Anno III n. 8 del 27/02/2008  


 

Ultime pronunce pubblicate deposito del 27/02/2008
 
39/2008 pres. BILE, rel. AMIRANTE   visualizza pronuncia 39/2008
40/2008 pres. BILE, rel. QUARANTA   visualizza pronuncia 40/2008
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Deposito del 27/02/2008 (dalla 39 alla 43)

 

S.39/2008 del 25/02/2008
Camera di Consiglio del 30/01/2008, Presidente BILE, Relatore AMIRANTE


Norme impugnate: Artt. 50 e 142 del regio decreto 16/03/1942, n. 267, nel testo anteriore alle modifiche apportate dal decreto legislativo 09/01/2006, n. 5.

Oggetto: Fallimento e procedure concorsuali - Normativa anteriore al d.lgs. n. 5 del 2006 - Soggetti iscritti nel registro dei falliti - Automatico assoggettamento alle relative incapacità personali fino alla pronuncia giudiziale di cancellazione per effetto di riabilitazione.

Dispositivo: illegittimità costituzionale
Atti decisi: ord. 426/2 007
O.40/2008 del 25/02/2008
Camera di Consiglio del 30/01/2008, Presidente BILE, Relatore QUARANTA


Norme impugnate: Artt. 170 (modificato dall'art. 3, c. 10°, del decreto legge 27/06/2003, n. 151, convertito in legge 01/08/2003, n. 214); 171, c. 1° e 2°, e 213, c. 2° quinquies e sexies (introdotti dall'art. 5 bis, c. 1°, lett. c), n. 2, del decreto legge 30/06/2005, n. 115, convertito con modificazioni in legge 17/08/2005, n. 168) del codice della strada (d.lgs. 30.4.1992, n. 285).

Oggetto: Circolazione stradale - Sanzioni accessorie per violazioni del codice della strada - Confisca obbligatoria del ciclomotore o motoveicolo adoperato per commettere una delle violazioni amministrative di cu i agli artt. 169, commi 2 e 7, 170 e 171 cod. strada.

Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens
Atti decisi: ord. 205, 206, 211, 224, 225, 241, 242, 244, 285, 286, 292, 309, 310, 314, 315, 356 e 357/2007
O.41/2008 del 25/02/2008
Camera di Consiglio del 30/01/2008, Presidente BILE, Relatore GALLO


Norme impugnate: Art. 11 quaterdecies, c. 16°, del decreto legge 30/09/2005, n. 203, convertito con modificazioni in legge 02/12/2005, n. 248; art. 36, c. 2°, del decreto legge 04/07/2006, n. 223, convertito in legge 04/08/2006, n. 248.

Oggetto: Imposte e tasse - Imposta comunale sugli immobili (I.C.I.) - Nozione di area fabbricabile rilevante per l'applicazione dell'imposta - Sopravvenienza di norme di interpretazione autentica tese ad ampliare, a fini di recupero di base imponibile, la nozione di area fabbricabile attraverso la ritenuta irrilevanza dell'adozione di strumenti urbanistici attuativi.

Dispositivo: manifesta infondatezza - manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 313 e 613/2007
O.42/2008 del 25/02/2008
Camera di Consiglio del 30/01/2008, Presidente BILE, Relatore TESAURO


Norme impugnate: Art. 3, c. 1°, e allegato A, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 22/12/2005, n. 12 e art. 1, c. 2° e 3°, e allegato A, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 18/10/20 06, n. 11.


Oggetto: Alimenti e bevande - Norme della Provincia autonoma di Bolzano - Introduzione di un "marchio di qualità con indicazione di origine" per la valorizzazione dei prodotti agricoli e alimentari provinciali di elevato livello qualitativo - Previsione di varianti del marchio con dizione monolingua, italiana o tedesca, o senza la denominazione di provenienza contestuale nelle due lingue.

Dispositivo: estinzione del processo
Atti decisi: ric. 46/2006 e 2/2007
O.43/2008 del 25/02/2008
Camera di Consiglio del 13/02/2008, Presidente BILE, Relatore QUARANTA


Norme impugnate: Art. 10, c. 3°, della legge 05/12/2005, n. 251 .

Oggetto: Reati e pene - Prescrizione - Modifiche normative comportanti un regime più favorevole in tema di termini di prescrizione dei reati - Disciplina transitoria - Inapplicabilità delle nuove norme ai processi già pendenti in primo grado ove, alla data di entrata in vigore della novella, vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento.

Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens
Atti decisi: ord. 290/2007

pronuncia successiva

SENTENZA N. 39

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE        Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 50 e 142 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, promosso dal Tribunale amministrativo regionale dell'Emilia-Romagna, sezione di Parma, sul ricorso proposto da B. R. contro la Provincia di Reggio Emilia ed altra, con ordinanza del 20 febbraio 2007, iscritta al n. 426 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell'anno 2007.< /o:p>

    Udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante.

Ritenuto in fatto

    Il Tribunale amministrativo regionale per l'Emilia-Romagna, sezione di Parma, con ordinanza del 20 febbraio 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 41 e 117 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli articoli 50 e 142 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nelle parti in cui, nel testo anteriore alle modifiche introdotte dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, fanno automaticamente derivare dalla dichiarazione di fallimento e dalla conseguente iscrizione nel pubblico registro dei fal liti la perdita dei diritti civili dell'interessato fino alla pronuncia giudiziale di cancellazione dell'iscrizione nel registro, ancorché questi si trovi nella condizione di richiedere la riabilitazione civile.

    La questione è stata sollevata nel corso di un giudizio instaurato da un farmacista per l'annullamento dalla determinazione dirigenziale n. 392 del 9 maggio 2006, a firma del dirigente dell'Area Welfare della Provincia di Reggio Emilia, con la quale il ricorrente è stato escluso dalla graduatoria finale di un concorso pubblico per il conferimento di due sedi farmaceutiche - nel quale si era classificato secondo nella graduatoria di merito - in quanto, in sede di verifica del possesso dei requisiti di ammissione al concorso, l'amministrazione aveva accertato che l'interessato era stato dichiarato fallito con sentenza del 1986 e risultava tuttora iscritto nel pubblico registro dei falliti, non avendo mai richiesto la riabilitazione cui a vrebbe avuto pieno titolo, essendosi il fallimento chiuso, appunto, nel 1986.

    Il giudice a quo riferisce che l'interessato ha impugnato il suddetto provvedimento sotto molteplici profili, la maggior parte dei quali privi di fondamento.

    Sottolinea, tuttavia, il remittente che alcune doglianze del ricorrente sono incentrate sul fatto che la Corte europea per i diritti dell'uomo ha più volte censurato la normativa in materia di pubblico registro dei falliti e di riabilitazione - considerandola, sotto vari aspetti, in contrasto con la Convenzione per la tutela dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con la legge 8 agosto 1955 n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952) - sicché, a suo dire, ci ò avrebbe dovuto indurre a disapplicare la normativa statale incompatibile con la Convenzione, ovvero a promuovere il sindacato di costituzionalità sull'omesso pieno adeguamento della disciplina nazionale alla Convenzione medesima. Al riguardo, il remittente ricorda che l'orientamento giurisprudenziale invocato dal ricorrente si desume da una serie di sentenze della Corte di Strasburgo del 2006 che, facendo riferimento all'art. 8 della CEDU, hanno censurato il sistema normativo di cui agli artt. 50 e 142 della legge fallimentare, perché, quando era in vigore, assoggettava automaticamente il fallito alle relative incapacità personali (fino alla pronuncia giudiziale di cancellazione dell'iscrizione nel registro) prescindendo dal concreto apprezzamento delle specifiche condizioni soggettive e, quindi, dalla necessaria applicazione discrezionale delle relative misure.

    Ciò assume, nella specie, ad avviso del remittente, particolare importanza in quanto mette in discussione il fondamento stesso dell'istituto giuridico in ragione del quale il ricorrente è risultato carente del requisito del godimento dei diritti civili, di talché appare necessario verificare l'efficacia esercitata, nell'ordinamento interno, dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo e, soprattutto, la posizione occupata dalla CEDU nella gerarchia delle fonti.

    Al riguardo, il remittente - uniformandosi all'orientamento espresso dalla Corte di cassazione e tenendo conto degli artt. 13, 46 e 56 della CEDU nonché della legge 9 gennaio 2006, n. 12 - ritiene che, pur essendo precettivo il riconoscimento dei diritti garantiti dalla Convenzione suddetta, tuttavia le relative modalità applicative sono rimesse alla legislazione interna e le norme della Convenzione non sono assimilabili ai regolamenti comunitari, sicché non operano immediatamente nell'ordinamento interno né i diritti da essa garantiti trovano diretta tutela in sede comunitaria se la normativa nazionale censurata non rientra nel campo di applicazione del diritto comunitario. D'altra parte, osserva il giudice a quo, dopo la riforma dell'art. 117 Cost. anche la giuri sprudenza costituzionale sembra orientata ad attribuire rilievo indiretto alle norme della Convenzione (sentenza n. 445 del 2002), così negando implicitamente ogni eventualità di abrogazione automatica o di disapplicazione giudiziale delle leggi interne in contrasto con le disposizioni di rango sovranazionale. Conseguentemente, il potere di far venire meno le norme primarie difformi dalla CEDU nel nostro ordinamento rimane riservato al legislatore statale, a quello regionale e alla Corte costituzionale, in sede di sindacato di costituzionalità effettuato soprattutto con riguardo al nuovo testo dell'art. 117, primo comma, Cost. Rispetto a tale sindacato le disposizioni della CEDU operano quali norme interposte, attraverso l'interpretazione che ne dà la Corte di Strasburgo (loro giudice naturale) e, con riguardo alle norme interne contrastanti con la Convenzione anteriori all'entrata in vigore della riforma del menzionato art. 117 Cost., si verifica una situazione di illegittimità costituzionale sopravvenuta, derivante dall'omesso adeguamento della disciplina nazionale alla fonte sovranazionale.

    In questa situazione - osserva il remittente - essendo da escludere sia che il giudice comune possa disapplicare le norme statali che la Corte di Strasburgo ha dichiarato incompatibili con l'art. 8 della CEDU sia che le suddette norme possano considerarsi direttamente abrogate per effetto del contrasto con la disciplina sovranazionale, non resta altro che investire questa Corte della presente questione di legittimità costituzionale (la quale, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, coinvolge solo indirettamente l'art. 4, comma 2, della legge 8 novembre 1991, n. 362).

    Quanto al merito della questione, il TAR ricollega l'ipotizzata violazione dell'art. 117 Cost. al fatto che il legislatore nazionale non ha tempestivamente provveduto a conformare la disciplina interna alla CEDU, laddove questa Convenzione tutela il diritto della persona a non essere sottoposta ad interferenze arbitrarie nella vita privata (art. 8). Tale diritto fondamentale - come affermato dalla Corte di Strasburgo con sentenze che, ancorché successive all'abrogazione delle disposizioni interne, assumono rilievo anche nella presente fattispecie in quanto di natura dichiarativa - non tollera un sistema basato sull'automatica sottoposizione dei falliti ad un regime di incapacità personali svincolato dalla preventiva valutazione giudiziale delle singole posizioni e operante per un lungo lasso di tempo dopo l a chiusura della procedura concorsuale fino alla sentenza di riabilitazione civile.

    Con riguardo, poi, all'ipotizzata violazione degli artt. 2, 3 e 41 Cost., il TAR remittente sottolinea come il fatto che l'automatismo insito nel regime delle incapacità personali del fallito operi - oltre tutto per molto tempo dopo la chiusura del fallimento - al di fuori di una preventiva verifica delle singole condizioni soggettive ed oggettive e, quindi, a prescindere da un appropriato rapporto di adeguatezza con le peculiarità dei singoli casi concreti, ovvero da una graduale e ponderata applicazione delle relative misure si traduca in: a) un arbitrario sacrificio del diritto alla riservatezza della sfera privata della persona, data l'assenza di un preliminare accertamento delle relative restrizioni; b) un'oggettiva lesione del principio di uguaglianza, consistente nella previsione di un identico regim e di incapacità personali per tutti i soggetti, senza che sia attribuito alcun rilievo alla diversa portata delle rispettive vicende fallimentari; c) un'indiscriminata limitazione del diritto di iniziativa economica, ostacolato, nel suo esplicarsi, da vincoli che non tengono conto ex ante, caso per caso, dell'effettivo pregiudizio dei valori protetti dall'art. 41, secondo comma, Cost.

    Per quel che si riferisce alla rilevanza, il TAR pone l'accento sul fatto che il provvedimento impugnato è stato adottato sul presupposto della perdurante iscrizione del ricorrente nel pubblico registro dei falliti, sicché l'eventuale espunzione dall'ordinamento delle disposizioni impugnate comporterebbe le cessazione, con effetto ex tunc, del regime delle incapacità personali addotto a fondamento della carenza del requisito del possesso dei diritti civili. Né assume alcun rilievo in contrario la circostanza che medio tempore e, precisamente, a decorrere dal 16 gennaio 2006 - per effetto dell'art. 47 del d.lgs. n. 5 del 2006, che ha abrogato l'art. 50 del r.d. n. 267 del 1942, e dell'art. 128 dello stesso decreto, che ha s ostituito il titolo II, capo IX, della legge fallimentare - il pubblico registro dei falliti è stato soppresso e l'istituto della riabilitazione è venuto meno (sicché, da quella data, è stata eliminata la preclusione legale al godimento dei diritti civili attualmente in discussione), visto che la presente fattispecie risulta tuttora disciplinata dalla precedente normativa, in quanto essa era ancora in vigore quando si è svolta la fase procedimentale nel corso della quale occorreva maturare il possesso dei requisiti di ammissione al concorso.

    Sottolinea poi il giudice a quo che il ricorrente, pur avendo a tempo debito omesso di proporre istanza di riabilitazione, appare, tuttavia, pienamente legittimato ad invocare la caducazione di un sistema normativo che ne ha causato l'automatica sottoposizione al regime di incapacità personali del fallito e che, di conseguenza, gli ha impedito di conseguire il conferimento della sede farmaceutica in esito al concorso in oggetto.

    E', infine, da escludere la possibilità di disapplicazione della disciplina censurata per contrasto con le norme comunitarie che, ad avviso del ricorrente, recherebbero disposizioni sostanzialmente corrispondenti alle prescrizioni della CEDU che vengono, nella specie, in considerazione. Infatti, da un lato, le direttive comunitarie invocate non rientrano tra quelle self executing e, d'altra parte, l'asserita violazione del generale principio della libera concorrenza - rappresentata, in ipotesi, dal regime discriminatorio riservato ai cittadini italiani falliti rispetto a quelli degli altri Paesi dell'Unione europea - neppure può indurre alla richiesta disapplicazione, poiché la presunta discriminazione in argomento non costituisce, di per sé, causa di illegittimità comunitaria, in quanto i singoli Stati della UE godono di un ambito di autonomia che esclude un'assoluta uniformità di regime delle condizioni legali di accesso alle attività economiche.

    Il remittente riferisce, inoltre, che l'istanza cautelare del ricorrente, respinta dal giudice di primo grado, è stata viceversa accolta dal Consiglio di Stato, sezione V, con ordinanza del 3 ottobre 2006, n. 5065.

Considerato in diritto

    1.- Il TAR per l'Emilia-Romagna, sezione di Parma, in riferimento agli articoli 2, 3, 41 e 117 della Costituzione, ha sollevato, «nei sensi di cui in motivazione», questione di legittimità costituzionale degli articoli 50 e 142 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5.

    Il remittente espone in fatto e osserva in punto di rilevanza che è stato chiamato a giudicare sulla legittimità della determinazione n. 382 del 9 maggio 2006, a firma del dirigente dell'Area Welfare Locale della Provincia di Reggio Emilia, con la quale il ricorrente era stato escluso dalla graduatoria finale del concorso per il conferimento di due sedi farmaceutiche - bandito dalla Provincia di Reggio Emilia il 20 maggio 2003 - pur essendosi classificato al secondo posto della graduatoria di merito, in quanto, in sede di verifica del possesso dei requisiti di ammissione al concorso, l'amministrazione aveva accertato che egli era stato dichiarato fallito n el 1986 dal Tribunale di Termini Imerese e figurava ancora iscritto nell'albo dei falliti,  pur essendo trascorsi molti anni dalla chiusura della procedura concorsuale (avvenuta nello stesso 1986) e avendo, quindi, la facoltà di promuovere il giudizio di riabilitazione civile, al fine di ottenere la cancellazione dal suddetto albo.

    Il remittente rileva, in particolare, che, secondo la normativa censurata - vigente alla data di scadenza del termine per la presentazione delle domande per la partecipazione al concorso di cui si tratta e, pertanto, da applicare nel caso di specie, nonostante la sopravvenuta abrogazione dell'art. 50 del r.d. n. 267 del 1942, con conseguente soppressione dell'albo dei falliti, ad opera dell'art. 47 del d.lgs. n. 5 del 2006, entrato in vigore il 16 gennaio 2006 - allo stato di fallito era automaticamente connessa la perdita dei diritti civili e politici (permanente fino al passaggio in giudicato della sentenza di riabilitazione civile, emanata ai sensi dell'art. 142 dello stesso r.d. n. 267 del 1942, istituto del pari eliminato dall'art. 128 del menzionato d.lgs. n. 5 del 2006), la cui titolarità è richiesta per la partecipazione ai concorsi per l'assegnazione delle sedi farmaceutiche, dall'art. 4, comma 2, della legge 8 novembre 1991, n. 362.

    2.- Sulla non manifesta infondatezza della questione, il TAR remittente osserva che le norme censurate, configurando le suddette incapacità personali come conseguenza automatica della dichiarazione di fallimento e, soprattutto, prevedendo il loro permanere dopo la chiusura della procedura per lungo tempo fino alla cancellazione dall'albo a seguito dell'esito favorevole del giudizio di riabilitazione, contrastano con i parametri costituzionali suindicati.

    In particolare, esse violerebbero l'art. 3 Cost. perché dispongono un'irragionevole sanzione ed equiparano situazioni diverse, prescindendo da ogni valutazione delle cause del dissesto dell'imprenditore; contrasterebbero inoltre con i diritti della persona e con il principio della libertà di iniziativa economica e anche con le disposizioni dell'art. 8 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, secondo quanto ritenuto in numerose decisioni dalla Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo, cui istituzionalmente è attribuito il compito di interpretare la CEDU.

    3.- La questione è rilevante e, nel merito, fondata.

    In punto di rilevanza non è implausibile la motivazione dell'ordinanza di rimessione, secondo la quale i requisiti per la partecipazione ad un concorso, se diversamente non è nei singoli casi stabilito, vanno determinati alla stregua della normativa vigente al momento della scadenza del termine fissato per la presentazione della domanda, nel caso in esame antecedente l'abrogazione di una delle disposizioni impugnate e la sostituzione dell'altra.

    4.- Nel merito è necessario premettere che, secondo la giurisprudenza formatasi prima dell'abrogazione dell'art. 50 del r.d. n. 267 del 1942 e nella vigenza del testo originario dell'art. 142 del medesimo, il riacquisto dei diritti civili e politici, la cui perdita era automaticamente connessa allo stato di fallito, veniva, come si è detto,  condizionato al favorevole esito del giudizio di riabilitazione.

    Va, inoltre, sottolineato che nell'ordinanza di rimessione, anche con specifico riferimento alle peculiarità della vicenda sulla quale il giudice amministrativo deve pronunciarsi, i sospetti di incostituzionalità si appuntano non soltanto sull'automatismo delle incapacità del fallito ma anche sul loro protrarsi ben oltre la chiusura della procedura concorsuale.

    5.- Così identificati i termini della questione soggetta a scrutinio, se ne rileva la fondatezza per contrasto con gli artt. 117, primo comma, e 3 della Costituzione.

    Questa Corte, con le recenti sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, ha affermato, tra l'altro, che, con riguardo all'art. 117, primo comma, Cost., le norme della CEDU devono essere considerate come interposte e che la loro peculiarità, nell'ambito di siffatta categoria, consiste nella soggezione all'interpretazione della Corte di Strasburgo, alla quale gli Stati contraenti, salvo l'eventuale scrutinio di costituzionalità, sono vincolati ad uniformarsi.

    Ora, riguardo alle incapacità personali connesse allo stato di fallito, con specifico riferimento agli artt. 50 e 143 della legge fallimentare all'epoca vigente, la Corte di Strasburgo, con numerose pronunce (si veda, ex plurimis, la sentenza 23 marzo 2006, Vitiello c. Italia, ric. n. 77962/01), ha ritenuto le disposizioni della legge fallimentare lesive dei diritti della persona, perché incidenti sulla possibilità di sviluppare le relazioni col mondo esteriore e foriere, quindi, di un'ingerenza «non necessaria in una società democratica».

    La Corte di Strasburgo ha affermato, in particolare, che «a causa della natura automatica dell'iscrizione del nome del fallito nel registro e dell'assenza di una valutazione e di un controllo giurisdizionali sull'applicazione delle incapacità discendenti dalla suddetta iscrizione e del lasso di tempo previsto per ottenere la riabilitazione, l'ingerenza prevista dall'art. 50 della legge fallimentare nel diritto al rispetto della vita privata dei ricorrenti non è necessaria in una società democratica, ai sensi dell'art. 8, § 2, della Convenzione», e ha dichiarato l'avvenuta violazione del citato art. 8, dopo aver precisato che la nozione di "vita privata" presa in considerazione da tale norma, «non esclude, in linea di principio, le attività di natura professionale o commerciale, considerato che proprio nel m ondo del lavoro le persone intrattengono un gran numero di relazioni con il mondo esteriore».

    Nel contempo le disposizioni censurate, in quanto stabiliscono in modo indifferenziato incapacità che si protraggono oltre la chiusura della procedura fallimentare e non sono, perciò, connesse alle conseguenze patrimoniali della dichiarazione di fallimento ed, in particolare, a tutte le limitazioni da questa derivanti, violano l'art. 3 Cost. sotto diversi profili. Esse, infatti, poiché prevedono generali incapacità personali in modo automatico e, quindi, indipendente dalle specifiche cause del dissesto - così equiparando situazioni diverse - e in quanto stabiliscono che tali incapacità permangono dopo la chiusura del fallimento, assumono, in ogni caso, carattere genericamente sanzionatorio, senza correlarsi alla protezione di interessi meritevoli di tutela.

    Deve essere, pertanto, dichiarata la illegittimità costituzionale degli artt. 50 e 142 della legge fallimentare di cui al r.d. n. 267 del 1942, nel testo vigente prima della riforma di cui al d.lgs. n. 5 del 2006, in quanto stabiliscono che le incapacità personali derivanti al fallito dalla dichiarazione di fallimento perdurano oltre la chiusura della procedura concorsuale.

    Restano assorbiti gli altri profili di censura.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara l'illegittimità costituzionale degli articoli 50 e 142 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo anteriore all'entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), in quanto stabiliscono che le incapacità personali derivanti al fallito dalla dichiarazione di fallimento perdurano oltre la chiusura della procedura concorsuale.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Francesco AMIRANTE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 27 febbraio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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ORDINANZA N. 40

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE               Presidente

- Giovanni Maria  FLICK                Giudice

- Francesco       AMIRANTE                "

- Ugo             DE SIERVO               "

- Paolo           MADDALENA               "

- Alfio           FINOCCHIARO             "

- Alfonso         QUARANTA                "

- Franco          GALLO                   "

- Luigi           MAZZELLA                "

- Gaetano         SILVESTRI               "

- Sabino          CASSESE                 "

- Maria Rita      SAULLE                  "

- Giuseppe        TESAURO                 "

- Paolo Maria     NAPOLITANO              "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 213, comma 2-sexies (introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) e degli artt. 170 e 171, commi 1 e 2, del medesimo d.lgs. n. 285 del 1992, promossi con ordinanze del 18 maggio 2006 (nn. 2 ordinanze) dal Giudice di pace di Rionero in Vulture, del 27 luglio 2006 dal Giudice di pace di Salerno, dell'8 giugno 2006 dal Giudice di pace di Cividale del Friuli, del 3 agosto dal Giudice di pace di Santo Stefano di Camastra, dell'11 settembre e del 6 ottobre 2006 dal Giudice di pace di Caltanissetta, del 27 settembre 2006 dal Giudice di pace di Trecastagni, del 16 giugno e del 19 luglio 2006 dal Giudice di pace di Torre Annunziata, del 5 luglio 2006 dal Giudice di pace di Cantù, del 17 luglio 2006 dal Giudice di pace di Napoli, del 14 aprile 2006 dal Giudice di pace di Castrovillari, del 24 ottobre 2006 dal Giudice di pace di Trecastagni, del 5 settembre 2006 dal Giudice di pace di Cantù, del 24 ottobre e del 7 novembre 2006 dal Giudice di pace di Trecastagni, rispettivamente iscritti ai numeri 205, 206, 211, 224, 225, 241, 242, 244, 285, 286, 292, 309, 310, 314, 315, 356 e 357 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 15 e 16, nell'edizione straordinaria del 26 aprile 2007, nn. 17, 18 e 20, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2008 il Giudice relatore Alfonso Quaranta.

    Ritenuto che i Giudici di pace di Rionero in Vulture (r.o. nn. 205 e 206 del 2007), Salerno (r.o. n. 211 del 2007), Cividale del Friuli (r.o. n. 224 del 2007), Santo Stefano di Camastra (r.o. n. 225 del 2007), Caltanissetta (r.o. nn. 241 e 242 del 2007), Trecastagni (ro nn. 244, 314, 356 e 357 del 2007), Napoli (r.o. n. 309 del 2007) e Castrovillari (r.o. n. 310 del 2007) hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale - in riferimento, ne l complesso, agli artt. 3, 27 e 42 della Costituzione - dell'art. 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada);

    che, analogamente, i Giudici di pace di Torre Annunziata (r.o. nn. 285 e 286 del 2007) e Cantù (r.o. nn. 292 e 315 del 2007) hanno sollevato - in riferimento, il primo, agli artt. 2, 3, 24, 42 e 111 Cost., il secondo agli artt. 3, 27 e 42 Cost. - questioni di legittimità costituzionale, oltre che del suddetto art. 213, comma 2-sexies, anche degli artt. 170 e 171, commi 1 e 2, del medesimo d.lgs. n. 285 del 1992 (rispettivamente censurati, il primo, dal rimettente canturino, l'altro da quello torrese);

    che, in particolare, il Giudice di pace di Rionero in Vulture - premesso di dover giudicare di due ricorsi, proposti da altrettanti proprietari di ciclomotori, avverso i provvedimenti con i quali, contestata ai conducenti l'infrazione consistente nel mancato uso del casco protettivo, è stato disposto il sequestro del veicolo, in vista della successiva confisca - assume l'illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., dell'art. 213, comma 2-sexies, del codice della strada, «nella parte in cui prevede la sanzione amministrativa della confisca di un ciclomotore o motoveicolo che sia stato adoperato in violazione dell'art. 171» del medesimo c odice;

    che ad avviso del rimettente, la norma censurata «lede il principio di responsabilità penale tutelato dall'art. 27 della Costituzione», contrastando, altresì, con l'art. 3 della Carta fondamentale, «per violazione del principio di ragionevolezza e proporzionalità della sanzione», e presentandosi, infine, non conforme alla disciplina ricavabile dall'art. 3 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) e dall'art. 196 del codice della strada, giacché la confisca «indebitamente finisce per sanzionare il solo proprietario» e non il responsabile dell'infrazione;

    che il Giudice di pace di Salerno - investito di un ricorso proposto avverso provvedimento di sequestro, prodromico alla successiva confisca, disposto a carico del conducente di un motociclo per aver trasportato un passeggero, in assenza di omologazione per tale possibilità - ipotizza che l'art. 213, comma 2-sexies, del codice della strada violi gli artt. 3, 27 e 42 Cost.;

    che quanto, infatti, ai primi due parametri evocati, il rimettente assume che la norma censurata sarebbe «prima facie in contrasto con gli artt. 3 e 27 della Costituzione per evidente violazione dei principi di ragionevolezza e proporzionalità della sanzione» previsti, a suo dire, nel diritto penale ma da ritenersi operanti «a maggior ragione nel caso di applicazione di una sanzione amministrativa»;

    che la violazione dei principi suddetti sarebbe, inoltre, vieppiù evidente dopo l'entrata in vigore delle disposizioni di cui al d.P.R. 6 marzo 2006, n. 153, recante «Modifiche agli articoli 248, 249, 250, 251, 252 nonché agli allegati al titolo III del d.P.R. 16 dicembre 1992, n. 495 (Regolamento di esecuzione e di attuazione del codice della strada)», atteso che un motociclo avente le stesse caratteristiche tecniche di quello utilizzato con riferimento alla fattispecie oggetto del giudizio principale, ma diversamente da esso «dotato di nuova targa» - ai sensi della disciplina prevista da tale decreto - «potrebbe regolarmente trasportare un passeggero»;

    che, infine, il giudice a quo ipotizza la violazione anche dell'art. 42 Cost., «in quanto i motivi di interesse generale che la norma impone quale condizione imprescindibile dell'espropriazione della proprietà privata» sembrerebbero «non perseguiti» dalla censurata disposizione;

    che il Giudice di pace di Cividale del Friuli censura, invece, il predetto art. 213, comma 2-sexies, del codice della strada solo in riferimento all'art. 3 Cost.;

    che il rimettente - chiamato a decidere in merito all'opposizione proposta avverso verbale di contestazione di infrazione stradale dal conducente di un ciclomotore, colpito anche dalla sanzione della confisca del veicolo, perché il passeggero trasportato a bordo del mezzo non indossava il casco protettivo - sostiene che la norma censurata «appare contraria al dettato costituzionale (art. 3 Cost.), in quanto a fronte di violazioni simili dispone la confisca solamente se la violazione è commessa con il motociclo e non con l'autovettura», non essendo la confisca prevista, ad esempio, «se il conducente o trasportato non allacci la cintura di sicurezza»;

    che anche il Giudice di pace di Santo Stefano di Camastra ipotizza - sebbene la sua iniziativa sembrerebbe formalmente indirizzarsi avverso l'intero testo dell'art. 213 del codice della strada - che il comma 2-sexies di tale articolo violi gli artt. 3, 27 e 42, terzo comma, Cost.;

    che il rimettente premette che l'oggetto del giudizio principale è costituito dal ricorso presentato da due soggetti - uno dei quali in veste di obbligato in solido ex art. 3 della legge n. 689 del 1981 - avverso verbale di contestazione di infrazione stradale (per violazione dell'art. 171, comma 1, del codice della strada) e pedissequo verbale di sequestro di un ciclomotore;

    che il rimettente assume, innanzitutto, che la censurata disposizione «violi il principio di responsabilità personale penale», risultante dagli artt. 3 e 27 Cost., poiché «imputa a titolo di responsabilità oggettiva al proprietario di un bene mobile una pena anche quando nel comportamento di quest'ultimo non possa ravvisarsi né l'imprudenza, né la negligenza», disattendendo quanto previsto dall'art. 3 della legge n. 689 del 1981 e dall'art. 42, primo comma, del codice penale;

    che, inoltre, sarebbe violato - a suo dire - anche l'art. 42, terzo comma, Cost., giacché «non si ravvisano i motivi di interesse generale per la sottrazione del bene mobile»;

    che il Giudice di pace di Caltanissetta, con due ordinanze di rimessione, censura il medesimo art. 213, comma 2-sexies, del codice della strada, in riferimento agli artt. 3, 27 e 42 Cost.;

    che in entrambi i casi il giudice a quo risulta investito dell'opposizione - proposta dal proprietario di un ciclomotore, non responsabile personalmente dell'infrazione consistente nel mancato uso del casco protettivo, accertata in ciascuna delle ipotesi a carico del conducente del mezzo - avverso i verbali con i quali, contestata l'infrazione suddetta, si disponeva il sequestro del mezzo in vista della successiva confisca;

    che, ciò premesso, il rimettente deduce che la sanzione della confisca, nel caso di specie, non sarebbe «giustificata», ponendosi in contrasto «con i parametri, di rango costituzionale, di ragionevolezza, della responsabilità personale, e di riconoscimento e difesa della proprietà privata».

    che nell'ipotesi in esame, assume il rimettente, «si è certamente in presenza di una confisca avente natura di sanzione amministrativa accessoria», la quale, però, «non possiede, in forza del suo contenuto, i tratti della secondarietà, della marginalità e della complementarietà, ergendosi ad elemento primario di regolamentazione e per ciò stesso contrastando con le direttrici dell'intero sistema sanzionatorio degli illeciti amministrativi»;

    che richiamata, pertanto, la giurisprudenza della Corte costituzionale - sentenze n. 110 del 1996, n. 371 del 1994, n. 259 del 1976 e n. 229 del 1974 - che ha riconosciuto «ingiusta ed irrazionale la previsione della confisca obbligatoria del bene, allorché sia evidente la violazione del canone di ragionevolezza», il rimettente assume che tale evenienza ricorre nel caso di specie, atteso che «la confisca del ciclomotore è applicata in via immediata ed automatica», non consentendosi al proprietario del bene di provare la propria «assoluta estraneità all'illecito amministrativo da altri commesso», violando, così, anche il principio della personalità della responsabilità amministrativa enunciato dall'art. 3 della legge n. 689 del 1981;

    che, inoltre, l'impossibilità di attribuire rilievo - ai fini della mancata applicazione della confisca - proprio alla circostanza costituita dalla appartenenza del veicolo a terzo estraneo all'illecito amministrativo «si traduce in un'ingiustificata violazione del diritto sul bene confiscato», con violazione dell'art. 42, secondo comma, della Costituzione, atteso che, nella specie, non ci «si limita a sottrarre all'incolpevole proprietario la disponibilità per un tempo limitato di un bene patrimoniale, e quindi a comprimere le sole facoltà di godimento della res», bensì si sottrae «il bene in via definitiva», con «una statuizione di tipo demolitorio»;

     che, infine, è ipotizzata la violazione anche dell'art. 27 Cost., giacché la sanzione della confisca è applicata al proprietario del mezzo - che pure non sia l'autore dell'infrazione - «in via immediata ed automatica», essendogli precluso «di provare la propria estraneità all'illecito amministrativo da altri commesso», in contrasto con la regola sancita dall'art. 3 della legge n. 689 del 1981, secondo cui, per gli illeciti amministrativi, «ciascuno è responsabile della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa»;

    che anche i Giudici di pace di Trecastagni, con quattro ordinanze di rimessione, e di Napoli censurano - facendo entrambi ricorso ad identici argomenti - il medesimo art. 213, comma 2-sexies, del codice della strada, ipotizzandone il contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.;

    che il primo dei due rimettenti deduce, preliminarmente, di essere investito, in due dei giudizi principali (r.o. nn. 314 e 357 del 2007), del ricorso proposto dal proprietario di un ciclomotore, sorpreso alla guida del mezzo senza indossare il casco protettivo, dovendo invece conoscere, negli altri due casi (r.o. nn. 244 e 356 del 2007), di fattispecie nelle quali la sanzione della confisca - sempre conseguente alla violazione dell'art. 171, commi 1 e 2, del codice della strada - risulta investire il veicolo di proprietà di soggetto diverso dall'autore materiale dell'infrazione;

    che questa seconda evenienza è quella che ricorre anche nel caso sottoposto al giudizio del rimettente napoletano;

    che entrambi i giudici a quibus svolgono, come anticipato, le medesime argomentazioni, tese a dimostrare l'esistenza di una «aperta violazione del principio di ragionevolezza e proporzionalità della sanzione», nonché «la disparità di trattamento» che la norma suddetta introdurrebbe tra violazioni del codice della strada, secondo che le stesse siano commesse con ciclomotori o autoveicoli;

    che i due giudici rimettenti rammentano come la Corte costituzionale non solo abbia già riconosciuto l'illegittimità costituzionale di talune ipotesi di confisca (è citata la sentenza n. 110 del 1996), ma ha espresso più volte l'auspicio - sono citate le sentenze nn. 349 e 435 del 1997 - che il legislatore provveda a «rimodellare il sistema della confisca, stabilendo alcuni canoni essenziali al fine di evitare che l'applicazione giudiziale della sanzione amministrativa produca disparità di trattamento»;

    che la norma censurata, viceversa, contravverrebbe a tali indicazioni, non solo dando luogo ad un'inammissibile «disparità di trattamento tra chi conduce una moto o un ciclomotore e chi guida un autoveicolo», ma anche violando il principio secondo cui la responsabilità penale è personale, nella misura in cui la sanzione della confisca da essa prevista colpisce «inevitabilmente ed esclusivamente» il proprietario del veicolo e non l'autore dell'infrazione stradale;

    che il Giudice di pace di Castrovillari evoca, invece, come parametri costituzionali gli artt. 3 e 42 Cost., assumendo che gli stessi sarebbero violati dalla previsione della sanzione della confisca contemplata dal predetto art. 213, comma 2-sexies, del codice della strada;

    che il rimettente premette di essere investito del giudizio instaurato dal proprietario di un motociclo (colpito da sanzione amministrativa per aver utilizzato il mezzo senza indossare il casco protettivo), il quale - senza opporsi nel merito all'infrazione contestatagli - ricorre esclusivamente avverso la sanzione accessoria della confisca, assumendo l'illegittimità costituzionale della sua previsione;

    che, secondo il giudice a quo, la norma in esame contrasta con l'art. 3 Cost., per la «irragionevole disparità di trattamento realizzata, a parità di gravità della violazione commessa, tra automobilisti e motociclisti», essendo la sanzione della confisca «prevista in relazione a violazioni compiute a bordo di motocicli e non anche per altre violazioni analoghe commesse con altri mezzi di circolazione», come ad esempio il mancato uso della cintura di sicurezza, aventi la medesima ratio di tutela della incolumità individuale;

    che un ulteriore profilo di contrasto con il medesimo parametro costituzionale sarebbe da ravvisare nella «sproporzione della sanzione rispetto alla violazione», palesandosi la confisca obbligatoria «oltremodo gravosa ed afflittiva» se posta a confronto con la condotta sanzionata, e cioè la guida di un motociclo o motoveicolo senza l'uso del casco protettivo;

    che, infine, la norma censurata violerebbe anche l'art. 42 Cost., «per l'illegittima compressione del diritto di proprietà dell'individuo»;

    che, invece, l'iniziativa assunta dal Giudice di pace di Torre Annunziata si indirizza avverso l'art. 171, commi 1 e 2, del codice della strada, oltre che l'art. 213, comma 2-sexies, del medesimo codice, ipotizzandosi la violazione degli artt. 2, 3, 42, 24 e 111 Cost.;

    che il giudice a quo - chiamato a giudicare dell'opposizione proposta, nel primo dei due giudizi principali, dalla proprietaria e dal conducente di un motociclo per avere quest'ultimo guidato il veicolo senza indossare il casco protettivo, nel secondo, invece, esclusivamente dal proprietario di un motociclo, essendo il medesimo direttamente responsabile di detta infrazione - assume che le censurate disposizioni, nel prevedere l'applicazione della sanzione accessoria della confisca, sarebbero in contrasto, innanzitutto, con l'art. 42 Cost.;

    che tali disposizioni, inoltre, violerebbero l'art. 3 della Carta fondamentale, «per l'evidente sproporzione tra violazione e sanzione e relative conseguenze economiche», nonché l'art. 2 Cost. per la «disparità di trattamento» che realizzano tra i conducenti di ciclomotori o motoveicoli e quelli di tutti gli altri veicoli;

    che, infine, quanto al contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost., assume il rimettente torrese che, nel caso di specie, risulta sottratta «a qualsivoglia giudice terzo la comminatoria di una sanzione di una gravità economica tale, da superare in alcune ipotesi, persino l'entità di sanzioni pecuniarie previste dalle leggi penali»;

    che, infine, il Giudice di pace di Cantù - con entrambe le ordinanze di rimessione - censura, oltre al predetto art. 213, comma 2-sexies, anche l'art. 170, commi 1 e 2, del codice della strada, ipotizzando la violazione degli artt. 3, 27 e 42 Cost.

    che il rimettente - nel limitarsi a riferire, in punto di fatto, di essere chiamato a giudicare di due opposizioni proposte contro altrettanti verbali di sequestro ex art. 213 del codice della strada, elevati per violazione dell'art. 170, comma 2, del medesimo codice - deduce, innanzitutto, il contrasto tra le norme censurate e l'art. 3 Cost.;

    che è denunciata, infatti, la «evidente sproporzione tra violazione e sanzione, in aperto contrasto con il principio di ragionevolezza e proporzionalità della sanzione», e ciò a causa della «disparità di trattamento» tra le infrazioni stradali «commesse dai conducenti di ciclomotori e conducenti di autoveicoli», pur essendo identica, per le une come per le altre, la ratio «di salvaguardia dell'integrità fisica del cittadino»;

    che viene ipotizzata inoltre - richiamando sul punto le sentenze della Corte costituzionale n. 435 e n. 349 del 1997 - la violazione del principio di «personalità» desumibile dall'art. 27 Cost.;

    che, infine, è dedotto il contrasto anche con l'art. 42 Cost., che consente l'espropriazione di un bene privato «solo in presenza di motivi di interesse generale»;

    che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in tutti i giudizi, salvo quello che trae origine dall'ordinanza r.o. n. 315 del 2007, svolgendo considerazioni sostanzialmente identiche in ciascun atto di intervento;

    che in particolare - eccepita, in via preliminare, l'inammissibilità delle questioni relative ai commi 1, 2 e 3 dell'art. 171 del codice della strada, atteso che tali disposizioni si limitano a descrivere le infrazioni in relazione alle quali il (solo) comma 2-sexies dell'art. 213 del medesimo codice della strada prevede, quale sanzione accessoria a quella pecuniaria, la confisca del veicolo a due ruote - ha dedotto l'infondatezza delle questioni sollevate;

    che la confisca sarebbe rivolta a sottrarre la disponibilità di ciclomotori e motoveicoli a coloro i quali, mostrandosi indifferenti all'obbligo di indossare il casco protettivo, realizzano, con il proprio contegno, «una causa di incremento del pericolo di lesioni craniche da circolazione di motocicli», sicché - sottolinea la difesa erariale - anche «il proprietario che autorizzi o tolleri l'uso del motociclo da parte di soggetti che non rispettano l'obbligo in questione» è ragionevolmente sottoposto, dall'impugnato art. 213, comma 2-sexies, a tale sanzione, giacché «ha accettato di concorrere all'incremento complessivo del rischio da circolazione e, contemporane amente, ha rinunciato ad esercitare un controllo personale e diretto sul comportamento del conducente»;

    che nessuna violazione del principio di eguaglianza, poi, potrebbe essere ravvisata nel caso di specie;

    che, difatti, individuata nella «prevenzione del rischio individuale e sociale da trauma cranico, specifico e peculiare della circolazione motociclistica» la ratio della sanzione della confisca, risulterebbe evidente come nella sua applicazione «non abbia alcun rilievo il valore dei motocicli confiscati», giacché attraverso di essa non si «tende a colpire il patrimonio del responsabile, bensì a rimuovere una causa di incremento del rischio di cui si è detto»;

    che infine, si esclude l'esistenza di un contrasto tra le norme censurate e gli artt. 24 e 111 Cost., asseritamente conseguente al «carattere rigido» di tale sanzione, essendo quella della confisca obbligatoria una «sanzione ampiamente nota all'ordinamento penale e sanzionatorio amministrativo», giustificata dalla «necessità di eliminare le cause materiali di potenziali, ulteriori, lesioni dell'interesse protetto».

    Considerato che i Giudici di pace di Rionero in Vulture (r.o. nn. 205 e 206 del 2007), Salerno (r.o. n. 211 del 2007), Cividale del Friuli (r.o. n. 224 del 2007), Santo Stefano< /st1:PersonName> di Camastra (r.o. n. 225 del 2007), Caltanissetta (r.o. nn. 241 e 242 del 2007), Trecastagni (ro nn. 244, 314, 356 e 357 del 2007), Napoli (r.o. n. 309 del 2007) e Castrovillari (r.o. n. 310 del 2007) hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale - in riferimento, nel complesso, agli artt. 3, 27 e 42 della Costituzione - dell'art. 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada);</ P>

    che, analogamente, i Giudici di pace di Torre Annunziata (r.o. nn. 285 e 286 del 2007) e Cantù (r.o. nn. 292 e 315 del 2007) hanno sollevato - in riferimento, il primo, agli artt. 2, 3, 24, 42 e 111 Cost., il secondo agli artt. 3, 27 e 42 Cost. - questioni di legittimità costituzionale oltre che del suddetto art. 213, comma 2-sexies, anche degli artt. 170 e 171, commi 1 e 2, del medesimo d.lgs. n. 285 del 1992 (rispettivamente censurati, il primo, dal rimettente canturino, l'altro da quello torrese);

    che, data la connessione esistente tra i vari giudizi, se ne impone la riunione ai fini di un'unica pronuncia;

    che, nelle more del presente giudizio, i commi 167, 168 e 169 dell'art. 2 del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), inseriti dalla relativa legge di conversione 24 novembre 2006, n. 286, hanno, rispettivamente, sostituito il testo degli artt. 170, comma 7, 171, comma 3, e 213, comma 2-sexies (norma, quest'ultima, denunciata da tutti giudici rimettenti) del codice della strada;

    che, difatti, in virtù del citato ius superveniens, alla «sanzione pecuniaria amministrativa» prevista, rispettivamente, dal comma 6 dell'art. 170 e dal comma 2 dell'art. 171 del codice della strada, consegue - in luogo della confisca, contemplata dal testo censurato dell'art. 213, comma 2-sexies, del medesimo codice della strada - «il fermo del veicolo per sessanta giorni ai sensi del capo I, sezione II del titolo VI» dello stesso codice (ovvero per la durata di novanta giorni allorché, «nel corso di un biennio», sia «stata commessa, almeno per due volte», una delle violazioni previste dai commi 1 e 2 dell'art. 170 e dal comma 1 dell'art. 171 del medesimo codice della strada);

    che, difatti, ai sensi del novellato art. 213, comma 2-sexies, del predetto codice l'applicazione della confisca risulta ormai limitata a «tutti i casi in cui un ciclomotore o un motoveicolo sia stato adoperato per commettere un reato, sia che il reato sia stato commesso da un conducente maggiorenne, sia che sia stato commesso da un conducente minorenne»;

    che, pertanto, alla luce di tale sopravvenienza normativa si impone la restituzione degli atti ai giudici rimettenti, per una rinnovata valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza delle questioni dagli stessi sollevate.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    ordina la restituzione degli atti ai Giudici di pace di Rionero in Vulture, Salerno, Cividale del Friuli, Santo Stefano di Camastra, Caltanissetta, Trecastagni, Napoli, Castrovillari, Torre Annunziata e Cantù.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Alfonso QUARANTA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 27 febbraio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 41

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Franco                          BILE         Presidente

-  Giovanni Maria                  FLICK          Giudice

-  Francesco                       AMIRANTE          "

-  Ugo                             DE SIERVO         "

-  Paolo                           MADDALENA         "

-  Alfio                           FINOCCHIARO       "

-  Alfonso                         QUARANTA          "

-  Franco                          GALLO             "

-  Luigi                           MAZZELLA          "

-  Gaetano                         SILVESTRI         "

-  Sabino                          CASSESE           "

-  Maria Rita                      SAULLE            "

-  Giuseppe                        TESAURO           "

-  Paolo Maria                     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 11-quaterdecies, comma 16, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 2 dicembre 2005, n. 248, e 36, comma 2, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 20 06, n. 248, promossi con ordinanza depositata il 30 agosto 2006 dalla Commissione tributaria regionale del Lazio, nel giudizio vertente tra il Comune di Ladispoli e la s.r.l. Valcannuta 1990, e con ordinanza depositata il 16  marzo 2007 dalla Commissione tributaria provinciale di Piacenza, nel giudizio vertente tra la s.r.l. Ecuba ed il Comune di Castell'Arquato, rispettivamente iscritte al n. 313 ed al n. 613 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18 e n. 36, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2008 il Giudice relatore Franco Gallo.

    Ritenuto che, nel corso di un giudizio di appello avente ad oggetto la sentenza con cui il giudice di primo grado aveva rigettato il ricorso proposto da una società a responsabilità limitata avverso due avvisi di liquidazione e accertamento in rettifica dell'ICI relativa agli anni 1993 e 1994, la Commissione tributaria regionale del Lazio, con ordinanza pronunciata il 17 gennaio 2006 e depositata il 30 agosto 2006 (r.o. n. 313 del 2007), ha sollevato - in riferimento agli artt. 53 e 3 della Costituzione, «nonché» ai principi di ragionevolezza, razionalità e non contraddizione - questioni di legittimità costituzionale degli artt. 11-quaterdecies, comma 16, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 2 dicembre 2005, n. 248, e 36, comma 2, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248;

    che, secondo quanto premesso in punto di fatto dal giudice rimettente: a) con gli avvisi impugnati, il Comune di Ladispoli aveva rettificato, ai fini dell'imposta comunale sugli immobili (ICI), il valore di «alcuni terreni agricoli» della suddetta società, stimandoli in base al loro valore venale in comune commercio, invece che in base alle rendite agricole risultanti dal catasto; b) i terreni erano inseriti in una zona ("M2") qualificata come edificabile dal piano regolatore generale, ma per la quale non erano rilasciabili permessi di costruire, perché non assistita da strumenti urbanistici attuativi del piano generale; c) la Commissione tributaria provinciale di Roma avev a rigettato il ricorso proposto dalla società avverso la menzionata rettifica di valore ed aveva affermato nella sua decisione che la ricorrente non aveva dimostrato la dedotta inedificabilità dei terreni; d) con l'appello proposto, la medesima società aveva ribadito, deducendolo quale motivo di gravame, che i terreni non erano edificabili;

    che, secondo quanto premesso in punto di diritto dal medesimo giudice rimettente: a) in forza dell'originaria formulazione dell'art. 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoriali, a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), per «area fabbricabile», ai fini dell'ICI, «si intende l'area utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici generali o attuativi ovvero in base alle possibilità effettive di edificazione determinate secondo i criteri previsti agli effetti dell'indennità di espropriazione per pubblica utilità»; b) sull'interpretazione di detta disposizione era insorto un contrasto giu risprudenziale circa l'assoggettabilità all'ICI come "fabbricabili" delle aree che, pur essendo considerate "utilizzabili a scopo edificatorio" dal piano regolatore generale, non sono effettivamente suscettibili di edificazione a causa della mancata approvazione dei necessari piani attuativi ovvero dell'esistenza di misure di salvaguardia adottate dal Comune; c) le due denunciate disposizioni di legge - introdotte dal legislatore, nelle more del giudizio di appello, proprio al fine di dirimere detto contrasto giurisprudenziale - hanno natura di interpretazione autentica del citato art. 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo n. 504 del 1992 e, pertanto, hanno efficacia retroattiva; d) la piú recente delle due citate disposizioni interpretative ha comportato «l'abrogazione implicita» della prima, stabilendo - con norma ritenuta dal rimettente di «identico significato» rispetto a quella abrogata - che un'area è da considerare fabbricab ile, ai fini dell'ICI (oltre che ai fini delle imposte sui redditi e di registro), «se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal comune, indipendentemente dall'approvazione della regione e dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo»;

    che, quanto alla non manifesta infondatezza delle sollevate questioni, il giudice a quo afferma che il censurato art. 36, comma 2, del decreto-legge n. 223 del 2006, nell'equiparare ai fini fiscali, quanto alla potenzialità edificatoria, un'area qualificata come "edificabile" dal piano regolatore generale, ma per la quale non è concedibile il permesso di costruire, ad un'area per la quale detto permesso è, invece, concedibile, víola: a) l'art. 3 Cost., perché irragionevolmente sottopone al medesimo trattamento fiscale situazioni che l'ordinamento giuridico considera diverse ai fini dell'edificabilità; b) l'art. 53 Cost., perché «prescinde dalla capacità contributiva reale che è necessariamente mediat a dalle norme imperative relative allo ius aedificandi»; c) i «principi di ragionevolezza, razionalità e non contraddizione», perché il legislatore, ai soli fini fiscali, sovrappone alla concreta inedificabilità dell'area la qualifica di "area fabbricabile", con ciò assumendo un «atteggiamento sicuramente vessatorio, proprio di regimi ben diversi dalla democrazia»;

    che, in ordine alla rilevanza delle questioni, il giudice a quo afferma che la natura interpretativa e, quindi, la valenza retroattiva delle disposizioni denunciate le rende applicabili anche ai periodi d'imposta oggetto del giudizio principale, con conseguente necessità di rigettare l'appello nel caso in cui esse non venissero dichiarate costituzionalmente illegittime;

    che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate infondate, perché: a) le censurate disposizioni - come già sottolineato dalla sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 25506 del 2006, con cui è stato composto il contrasto giurisprudenziale menzionato dal rimettente - hanno delineato un coerente e razionale sistema normativo introducendo nell'ordinamento la ragionevole distinzione tra finalità fiscali (per le quali rileva l'effettivo maggior valore di mercato acquisito da un terreno agricolo a séguito della qualifica di "area edificabile" attribuitagli dal piano regolatore, anche se privo di strumenti a ttuativi) e finalità urbanistiche (per le quali rileva, invece, l'effettiva possibilità di edificare, secondo il corretto uso del territorio urbano, indipendentemente dal valore del terreno); b) la valutazione come terreno agricolo, ai fini fiscali, di un'area qualificata come edificabile da un piano regolatore generale privo di strumenti attuativi creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla valutazione in base al valore venale di un'area qualificata come edificabile da uno strumento attuativo, in quanto in entrambi i casi il valore di mercato del bene è superiore a quello risultante dalle rendite catastali agricole;

    che, nel corso di un giudizio di primo grado nel quale una società a responsabilità limitata aveva impugnato due avvisi di accertamento dell'ICI relativi agli anni 2003 e 2004, emessi dal Comune di Castell'Arquato, la Commissione tributaria provinciale di Piacenza, con ordinanza pronunciata e depositata il 16 marzo 2007 (r.o. n. 613 del 2007), ha sollevato - in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, nonché al principio di affidamento dei cittadini nella certezza giuridica - questioni di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo n. 504 del 1992, quale interpretato dagli artt. 11-quaterdecies, comma 16, del decreto-legge n. 203 del 2005, convertito, con modificazioni, dall'art. 1 della legge n. 248 del 2005, e 36, comma 2, del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006;

    che, secondo quanto premesso in punto di fatto dal giudice rimettente, gli avvisi impugnati riguardano «aree in concreto edificabili solo a seguito dell'approvazione di strumenti attuativi (piano particolareggiato e piano comunale)»;

    che, secondo quanto premesso in punto diritto dal medesimo giudice rimettente: a) l'originaria formulazione dell'art. 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo n. 504 del 1992 stabiliva che, ai fini dell'ICI, «per area fabbricabile si intende l'area utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici generali o attuativi ovvero in base alle possibilità effettive di edificazione determinate secondo i criteri previsti agli effetti dell'indennità di espropriazione per pubblica utilità»; b) ai sensi dei commi 3 e 4 dell'art. 37 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), testo A, ai soli fini della determinazione dell'indennità di esproprio di un'area edificabile o legittimamente edificata, si considerano le possibilità legali ed effettive di edificazione; c) in base al combinato disposto delle citate disposizioni non potevano, pertanto, qualificarsi "edificabili", ai fini dell'ICI, le aree qualificate come edificabili soltanto in forza di uno strumento urbanistico generale ancora non approvato od attuato; d) i censurati artt. 11-quaterdecies, comma 16, del decreto-legge n. 203 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2005, e 36, comma 2, del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006, hanno, però, successivamente stabilito, con norme considerate di natura interpretativa dalle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza n. 25506 del 2006), che, ai fini dell'ICI, è considerata edificabile ogni area che sia classificata come tale dallo strumento urbanistico generale, anche se manchi la pianificazione attuativa o, addirittura, se detto strumento urbanistico generale sia stato solo adottato;

    che, quanto alla non manifesta infondatezza delle sollevate questioni, il giudice a quo afferma che le disposizioni censurate violano gli evocati parametri costituzionali sotto i tre seguenti profili;

    che in primo luogo, ad avviso del rimettente, i censurati artt. 11-quaterdecies, comma 16, del decreto-legge n. 203 del 2005 e 36, comma 2, del decreto-legge n. 223 del 2006, nell'intento di fornire - ai fini dell'applicazione dell'ICI - l'interpretazione autentica della nozione di area fabbricabile di cui all'art. 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo n. 504 del 1992, attribuiscono alla disposizione interpretata (in violazione dei princípi sia di «ragionevolezza, non contraddittorietà e logicità» sanciti dall'art. 3 Cost., sia dell'affidamento dei cittadini nella certezza giuridica) significati incompatibili con quelli desumibili dal suo testo ori ginario, il quale, richiamando i criteri previsti agli effetti dell'indennità di espropriazione per pubblica utilità, esclude che un'area possa essere qualificata come edificabile in forza di uno strumento urbanistico generale ancora in itinere o in mancanza dei necessari piani attuativi;

    che in secondo luogo, per il medesimo rimettente, le norme denunciate, qualificando "edificabili" (ai soli fini fiscali) aree in relazione alle quali non è possibile ottenere il permesso di costruire, creano una ingiustificata disparità di trattamento tra proprietari di aree egualmente inedificabili (in violazione dell'art. 3 Cost.) e non fanno gravare l'ICI su un «sintomo» di ricchezza o di capacità economica (in violazione dell'art. 53 Cost.); e ciò sia perché la vendita di un'area non ancora in concreto edificabile è normalmente condizionata alla futura effettiva edificabilità del suolo, cosí che l'aspettativa di tale edificabilità non si traduce in alcun vantaggio economico immediato per il proprietario, sia perché, comunque, l'art. 59, c omma 1, lettera f), del citato d.lgs. n. 504 del 1992 lascia all'iniziativa sporadica, e comunque non doverosa, dei Comuni la previsione del rimborso dell'ICI pagata per le aree successivamente divenute inedificabili, cosí che tale rimborso è «foriero di disparità di trattamento tra proprietari egualmente colpiti dall'impossibilità di edificare concretamente, a seconda del comune di appartenenza e delle situazioni»;

    che in terzo luogo, per il giudice a quo, le norme censurate, con riguardo ai suoli per i quali non è possibile ottenere il permesso di edificare, discriminerebbero irragionevolmente (in violazione dell'art. 3 Cost.) le aree qualificate come edificabili da piani urbanistici ancora in itinere o comunque privi di attuazione, perché solo per tale tipo di aree l'imponibile dell'ICI viene commisurato al valore venale, pur essendo previsto dalla legge, in caso di esproprio, un indennizzo calcolato in base alla natura agricola del terreno.

    che infine, in ordine alla rilevanza, la Commissione tributaria provinciale di Piacenza afferma che le questioni sono rilevanti, perché in giudizio si controverte sulla debenza dell'ICI relativamente ad aree che sarebbero in concreto edificabili solo a séguito dell'approvazione di strumenti attuativi del piano regolatore generale;

    che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto anche in questo giudizio di legittimità costituzionale, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate;

    che, in particolare, la difesa erariale eccepisce l'inammissibilità delle questioni sia per la mancata descrizione della fattispecie sia perché, comunque, il denunciato art. 11-quaterdecies, comma 16, del decreto-legge n. 203 del 2005, convertito, con modificazioni, dall'art. 1 della legge n. 248 del 2005, anche ove avesse natura innovativa - come affermato dal rimettente - e non interpretativa, si applicherebbe quantomeno dalla data della sua entrata in vigore e, quindi, anteriormente alla data di inizio del giudizio a quo («iniziato [.] il 3 marzo 2006»);

    che la medesima difesa erariale afferma, nel merito, che le questioni sono infondate, sia perché le denunciate disposizioni intervenute nel 2005 e nel 2006 hanno natura autenticamente interpretativa, in quanto rendono obbligatorio uno dei significati già attribuibile alle disposizioni interpretate; sia perché non è dubbio che uno strumento urbanistico in itinere conferisce al terreno da esso qualificato come edificabile un valore ben superiore a quello precedente e comunque correttamente valutabile sul mercato, fermo restando - nel caso di successivo «ritiro del piano» attributivo della qualifica di area fabbricabile - l'eventuale rimborso dell'imposta pagata.

    Considerato che la Commissione tributaria regionale del Lazio - in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, «nonché» ai princípi di ragionevolezza, razionalità e non contraddizione - e la Commissione tributaria provinciale di Piacenza - in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, nonché al principio di affidamento dei cittadini nella certezza giuridica - dubitano della legittimità degli artt. 11-quate rdecies, comma 16, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 2 dicembre 2005, n. 248, e 36, comma 2, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248;

    che i giudici rimettenti muovono dalla comune premessa che le disposizioni censurate - nello stabilire che un'area è da considerare fabbricabile, ai fini dell'ICI (oltre che ai fini delle imposte sui redditi e di registro), «se utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale adottato dal comune, indipendentemente dall'approvazione della regione e dall'adozione di strumenti attuativi del medesimo» - sono dotate di efficacia retroattiva ed incidono, pertanto, sulla precedente definizione di area fabbricabile rilevante ai fini dell'ICI e contenuta nell'art. 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 504 (Riordino della finanza degli enti territoria li, a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), in forza del quale «per area fabbricabile si intende l'area utilizzabile a scopo edificatorio in base agli strumenti urbanistici generali o attuativi ovvero in base alle possibilità effettive di edificazione determinate secondo i criteri previsti agli effetti dell'indennità di espropriazione per pubblica utilità»;

    che, ad avviso dei giudici a quibus, le suddette disposizioni censurate violano gli evocati parametri costituzionali, perché: a) in contrasto con i princípi di «ragionevolezza, non contraddittorietà e logicità» di cui all'art. 3 Cost. e di affidamento dei cittadini nella certezza giuridica, attribuiscono al citato art. 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo n. 504 del 1992 un significato incompatibile con quello desumibile dal testo di detto articolo, il quale, richiamando i criteri previsti per la determinazione dell'indennità di espropriazione per pubblica utilità - indicati dai commi 3 e 4 dell'art. 37 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unic o delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), testo A - esclude che un'area agricola possa essere qualificata come edificabile in forza di uno strumento urbanistico generale ancora in itinere o privo dei necessari piani attuativi (questione sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Piacenza); b) in contrasto con l'art. 3 Cost., da un lato, irragionevolmente equiparano situazioni del tutto diverse sotto il profilo dell'edificabilità, assimilando a suoli edificabili aree agricole per le quali non è possibile ottenere il permesso di costruire (questione sollevata dalla Commissione tributaria regionale del Lazio), e dall'altro, altrettanto irragionevolmente, stabiliscono che, diversamente dagli altri terreni agricoli, soltanto le aree definite come edificabili da piani urbanistici non ancora approvati o attuati sono soggette ad una doppia valutazione: in base al valore venale, ai fini del pagamento dell'ICI, e in base al reddito dominicale catastale, ai fini del calcolo dell'indennizzo espropriativo (questione sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Piacenza); c) in contrasto con l'art. 53 Cost., qualificano "edificabili", ai fini fiscali, aree in relazione alle quali non è possibile ottenere il permesso di costruire, con la conseguenza che, con riferimento a tali aree, l'ICI prescinde dalla capacità contributiva reale, in quanto non grava su un effettivo «sintomo» di ricchezza o di capacità economica del contribuente (questione sollevata da entrambi i rimettenti);

    che, in ragione dell'identità delle norme denunciate e della parziale coincidenza delle censure proposte, i giudizi di legittimità costituzionale debbono essere riuniti per essere congiuntamente decisi;

    che le questioni sono in parte manifestamente inammissibili ed in parte manifestamente infondate;

    che, in via preliminare, vanno dichiarate manifestamente inammissibili, per difetto di rilevanza, le questioni concernenti l'art. 11-quaterdecies, comma 16, del decreto-legge n. 203 del 2005, convertito, con modificazioni, dall'art. 1 della legge n. 248 del 2005, perché di tale disposizione i rimettenti, in base alla stessa prospettazione delle loro censure, non debbono fare applicazione nei giudizi a quibus;

    che, infatti, l'art. 36, comma 2, del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006, in forza dell'efficacia retroattiva riconosciutagli da entrambe le ordinanze di rimessione, ha sostituito con effetto ex tunc, abrogandola, la disciplina dettata dal citato art. 11-quaterdecies, comma 16, del decreto-legge n. 203 del 2005, con la conseguenza (tra l'altro espressamente ammessa dalla Commissione tributaria regionale del Lazio) che detto art. 36, comma 2, è l'unica disposizione, delle due denunciate, a trovare applicazione nei giudizi principali ;

    che la difesa erariale ha eccepito l'inammissibilità, per la mancata descrizione della fattispecie, delle questioni sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Piacenza con riguardo al menzionato art. 36, comma 2, del decreto-legge n. 223 del 2006;

    che tale eccezione deve essere respinta, perché, contrariamente a quanto affermato dall'Avvocatura generale dello Stato, il suddetto rimettente ha descritto in modo sufficiente la fattispecie sottoposta al suo esame, avendo egli precisato che gli avvisi impugnati nel giudizio principale riguardano «aree in concreto edificabili solo a seguito dell'approvazione di strumenti attuativi (piano particolareggiato e piano comunale)» ed avendo quindi data per presupposta, nella specie, l'inedificabilità del suolo per la mancanza di detti strumenti attuativi;

    che, nel merito, le questioni sollevate dai rimettenti con riguardo al menzionato art. 36, comma 2, del decreto-legge n. 223 del 2006 debbono essere dichiarate manifestamente infondate;

    che, al riguardo, va preliminarmente osservato che, diversamente da quanto dedotto dalla Commissione tributaria provinciale di Piacenza, la disposizione censurata costituisce interpretazione autentica dell'art. 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo n. 504 del 1992, perché attribuisce alla disposizione interpretata un significato compatibile con la sua formulazione letterale;

    che, in particolare, detta disposizione prevede testualmente che, per «area fabbricabile» ai fini dell'ICI, deve intendersi l'area utilizzabile a scopo edificatorio «in base agli strumenti urbanistici generali o attuativi ovvero», alternativamente, «in base alle possibilità effettive di edificazione determinate secondo i criteri previsti agli effetti dell'indennità di espropriazione per pubblica utilità»;

    che la disgiunzione «ovvero» consente di annoverare tra le possibili interpretazioni dell'art. 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo n. 504 del 1992 anche quella secondo cui il richiamo ai criteri previsti agli effetti dell'indennità di espropriazione per pubblica utilità si riferisce esclusivamente all'utilizzabilità edificatoria dell'area «in base alle possibilità effettive di edificazione»;

    che pertanto, secondo tale interpretazione, la nozione di area fabbricabile «in base agli strumenti urbanistici», ai fini dell'ICI, non è influenzata dal disposto dei commi 3 e 4 dell'art. 37 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), testo A, per i quali - ai fini della determinazione dell'indennità di esproprio di un'area edificabile o legittimamente edificata - «si considerano le possibilità legali ed effettive di edificazione» (comma 3) e «non sussistono le possibilità legali di edificazione quando l'area è sottoposta ad un vincolo di inedificabilità assoluta in base alla normativa statale o regionale o alle previsioni di qualsiasi atto d i programmazione o di pianificazione del territorio, ivi compresi il piano paesistico, il piano del parco, il piano di bacino, il piano regolatore generale, il programma di fabbricazione, il piano attuativo di iniziativa pubblica o privata anche per una parte limitata del territorio comunale per finalità di edilizia residenziale o di investimenti produttivi, ovvero in base ad un qualsiasi altro piano o provvedimento che abbia precluso il rilascio di atti, comunque denominati, abilitativi della realizzazione di edifici o manufatti di natura privata» (comma 4);

    che, alla stregua delle indicate premesse ermeneutiche, il testo dell'art. 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo n. 504 del 1992 può essere interpretato nel senso che, ai fini dell'ICI, si considera fabbricabile anche l'area utilizzabile a scopo edificatorio in base allo strumento urbanistico generale, ancorché questo non sia stato approvato dalla regione o non siano stati adottati i necessari strumenti attuativi del medesimo;

    che la suddetta interpretazione è stata successivamente imposta dal censurato art. 36, comma 2, del decreto-legge n. 223 del 2006, il quale ha fatto venir meno l'obiettiva incertezza sul significato dell'art. 2, comma 1, lettera b), del decreto legislativo n. 504 del 1992;

    che a tale conclusione non osta il disposto del comma 2 dell'art. 1 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti dei contribuenti), secondo cui «L'adozione di norme interpretative in materia tributaria può essere disposta soltanto in casi eccezionali e con legge ordinaria, qualificando come tali le disposizioni di interpretazione autentica»;

    che la disposizione denunciata, infatti, in quanto dotata della stessa forza della legge n. 212 del 2000 (che non ha valore superiore a quello della legge ordinaria, come sottolineato da questa Corte con le ordinanze n. 180 del 2007, n. 428 del 2006 e n. 216 del 2004), è idonea ad abrogare implicitamente quest'ultima e, conseguentemente, ad introdurre nell'ordinamento una valida norma di interpretazione autentica, ancorché priva di una espressa autoqualificazione in tal senso;

    che dalla riscontrata natura di interpretazione autentica propria della disposizione censurata - natura non riconosciuta dal giudice rimettente, ma ammessa dal diritto vivente (in particolare, dalla sentenza n. 25506 del 2006 delle sezioni unite della Corte di cassazione) - deriva l'insussistenza della dedotta violazione dei princípi di ragionevolezza e di affidamento dei cittadini nella certezza giuridica, in quanto la norma denunciata si limita ad attribuire alla disposizione interpretata uno dei significati già ricompresi nell'area semantica della disposizione stessa e, pertanto, sotto tale profilo, non può ritenersi irragionevole (ex plurimis, sentenze n. 400 e n. 234 del 2007; n. 274, n. 135 e n . 39 del 2006; n. 291 del 2003; n. 374 del 2002);

    che, quanto alle altre censure concernenti il citato art. 36, comma 2, del decreto-legge n. 223 del 2006, è del tutto ragionevole che il legislatore: a) attribuisca alla nozione di "area edificabile" significati diversi a seconda del settore normativo in cui detta nozione deve operare e, pertanto, distingua tra normativa fiscale, per la quale rileva la corretta determinazione del valore imponibile del suolo, e normativa urbanistica, per la quale invece rileva l'effettiva possibilità di edificare, secondo il corretto uso del territorio, indipendentemente dal valore venale del suolo; b) muova dal presupposto fattuale che un'area in relazione alla quale non è ancora ottenibile il permesso di costruire, ma che tuttavia è qualificata come "edifica bile" da uno strumento urbanistico generale non approvato o attuato, ha un valore venale tendenzialmente diverso da quello di un terreno agricolo privo di tale qualificazione; c) conseguentemente distingua, ai fini della determinazione dell'imponibile dell'ICI, le aree qualificate edificabili in base a strumenti urbanistici non approvati o non attuati (e, quindi, in concreto non ancora edificabili), per le quali applica il criterio del valore venale, dalle aree agricole prive di detta qualificazione, per le quali applica il diverso criterio della valutazione basata sulle rendite catastali;

    che, infatti, la potenzialità edificatoria dell'area, anche se prevista da strumenti urbanistici solo in itinere o ancora inattuati, costituisce notoriamente un elemento oggettivo idoneo ad influenzare il valore del terreno e, pertanto, rappresenta un indice di capacità contributiva adeguato, ai sensi dell'art. 53 Cost., in quanto espressivo di una specifica posizione di vantaggio economicamente rilevante; e ciò indipendentemente dalla eventualità che, nei contratti di compravendita, il compratore, in considerazione dei motivi dell'acquisto, si cauteli condizionando il negozio alla concreta edificabilità del suolo, trattandosi di una ipotetica circostanza di mero fatto, come tale irrilevante nel giud izio di legittimità costituzionale (ex plurimis, sentenza n. 155 del 2005; ordinanze n. 173 del 2003; n. 481 e n. 311 del 2002);

    che, inoltre, il criterio del valore venale non comporta affatto - come, invece, sembrano ritenere i rimettenti - una valutazione fissa ed astratta del bene, ma consente di attribuire al terreno (già qualificato come edificabile dallo strumento urbanistico generale) il suo valore di mercato, adeguando la valutazione alle specifiche condizioni di fatto del bene e, quindi, anche alle piú o meno rilevanti probabilità di rendere attuali le potenzialità edificatorie dell'area;

    che, del resto, la giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione (con la citata sentenza n. 25506 del 2006, menzionata, seppur criticamente, dagli stessi rimettenti) si è già espressa nello stesso senso, affermando che l'edificabilità di un terreno in base al solo piano regolatore, anche se privo di strumenti attuativi, è sufficiente, di norma, a far lievitare il valore di mercato di detto terreno e che è, pertanto, ragionevole che la normativa censurata consideri "edificabile", ai fini della determinazione dell'imponibile, un'area che, invece, è considerata in concreto ancora non edificabile dalla normativa urbanistica;

    che pertanto i giudici a quibus errano - ai fini della determinazione dell'imponibile dell'ICI - sia nel distinguere le aree edificabili in concreto da quelle edificabili in astratto (cioè considerate edificabili da strumenti urbanistici non approvati o non attuati), sia nell'equiparare queste ultime alle altre aree agricole; e ciò perché - sempre ai fini fiscali - l'astratta edificabilità del suolo giustifica di per sé, come già osservato, la valutazione del terreno secondo il suo valore venale e differenzia radicalmente tale tipo di suoli da quelli agricoli non edificabili;

    che, dunque, non sussistono le dedotte violazioni dei princípi di capacità contributiva, di ragionevolezza e di uguaglianza.

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi avanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 11-quaterdecies, comma 16, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 2 dicembre 2005, n. 248, sollevate dalla Commissione tributaria regionale del Lazio - in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, «nonché» ai princípi di ragionevolezza, razionalità e non co ntraddizione - e dalla Commissione tributaria provinciale di Piacenza - in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, nonché al principio di affidamento dei cittadini nella certezza giuridica - con le ordinanze indicate in epigrafe;

    dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 36, comma 2, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, sollevate dalla Commissione tributaria regionale del Lazio - in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, «nonché» ai princípi di ragionevolezza, razionalità e non contraddizione - e dalla Commissione tributaria provinciale di Piacenza - in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, nonché al principio di affidamento dei cittadini nella certezza giuridica - con le ordinanze indicate in epigrafe.

    Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 27 febbraio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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ORDINANZA N. 42</ P>

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, e dell'allegato A della legge della Provincia autonoma di Bolzano 22 dicembre 2005, n. 12 (Misure per garantire la qualità nel settore dei prodotti alimentari e adozione del «marchio di qualità con indicazione di origine») e dell'art. 1, commi 2 e 3, e dell'allegato A della legge della Provincia autonoma di Bolzano 18 ottobre 2006, n. 11 (Modifiche di leggi provinciali in vari settori), promossi con due ricorsi del Presidente del Consiglio dei ministri, rispettivamente notificati il 2 marzo 2006 ed il 28 dicembre 2006, depositati in cancelleria il 9 marzo 2006 ed il 4 gennaio 2007 ed iscritti al n. 46 del registro ricorsi 2006 e al n. 2 del registro ricorsi 2007.

    Visti gli atti di costituzione della Provincia di Bolzano;

    udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro.

    Ritenuto che il Presidente del Consiglio dei ministri, con due distinti ricorsi, rispettivamente notificati il 2 marzo 2006 ed il 28 dicembre 2006, depositati il 9 marzo 2006 ed il 4 gennaio 2007, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, e dell'allegato A della legge della Provincia autonoma di Bolzano 22 dicembre 2005, n. 12 (Misure per garantire la qualità nel settore dei prodotti alimentari e adozione del «marchio di qualità con indicazione di origine»), in riferimento agli artt. 1, 2, 4, 8, 9 e 100 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), all'art. 4 del d.P.R. 15 luglio 1988, n. 574 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la regione Trentino-Alto Adige in materia di uso della lingua tedesca e della lingua ladina nei rapporti dei cittadini con la pubblica amministrazione e nei procedimenti giudiziari), agli artt. 6, 116, 117, commi primo e secondo, lettera e), della Costituzione (reg. ric. n. 46 del 2006), nonché questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 2 e 3, e dell'allegato A della legge della Provincia autonoma di Bolzano 18 ottobre 2006, n. 11 (Mo difiche di leggi provinciali in vari settori), in riferimento ai medesimi parametri (reg. ric. n. 2 del 2007);

    che l'art. 3, comma 1, della legge provinciale n. 12 del 2005, nel testo impugnato con il primo ricorso, dispone che «per le finalità di cui all'art. 1 e per la valorizzazione dei prodotti agricoli e alimentari con un elevato standard qualitativo controllato, è introdotto il "Marchio di qualità con indicazione d'origine", secondo l'allegato A»;

    che l'allegato A della citata legge individua cinque diverse varianti del marchio predetto, recanti le dizioni "Qualität Südtirol", "Qualità Südtirol", "Qualità Alto Adige", "Qualität Südtirol Alto Adige" e "Qualità Alto Adige Südtirol";

    che, ad avviso del ricorrente, il legislatore provinciale, istituendo un "marchio di qualità con indicazione d'origine" composto in unica lingua ovvero con indicazione di qualità in una lingua ed indicazione di origine in altra lingua, ha fatto uso del principio del bilinguismo per una finalità opposta a quella per la quale esso è riconosciuto, non già a salvaguardia delle caratteristiche etniche e culturali, ma a tutela degli interessi economici del gruppo linguistico tedesco, in contrasto con gli artt. 1, 2, 4, 8, 9 e 100 dello statuto speciale del Trentino-Alto Adige, l'art. 4 del d.P.R. n. 574 del 1988, gli artt. 6, 116, 117, commi primo e secondo, lettera e), della Costituzione;

    che, successivamente, l'art. 1, comma 2, della legge provinciale n. 11 del 2006 ha sostituito l'art. 3, comma 1, della legge n. 12 del 2005, stabilendo che «per le finalità di cui all'art. 1 e per la valorizzazione dei prodotti agricoli e alimentari con un elevato standard qualitativo controllato è introdotto il Marchio di qualità con indicazione d'origine, secondo l'allegato A. La dizione Qualità di cui all'allegato A può essere usata in diverse varianti linguistiche»;

    che il comma 3 dello stesso articolo ha sostituito l'allegato A della legge n. 12 del 2005 con l'allegato A della legge n. 11 del 2006, riducendo a due le versioni del marchio di qualità, recanti le dizioni "Qualität Südtirol" e "Qualità Alto Adige";

    che, in relazione a tali norme, il Presidente del Consiglio dei ministri prospetta le medesime violazioni denunciate con il precedente ricorso;

    che in entrambi i giudizi si è costituita la Provincia autonoma di Bolzano, chiedendo di dichiarare i ricorsi inammissibili o infondati.

    Considerato che i ricorsi, avendo ad oggetto disposizioni sostanzialmente omogenee, censurate sotto profili identici, possono essere riuniti e definiti con unica pronuncia;

    che il Presidente del Consiglio dei ministri, a seguito dell'entrata in vigore della legge della Provincia autonoma di Bolzano 23 luglio 2007, n. 6 (Modifiche di leggi provinciali in vari settori), recante sostituzione dell'allegato A della legge n. 12 del 2005, ha dichiarato di rinunciare ad entrambi i ricorsi;

    che la rinuncia è stata ritualmente accettata dalla Provincia autonoma di Bolzano;

    che, pertanto, deve essere dichiarata l'estinzione del processo.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    dichiara estinto il processo.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 27 febbraio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedente

ORDINANZA N. 43

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME  DEL  POPOLO  ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE       Presidente

- Giovanni Maria  FLICK        Giudice

- Francesco       AMIRANTE        "

- Ugo             DE SIERVO       "

- Paolo           MADDALENA       "

- Alfio           FINOCCHIARO     "

- Alfonso         QUARANTA        "

- Franco          GALLO           "

- Luigi           MAZZELLA        "

- Gaetano         SILVESTRI       "

- Sabino          CASSESE         "

- Maria Rita      SAULLE          "

- Giuseppe        TESAURO         "

- Paolo Maria     NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promosso con ordinanza del 24 febbraio 2006 dal Tribunale ordinario di Perugia, sezione distaccata di Todi, nel procedimento penale a carico di R.G., iscritta al n. 290 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell'anno 2007.< o:p>

    Udito  nella camera di consiglio del 13 febbraio 2008 il Giudice relatore Alfonso Quaranta.

    Ritenuto che il Tribunale ordinario di Perugia, sezione distaccata di Todi, ha sollevato questione di legittimità costituzionale - in riferimento all'art. 3 della Costituzione - dell'art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione);

    che il rimettente premette, in punto di fatto, di essere chiamato a giudicare del reato previsto dagli artt. 624 e 625, primo comma, n. 4, del codice penale, da ritenere ormai estinto per prescrizione ove fosse possibile applicare, anche al giudizio principale, la nuova disciplina sui termini di prescrizione del reato introdotta dall'art. 6 della citata legge n. 251 del 2005;

    che tuttavia, nel caso di specie, la già avvenuta dichiarazione di apertura del dibattimento (risalente al 21 ottobre 2004) impedisce, ai sensi di quanto previsto dal comma 3 dell'art. 10 della legge n. 251 del 2005, l'applicazione della lex mitior alla fattispecie oggetto del giudizio principale;

    che reputa, tuttavia, il rimettente che la norma suddetta sia costituzionalmente illegittima per contrasto con l'art. 3 Cost., giacché, sebbene il legislatore sia libero di derogare al principio di retroattività della norma penale più favorevole, esso «non può eludere il principio di eguaglianza»;

    che tale evenienza si sarebbe verificata, invece, nel caso di specie, essendo stato introdotto un regime transitorio che ha l'effetto «di far dipendere la retroattività della disciplina favorevole sopravvenuta da fattori estranei alla logica del trattamento sanzionatorio», ricollegandola «alla evoluzione del processo penale ed allo stato in cui esso sia pervenuto»;

    che, inoltre, il legislatore, nell'attribuire rilievo - come condizione ostativa all'applicazione retroattiva dell'intervento in mitius - all'avvenuta dichiarazione di apertura del dibattimento,  risulta «avere individuato come sintomatico un certo momento processuale» che è, invece, «privo di qualsiasi rilievo» nella disciplina delle cause di interruzione della prescrizione.

    Considerato che il Tribunale ordinario di Perugia, sezione distaccata di Todi, ha sollevato questione di legittimità costituzionale - in riferimento all'art. 3 della Costituzione - dell'art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione);

    che il rimettente censura tale norma nella parte in cui prevede che l'applicazione delle più favorevoli disposizioni per il reo in ordine al termine di prescrizione del reato, contenute nell'art. 6 della medesima legge n. 251 del 2005, sia limitata, quanto ai processi di primo grado, unicamente a quelli per i quali non «sia stata dichiarata l'apertura del dibattimento»;

    che, successivamente alle ordinanze di rimessione, questa Corte, chiamata a pronunciarsi su questione analoga a quella in esame, con la sentenza n. 393 del 2006, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del predetto art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, limitatamente alle parole «dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché»;

    che, secondo la citata sentenza, la scelta «compiuta dal legislatore - in relazione ai processi di primo grado già in corso - di subordinare l'efficacia, ratione temporis, della nuova disciplina sui termini di prescrizione dei reati (quando più favorevole per il reo) all'espletamento dell'incombente ex art. 492 cod. proc. pen.» non si conforma «al canone della necessaria ragionevolezza»;

    che, difatti, tale incombente processuale non è idoneo «a correlarsi significativamente ad un istituto di carattere generale come la prescrizione, e al complesso delle ragioni che ne costituiscono il fondamento», in quanto esso «non connota indefettibilmente tutti i processi penali di primo grado (in particolare i riti alternativi - e, tra essi, il giudizio abbreviato - che hanno la funzione di "deflazionare" il dibattimento)», né risulta «incluso tra quelli ai quali il legislatore attribuisce rilevanza ai fini dell'interruzione del decorso della prescrizione ex art. 160 cod. pen., il quale richiama una serie di atti, tra cui la sentenza di condanna e il decreto di condanna, oltre altri atti processu ali anteriori»;

    che, alla luce di tale sopravvenuta decisione, vanno restituiti gli atti al giudice rimettente, ai fini di una rinnovata valutazione sulla rilevanza e non manifesta infondatezza della questione dallo stesso sollevata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    ordina la restituzione degli atti al Tribunale ordinario di Perugia, sezione distaccata di Todi.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Alfonso QUARANTA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 27 febbraio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA




 


        Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16 marzo 1956).

   Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale su quello pubblicato in questo sito, in caso di divergenza.