8-bis, del codice di procedura penale (aggiunto dall'art. 2, comma 1, del decreto-legge 21 febbraio 2005, n. 17, recante: «Disposizioni urgenti in materia di impugnazione delle sentenze contumaciali e dei decreti di condanna», convertito con modificazioni dalla legge 22 aprile 2005, n. 60), nella parte in cui prevede, nei confronti dell'imputato non detenuto, che la notificazione di tutti gli atti processuali successivi al primo, e quindi anche del decreto di citazione a giudizio, sia eseguita presso il difensore di fiducia. I giudizi principali sono stati introdotti mediante decreti di citazione diretta emessi dal pubblico ministero, con i quali sono contestati i reati di cui agli artt. 110 e 316-ter del codice penale (r.o. n. 447 del 2006) e agli artt. 110 e 640 cod. pen. (r.o. n. 617 del 2007). 1.1. - Nel giudizio cui si riferisce l'ordinanza r.o. n. 447 del 2006, in fase di verifica della costituzione delle parti, la difesa di due imputati non comparsi si è opposta alla dichiarazione di contumacia dei predetti e, dopo aver rilevato che la notifica del decreto di citazione era stata effettuata ai sensi dell'art. 157, comma 8-bis, cod. proc. pen., ha eccepito l'illegittimità costituzionale della norma citata, in quanto la previsione generalizzata della notificazione degli atti successivi al primo presso il difensore di fiducia dell'imputato non detenuto impedirebbe, allo stesso imputato, «di conoscere co mpiutamente l'accusa e di esercitare pienamente la sua difesa». Il rimettente, dopo aver riferito che gli altri difensori si sono associati all'eccezione e che «il PM si è dichiarato remissivo», osserva che la questione è rilevante a fini di verifica della corretta instaurazione del rapporto processuale, essendo evidente che all'accoglimento della stessa seguirebbe l'ordine di rinnovazione della notifica del decreto di citazione a giudizio, mentre in caso di rigetto dovrebbe essere dichiarata la contumacia degli imputati non comparsi. Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo rileva come la norma censurata abbia introdotto una modalità di notificazione strutturata sulla duplice circostanza dell'«essere avvenuta una prima notifica all'imputato secondo le forme ordinarie e l'essere intervenuta da parte dell'imputato la nomina di un difensore di fiducia», da cui il ragionevole affidamento che, nell'ulteriore corso del procedimento a suo carico, l'interessato sia informato di quanto accade attraverso il rapporto con il difensore. Tuttavia, poiché tale affidamento avrebbe «natura di un ragionamento ipotetico», non potrebbe escludersi, a giudizio del rimettente, che in alcuni casi «il rapporto difensore-assistito non comporti una integrale conoscenza da parte del secondo degli atti del procedimento che vengono via via notificati presso il difensore». La descritta situazione di «non piena certezza» della conoscenza dell'atto da parte dell'indagato assumerebbe, secondo il giudice a quo, particolare significato nel caso della notifica del decreto di citazione a giudizio, con il quale è promossa l'azione penale, e ciò sul presupposto che la conoscenza dell'atto introduttivo del dibattimento assuma valenza «nettamente diversa e superiore» rispetto a quella di altri atti (sono indicati, in via esemplificativa, la convalida del sequestro e l'avviso di conclusione delle indagini), in quanto da esso l'interessato apprende con certezza qual è l'accusa ipotizzata a suo carico ed è quindi messo in condizione di preparare un'adeguata difesa. La previsione generalizzata della notificazione presso il difensore di fiducia per gli atti del procedimento successivi al primo, senza distinguere il contenuto degli atti stessi, porrebbe la norma censurata in contrasto con il principio sancito dall'art. 111, terzo comma, Cost., il quale esige che l'imputato sia informato della natura e dei motivi dell'accusa a suo carico e che disponga del tempo e delle condizioni necessarie per preparare la difesa, nonché con il principio di effettività della difesa (art. 24 Cost.). Il rimettente non ritiene, infine, che il prospettato contrasto possa essere escluso in ragione della possibilità, contemplata nella medesima disposizione, che il difensore non accetti le notifiche, con dichiarazione resa immediatamente all'autorità procedente, e renda perciò inapplicabile il meccanismo censurato: così opinando si finirebbe per attribuire alla scelta discrezionale del difensore la capacità di incidere, in senso riduttivo, sui diritti costituzionalmente riconosciuti all'imputato. 1.2. - Nel giudizio introdotto con l'ordinanza r.o. n. 617 del 2007 la scansione dei fatti processuali riferiti dal rimettente, i rilievi argomentativi e la prospettazione della questione sono in tutto identici a quelli già sintetizzati, in riferimento al primo giudizio, al paragrafo 1.1., al quale si rinvia. 2. - In entrambi i giudizi, con atti depositati rispettivamente il 22 novembre 2006 e il 9 ottobre 2007, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato. 2.1. - Nell'atto di intervento riguardante il giudizio introdotto con l'ordinanza r.o. n. 447 del 2006, la difesa erariale eccepisce preliminarmente l'inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, in quanto il rimettente Tribunale in composizione monocratica risulterebbe all'evidenza incompetente a conoscere del reato previsto dall'art. 316-ter cod. pen., attribuito alla cognizione dell'organo collegiale, ai sensi dell'art. 33-bis, lettera b), cod. proc. pen. In ogni caso, ad avviso della difesa erariale, la questione sarebbe infondata. La norma censurata, secondo l'Avvocatura generale, presuppone che il rapporto fiduciario difensore-assistito si svolga secondo canoni fisiologici, nel qual caso non è ipotizzabile che l'assistito non venga reso edotto della circostanza che nei suoi confronti è stato emesso decreto di citazione a giudizio. Qualora, invece, tale fisiologia difetti, come nelle ipotesi di interruzione del rapporto fiduciario o di colpevole inerzia del difensore, ovvero nel caso si determini una impossibilità di comunicazione tra i predetti soggetti, anche non dovuta a colpevole inerzia del difensore o dell'assistito, soccorre la previsione contenuta nell'art. 175 cod. proc. pen. (come modificato dal decreto-legge n. 17 del 2005), che consente la rimessione in termini del contumace e con essa il ripristino del diritto di difesa nella sua pienezza ed effettività. Pertanto, facendo riserva di ulteriormente illustrare le proprie ragioni, l'Avvocatura generale conclude per la declaratoria di inammissibilità o, comunque, di non fondatezza della questione. 2.2. - Nell'atto di intervento riguardante il giudizio introdotto con l'ordinanza r.o. n. 617 del 2007, con riferimento al merito della questione, la difesa erariale ripropone le medesime argomentazioni e conclusioni già sintetizzate al paragrafo 2.1., al quale si rinvia. Considerato in diritto 1. − Il Tribunale di Firenze in composizione monocratica, con due ordinanze, ha sollevato, in riferimento agli artt. 111, terzo comma, e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, comma 8-bis, del codice di procedura penale (aggiunto dall'art. 2, comma 1, del decreto-legge 21 febbraio 2005, n. 17, recante: «Disposizioni urgenti in materia di impugnazione delle sentenze contumaciali e dei decreti di condanna», convertito con modificazioni dalla legge 22 aprile 2005, n. 60), nella parte in cui prevede, nei confronti dell'imputato non detenuto, che la notificazione di tutti gli atti processuali successivi al primo, e quindi anche del decreto di citazione a giudizio, sia eseguita presso il difensore di fiducia. 2. - Le ordinanze di rimessione sollevano la medesima questione e pertanto i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione. 3. - Preliminarmente deve essere rigettata l'eccezione di inammissibilità avanzata dalla difesa erariale, in riferimento al giudizio introdotto con l'ordinanza r.o. n. 447 del 2006, e fondata sulla presunta incompetenza del giudice rimettente. Il principio di autonomia del giudizio incidentale di legittimità costituzionale rispetto al processo principale implica che nel primo possano avere rilievo soltanto vizi macroscopici del secondo, rilevabili ictu oculi e tali da far ritenere la sicura invalidità di quest'ultimo (ex plurimis, sentenze n. 27 del 2006 e n. 279 del 2007). Nel caso di specie non viene segnalata una incompetenza in senso proprio del giudice a quo, ma un difetto di attribuzione, in quanto la cognizione del procedimento spetterebbe ugualmente al Tribunale di Firenze, ma in composizione collegiale e non monocratica. La violazione delle norme in materia di attribuzione può essere eccepita dalle parti o rile vata d'ufficio, a pena di decadenza, entro l'udienza preliminare, o, se quest'ultima manca, entro il termine previsto dall'art. 491, comma 1, cod. proc. pen. e quindi subito dopo l'accertamento della costituzione delle parti (art. 33-quinquies, cod. proc. pen.). Poiché il processo principale è stato sospeso a causa dell'incidente di costituzionalità prima che fosse scaduto il termine utile per la rilevazione (previa eventuale eccezione di parte) del vizio concernente l'attribuzione del procedimento, non si può ritenere sin d'ora insanabilmente viziato il giudizio a quo, sostituendo la valutazione di questa Corte all'iniziativa delle parti e comunque alla decisione che il giudice del processo principale riterrà di dover adottare. 4. - Nel merito, la questione non è fondata. La norma censurata si ispira all'esigenza di bilanciare il diritto di difesa degli imputati e la speditezza del processo, semplificando le modalità delle notifiche e contrastando eventuali comportamenti dilatori e ostruzionistici. La scelta del legislatore è caduta sulla valorizzazione del rapporto fiduciario tra l'imputato ed il suo difensore, fermo restando che il primo atto del procedimento deve essere notificato comunque nelle forme ordinarie. Tale scelta non è lesiva dei diritti dell'imputato, in quanto la nomina del difensore di fiducia implica l'insorgere di un rapporto di continua e doverosa informazione da parte di quest'ultimo nei confronti del suo cliente, che riguarda ovviamente, in primo luogo, la comunicazione degli atti e delle fasi del procedimento, allo scopo di approntare una piena ed effi cace difesa. Il difensore può peraltro sottrarsi all'onere ed alla responsabilità di realizzare questa puntuale attività comunicativa verso il proprio assistito, dichiarando immediatamente e preventivamente di non accettare le notificazioni indirizzate a quest'ultimo. In tal caso l'art. 157, comma 8-bis, cod. proc. pen. non è applicabile e si procede alle notifiche nelle forme ordinarie. Anche l'imputato può rendere inapplicabile la norma censurata, mediante dichiarazione del domicilio o sua elezione presso un qualunque soggetto, e ciò in ogni fase del procedimento, posto che la giurisprudenza di legittimità si è orientata, anche con una recentissima pronuncia delle Sezioni unite penali della Corte di cassazione, nel senso che la manifestazione di volontà della parte prevale sulla domiciliazione legale per ogni notifica ad essa successiva. Infine, si deve osservare che l'art. 175, comma 2, cod. proc. pen., nel testo attualmente vigente, consente all'imputato, in caso di dichiarazione di contumacia, la rimessione in termini per proporre impugnazione, ove non abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento che lo riguarda. Questa Corte ha già chiarito che non vi è una assoluta incompatibilità delle presunzioni legali di conoscenza con le garanzie di difesa e che non può negarsi che il legislatore possa presupporre un onere di diligenza a carico del destinatario delle notificazioni, che gli impone una certa forma di cooperazione (sentenza n. 211 del 1991). A maggior ragione un minimo di cooperazione è richiesto al difensore di fiducia, nel caso in cui, pur avendo la possibilità di rifiutare le notificazioni ai sensi dell'art. 157, comma 8-bis, cod. proc. pen., accetti di riceverle e si accolli pertanto l'onere di mantenere costantemente e compiutamente informato il proprio cliente. Deve anzi ritenersi che, proprio per effetto della norma censurata, il difensore nominato di fiducia sia gravato anche dal compito di rendere edotto il proprio assistito delle conseguenze che, in assenza di elezione o dichiarazione di domicilio, la stessa nomina comporta circa le modalità di notificazione degli atti del procedimento. L'adempimento di tale dovere professionale costituisce garanzia del buon funzionamento del rapporto fiduciario a fini specifici di efficacia delle future notifiche. Ove poi l'imputato si rendesse irreperibile anche per il proprio difensore, ciò sarebbe, di norma, l'indice del suo disinteresse alla partecipazione attiva al processo. 5. - Quanto alla richiesta del giudice rimettente di estrapolare la notifica del decreto di citazione a giudizio dagli altri atti del processo e di dichiarare inapplicabile solo a questa l'art. 157, comma 8-bis, cod. proc. pen., a causa della sua particolare importanza, si deve osservare che risulta priva di fondamento la pretesa di distinguere gli atti del procedimento, quanto alla necessità della loro effettiva conoscenza da parte dell'imputato, poiché l'esercizio del diritto di difesa non è graduabile e deve ugualmente esplicarsi per tutto il corso del procedimento stesso. Tanto meno una simile graduazione potrebbe essere compiuta da questa Corte, una volta accertato che la normativa censurata non è lesiva in generale dei parametri costituzionali denunciati. 6. - In definitiva, la norma censurata assicura le condizioni minime sufficienti a garantire una corretta e tempestiva informazione dell'imputato su tutti gli atti processuali che lo riguardano. Tale disciplina non è peraltro vincolante in modo incondizionato, poiché resta pur sempre aperta la possibilità di avvalersi delle forme ordinarie di notifica degli atti sia per iniziativa del difensore, il quale, come si è visto, può dichiarare all'autorità procedente di non accettare la notificazione, sia per iniziativa dell'imputato, che può eleggere domicilio nella sua dimora abituale, determinando in tal modo l'inapplicabilità della norma censurata. Il diritto dell'imputato ad essere informato ed il suo diritto di difesa rimangono pertanto sufficientemente garantiti. Non si ravvisano, di conseguenza, le violazioni degli artt. 111, terzo comma, e 24 Cost. denunciate nell'ordinanza di rimessione. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, comma 8-bis, del codice di procedura penale (aggiunto dall'art. 2, comma 1, del decreto-legge 21 febbraio 2005, n. 17, recante: «Disposizioni urgenti in materia di impugnazione delle sentenze contumaciali e dei decreti di condanna», convertito con modificazioni dalla legge 22 aprile 2005, n. 60), sollevata, in riferimento agli artt. 111, terzo comma, e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Firenze con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Gaetano SILVESTRI, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 14 maggio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 3, primo comma, della legge 19 febbraio 1981, n. 27 (Provvidenze per il personale di magistratura), promossi con quattro ordinanze dell'11 maggio 2007 dal Consiglio di Stato rispettivamente iscritte ai nn. da 703 a 706 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella. Ritenuto che, nel corso di distinti giudizi promossi da Bertoia Antonella ed altre, tutte magistrati ordinari, nei confronti del Ministero della giustizia e del Ministero dell'economia e delle finanze, al fine di ottenere l'"indennità giudiziaria" prevista dall'art. 3, primo comma, della legge 19 febbraio 1981, n. 27 (Provvidenze per il personale di magistratura), anche durante il periodo di astensione dal lavoro per maternità e puerperio ai sensi dell'art. 4 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), il Consiglio di Stato, con quattro ordinanze dell'11 maggio 2007, di identico contenuto, ha sollevato, in riferiment o all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, primo comma, della legge n. 27 del 1981 nella parte in cui escludeva detta indennità nei periodi di assenza obbligatoria o facoltativa per maternità, di cui agli artt. 4 e 7 della legge n. 1204 del 1971; che, a giudizio del rimettente, tale esclusione dava luogo ad una ingiustificata disparità di trattamento rispetto al personale amministrativo delle cancellerie e delle segreterie giudiziarie, nei cui confronti l'erogazione della medesima indennità era stata disposta dall'art. 21 del d.P.R. 17 gennaio 1990, n. 44 (Regolamento per il recepimento delle norme risultanti dalla disciplina prevista dall'accordo del 26 settembre 1989 concernente il personale del comparto Ministeri ed altre categorie di cui all'art. 2 del d.P.R. 5 marzo 1986, n. 68), anche nei periodi di astensione obbligatoria per maternità o puerperio; che, secondo il giudice a quo, la diversa natura della fonte regolatrice dei due rapporti di lavoro posti a confronto non era sufficiente per giustificare la differenza di trattamento dei magistrati rispetto a quello dei dirigenti delle cancellerie e delle segreterie giudiziarie (contrattualizzati questi ultimi, e non i primi); che, ritenuta pacifica la rilevanza della questione, il giudice a quo osserva che la legittimità costituzionale della norma censurata è stata più volte positivamente verificata dalla Corte costituzionale con riferimento a diversi parametri costituzionali, e in confronto con altre posizioni similari (sentenze n. 238 del 1990, n. 407 del 1996; ordinanza n. 106 del 1997), e che la posizione delle diverse categorie di lavoratrici considerate non presenta differenze tali da giustificare l'attribuzione ad una sola del diritto a detta indennità, laddove l'identità di ratio del medesimo emolumento (diretto a compensare la gravosità dell'impegno connesso all'esercizio dell'attività giudiziaria) esclude la compatibilità di una discipl ina differenziata dei relativi diritti tra classi di dipendenti del tutto omologhe, rispetto al parametro costituzionale che esige la parità di trattamento di situazioni uguali (sentenza n. 476 del 2002); che nel corso dei giudizi a quibus, è intervenuta la legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2005), la quale, all'art. 1, comma 325, disponeva che «all'articolo 3, primo comma, della legge 19 febbraio 1981, n. 27, le parole "assenza obbl igatoria o facoltativa previsti negli articoli 4 e 7 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204," sono sostituite dalle seguenti: "astensione facoltativa previsti dagli articoli 32 e 47, commi 1 e 2, del testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151», in tal modo rimuovendo l'ostacolo posto a base delle censure di legittimità costituzionale in esame; che, con ordinanza del 13 gennaio 2006, n. 10, questa Corte, in considerazione di tale jus superveniens, ha disposto la restituzione degli atti al rimettente, il quale, con quattro ordinanze di identico contenuto, dopo aver escluso l'efficacia retroattiva della nuova disciplina, ha nuovamente sollevato la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, della legge n. 27 del 1981, nella versione antecedente alle modifiche apportate dalla legge n. 311 del 2004; che, secondo il giudice a quo, infatti, quest'ultima normativa, in vigore dal 1° gennaio 2005, non può applicarsi alle situazioni in cui versavano le attrici, in quanto esauritesi prima di tale data; che, intervenuto in giudizio, il Presidente del Consiglio dei ministri - rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato - ha eccepito l'inammissibilità della questione avendo il rimettente omesso di pronunciarsi sulla perdurante rilevanza di essa relativamente allo specifico caso di ciascuna delle ricorrenti; che, nel merito, secondo la difesa erariale, lo status delle addette alle cancellerie ed alle segreterie giudiziarie è completamente diverso rispetto a quello dei magistrati, essendo in particolare diversa la fonte da cui scaturisce il trattamento economico concernente le due categorie poste a confronto (il contratto collettivo per le prime e la legge per i secondi); che, secondo l'Avvocatura generale, diversa è altresì la genesi ed il fine dell'indennità in questione per ciascuna delle categorie poste a confronto: per i magistrati viene in evidenza la finalità di studio e di aggiornamento professionale, piuttosto che la gravosità dell'impegno connesso all'attività giudiziaria; che nessuna disparità sussiste, inoltre, per la circostanza che altre donne magistrato possano percepire l'indennità dopo l'entrata in vigore della nuova normativa del 2004: risultato, questo, che discende dalla discrezionalità del legislatore di derogare al principio di irretroattività della legge. Considerato che il Consiglio di Stato ha sollevato, con esclusivo riferimento all'art. 3, primo comma, della Costituzione e con quattro ordinanze di identico contenuto, questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, primo comma, della legge 19 febbraio 1981, n. 27 (Provvidenze per il personale di magistratura), nel testo anteriore alla modifica introdotta dall'art. 1, comma 325, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2005), nella parte in cui esclude la corresponsione dell'indennità giudiziaria durante il periodo di astensione obbligatoria per maternità; che il rimettente, pur dando atto che la norma censurata è stata modificata dal richiamato art. 1, comma 325, della legge n. 311 del 2004, nel senso che l'astensione obbligatoria dall'attività lavorativa per maternità non comporta più la perdita dell'indennità prevista dall'art. 3, comma 1, della legge n. 27 del 1981, rileva che la novella legislativa non è applicabile alle fattispecie oggetto dei giudizi principali, perché la modifica ha effetto con decorrenza dal 1° gennaio 2005; che, relativamente al periodo anteriore a tale data, il rimettente deduce l'illegittimità della norma denunciata, per disparità di trattamento rispetto al personale amministrativo delle cancellerie e segreterie giudiziarie, al quale invece l'indennità in questione veniva già concessa anche durante il periodo di astensione obbligatoria per maternità, come previsto dalla contrattazione collettiva riguardante il rapporto di lavoro di quel personale, a partire dall'accordo recepito con il d.P.R. 17 gennaio 1990, n. 44 (Regolamento per il recepimento delle norme risultanti dalla disciplina prevista dall'accordo del 26 settembre 1989 concernente il personale del comparto Ministeri ed altre categorie di cui all'art. 2 del d.P.R. del 5 marzo 1986, n. 68);</ SPAN> che secondo il giudice a quo la diversità del regime della regolamentazione dei rapporti di lavoro tra le categorie poste a raffronto (magistrati, da una parte, e personale dirigente delle cancellerie e delle segreterie, dall'altro) non vale ad escludere la prospettata violazione dell'art. 3 Cost.: il fatto che un tipo di rapporto sia regolato dalla legge e l'altro dal contratto collettivo, non esime il legislatore che regola il primo dall'obbligo di rispettare il suddetto precetto costituzionale, quand'anche il trattamento più favorevole venga introdotto da un contratto collettivo successivo alla legge; che l'identità della materia, e delle questioni prospettate, rendono opportuna la riunione dei giudizi, per la loro trattazione congiunta e per la loro decisione con unica pronuncia; che va, preliminarmente, esaminata l'eccezione di inammissibilità della questione sollevata dall'Avvocatura erariale sul presupposto che il rimettente non avrebbe motivato sulla perdurante rilevanza della questione, dopo l'intervento della legge n. 311 del 2004; che l'eccezione non è fondata, in quanto detta rilevanza discende proprio dall'irretroattività della novella - presupposta dal rimettente - e, quindi, dalla perdurante applicabilità della precedente normativa alle fattispecie dei giudizi principali, tutte anteriori al 1° gennaio 2005; che, nel merito, la questione è manifestamente infondata; che l'indennità di funzione per i magistrati ha mantenuto, sin dalla sua istituzione, connotati peculiari perché assoggettata al meccanismo di rivalutazione automatica previsto per gli stipendi dei magistrati dal precedente art. 2 della stessa legge n. 27 del 1981; che tale rivalutazione si ispira al precetto costituzionale dell'indipendenza dei magistrati, costituendo una guarentigia idonea a tale scopo; che conseguentemente tale meccanismo, connesso allo status dei magistrati, non è stato mai esteso sic et simpliciter al personale delle cancellerie e segreterie giudiziarie (legge 22 giugno 1988, n. 221, recante «Provvedimenti a favore del personale delle cancellerie e segreterie giudiziarie») né a quello amministrativo delle magistrature speciali (legge 15 febbraio 1989, n. 51, recante «Attribuzione dell'indennità giudiziaria al personale amministrativo delle magistrature speciali»), in quanto l'indennità è stata attribuita in misura fissa con esclusione di ogni meccanismo di adeguamento automatico (sentenza n. 15 del 1995); che le differenze di regime giuridico tra le due categorie di dipendenti statali si sono accentuate a séguito della riforma del pubblico impiego, stante la diversità ormai riscontrabile sul piano delle fonti di disciplina dei rispettivi rapporti di impiego (il rapporto di lavoro degli impiegati è disciplinato in gran parte - ed in particolare per la materia del tratta mento economico - da fonti contrattuali, quello dei magistrati esclusivamente dalla legge) (ordinanza n. 290 del 2006); che, in conclusione, trattandosi di posizioni e funzioni diverse, non è possibile accomunare il regime dell'indennità di funzione riferito ai magistrati a quello riservato al personale delle cancellerie e segreterie giudiziarie, sicché non è configurabile una irrazionale disparità di trattamento per il solo fatto che da tale raffronto discende una quantificazione diversa delle rispettive prestazioni; che, contrariamente a quanto ritiene il giudice a quo, non è possibile dedurre dall'intervento dell'art. 1, comma 325, della legge finanziaria per l'anno 2005 a favore dei magistrati assenti per maternità, l'intento del legislatore di rimuovere una situazione di illegittima disparità di trattamento; che la novella citata costituisce invece la manifestazione della discrezionalità del potere legislativo nel collocare nel tempo le innovazioni normative; che, pertanto la questione sollevata dal Consiglio di Stato è manifestamente infondata. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, primo comma, della legge 19 febbraio 1981, n. 27, nel testo anteriore alla modifica introdotta dall'art. 1, comma 325, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2005), nella parte in cui esclude la corresponsione dell'indennità da esso prevista nel periodo di astensione obbligatoria per maternità, sollevata, in riferimento all'art. 3, primo comma, della Costituzione, dal Consiglio di Stato con le ordinan ze in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Luigi MAZZELLA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 14 maggio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 4, lettera a), del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace), e 74 del codice di procedura penale in relazione all'art. 7 del codice di procedura civile, promosso con ordinanza del 27 luglio 2006 dal Giudice di pace di Firenze nel procedimento penale a carico di Stasi Sara, iscritta al n. 681 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano. Ritenuto che il Giudice di pace di Firenze, con ordinanza del 27 luglio 2006, ha sollevato questione di legittimità costituzionale «del combinato disposto dell'art. 4 lettera a) del d. lvo. 28 agosto 2000 n. 241 [n. 274 recante Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace], coordinato con l'art. 74 c.p.p. e con l'art. 7 c.p.c., in relazione agli artt. 3 e 25 Costituzione, là ove permette la proposi zione dell'azione civile in un giudizio penale [di competenza del giudice di pace] oltre i limiti di competenza per valore dell'omologo giudice civile»; che nel giudizio a quo, avente ad oggetto un'imputazione per lesioni colpose, la persona offesa si è costituita parte civile chiedendo la condanna dell'imputato al risarcimento del danno per un ammontare di oltre euro 60.000; che, come rilevato dal rimettente, la competenza del giudice di pace in materia civile è limitata alle cause relative a beni mobili di valore non superiore a euro 2.582,28 e alle cause di risarcimento del danno prodotto dalla circolazione dei veicoli e dei natanti, purché il valore della controversia non superi euro 15.493,71, oltre alle altre ipotesi previste dall'art. 7 cod. proc. civ.; che, a parere del rimettente, l'attuale disciplina della competenza del giudice di pace in materia penale sarebbe in palese contrasto con il principio di eguaglianza e con il principio del giudice naturale precostituito per legge, in quanto, qualora il fatto illecito abbia determinato un danno di importo superiore al limite di competenza per valore del giudice di pace, la proposizione di un autonomo giudizio civile deve effettuarsi avanti al tribunale, mentre una volta esercitata l'azione penale, l'azione civile può essere esercitata all'interno del processo penale che si celebra davanti al giudice di pace indipendentemente dall'importo dei danni; che la competenza del giudice di pace, in caso di costituzione di parte civile nel processo penale, e quella alternativa del tribunale civile, in caso di sola azione civile, risulterebbero rimesse alla libera scelta del danneggiato con il superamento, nel primo caso, del limite di competenza per valore fissato dal legislatore in materia civile per il giudice di pace; che, secondo il Giudice di pace di Firenze, l'attuale disciplina violerebbe il principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge in quanto il danneggiante sarebbe costretto a subire la scelta del danneggiato tra l'azione civile e la costituzione di parte civile nel processo penale, trovandosi assoggettato, nel primo caso, ad un processo avanti al tribunale e, nel secondo, di fronte al giudice di pace; che tale libertà di scelta del danneggiato, oltre a violare il principio di eguaglianza, comporterebbe una palese violazione dell'art. 25 Cost., in quanto per il danneggiante non verrebbe ad esservi un giudice naturale precostituito per legge, ma un giudice naturale scelto dalla volontà del danneggiato; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto alla Corte di dichiarare la questione inammissibile o, in subordine, infondata; che, a parere dell'Avvocatura dello Stato, il principio del giudice naturale non risulta violato dal momento che «è la predeterminazione per legge dei criteri di azione del Giudice a soddisfare pienamente il canone costituzionale, non già la sua adizione nel caso concreto»; che la possibilità che siano competenti giudici diversi in relazione al medesimo petitum discende dalla natura stessa dell'azione civile nel processo penale, la quale ha funzione meramente «ancillare» rispetto alla finalità della restaurazione della legalità violata; che d'altro canto - ricorda ancora l'Avvocatura - nel processo civile esistono numerosi casi di foro facoltativo e anche nel contenzioso amministrativo si può scegliere tra il ricorso giurisdizionale e il ricorso straordinario al Capo dello Stato. Considerato che il Giudice di pace di Firenze dubita, in riferimento agli articoli 3 e 25 della Costituzione, della legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 4, lettera a), del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace), e 74 del codice di procedura penale, nella parte in cui attribuisce al giudice di pace la competenza a giudicare, nella materia penale a lui devoluta, anche sulla costituzione di parte civile oltre il limite di valore di cui all'art. 7 codice di procedura civile; che, a prescindere dall'errata individuazione della norma oggetto di censura, - in quanto la prospettazione del rimettente porterebbe ad indirizzare il dubbio di legittimità costituzionale sulla disposizione che pone la regola della generale applicabilità delle norme contenute nel codice di procedura penale e che individua le relative eccezioni (vale a dire l'art. 2, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000) e non sulla disposizione che gli attribuisce la competenza in materia penale (art. 4), - la questione è manifestamente infondata sia con riferimento all'art. 3 che all'art. 25 della Costituzione; che il meccanismo procedurale che assicura il simultaneus processus, pur non essendo oggetto di garanzia costituzionale, costituisce certamente una modalità processuale finalizzata all'economia dei giudizi ed alla prevenzione del pericolo di giudicati contraddittori (ordinanze n. 124 del 2005, n. 90 del 2002 e n. 398 del 2000); che la disciplina della costituzione di parte civile nel processo penale, anche in quello di competenza del giudice di pace, risponde a precise esigenze di economia processuale e, pertanto, l'attribuzione in tali casi al giudice di pace di controversie che superano il valore stabilito dall'art. 7 cod. proc. civ. non può essere ritenuta irragionevole; che questa Corte ha ripetutamente affermato che, in materia di individuazione del giudice competente, il legislatore gode di ampia discrezionalità con l'unico limite della ragionevolezza e che «non assume dunque rilievo la presunta maggiore o minore idoneità o qualificazione, che possa essere rivendicata o riconosciuta all'uno o all'altro organo della giurisdizione» (sentenza n. 460 del 1994 e ordinanza n. 481 del 2002); che è principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che la garanzia del giudice naturale corrisponde a quella di giudice precostituito per legge e che tale principio «è rispettato quando la regola di competenza sia prefissata rispetto all'insorgere della controversia (come è evidente nella specie) e non è invece utilizzabile per sindacare la scelta del legislatore che si esprime nella fissazione di quella regola» (ordinanza n. 193 del 2003). Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 4, lettera a), del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace), e 74 del codice di procedura penale, in relazione all'art. 7 codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, dal Giudice di pace di Firenze con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 14 maggio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1 del decreto-legge 8 febbraio 2003, n. 18 (Disposizioni urgenti in materia di giudizio necessario secondo equità), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 aprile 2003, n. 63, sostitutivo dell'art. 113, secondo comma, del codice di procedura civile, promosso dal Giudice di pace di Mercato San Severino, nel procedimento civile vertente tra C. A. e l'ENEL Distribuzione s.p.a., con ordinanza del 4 novembre 2006, iscritta al n. 505 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti l'atto di costituzione di C. A. nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 15 aprile 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante; uditi gli avvocati Roberto Napolitano e Giuseppe Di Geronimo per C. A. e l'avvocato dello Stato Gianna Maria De Socio per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto che, nel corso di un giudizio civile - instaurato da un privato con atto di citazione notificato il 15 giugno 2006 nei confronti dell'ENEL Distribuzione s.p.a. per ottenere il risarcimento del danno (quantificato in euro 1.033) asseritamente subito per effetto dell'interruzione nell'erogazione dell'energia elettrica - il Giudice di pace di Mercato San Severino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 del decreto-legge 8 febbraio 2003, n. 18 (Disposizioni urgenti in materia di giudizio necessario secondo equità), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 ap rile 2003, n. 63; che il remittente, dopo aver ricordato che la disposizione censurata ha modificato l'art. 113, secondo comma, del codice di procedura civile nel senso di vietare la decisione secondo equità delle cause aventi ad oggetto i cosiddetti contratti di massa anche se di valore inferiore a millecento euro, afferma, quanto alla rilevanza della questione, che dal relativo esame dipende la modalità di decisione - secondo diritto ovvero secondo equità - del giudizio in oggetto; che, quanto al merito della questione, il giudice a quo ritiene, in primo luogo, che la norma di cui si tratta sia in contrasto con il «principio di ragionevolezza delle leggi», per essere del tutto inidonea a raggiungere lo scopo, perseguito dal legislatore (ed enunciato nel preambolo del d.l. n. 18 del 2003), di evitare difformità di pronunce riferite ad identiche tipologie contrattuali, visto che nel nostro ordinamento vige il principio della non vincolatività dei precedenti giurisprudenziali, principio non modificato dal decreto-legge in oggetto e non suscettibile di deroghe; che la disposizione stessa violerebbe, altresì, l'art. 41 Cost., in quanto, rendendo comunque appellabili le sentenze dei giudici di pace, finirebbe per agevolare troppo la parte contrattuale forte la quale, date le sue maggiori disponibilità economiche, avrebbe più possibilità di proporre impugnazione e ciò rappresenterebbe un ostacolo alla stipulazione dei contratti di massa da parte dei contraenti deboli; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la inammissibilità o la manifesta infondatezza della questione; che si è costituito in giudizio il ricorrente nel giudizio principale, chiedendo, anche in una memoria depositata in prossimità dell'udienza, l'accoglimento della questione, in sostanziale adesione agli argomenti esposti dal remittente. Considerato che la Corte è chiamata a giudicare, in riferimento agli artt. 3 e 41 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 1 del decreto-legge 8 febbraio 2003, n. 18 (Disposizioni urgenti in materia di giudizio necessario secondo equità), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 aprile 2003, n. 63, nella parte in cui, sostituendo l'art. 113, secondo comma, del codice di procedura civile, esclude che il giudice di pace decida secondo equità le cause «derivanti da rapporti giuridici relativi a contratti conclusi secondo le modalità di cui all'art. 1342 del c odice civile»; che la questione è stata sollevata dal giudice di pace di Mercato San Severino, il quale è stato adito, con citazione notificata il 15 giugno 2006, da un utente di energia elettrica in base ad un contratto stipulato su formulario con l'ENEL, per ottenerne la condanna al risarcimento dei danni nella misura di 1.033 euro per un'illegittima sospensione della fornitura; che, secondo il remittente, la norma è irragionevole, e quindi contrastante con l'art. 3 Cost., in quanto la finalità - indicata nel preambolo del d.l. n. 18 del 2003 - di ottenere uniformità di giudizi nelle controversie aventi ad oggetto rapporti derivanti dai cosiddetti contratti di massa non potrebbe essere raggiunta in un sistema, come quello italiano, non improntato alla vincolatività dei precedenti giurisprudenziali; che, inoltre, ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata, obbligando il giudice a decidere la controversia secondo diritto e rendendo così sempre appellabile la relativa sentenza, agevolerebbe troppo il contraente forte che ha maggiori possibilità di proporre impugnazione e, quindi, creerebbe un ostacolo alla stipulazione dei contratti di massa da parte degli utenti, limitandone il libero svolgimento dell'attività economica e, in particolare, contrattuale, garantito dall'art. 41 della Costituzione; che la questione è manifestamente infondata sotto tutti i profili prospettati; che una disposizione di legge non è irragionevole se, proponendosi una determinata finalità, predisponga strumenti che ne garantiscono soltanto un raggiungimento parziale; che, indubbiamente, se lo scopo cui è preordinata la norma censurata consiste nell'assicurare decisioni delle cause aventi ad oggetto rapporti nascenti da contratti conclusi mediante moduli o formulari tra di loro non discordanti per i criteri che le informano, tale scopo può essere più adeguatamente soddisfatto se le suddette controversie vengono risolte secondo i criteri generali ed astratti previsti dalle leggi, anziché alla stregua delle particolari circostanze soggettive ed oggettive di ogni singolo rapporto; che, a tal fine, nella tradizione della disciplina processuale italiana, è predisposta la funzione nomofilattica della Corte di cassazione la quale, anche dopo la decisione di questa Corte n. 206 del 2004, ha maggiore ampiezza di incidenza nelle impugnazioni di sentenze decise secondo diritto rispetto a quelle proposte contro decisioni prese secondo equità; che parimenti non fondato - a voler trascurare ogni considerazione sulla tempestività della censura e sulla sua pertinenza in un giudizio in cui non risultano contestate le modalità di stipulazione del contratto da parte dell'utente - è il profilo di illegittimità prospettato con riguardo all'art. 41 Cost.; che mentre, infatti, l'applicazione della legge tutela i soggetti più deboli, la previsione di un grado in più di giudizio di merito non lede, di per sé, gli interessi di questi, i quali, ricorrendone le condizioni, possono avvalersi del gratuito patrocinio; che, inoltre, le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità, per effetto della sostituzione del terzo comma dell'art. 339 cod. proc. civ. disposta dall'art. 1 del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (applicabile anche nella specie), sono soggette ad appello «per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia». LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 del decreto-legge 8 febbraio 2003, n. 18 (Disposizioni urgenti in materia di giudizio necessario secondo equità), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 aprile 2003, n. 63, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 41 della Costituzione, dal Giudice di pace di Mercato San Severino, con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 14 maggio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi per conflitto di attribuzione tra enti sorti a seguito del disegno di legge costituzionale approvato con deliberazione del Consiglio dei ministri nella seduta n. 45 del 5 aprile 2007, nonché dell'atto di presentazione dello stesso alla Camera dei deputati, in data 17 aprile 2007, ad opera del Ministro dell'interno (atto camera n. 2525) e del disegno di legge costituzionale, approvato con deliberazione del Consiglio dei ministri nella seduta n. 52 del 23 maggio 2007 nonché dell'atto di presentazione alla Camera dei deputati, in data 4 giugno 2007 ad opera del Ministro dell'interno (atto camera n. 2727) relativi alle procedure per il distacco dei Comuni di Noasca e di Carema dalla Regione Piemonte e la loro aggregazione alla Regione Valle d'Aosta, promossi con due rico rsi della Regione Valle d'Aosta notificati il 25 maggio ed il 20 luglio 2007, depositati in cancelleria il 6 giugno ed il 27 luglio 2007 ed iscritti ai nn. 5 e 6 del registro conflitti tra enti 2007. Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri nonché l'atto di intervento, fuori termine, di Aldighieri Giovanni ed altra nella qualità di delegati del Comune di Carema; udito nell'udienza pubblica del 15 aprile 2008 il Giudice relatore Ugo De Siervo; uditi l'avvocato Francesco Saverio Marini per la Regione Valle d'Aosta e l'avvocato dello Stato Francesco Lettera per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto che, con ricorso notificato il 25 maggio 2007 e depositato il successivo 6 giugno (reg. confl. n. 5 del 2007), la Regione Valle d'Aosta/Vallè d'Aoste ha promosso conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato, avente ad oggetto la approvazione e la presentazione alla Camera dei deputati, da parte del Ministro dell'interno, del disegno di legge costituzionale recante «Distacco del comune di Noasca dalla Region e Piemonte e sua aggregazione alla Regione Valle d'Aosta, ai sensi dell'art. 132, secondo comma, della Costituzione»; che gli atti impugnati conseguono all'esito favorevole del referendum previsto dall'art. 132, secondo comma, della Costituzione; che il Consiglio dei ministri, nell'approvare il disegno di legge, avrebbe tuttavia leso le attribuzioni costituzionali della Regione; che il Presidente della Giunta non avrebbe partecipato, né sarebbe stato convocato, alla seduta del Consiglio, benché l'art. 44, terzo comma, della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d'Aosta), ne preveda l'intervento, su questioni che riguardano particolarmente la Regione; che sarebbe stato inoltre violato il principio di leale cooperazione tra enti, giacchè non sarebbe stato acquisito il parere della Regione sul disegno di legge, previsto dall'art. 132, comma secondo, della Costituzione; che, infine, viene eccepita l'illegittimità costituzionale dell'art. 45, quarto comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sul referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), in riferimento all'art. 71, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui tale disposizione renderebbe obbligatoria la presentazione del disegno di legge conseguente all'esito favorevole del referendum di cui all'art. 132, secondo comma, della Costituzione; che si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che il ricorso sia dichiarato infondato; che, secondo l'Avvocatura, l'iniziativa legislativa del Ministro dell'interno avrebbe carattere vincolato sul piano sostanziale e temporale, a seguito dell'esito favorevole del referendum; che, per tale ragione, la partecipazione del Presidente della Giunta alla seduta del Consiglio dei ministri non sarebbe costituzionalmente necessaria; che analoga conclusione dovrebbe essere tratta, per la medesima ragione, in ordine alla mancata acquisizione del parere regionale; che, con un secondo ricorso notificato il 20 luglio 2007 e depositato il successivo 27 luglio (reg. confl. n. 6 del 2007), la Regione Valle d'Aosta/Vallè d'Aoste ha promosso conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato, avente ad oggetto la approvazione e la presentazione alla Camera dei deputati, da parte del Ministro dell'interno, del disegno di legge costituzionale recante «Distacco del comune di Carema dalla Regione Piemonte e sua aggregazione alla Regione Valle d'Aosta, ai sensi dell'art. 132, secondo comma, della Costituzione»; che la ricorrente prospetta censure del tutto analoghe alle doglianze svolte nel precedente ricorso; che si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che il ricorso sia dichiarato infondato, con argomenti del tutto analoghi a quelli svolti in occasione del precedente ricorso; che, con atto depositato fuori termine l'11 febbraio 2007, sono intervenuti "ad opponendum" nel conflitto n. 6 del 2007 Giovanni Aldighieri e Daniela Cappellin, nella qualità rispettivamente di Sindaco e Vicesindaco del Comune di Carema, nonché di delegato effettivo e supplente nel procedimento referendario per il distacco del Comune di Carema. Considerato che i giudizi sono connessi e meritano pertanto di essere riuniti; che, indipendentemente dall'ammissibilità dell'intervento di soggetti diversi da quelli espressamente previsti nel giudizio per conflitto di attribuzione tra Stato e Regioni, l'atto con il quale i terzi sono intervenuti nel conflitto n. 6 del 2007 è stato depositato oltre i termini previsti dalle norme che disciplinano il giudizio dinanzi alla Corte costituzionale (art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87, cui espressamente rinvia, per i giudizi sui conflitti tra Stato e Regioni, l'art. 41 della stessa legge; art. 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, cui rinvia l'art. 27 delle medesime Norme integrative); che l'atto di intervento è per tale ragione irricevibile (sentenza n. 511 del 2000); che, nelle more del giudizio costituzionale, le Camere sono state sciolte e si è avviata la nuova legislatura; che, per effetto di una nota consuetudine di diritto parlamentare, ciò comporta la decadenza dei disegni di legge costituzionale attraverso i quali sarebbero state lese le competenze della Regione ricorrente; che non ricorrono, infatti, le condizioni stabilite dal diritto parlamentare ed in particolare dall'art. 107 del Regolamento della Camera dei deputati e dall'art. 81 del Regolamento del Senato della Repubblica, in presenza delle quali tale principio non trova applicazione, o viene comunque mitigato; che, pertanto, gli atti oggetto dei conflitti sono venuti meno; che tale circostanza determina la cessazione della materia del contendere in entrambi i giudizi riuniti (da ultimo, ordinanze n. 252, n. 138 e n. 41 del 2007). LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara cessata la materia del contendere in ordine ai ricorsi in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Ugo DE SIERVO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 14 maggio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Franco GALLO " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati del 2 febbraio 2005 (Doc. IV-quater, n. 112), relativa alla insindacabilità, ai sensi dell'articolo 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dal deputato Guglielmo Rositani nei confronti di Mauro Meli, promosso con ricorso del Giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Cagliari, depositato in cancelleria il 3 dicembre 2007 ed iscritto al n. 17 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2007, fase di ammissibilità. Udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro. Ritenuto che il Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Cagliari, con ricorso del 21 novembre 2007, depositato presso la cancelleria della Corte il 3 dicembre 2007, ha promosso conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati, in relazione alla delibera adottata nella seduta del 2 febbraio 2005 (Doc. IV-quater, n. 112), con la quale è stato dichiarato, in conformità alla proposta della Giunta per le autorizzazioni, che i fatti oggetto del procedimento penale a carico del deputato Guglielmo Rositani concernono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni, come tali insindacabili ai sensi dell'articolo 68, primo comma, della Costituzione; che il giudice ricorrente premette che il deputato Guglielmo Rositani è imputato in ordine al reato di diffamazione a mezzo stampa, per aver offeso, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, la reputazione di Mauro Meli, all'epoca sovrintendente del Teatro lirico di Cagliari, mediante dichiarazioni rese il 3 marzo 2003 nel corso di una conferenza stampa presso il Consiglio regionale della Sardegna, successivamente riprese dai quotidiani "L'Unione sarda" e "La Nuova Sardegna", dall'ANSA e da alcune emittenti televisive locali; che, in particolare, al deputato si contesta di aver definito «mafiosi i metodi di gestione di Meli» e di aver affermato che «in tutta Italia si parla di Cagliari come di un paese dove si utilizza danaro pubblico per favorire gli amici e Meli ne è responsabile», che Meli si era servito «di metodi mafiosi e truffaldini per favorire sé e i suoi amici», che «dagli atti esaminati dalla Guardia di finanza si vede chiaramente che qui ci sono interessi privati e interessi degli amici degli amici che vanno ad inserirsi nel costo della musica», che, infine, Meli «è responsabile di una gestione mafiosa e corrotta»; che, ad avviso del ricorrente, soltanto le «accuse di natura lato sensu contabile» - in base alle quali «dagli atti esaminati dalla Guardia di finanza si vede chiaramente che qui ci sono interessi privati e interessi degli amici degli amici che vanno ad inserirsi nel costo della musica» - potrebbero essere considerate proiezione esterna del contenuto dell'interrogazione a risposta immediata del 7 dicembre 2002, richiamata nella relazione della Giunta per le autorizzazioni, presentata dal deputato per chiedere al Ministro per i beni e le attività culturali di disporre un'ispezione in relazione alle vicende amministrative e contabili del Teatro lirico di Cagliari; che le ulteriori dichiarazioni incriminate, invece, non presenterebbero alcuna sostanziale corrispondenza di significato rispetto al suddetto atto parlamentare e, dunque, non dovrebbero ritenersi coperte dalla prerogativa di cui all'art. 68, primo comma, della Costituzione; che, pertanto, il giudice prospetta l'illegittimità della delibera della Camera dei deputati del 2 febbraio 2005 e chiede alla Corte costituzionale di disporne l'annullamento. Considerato che la Corte, in questa fase del giudizio, a norma dell'art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, è chiamata esclusivamente a valutare senza contraddittorio se il ricorso sia ammissibile, in quanto esista la materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza, in riferimento ai prescritti requisiti di carattere soggettivo ed oggettivo, restando impregiudicata ogni definitiva decisione, anche in ordine all'ammissibilità; che, quanto al requisito soggettivo, devono ritenersi legittimati ad essere parti del conflitto sia il Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Cagliari, in quanto organo giurisdizionale, in posizione di indipendenza costituzionalmente garantita, competente ad esprimere definitivamente la volontà del potere cui appartiene, sia la Camera dei deputati, in quanto organo competente a dichiarare definitivamente la propria volontà in ordine all'applicabilità dell'art. 68, primo comma, della Costituzione; che, sotto il profilo oggettivo, il ricorrente denuncia la menomazione della propria sfera di attribuzione, costituzionalmente garantita, in conseguenza dell'adozione, da parte della Camera dei deputati, di una deliberazione ove si afferma, in modo asseritamente illegittimo, che le opinioni espresse da un proprio membro rientrano nell'esercizio delle funzioni parlamentari; che, pertanto, esiste la materia di un conflitto la cui risoluzione spetta alla competenza di questa Corte. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara ammissibile, ai sensi dell'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il conflitto di attribuzione proposto dal Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Cagliari nei confronti della Camera dei deputati, con il ricorso indicato in epigrafe; dispone: a) che la cancelleria della Corte dia immediata comunicazione della presente ordinanza al ricorrente Giudice dell'udienza preliminare presso il Tribunale di Cagliari; b) che il ricorso e la presente ordinanza siano notificati, a cura del ricorrente, alla Camera dei deputati, in persona del suo Presidente, entro il termine di sessanta giorni dalla comunicazione di cui al punto a), per essere successivamente depositati, con la prova dell'avvenuta notifica, presso la cancelleria di questa Corte entro il termine di venti giorni dalla notificazione, a norma dell'art. 26, comma 3, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giuseppe TESAURO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 14 maggio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA |