Deposito del 21/02/2008 (dalla 27 alla 37) |
S.27/2008 del 11/02/2008 Udienza Pubblica del 15/01/2008, Presidente BILE, Relatore MAZZELLA Norme impugnate: Artt. 1, c. 20° (sostitutivo dell'art. 8, c. 4° legge della Regione Abruzzo 09/05/2001 n. 17), 22° (modificativo dell'art. 6, c. 3° legge della Regione Abruzzo 09/05/2001 n. 18), e 2 (modificativo dell'art. 7, c. 7°, 8° e 9°, legge della Regione Abruzzo 09/05/2001 n. 18) della legge della Regione Abruzzo 08/06/2006, n. 16. Oggetto: Impiego pubblico - Norme della Regione Abruzzo - Autisti presso la Giunta e il Consiglio regionale - Corresponsione di una indennità omnicomprensiva in sostituzione di straordinario, reperibilità, rischio e turnazio ne; Responsabile delle segreterie dei gruppi consiliari - Possibilità di conferire l'incarico a personale esterno privo dei requisiti prescritti per il personale interno; Consiglieri regionali - Attribuzione di rimborso spese mensile pari al trattamento economico dei dipendenti di categoria D. Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale - inammissibilità - estinzione del processo Atti decisi: ric. 95/2006 |
S.28/2008 del 11/02/2008 Udienza Pubblica del 11/12/2007, Presidente BILE, Relatore CASSESE Conflitto: Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati 08/02/2006. Oggetto : Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento penale a carico del deputato Maurizio Gasparri per diffamazione aggravata nei confronti del magistrato Mariaclementina Forleo - Deliberazione di insindacabilità della Camera dei deputati. Dispositivo: accoglie il ricorso Atti decisi: confl. pot. mer. 16/2006 |
O.29/2008 del 11/02/2008 Udienza Pubblica del 11/12/2007, Presidente BILE, Relatore AMIRANTE Norme impugnate: Art. 3, c. 2°, del decreto legge 11/06/1998, n. 180, convertito in legge 03/08/1998, n. 267; art. 8, c. 1°, lett. d), del decreto legislativo 20/09/1999, n. 354; art. 1, c. 2° quater, del decreto legge 07/02/2003, n. 15, convertito i n legge 08/04/2003, n. 62. Oggetto: Arbitrato - Controversie relative all'esecuzione di opere pubbliche comprese in programmi di ricostruzione di territori colpiti da calamità naturali - Divieto di devoluzione a collegi arbitrali - Contrasto con il complessivo quadro normativo teso a favorire la composizione delle liti tra P.A. e privati in sede alternativa a quella giudiziaria. Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens Atti decisi: ord. 280/2007 |
O.30/2008 del 11/02/2008 Camera di Consiglio del 12/12/2007, Presidente BILE, Relatore FINOCCHIARO Norme impugnate: Art. 10, c. 9°, della legge della Regione Campania 13/08/1998, n. 16; art. 77, c. 2°, della legge della Regione Campania 11/08/2001, n. 10. Oggetto: Espropriazione per pubblica utilità - Regione Campania - Piani regolatori delle aree di sviluppo industriale - Vincoli preordinati all'espropriazione - Proroga di validità dei piani esistenti, anche se 'medio tempore' scaduti. Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens Atti decisi: ord. 429/2007 |
O.31/2008 del 11/02/2008 Udienza Pubblica del 15/01/2008, Presidente BILE, Relatore SAULLE Norme impugnate: Art. 19, c. 1° e 2°, del decreto legislativo 08/11/1990, n. 374. Oggetto: Sanzioni amministrative - Diviet o di eseguire costruzioni ed altre opere di ogni specie, nonché di spostare o modificare le opere esistenti, in prossimità della linea doganale, senza l'autorizzazione del direttore della circoscrizione doganale. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 575/2007 |
O.32/2008 del 11/02/2008 Udienza Pubblica del 15/01/2008, Presidente BILE, Relatore NAPOLITANO Norme impugnate: Art. 3, c. 41° bis, della legge della Regione Lombardia 05/01/2000, n. 1, introdotto dall'art. 1, lett. a), della legge della Regione Lombardia 08/02/2005, n. 7. Oggetto: Edilizia residenziale pubblica - Regione Lombardia - Assegnazione di alloggi o di edilizia residenziale pubblica - Requisiti del richiedente - Residenza o svolgimento di attività lavorativa nel territorio regionale da almeno cinque anni per il periodo immediatamente precedente alla presentazione della domanda. Dispositivo: manifesta infondatezza - manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 222/2007 |
O.33/2008 del 11/02/2008 Camera di Consiglio del 30/01/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK Norme impugnate: Art. 69, c. 4°, del codice penale, come modificato dall'art. 3 della legge 05/12/2005, n. 251. Oggetto: Reati e pene - Circostanze del reato - Concorso di circostanze aggravanti e attenuanti - Divieto d i prevalenza delle circostanze attenuanti sulle circostanze inerenti alla persona del colpevole nel caso previsto dall'art. 99, quarto comma, cod. pen. (recidiva reiterata). Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 391, 488, 516, 518, 582, 587, 606, 656, 657, 675 e 676/2007 |
O.34/2008 del 11/02/2008 Camera di Consiglio del 30/01/2008, Presidente BILE, Relatore MADDALENA Norme impugnate: Art. 171 ter, c. 1°, lett. e), della legge 22/04/1941, n. 633, come sostituito dall'art. 14 della legge 18/08/2000, n. 248. Oggetto: Reati e pene - Ritrasmissione o diffusione, con qualsiasi mezzo, in assenza di accordo con il legitt imo distributore, di un servizio criptato ricevuto per mezzo di apparati atti alla decodificazione di trasmissioni ad accesso condizionato - Configurazione quale reato. Dispositivo: manifesta infondatezza Atti decisi: ord. 527/2007 |
O.35/2008 del 11/02/2008 Camera di Consiglio del 30/01/2008, Presidente BILE, Relatore SILVESTRI Norme impugnate: Art. 58 quater, c. 7° bis, della legge 26/07/1975, n. 354, aggiunto dall'art. 7, c. 7°, della legge 05/12/2005, n. 251. Oggetto: Ordinamento penitenziario - Benefici penitenziari - Modifiche normative comportanti un regime più restrittivo per i recidivi - Divieto di concessione di misure al ternative alla detenzione al condannato al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall'art. 99, quarto comma, cod. pen. (recidiva reiterata). Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens Atti decisi: ord. 150 e 265/2007 |
O.36/2008 del 11/02/2008 Camera di Consiglio del 30/01/2008, Presidente BILE, Relatore SAULLE Norme impugnate: Art. 34, c. 4°, della legge della Regione Toscana 12/01/1994, n. 3, come sostituito dall'art. 11 della legge della Regione Toscana 10/06/2002, n. 20. Oggetto: Caccia - Legge della Regione Toscana - Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio - Cattura e gestione dei richiami vivi e appostamenti - Previsione della possibilità di detenzione di richiami privi di anello - Previsione che per la legittima detenzione dei richiami di cattura faccia fede la documentazione esistente presso la provincia e per i richiami di allevamento la documentazione propria del cacciatore. Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens Atti decisi: ord. 612/2007 |
O.37/2008 del 11/02/2008 Camera di Consiglio del 30/01/2008, Presidente BILE, Relatore SAULLE Conflitto: Ammissibilità di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione del Senato della Repubblica 30/01/2007. Oggetto : Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento penale a carico del senatore Raffaele Iannuzzi per il reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa nei confronti di Giancarlo Caselli, già Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, e di altri magistrati anche essi, all'epoca dei fatti, assegnati alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo - Deliberazione di insindacabilità del Senato della Repubblica. Dispositivo: ammissibile Atti decisi: confl. pot. amm. 11/2007 |
ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 20 e 22, e 2 della legge della Regione Abruzzo 8 giugno 2006 n. 16 (Disposizioni di adeguamento normativo per il funzionamento delle strutture e per la razionalizzazione della finanza regionale al fine di concorrere alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri notificato il 18 agosto 2006, depositato in cancelleria il 10 agosto 2006 ed iscritto al n. 95 del registro ricorsi 2006. Visto l'atto di costituzione della Regione Abruzzo; udito nell'udienza pubblica del 15 gennaio 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella; uditi l'avvocato dello Stato Glauco Nori per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Sandro Pasquali per la Regione Abruzzo. Ritenuto in fatto 1. - Con ricorso ritualmente notificato e depositato in cancelleria, il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto in via principale, in riferimento agli artt. 3, 97 e 117 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 20 e 22, e 2 della legge della Regione Abruzzo 8 giugno 2006, n. 16 (Disposizioni di adeguamento normativo per il funzionamento delle strutture e per la razionalizzazione della finanza regionale al fine di concorrere alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica). 1.1. - In relazione all'art. 1, comma 20, della legge reg. Abruzzo n. 16 del 2006, il ricorrente premette che la norma, nel sostituire il comma 4 dell'art. 8 della legge della Regione Abruzzo 9 maggio 2001, n. 17 (Disposizioni per l'organizzazione ed il funzionamento delle strutture amministrative di supporto agli organi elettivi della Giunta regionale), dispone che «Ai dipendenti con mansioni di autista in servizio presso la Giunta regionale e il Consiglio regionale è corrisposta una indennità omnicomprensiva in sostituzione degli istituti relativi allo straordinario, reperibilità, rischio e turnazione». Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, si tratta di disposizione che, dovendo essere ricondotta alla materia «tutela e sicurezza del lavoro» (oggetto di legislazione concorrente), sarebbe illegittima per contrasto con il principio fondamentale espresso dall'art. 45 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche). Tale norma, al comma 1, dispone che «Il trattamento economico fondamentale ed accessorio è definito dai contratti collettivi» e disciplina così i rapporti tra rappresentanze sindacali ed enti datori di lavoro con una normativa necessariamente uniforme su tutto il territorio nazionale. In particolare, a pare re del ricorrente, il citato art. 45 impone che le singole voci componenti del trattamento economico dei dipendenti pubblici siano determinate con il contratto collettivo ed esclude che la fonte legislativa possa intervenire in materia. Il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene che l'illegittimità della norma regionale è ancor più evidente se si considera che essa non ha stabilito alcunché a proposito del procedimento per la determinazione dell'indennità da essa prevista, determinazione alla quale, pertanto, dovrà necessariamente provvedere una legge successiva, come confermato anche dalla nuova formulazione dell'art. 8, comma 4, della legge reg. Abruzzo n. 17 del 2001. Tale norma, infatti, nella sua precedente versione prevedeva che l'indennità sarebbe stata stabilita «in relazione alla normativa vigente», dando così per presupposta l'osservanza anche dei princípi fondamentali in materia. Invece il testo della norma introdotto dall'art. 1, comma 20, della legge reg. Abruzzo n. 16 del 2006 si limita a disporre che la rideterminazio ne dell'indennità potrà avvenire a cadenza biennale «previa concertazione sindacale». L'intervento sindacale, dunque, è previsto solo per le modifiche successive, ma non per la prima determinazione dell'indennità. 1.2. - Relativamente all'art. 1, comma 22, della legge reg. Abruzzo n. 16 del 2006, il Presidente del Consiglio dei ministri deduce che la norma ha soppresso l'inciso «in possesso dei requisiti per l'accesso alla categoria D» nel comma 3 dell'art. 6 della legge della Regione Abruzzo 9 maggio 2001, n. 18 (Consiglio regionale dell'Abruzzo, autonomia e organizzazione). Aggiunge che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 62 del 2006, pronunciandosi sulla legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge della Regione Abruzzo 12 novembre 2004, n. 39 (Interpretazione autentica della L.R. n. 18/2001 concernente: Consiglio regionale dell'Abruzzo, autonomia e organizzazione), ha rilevato che «la norma di interpretazione autentica, sottoposta al vaglio di legittimità costituzionale, consente di conferire la responsabilità delle segreterie non solo al personale interno di categoria "D", ma anche a chi è in possesso dei requisiti per l'accesso a tale categoria [.], in conformità, del resto, con la ratio della disposizione interpretata, che già contemplava la possibilità di ricoprire quell'incarico, previa stipulazione di un contratto a tempo determinato, per l'estraneo all'amministrazione regionale in possesso dei requisiti per accedere alla predetta categoria». Poiché questo dato normativo è stato considerato decisivo per ritenere c ostituzionalmente legittima la norma esaminata, a parere del ricorrente l'eliminazione - disposta dall'art. 1, comma 22, della legge reg. Abruzzo n. 16 del 2006 - della necessità del possesso dei requisiti per l'accesso alla categoria D ai fini dell'assunzione a tempo determinato contrasterebbe con gli artt 3 e 97 della Costituzione. 1.3. - Con riferimento all'art. 2 della legge reg. Abruzzo n. 16 del 2006, il Presidente del Consiglio dei ministri premette che l'art. 1, comma 54, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2006), ha imposto la rideterminazione, con una riduzione del 10 per cento, delle indennità, dei gettoni di presenza e di tutte le utilità, comunque denominate, spettanti, tra gli altri, ai consiglieri regionali, enunciando così un principio fondamentale in materia di coordinamento della finanza pubblica. Conseguentemente, a parere del ricorrente, l'art. 2, commi 7, 8 e 9, della legge reg. Abruzzo n. 16 del 2006 [recte: l'art. 7, commi 7, 8 e 9, della legge reg. Abruzzo n. 18 del 2001, come sostituito dall'art. 2 della legge reg. Abruzzo n. 16 del 2006], aumentando proprio quelle voci di spesa che la norma fondamentale dello Stato invitava a ridurre, violerebbe l'art. 117, terzo comma, della Costituzione. 2. - Si è costituita la Regione Abruzzo ed ha chiesto che le questioni siano dichiarate infondate. 2.1. - Rispetto all'art. 1, comma 20, della legge reg. Abruzzo n. 16 del 2006, la Regione deduce che la norma deve essere interpretata nel senso che essa costituisce il semplice presupposto della successiva definizione in sede contrattuale dell'indennità da essa prevista e il riferimento alla «previa concertazione sindacale» contenuto nella medesima disposizione censurata deve intendersi applicabile anche al «titolo originario di attribuzione della indennità». Inoltre, ad avviso della Regione, il conferimento ex lege di indennità economiche non è di per sé censurabile sul piano costituzionale se, come nella fattispecie, esso sia delimitato dal rispetto dei princípi del patto di stabilità e degli strumenti convenzionali di determinazione. 2.2. - Quanto all'art. 1, comma 22, della legge reg. Abruzzo n. 16 del 2006, la Regione deduce che l'eliminazione, operata da tale norma, dell'inciso «in possesso dei requisiti per l'accesso alla categoria D», contenuto nel testo originario dell'art. 6, comma 3, della legge reg. Abruzzo n. 18 del 2001, comunque non consente, in presenza di tutta la normazione regionale che diversamente dispone, che si possa accedere ad incarichi regionali senza il possesso dei requisiti necessari, perché l'inciso eliminato era meramente confermativo del generale regime giuridico del personale regionale. 2.3. - Con riferimento all'art. 2 della legge reg. Abruzzo n. 16 del 2006, infine, la Regione sostiene che le disposizioni censurate dal Presidente del Consiglio dei ministri ineriscono a rimborsi spese e quindi non sussisterebbe contrasto con la normativa statale richiamata dal ricorrente. 3. - In altra memoria successivamente depositata, la Regione Abruzzo deduce che la legge della Regione Abruzzo 5 ottobre 2006, n. 30 (Modifica all'articolo 7 della L.R. 9 maggio 2001, n. 18 recante "Consiglio regionale dell'Abruzzo, autonomia e organizzazione" così come sostituito dall'articolo 2 della L.R. 8 giugno 2006, n. 16 recante "Disposizioni di adeguamento normativo per il funzionamento delle strutture e per la razionalizzazione della finanza regionale al fine di concorrere alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica"), ha abrogato i commi 7, 8 e 9 dell'art. 7 della legge reg. Abruzzo n. 18 del 2001, così come sostituiti dall'art. 2 della l egge reg. Abruzzo n. 16 del 2006. La Regione aggiunge che le disposizioni impugnate non hanno avuto alcuna applicazione nel periodo intercorso tra la loro entrata in vigore e la loro abrogazione e, pertanto, chiede che sulla relativa questione di legittimità costituzionale sia dichiarata la cessazione della materia del contendere. 4. - Con atto depositato in cancelleria il 19 luglio 2007, il Presidente del Consiglio dei ministri ha rinunciato al ricorso limitatamente alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge reg. Abruzzo n. 16 del 2006, in considerazione, appunto, dell'intervenuta abrogazione delle disposizioni introdotte dalla norma censurata. Con deliberazione del 14 gennaio 2008, depositata nell'udienza di discussione, la Giunta della Regione Abruzzo ha accettato la rinuncia parziale del ricorrente. Considerato in diritto 1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto in via principale, in riferimento agli artt. 3, 97 e 117 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, commi 20 e 22, e 2 della legge della Regione Abruzzo 8 giugno 2006, n. 16 (Disposizioni di adeguamento normativo per il funzionamento delle strutture e per la razionalizzazione della finanza regionale al fine di concorrere alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica). 2. - Il ricorrente ha successivamente rinunciato all'impugnazione dell'art. 2 della legge reg. Abruzzo n. 16 del 2006 e la Regione ha accettato tale rinuncia. Pertanto, ai sensi dell'art. 25 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, va dichiarata l'estinzione del giudizio limitatamente alla questione concernente il citato art. 2. 3. - Con riferimento alla questione relativa all'art. 1, comma 20, della legge reg. n. 16 del 2006, il ricorrente deduce che tale norma sostituisce il comma 4 dell'art. 8 della legge della Regione Abruzzo 9 maggio 2001, n. 17 (Disposizioni per l'organizzazione ed il funzionamento delle strutture amministrative di supporto agli organi elettivi della Giunta regionale), il quale ora dispone, tra l'altro, che «Ai dipendenti con mansioni di autista in servizio presso la Giunta regionale e il Consiglio regionale è corrisposta una indennità omnicomprensiva in sostituzione degli istituti relativi allo straordinario, reperibilità, rischio e turnazione» e che «la Giunta regionale e l'Ufficio di Presidenza con cadenza biennale possono rideterminare, previa concertazione sindacale, in armonia con i principi di contenimento della spesa per la finanza pubblica, le indennità di cui al presente comma». Anche l'originaria versione del comma 4 dell'art. 8 contemplava tale emolumento ed il Presidente del Consiglio dei ministri afferma che l'innovazione di maggior rilievo consiste nel fatto che la nuova versione della norma non disciplina il procedimento per la determinazione dell'indennità, mentre la versione precedente prevedeva che essa sarebbe stata stabilita «in relazione alla normativa vigente»; tutte le altre modificazioni, ad avviso dello stesso ricorrente, hanno comportato solamente una migliore formulazione della norma, senza innovazioni sostanziali. Il ricorrente sostiene l'illegittimità della nuova versione della disposizione, deducendo che la norma impugnata deve essere ricondotta alla materia «tutela e sicurezza del lavoro», oggetto di competenza legislativa concorrente. La Regione sarebbe stata tenuta, quindi, al rispetto dei principi fondamentali della materia dettati dalla legislazione statale, uno dei quali è espresso dall'art. 45 del d. lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) che impone che le singole voci componenti del trattamento economico dei dipendenti pubblici siano determinate con il contratto collettivo ed esclude che la legge possa attribuire direttamente alcune indennità. Ora, poi ché il testo introdotto dall'art. 1, comma 20, della legge reg. n. 16 del 2006 non prevede alcunché in ordine al procedimento per la determinazione dell'indennità, ad avviso del ricorrente alla quantificazione dell'emolumento dovrà necessariamente provvedere una legge successiva, in violazione del predetto principio fondamentale posto dalla legge statale. 3.1. - La questione, nei termini in cui è stata formulata, è inammissibile. Il thema decidendum del giudizio di costituzionalità è fissato dal ricorso e dai motivi in esso contenuti (sui quali solamente può quindi svolgersi il contraddittorio: sentenza n. 533 del 2002) e, nel presente giudizio di costituzionalità, il Presidente del Consiglio dei ministri deduce l'illegittimità della norma regionale affermando che essa deve essere ricondotta alla materia «tutela e sicurezza del lavoro». In difformità da tale assunto, la relazione del Ministro degli affari regionali e le autonomie locali allegata alla delibera governativa di impugnazione delle norme regionali in esame (delibera della quale la predetta relazione costituisce parte integrante), individua le norme costituzionali violate dall'art. 1, comma 20, della legge reg. Abruzzo n. 16 del 2006 nell'art. 117, secondo comma, lettera l), riconducendo la questione sotto questo profilo alla materia «ordinamento civile», e nell'art. 117, terzo comma, collocando la questione anche nella materia «coordinamento della finanza pubblica». Secondo il giudizio del Governo - espresso nella delibera del Consiglio dei ministri - le competenze statali illegittimamente invase dalle norme regionali impugnate sono la potestà legislativa esclusiva in materia di ordinamento civile e quella concorrente in materia di coordinamento della finanza pubblica. Tale determinazione politica, contenuta nella delibera governativa e volta all'impugnazione della legge regionale sotto i profili sopraindicati, è stata disattesa nel ricorso poi proposto alla Corte dall'Avvocatura generale dello Stato. In quest'ultimo atto, infatti, si deduce la violazione di una competenza legislativa concorrente prevista dall'art. 117, terzo comma, relativa alla materia di tutela e sicurezza del lavoro, per inosservanza di un principio fondamentale ad essa inerente. La questione proposta dalla Difesa erariale risulta diversa da quella che il Consiglio dei ministri aveva inteso prospettare con proprio atto formale. In questa maniera, è stata introdotta nel presente giudizio una questione di legittimità costituzionale che, per essere sostanzialmente non conforme a quella oggetto della menz ionata delibera governativa, rimane priva del suo pertinente presupposto giuridico. 4. - Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna anche l'art. 1, comma 22, della legge reg. Abruzzo n. 16 del 2006, il quale ha apportato modifiche al comma 3 dell'art. 6 della legge della Regione Abruzzo 9 maggio 2001, n. 18 (Consiglio regionale dell'Abruzzo, autonomia e organizzazione). Quest'ultima norma si occupa dei responsabili delle segreterie dei gruppi consiliari e, nella sua prima formulazione, stabiliva che «la responsabilità delle segreterie può essere attribuita a personale di categoria "D" o a personale assunto con rapporto di lavoro a tempo determinato in possesso dei requisiti per l'accesso alla categoria "D"». L'art. 1 della successiva legge della Regione Abruzzo 12 novembre 2004 n. 39 (Interpretazione autentica della L.R. n. 18/2001 concernente: Consiglio regionale dell'Abruzzo, autonomia e organizzazione), ha disposto che la norma in questione deve essere interpretata nel senso che la responsabilità delle segreterie può essere attribuita anche a dipendenti regionali che, pur non essendo formalmente inquadrati nella categoria D, sono tuttavia in possesso dei relativi requis iti d'accesso. L'art. 1, comma 22, della legge reg. Abruzzo n. 16 del 2006, è anch'esso intervenuto sul comma 3 dell'art. 6 della legge reg. n. 18 del 2001 ed ha soppresso l'inciso relativo ai requisiti che, secondo l'originaria versione della norma, il soggetto esterno doveva possedere per poter ricoprire l'incarico di responsabile della segreteria. A séguito di tale modifica, pertanto, attualmente l'incarico in oggetto può essere attribuito: a dipendenti regionali inquadrati nella categoria D; a dipendenti regionali non inquadrati nella categoria D, ma in possesso dei requisiti per l'accesso alla categoria D; ad esterni assunti con apposito contratto a tempo determinato, siano o meno in possesso dei requisiti richiesti per l'accesso alla categoria D. Il Presidente del Consiglio dei ministri deduce che la modifica della norma viola i princípi di ragionevolezza, imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione (artt. 3 e 97 Cost.). La questione è fondata. E' palese, infatti, l'irragionevolezza di una disposizione che - senza alcuna ragione giustificatrice -, da un lato, richiede ad alcune categorie di aspiranti all'incarico (i dipendenti interni all'amministrazione regionale) determinati requisiti (quelli previsti per l'accesso alla categoria D) e, dall'altro, ne prescinde per altre categorie di possibili interessati (i soggetti esterni all'amministrazione). Tale irragionevolezza ridonda anche in violazione del principio del buon andamento dell'amministrazione, perché la previsione dell'assunzione (sia pure a tempo determinato) di personale,g sfornito dei requisiti normalmente richiesti per lo svolgimento delle funzioni che è destinato ad espletare, determina l'inserimento nell'organizzazione pubblica di soggetti che non offrono le necessarie garanzie di professionalità e competenza. Le considerazioni ora svolte non sono contraddette dall'ultima parte del comma 3 dell'art. 6 della legge reg. n. 18 del 2001 (pure introdotta dall'art. 1, comma 22, della legge reg. n. 16 del 2006, ma non impugnata dallo Stato), secondo cui l'incarico di responsabile delle segreterie dei gruppi consiliari abruzzesi può essere attribuito anche «al personale di cui all'art. 5, comma 3», vale a dire ai dipendenti regionali assegnati alle segreterie dei Consiglieri segretari e dei Presidenti delle Commissioni permanenti, di Vigilanza e della Giunta per il regolamento. E' vero che a queste ultime segreterie possono essere assegnati, oltre che impiegati di categoria D, anche impiegati delle categorie inferiori; ma è vero anche che il rinvio «al personale di cui all'art. 5, comma 3», operato dalla norma in oggetto, ha il solo effetto di consentire che l'incarico di responsabile delle segreterie dei gruppi consiliari sia attribuito anche a dipendenti regionali che contestualmente svolgano la loro attività presso le segreterie dei Consiglieri segretari e dei Presidenti delle commissioni, ferma restando, comunque, la necessità dell'inquadramento nella categoria D. LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 22, della legge della Regione Abruzzo 8 giugno 2006, n. 16 (Disposizioni di adeguamento normativo per il funzionamento delle strutture e per la razionalizzazione della finanza regionale al fine di concorrere alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica), nella parte in cui abroga le parole «in possesso dei requisiti per l'accesso alla categoria D» nell'art. 6, comma 3, della legge della Regione Abruzzo 9 maggio 2001, n. 18 (Consiglio regionale dell'Abruzzo, autonomia e organizzazione); 2) dichiara estinto il giudizio relativo alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge della Regione Abruzzo 8 giugno 2006, n. 16, sollevata, in riferimento all'art. 117 della Costituzione, con il ricorso in epigrafe; 3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 20, della legge della Regione Abruzzo 8 giugno 2006, n. 16, sollevata, in riferimento all'art. 117 della Costituzione, con il ricorso in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 febbraio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Luigi MAZZELLA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 21 febbraio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati dell'8 febbraio 2006 (doc. IV-quater, n. 123), relativa alla insindacabilità, ai sensi dell'art. 68, primo comma, Cost., delle opinioni espresse dal deputato Maurizio Gasparri nei confronti della dottoressa Maria Clementina Forleo, promosso con ricorso del giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, notificato il 5 gennaio 2007, depositato in cancelleria il 15 febbraio 2007 ed iscritto al n. 16 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2006, fase di merito. Visto l'atto di costituzione della Camera dei deputati; udito nell'udienza pubblica dell'11 dicembre 2007 il Giudice relatore Sabino Cassese; udito l'avvocato Massimo Luciani per la Camera dei deputati. Ritenuto in fatto 1. - Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, ha sollevato, con ordinanza - ricorso del 21 giugno 2006, conflitto di attribuzione nei confronti della Camera dei deputati in relazione alla delibera adottata nella seduta dell'8 febbraio 2006 (Doc. IV-quater, n. 123) con la quale è stata dichiarata, ai sensi del primo comma dell'art. 68 della Costituzione, l'insindacabilità delle dichiarazioni del deputato Maurizio Gasparri, rispetto alle quali pende un procedimento penale. Il giudice ricorrente espone che il deputato Maurizio Gasparri è imputato del reato continuato di diffamazione a mezzo stampa, aggravato dall'aver attribuito un fatto determinato, per avere, mediante «una serie di dichiarazioni alle agenzie ANSA e ADNKRONOS in data 25 gennaio 2005 e con un comunicato stampa del Ministero delle Comunicazioni in data 6 febbraio 2005 (il cui contenuto deve intendersi qui integralmente trascritto) offeso la reputazione del magistrato Maria Clementina Forleo in relazione al provvedimento dalla stessa emesso in data 24 gennaio 2005 nella sua funzione di giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Milano. In tali dichiarazioni, testualmente, affermava trattarsi di "una decisione incredibile, sconcertante e allarmante, fuori da ogni schema razi onale, basata su una scelta ideologica. Oggi vive gente che si trova al di fuori dal mondo e che non si ricorda che c'è stato un evento terribile come l'11 settembre [.] il Governo deve valutare con urgenza l'emanazione di norme che impediscano a giudici irresponsabili di lasciare a piede libero degli autentici terroristi [.] in ogni caso il CSM deve intervenire perché un magistrato che ha fatto queste cose è un pericolo per la sicurezza ed è una persona che non può svolgere quella funzione", commettendo il fatto con l'attribuzione di un fatto determinato. In Roma 25 gennaio 2005 e 6 febbraio 2005». Il giudice ricorrente richiama, inoltre, il contenuto della proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere in giudizio, nella quale, dopo una sommaria ricostruzione della vicenda - che aveva visto protagonista la dr.ssa Forleo in relazione ad un procedimento nei confronti di Mohamed Daki e altri, conclusosi dinanzi alla stessa, in sede di giudizio abbreviato, con l'assoluzione di alcuni imputati per il reato di terrorismo - si affermava che: «la maggioranza dei componenti ha ritenuto che tutta la vicenda debba essere ricondotta pienamente nel contesto del dibattito politico-parlamentare. Appare infatti persino superf luo ricordare che a partire dall'11 settembre 2001, il tema del terrorismo internazionale, è prepotentemente venuto alla ribalta politica in tutti i Paesi e i relativi Parlamenti, compreso naturalmente il nostro. Tanto risulta non soltanto dalle varie iniziative ed attestazioni di solidarietà con gli Stati Uniti, avutesi nell'immediatezza dei tragici attentati alle Torri gemelle ed al Pentagono, ma anche dai tantissimi passaggi parlamentari relativi alla guerra in Iraq, ai finanziamenti della relativa spedizione di pace italiana, alle vicende del rapimento e della liberazione di Giuliana Sgrena e della connessa morte di Nicola Calipari [.] con riguardo specifico alla sentenza della dottoressa Forleo, va qui ricordato altresì che i deputati Paniz di Forza Italia e Cé della Lega Nord hanno presentato il 26 gennaio 2005 le interrogazioni, rispettivamente, n. 3-04133 e n. 3-04134, mentre il successivo 10 febbraio 2005 il deputato Fragalà dello stesso gruppo dell'on. Gasparri ha presentat o l'interrogazione n. 4-12869 [.]. Tutti questi momenti parlamentari sono inconfutabilmente dimostrativi della rilevanza politica dell'argomento trattato dell'on. Gasparri e del loro nesso con le funzioni di competenza di un membro della Camera dei deputati, nonché con l'esercizio relativo del diritto di cronaca politica. Per questi motivi la Giunta per le autorizzazioni a procedere in giudizio a maggioranza propone all'Assemblea - come già nei precedenti casi degli onorevoli Selva e Cicchitto - di deliberare nel senso che i fatti oggetto del procedimento in esame concernono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni». Il giudice per le indagini preliminari osserva, in via preliminare, di ritenere ammissibile l'opposizione alla richiesta di archiviazione presentata dalla persona offesa e di riservare ogni decisione in ordine alla natura eventualmente diffamatoria delle affermazioni contenute nelle dichiarazioni e nel comunicato in oggetto, all'esito della risoluzione del conflitto. Ad avviso del giudice a quo, le dichiarazioni oggetto di conflitto non possono essere ricondotte ad uno degli atti previsti dall'art. 68, primo comma, Cost. In particolare, egli evidenzia che le interrogazioni depositate sono tutte successive alle dichiarazioni del deputato, le quali, pertanto, non possono assolutamente essere considerate come riproduttive o divulgative di opinioni già espresse in sede istituzionale, come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 347 del 2004 e n. 289 del 1998). Infine, il giudice rileva come manchi la necessaria corrispondenza di identità tra colui che richiede la tutela di cui all'art. 68 Cost. e gli autori delle interrogazioni parlamentari. 2. - Con ordinanza n. 445 del 2006 il conflitto è stato ritenuto ammissibile. 3. - Si è costituita in giudizio la Camera dei deputati, eccependo, in via preliminare, l'inammissibilità del ricorso, atteso che le frasi pronunciate dal deputato non sarebbero state riportate compiutamente, né sarebbe precisato quali di esse siano state pronunciate in occasione delle dichiarazioni alle agenzie di stampa del 25 gennaio 2005 e quali in occasione del comunicato stampa del Ministero delle comunicazioni del 6 febbraio 2005. Nel merito, la Camera dei deputati chiede il rigetto del ricorso in quanto le opinioni extra moenia espresse dal deputato sono sostanzialmente identiche a quelle formulate in atti funzionali a firma di altri parlamentari (le interrogazioni del 26 gennaio 2005, numeri 3/04133, 3/04134 e 3/04135, rispettivamente a firma dei deputati Paniz, Cè e La Russa, nonché la interrogazione n. 4/12869 del 10 febbraio 2005, a firma del deputato Fragalà, e la interrogazione n. 4/13312 del 7 marzo 2005 , a firma del deputato Cicchitto). Tra l'altro, la Camera dei deputati evidenzia che uno degli atti funzionali (l'interrogazione n. 3/04135), oltre che dal primo firmatario, deputato La Russa, è stato sottoscritto da ben ottantatre deputati del gruppo parlamentare di Alleanza Nazionale e cioè dalla quasi totalità dei deputati allora iscritti a quel gruppo (che ne contava novantanove ad inizio legislatura). 4. - In prossimità della data fissata per l'udienza, la Camera dei deputati ha depositato una memoria con cui ribadisce l'eccezione di inammissibilità del conflitto e insiste per il rigetto del ricorso. Considerato in diritto 1. - Il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma ha sollevato, con ordinanza - ricorso del 21 giugno 2006, conflitto di attribuzione nei confronti della Camera dei deputati in relazione alla delibera adottata nella seduta dell'8 febbraio 2006 (Doc. IV-quater, n. 123) con la quale è stata dichiarata, ai sensi del primo comma dell'art. 68 della Costituzione, l'insindacabilità delle dichiarazioni del parlamentare Maurizio Gasparri, rispetto alle quali pende un procedimento penale. Ad avviso del giudice ricorrente, le dichiarazioni del parlamentare, oggetto di conflitto, non possono essere ricondotte ad uno degli atti previsti dall'art. 68, primo comma, Cost. In particolare, egli evidenzia che le interrogazioni sono tutte successive alle dichiarazioni del deputato le quali, pertanto, non possono essere considerate come riproduttive o divulgative di opinioni già espresse in sede istituzionale, come chiarito dalla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 347 del 2004 e n. 289 del 1998). Infine, rileva come manchi la necessaria corrispondenza di identità tra colui che richiede la tutela di cui all'art. 68 Cost. e gli autori delle interrogazioni parlamentari. 2. - Preliminarmente, deve essere confermata l'ammissibilità del conflitto, sussistendone i presupposti soggettivi ed oggettivi, come già ritenuto da questa Corte con l'ordinanza n. 445 del 2006. Non può essere accolta in proposito l'eccezione, formulata dalla Camera dei deputati, basata sul rilievo che l'atto introduttivo sarebbe carente sotto il profilo della compiuta esposizione dei fatti, giacchè - si sostiene - le dichiarazioni su cui dovrebbe vertere il conflitto non sarebbero state riportate compiutamente dal giudice ricorrente. La descrizione delle dichiarazioni oggetto del conflitto appare sufficiente alla loro compiuta identificazione, tenuto conto che il giudice, per un verso, riproduce integralmente il capo di imputazione ascritto al deputato (sentenza n. 271 del 2007) e, per l'altro, riporta il contenuto della Relazione della Giunta per le autorizzazioni in ordine al contenuto e alla successione temporale degli atti funzionali (sentenza n. 331 del 2006). 3. - Nel merito, il ricorso è fondato. Non sono stati indicati, infatti, atti parlamentari tipici anteriori o contestuali alle dichiarazioni in esame, compiuti dallo stesso deputato, ai quali, per il loro contenuto, possano essere riferite le opinioni oggetto di conflitto. Né rilevano altri atti, richiamati nella relazione della Giunta e nelle memorie della Camera dei deputati, provenienti da altri esponenti dello stesso gruppo parlamentare cui appartiene il deputato, avendo la Corte ripetutamente affermato che la verifica del nesso funzionale tra le dichiarazioni esterne e quelle funzionali deve essere effettuata con riferimento alla stessa persona, non potendosi configurare «una sorta di insindacabilità di gruppo» assistita dalla guarentigia costituzionale prevista dall'art. 68, primo comma, Cost. (tra le tante e da ultimo, sentenza n. 304 del 2007). Conclusivamente, la delibera della Camera dei deputati ha violato l'art. 68, primo comma, Cost., ledendo le attribuzioni dell'autorità giudiziaria ricorrente, e deve essere annullata. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara che non spettava alla Camera dei deputati affermare che i fatti per i quali pende un procedimento penale a carico del deputato Maurizio Gasparri davanti al giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, di cui al ricorso indicato in epigrafe, costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione; annulla, per l'effetto, la delibera di insindacabilità adottata dalla Camera dei deputati nella seduta dell'8 febbraio 2006 (Doc. IV-quater, n. 123). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 febbraio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Sabino CASSESE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 21 febbraio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 2, del decreto-legge 11 giugno 1998, n. 180 (Misure urgenti per la prevenzione del rischio idrogeologico ed a favore delle zone colpite da disastri franosi nella regione Campania), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 1998, n. 267, dell'art. 8, lettera d) (recte: comma 1, lettera d), del decreto legislativo 20 settembre 1999, n. 354 (Disposizioni per la definitiva chiusura del programma di ricostruzione di cui al titolo VIII della legge 14 maggio 1981, n. 219, e successive modificazioni, a norma dell'articolo 42, comma 6, della legge 17 maggio 1999, n. 144), e dell'art. 1, comma 2-quater, del decreto-legge 7 febbraio 2003, n. 15 (Misure urgenti per il finan ziamento di interventi nei territori colpiti da calamità naturali e per l'attuazione delle disposizioni di cui all'articolo 13, comma 1, della legge 1° agosto 2002, n. 166. Disposizioni urgenti per il superamento di situazioni di emergenza ambientale), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 aprile 2003, n. 62, promosso dal Collegio arbitrale di Napoli, nel procedimento tra il Consorzio CPR2 e la Curia Arcivescovile di Napoli, con ordinanza dell'11 novembre 2006, iscritta al n. 280 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti l'atto di costituzione del Consorzio CPR2 nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica dell'11 dicembre 2007 il Giudice relatore Francesco Amirante; uditi gli avvocati Vincenzo Spagnuolo Vigorita e Massimo Luciani per il Consorzio CPR2 e l'avvocato dello Stato Marco Corsini per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto che il Collegio arbitrale di Napoli costituito per l'arbitrato tra il Consorzio CPR2 e la locale Curia arcivescovile, con ordinanza dell'11 novembre 2006, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24, 25, 41, 42, 97 e 117, primo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 2, del decreto-legge 11 giugno 1998, n. 180 (Misure urgenti per la prevenzione del rischio idrogeologico ed a favore delle zone colpite da disastri franosi nella regione Campania) , convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 1998, n. 267, dell'art. 8, lettera d) (recte: comma 1, lettera d), del decreto legislativo 20 settembre 1999, n. 354 (Disposizioni per la definitiva chiusura del programma di ricostruzione di cui al titolo VIII della legge 14 maggio 1981, n. 219, e successive modificazioni, a norma dell'articolo 42, comma 6, della legge 17 maggio 1999, n. 144), e dell'art. 1, comma 2-quater, del decreto-legge 7 febbraio 2003, n. 15 (Misure urgenti per il finanziamento di interventi nei territori colpiti da calamità naturali e per l'attuazione delle disposizioni di cui all'articolo 13, comma 1, della legge 1° agosto 2002, n. 166. Disposizioni urgenti per il superamento di situazioni di emergenza ambientale), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 aprile 2003, n. 62; che nell'ordinanza di remissione si precisa come il collegio arbitrale, costituitosi in data 25 maggio 2006, nel fissare i termini per lo svolgimento del giudizio, abbia rilevato la necessità di esprimere una valutazione, ai fini della procedibilità dell'arbitrato, in ordine all'applicabilità, nella specie, dell'art. 1, comma 2-quater, del citato d.l. n. 15 del 2003, invitando le parti a dedurre sul punto; che, conseguentemente, la difesa della parte attrice ha eccepito l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 2, del d.l. n. 180 del 1998 - secondo il quale non possono essere devolute a collegi arbitrali le controversie relative all'esecuzione di opere pubbliche comprese in programmi di ricostruzione di territori colpiti da calamità naturali - la cui vigenza è stata ribadita dal menzionato art. 1, comma 2-quater, del d.l. n. 15 del 2003; che il Collegio arbitrale, quindi, ha ritenuto di sollevare, in riferimento agli artt. 3, 41 e 42 Cost., una prima questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 2-quater, del d.l. n. 15 del 2003, dell'art. 3, comma 2, del d.l. n. 180 del 1998 e dell'art. 8, comma 1, lettera d), del d.lgs. n. 354 del 1999, nella parte in cui escludono che le controversie relative all'esecuzione di opere pubbliche comprese in programmi di ricostruzione di territori colpiti da calamità naturali possano essere devolute a collegi arbitrali; che, in punto di rilevanza, il remittente, dopo un excursus sulla normativa in materia, ritiene sicuramente desumibile dalle disposizioni denunciate l'attuale vigenza del divieto di devolvere ad arbitri le controversie attinenti agli interventi di cui al titolo VIII della legge 14 maggio 1981, n. 219, tra le quali rientra la controversia de qua; che, quanto al merito della questione, il Collegio arbitrale, auspicando una revisione dell'orientamento già espresso da questa Corte nella sentenza n. 376 del 2001 e nelle successive ordinanze n. 11 e n. 122 del 2003, sostiene, in primo luogo, che le disposizioni censurate si pongono in contrasto con l'art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, perché dettano una disciplina speciale per una determinata classe di ipotesi (controversie riguardanti contratti pubblici aventi ad oggetto la realizzazione di interventi originati da calamità naturali) la quale, all'interno della materia delle opere pubbliche, non si differenzierebbe dalle altre con riguardo alla compatibilità con la ratio sottesa alla disciplina generale dell'ar bitrato;
che il
remittente sostiene, inoltre, la violazione dell'art. 3 Cost., sotto il
profilo del principio di uguaglianza, in quanto le citate disposizioni -
attribuendo un regime normativo differenziato ad appalti oggettivamente
e soggettivamente identici ed individuando l'illegittima ratio
di tale particolare disciplina nella genesi remota della necessità di
provvedere all'esecuzione dell'opera (calamità naturale), genesi
caratterizzata da un criterio di localizzazione logistica -
determinerebbero una discriminazione di tipo territoriale rispetto al
regime generale degli appalti di opere pubbliche, non solo in
riferimento al più ampio ambito comunitario, ma anche in ambito
nazionale; che, inoltre, il Collegio arbitrale assume la lesione degli artt. 41 e 42 Cost., in quanto le norme censurate limiterebbero la libertà di iniziativa economica attraverso l'illegittima sottrazione di alcuni operatori del settore alla regola generale della derogabilità della giurisdizione statuale in favore degli arbitri; che, concludendo su tale prima questione, il remittente chiede a questa Corte di valutare se all'eventuale declaratoria d'illegittimità costituzionale della suddetta normativa debba conseguire, in applicazione dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, analoga pronuncia in riferimento all'art. 253, comma 34, lettera d), secondo periodo, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, il quale ha riaffermato il divieto in argomento, facendo eccezione alla regola generale della compromettibilità in arbitri di tutte le controversie su diritti soggettivi derivanti dall'esecuzione di contratti pubblici di appalto, dettata dall'art. 241 dello stesso d.lgs. n. 163 del 2006; che, in via subordinata, il Collegio remittente solleva, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 41, 42 e 97 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 2, del d.l. n. 180 del 1998, nella parte relativa all'esclusione dall'applicazione della norma di cui al primo periodo soltanto delle «controversie per le quali sia stata già notificata la domanda di arbitrato alla data di entrata in vigore del presente decreto» e non di tutte quelle relative a contratti già stipulati contenenti clausole compromissorie; che, in merito a tale questione, il remittente argomenta la violazione dei parametri invocati sulla base dell'irragionevole individuazione, come momento di discrimine tra il vecchio e il nuovo regime, di quello della notificazione della domanda arbitrale anziché di quello della sottoscrizione della clausola compromissoria e, quindi, della determinazione della nullità retroattiva di tutte le clausole compromissorie precedentemente stipulate; che, in via ulteriormente subordinata, il remittente denuncia il contrasto delle disposizioni in oggetto con gli artt. 117, primo comma, 3 e 41 Cost., in quanto, modificando le condizioni conosciute dalle parti al momento della stipulazione del contratto e prevedendo la salvezza delle sole domande arbitrali già notificate e non di tutti i contratti già stipulati contenenti clausole compromissorie, violerebbero la normativa comunitaria in materia di appalti e, in particolare, i principi di parità di trattamento tra gli operatori, di non discriminazione e di trasparenza cui essa si ispira; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo la declaratoria di manifesta infondatezza delle questioni data la loro analogia, se non addirittura identità, con quelle già scrutinate e respinte nella sentenza n. 376 del 2001 e nelle ordinanze n. 11 e n. 122 del 2003; che si è costituito il Consorzio CPR2 il quale, anche in una memoria depositata in prossimità dell'udienza, ha aderito, ampliandone le argomentazioni, alle conclusioni dell'ordinanza di rimessione, insistendo per il superamento della precedente giurisprudenza costituzionale in materia. Considerato che il Collegio arbitrale remittente fonda la sua tesi - ribadita e sviluppata dalla parte privata nelle proprie difese - principalmente, anche se non esclusivamente, sull'assunto che il divieto del giudizio arbitrale per le controversie concernenti rapporti relativi ad appalti per la costruzione di opere pubbliche rese necessarie da calamità naturali è irragionevole e, in quanto tale, contrasta con numerosi parametri costituzionali; che tale irragionevolezza viene dedotta dal rilievo secondo cui, rispetto al generale principio della compromettibilità in arbitri di tutte le controversie aventi ad oggetto diritti disponibili - ribadito, per quelle nascenti da appalti pubblici, dall'articolo 241 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 - la norma impugnata introdurrebbe un'eccezione riguardante una categoria puramente naturalistica (opere pubbliche rese necessarie da calamità naturali) priva di connotazioni giuridiche (ancorché sia stata confermata dall'art. 253, comma 34, lettera d, secondo periodo, del suddetto d.lgs. n. 163 del 2006, del quale si prefigura un'illegittimità consequenziale); che, ad avviso del remittente, la disposizione che configura l'eccezione al generale principio della compromettibilità dei diritti disponibili non si fonda sulla identificazione di un ben individuato interesse pubblico prevalente su quello che informa il principio generale suindicato; che, successivamente alla proposizione delle questioni ed alla discussione di esse in pubblica udienza, è stata approvata la legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008), la quale all'art. 3, commi da 19 a 22 - ancorché soltanto dal 1° agosto 2008, per effetto dell'art. 15 del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni urgenti in materia finanziaria) - ha introdotto il divieto del giudizio arbitrale per tutte le controversie scaturenti da appalti pubblici; che, pertanto, rispetto alle questioni come proposte e come discusse è mutato il quadro normativo, sicché è necessario che il remittente ne riesamini i termini; che va, quindi, disposta la restituzione degli atti. LA CORTE COSTITUZIONALE ordina la restituzione degli atti al Collegio arbitrale di Napoli costituito per l'arbitrato tra il Consorzio CPR2 e la locale Curia arcivescovile. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 febbraio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 21 febbraio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai Signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 9, della legge della Regione Campania 13 agosto 1998, n. 16 (Assetto dei Consorzi per le aree di sviluppo industriale) come autenticamente interpretato dall'art. 77, comma 2, della legge della Regione Campania 11 agosto 2001, n. 10 (Disposizioni di finanza regionale anno 2001), promosso con ordinanza del 19 luglio 2006 dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania sui ricorsi riuniti proposti da Tremiterra Errico ed altri contro il Comune di Carinaro ed altri, iscritta al n. 429 del regi stro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell'anno 2007. Udito nella camera di consiglio del 12 dicembre 2007 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro. Ritenuto che, nel corso di giudizio di impugnazione avverso gli atti del procedimento espropriativo di aree per la realizzazione degli insediamenti produttivi e connesse infrastrutture delle società consorziate nella società consortile Unica s.c.r.l., per la produzione dell'intera filiera calzaturiera dell'agglomerato industriale Aversa-nord-tenimento comunale di Carinaro, il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, sezione V, con ordinanza del 19 luglio 2006, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 9, della legge regionale della Campania 13 agosto 1998, n. 16 (Assetto dei Consorzi per le aree di sviluppo industriale), come autenticamente interpretato dall'art. 77, comma 2, della legge regionale della Campania 11 agosto 2001, n. 10 (Disposizioni di finanza regionale anno 2001), per violazione degli articoli 3, 42 e 97 della Costituzione. Considerato che, successivamente all'ordinanza di rimessione, con la sentenza 20 luglio 2007, n. 314, questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli articoli 3, 42, terzo comma, e 97 della Costituzione, il combinato disposto dell'art. 10, comma 9, della citata legge regionale n. 16 del 1998, e dell'art. 77, comma 2, della predetta legge regionale n. 10 del 2001, nella parte in cui proroga per un triennio i piani regolatori dei nuclei e delle aree industriali già scaduti; che, pertanto, alla stregua della costante giurisprudenza di questa Corte, va ordinata la restituzione degli atti al giudice rimettente, al fine di una nuova valutazione della rilevanza della questione sollevata, alla luce della citata sopravvenuta sentenza di questa Corte n. 314 del 2007 (ordinanze n. 99 del 2007; n. 443 e n. 326 del 2006). LA CORTE COSTITUZIONALE ordina la restituzione degli atti al Tribunale amministrativo regionale per la Campania. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 febbraio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Alfio FINOCCHIARO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 21 febbraio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 19, commi 1 e 2, del decreto legislativo 8 novembre 1990, n. 374 (Riordinamento degli istituti doganali e revisione delle procedure di accertamento e controllo in attuazione delle direttive n. 79/695/CEE del 24 luglio 1979 e n. 82/57/CEE del 17 dicembre 1981, in tema di procedure di immissione in libera pratica delle merci, e delle direttive n. 81/177/CEE del 24 febbraio 1981 e n. 82/347/CEE del 23 aprile 1982, in tema di procedure di esportazione delle merci comunitarie), promosso con ordinanza del 9 febbraio 2007 dal Tribunale di Civitavecchia nel proc edimento civile vertente tra E.M. ed altri e l'Agenzia delle Dogane - Circoscrizione Doganale di Roma 1, iscritta al n. 575 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti l'atto di costituzione di E.M. ed altri, nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 15 gennaio 2008 il Giudice relatore Maria Rita Saulle; uditi l'avvocato Giorgio Barili per E.M. ed altri, e l'avvocato dello Stato Giuseppe Albenzio per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto che, con ordinanza del 9 febbraio 2007, il Tribunale di Civitavecchia ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 19, commi 1 e 2, del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374 (Riordinamento degli istituti doganali e revisione delle procedure di accertamento e controllo in attuazione delle direttive n. 79/695/CEE del 24 luglio 1979 e n. 82/57/CEE del 17 dicembre 1981, in tema di procedure di immissione in libera pratica delle merci, e delle direttive n. 81/177/CEE del 24 febbraio 1981 e n. 82/347/CEE del 23 aprile 1982, in tema di procedure di esportazione delle merci comunitarie), per contrasto con gli artt. 3, 23 e 97 della Costituzione; che la disposizione viene censurata «nella parte in cui prevede l'applicazione, da parte del direttore della circoscrizione doganale competente per territorio, di una sanzione amministrativa per la violazione del divieto di eseguire costruzioni ed altre opere di ogni specie, sia provvisorie sia permanenti, in prossimità della linea doganale, senza dettare alcun criterio per la determinazione della nozione di "prossimità" e, conseguentemente, per la individuazione da parte della Pubblica Amministrazione dei comportamenti da sanzionarsi»; che il giudizio a quo origina dall'opposizione avverso l'ingiunzione di pagamento della sanzione amministrativa comminata dall'Agenzia delle Dogane, nei confronti di una società in accomandita semplice e dei suoi soci accomandatari, per la realizzazione di un chiosco bar e di un manufatto in lamiera ondulata in assenza della prescritta autorizzazione doganale; che, in punto di rilevanza, il rimettente evidenzia, quanto all'elemento oggettivo dell'illecito amministrativo contestato, che non vi è dubbio circa «la realizzazione degli immobili su terreno apparentemente "prossimo" alla linea doganale (costituita nelle specie, dal lido del mare)», nonché, quanto all'elemento soggettivo, che «non appare raggiunta la prova» in ordine all'assenza di colpa degli opponenti, essendo stato dimostrato dalla parte opposta che il competente rappresentante della Circoscrizione doganale aveva rappresentato loro la necessità dell'istanza di autorizzazione ex art. 19 del d.lgs. n. 375 del 1990 in relazione al progetto edificatorio nell 'ambito del quale sono stati realizzati i manufatti in questione; che, ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata, identificando il comportamento sanzionato nella edificazione (ovvero nella modificazione o variazione di edifici già esistenti), senza la prescritta autorizzazione, "in prossimità" della linea doganale, contrasterebbe innanzitutto con il «principio di riserva di legge relativa» previsto dall'art. 23 Cost., in quanto «l'indeterminatezza del concetto di "prossimità"» non consentirebbe al privato «di verificare a priori il contenuto del comportamento sanzionato», lasciando alla Pubblica Amministrazione «assoluta discrezionalità nella determinazione, in concreto, del comportamento edificatorio da assoggettare a sanzione»; che, in secondo luogo, la denunciata indeterminatezza del precetto violerebbe sia l'art. 3 Cost., «sussistendo la possibilità che comportamenti edificatori posti in essere ad analoghe distanze dalla linea doganale vengano o meno sottoposti alla sanzione amministrativa in base a non prevedibili (e non necessariamente identiche) valutazioni della stessa Pubblica Amministrazione», sia il principio di buon andamento e imparzialità dell'azione amministrativa sancito dall'art. 97 Cost., «in virtù del possibile trattamento diversificato di situazioni edificatorie realizzate ad identica distanza dalla linea doganale», anche in considerazione della molteplicità, sul territorio, delle Circoscrizioni doganali, che renderebbe «ancor più probabile l'astratta possibilità di determinazion i diverse con riferimento a casi analoghi»; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la sollevata questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata; che, secondo la difesa erariale, la disposizione sottoposta al sindacato di questa Corte svolgerebbe «una funzione di prevenzione della violazione delle norme anticontrabbando e di ulteriori interessi pubblici tutelati dalle dogane», avendo il legislatore «inteso impedire la realizzazione di costruzioni non autorizzate lungo la linea doganale terrestre e la riva del mare, attraverso l'espletamento di un controllo preventivo da parte dell'autorità doganale competente»; che, in particolare, quanto al primo profilo di censura, l'art. 19 del d.lgs. n. 375 del 1990 risulterebbe pienamente conforme al principio di legalità che − in forza dell'art. 23 Cost. − presiede alle sanzioni amministrative, in quanto «da un lato è norma di legge di rango primario, dall'altro prevede in modo espresso e specifico l'illecito e la misura della sanzione (commisurata al valore dell'opera eventualmente già costruita)»; che, sempre ad avviso dell'Avvocatura generale dello Stato, sulla base degli elementi forniti dall'ordinanza di rimessione, non potrebbe dubitarsi della indeterminatezza della formulazione della norma censurata, atteso il fatto che lo stesso giudice a quo afferma testualmente che la realizzazione dei manufatti sanzionata sarebbe avvenuta in terreno "prossimo" alla linea doganale, rendendo così priva di rilevanza la questione sottoposta a questa Corte; che, in ogni caso, non potrebbe considerarsi violato il principio di determinatezza dell'illecito amministrativo, dal momento che l'art. 1 del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale), fornisce una definizione di "linea doganale", dettando criteri idonei a individuarla in concreto, cosicché, con l'espressione «in prossimità della linea doganale», il legislatore avrebbe fornito un «criterio di rinvio sufficientemente univoco», idoneo alla sua corretta identificazione «in ragione della complessità geografica e morfologica del territorio»; che, quanto alla ipotizzata lesione dell'art. 3 Cost., la difesa erariale deduce l'inammissibilità o comunque l'infondatezza di tale profilo di censura, non avendo il giudice identificato alcun tertium comparationis e considerato che «la diversa regolamentazione di fattispecie apparentemente simili può essere legittimamente determinata dalla estremamente variegata realtà geografica che rende continuamente mutevole la linea doganale»; che, infine, con riferimento all'art. 97 Cost., la difesa erariale eccepisce l'inammissibilità della questione sollevata per omessa motivazione del parametro invocato, osservando peraltro che il buon andamento e l'imparzialità della Pubblica Amministrazione risulterebbero assicurati dal procedimento amministrativo in cui si inserisce la sanzione amministrativa in questione, nonché dalla univocità interpretativa con la quale la norma censurata è sempre stata applicata; che, con atto depositato il 24 settembre 2007, si sono costituiti in giudizio - in proprio e in qualità di legali rappresentanti pro tempore - tre soci della società in accomandita semplice, opponente nel giudizio principale, chiedendo la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata dal giudice rimettente e riservandosi di presentare memorie e documentazione; che, con memoria depositata in prossimità dell'udienza pubblica, l'Avvocatura generale dello Stato ha ribadito le considerazioni difensive già svolte, insistendo nella richiesta di declaratoria di inammissibilità ovvero infondatezza della questione di legittimità sollevata; che, parimenti, con memoria depositata in prossimità dell'udienza, le parti private hanno svolto considerazioni illustrative del proprio atto di costituzione, aderendo alle argomentazioni poste a fondamento della questione di legittimità costituzionale sollevata dal giudice rimettente ed insistendo nella richiesta di accoglimento. Considerato che il Tribunale di Civitavecchia dubita della legittimità costituzionale, in relazione agli artt. 3, 23 e 97 della Costituzione, dell'art. 19, commi 1 e 2, del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 375 (Riordinamento degli istituti doganali e revisione delle procedure di accertamento e controllo in attuazione delle direttive n. 79/695/CEE del 24 luglio 1979 e n. 82/57/CEE del 17 dicembre 1981, in tema di procedure di immissione in libe ra pratica delle merci, e delle direttive n. 81/177/CEE del 24 febbraio 1981 e n. 82/347/CEE del 23 aprile 1982, in tema di procedure di esportazione delle merci comunitarie), «nella parte in cui prevede l'applicazione, da parte del direttore della circoscrizione doganale competente per territorio, di una sanzione amministrativa per la violazione del divieto di eseguire costruzioni ed altre opere di ogni specie, sia provvisorie sia permanenti, in prossimità della linea doganale, senza dettare alcun criterio per la determinazione della nozione di "prossimità" e, conseguentemente, per la individuazione da parte della Pubblica Amministrazione dei comportamenti da sanzionarsi»; che l'assunto da cui muove il giudice rimettente, in relazione alla asserita indeterminatezza della formulazione della disposizione censurata, risulta espressamente contraddetto dalla testuale affermazione secondo la quale «non può dubitarsi della sussistenza dell'elemento oggettivo dell'illecito, essendo incontestata la realizzazione degli immobili su terreno apparentemente "prossimo" alla linea doganale (costituita, nella specie, dal lido del mare; art. 1, comma 1, del Testo Unico delle disposizioni legislative in materia doganale, n. 43 del 1973)»; che, in tal modo, come eccepito dalla stessa Avvocatura generale dello Stato, il rimettente ha reso del tutto ininfluente per il giudizio a quo un'eventuale pronuncia di questa Corte, avendo egli già valutato positivamente l'integrazione in concreto dell'elemento oggettivo dell'illecito amministrativo contestato proprio con riferimento al concetto di "prossimità" degli immobili realizzati e, dunque, avendo dimostrato nei fatti di poter interpretare ed applicare la norma - della cui sufficiente determinatezza dubita - al caso sottoposto al suo giudizio; che, sotto tale profilo, la questione sollevata presenta un difetto assoluto di rilevanza che la rende manifestamente inammissibile; che, d'altronde, l'intervento additivo che il giudice a quo prospetta è radicalmente precluso a questa Corte, sia in quanto manca nell'ordinanza qualunque indicazione in ordine ai «criteri» che potrebbero rendere la disposizione conforme ai parametri costituzionali invocati, sia in quanto l'individuazione e la specificazione della nozione di «prossimità» alla linea doganale comportano una pluralità di soluzioni in funzione sia della diversa conformazione geografica che assume la linea doganale stessa sia delle molteplici esigenze di interesse pubblico cui è preposta la norma censurata, cosicché manca una soluzione costituzionalmente obbligata idonea a predeterminare in maniera rigida il conc etto di «prossimità»; che, dunque, anche da tale punto di vista, in conformità con il consolidato orientamento di questa Corte, le questioni devono essere dichiarate manifestamente inammissibili (si vedano, ex plurimis, la sentenza n. 33 del 2007, le ordinanze n. 278 del 2007, nn. 380 e 23 del 2006). LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 19, commi 1 e 2, del d.lgs. 8 novembre 1990, n. 374 (Riordinamento degli istituti doganali e revisione delle procedure di accertamento e controllo in attuazione delle direttive n. 79/695/CEE del 24 luglio 1979 e n. 82/57/CEE del 17 dicembre 1981, in tema di procedure di immissione in libera pratica delle merci, e delle direttive n. 81/177/CEE del 24 febbraio 1981 e n. 82/347/CEE del 23 aprile 1982, in tema di procedure di esportazione delle merci comunitarie), sollevata dal Tribunale di Civitavecchia, in relazione agli artt. 3, 23 e 97 della Costituzione, con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 febbraio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Maria Rita SAULLE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 21 febbraio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 41-bis, della legge della Regione Lombardia 5 gennaio 2000, n. 1, recante «Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)», introdotto dall'art. 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 8 febbraio 2005, n. 7, recante Modifiche alla legge regionale 5 gennaio 2000, n. 1 «Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti ammi nistrativi dello stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)», promosso con ordinanza del 27 luglio 2006 dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia sul ricorso proposto da Erbetti Francesca ed altri contro il Comune di Busnago ed altra, iscritta al n. 222 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di costituzione della Regione Lombardia e delle articolazioni territoriali di Milano del Sindacato Inquilini Casa e Territorio (SICeT) ed altri, del Sindacato Unitario Nazionale Inquilini e Assegnatari (SUNIA), della Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) e della Unione Sindacale Regionale della Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (USR CISL), nonché l'atto di intervento della CGIL e della CISL nazionali; udito nella udienza pubblica del 15 gennaio 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano; uditi gli avvocati Vittorio Angiolini e Giuseppe Sante Assennato per il SICeT territoriale di Milano ed altri e per la CGIL e CISL, sia nelle loro articolazioni territoriali lombarde sia nazionali, ed Enzo Cardi per la Regione Lombardia. Ritenuto che il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia (sede di Milano) ha sollevato, con ordinanza del 27 luglio 2006, questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 41-bis, della legge della Regione Lombardia 5 gennaio 2000, n. 1, recante «Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)», introdotto da ll'art. 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 8 febbraio 2005, n. 7, recante Modifiche alla legge regionale 5 gennaio 2000, n. 1 «Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)», in riferimento agli artt. 3, 47, 101, 102, 103, 104, 111, 117, commi primo, secondo, lettera m), terzo, e 120 della Costituzione, nella parte in cui prevede che «per la presentazione della domanda per l'assegnazione di alloggi di edilizia residenziale pubblica di cui al comma 3 dell'articolo 1 del regolamento regionale 10 febbraio 2004, n. 1 (Criteri generali per l'assegnazione e la gestione degli alloggi di edilizia residen ziale pubblica (art. 3, comma 41, lett. m) l.r. 1/2000), i richiedenti devono avere la residenza o svolgere attività lavorativa in Regione Lombardia da almeno cinque anni per il periodo immediatamente precedente alla data di presentazione della domanda»; che il rimettente premette di essere chiamato a giudicare in ordine all'annullamento dei provvedimenti del Comune di Busnago - assunti in data 23 novembre 2005, nn. 12500 e 12501 - impugnati dalle ricorrenti Erbetti Francesca e Chica Quinonez Emma Veronica, assieme alle articolazioni milanesi del Sindacato Inquilini Casa e Territorio (SICeT) territoriale di Milano, del Sindacato Unitario Nazionale Inquilini e Assegnatari (SUNIA) provinciale di Milano, della Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) lombarda, e dell'Unione sindacale Regionale della Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (USR CISL); che, ricorda ancora il Tar rimettente, i ricorrenti chiedevano l'annullamento dei provvedimenti sopra citati con i quali il Comune di Busnago rigettava le domande di assegnazione di alloggio di edilizia residenziale pubblica (in seguito erp), presentate in data 22 ottobre 2005 dalle signore Erbetti Francesca e Chica Quinonez Emma Veronica, poiché - ai sensi della legge regionale della Lombardia n. 7 del 2005 - «i richiedenti devono avere la residenza o svolgere attività lavorativa in Regione Lombardia da almeno cinque anni per il periodo immediatamente precedente alla data di presentazione della domanda», requisito mancante ad entrambe le istanti; che, quindi, rigettate le eccezioni di inammissibilità formulate dalla Regione Lombardia in merito alla legittimazione attiva sia delle due ricorrenti che delle suddette organizzazioni sindacali, il rimettente evidenzia come - prima della legge regionale n. 7 del 2005 e del regolamento regionale 27 marzo 2006, n. 5, recante «Modifiche al regolamento regionale 10 febbraio 2004, n. 1 (Criteri generali per l'assegnazione e la gestione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica (art. 3, comma 41, lett. m) l. r. 1/2000», la Regione Lombardia, con il regolamento regionale n. 1 del 2004, recante «Criteri generali per l'assegnazione e la gestione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica (art. 3, comma 41, lett. m) l. r. 1/2000», aveva stabilito che, per l'assegnazione degli alloggi erp, si dovesse tener conto - in aggiunta ai criteri del disagio familiare, abitativo ed economico - anche degli anni di residenza nella Regione stessa, attribuendo un punteggio ulteriore (5 punti per un anno fino ad un massimo di 90 per oltre 20 anni di residenza in Lombardia) e che proprio il Tar Lombardia, sezione prima, con sentenza del 29 settembre 2004, n. 4196, non impugnata dalla Regione, aveva annullato il suddetto regolamento regionale ritenendo che introducesse un elemento estraneo alla ratio della normativa sull'edilizia residenziale pubblica; che, si ricorda ancora nell'ordinanza di rimessione, la Regione Lombardia ha successivamente approvato la legge regionale n. 7 del 2005, la quale (per i profili qui coinvolti) ha introdotto nell'art. 3 della legge regionale 5 gennaio 2000, n. 1, il censurato comma 41-bis; che, in punto di rilevanza, il giudice a quo sottolinea come i provvedimenti impugnati sono stati adottati in virtù della norma censurata e, conseguentemente, in caso di declaratoria di illegittimità costituzionale della norma suddetta, il ricorso presentato contro gli atti di esclusione potrà trovare accoglimento, mentre, nel caso contrario, lo stesso dovrà essere rigettato, in quanto gli atti impugnati sarebbero «fedele e corretta applicazione del disposto normativo de quo»; che, quanto alla non manifesta infondatezza, il Tar rimettente ritiene di doverla esaminare in riferimento agli artt. 3, 47, 101, 102, 103, 104, 111, 117, commi primo, secondo, lettera m), terzo, e 120 della Costituzione; che, a parere dello stesso Tar, la norma censurata viola l'art. 117, terzo comma, della Costituzione, anche in relazione all'art. 47 Cost., e all'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto la legge regionale n. 7 del 2005 viola (con l'introduzione del requisito della residenza o, comunque, del lavoro in Lombardia protratto per cinque anni) i principi fondamentali in materia di edilizia residenziale pubblica, fissati dalle leggi dello Stato: in particolare, viola la «finalità di favorire l'accesso all'abitazione a condizioni inferiori a quelle di mercato, a categorie di cittadini meno abbienti», affermata, secondo il rimettente, sia dalle sentenze n. 299 del 2000, n. 135 e n. 150 del 2004, che dal regio decreto 28 aprile 1938 , n. 1165 (Approvazione del T.U. delle disposizioni sull'edilizia economica e popolare), e confermata dalle leggi statali più recenti; che la legge regionale, sempre secondo l'ordinanza di rimessione, contrasterebbe ancora con il disposto dell'art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, perché limiterebbe l'accesso all'erp, intervenendo sulla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali, livelli essenziali che devono essere garantiti in modo uniforme su tutto il territorio nazionale; che, per il rimettente, sarebbe altresì violato l'art. 3 della Costituzione, in quanto la norma impugnata introdurrebbe un fattore discriminatorio, rapportato alla durata del lavoro o della residenza in Lombardia, così escludendo dall'accesso alle abitazioni residenziali pubbliche proprio coloro che, in quanto non radicati da lungo tempo sul territorio regionale e alla ricerca di un lavoro, «si trovano in condizioni di maggiore difficoltà e di maggiore disagio»; che la norma impugnata si porrebbe in contrasto anche con l'art. 120 della Costituzione, poiché renderebbe più difficoltosa la mobilità tra Regioni a chi versa in stato di bisogno, rendendo «difficile lavorare in una regione a chi non vi sia da tempo stabilmente insediato»; che, inoltre, la disposizione denunciata determinerebbe la violazione degli art. 101, 102, 103, 104 e 111 della Costituzione, in quanto la normativa censurata appare, sempre secondo l'ordinanza di rimessione, ispirata «dall'intento di neutralizzare, mediante la modifica formale della fonte normativa, l'orientamento assunto in materia da questo TAR con la sentenza n. 4196/94», intento «che non può non risultare lesivo della funzione giurisdizionale»; che, infine, la stessa norma, sempre per il Tar rimettente, verrebbe a violare l'art. 117, primo comma, della Costituzione in relazione all'art. 48 (poi 39) del trattato CE, perché la normativa censurata contrasterebbe con il diritto dei lavoratori alla libera circolazione nell'ambito della Unione europea proprio in ragione del richiamato requisito della residenza come criterio per l'accesso alla prestazione; che si è costituito in giudizio il Presidente della Giunta regionale della Lombardia, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata; che, con riferimento all'art. 117, commi secondo, lettera m), e terzo, della Costituzione, anche in relazione al precedente art. 47, l'inammissibilità viene eccepita «per mancata indicazione della norma statale interposta che si intenderebbe violata, stante la generica indicazione di violazione dei principi fondamentali in materia di edilizia residenziale pubblica», mentre, nel merito, la questione sarebbe manifestamente infondata in base alla considerazione che quasi tutte le leggi regionali in tema di erp prevedono, tra i requisiti soggettivi richiesti, il criterio della residenza e/o quello della prestazione di attività lavorativa nel Comune o, comunque, nell'ambito territoriale cui si ri ferisce il bando di concorso; che la Regione sottolinea, altresì, come questa Corte ha sempre ritenuto l'erp «nuova materia di competenza regionale» (sentenza n. 29 del 1996), nonché come l'art. 60 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, abbia conferito alle Regioni «tutte le funzioni amministrative relative alla gestione e all'attuazione degli interventi in materia di edilizia residenziale pubblica»; e che «l'assegnazione e gestione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, come già affermato da questa Corte, costituisce, in linea di principio, espressione della competenza spettante alla Regione in questa materia (ordinanza n. 526 del 2002)»; che, relativamente alla censura riferita all'art. 117, primo comma, della Costituzione, anche in relazione all'art. 48 (poi 39) del trattato CE, la difesa regionale ne sostiene l'infondatezza, in quanto il criterio oggettivo della residenza prolungata ovvero della attività lavorativa «non incide minimamente sulla cittadinanza delle persone interessate ed è assolutamente commisurato agli scopi perseguiti dal diritto interno»; che, quindi, la difesa regionale ritiene inammissibile la questione di legittimità prospettata e comunque infondate le censure sollevate in riferimento agli artt. 101, 102, 103, 104 e 111 della Costituzione, stante la genericità delle argomentazioni contenute nell'ordinanza di rimessione, nonché la totale estraneità dei parametri costituzionali evocati alla materia di cui trattasi; che, in particolare, con riguardo all'art. 101 della Costituzione (per il quale, nelle conclusioni, si richiede la dichiarazione di infondatezza, ma nel testo della memoria si richiama anche un profilo di inammissibilità), la Regione rileva che la sentenza n. 4196 del 2004 del Tar Lombardia aveva per oggetto l'annullamento del regolamento regionale n. 1 del 2004: ne conseguirebbe, quindi, se fosse accolta la tesi del rimettente, che la Regione sarebbe priva del potere di legiferare a seguito di una sentenza di annullamento di una normativa secondaria, con rovesciamento di quanto prevede l'art. 101 della Costituzione che dispone che i giudici siano sottoposti alla legge; che, quanto all'art. 120 della Costituzione, la difesa regionale ritiene la censura infondata, richiamando tra l'altro la sentenza n. 51 del 1991 della Corte costituzionale secondo la quale «il divieto imposto a ciascuna Regione dall'art. 120, secondo comma, della Costituzione [.], non comporta una preclusione assoluta, per gli atti regionali, di stabilire limiti al libero movimento delle persone e delle cose»; che, inoltre, la difesa della Regione ritiene infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata con riferimento all'art. 3 Cost., sottolineando la ragionevolezza della opzione normativa che tiene conto della «limitatezza della risorsa» e, quindi, introduce «regimi differenziati» per l'accesso al beneficio della fruizione dell'alloggio, e richiamando, altresì, a sostegno della propria affermazione, le numerose analoghe leggi di altre Regioni, nonché la giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 432 del 2005, n. 34 del 2004, n. 1 del 1999 e ordinanza n. 268 del 2001); che, per quanto riguarda l'asserita violazione dell'art. 47 della Costituzione (in realtà evocato in combinato con gli artt. 117, comma secondo, lettera m, e terzo, della Costituzione) la Regione sottolinea come la materia di cui trattasi sia di piena competenza regionale, richiamando la giurisprudenza di questa Corte; che, in prossimità dell'udienza, la Regione Lombardia ha depositato memoria illustrativa, nella quale ha, in sostanza, ribadito le precedenti argomentazioni, sia in ordine all'inammissibilità che all'infondatezza della questione; che, in particolare, quanto al merito, dopo aver ribadito le precedenti conclusioni, ha ricordato come la sentenza n. 94 del 2007, abbia chiarito che la competenza statale di cui all'art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, «riguarda la determinazione dell'offerta minima di alloggi destinati a soddisfare le esigenze di ceti meno abbienti», mentre la legge regionale di cui trattasi si occupa di erp e, quindi, ricade (secondo la ripartizione individuata dalla citata sentenza) nella competenza residuale delle Regioni, le quali possono legittimamente «adottare autonomi ed ulteriori meccanismi» selettivi (sentenza n. 80 del 2007), finalizzati ad un miglior funzionamento del sistema di assegnazione degli alloggi stessi.< /o:p> che, nell'imminenza dell'udienza, anche il SICeT di Milano, la CGIL e la CISL - tutti già costituiti nel giudizio a quo - hanno presentato memoria, ribadendo la rilevanza della questione, nonché la fondatezza della censure; che, quanto alla violazione degli artt. 3 e 47 della Costituzione, hanno richiamato la giurisprudenza di questa Corte sulla natura del diritto all'abitazione in virtù degli artt. 2 e 47 della Costituzione (sentenze n. 203 del 2003, n. 419 del 1991, nn. 404 e 217 del 1988); che, per le parti costituite, ugualmente fondata sarebbe la censura relativa alla violazione dell'art. 117 della Costituzione: in particolare, ritengono vi sia violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, in quanto appartiene alla competenza statale esclusiva la «fissazione dei principi che valgono a garantire uniformità dei criteri di assegnazione su tutto il territorio nazionale» dell'offerta «di alloggi destinati a soddisfare le esigenze dei ceti meno abbienti»; che la disciplina della Regione Lombardia sia, del resto, chiaramente discriminatoria nei confronti degli immigrati, specie extra comunitari e che sia anche in contrasto con lo stesso art. 40, comma 6, del decreto legislativo del 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come successivamente integrato e modificato, sarebbe confermato dalla circostanza che i cinque anni di residenza richiesti sono chiaramente finalizzati ad introdurre un criterio selettivo che sostanzialmente impedisca l'accesso al beneficio a tutti i lavoratori immigrati, in contrasto anche con la chiara indicazione della giurisprudenza costituzionale, la quale afferma che il d iritto degli stranieri immigrati ad accedere all'erp è «già riconosciuto in via di principio» nel nostro testo costituzionale (sentenza n. 300 del 2005); che, sempre secondo le parti costituite, la disposizione impugnata violerebbe l'art. 117, primo comma, della Costituzione, con la precisazione che la norma censurata non è in contrasto soltanto con la disciplina del trattato CE, relativa alla libera circolazione (su cui maggiormente insiste il Tar rimettente), ma anche con i principi della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (CEDU), come interpretati dalla Corte di Strasburgo; che, infatti, la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo da tempo (quanto meno a partire dalla sentenza del 16 settembre 1996, Gaygusuz c. Austria) ha «enucleato il principio, desunto direttamente dall'art. 14 CEDU, per cui ciascuno ha diritto ad usufruire della distribuzione di beni o benefici pubblici aventi rilievo anche economico senza subire discriminazioni che non dipendano dal corretto svolgimento delle finalità pubblicistiche perseguite» e che principi analoghi sono stati affermati, anche di recente, nella sentenza 25 ottobre 2005, Okpisz v. Germania, e Niedzwiecki v. Germania; che, la difesa delle associazioni ritiene, altresì, che l'art. 3, comma 41-bis, venga a violare l'art. 120 della Costituzione, poiché ostacola la libera circolazione delle persone e dei lavoratori nel territorio nazionale; che, d'altra parte, non può ritenersi ragionevole (alla stregua dell'art. 3 della Costituzione) l'utilizzo di criteri selettivi giustificati dalla pretesa necessità di contenimento della spesa pubblica e/o dalla valorizzazione dell'apporto lavorativo offerto dai cittadini residenti alla produzione del benessere collettivo, visto che l'erp, secondo quanto afferma il rimettente riportando l'orientamento di questa Corte, ha «il compito, a carico della collettività, di favorire l'accesso all'abitazione, a canoni inferiori a quelli correnti sul mercato, a categorie di cittadini meno abbienti», intendendo per «collettività» quella nazionale, dalla quale provengono gli interventi speciali che finanziano l'erp, considerazione questa che ulteriormente dimostrerebbe la necessità di evitare discriminazioni che siano correlate alla permanenza della residenza nelle singole regioni per periodi temporali di durata del tutto irragionevole; che le articolazioni territoriali di SICeT, CGIL e CISL, concludono richiamando la sentenza n. 496 del 2000 della Corte costituzionale e ribadendo, quanto alla violazione degli artt. 101, 102, 103, 104 e 111 della Costituzione, gli argomenti del rimettente; che sono, altresì, intervenute in giudizio la CGIL e la CISL nazionali, chiedendo che la questione venga dichiarata fondata; che le stesse hanno depositato memoria in data 2 gennaio 2008, congiuntamente alle associazioni territoriali, già parti nel giudizio principale, nella quale dichiaravano di essere intervenute nel presente giudizio di costituzionalità con il solo scopo di «affiancare le loro articolazioni e rappresentanze nella Regione Lombardia, a cui è comunque riconosciuta anche statutariamente piena soggettività di stare in giudizio, per testimoniare, accanto alla rilevanza dell'oggetto della controversia, la concordia e l'impegno pieno delle organizzazioni sindacali nel domandare il ripristino della legalità costituzionale». Considerato che il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia (sede di Milano) con l'ordinanza in epigrafe, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 41-bis, della legge della Regione Lombardia 5 gennaio 2000, n. 1, recante «Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)», introdotto dall' art. 1, lettera a), della legge Regione Lombardia 8 febbraio 2005, n. 7 (Modifiche alla legge regionale 5 gennaio 2000, n. 1 «Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)», in riferimento agli artt. 3, 47, 101, 102, 103, 104, 111, 117, commi primo, secondo, lettera m), terzo, e 120 della Costituzione, nella parte in cui prevede, tra i requisiti per la presentazione delle domande di assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, che «i richiedenti devono avere la residenza o svolgere attività lavorativa in Regione Lombardia da almeno cinque anni per il pe riodo immediatamente precedente alla data di presentazione della domanda», requisito mancante ad entrambe le istanti; che il rimettente censura la disposizione in questione in riferimento agli artt. 3, 47, 101, 102, 103, 104, 111, 117, commi primo, secondo, lettera m), terzo, e 120 della Costituzione, in quanto la stessa introdurrebbe un fattore di discriminazione tra i cittadini per l'accesso al servizio, violerebbe i principi fondamentali in materia di erp fissati dalle leggi dello Stato, interverrebbe sulla determinazione dei livelli essenziali, nonché contrasterebbe con il diritto dei lavoratori alla libera circolazione di cui all'art. 48 (ora 39) del trattato CE e di cui all'art. 120 della Costituzione, e sarebbe, infine, ispirata dalla finalità di neutralizzare il giudicato determinatosi sulla stessa materia;< o:p> che, in via preliminare, deve prendersi atto della rinuncia implicita degli intervenienti CGIL e CISL nazionali alla pretesa di essere parte nel presente giudizio, risultando dalla memoria depositata il 2 gennaio 2008 che l'intervento di cui trattasi era solo finalizzato a testimoniare l'identità di valutazioni, in ordine ai dubbi di costituzionalità della norma censurata, con le rispettive strutture territoriali, già parti nel giudizio a quo; che, con riguardo alla censura di cui agli artt. 117, primo comma, e 120 della Costituzione, la questione deve ritenersi inammissibile per carenza di motivazione in ordine al parametro di cui si deduce la violazione; che, quanto alla lamentata violazione dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione anche in relazione all'art. 47 Cost., e dell'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., la questione deve ritenersi manifestamente infondata, perché la materia di cui trattasi rientra nella competenza residuale delle Regioni e non investe, in ogni caso, la problematica della determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni relative ai diritti civili e sociali da garantire su tutto il territorio nazionale; che, in proposito, questa Corte ha avuto anche di recente modo di ribadire come «una specifica materia "edilizia residenziale pubblica" non compare tra quelle elencate nel secondo e terzo comma dell'art. 117 Cost.», così che esiste un terzo livello normativo che rientra nel quarto comma dell'art. 117 della Costituzione, il quale investe, appunto, la gestione del patrimonio immobiliare di edilizia residenziale pubblica e, conseguentemente, coinvolge la individuazione dei criteri di assegnazione degli alloggi dei ceti meno abbienti (da ultimo, sentenza n. 94 del 2007); che anche la lamentata violazione da parte della norma censurata dell'art. 3 della Costituzione, in quanto introduttiva di un fattore discriminatorio irragionevole e ingiustificato per l'accesso all'erp rapportato alla durata della residenza o del lavoro in Lombardia, deve ritenersi manifestamente infondata, in quanto, al riguardo, questa Corte ha avuto già modo di affermare che il requisito della residenza continuativa, ai fini dell'assegnazione, risulta non irragionevole (sentenza n. 432 del 2005) quando si pone in coerenza con le finalità che il legislatore intende perseguire (sentenza n. 493 del 1990), specie là dove le stesse realizzino un equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali in gioco (ordinanza n. 393 del 2007); che, rispetto agli ulteriori profili di censura prospettati dall'odierno rimettente in riferimento agli artt. 101, 102, 103, 104 e 111 della Costituzione, non si è ravvisato, per effetto della norma contestata, alcuna compromissione dell'esercizio della funzione giurisdizionale, la quale opera su di un piano diverso rispetto a quello del potere legislativo, tanto più considerando che il giudicato evocato era riferito a normazione di rango secondario; che, pertanto, anche quest'ultima censura deve ritenersi manifestamente infondata. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 41-bis, della legge della Regione Lombardia 5 gennaio 2000, n. 1, recante «Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)», introdotto dall'art. 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 8 febbraio 2005, n. 7, recante Modifiche alla legge regionale 5 gennaio 2000, n. 1 «Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)», sollevata, in riferimento agli artt. 117, primo comma, e 120 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia con l'ordinanza in epigrafe; dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 41-bis, della legge della Regione Lombardia 5 gennaio 2000, n. 1, introdotto dall'art. 1, lettera a), della legge della Regione Lombardia 8 febbraio 2005, n. 7, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 47, 117, commi secondo, lettera m), e terzo, 101, 102, 103, 104 e 111 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 febbraio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 21 febbraio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 69, quarto comma, del codice penale, come modificato dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005 n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promossi con ordinanze del 30 gennaio e del 6 marzo 2007 dal Tribunale di Roma, del 5 dicembre 2006, del 29 e del 25 gennaio 2007 dal Tribunale di Prato, del 21 febbraio 2007 dal Tribunale di Firenze, del 13 febbraio 2007 dalla Corte d'Appello di Torino, del 18 aprile 2007 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino, dell'8 giugno 2007 dal Tribunale di Roma, del 7 e del 30 marzo 2007 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Prato, rispettivamente iscritte ai numeri 391, 488, 516, 518, 582, 587, 606, 656, 657, 675 e 676 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn, 21, 26, 27, 34, 35, 36, 38, 39 prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick. Ritenuto che il Tribunale di Roma, con tre ordinanze di analogo tenore, emesse il 30 gennaio 2007 (r.o. n. 391 del 2007), il 6 marzo 2007 (r.o. n. 488 del 2007) e l'8 giugno 2007 (r.o. n. 657 del 2007), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione - e, limitatamente all'ordinanza r.o. n. 488 del 2007, anche in riferimento all'art. 24 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale dell'art. 69, quarto comma, del codice penale, come modificato dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 lu glio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui, nel disciplinare il concorso di circostanze eterogenee, vieta al giudice di ritenere le circostanze attenuanti prevalenti sull'aggravante della recidiva reiterata, prevista dall'art. 99, quarto comma, cod. pen.; che il giudice a quo - chiamato a giudicare persone imputate di detenzione o cessione illecita di sostanze stupefacenti, con l'aggravante della recidiva reiterata - premette che risulterebbe configurabile, stante la non elevata quantità dello stupefacente detenuto e le modalità della condotta, la circostanza attenuante ad effetto speciale del fatto di lieve entità, di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza): circostanza che comporta l'applicazione della pena della reclusione da uno a sei anni e della multa da euro 3.000 ad euro 26.000, in luogo di quella edittale, assai più severa, prevista dal comma 1 dello stesso art. 73 (reclusione da sei a venti anni e multa da euro 26.000 ad euro 260.000); che, ciò premesso, il rimettente osserva che l'art. 69, quarto comma, cod. pen., come modificato dall'art. 3 della legge n. 251 del 2005, nel disciplinare il cosiddetto giudizio di comparazione fra circostanze eterogenee, stabilisce il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata; che, di conseguenza, l'attenuante di cui al citato art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 potrebbe essere considerata, al più, equivalente all'aggravante contestata: sicché all'imputato andrebbe inflitta una pena minima di sei anni di reclusione ed euro 26.000 di multa; che, ad avviso del rimettente, la norma censurata si porrebbe in contrasto con il principio di proporzionalità della pena, desumibile dagli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, Cost., giacché solo una pena proporzionata all'offesa sarebbe in grado di assolvere alla sua composita funzione retributiva, intimidatrice e rieducativa, e di armonizzarsi con i principi di eguaglianza e di personalità della responsabilità penale; che - precludendo il giudizio di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata - la norma impugnata verrebbe, per contro, ad uniformare il trattamento sanzionatorio di situazioni anche profondamente diverse, imponendo l'applicazione di pene che possono risultare del tutto sproporzionate rispetto alla gravità del fatto e, come tali, inidonee ad esplicare una funzione rieducativa; che questi effetti negativi risulterebbero ancor più evidenti in rapporto ad ipotesi criminose come quella oggetto dei giudizi a quibus, caratterizzate da una marcata differenza della risposta sanzionatoria tra la fattispecie ordinaria e quella attenuata: col risultato di equiparare, quoad poenam, il narcotrafficante all'occasionale cedente di modeste dosi di stupefacente; che, inoltre, verrebbero allineati nel trattamento sanzionatorio anche autori dalle personalità del tutto diverse: gli imputati ritenuti meritevoli di una pluralità di attenuanti e quelli ai quali ne sia riconosciuta una sola; i recidivi per reati «bagatellari» e i recidivi per reati gravissimi; i recidivi per reati risalenti nel tempo e quelli per reati recentemente commessi; che le ordinanze r.o. n. 488 e n. 657 del 2007 evidenziano, altresì, come un ulteriore profilo di contrasto con l'art. 3 Cost. si connetta al fatto che l'art. 52 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468) - non modificato dalla legge n. 251 del 2005 - consenta tuttora, per i reati di competenza del giudice di pace e in relazione all'aggravante della recidiva reiterata infraquinquennale, quel giudizio di prevalenza delle attenuanti che la norma censurata viceversa preclude per i reati di competenza di giudici superiori, in caso di mera recidiva reiterata;
che il
Tribunale di Prato, con due ordinanze emesse il 5 dicembre 2006 (r.o. n.
516 del 2007) e il 25 gennaio 2007 (r.o. n. 582 del 2007), il Giudice
per le indagini preliminari dello stesso Tribunale, con due ordinanze
emesse il 7 marzo 2007 (r.o. n. 675 del 2007) e il 30 marzo 2007 (r.o.
n. 676 del 2007), e il Tribunale di Firenze, con ordinanza emessa il 21
febbraio 2007 (r.o. n. 587 del 2007), hanno sollevato, in riferimento
agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., analoga questione di legittimità
costituzionale dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui
sancisce il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle
circostanze inerenti la persona del colpevole, nel caso previsto
dall'art. 99, quarto comma, cod. pen.; che, ad avviso dei rimettenti - chiamati anch'essi a giudicare persone imputate di reati in materia di stupefacenti, con l'aggravante della recidiva reiterata, per fatti da ritenere di lieve entità - la norma impugnata violerebbe l'art. 3 Cost., in relazione ai principi di ragionevolezza e di proporzionalità della pena; che, in particolare - secondo le ordinanze r.o. n. 516, n. 582, n. 675 e n. 676 del 2007 - col rendere inoperante, rispetto ai recidivi reiterati, la riduzione di pena prevista per l'attenuante di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, la novella del 2005 determinerebbe non solo disparità di trattamento per situazioni fattuali omogenee (ad esempio, nel caso di detenzione di un quantitativo mimino di stupefacenti da parte di due soggetti in concorso, uno dei quali recidivo reiterato); ma anche risposte sanzionatorie più gravi per casi meno gravi (ad esempio, nel caso di detenzione di quantitativi minimi di stupefacente da parte del recidivo reiterato - anche se precedentemente condannato per reati di ingiuria, minaccia o lesioni - rispetto alla detenzione di quantitativi superiori da parte di soggetto incensurato, che possa fruire dell'attenuante); che tali considerazioni - secondo l'ordinanza r.o. n. 582 del 2007 - risulterebbero estensibili a tutti i casi nei quali il legislatore ha adottato la tecnica di commisurare la pena base in relazione alla fattispecie di reato più grave e di passare al trattamento sanzionatorio più mite attraverso il meccanismo dell'attenuante speciale (come, ad esempio, nell'art. 648, secondo comma, cod. pen.); donde una ulteriore disparità di trattamento fra tali ipotesi e quelle nelle quali il legislatore si è attenuto alla diversa tecnica di muovere dalla fattispecie più lieve, aumentando poi la pena in presenza di circostanze aggravanti (come, ad esempio, nell'art. 624 cod. pen.): casi, questi ultimi, nei quali anche il giudizio di equivalenza fra la reci diva reiterata e una o più circostanze attenuanti, consentirebbe al reo di fruire del più mite trattamento sanzionatorio previsto per la fattispecie semplice; che la disposizione denunciata violerebbe, altresì - secondo tutte le ordinanze in questione - l'art. 27, terzo comma, Cost., impedendo al giudice di applicare, tramite il giudizio di comparazione tra circostanze, una pena proporzionata alla gravità del fatto commesso; con conseguente compromissione della funzione rieducativa della pena stessa; che l'art. 69, quarto comma, cod. pen. è sospettato di illegittimità costituzionale, nella medesima articolazione precettiva, dal Tribunale di Prato con ulteriore ordinanza emessa il 29 gennaio 2007 (r.o. n. 518 del 2007), in riferimento al solo art. 3 Cost.; che il rimettente - chiamato a pronunciarsi su fattispecie cui dovrebbe ritenersi applicabile l'attenuante di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 - rileva che, a causa della generalizzata preclusione del giudizio di prevalenza delle attenuanti sulla recidiva reiterata, due soggetti che detengano in concorso il medesimo quantitativo di stupefacenti vengono puniti in maniera estremamente diversificata, se uno dei due è recidivo reiterato; e un recidivo reiterato, che detenga un quantitativo minimo di stupefacente, viene punito in maniera estremamente più severa di un incensurato che detenga un quantitativo sensibilmente maggiore; che - secondo il giudice a quo - non varrebbe, al riguardo, obiettare che il recidivo reiterato, per la sua particolare pericolosità sociale, merita un trattamento sanzionatorio più rigoroso: giacché detta qualità potrebbe essere fatta valere, con «esame attento del caso specifico», tramite l'ordinario giudizio di comparazione tra circostanze, che consente (ma non impone) al giudice di ritenere le aggravanti prevalenti o equivalenti rispetto alle attenuanti; che, con ordinanza emessa il 13 febbraio 2007 (r.o. n. 606 del 2007), la Corte d'appello di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., come modificato dall'art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 sulla circostanza aggravante della recidiva reiterata; che la Corte rimettente premette di essere investita dell'appello proposto dal difensore avverso la sentenza, emessa a seguito di giudizio abbreviato, che aveva ritenuto l'imputato responsabile del delitto di cessione e detenzione illecite di sostanza stupefacente, con l'aggravante della recidiva reiterata; sentenza che - concesse le attenuanti di cui agli artt. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 e 62-bis cod. pen. - aveva condannato l'imputato stesso, con la diminuzione connessa al rito, alla pena di anni quattro di reclusione ed euro 18.000 di multa; che - con riferimento al motivo di appello volto ad ottenere la riduzione della pena inflitta - il giudice a quo esclude che il divieto di prevalenza previsto dall'art. 69, quarto comma, cod. pen. possa essere reso inoperante dal giudice, semplicemente decidendo - stante il carattere discrezionale dell'applicazione della recidiva reiterata - di non tenere conto della stessa nel calcolo della pena; che, infatti, il divieto in questione è stabilito dalla norma censurata con riferimento all'ipotesi in cui le circostanze aggravanti siano «ritenute»: formula, questa, che lascerebbe intendere come sia sufficiente che il giudice reputi corretta la contestazione della recidiva reiterata, affinché il divieto stesso divenga operativo; che, in tale ottica, tuttavia, la norma impugnata comprometterebbe l'art. 27, terzo comma, Cost., ponendo un limite alla discrezionalità del giudice nella determinazione della pena: limite legato ad una qualità personale del colpevole (essere già stato condannato almeno due volte per delitto), che può comportare l'applicazione di pene sproporzionate per eccesso rispetto alla gravità oggettiva del fatto, inidonee ad esplicare effetti risocializzanti proprio perché percepite come inique dal condannato; che il rilievo varrebbe a maggior ragione ove si discuta di attenuanti ad effetto speciale, quale quella dell'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990, rispetto alle quali lo stesso legislatore ha ritenuto, con valutazione generale ed astratta, particolarmente lieve la lesività del fatto, al punto di prevedere un pena di gran lunga più mite di quella comminata per il reato non attenuato; che il divieto di prevalenza delle attenuanti ad effetto speciale sulla recidiva reiterata comporterebbe altresì - con particolare riguardo all'attenuante anzidetta - una violazione del principio di proporzionalità della pena inflitta al fatto commesso, costituente «corollario» del principio di offensività del reato (desumibile dall'art. 25, secondo comma, Cost.) e del principio di ragionevolezza della pena (art. 3 Cost.); che il limite alla discrezionalità del giudice nella determinazione della pena, derivante dal divieto censurato, non è connesso, infatti, al grado e all'intensità dell'offesa che il fatto arreca al bene protetto, ma alle precedenti condanne che rendono configurabile la recidiva reiterata: donde il pericolo che venga punita prevalentemente la «colpevolezza per la condotta di vita» tenuta dal soggetto nel tempo che ha preceduto la commissione del reato; così da «riesumare», in sostanza, «la figura del tipo di autore»; che, con ordinanza emessa il 18 aprile 2007 (r.o. n. 656 del 2007), il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., come modificato dall'art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede il divieto della prevalenza della circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 sulla circostanza aggravante della recidiva reiterata; che il giudice a quo premette di essere chiamato a giudicare, con rito abbreviato, una persona imputata, tra l'altro, del reato di cessione e detenzione illecite di sostanza stupefacente, con l'aggravante della recidiva reiterata; fatto commesso in concorso con altro soggetto, che aveva definito separatamente il procedimento a suo carico con "patteggiamento"; che - rilevato come il fatto oggetto di giudizio, per la modesta quantità dello stupefacente detenuto, debba qualificarsi di lieve entità ai fini dell'applicazione dell'attenuante di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 - il rimettente deduce che, per effetto del divieto sancito dalla norma impugnata, dovrebbe essere irrogata all'imputato, solo perché recidivo reiterato, una pena di gran lunga più severa di quella inflitta al concorrente nel medesimo fatto, già separatamente giudicato: quest'ultimo, in quanto incensurato, aveva potuto fruire della diminuzione di pena prevista dal citato art. 73, comma 5; che, ad avviso del giudice a quo, la nuova formulazione dell'art. 69, quarto comma, cod. pen. si porrebbe in contrasto con i principi di offensività e materialità del reato, nonché di proporzionalità e ragionevolezza della pena, desumibili dagli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, terzo comma, Cost.; che - introducendo un meccanismo che prefigura nei confronti dell'autore recidivo un trattamento sanzionatorio estremamente più severo di quello applicabile all'autore incensurato, malgrado gli stessi abbiano posto in essere la medesima condotta - il legislatore avrebbe infatti creato un sistema che «supervaluta le circostanze soggettive»: fino al punto di proporzionare le risposte sanzionatorie non in relazione all'offesa materiale causata, ma alle qualità dell'autore del reato; che, in pari tempo, il limite posto alla discrezionalità del giudice, nel valutare l'offensività in concreto del fatto commesso, genererebbe disparità di trattamento del tutto ingiustificate, compromettendo la funzione rieducativa della pena, la cui effettività discende dalla percezione della ragionevolezza e proporzionalità del trattamento sanzionatorio da parte del condannato; che la disposizione denunciata risulterebbe, da ultimo, incompatibile con l'art. 117, primo comma, Cost. - secondo il quale la potestà legislativa deve esplicarsi nel rispetto dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali - ponendosi in contrasto con il principio di non discriminazione, sancito dall'art. 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali; che detto principio impone, infatti, di assicurare un trattamento uguale - con riguardo al godimento dei diritti garantiti dalla Convenzione, tra cui rientra quello alla libertà personale - ai soggetti che si trovino in situazioni analoghe, ove non ricorra una giustificazione obiettiva e ragionevole di differenziazione: giustificazione da identificare - alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo - nelle «esigenze che perseguono un fine legittimo all'interno di una società democratica e rispettano un rapporto ragionevole di proporzionalità tra il mezzo impiegato ed il fine proposto»; che, per contro, la scelta legislativa di attribuire preminente rilievo - ai fini della commisurazione della sanzione penale - non alla responsabilità per lo specifico fatto oggetto di giudizio, ma ad ulteriori condotte criminose estranee al processo, implicherebbe una discriminazione non giustificata da finalità legittimamente perseguibili all'interno di una società democratica, in quanto imperniate «sulla logica del "tipo di autore"»; che in tutti i giudizi di costituzionalità - fatta eccezione per quello relativo all'ordinanza r.o. n. 587 del 2007 - è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate infondate. Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche od analoghe, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione; che questa Corte ha già scrutinato questioni di legittimità costituzionale in tutto simili a quelle odierne, dichiarandone l'inammissibilità per non avere i giudici rimettenti verificato la praticabilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei dubbi di costituzionalità ipotizzati, e tale da determinare il possibile superamento di detti dubbi, o da renderli comunque non rilevanti nei casi di specie (sentenza n. 192 del 2007; ordinanza n. 409 del 2007); che, anche nell'odierna occasione, le censure formulate dai giudici a quibus trovano, difatti, la loro premessa fondante nell'assunto per cui la norma denunciata avrebbe determinato una indebita limitazione del potere-dovere del giudice di adeguare la pena al caso concreto - adeguamento funzionale alla realizzazione dei principi di eguaglianza, di necessaria offensività del reato e della funzione rieducativa della pena - introducendo un «automatismo sanzionatorio», correlato ad una irrazionale presunzione iuris et de iure di pericolosità sociale del recidivo reiterato; che ad avviso dei rimettenti, cioè, il fatto che il colpevole del nuovo reato abbia riportato due o più precedenti condanne per delitti non colposi farebbe inevitabilmente scattare il meccanismo limitativo degli esiti del giudizio di bilanciamento tra circostanze, prefigurato dall'art. 69, quarto comma, del codice penale (nel nuovo testo introdotto dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251): con l'effetto di "neutralizzare" - anche quando si sia in presenza di precedenti penali remoti, non gravi e scarsamente significativi in rapporto alla natura del nuovo delitto - la diminuzione di pena connessa alle circostanze attenuanti concorrenti, indipendentemente dalla natura e dalle caratteristiche di queste ultime; che tale assunto poggia, a sua volta, su un duplice presupposto, per lo più implicito e comunque indimostrato; che i rimettenti mostrano, infatti, di ritenere - fatta eccezione per la Corte d'appello di Torino - che, a seguito della legge n. 251 del 2005, la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria e non possa essere, dunque, discrezionalmente esclusa dal giudice in correlazione alle peculiarità del caso concreto; ovvero di ritenere - come la Corte d'appello di Torino - che ove pure la recidiva reiterata abbia mantenuto il pregresso carattere di facoltatività, tale carattere atterrebbe unicamente all'applicazione dell'aumento di pena: senza però sottrarre l'aggravante, correttamente contestata, al giudizio di comparazione con le attenuanti concorrenti, che provoca la necessaria elisione di queste ultime in base alla norma denunciata; che quella prospettata dai giudici rimettenti non rappresenta, tuttavia, l'unica lettura astrattamente possibile del vigente quadro normativo; che, in primo luogo, difatti - per le ragioni specificate nella citata sentenza n. 192 del 2007 - è possibile ritenere che la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria unicamente nei casi previsti dall'art. 99, quinto comma, cod. pen. (rispetto ai quali soltanto tale regime è espressamente contemplato), e cioè ove concernente uno dei delitti indicati dall'art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen. (il quale reca un elenco di reati ritenuti dal legislatore, a vari fini, di particolare gravità e allarme sociale); salvo, poi, l'ulteriore problema interpretativo di stabilire quale delitto debba rientrare in tale catalogo, affinché scatti l'obbligatorietà: se il delitto oggetto della precedente con danna; ovvero il nuovo delitto che vale a costituire lo status di recidivo; o indifferentemente l'uno o l'altro; o addirittura entrambi; che, in fatto, nessuno degli odierni rimettenti procede per delitti compresi nell'elenco dell'art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen. (i delitti di produzione, traffico e detenzione illeciti di sostanze stupefacenti, oggetto dei giudizi a quibus, risultano inclusi nel suddetto elenco solo ove ricorrano le ipotesi aggravate ai sensi degli artt. 80, comma 2, e 74 del d.P.R. n. 309 del 1990, che nessuno dei rimettenti riferisce essere state contestate); che, inoltre, i rimettenti non specificano a quali delitti si riferiscano le precedenti condanne riportate dagli imputati, ovvero fanno riferimento a delitti parimenti non compresi nell'elenco; che, d'altra parte, nei limiti in cui si escluda che la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria, è possibile sostenere che il giudice debba procedere al giudizio di bilanciamento - soggetto al regime limitativo di cui all'art. 69, quarto comma, cod. pen. - unicamente quando ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea a determinare, di per sé, un aumento di pena per il fatto per cui si procede: il che avviene - alla stregua dei criteri di corrente adozione in tema di recidiva facoltativa - solo allorché il nuovo episodio delittuoso appaia concretamente significativo, in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo; che i rimettenti non prendono, a tal fine, in considerazione il fatto che anche il giudizio di comparazione attiene al momento commisurativo della pena (la stessa Corte d'appello di Torino basa l'opposta soluzione sul mero riferimento alla formula - in sé affatto anodina - «circostanze aggravanti ritenute», che figura nella norma impugnata); che, al riguardo, va in effetti osservato che qualora si ammettesse che la recidiva reiterata, da un lato, mantenga il carattere di facoltatività, ma dall'altro abbia efficacia comunque inibente in ordine all'applicazione di circostanze attenuanti concorrenti, ne deriverebbe la conseguenza - all'apparenza paradossale - di una circostanza "neutra" agli effetti della determinazione della pena (ove non indicativa di maggiore colpevolezza o pericolosità del reo), nell'ipotesi di reato non (ulteriormente) circostanziato; ma in concreto "aggravante" - eventualmente, anche in rilevante misura - nell'ipotesi di reato circostanziato "in mitius" (in sostanza, la recidiva reiterata non opererebbe rispetto alla pena del delitto in quanto tale e determinerebbe, invece, un sostanziale incremento di pena rispetto al delitto attenuato: si vedano la sentenza n. 192 del 2007 e l'ordinanza n. 409 del 2007); che la stessa Corte di cassazione - che in primo tempo si era espressa sul tema in modo contrastante - risulta aver adottato, nelle più recenti decisioni, la linea interpretativa dianzi indicata; che le questioni vanno dichiarate, pertanto, manifestamente inammissibili. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 69, quarto comma, del codice penale, come modificato dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 27 e 117, primo comma, della Cost ituzione, dal Tribunale di Roma, dal Tribunale di Prato, dal Tribunale di Firenze, dalla Corte d'appello di Torino, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino e dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Prato con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 febbraio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giovanni Maria FLICK, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 21 febbraio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALE composta dai Signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 171-ter, comma 1, lettera e), della legge 22 aprile 1941, n. 633 (Protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio), nel testo sostituito dall'art. 14 della legge 18 agosto 2000, n. 248 (Nuove norme di tutela del diritto d'autore), promosso con ordinanza del 9 maggio 2006 dalla Corte d'appello di Cagliari nel procedimento penale a carico di Vidili Silvia Alessandra ed altri, iscritta al n. 527 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti l'atto di costituzione di Pitzalis Cesare; udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2008 il Giudice relatore Paolo Maddalena. Ritenuto che la Corte d'appello di Cagliari, con ordinanza del 9 maggio 2006, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 171-ter, comma 1, lettera e), della legge 22 aprile 1941, n. 633 (Protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio), nel testo sostituito dall'art. 14 della legge 18 agosto 2000, n. 248 (Nuove norme di tutela del diritto d'autore), nella parte in cui configura come reato la condotta di chi, presidente o gestore di un circolo ricreativo, in assenza di accordo con il legittimo distributore, perché abilitato alla ricezione in solo ambito privato, trasmette un servizio televisivo criptato, ricevuto per mezzo di apparati atti alla decodificazione di trasmissioni ad accesso condizionato, laddove la più grave ipotesi prevista dagli artt. 4 e 6 del d.lgs. 15 novembre 2000, n. 373 (Attuazione della direttiva 98/84/CE sulla tutela dei servizi ad accesso condizionato e dei servizi di accesso condizionato), era, prima delle modifiche apportate dalla legge 7 febbraio 2003, n. 22 (Modifica al decreto legislativo 15 novembre 2000, n. 373, in tema di tutela del diritto d'autore), punita con la sola sanzione amministrativa; che il giudice a quo osserva che l'art. 14 della legge 18 agosto 2000, n. 248, che ha sostituito integralmente l'art. 171-ter della legge n. 633 del 1941, già introdotto dall'art. 17 del d.lgs. 16 novembre 1994, n. 685, e modificato dall'art. 1 del d.lgs. 15 marzo 1996, n. 204, prevedeva e prevede quale ipotesi delittuosa la ritrasmissione o la diffusione con qualsiasi mezzo, in assenza di accordo con il distributore, di un servizio criptato ricevuto per mezzo di apparati o parti di apparati atti alla decodificazione di trasmissioni ad accesso condizionato; che, viceversa, gli artt. 4, lettera b), e 6 del d.lgs. 15 novembre 2000, n. 373 - successivamente modificati dall'art. 1 della legge 7 febbraio 2003, n. 22, con la previsione di sanzioni penali in aggiunta a quelle amministrative - configuravano come illecito amministrativo la vendita e l'installazione a fini commerciali di un dispositivo illecito; che, circa la non manifesta infondatezza del dubbio di costituzionalità, la Corte d'appello ne motiva la sussistenza avuto riguardo all'irragionevole disparità di trattamento tra chi realizza una condotta, di maggior disvalore giuridico, posta in essere a fini di lucro e mediante l'uso, la vendita, l'importazione di dispostivi illeciti e volta a privare in toto il concessionario del corrispettivo economico dovuto per il servizio, rispetto a chi pone in essere un comportamento, di «sostanziale rilievo» civilistico, che viola l'obbligazione assunta all'atto della conclusione del contratto, utilizzando apparecchi atti alla codificazione, legittimamente detenuti, in ambito diverso da quello domestico, contrattualmente previsto; che nel giudizio dinanzi alla Corte costituzionale si è costituito Cesare Pitzalis, parte nel giudizio a quo; che la parte privata ritiene, condividendo il dubbio di costituzionalità sollevato dal giudice a quo, che la norma censurata sanzioni in modo deteriore una condotta dotata di minor disvalore; che l'ordinamento consentirebbe la permanenza nell'ambito dell'illiceità penale di comportamenti confinati nella sfera privata del soggetto agente o, comunque, non sorretti da fini di arricchimento patrimoniale e concernenti servizi erogati senza corrispettivo economico, punendo, invece, come illecito amministrativo condotte di evidente maggior disvalore giuridico e sociale perché lesive anche degli interessi patrimoniali degli erogatori dei servizi protetti ed attuate essenzialmente a scopo di lucro; che, ad avviso della parte privata, chi versa in situazione di manifesta e totale pirateria elettronica, in quanto fraudolentemente produce, pone in vendita, importa, promuove, installa, modifica, utilizza per uso pubblico e privato apparati o parti di apparati atti alla decodificazione di trasmissioni audiovisive ad accesso condizionato effettuate via etere, via satellite, via cavo, in forma sia analogica che digitale, è punito con sanzione amministrativa pecuniaria; chi, invece, munito di regolare contratto e lecito detentore di siffatte apparecchiature, viola il contratto operando una diffusione ad utilizzo improprio, si espone a sanzione più grave. Considerato che la questione di legittimità costituzionale, sollevata dalla Corte d'appello di Cagliari, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, ha ad oggetto l'art. 171-ter, comma 1, lettera e), della legge 22 aprile 1941, n. 633 (Protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio), nel testo sostituito dall'art. 14 della legge 18 agosto 2000, n. 248 (Nuove norme di tutela del diritto d'autore), nella parte in cui configura come reato la condotta di chi, presidente o gestore di un circolo ricreativo, in assenza di accordo con il legittimo distributore, perché abilitato alla ricezione in solo ambito familiare, utilizza per uso pubblico un servizio televisivo criptato, ricevuto per mezzo di apparati atti alla decodificazione di trasmissioni ad accesso condizionato; che il giudice rimettente denuncia l'ingiustificata disparità di trattamento tra chi realizza un fatto di maggior disvalore - la violazione degli artt. 4 e 6 del d.lgs. 15 novembre 2000, n. 373 (Attuazione della direttiva 98/84/CE sulla tutela dei servizi ad accesso condizionato e dei servizi di accesso condizionato) -, punito (anteriormente alle modifiche apportate dalla legge 7 febbraio 2003, n. 22) come illecito amministrativo, e chi realizza un fatto di minor disvalore, autore di un illecito penale e come tale sanzionato; che l'ordinanza di rimessione muove da un erroneo presupposto ermeneutico, giacché ritiene che la fattispecie di reato prevista dall'art. 171-ter, comma 1, lettera e), della legge n. 633 del 1941 sia integrata anche in presenza di un comportamento di sostanziale rilievo civilistico, costituente mero inadempimento dell'obbligazione assunta all'atto della conclusione del contratto, laddove la nor ma denunciata richiede altresì che il fatto sia commesso «per uso non personale» e «a fini di lucro»; che, pertanto, la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata (si veda anche l'ordinanza n. 157 del 2006). Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 171-ter, comma 1, lettera e), della legge 22 aprile 1941, n. 633 (Protezione del diritto d'autore e di altri diritti connessi al suo esercizio), come sostituito dall'art. 14 della legge 18 agosto 2000, n. 248 (Nuove norme di tutela del diritto d'autore), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Cagliari con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 febbraio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Paolo MADDALENA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 21 febbraio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 58-quater, comma 7-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), aggiunto dall'art. 7, comma 7, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promossi con ordinanze del 10 febbraio 2006 dal Tribunale di sorveglianza di Catanzaro e del 9 novemb re 2006 dalla Corte di cassazione, iscritte, rispettivamente, ai nn. 150 e 265 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell'anno 2007 e nella edizione straordinaria del 26 aprile 2007. Udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2008 il Giudice relatore Gaetano Silvestri. Ritenuto che il Tribunale di sorveglianza di Catanzaro, con ordinanza del 10 febbraio 2006 (r.o. n. 150 del 2007), ha sollevato, in riferimento all'art. 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 58-quater, comma 7-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), aggiunto dall'art. 7, comma 7, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui vieta la concessione per più d'una volta delle misure alternative alla detenzione ai soggetti riconosciuti recidivi reiterati con il titolo in esecuzione, senza tenere conto del grado di rieducazione raggiunto dall'interessato; che il rimettente riferisce di essere chiamato a provvedere su istanze di applicazione dell'affidamento in prova al servizio sociale, della detenzione domiciliare (ai sensi dell'art. 47-ter, comma 1-bis, della legge n. 354 del 1975) e della semilibertà, trasmesse dalla competente Procura della Repubblica in data 18 giugno 2004; che dette istanze riguardano l'esecuzione della pena di anni uno e mesi tre di reclusione, inflitta per il reato di furto aggravato, dal Tribunale di Catanzaro, con sentenza del 29 ottobre 2002, ove è stata riconosciuta la sussistenza a carico del reo della recidiva reiterata specifica; che, secondo quanto riferito dal giudice a quo, l'interessato, ultrasettantenne, gravato soltanto da precedenti penali risalenti, ha beneficiato con esito positivo dell'affidamento in prova al servizio sociale, disposto con provvedimento del 15 marzo 1999, in relazione all'ultima condanna passata in giudicato; che l'istante inoltre, come emerge dalla relazione dei competenti Uffici, risulta essersi allontanato dall'ambiente criminogeno di provenienza e svolgere attività lavorativa, con la quale provvede al sostentamento del nucleo familiare; che, pur a fronte di una prognosi complessivamente favorevole ai fini della concessione della misura dell'affidamento in prova al servizio sociale, il Tribunale rimettente ritiene che l'interessato, in quanto riconosciuto recidivo reiterato ai sensi dell'art. 99, quarto comma, del codice penale, non possa accedere nuovamente alla misura alternativa, per effetto della preclusione introdotta con l'art. 7, comma 7, della legge n. 251 del 2005, che ha aggiunto il comma 7-bis all'art. 58-quater della legge n. 354 del 1975; che infatti, a parere del giudice a quo, la preclusione trova immediata applicazione alla fattispecie in esame, non trattandosi nella specie di successione nel tempo di norme penali sostanziali; che, secondo il rimettente, l'introdotta restrizione delle opportunità di accesso alle misure alternative non sarebbe conforme al principio sancito dall'art. 27 Cost., in quanto, se è innegabile che il legislatore può scegliere di far prevalere, in un dato contesto temporale, le esigenze di prevenzione generale e di difesa sociale su quelle di prevenzione speciale e di rieducazione, è altresì vero che tale prevalenza non può spingersi fino a pregiudicare la finalità rieducativa della pena (è richiamata la sentenza n. 313 del 1990 della Corte costituzionale); che, inoltre, a detta del giudice a quo, l'introduzione del limite soggettivo connesso al riconoscimento della recidiva reiterata configurerebbe un «tipo d'autore» al quale deve essere applicato un trattamento esecutivo-penitenziario che esclude, aprioristicamente, che la rieducazione possa avvenire fuori dal percorso carcerario, in evidente contrasto con l'esigenza di adeguamento della pena alla personalità del reo; che, infine, il rimettente esclude la praticabilità di una lettura costituzionalmente orientata della previsione censurata evidenziando, per un verso, che «se si ritenesse il limite applicabile solo alla singola pena in esecuzione, si perverrebbe ad una interpretazione che rende la norma priva di concreta valenza sino ad abrogarne la portata», e, per altro verso, che il dato letterale, in quanto si riferisce «al condannato e alle misure alternative», impedisce di circoscrivere la preclusione al tipo di misura alternativa già concessa; che la Corte di cassazione, con ordinanza del 9 novembre 2006 (r.o. n. 265 del 2007), ha sollevato, in riferimento all'art. 27, terzo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 58-quater, comma 7-bis, della legge n. 354 del 1975, introdotto dall'art. 7, comma 7, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui preclude la nuova concessione dei benefici ai condannati i quali, alla data di entrata in vigore della normativa restrittiva, avevano già raggiunto un grado di rieducazione adeguato alla concessione del beneficio richiesto; che la Corte rimettente riferisce di essere investita del ricorso proposto avverso l'ordinanza con la quale il Tribunale di sorveglianza di Perugia ha dichiarato inammissibile, ai sensi dell'art. 58-quater della legge n. 354 del 1975, l'istanza di affidamento in prova al servizio sociale, avanzata da un soggetto, riconosciuto recidivo reiterato, il quale aveva già beneficiato della misura alternativa; che l'istanza, precisa il giudice a quo, riguarda le modalità di esecuzione della pena di un anno di reclusione, inflitta dal Tribunale di Perugia con sentenza in data 28 luglio 2003, per un fatto di ricettazione commesso nel 1996; che il rimettente, dopo aver affermato la natura processuale della denunciata disposizione restrittiva, ne prospetta il contrasto con il principio di finalizzazione rieducativa della pena, così inscrivendo la questione nel solco già tracciato dalla giurisprudenza costituzionale (sono richiamate le sentenze n. 137 del 1999, n. 445 del 1997, n. 504 del 1995 e n. 306 del 1993), di recente ribadito con la sentenza n. 257 del 2006, secondo la quale «non si può ostacolare il raggiungimento della finalità rieducativa, prescritta dalla Costituzione all'art. 27, con il precludere l'accesso a determinati benefici o a determinate misure alternative in favore di chi, al momento in cui è entrata in vigore una legge restrittiva, abbia già realizzato tutte le condizioni per usufruire di quei benefici o di quelle misure»; che, con riferimento al caso in esame, la Corte rimettente rileva come anche la preclusione introdotta dall'art. 7, comma 7, della legge n. 251 del 2005, se applicata a soggetti che abbiano già raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto, si risolva in un arresto del percorso di recupero, «pur in difetto di una regressione comportamentale da parte del detenuto», con pregiudizio del principio sancito dall'art. 27, terzo comma, Cost; che, muovendo dal presupposto della impossibilità di pervenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata, il giudice a quo evidenzia che soltanto l'accoglimento della questione consentirebbe l'annullamento della decisione di inammissibilità dell'istanza, ed il conseguente rinvio al Tribunale di sorveglianza, a fini di valutazione del merito dell'istanza medesima. Considerato che il Tribunale di sorveglianza di Catanzaro, con ordinanza del 10 febbraio 2006 (r.o. n. 150 del 2007), dubita della legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 27 della Costituzione, dell'art. 58-quater, comma 7-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), aggiunto dall'art. 7, comma 7, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui vieta la concessione per più d'una volta delle misure alternative alla detenzione ai soggetti riconosciuti recidivi reiterati con il titolo in esecuzione, senza tenere conto del grado di rieducazione raggiunto dall'interessato; che analoga questione è sollevata dalla Corte di cassazione con ordinanza del 9 novembre 2006 (r.o. n. 265 del 2007); che questa Corte, successivamente alle ordinanze di rimessione, con la sentenza n. 79 del 2007, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 12 del 21 marzo 2007, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, per violazione dell'art. 27, terzo comma, Cost., dell'art. 58-quater, commi 1 e 7-bis, della legge n. 354 del 1975, introdotti dall'art. 7, commi 6 e 7, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui non prevedono che i benefici in essi indicati possano essere concessi, sulla base della normativa previgente, nei confronti dei condannati che, prima dell'entrata in vigore dell a citata legge n. 251 del 2005, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato ai benefici richiesti; che, pertanto, va ordinata la restituzione degli atti ai giudici rimettenti, al fine di una nuova valutazione della rilevanza delle sollevate questioni (ex multis, ordinanze nn. 266, 219 e 217 del 2007). LA CORTE COSTITUZIONALE ordina la restituzione degli atti al Tribunale di sorveglianza di Catanzaro e alla Corte di cassazione. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 febbraio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Gaetano SILVESTRI, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 21 febbraio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 4, della legge della Regione Toscana 12 gennaio 1994, n. 3 (Calendario venatorio e modifiche alla legge regionale 12 gennaio 1994, n. 3 - Recepimento della legge 11 febbraio 1992, n. 157 «Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio»), come modificato dall'art. 11 della legge della Regione Toscana 10 giugno 2002, n. 20, promosso con ordinanza del 19 marzo 2007 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze nel procedimento penale a carico di M.L., iscritta al n. 612 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della R epubblica n. 36, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visto l'atto di intervento della Regione Toscana; udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2008 il Giudice relatore Maria Rita Saulle. Ritenuto che, con ordinanza emessa il 19 marzo 2007, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze ha sollevato, in riferimento all'art. 117, secondo comma, lettere l) e s), della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 4, della legge della Regione Toscana 12 gennaio 1994, n. 3 (Recepimento della legge 11 febbraio 1992, n. 157 «Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio»), come modificato dall'art. 11 della legge della Regione Toscana 10 giugno 2002, n. 20 (Calendario venatorio e modifiche alla legge regionale 12 gennaio 1994, n. 3 - Recepimento della legge 11 febbraio 1992, n. 157 «Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio»); che il giudice a quo ritiene la norma impugnata in contrasto con gli evocati parametri costituzionali nella parte in cui prevede che per l'esercizio del prelievo venatorio i richiami vivi «possono essere tenuti privi di anello; per la loro legittima detenzione fa fede, per i richiami di cattura, la documentazione esistente presso la provincia e per i richiami di allevamento la documentazione propria del cacciatore»; che il rimettente, in punto di fatto, rileva di dover giudicare la richiesta di emissione di decreto penale di condanna avanzata dal pubblico ministero nei confronti di M.L., imputato del reato di cui agli artt. 5, comma 7, 21, comma 1, lettera p), e 30, comma 1, lettera h), della legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), di esercizio dell'attività venatoria con richiami vivi sprovvisti dell'anello inamovibile di identificazione; che il GIP rileva che analoga questione di legittimità costituzionale, avente ad oggetto l'art. 26, comma 5, della legge della Regione Lombardia 16 agosto 1993, n. 26 (Norme per la protezione della fauna selvatica e per la tutela dell'equilibrio ambientale e disciplina dell'attività venatoria), sostituito dall'art. 2 della legge della Regione Lombardia del 7 agosto 2002, n. 19 (Modifiche alla legge regionale 16 agosto 1993, n. 26), è stata dichiarata fondata con sentenza n. 441 del 2006; che, a parere del rimettente, le argomentazioni poste a fondamento della sentenza richiamata valgono anche nel caso di specie, in quanto anche nel presente giudizio la norma regionale censurata si pone in contrasto con l'art 5 della legge n. 157 del 1992, il quale vieta l'esercizio venatorio con uso di richiami vivi privi di anello inamovibile; che, in punto di rilevanza, il GIP precisa che, «trattandosi di un procedimento nel quale il P.M. ha avanzato richiesta di emissione di decreto penale di condanna», alla suddetta richiesta si potrebbe dare seguito solo in caso di accoglimento della presente questione di legittimità; che, con atto depositato il 30 agosto 2007, è intervenuta in giudizio la Regione Toscana chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata; che, in prossimità della camera di consiglio, la Regione Toscana ha depositato una memoria con la quale ha osservato che con legge 4 aprile 2007, n. 19 (Modifica della legge regionale 12 gennaio 1994, n. 3 − Recepimento della legge 11 febbraio 1992, n. 157 «Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio»), ha provveduto alla modifica della norma impugnata, introducendo il divieto di uso di richiami che non siano identificabili mediante anello inamovibile. Considerato che il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze dubita, in riferimento all'art. 117, secondo comma, lettere l) e s), della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 4, della legge della Regione Toscana 12 gennaio 1994, n. 3 (Recepimento della legge 11 febbraio 1992, n. 157 «Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio»), come modificato dall'art. 11 della legge della Regione Toscana 10 giugno 2002, n. 20 (Calendario venatorio e modifiche alla legge regionale 12 genn aio 1994, n. 3 - Recepimento della legge 11 febbraio 1992, n. 157 «Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio»); che, a parere del rimettente, la disposizione censurata nel consentire, diversamente da quanto previsto dall'art. 5 della legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), l'uso di richiami privi di anello inamovibile per l'esercizio venatorio, violerebbe i cennati parametri costituzionali; che, successivamente all'emanazione dell'ordinanza di rimessione, è intervenuto l'art. 1 della legge della Regione Toscana 4 aprile 2007, n. 19 (Modifica della legge regionale 12 gennaio 1994, n. 3 − Recepimento della legge 11 febbraio 1992, n. 157 «Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio»), il quale, modificando la norma impugnata, ha previsto l'apposizione degli anelli inamovibili sui richiami; che, stante l'innovazione legislativa, va disposta, in via preliminare la restituzione degli atti al giudice a quo, affinché lo stesso valuti la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale sulla base dello ius superveniens. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE ordina la restituzione degli atti al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 febbraio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Maria Rita SAULLE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 21 febbraio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione del Senato della Repubblica del 30 gennaio 2007 (Doc. IV-ter, n. 2-A), relativa alla insindacabilità delle opinioni espresse dal senatore Raffaele Iannuzzi, nei confronti di Giancarlo Caselli, già Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, e di altri magistrati, promosso con ricorso del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, depositato in cancelleria il 24 luglio 2007 ed iscritto al n. 11 del registro c onflitti tra poteri dello Stato 2007, fase di ammissibilità. Udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2008 il Giudice relatore Maria Rita Saulle. Ritenuto che, con ricorso dell'8 maggio 2007, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano ha promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica, in relazione alla delibera adottata il 30 gennaio 2007 (Doc. IV-ter, n. 2-A), con la quale - in conformità alla proposta della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari - è stato dichiarato che i fatti per i quali il senatore Raffaele Iannuzzi è sottoposto a procedimento penale per il delitto di diffamazione a mezzo stampa riguardano opinioni espresse da quest'ultimo nell'esercizio delle sue funzioni parlamentari e son o, quindi, insindacabili ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione; che il ricorrente osserva di essere chiamato a giudicare il predetto senatore per il reato sopra indicato commesso ai danni di Giancarlo Caselli, Guido Lo Forte, Roberto Scarpinato e Gioacchino Natoli, i quali, nelle rispettive qualità di Procuratore della Repubblica, Procuratori della Repubblica Aggiunti e Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Palermo, hanno ritenuto che la loro reputazione fosse stata offesa da un articolo pubblicato il 23 ottobre 2003 dal quotidiano "Il Giornale"; che il ricorrente, dopo aver riportato il contenuto dell'articolo citato, con il quale l'imputato avrebbe denunciato presunti interessamenti politici sulla Procura di Palermo tesi ad orientarne l'attività investigativa antimafia per mezzo dei magistrati sopra indicati, ritiene che dalla relazione della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari non sarebbe emerso alcun atto tipico della funzione parlamentare cui ricollegare le frasi oggetto di imputazione, ma solo un generico riferimento all'impegno politico del senatore R.I. sui temi della criminalità mafiosa e del suo contrasto; che, pertanto, sulla base della giurisprudenza costituzionale, nel caso di specie non ricorrerebbe alcun nesso funzionale, tra l'attività divulgativa esterna e l'attività parlamentare, idoneo a far operare la garanzia ex art. 68, primo comma, della Costituzione. Considerato che, in questa fase del giudizio, a norma dell'art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, la Corte costituzionale è chiamata a deliberare, senza contraddittorio, circa l'esistenza o meno della «materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza», restando impregiudicata ogni ulteriore decisione, anche in punto di ammissibilità; che nella fattispecie sussistono i requisiti soggettivo ed oggettivo del conflitto; che, infatti, quanto al requisito soggettivo, devono ritenersi legittimati ad essere parte del presente conflitto sia il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, in quanto organo giurisdizionale, in posizione di indipendenza costituzionalmente garantita - competente a dichiarare definitivamente, per il procedimento di cui è investito, la volontà del potere cui appartiene -, sia il Senato della Repubblica, in quanto organo competente a dichiarare definitivamente la propria volontà in ordine all'applicabilità dell'art. 68, primo comma, della Costituzione; che, quanto al profilo oggettivo, sussiste la materia del conflitto, dal momento che il ricorrente lamenta la lesione della propria sfera di attribuzioni, costituzionalmente garantita, da parte della impugnata deliberazione del Senato della Repubblica; che, pertanto, esiste la materia di un conflitto, la cui risoluzione spetta alla competenza di questa Corte. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara ammissibile, ai sensi dell'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il conflitto di attribuzione proposto dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, nei confronti del Senato della Repubblica, con l'atto indicato in epigrafe; dispone: a) che la cancelleria della Corte dia immediata comunicazione della presente ordinanza al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, ricorrente; b) che, a cura del ricorrente, l'atto introduttivo e la presente ordinanza siano notificati al Senato della Repubblica, in persona del suo Presidente, entro il termine di sessanta giorni dalla comunicazione, per essere successivamente depositati, con la prova dell'avvenuta notifica, presso la cancelleria della Corte entro il termine di venti giorni, previsto dall'art. 26, comma 3, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 febbraio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Maria Rita SAULLE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 21 febbraio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA |