Anno III n. 46 del 14/11/2008 www.cortecostituzionale.it    

 
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Deposito del 14/11/2008 (dalla 368 alla 374)

 
S.368/2008 del 05/11/2008
Udienza Pubblica del 07/10/2008, Presidente FLICK, Redattore TESAURO


Norme impugnate: Legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 02/10/2007, n. 24.

Oggetto: Alimenti e bevande - Norme della Regione Friuli-Venezia Giulia - Accordo TRIPs relativo agli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio - Denominazione "Tocai Friulano" - Possibilità di utilizzazione anche dopo il 31 marzo 2007 da parte dei produttori vitivinicoli per designare il vino derivante dall'omonimo vitigno da commercializzare all'interno del territorio italiano, nonostante l'adozione del regolamento n. 753/2002/CE sul divieto di utilizzo della predetta denominazione.

Dispositivo: illegittimità costituzionale
Atti decisi: ric. 49/2007
S.369/2008 del 05/11/2008
Camera di Consiglio del 08/10/2008, Presidente FLICK, Redattore MAZZELLA


Norme impugnate: Art. 45, c. 4°, della legge della Regione Lombardia 16/07/2007, n. 15.

Oggetto: Turismo - Regione Lombardia - Servizio di ospitalità turistica "bed and breakfast" - Previsione, in caso di esercizio dell'attività di "bed and breakfast" in edificio condominiale, della previa approvazione dell'assemblea di condominio.

Dispositivo: illegittimità costituzion ale
Atti decisi: ord. 99/2008
S.370/2008 del 05/11/2008
Udienza Pubblica del 21/10/2008, Presidente FLICK, Redattore NAPOLITANO


Norme impugnate: Art. 3 della legge della Regione Molise 05/05/2006, n. 5, come integrato dall'art. 12, c. 6°, della legge della Regione Molise 27/09/2006, n. 28.

Oggetto: Demanio e patrimonio marittimo dello Stato e delle Regioni - Legge della Regione Molise - Disciplina delle funzioni amministrative in materia di demanio marittimo e di zone di mare territoriale - Aree demaniali marittime della costiera molisana e delle antistanti zone del mare territoriale ricomprese nel Comune di Termoli, litorale sud - Individuazione e delimitazio ne - Criteri - Individuazione di tali aree tramite la linea di demarcazione determinata con verbale dell'11 dicembre 1984 della Capitaneria di porto di Pescara.

Dispositivo: illegittimità costituzionale
Atti decisi: ord. 94 e 95/2008
S.371/2008 del 05/11/2008
Udienza Pubblica del 21/10/2008, Presidente FLICK, Redattore QUARANTA


Norme impugnate: - Art. 1, c. 4°, 5°, 6°, 7°, 1° e 4° periodo, 10° e 11°, della legge 03/08/2007, n. 120.
- Art. 1 della legge 03/08/2007, n. 120.

Oggetto: Sanità pubblica - Servizio sanitario nazionale - Medici del servizio pubblico - Attività libero professionale intramuraria - Acquis izione di spazi ambulatoriali esterni, aziendali e pluridisciplinari - Acquisto, locazione, stipula di convenzioni, previo parere vincolante del Collegio di direzione o di una commissione paritetica a livello aziendale; Acquisizione di spazi ambulatoriali esterni, aziendali e pluridisciplinari - Ricorso a convenzioni - Limiti e termini; Garanzia di corretto esercizio nel rispetto di modalità indicate; Piano aziendale concernente i volumi di attività istituzionale e di attività libero-professionale intramuraria - Pubblicità ed informazione; Piano aziendale concernente i volumi di attività istituzionale e di attività libero-professionale intramuraria - Procedura di approvazione e consenso ministeriale; Esercizio di poteri sostitutivi e destituzione per grave inadempienza dei direttori generali delle aziende, policlinici ed istituti, da parte della Provincia e dello Stato; Attribuzione al Collegio di direzione o alla Commissione paritetica di sanitari del compito di dirimere le vertenze dei dirigenti sanitari.

- Iniziative volte ad assicurare gli interventi di ristrutturazione edilizia per garantire l'esercizio dell'attività libero-professionale; Previsione del termine perentorio del 31 gennaio 2009 per l'assunzione delle iniziative di ristrutturazione edilizia; Collaudo degli interventi di ristrutturazione edilizia da conseguirsi entro il termine del 31 gennaio 2009, a pena di risoluzione degli accordi di programma per il finanziamento statale alle Regioni; Possibilità di acquisizione di spazi ambulatoriali esterni, aziendali e pluridisciplinari per l'esercizio di attività sia istituzionali sia in regime di libera professione intramuraria, secondo modalità definite; Predisposizione di un piano aziendale concernente i volumi di attività istituzionale e di attività libero-professionale intramuraria, e relativa pubblicità e informazione; Presentazione, approvaz ione e operatività dei piani; Esercizio di poteri sostitutivi e destituzione dei direttori generali; Relazione al ministro per la salute; Uso di spazi e attrezzature dedicati all'attività istituzionale anche per l'attività libero-professionale intramuraria, per l'attività clinica e diagnostica ambulatoriale; Termine per le convenzioni relative all'acquisizione di strutture idonee allo svolgimento dell'attività libero-professionale intramuraria; Risoluzione, affidata al Collegio di direzione o alla commissione paritetica di sanitari, delle vertenze dei dirigenti sanitari in ordine all'attività libero-professionale; Specifica regolamentazione per l'effettuazione delle prestazioni veterinarie in regime libero-professionale intramurario; Attivazione di un Osservatorio nazionale; Non onerosità della costituzione e funzionamento delle commissioni paritetiche e del Collegio di direzione.

Dispositivo: illegittimità costituzionale - illegittimità costituzionale parziale - non fondatezza - inammissibilità
Atti decisi: ric. 42 e 44/2007
S.372/2008 del 05/11/2008
Udienza Pubblica del 23/09/2008, Presidente FLICK, Redattore TESAURO


Norme impugnate: Legge della Regione Campania 22/06/2007, n. 7.

Oggetto: Agricoltura e zootecnia - Norme della Regione Campania - Disposizioni per la valorizzazione, la promozione e il commercio della carne di bufalo campano - Riconoscimento del prodotto su base geografica effettuato dalla legge regionale anziché dalla Comunità europea.

Dispositivo: non fondatezza
Atti deci si: ric. 37/2007
S.373/2008 del 05/11/2008
Camera di Consiglio del 22/10/2008, Presidente FLICK, Redattore GALLO


Norme impugnate: Art. 10, c. 1°, lett. c), del decreto del Presidente della Repubblica 22/12/1986, n. 917.

Oggetto: Imposte e tasse - Ricorso avverso diniego di rimborso di IRPEF asseritamente non dovuta - Oneri deducibili dalla base imponibile IRPEF - Assegni periodici corrisposti al coniuge, su disposizione dell'autorità giudiziaria (in specie, provvedimento di modifica delle condizioni di divorzio), per il mantenimento dei figli - Omessa previsione della deducibilità dei detti assegni dalla base imponibile IRPEF.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 138/2008
O.374/2008 del 05/11/2008
Camera di Consiglio del 08/10/2008, Presidente FLICK, Redattore MADDALENA


Conflitto: Ammissibilità di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati 02/05/2007.

Oggetto: Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento penale nei confronti dei deputati Mario Borghezio, Umberto Bossi e altri imputati in concorso del reato di cui all'art. 1 del d.lgs. 14 febbraio 1948, n. 43 (formazione, costituzione, direzione e partecipazione ad associazione di carattere militare con scopi politici) - Deliberazione di insindacabil ità della Camera dei deputati

Dispositivo: ammissibile
Atti decisi: confl. pot. amm. 10/2008

pronuncia successiva

SENTENZA N. 368

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Giovanni Maria  FLICK             Presidente

- Francesco       AMIRANTE            Giudice

- Ugo             DE SIERVO               "

- Paolo           MADDALENA               "

- Alfio           FINOCCHIARO             "

- Alfonso         QUARANTA                "

- Franco          GALLO                   "

- Luigi           MAZZELLA                "

- Gaetano         SILVESTRI               "

- Sabino          CASSESE                 "

- Maria Rita      SAULLE                  "

- Giuseppe        TESAURO                 "

- Paolo Maria     NAPOLITANO              "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 2 ottobre 2007, n. 24 (Attuazione dell'articolo 24, paragrafo 6, dell'Accordo relativo agli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio-Accordo TRIPs), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 7 dicembre 2007, depositato in cancelleria il 17 dicembre 2007 ed iscritto al n. 49 del registro ricorsi 2007.

    Visto l'atto di costituzione della Regione Friuli-Venezia Giulia;

    udito nell'udienza pubblica del 7 ottobre 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;

    uditi l'avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Fausto Capelli e Giandomenico Falcon per la Regione Friuli-Venezia Giulia.

Ritenuto in fatto

    1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato il 7 dicembre 2007, depositato il successivo 17 dicembre, ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 2 ottobre 2007, n. 24 (Attuazione dell'articolo 24, paragrafo 6, dell'Accordo relativo agli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio-Accordo TRIPs), in riferimento agli artt. 11, 117, primo comma, della Costituzione, ed agli artt. 117, commi secondo, lettera r), e quinto, della Costituzione ed all'«art. 4, commi 1 e 2», della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia).

    La norma impugnata stabilisce: «Ai sensi dell'art. 117, quinto comma, della Costituzione, in attuazione  dell'art.  24, paragrafo 6, dell'Accordo relativo agli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio (Accordo TRIPs), ratificato in Italia con legge 29 dicembre 1994, n. 747, la denominazione "Tocai Friulano", patrimonio della vitivinicoltura regionale ormai da secoli, può continuare ad essere utilizzata dai produttori vitivinicoli della Regione Friuli-Venezia Giulia, anche dopo il 31 marzo 2007, per designare il vino, derivante dall'omonimo vitigno, che viene commercializzato all'interno del territorio italiano».

    2. - La difesa erariale premette che i regolamenti (CE) 29 aprile 2002, n. 753/2002 (Regolamento della Commissione che fissa talune modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 1493/1999 del Consiglio per quanto riguarda la designazione, la denominazione, la presentazione e la protezione di taluni prodotti vitivinicoli) e 9 agosto 2004, n. 1429/2004 (Regolamento della Commissione recante modifica del regolamento (CE) n. 753/2002 che fissa talune modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 1493/1999 del Consiglio per quanto riguarda la designazione, la denominazione, la presentazione e la protezione di taluni prodotti vitivinicoli) hanno stabilito che i produttori vitivinicoli italiani possono utilizzare la denominazione «Tocai Friulano» sino al 31 marzo 2007, confermando la prescrizio ne contenuta in tal senso nella Decisione del Consiglio del 23 novembre 1993, n. 93/724/CE (Decisione del Consiglio concernente la conclusione di un accordo tra la Comunità europea e la Repubblica d'Ungheria sulla tutela e il controllo reciproci delle denominazioni dei vini) (di seguito, Accordo del 1993), allo scopo di evitare di ingenerare nei consumatori confusione con la denominazione di origine ungherese «Tokaj».

      Il ricorrente dubita della compatibilità della disposizione impugnata con le citate norme comunitarie, esponendo che l'utilizzabilità della suindicata denominazione entro detti limiti, sostanzialmente, era stata stabilita anche dal decreto del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali del 26 settembre  2002 (Condizioni nazionali per l'utilizzo, in deroga al disposto dell'art. 19, paragrafo 1, lettera c, del regolamento (CE) n. 753/2002, dei nomi di varietà di vite o dei loro sinonimi comprendenti un'indicazione geografica, elencati nell'allegato II del citato regolamento, che possono figurare nell'etichettatura dei VQPRD e vini IGT italiani) .

    L'Avvocatura generale dello Stato dà conto di una serie di giudizi promossi innanzi al Tar del Lazio, aventi ad oggetto la legittimità di decreti concernenti la denominazione del vino prodotto con il vitigno Tocai, nel corso dei quali sono stati disposti rinvii pregiudiziali alla Corte di giustizia della Comunità europea, nonché di giudizi promossi, tra l'altro, dalla Regione Friuli-Venezia Giulia e dal Governo italiano davanti al Tribunale di primo grado delle Comunità europee, allo scopo di ottenere l'annullamento del regolamento (CE) 9 agosto 2004, n. 1429/2004.

    La Corte di giustizia, con sentenza 12 maggio 2005, C-347/03, ha ritenuto che l'art. 113 del Trattato CE costituisce idonea base giuridica del citato accordo tra la Comunità europea e la Repubblica d'Ungheria, escludendo la fondatezza dei dubbi prospettati, sotto molteplici profili, in sede di rinvio pregiudiziale, in ordine alla legittimità del divieto di utilizzazione della denominazione in esame da parte dei produttori italiani.

    Il Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali, con decreto del 28 luglio 2006 (Modificazioni al registro nazionale delle varietà di vite), in vista della scadenza della deroga per l'uso della denominazione «Tocai Friulano», ha iscritto nel registro delle varietà di viti il sinonimo «Friulano», su richiesta della  Regione Friuli-Venezia Giulia.

    Il decreto è stato impugnato da alcuni produttori innanzi al Tar del Lazio che, con ordinanze del 4 dicembre 2006, n. 6622/2006 e n. 6624/2006, ha sospeso l'efficacia del decreto, disponendo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia delle Comunità europee (Cause riunite C-23/07 e C-24/07).

    Il Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali, con istanza del 18 dicembre 2006, ha chiesto alla Commissione europea la proroga del citato termine del 31 marzo 2007, fino alla decisione del rinvio pregiudiziale disposto dal Tar del Lazio (cause riunite C-23/07 e C-24/07) e dei ricorsi proposti al Tribunale di primo grado.

    La Commissione europea, in data 19 dicembre 2006, ha presentato relazione al Consiglio nell'ambito del Comitato speciale agricoltura del 22 gennaio 2007, con la quale, benché abbia tenuto conto delle cause pendenti innanzi alla Corte di giustizia, ha manifestato l'intenzione di assicurare la protezione esclusiva alla indicazione geografica ungherese «Tokaj»; con la nota 16 febbraio 2007, n. 4568, ha confermato dette conclusioni, vietando l'uso del nome del vitigno «Tocai Friulano» per i vini italiani dopo il termine 31 marzo 2007.

    Il regolamento (CE) 4 aprile 2007, n. 382/2007 (Regolamento della Commissione recante modifica del regolamento (CE) n. 753/2002 che fissa talune modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 1493/1999 del Consiglio per quanto riguarda la designazione, la denominazione, la presentazione e la protezione di taluni prodotti vitivinicoli) ha soppresso le deroghe per l'uso del «Tocai Friulano» e del sinonimo «Tocai italico», inserendo il sinonimo «Friulano» per l'Italia, come richiesto dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali e come concordato con la Regione Friuli-Venezia Giulia in apposito protocollo d'intesa.

    Il  Ministro delle politiche agricole e forestali, in vista della vendemmia 2007, con decreto del 31 luglio 2007 (Disposizioni transitorie per l'uso del sinonimo «Friulano», della varietà di vite «Tocai Friulano», nella designazione e presentazione della relativa tipologia di vino a denominazione di origine della regione Friuli-Venezia Giulia), ha autorizzato, in via transitoria, fino alla decisione delle questioni pregiudiziali poste alla Corte di giustizia, l'uso del sinonimo «Friulano».

    2.1. - Posta questa premessa, il ricorrente deduce che la norma impugnata violerebbe gli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione.

    La difesa erariale osserva che l'art. 24, paragrafo 6, dell'Accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio (Accordo TRIPs) dispone: la «presente sezione non obbliga in alcun modo un membro ad applicarne le disposizioni  in  relazione ad un'indicazione geografica di qualsiasi altro membro  per vini per i quali la pertinente indicazione sia identica alla denominazione comune di una varietà d'uva esistente nel territorio di detto membro alla data di entrata in vigore dell'accordo OMC». 

    Pertanto, una parte contraente può mantenere  il nome di un vino, qualora sia eguale al nome del relativo vitigno. La Corte di giustizia, nel parere 14 novembre 1994, n. 1/94, ha qualificato l'Accordo TRIPS come «accordo misto», ritenendo in tal modo che la sua attuazione spetti sia alla Comunità europea, sia agli Stati  membri. Inoltre, i diritti di proprietà intellettuale oggetto di detto Accordo possono essere anche quelli previsti dagli ordinamenti nazionali degli Stati membri e, tra questi, rientrano anche le denominazioni che detti Stati possono adottare per i prodotti vitivinicoli, come previsto dal regolamento (CE) 17 maggio 1999, n. 1493/1999 (Regolamento del Consiglio relativo all'organizza zione comune del mercato vitivinicolo), il cui art. 52, paragrafo 1, stabilisce che solo gli Stati membri possono abbinare il nome di una varietà di vite alla zona geografica di produzione.

    Dunque, poiché il citato art. 24, paragrafo 6, si  riferisce anche agli Stati membri per le materie rientranti nella loro competenza, ogni Stato può applicare la disposizione in relazione alle proprie denominazioni di prodotti vitivinicoli, con la conseguenza che non sussisterebbe una competenza della Comunità europea, preclusiva dell'attuazione della stessa da parte di ogni Stato membro.

    La Corte di giustizia, con la sentenza 11 settembre 2007, C-431/05, ha affermato che nei casi in cui una disposizione dell'Accordo TRIPs debba applicarsi a materie rientranti nella competenza degli Stati membri, in quanto la Comunità europea non ha ancora legiferato o non ha legiferato a tal punto da far ritenere che la materia rientri in ambito comunitario, detta disposizione è applicabile nell'ordinamento interno, in primo luogo da parte del giudice nazionale, che può attribuirle efficacia diretta, in secondo luogo, mediante una norma nazionale, in terzo luogo, attraverso atti dell'amministrazione.

    Tuttavia, nella materia oggetto della legge regionale impugnata, la Comunità europea ha esercitato la propria competenza, emanando il regolamento (CE) n. 753/2002, modificato dal regolamento (CE) n. 382/2007, il quale, a seguito della adesione della Repubblica d'Ungheria alla Comunità europea, ha soppresso la norma transitoria relativa alla utilizzazione della denominazione «Tocai Friulano», inserendo la deroga per l'uso del sinonimo «Friulano».

    In conclusione, l'Unione europea, dal 1° aprile 2007, non consente la coesistenza delle denominazioni «Tocai friulano» (per i vini di produzione italiana) e «Tokaj» (per i vini di produzione ungherese), ed ha stabilito la protezione esclusiva della indicazione geografica ungherese, con conseguente illegittimità costituzionale della legge regionale impugnata.

    2.2. - Secondo il ricorrente, la legge regionale in esame violerebbe anche l'art. 117, secondo comma, lettera r), e quinto, della Costituzione e l'«art. 4, commi 1 e 2», dello statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia.

    La competenza ad esercitare la facoltà prevista dall'art. 24, paragrafo 6, dell'Accordo TRIPs spetterebbe allo Stato. La formula «opere dell'ingegno» (art. 117, secondo comma, lettera r, Cost.) sarebbe omologa a «proprietà intellettuale», spesso utilizzata in alternativa a «proprietà industriale», che indica beni immateriali, che possiedono «un'autonomia esistenziale propria, a prescindere dal prodotto stesso». D'altronde, sarebbe irragionevole un'interpretazione che limitasse la formula «opere dell'ingegno» al solo diritto d'autore, in quanto essa è idonea a comprendere tutti i beni immateriali, i quali, anche in virtù del principio di territorialità, devono avere eguale efficacia ed identica disciplina sull'intero territo rio nazionale.

    La riconducibilità della denominazione in esame alla materia «proprietà intellettuale (o industriale)», confermata dal fatto che la relativa regolamentazione si interseca con la disciplina dei marchi (in particolare dei marchi geografici e dei marchi collettivi), sarebbe altresì confortata: dall'Accordo TRIPs, ratificato con legge  29  dicembre 1994, n. 747 (Ratifica ed esecuzione degli atti concernenti i risultati dei negoziati dell'Uruguay Round, adottati a Marrakech il 15 aprile 1994), che, nel Capo II, contiene una Sezione, la III (artt. 22-24), dedicata alle indicazioni geografiche; dal decreto legislativo 19 marzo 1996, n. 198 (Adeguamento della legis lazione interna in materia di proprietà industriale alle prescrizioni obbligatorie dell'accordo relativo agli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale concernenti il commercio-Uruguay Round), il cui capo VI è intitolato «Disciplina delle indicazioni  geografiche»; dall'art. 1 del decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 (Codice della proprietà industriale, a norma dell'art. 15 della legge 12 dicembre 2002, n. 273), nel quale si precisa che l'espressione proprietà industriale comprende anche le indicazioni geografiche e le denominazioni di origine.

    Le denominazioni protette costituiscono istituti di diritto industriale - riconducibili ai diritti di monopolio - che attribuiscono un diritto di esclusiva, la cui violazione, secondo la giurisprudenza, integra ipotesi di concorrenza sleale, per appropriazione di pregi (art. 2598, numero 2, del codice civile), ovvero per violazione dei principi di correttezza professionale (art. 2598, numero 3, del codice civile).

    Inoltre, questa Corte ha dato della materia «tutela della concorrenza» una nozione che rende legittime le norme statali che interferiscono con materie riconducibili alla competenza legislativa delle Regioni, concorrente o residuale; la sentenza numero 14 del 2004, ha affermato che la politica agricola spetta alla competenza esclusiva dello Stato, appunto in quanto riconducibile alla «tutela della concorrenza», mentre la sentenza numero 272 del 2004 ha ritenuto legittime le norme che recano una disciplina dettagliata ed autoapplicativa dei servizi pubblici locali, poiché strumentali a garantire la libertà di concorrenza.

    Infine, dovrebbe escludersi che la norma impugnata, siccome avente ad oggetto le indicazioni geografiche di prodotti agricoli, rientri nella materia dell'agricoltura, spettante alla Regione Friuli-Venezia Giulia, in virtù dell'art. 4, comma primo, n. 2, dello statuto speciale, anche tenendo conto che la Corte di giustizia, con la sentenza 12 maggio 2005, C-347/03, ha ricondotto l'Accordo del 1993 stipulato tra Comunità europea e Repubblica d'Ungheria alla organizzazione comune di mercato vitivinicolo, non sussistendo coincidenza tra le competenze costituzionali nazionali e quelle comunitarie.

    In conclusione, anche qualora si ritenga che la Comunità Europea non abbia esercitato la facoltà di scelta riconosciuta dall'art. 24, paragrafo 6, dell'Accordo TRIPs, la competenza nella materia oggetto della norma impugnata spetterebbe allo Stato.

    3. - Si è costituita nel giudizio la Regione Friuli-Venezia Giulia, in persona del Presidente della Giunta Regionale pro-tempore, che ha eccepito l'inammissibilità e l'infondatezza delle questioni, svolgendo gli argomenti a conforto di dette conclusioni in una memoria depositata in prossimità dell'udienza pubblica ed articolata in tre parti.

    3.1. - In sintesi, la resistente, nella prima parte della memoria, premette riferimenti «storici», «poetici e letterari» e «geografici», diretti a dimostrare la notorietà del vino «Tocai» sin dal 1600 e la circostanza che questo toponimo è presente nelle mappe militari austriache sin dal 1763, per indicare un borgo, un ruscello e una collina siti nella Regione Friuli-Venezia Giulia.

    La resistente ripercorre la storia della denominazione «Tocai friulano», per dimostrare che è stata utilizzata da tempo risalente ed è coesistita con l'omonima denominazione ungherese, senza che ciò abbia dato luogo a rischi di confusione (al riguardo, sono richiamati numerosi atti - tra i quali, l'Arrangement di Lisbona del 31 ottobre 1958, nel testo riveduto a Stoccolma nel 1967, ratificato con legge 4 luglio 1967, n. 676, recante «Ratifica ed esecuzione dei seguenti atti internazionali, firmati a Lisbona il 31 ottobre 1958: a) Convenzione di Parigi per la protezione della proprietà industriale del 20 marzo 1883, riveduta successivamente a Bruxelles, a Washington, a l'Aja, a Londra e a Lisbona; b) Accordo di Madrid per la repressione d elle indicazioni di provenienza false o fallaci del 14 aprile 1891, riveduto successivamente a Washington, a l'Aja, a Londra e a Lisbona; c) Accordo di Lisbona per la protezione e la registrazione internazionale delle denominazioni di origine»; il Bollettino n. 210 del 1948 dell'Office International du Vin; il decreto del Presidente della Repubblica 24 dicembre 1969, n. 1164; i regolamenti 16 dicembre 1981, n. 3800/81, recante  «Regolamento della Commissione che stabilisce la classificazione delle varietà di viti», e 16 ottobre 1990, n. 3201/90, recante «Regolamento della Commissione recante modalità di applicazione per la designazione e la presentazione dei vini e dei mosti di uve» - e la sentenza della Corte di cassazione 30 aprile 1962, n. 1659).

    A suo avviso, soltanto «per motivi rimasti oscuri, che possono essere unicamente spiegati con gli sconvolgimenti politici intervenuti in Italia nella prima metà degli anni '90», il Governo Italiano avrebbe consentito all'Accordo del 1993, che ha precluso ai produttori italiani l'uso della denominazione «Tocai».

    La resistente offre poi una propria ricostruzione della genesi dell'Accordo da ultimo citato, per contestarne la legittimità; espone le ragioni che dovrebbero far dissentire dalla sentenza della Corte di giustizia del 12 maggio 2005, C-347/03 e dubitare della legittimità del regolamento (CE) n. 1429/2004, impugnato da essa istante e dalle Associazioni dei produttori friulani, con due ricorsi dichiarati irricevibili dal Tribunale di primo grado (ordinanze 12 marzo 2007, T-417/04 e T-418/04), nonché dallo Stato italiano (ricorso quest'ultimo non deciso, benché sia stata rigettata la domanda cautelare con l'ordinanza 12 marzo 2007, T-431/04); prende in esame l'ordinanza della Corte di giustizia 12 giugno 2008, C-23/07 e C-24/07, che ha ribadito i principi affermati nella sentenza 12 maggio 2005, C-347/03.

    3.2. - La Regione, nella seconda parte della memoria, approfondisce il profilo della tutela della denominazione «Tocai friulano» in base all'Accordo TRIPs, ricostruendo la giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di rapporti tra disposizioni dell'OMC (Organizzazione mondiale del commercio) e diritto comunitario; sviluppa la propria tesi in ordine alle ragioni che avrebbero indotto detta Corte a negare l'efficacia diretta dell'Accordo TRIPs e svolge argomenti per dimostrare che il citato indirizzo non sarebbe applicabile nella presente fattispecie.

    A suo avviso, l'Accordo del 1993 non avrebbe attribuito alla Comunità europea il potere di creare o sopprimere un'indicazione geografica relativa ad un vino, conferitole, per la prima volta, con il regolamento (CE) 29 aprile 2008, n. 479/2008 (Regolamento del Consiglio relativo all'organizzazione comune del mercato vitivinicolo, che modifica i regolamenti (CE) n. 1493/1999, (CE) n. 1782/2003, (CE) n. 1290/2005 e (CE) n. 3/2008 e abroga i regolamenti (CEE) n. 2392/86 e (CE) n. 1493/1999), che ciò permette in riferimento a denominazioni in precedenza registrate all'interno degli Stati.

    La Regione deduce che l'art. 24, paragrafo 6, dell'Accordo TRIPs permetterebbe agli Stati membri dell'Unione europea di mantenere come denominazione di un vino il nome del relativo vitigno, senza pretendere di esportarlo al di fuori del proprio territorio, e ricorda le iniziative assunte anche dallo Stato italiano in sede comunitaria, per sostenere questa tesi. Pertanto, osserva testualmente, «se il Governo desse attuazione, con un proprio provvedimento, all'art. 24, paragrafo 6, dell'Accordo TRIPs, la Regione Friuli-Venezia Giulia non avrebbe alcuna difficoltà a rinunciare alla citata legge n. 24/2007».

    Secondo la resistente, dal ricorso traspare il timore del Governo italiano di incorrere in sanzioni comunitarie che, tuttavia, sarebbe infondato. La norma impugnata concernerebbe la materia agricoltura, anche in quanto l'Accordo del 1993 neppure riguardava la creazione o la soppressione della denominazione di un vino, poiché, se ciò fosse stato, avrebbe avuto ad oggetto la materia della proprietà intellettuale, quindi sarebbe stata necessaria la sua ratifica da parte di tutti gli Stati membri. Siffatta conclusione sarebbe confortata dalla constatazione che i decreti relativi alla denominazione sono stati adottati dal Ministero delle politiche agricole e forestali, con la conseguenza che la norma concernerebbe appunto una materia attribuita alla competenza legislativa di tipo esclusivo d ella Regione Friuli-Venezia Giulia.

    3.3. - La Regione, nella terza parte della memoria, contesta specificamente le censure svolte dal ricorrente e, in riferimento alla prima delle due questioni sollevate, sulla scorta delle argomentazioni sopra sintetizzate, sostiene che spetta agli Stati membri dell'Unione europea l'attuazione all'art. 24, paragrafo 6, dell'Accordo TRIPs.

    A suo avviso, la seconda questione sarebbe infondata, in quanto la norma impugnata non concernerebbe la materia «opere dell'ingegno», poiché difetta il carattere «creativo» del segno, e neppure avrebbe ad oggetto la disciplina di profili concernenti la proprietà industriale, dato che «Tocai friulano» non sarebbe una indicazione geografica o una denominazione di origine.

    La norma riguarderebbe le materie agricoltura e commercio, come si evincerebbe dai regolamenti comunitari e dai decreti adottati dal Ministero delle politiche agricole e forestali sopra richiamati, nonché dalle sentenze di questa Corte n. 371 del 2001 e n. 106 del 2006. Siffatta tesi sarebbe confortata dall'esame della disciplina delle denominazioni d'origine dei mosti e dei vini (ripercorsa nella memoria), mentre questa Corte, sebbene con la sentenza n. 171 del 1971 abbia sottolineato che la tutela della denominazione di origine dei vini non è completamente compresa nella materia agricoltura, e con la sentenza n. 333 del 1995 abbia dichiarato di spettanza dello Stato la definizione del procedimento per il riconoscimento della denominazione di origine dei vini, ha tuttavia ritenuto incensurabi le il decreto del Presidente della Repubblica 20 aprile 1994, n. 348, che aveva ampliato le competenze delle Regioni, affermando quindi la competenza dello Stato soltanto per la sussistenza di esigenze unitarie, e cioè di un interesse nazionale. Siffatte esigenze, nella specie, sarebbero insussistenti, poiché la norma autorizza l'uso della denominazione in esame soltanto nel territorio italiano, senza riflessi sul commercio internazionale e, comunque, il limite dell'interesse nazionale è venuto meno, a seguito della riforma del Titolo V della Costituzione.

    In ogni caso, poiché in virtù dell'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, le norme del Titolo V della parte seconda della Costituzione sono applicabili anche alle Regioni a statuto speciale, qualora prevedano forme di autonomia più ampia, la competenza della Regione Friuli-Venezia Giulia in materia di agricoltura neanche potrebbe ritenersi soggetta al limite dell'interesse nazionale.

    Infine, la circostanza che le denominazioni di origine sono tutelate anche come proprietà industriale non comporta che non siano riconducibili alle materie agricoltura e commercio, restando esclusa la possibilità di evocare la materia «tutela della concorrenza»; in ogni caso, la norma impugnata non pregiudicherebbe, né limiterebbe la concorrenza.

    3.3.1. - Infine, la Regione eccepisce l'inammissibilità delle censure riferite agli artt. 11 e 117, quinto comma, Cost., in quanto generiche.

    La seconda questione sarebbe, invece, inammissibile, poiché il ricorrente non ha esposto gli argomenti che dovrebbero far ritenere applicabile ad una Regione a statuto speciale l'art. 117, secondo comma, lettere e) ed r), Cost. (peraltro, il richiamo alla lettera e non sarebbe stato operato indicando espressamente la norma costituzionale). Il riferimento alla materia «tutela della concorrenza» sarebbe, inoltre, generico e, comunque, a questa non fa riferimento la delibera del Consiglio dei ministri che ha autorizzato l'impugnazione della norma; la censura relativa all'art. 4 dello statuto sarebbe, infine, inammissibile per genericità, in quanto il ricorso non esporre bbe compiutamente le ragioni per escludere che la norma in esame sia riconducibile alla materia «agricoltura».

    4. - All'udienza pubblica le parti hanno insistito per l'accoglimento delle conclusioni da ciascuna formulate nelle difese scritte.

Considerato in diritto

    1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale, in via principale, dell'art. 1 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 2 ottobre 2007, n. 24 (Attuazione dell'articolo 24, paragrafo 6, dell'Accordo relativo agli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio-Accordo TRIPs), in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, ed agli artt. 117, commi secondo, lettera r), e quinto, della Costituzione ed all'«art. 4, commi 1 e 2», (recte: art. 4, comma primo, n. 2) della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Ven ezia Giulia).

    La norma impugnata stabilisce: «Ai sensi dell'art. 117, quinto comma, della Costituzione, in attuazione  dell'art.  24, paragrafo 6, dell'Accordo relativo agli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio (Accordo TRIPs), ratificato in Italia con legge 29 dicembre 1994, n. 747, la denominazione "Tocai Friulano", patrimonio della vitivinicoltura regionale ormai da secoli, può continuare ad essere utilizzata dai produttori vitivinicoli della Regione Friuli-Venezia Giulia, anche dopo il 31 marzo 2007, per designare il vino, derivante dall'omonimo vitigno, che viene commercializzato all'interno del territorio italiano».

    2. - Ad avviso del ricorrente, la norma impugnata violerebbe gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in quanto la Comunità europea ha stabilito che i produttori vitivinicoli italiani possono utilizzare solo sino al 31 marzo 2007 la denominazione «Tocai Friulano», per i vini prodotti nelle Regioni Veneto e Friuli-Venezia Giulia.

    Siffatta prescrizione è stata stabilita dai seguenti atti: Decisione del Consiglio del 23 novembre 1993, n. 93/724/CE (Decisione del Consiglio concernente la conclusione di un accordo tra la Comunità europea e la Repubblica d'Ungheria sulla tutela e il controllo reciproci delle denominazioni dei vini); regolamenti (CE) 29 aprile 2002, n. 753/2002 (Regolamento della Commissione che fissa talune modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 1493/1999 del Consiglio per quanto riguarda la designazione, la denominazione, la presentazione e la protezione di taluni prodotti vitivinicoli) e 9 agosto 2004, n. 1429/2004 (Regolamento della Commissione recante modifica del regolamento (CE) n. 753/2002 che fissa talune modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 1493/1999 del Consigli o per quanto riguarda la designazione, la denominazione, la presentazione e la protezione di taluni prodotti vitivinicoli).

    Il regolamento (CE) 4 aprile 2007, n. 382/2007 (Regolamento della Commissione recante modifica del regolamento (CE) n. 753/2002 che fissa talune modalità di applicazione del regolamento (CE) n. 1493/1999 del Consiglio per quanto riguarda la designazione, la denominazione, la presentazione e la protezione di taluni prodotti vitivinicoli) ha, infine, soppresso le deroghe per l'uso della denominazione «Tocai Friulano» e del sinonimo «Tocai italico», inserendo il sinonimo «Friulano» per l'Italia, come richiesto dal Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali.

    Inoltre, secondo la difesa erariale, sebbene l'art. 24, paragrafo 6, dell'Accordo sugli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio (Accordo TRIPs) permetta agli Stati di conservare, quale denominazione di un vino, quella corrispondente ad un'indicazione geografica concernente il vino prodotto in un altro Stato, qualora sia eguale al nome del vitigno da cui esso deriva, nella materia oggetto della norma impugnata la Comunità europea ha esercitato la propria competenza, vietando, a far data dal 1° aprile 2007, la coesistenza delle denominazioni «Tocai Friulano», per i vini di produzione italiana, e «Tokaj», per i vini di produzione ungherese, stabilendo in tal modo la protezione esclusiva della indicazione geografica ungherese «Tokaj», con conseguente illegittimit&agra ve; costituzionale della norma impugnata.

    La Regione Friuli-Venezia Giulia ha eccepito l'inammissibilità e l'infondatezza della questione, svolgendo una serie di argomenti diretti, sostanzialmente, a contestare la legittimità e la validità del divieto stabilito dalle norme comunitarie, contestazioni queste ultime respinte da tre pronunce della Corte di giustizia delle Comunità europee (sentenza 12 maggio 2005, C-347/03; ordinanza 11 maggio 2006, C-231/04; ordinanza 12 giugno 2008, C 23/07 e C 24/07).

    Inoltre, il Tribunale di primo grado delle Comunità europee ha dichiarato irricevibili due ricorsi aventi ad oggetto una domanda di annullamento della disposizione che limita al 31 marzo 2007 il diritto di utilizzare il nome «Tocai Friulano», inserito, sotto forma di nota esplicativa, al punto 103 dell'allegato I del Regolamento 9 agosto 2004, n. 1429, ricorsi proposti, rispettivamente, dalla Regione Friuli-Venezia Giulia e da alcune associazioni, società e produttori di questa Regione  (ordinanze del 12 marzo 2007, T-417/04 e T-418/04).

    Lo stesso Tribunale ha respinto la domanda, proposta dalla Repubblica italiana, avente ad oggetto la richiesta di provvedimenti provvisori mirante ad ottenere, in via principale, la sospensione dell'esecuzione della disposizione che limita al 31 marzo 2007 il diritto di utilizzare la denominazione «Tocai Friulano» contenuta nella citata nota esplicativa (ordinanza del 18 giugno 2007, T-431/04).

    Il regolamento (CE) 29 aprile 2008, n. 479/2008 (Regolamento del Consiglio relativo all'organizzazione comune del mercato vitivinicolo, che modifica i regolamenti (CE) n. 1493/1999, (CE) n. 1782/2003, (CE) n. 1290/2005 e (CE) n. 3/2008 e abroga i regolamenti (CEE) n. 2392/86 e (CE) n. 1493/1999), sopravvenuto nel corso del giudizio, neppure ha introdotto elementi di significativa novità, rilevanti in ordine a detta questione. Da ultimo, il decreto ministeriale 25 settembre 2008 (Cessazione degli effetti del decreto 11 febbraio 2008, recante disposizioni transitorie per l'uso della varietà di vite «Tocai Friulano» e del sinonimo «Friulano» nella designazione e presentazione della relativa tipologia di vino, dei vini a denominazione di origine della regione Friuli-Venezia Giulia, e l'adozione de lle disposizioni definitive per l'uso del sinonimo "Friulano"), sulla dichiarata premessa di dare esecuzione all'ordinanza della Corte di giustizia del 12 giugno 2008, C-23/07 e C-24/07, reca «le opportune disposizioni nazionali al fine di consentire in termini definitivi l'utilizzo del sinonimo "Friulano" nella designazione e presentazione dei vini a denominazione di origine della regione Friuli-Venezia Giulia».

    3. - Secondo il ricorrente, la norma impugnata violerebbe, altresì, l'art. 117, commi secondo, lettera r), e quinto, Cost., nonché l'art. 4, comma primo, n. 2, dello statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia.

    A suo avviso, la disciplina della denominazione in esame non concernerebbe la materia «agricoltura», ma quella «opere dell'ingegno». Peraltro, quest'ultima locuzione sarebbe omologa a «proprietà intellettuale», spesso utilizzata in alternativa a «proprietà industriale», che comprende la regolamentazione dei segni distintivi dei prodotti, delle indicazioni geografiche e delle denominazioni di origine. Inoltre, la violazione di detti segni rileverebbe sul piano del diritto civile e la disciplina stabilita dalla norma impugnata sarebbe riconducibile anche alla materia «tutela della concorrenza».

    Tale questione deve essere esaminata per prima.

    Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, le norme comunitarie integrano il parametro per la valutazione di conformità della norma regionale agli artt. 117, primo comma, e 11 Cost. (quest'ultimo inteso quale principio fondamentale), che ineriscono «non già alla violazione della competenza statale, ma all'inosservanza dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario», quindi riguardano anche le Regioni a statuto speciale (tra le più recenti, sentenze n. 102 del 2008; n. 62 del 2008).

    Ne consegue che le censure dirette a contestare il potere della Regione di emanare la norma impugnata, in base alle regole che disciplinano il riparto interno delle competenze, hanno carattere preliminare, sotto il profilo logico-giuridico, rispetto a quelle che denunciano il vizio oggetto della prima questione.

    3.1. - In via preliminare, devono essere esaminate le eccezioni di inammissibilità della questione, sollevate dalla Regione con riferimento ai parametri evocati dal ricorrente.

    La difesa erariale contesta che la norma statutaria che attribuisce alla competenza della Regione Friuli-Venezia Giulia la materia «agricoltura» costituisca idonea base giuridica della disposizione impugnata. Il riferimento, della stessa difesa, anche all'art. 117, secondo comma, lettera r), Cost., nonché - implicitamente, ma univocamente - alle lettere e) («tutela della concorrenza») ed l) («ordinamento civile», mediante la descrizione di alcuni degli effetti della violazione del segno) del medesimo comma, risulta effettuato al chiaro scopo di dimostrare che la norma impugnata non concerne la materia «agricoltura», tenuto anche conto che, nel corso dei lavori preparatori, la sua adozione era stata giustificata proprio invocando la «competenza esclusiva [della Regione Friuli-Venezia Giulia] in materia di agricoltura e [la] competenza concorrente nelle materie elencate all'articolo 117 della Costituzione» (Relazione della V Commissione permanente del Consiglio Regionale, FZ/AL, n. 235-A).

    Interpretato il ricorso in detti termini, è infondata l'eccezione di inammissibilità della questione, sollevata sotto il duplice profilo dell'inapplicabilità dell'art. 117, secondo comma, Cost., e della mancata indicazione del parametro dell'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. nella delibera di autorizzazione del Consiglio dei ministri all'impugnazione della norma (non occorrendo, quindi, approfondire se detta indicazione sia vincolante per la difesa erariale).

    Inoltre, l'ampiezza delle argomentazioni svolte  a conforto della irriconducibilità alla materia «agricoltura» della disciplina stabilita dalla norma impugnata, sviluppate anche mediante il richiamo, in funzione descrittiva, delle materie elencate nell'art. 117, secondo comma, Cost., rende palese l'infondatezza dell'eccezione di inammissibilità della questione per asserito difetto di una adeguata motivazione a sostegno dell'impugnazione.

    L'indicazione dell'art. 117, quinto comma, Cost., contenuta nella parte finale del ricorso, è infine corretta; detto parametro riguarda, infatti, anche le Regioni a statuto speciale (sentenza n. 239 del 2004) ed il suo richiamo è stato svolto allo scopo di contestare il potere della Regione di attuare l'Accordo TRIPs, in riferimento ad una materia nella quale essa non ha competenza legislativa.

    3.2. - Nel merito, la questione è fondata.

    Occorre anzitutto identificare la materia nella quale si colloca la disposizione impugnata, avendo riguardo all'oggetto ed alla disciplina dalla stessa stabilita, per ciò che dispone, alla luce della sua ratio, tralasciando gli aspetti marginali e gli effetti riflessi, così da identificare correttamente e compiutamente l'interesse tutelato (sentenza n. 165 del 2007).

    Ebbene, la norma censurata, attribuendo ai produttori vitivinicoli della Regione Friuli-Venezia Giulia la facoltà di utilizzare la denominazione «Tocai Friulano» per designare il vino commercializzato all'interno del territorio italiano, ha senza dubbio  ad oggetto la disciplina di un segno distintivo di tale prodotto, indipendentemente dalla esatta qualificazione che di esso può darsene.

    L'elemento caratterizzante della regolamentazione dei segni distintivi è stato individuato da questa Corte, sin dalla sentenza n. 44 del 1967, nella circostanza che «la disciplina dei marchi (assunto questo termine in un senso generico, comprensivo dei vari istituti designati dalla vigente legislazione con denominazioni molteplici, come quelle di marchi di impresa, marchi collettivi, denominazioni di origine, o denominazioni di provenienza, e con funzioni in parte diverse, e cioè o prevalentemente di tutela dei produttori contro la concorrenza sleale, o invece di certificazione della qualità del prodotto avente lo scopo, almeno in via principale, di garanzia del consumatore)». Pertanto, la relativa disciplina ha «riflessi [.] nel commercio internazionale ed in quello comunitario», anche in quanto la Regione «non costituisce un mercato chiuso».

    In seguito, è stato precisato che «la tutela della denominazione di origine dei vini non può essere disposta che in modo unitario sul piano nazionale», in considerazione appunto della «complessità degli interessi connessi alla produzione e distribuzione di vini pregiati, tali da indurre ad escludere che la materia sia completamente ricompresa in quella propria dell'agricoltura, di competenza regionale» (sentenze n. 333 del 1995 e n. 171 del 1971).

    Da ultimo, dopo la riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, la disciplina dei segni distintivi è stata ricondotta anche alla «tutela della concorrenza» (sentenza n. 175 del 2005, in riferimento al marchio «made in Italy»), materia di competenza esclusiva dello Stato. Inoltre, una norma regionale avente ad oggetto la promozione di certificazioni di qualità di un determinato prodotto ittico catturato dalla marineria della Regione Abruzzo, ovvero allevato in impianti dislocati nel territorio della medesima, è stata giudicata non censurabile, in riferimento, tra gli altri, all'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., soltanto in quanto non istituiva, né disciplinava un marchio identificativo di un prodotto, ma si limitava a prevedere forme di incentivazione di quest'ultimo, del quale non erano indicate o protette particolari qualità o caratteristiche tipologiche (sentenza n. 213 del 2006).

    3.2.1. - L'incidenza della disciplina del segno con il quale è commercializzato il vino su una molteplicità di interessi eccedenti la materia «agricoltura» è stata, peraltro, costantemente rilevata anche dalla Corte di giustizia delle Comunità europee. Il giudice comunitario ha, in particolare, sottolineato che la «normativa comunitaria in materia di designazione e presentazione dei vini ha l'obiettivo di conciliare la necessità di fornire al consumatore finale un'informazione esatta e precisa sui prodotti interessati con quella di proteggere i produttori sul loro territorio contro le distorsioni della concorrenza» (sentenza 12 maggio 2005, C-347/05); ed ha precisato che «le denominazioni di origine rientrano nel campo dei diritti di proprietà industriale e commerci ale» (sentenza 16 maggio 2000, C-388/95).

    3.2.2. - La giurisprudenza di questa Corte ha, dunque, affermato la sostanziale convergenza della disciplina di tutti i segni distintivi (comprese le indicazioni geografiche e le denominazioni d'origine) verso una identica funzione e la molteplicità degli interessi dalla stessa  tutelati. Si tratta di una convergenza agevolmente desumibile dalle norme nazionali che, tra l'altro, di recente hanno ricondotto alla «proprietà industriale» i molteplici segni distintivi, stabilendo il principio dell'unitarietà degli stessi (artt. 1 e 22 del d.lgs. n. 30 del 2005), in quanto tutti costituiscono mezzi di designazione e presentazione di un prodotto, occorrendo che la loro regolamentazione sia ispirata al divieto di inganno dei consumatori, alla tutela degli imprenditori ed all'esigenza di garantire la corretta e libera esplicazione dell'iniziativa economica. Peraltro, i riflessi della disciplina sul corretto svolgimento della concorrenza tra imprenditori (quindi sul piano civilistico) sono rilevabili sin dal decreto del Presidente della Repubblica 12 luglio 1963, n. 930 (Norme per la tutela delle denominazioni di origine dei mosti e dei vini), mentre l'interferenza con la materia agricoltura, benché giustifichi, in riferimento ad alcuni profili, il coinvolgimento delle Regioni, non esclude che gli interessi oggetto della disciplina istitutiva di un segno distintivo del prodotto eccedano tale materia.

    In questa parte, le norme nazionali sono in armonia con le norme comunitarie che, nella specifica materia dei segni che contraddistinguono i vini, mirano ad «incoraggiare la concorrenza leale e non trarre in inganno i consumatori» (regolamento (CE) del 29 aprile 2008, n. 479/2008, si veda, in particolare, il 32° considerando e l'art. 33, paragrafo 2; in precedenza, si veda, il regolamento (CE) 17 maggio 1999, n. 1493/1999, 54° considerando e l'art, 47, paragrafo 1).

    Analogamente, avendo riguardo alle norme internazionali, è sufficiente ricordare che le indicazioni geografiche - tutelate e ricondotte alla proprietà industriale, unitamente alle denominazioni di origine, in virtù di una risalente tradizione (Convenzione di Parigi per la protezione della propriètà industriale del 20 marzo 1883, ratificata, nelle versioni successivamente rivedute, unitamente all'Accordo di Lisbona per la protezione e la registrazione internazionale delle denominazioni di origine del 31 ottobre 1958, con legge 4 luglio 1967, n. 676) - di recente sono state sistemate all'interno di un Trattato avente ad oggetto la proprietà intellettuale «a reciproco vantaggio dei produttori e degli utilizzatori di conoscenze tecnologiche e in modo da favorire il bene ssere sociale ed economico, nonchè l'equilibrio tra diritti e obblighi» (artt. 7 dell'Allegato 1-C dell'Accordo TRIPs).

    3.2.3. - In definitiva, indipendentemente dall'esatta configurazione del segno distintivo in esame e dalla categoria alla quale esso è riconducibile, è palese che la norma impugnata, in considerazione del suo contenuto e del suo obiettivo, incide su molteplici interessi: dei produttori, dei consumatori, della collettività al rispetto del principio di verità, del corretto svolgimento della concorrenza, interferendo in tal modo in una molteplicità di materie. Siffatta interferenza va composta facendo ricorso al criterio della prevalenza (tra le molte, sentenze n. 165 del 2007; n. 422 e n. 81 del 2006), che è qui applicabile, poiché risulta evidente l'appartenenza del nucleo essenziale della disciplina a materie diverse dall'agricoltura (tutela della concorrenza , ordinamento civile), nessuna delle quali è attribuita alla resistente, con conseguente illegittimità della norma impugnata.

    Restano assorbiti gli ulteriori profili e la questione sollevata in riferimento agli altri parametri costituzionali sopra indicati.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 2 ottobre 2007, n. 24 (Attuazione dell'articolo 24, paragrafo 6, dell'Accordo relativo agli aspetti dei diritti di proprietà intellettuale attinenti al commercio-Accordo TRIPs).

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 novembre 2008.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 novembre 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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SENTENZA N. 369< o:p>

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Giovanni Maria  FLICK       Presidente

- Francesco       AMIRANTE      Giudice

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 45, comma 4, della legge della Regione Lombardia 16 luglio 2007, n. 15 (Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo), promosso con ordinanza del 23 gennaio 2008 dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia sul ricorso proposto da Lauro Laura contro il Comune di Milano ed altro, iscritta al n. 99 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell'anno 2008.

      Udito nella camera di consiglio dell'8 ottobre 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella.

Ritenuto in fatto

      Con ordinanza del 23 gennaio 2008, il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia ha sollevato, con riferimento agli artt. 3 e 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 45, comma 4, della legge della Regione Lombardia 16 luglio 2007, n. 15 (Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo).

      Il Tribunale, nel corso di un giudizio amministrativo di impugnazione di un atto del Comune di Milano, riferisce che la ricorrente, proprietaria di un'unità immobiliare, la quale aveva presentato denuncia di inizio attività per l'apertura di un'attività di bed & breakfast nel proprio appartamento, era stata invitata dal Comune a produrre l'autorizzazione condominiale richiesta dall'art. 16-bis della legge della Regione Lombardia 28 aprile 1997, n. 12 (Nuova classificazione delle aziende alberghiere e regolamentazione della case ed appartamenti per vacanze), poi sostituito dall'art. 45, comma 4, della legge reg. n. 15 del 2007, e che la stessa, non avendo potuto ottemperare a tale adempim ento, si era vista respingere la chiesta autorizzazione. La ricorrente, pertanto, era insorta contro il provvedimento del Comune di diniego della autorizzazione, dolendosi che il regolamento condominiale non precludeva il servizio di bed & breakfast e deducendo l'eccesso di potere per travisamento, la violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, la violazione degli artt. 3 e 42, secondo comma, della Costituzione, nonché la violazione del principio di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione.

      Secondo il Tribunale lombardo, l'art. 45 della legge reg. n. 15 del 2007 (che sostituisce l'analogo art. 16-bis della legge regionale n. 12 del 1997), nella parte in cui condiziona all'approvazione dell'assemblea condominiale lo svolgimento dell'attività di bed & breakfast in appartamenti situati in edifici condominiali, violerebbe in primo luogo l'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. Invero, secondo il rimettente, la norma censurata, prevedendo l'obbligo dell'approvazione dell'assemblea dei condomini per l'esercizio di attività non comportante mutamento di destinazione d'uso, integrerebbe la disciplina del codice civile con un precetto ad essa e straneo e si ingerirebbe nella materia dei rapporti condominali tra privati, che, attenendo all'ordinamento civile, è riservata alla legislazione esclusiva dello Stato dall'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.

      Secondo il rimettente, poi, la norma regionale - subordinando al permesso dell'assemblea condominiale l'esercizio dell'attività di bed & breakfast (art. 45) e non di quella di affittacamere (artt. 41 e 42), nonostante quest'ultima, avendo ad oggetto un maggior numero di posti letto, può essere rivolta ad una clientela più ampia - riserverebbe un trattamento deteriore per un'attività (quella di bed & breakfast) meno invasiva di quella di affittacamere, in violazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost.

Considerato in diritto

      Con ordinanza del 23 gennaio 2008, il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia ha sollevato, con riferimento agli artt. 3 e 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, questione incidentale di legittimità costituzionale dell'art. 45, comma 4, della legge della Regione Lombardia 16 luglio 2007, n. 15 (Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo).

      La norma viene censurata sotto due distinti profili. In primo luogo perché essa, prevedendo l'obbligo dell'approvazione dell'assemblea dei condomini per l'esercizio di attività non comportante mutamento di destinazione d'uso dell'immobile, modificherebbe la disciplina codicistica, ingerendosi nella disciplina di rapporti condominiali tra privati, che costituiscono materia di ordinamento civile riservata dall'art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione alla legislazione esclusiva dello Stato. In secondo luogo, perché essa disciplinerebbe la predetta attività in m odo ingiustificatamente difforme rispetto alla corrispondente disciplina dell'attività di affittacamere, per la quale non è prescritta analog a autorizzazione condominiale, nonostante quest'ultima, per sua natura, possa coinvolgere unità immobiliari più estese.

      La questione, rilevante nel giudizio a quo, è fondata.

      Questa Corte ha più volte affermato che, nelle materie di competenza legislativa regionale residuale o concorrente, la regolamentazione statale, in forza dell'art. 117, secondo comma, lettera l) Cost., pone un limite diretto a evitare che la norma regionale incida su un principio di ordinamento civile. Questa Corte ha altresì precisato che l'esigenza di garantire l'uniformità nel territorio nazionale delle regole fondamentali di diritto che, nell'ambito dell'ordinamento civile, disciplinano i rapporti giuridici fra privati deve ritenersi una esplicazione del principio costituzionale di eguaglianza (da ultimo sentenze n. 189, n. 95 e n. 24 del 2007).

      Nel caso in esame, la specifica norma censurata incide direttamente sul rapporto civilistico tra condomini e condominio. Essa, infatti, pur inserita in un contesto di norme dettate a presidio di finalità turistiche, è destinata a regolamentare l'interesse, tipicamente privatistico, del decoro e della quiete nel condominio.

      A tal fine, la disposizione censurata disciplina la materia condominiale in modo difforme e più severo rispetto a quanto disposto dal codice civile e, in particolare, dagli artt. 1135 e 1138. Tali norme sanciscono che l'assemblea dei condomini non ha altri poteri rispetto a quelli fissati tassativamente dal codice e non può porre limitazioni alla sfera di proprietà dei singoli condomini, a meno che le predette limitazioni non siano specificatamente accettate o nei singoli atti d'acquisto o mediante approvazione del regolamento di condominio.

      L'attinenza della norma alla materia condominiale determina, dunque, la lesione dell'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.

      L'accoglimento della questione comporta l'assorbimento dell'ulteriore profilo dedotto.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

      dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 45, comma 4, della legge della Regione Lombardia 16 luglio 2007, n. 15 (Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo).

      Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 novembre 2008.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 novembre 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
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SENTENZA N. 370

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Giovanni Maria FLICK      Presidente

- Francesco      AMIRANTE     Giudice

- Ugo            DE SIERVO       "

- Paolo          MADDALENA       "

- Alfio          FINOCCHIARO     "

- Alfonso        QUARANTA        "

- Franco         GALLO           "

- Luigi          MAZZELLA        "

- Gaetano        SILVESTRI       "

- Sabino         CASSESE         "

- Maria Rita     SAULLE          "

- Giuseppe       TESAURO         "

- Paolo Maria    NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, della legge della Regione Molise 5 maggio 2006, n. 5 (Disciplina delle funzioni amministrative in materia di demanio marittimo e di zone di mare territoriale), e dell'art. 12, comma 6, della legge della Regione Molise 27 settembre 2006, n. 28 (Norme in materia di opere relative a linee ed impianti elettrici fino a 150.000 volt), promossi con ordinanze del 25 e del 31 gennaio 2008 dal Tribunale di Campobasso, sezione per il riesame, sui ricorsi proposti da Amatruda Teresa e da Di Salvia Rosa Maria, iscritte ai nn. 94 e 95 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell'anno 2008.

    Visti gli atti di costituzione di Amatruda Teresa e Di Salvia Rosa Maria;

    udito nell'udienza pubblica del 21 ottobre 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;

    udito l'avvocato Giovanni Di Giandomenico per Amatruda Teresa e Di Salvia Rosa Maria.

Ritenuto in fatto

    1.- Con due ordinanze di analogo tenore, rispettivamente del 25 e 31 gennaio 2008 (r.o. n. 94 e n. 95 del 2008), il Tribunale di Campobasso, sezione per il riesame, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, dell'art. 3, comma 1, della legge della Regione Molise 5 maggio 2006, n. 5 (Disciplina delle funzioni amministrative in materia di demanio marittimo e di zone di mare territoriale), nella parte in cui dispone che «Le aree demaniali marittime della costiera molisana e delle antistanti zone del mare territoriale ricomprese nel comune di Termoli, litorale sud, sono individuate dalla linea di demarcazione determinata con verbale dell'undici dicembre 1984 della Capitaneria di porto di Pescara», e dell'art. 12, comma 6, della legge della Regione Molise 27 settembre 2006, n. 28 (Norme in materia di opere relative a linee ed impianti elettrici fino a 150.000 volt), nella parte in cui prevede che «Le disposizioni di cui al comma 1 dell'articolo 3 della legge regionale 5 maggio 2006, n. 5, si interpretano nel senso di determinare quali sono nella Regione Molise le zone di cui agli articoli 822 del codice civile e 28 del codice della navigazione».

    Il rimettente premette, in fatto, di essere chiamato a giudicare, in entrambi i casi, della conferma del provvedimento del GIP presso il Tribunale di Larino che ha disposto il sequestro preventivo di un immobile, con annesse pertinenze, sito in Termoli, località "Rio vivo".

    Il Tribunale molisano evidenzia che il caso al suo esame è parte di un più ampio contesto che riguarda un rilevante settore dell'abitato di Termoli, edificato in corrispondenza della fascia costiera ivi esistente (cosiddetta zona "Rio vivo") e che numerosi immobili insistenti su tale area, tra i quali quelli in esame, sono stati oggetto di sequestro preventivo da parte del GIP del Tribunale di Larino in accoglimento della richiesta della locale Procura della Repubblica che ha contestato ai proprietari il reato di cui all'art. 1161 del codice della navigazione per abusiva occupazione di spazio del demanio marittimo.

    Il rimettente, nel ricostruire il complesso iter processuale del giudizio a quo, spiega che le proprietarie degli immobili sottoposti a sequestro preventivo sono ricorse al Tribunale del riesame di Campobasso rivendicando la legittimità della occupazione per essere stato il relativo terreno ceduto al loro dante causa dall'autorità statale competente con regolare rogito notarile e contestando l'appartenenza al demanio marittimo dell'area occupata.

    Con una prima pronuncia, il Tribunale del riesame di Campobasso ha confermato i provvedimenti di sequestro, rigettando tutte le doglianze delle proprietarie: in particolare ritenendo sussistente la natura demaniale del terreno occupato con gli immobili in sequestro.

    Questa prima ordinanza, prosegue il rimettente, è stata a sua volta impugnata innanzi alla Corte di cassazione  sulla base delle stesse motivazioni circa la natura non demaniale dei terreni in esame e sulla mancanza del periculum.

    La Corte di cassazione ha accolto il ricorso delle indagate sotto il profilo dell'assenza delle esigenze cautelari, non risultando chiaro in che modo il sequestro preventivo sia in grado di neutralizzare la protrazione del comportamento illecito dal momento che le indagate continuano ad occupare gli immobili e, nel contempo, ha rigettato tutti i motivi adottati dai ricorrenti sulla mancanza del fumus boni iuris e in particolare quello sulla non appartenenza al demanio delle aree oggetto di occupazione.

    La Regione Molise, prima che la questione fosse nuovamente esaminata dal Tribunale del riesame a seguito dell'annullamento con rinvio, ha approvato la legge n. 5 del 2006 che all'art. 3 individua e delimita le aree demaniali marittime della costiera molisana e delle antistanti zone del mare territoriale ricomprese nei territori dei comuni di Campomarino, di Termoli, di Petacciano e di Montenero di Bisaccia, escludendo quelle oggetto del provvedimento di sequestro preventivo.

    Il Tribunale del riesame, nonostante il mutato quadro normativo, ha confermato il sequestro preventivo sia con riguardo alla sussistenza del periculum sia in riferimento alla normativa sopravvenuta.

    Avverso tale ultimo provvedimento le proprietarie indagate hanno fatto nuovamente ricorso alla Corte di cassazione, ritenendo la motivazione del Tribunale del riesame contraddittoria e non conforme al principio espresso dalla Suprema Corte sulla mancanza del periculum e, inoltre, evidenziando come la legge regionale abbia definitivamente escluso il carattere demaniale della zona occupata.

    Successivamente, nelle more della decisione della Corte di cassazione, la Regione Molise ha approvato la seconda delle norme qui censurate, ovvero l'art. 12, comma 6, della legge della Regione Molise n. 28 del 27 settembre 2006, che chiarisce definitivamente la volontà del legislatore regionale di delimitare «quali sono nella Regione Molise le zone di cui agli articoli 822 del codice civile e 28 del codice di navigazione».

    La Corte di cassazione ha annullato nuovamente il provvedimento del Tribunale del riesame perché la motivazione non fornisce una adeguata risposta al quesito specifico della compatibilità del protratto utilizzo del bene da parte degli indagati con la funzione di tutela del bene pubblico che si vuole realizzare mediante il sequestro preventivo, anche tenuto conto della nuova normativa regionale intervenuta.

    Così ricostruita la vicenda giudiziaria, il Tribunale del riesame di Campobasso ritiene debba essere verificata la conformità dell'art. 3 della legge della Regione Molise n. 5 del 2006, come interpretato dall'art. 12, comma 6, della legge della Regione Molise n. 28 del 2006, all'art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione.

    A parere del rimettente, le norme censurate violerebbero la riserva esclusiva di competenza legislativa dello Stato nella materia dell'ordinamento civile. Le aree definibili come demanio, infatti, sono disciplinate dal codice civile, che le individua in base alle loro caratteristiche funzionali, che determinano l'esigenza di assoggettarle a uno status particolare.

    La legge regionale, invece, avrebbe individuato le aree demaniali del litorale di Termoli dettando un criterio derogatorio rispetto a quanto previsto dagli artt. 822 cod. civ. e 20 (recte 28) cod. nav. che individuano come beni appartenenti al demanio marittimo la «spiaggia» e il «lido del mare».

    Ne varrebbe, sempre secondo il rimettente, richiamare l'esercizio dei poteri concorrenti in tema di «porti» riconosciuto alla Regione dall'art. 117, terzo comma, Cost., vertendo la questione in materia di proprietà ed essendo la proprietà demaniale inserita nell'ambito della proprietà in generale, tipico istituto regolato dal codice civile.

    Il Tribunale del riesame, così motivata la non manifesta infondatezza, si sofferma anche sulla rilevanza della questione, da un lato evidenziando che la Corte di cassazione ha espressamente invitato il Tribunale a tenere conto dello ius superveniens e, dall'altro, ritenendo che la declaratoria di incostituzionalità delle norme censurate determinerebbe il venir meno dell'interruzione della permanenza del reato ai fini della valutazione in concreto del periculum.

    2.- Si sono costituite nel giudizio Armatruda Teresa e Di Salvia Rosa Maria, eccependo l'inammissibilità e l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale del riesame di Campobasso.

    Le parti sostengono che la questione non è rilevante perché per ben due volte la Cassazione ha annullato il provvedimento del Tribunale del riesame di Campobasso evidenziando la mancanza del periculum, e perché, in relazione al fumus boni iuris, il Tribunale del riesame non ha considerato le argomentazioni circa la natura non demaniale del terreno sul quale insistono gli immobili in sequestro, che sarebbe dimostrata dalle mappe catastali del Comune di Termoli e da un verbale della Capitaneria di porto di Pescara del 1984 di delimitazione delle aree appartenenti al demanio marittimo che escludeva i terreni in esame da tale classi ficazione, in quan­to aree non più utili ai fini degli usi pubblici della navigazione.

    Nel merito, secondo le parti costituite, la questione sarebbe infondata perché la Regione si è limitata ad esercitare, sia pure con legge, una funzione ad essa spettante in via amministrativa, quale quella della delimitazione del demanio marittimo.

    Tale funzione di delimitazione del demanio marittimo rientrerebbe tra quelle delegate e conferite dallo Stato alle Regioni sin dall'approvazione dell'art. 59 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382), delega in origine limitata  alle funzioni amministrative con finalità turistiche e ricreative e, successivamente, ampliata anche al rilascio delle concessioni sul demanio marittimo dall'art. 105 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato a lle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59).

    Secondo la difesa delle parti private, poiché la delega comprende anche «le funzioni di organizzazione e le attività connesse e strumentali all'esercizio delle funzioni e dei compiti conferiti» (art. 1, comma 2, d.lgs. n. 112 del 1998), implicitamente sarebbero state trasferite anche le funzioni relative alla delimitazione delle zone demaniali, quale presupposto per l'ordinato esercizio delle prime.

    In altri termini, secondo la prospettazione delle intervenienti, la delimitazione già operata nel 1984 dalla Capitaneria di porto di Pescara, mancante del decreto del Ministro delle finanze, sarebbe stata completata mediante l'approvazione della legge regionale, che avrebbe rinnovato il procedimento con lo strumento legisla­tivo.

    Inoltre, la procedura di delimitazione operata dalla Regione con le norme oggetto di censura, venendo ad essere il primo tentativo di delimitare le zone demaniali e non costituendo una nuova delimitazione più restrittiva di quella precedente, non potrebbe qualificarsi come sdemanializzazione ai sensi dell'art. 35 cod. nav.

    Infine, concludono le parti private, il demanio non rientra nella materia ordinamento civile, in quanto le forme di appartenenza dei beni pubblici sono diverse da quelle dei beni privati e solo a questi ultimi è riferibile, in senso stretto, l'istituto della proprietà, così come articolato dal codice civile. Pertanto, la disciplina del demanio non sarebbe compresa in alcuna materia prevista dagli elenchi del novellato art. 117 Cost. e non rimarrebbe che attribuirne la titolarità alle Regioni in via generale e residuale.

    In prossimità dell'udienza, le parti private costituite hanno depositato una memoria con la quale hanno ribadito le proprie argomentazioni, insistendo nella richiesta di una pronuncia di inammissibilità, soprattutto per l'irrilevanza della questione sollevata rispetto alla definizione del giudizio a quo, o di infondatezza della questione.

Considerato in diritto

    1.- Il Tribunale di Campobasso, sezione per il riesame, dubita della legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, dell'art. 3, comma 1, della legge della Regione Molise 5 maggio 2006, n. 5 (Disciplina delle funzioni amministrative in materia di demanio marittimo e di zone di mare territoriale), nella parte in cui dispone che «Le aree demaniali marittime della costiera molisana e delle antistanti zone del mare territoriale ricomprese nel comune di Termoli, litorale sud, sono individuate dalla linea di demarcazione determinata con verbale dell'undici dicembre 1984 della Capitaneria di porto di Pescara», e dell'art. 12, comma 6, della legge della Regione Molise 27 settemb re 2006, n. 28 (Norme in materia di opere relative a linee ed impianti elettrici fino a 150.000 volt), nella parte in cui dispone che «Le disposizioni di cui al comma 1 dell'articolo 3 della legge regionale 5 maggio 2006, n. 5, si interpretano nel senso di determinare quali sono nella Regione Molise le zone di cui agli articoli 822 del codice civile e 28 del codice della navigazione».

    A parere del rimettente, la Regione avrebbe violato la riserva esclusiva di competenza legislativa dello Stato nella materia dell'ordinamento civile.

    La legge regionale, infatti, avrebbe individuato le aree demaniali del litorale di Termoli in deroga a quanto previsto dagli artt. 822 cod. civ. e 20 (recte 28) cod. nav., che individuano come beni appartenenti al demanio marittimo la «spiaggia» e il «lido del mare».

    Ne varrebbe, sempre secondo il rimettente, richiamare l'esercizio dei poteri concorrenti in materia di «porti», riconosciuti alla Regione dall'art. 117, terzo comma, Cost., vertendo la questione in materia di proprietà ed essendo la proprietà demaniale inserita nell'ambito della proprietà in generale, tipico istituto regolato dal codice civile.

    Essendo le questioni sollevate di analogo contenuto, deve essere disposta la riunione dei relativi giudizi ai fini di una trattazione unitaria e di un'unica decisione.

    1.1.- Preliminarmente, occorre prendere in considerazione l'eccezione di inammissibilità dedotta dalle parti private in relazione alla mancanza di rilevanza della questione nel giudizio a quo.

    Secondo la difesa delle parti costituite, infatti, mancherebbe la rilevanza sia perché la Corte di Cassazione, per ben due volte, ha annullato il provvedimento del Tribunale del riesame di Campobasso in relazione alla mancanza del periculum, sia perché il Tribunale del riesame non ha considerato le argomentazioni difensive circa la decisività dell'intestazione catastale dei beni in sequestro, anche alla stregua dell'art. 950 cod. civ. che, in caso di incertezza sui confini, ed in mancanza di altre prove, assume come di­rimente proprio la intestazione catastale.

    L'eccezione non può essere accolta sotto entrambi i profili.

    Quanto al primo, occorre premettere che il giudice a quo, trattandosi di un giudizio cautelare rinviato dalla Corte di cassazione a seguito di annullamento della parte della decisione relativa alla sussistenza del requisito del periculum in mora, aveva l'onere di motivare circa l'incidenza che la sollevata questione di costituzionalità veniva ad avere in ordine alla decisione che era chiamato ad assumere al fine di consentire a questa Corte di verificarne la plausibilità. Deve, pertanto, rilevarsi che, dopo l'annullamento con rinvio della Corte di cassazione, il Tribunale del riesame ha motivato nuovamente, in modo più ampio e articolato, in ordine al periculum, ritenendolo sussistente «perché gli indagati risultano aver già più volte esteso la dimensione dell'occupazione sicché è concreto il pericolo che il terreno nel tempo subisca ulteriori trasformazioni». Inoltre, come sottolineato dal giudice a quo, il venir meno della natura demaniale del bene determinerebbe automaticamente la cessazione del pericolo di aggravamento delle conseguenze del reato di cui all'art. 321 cod. proc. pen., tanto che la stessa Corte di cassazione ha chiesto di tener conto della nuova normativa regionale sopravvenuta.

    In ordine alla mancata motivazione circa l'intestazione catastale dei beni in sequestro, dalla quale risulterebbe la loro sdemanializzazione, deve rilevarsi come l'ordinanza del rimettente riporti nel dettaglio il percorso argomentativo circa la sussistenza della natura demaniale del terreno sul quale insistono gli immobili in sequestro e, in sede di valutazione cautelare, tale motivazione è ampiamente sufficiente.

    Il rimettente argomenta, quindi, in modo non implausibile in ordine alla rilevanza che la questione sottoposta al vaglio di questa Corte viene ad assumere nel giudizio a quo.

    2.- La questione è fondata.

    Questa Corte ha più volte affermato che la titolarità di funzioni legislative e amministrative della Regione in ordine all'utilizzazione di determinati beni non può incidere sulle facoltà che spettano allo Stato in quanto proprietario e che la disciplina degli aspetti dominicali del demanio statale rientra nella materia dell'ordinamento civile di competenza esclusiva dello Stato (sentenze n. 102  e n. 94 del 2008, n. 286 del 2004, n. 343 del 1995).

    Di recente, con specifico riferimento al demanio marittimo, questa Corte ha precisato che «la competenza della Regione nella materia non può incidere sulle facoltà che spettano allo Stato in quanto proprietario. Queste infatti precedono logicamente la ripartizione delle competenze ed ineriscono alla capacità giuridica dell'ente secondo i principi dell'ordinamento civile» (sentenza n. 427 del 2004).

    La natura demaniale dei beni è disciplinata dall'art. 822 cod. civ. che include tra i beni che fanno parte del demanio statale il lido del mare e la spiaggia. Inoltre, l'art. 28 cod. nav. attribuisce questa tipologia di beni al demanio marittimo. La legge regionale non può, quindi, derogare ai criteri fissati dal codice civile e dal codice della navigazione stabilendo linee di demarcazione che vengano a sottrarre il lido del mare o la spiaggia di una determinata area dai beni appartenenti al demanio marittimo.

    Del resto, che questo sia il risultato che le due disposizioni si prefiggono è reso evidente sia dal loro tenore sia dal rapporto cronologico che le lega. Già con riferimento alla prima delle due disposizioni censurate (il comma 1 dell'art. 3 della legge regionale n. 5 del 2006) l'interpretazione prospettata in via di mera ipotesi dal rimettente - che cioè con essa si voglia disciplinare esclusivamente l'ambito di applicazione della legge in relazione alle funzioni amministrative che effettivamente la Regione ha nella materia del demanio marittimo - perde consistenza alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 344 e n. 255 del 2007, n. 89 del 2006); quest'ultima riconosce alle Regioni la competenza ad esercitare le suddette funzio ni amministrative anche nei porti - purché non siano di rilevanza economica internazionale o di preminente interesse nazionale - vale a dire in ambiti territoriali che l'art. 822 cod. civ. e l'art. 28 cod. nav. attribuiscono al demanio marittimo. Sarebbe, quindi, inutile una disposizione legislativa regionale che, ai fini dell'esercizio delle funzioni amministrative di competenza regionale, venisse ad operare una differenziazione tra aree per le quali questa distinzione non avrebbe alcun effetto, posto che non si deve confondere «la proprietà del bene con il potere di disciplinare l'uso del bene stesso» (sentenza n. 286 del 2004).

    Se già, quindi, non sorgevano dubbi che il risultato della prima disposizione censurata fosse quello di sottrarre dal demanio marittimo alcune aree in esso ricomprese (probabilmente per porre termine ad una situazione che il legislatore regionale riteneva presentasse aspetti paradossali), l'interpretazione autentica resa con la seconda disposizione censurata rende addirittura esplicita, con l'espressa citazione dell'art. 822 cod. civ. e dell'art. 28 cod. nav., la volontà di incidere sulla delimitazione del demanio marittimo che nella prima risultava implicita.

    Né può condividersi la tesi della difesa privata secondo la quale la funzione di delimitazione del demanio marittimo rientra tra quelle delegate e conferite dallo Stato alle Regioni.

    In realtà la prima delega di funzioni amministrative su aree del demanio marittimo, di cui all'art. 59 del D.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382), era limitata alle sole funzioni amministrative aventi finalità turistico-ricreative e, successivamente, con l'art. 105 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), la delega è stata estesa anche alle funzioni amministrative «in mate ria di rilascio di concessioni di beni del demanio della navigazione interna, del demanio marittimo e di zone del mare territoriale per finalità diverse da quelle di approvvigionamento di fonti di energia».

    La disciplina relativa alle funzioni di delimitazione delle aree del demanio marittimo, invece, ricade nella sfera di competenza statale ed è disciplinata dal codice della navigazione che, all'art. 32, prevede un procedimento dettagliato per il loro svolgimento.

    Inoltre, secondo la giurisprudenza di legittimità, da considerarsi diritto vivente, il demanio marittimo è demanio cosiddetto naturale derivante direttamente dalle caratteristiche del bene e il provvedimento formale di delimitazione, al contrario di quello di sdemanializzazione, ha solo natura ricognitiva e non costitutiva. Ne consegue che se un bene presenta le caratteristiche naturali del lido del mare o della spiaggia deve considerarsi appartenente al demanio marittimo dello Stato anche senza alcun provvedimento formale di delimitazione, mentre va esclusa la possibilità di una sdemanializzazione tacita, atteso che la cessazione della demanialità è possibile soltanto mediante uno specifico provvedimento di caratt ere costitutivo da parte dell'autorità amministrativa competente o, come si è verificato con l'art. 6, comma 2-bis, del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 80 (Disposizioni urgenti in materia di enti locali), convertito con modificazioni dalla legge n. 140 del 2004, da parte del legislatore statale.

    Sulla base di queste argomentazioni, è di tutta evidenza che il comma 1 dell'articolo 3 della legge regionale n. 5 del 2006, nella parte in cui dispone che «Le aree demaniali marittime della costiera molisana e delle antistanti zone del mare territoriale ricomprese nel comune di Termoli, litorale sud, sono individuate dalla linea di demarcazione determinata con verbale dell'undici dicembre 1984 della Capitaneria di porto di Pescara», e la successiva norma di interpretazione di cui all'art. 12, comma 6, della legge regionale n. 28 del 2006, che espressamente prevede «Le disposizioni di cui al comma 1 dell'articolo 3 della legge regionale 5 maggio 2006, n. 5, si interpretano nel senso di determinare quali sono nella Regione Molise le zone di cui agli articoli 822 del cod ice civile e 28 del codice della navigazione», violano la competenza esclusiva dello Stato nella materia dell'ordinamento civile di cui all'art. 117, comma secondo, lettera l), Cost.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, della legge della Regione Molise 5 maggio 2006, n. 5 (Disciplina delle funzioni amministrative in materia di demanio marittimo e di zone di mare territoriale), e dell'art. 12, comma 6, della legge della Regione Molise 27 settembre 2006, n. 28 (Norme in materia di opere relative a linee ed impianti elettrici fino a 150.000 vo lt).

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 novembre 2008.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 novembre 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedente< img src="http://www.cortecostituzionale.it/img/ico12.gif" border="0" hspace="3" vspace="0" alt="Pronuncia successiva">

SENTENZA N. 371

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Giovanni Maria  FLICK        Presidente

- Francesco       AMIRANTE       Giudice

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'articolo 1, commi 4, 5, 6, 7, primo e quarto periodo, 10 e 11, della legge 3 agosto 2007, n. 120 (Disposizioni in materia di attività libero-professionale intramuraria e altre norme in materia sanitaria), e dell'intero testo dell'art. 1 della medesima legge n. 120 del 2007, promossi, rispettivamente, dalla Provincia autonoma di Trento e dalla Regione Lombardia, con ricorsi notificati il 5 ottobre 2007, depositati in cancelleria il 10 e 15 ottobre 2007 ed iscritti ai numeri 42 e 44 del registro ricorsi del 2007.

    Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 21 ottobre 2008 il Giudice relatore Alfonso Quaranta;

    uditi gli avvocati Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Lombardia, Giandomenico Falcon per la Provincia autonoma di Trento e l'avvocato dello Stato Anna Cenerini per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

    1.- La Provincia autonoma di Trento, con ricorso (reg. ric. n. 42 del 2007) del 5 ottobre 2007, depositato in cancelleria il successivo 10 ottobre, ha promosso questione di legittimità costituzionale dell'articolo 1, commi 4, 5, 6, 7, primo e quarto periodo, 10 e 11, della legge 3 agosto 2007, n. 120 (Disposizioni in materia di attività libero-professionale intramuraria e altre norme in materia sanitaria).

    La ricorrente assume che le impugnate disposizioni contrastino con gli artt. 8, numero 1), 9, numero 10), e 16 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), nonché con le relative norme di attuazione dello statuto di autonomia, ed in particolare, con il d.P.R. 28 marzo 1975, n. 474 (Norme di attuazione dello statuto per la Regione Trentino-Alto Adige in materia di igiene e sanità), con il d.P.R. 26 gennaio 1980, n. 197 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige conce rnenti integrazioni alle norme di attuazione in materia di igiene e sanità approvate con d.P.R. 28 marzo 1975, n. 474), con l'art. 8 del d.P.R. 19 novembre 1987, n. 526 (Estensione alla Regione Trentino-Alto Adige ed alle Province autonome di Trento e Bolzano delle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616), e con gli artt. 2 e 4 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), e che le stesse, inoltre, violino anche gli artt. 117, 118 e 120 della Costituzione in connessione con l'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione).

    1.1.- In via preliminare, la ricorrente reputa opportuno rammentare di essere «dotata di competenza legislativa concorrente in materia di "igiene e sanità, compresa l'assistenza sanitaria ed ospedaliera"», ai sensi dell'art. 9, numero 10), del d.P.R. n. 670 del 1972, nonché «di potestà legislativa primaria in materia di "ordinamento degli uffici provinciali e del personale ad essi addetto"», in forza di quanto previsto dall'art. 8, numero 1), del medesimo d.P.R., essendo, inoltre, titolare nelle medesime materie «delle correlative potestà amministrative», giusta la previsione dell'art. 16 sempre dello statuto di autonomia.

    Deduce, poi, che le predette norme statutarie sono state attuate dal d.P.R. n. 474 del 1975, il cui art. 2, comma 2, attribuisce alle Province autonome «le potestà legislative ed amministrative attinenti al funzionamento ed alla gestione delle istituzioni ed enti sanitari» (stabilendo, altresì, che «nell'esercizio di tali potestà esse devono garantire l'erogazione di prestazioni di assistenza igienico-sanitaria ed ospedaliera non inferiori agli standards minimi previsti dalle normative nazionale e comunitaria»), mentre il successivo comma 3 prevede che le «competenze provinciali relative allo stato giuridico ed economico del personale addetto alle istituzioni ed enti di cui al secondo comma sono esercitate nei limiti previsti dallo statuto». Ai sensi, ino ltre, dell'art. 3 del medesimo d.P.R. n. 474 del 1975, tra le funzioni per le quali detta norma tiene ferma la competenza statale «non rientrano» - osserva la ricorrente - «quelle di organizzazione della libera professione intramuraria».

    Ciò premesso, la Provincia autonoma di Trento evidenzia di aver recepito la normativa statale, nella materia di cui si tratta, con l'art. 51 della legge provinciale 27 agosto 1999, n. 3 (Misure collegate con l'assestamento del bilancio per l'anno 1999), stabilendo che «per la disciplina dell'attività libero professionale dei dirigenti del ruolo sanitario trovano applicazione, con la decorrenza fissata dalla normativa statale, le disposizioni di cui all'articolo 72, commi da 4 a 8 nonché 11 e 12, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo)»; successivamente, però, la discipli na di fonte legislativa provinciale è stata abrogata ed integralmente sostituita dall'art. 32 della legge provinciale 10 febbraio 2005, n. 1 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale 2005 e pluriennale 2005-2007 della Provincia autonoma di Trento - legge finanziaria).

    Rammenta, infine, che con diverse deliberazioni della Giunta provinciale - la n. 1662 del 27 febbraio 1998, la n. 3334 del 15 dicembre 2000, la n. 1758 del 1° settembre 2006 - sono state «assunte direttive per disciplinare l'esercizio dell'attività libero-professionale intramuraria da parte del personale della dirigenza del ruolo sanitario dipendente dall'Azienda provinciale per i servizi sanitari», nonché, in concreto, «disciplinate le modalità dell'attività libero professionale intramuraria».

    La ricorrente evidenzia, pertanto, di disporre «di una propria compiuta disciplina delle attività di libera professione intramuraria svolta dai medici del servizio pubblico».

    1.2.- Ciò premesso, la Provincia autonoma di Trento evidenzia che il legislatore statale è intervenuto in materia con la legge n. 120 del 2007, alcune delle cui disposizioni formano oggetto della proposta impugnazione.

    1.3.- Ricostruito in termini generali il contenuto delle singole disposizioni censurate, la ricorrente illustra per ciascuna di esse gli argomenti a sostegno della dedotta illegittimità costituzionale.

    1.3.1.- In relazione, in particolare, al comma 4 dell'art. 1, la Provincia autonoma di Trento evidenzia come esso, nel primo periodo, le riconosca la facoltà di acquisire spazi ambulatoriali esterni alle strutture sanitarie per l'esercizio di attività sia istituzionali sia in regime di libera professione intramuraria, ma subordinatamente al rispetto di limiti e condizioni procedurali definiti nella legge statale, atteso che «l'acquisto, la locazione, la stipula di convenzioni», destinate a tale scopo, avviene «previo parere vincolante da parte del Collegio di direzione di cui all'articolo 17 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni, o, qualora esso non sia costituito, di una com missione paritetica di sanitari che esercitano l'attività libero-professionale intramuraria, costituita a livello aziendale».

    La disposizione in questione, dunque, si rivolge alle Province autonome ponendo «norme dettagliate sugli strumenti giuridici e sulla procedura con cui esse possono acquisire spazi ambulatoriali esterni per l'esercizio delle attività sia istituzionali sia di libera professione intramuraria», sicché, «sotto l'apparenza di una norma che autorizza», in realtà «comprime la facoltà di scelta della Provincia», assoggettandola addirittura ad un «parere vincolante».

    Essa, pertanto, risulterebbe lesiva delle competenze della Provincia, e ciò assumendo «a punto di riferimento» tanto la materia - oggetto di potestà legislativa primaria - della organizzazione degli enti provinciali (tra i quali rientra l'azienda sanitaria), quanto quella della sanità.

    Osserva, difatti, la ricorrente - con riferimento a questo secondo profilo - che la scelta, compiuta dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, di attribuire la materia della tutela della salute - «assai più ampia» di quella precedente, costituita dall'assistenza sanitaria (sono citate, in particolare, le sentenze della Corte costituzionale n. 134 del 2006 e n. 270 del 2005) - alla potestà legislativa concorrente ex art. 117, terzo comma, Cost., esprime «l'intento di una più netta distinzione fra la competenza regionale a legiferare in queste materia e la competenza statale, limitata alla determinazione dei principi fondamentali della disciplina» (sentenza n. 282 del 2002) e comporta anche, in virtù della p revisione contenuta nell'art. 10, il riconoscimento, «in riferimento alle attribuzioni proprie delle Province autonome», di una «maggiore estensione "della tutela della salute" rispetto alle corrispondenti competenze statutarie in materia sanitaria» (sentenza n. 162 del 2007).

    A maggior ragione, poi, l'incostituzionalità del primo periodo dell'impugnato comma 4 dovrebbe essere riconosciuta riconducendolo alla materia dell'organizzazione degli enti paraprovinciali, essendo la stessa oggetto di potestà legislativa primaria.

    Né, d'altra parte, l'interferenza statale in tale materia potrebbe giustificarsi richiamando la previsione contenuta nell'art. 17, comma 1, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), a norma del quale spetta, tra l'altro, al Collegio di direzione costituito presso ogni azienda sanitaria di «concorrere» alla formulazione «delle soluzioni organizzative per l'attuazione dell'attività libero-professionale intramuraria»; nella specie, infatti, a tale organo, per effetto dello «strumento del parere vincolante», risulta demandato «l'esercizio sostanziale della funzione».

    Anche il secondo periodo del predetto comma 4 sarebbe costituzionalmente illegittimo, in quanto stabilisce che, in «ogni caso», le Province autonome «devono» garantire che le strutture sanitarie «gestiscano, con integrale responsabilità propria, l'attività libero-professionale intramuraria, al fine di assicurarne il corretto esercizio», nel rispetto di talune specifiche modalità; con la previsione di tali modalità, dunque, il legislatore statale - osserva la ricorrente - «non si limita a fissare obbiettivi e disporre principi, ma introduce, sia pure rinviandone l'operatività a leggi regionali, disposizioni di dettaglio nella materia "tutela della salute"».

    1.3.2.- Quanto, invece, alle doglianze che investono i commi 5 e 6 dell'art. 1, la ricorrente premette di non contestare il principio che impone alla strutture sanitarie sia di adottare un piano aziendale, «concernente, con riferimento alle singole unità operative, i volumi di attività istituzionale e di attività libero-professionale intramuraria», sia di assicurare ad esso «adeguata pubblicità ed informazione».

    Reputa, invece, norme di dettaglio quelle, recate dal comma 5, che «riguardano le modalità di pubblicità del piano» (segnatamente nella parti in cui pongono il vincolo procedurale consistente nella necessità di acquisire, alternativamente, il parere dei già menzionati Collegio di direzione e commissione paritetica di sanitari, ovvero stabiliscono il contenuto delle informazioni alle quali è assoggettato il piano stesso).

    Analogamente, anche il comma 6 conterrebbe «norme di estremo dettaglio in quanto regola minuziosamente le singole fasi di approvazione del piano», subordinandone, oltretutto, l'efficacia all'assenza di osservazioni da parte del Ministero della salute.

    Inoltre, l'illegittimità del comma 6 deriverebbe anche dal fatto che le disposizioni da esso recate «pretendono nel loro insieme di essere immediatamente applicabili nel territorio provinciale», sebbene investano una materia di competenza provinciale, con conseguente violazione, pertanto, delle «regole in tema di rapporti tra fonti statali e fonti provinciali» poste dall'art. 2 del citato d.lgs. n. 266 del 1992.

    1.3.3.- Oggetto del ricorso sono anche le previsioni del comma 7, primo e quarto periodo.

    Il primo periodo stabilisce che, al fine di assicurare il rispetto delle previsioni di cui ai commi 1, 2, 4, 5 e 6 del medesimo articolo 1, Regioni e Province autonome possono provvedere all'esercizio di poteri sostitutivi e, soprattutto, alla «destituzione, nell'ipotesi di grave inadempienza, dei direttori generali delle aziende, policlinici ed istituti di cui al comma 5».

    In particolare, quest'ultima previsione violerebbe la competenza legislativa provinciale nella materia della tutela della salute, presentandosi, inoltre, irragionevolmente lesiva dell'autonomia della Provincia.

    Quanto, invece, alla previsione relativa all'esercizio dei poteri sostitutivi, essa sarebbe lesiva dell'autonomia della Provincia nella materia tutela della salute, quale risulta dall'art. 16 dello statuto e dagli artt. 1, 2 e 3 della legge n. 474 del 1975 e dall'art. 8 del d.P.R. n. 526 del 1987.

    1.3.4.- L'impugnativa proposta dalla Provincia autonoma investe anche il comma 10 dell'art. 1, norma che stabilisce «il periodo massimo di efficacia delle convenzioni (autorizzate dalle Regioni e dalle Province autonome) di cui al primo periodo del comma 4» (vale a dire le convenzioni aventi ad oggetto «l'acquisizione di spazi ambulatoriali esterni, aziendali e pluridisciplinari, per l'esercizio di attività sia istituzionali sia in regime di libera professione intramuraria»). Tale disposizione, pertanto, parteciperebbe degli stessi vizi che inficiano il primo periodo del comma 4 del medesimo art. 1.

    In particolare, poi, la scelta compiuta dal legislatore statale di delimitare l'efficacia nel tempo delle suddette convenzioni (le stesse sono, infatti, autorizzate «per il periodo necessario al completamento, da parte delle aziende, policlinici o istituti interessati, degli interventi strutturali necessari ad assicurare l'esercizio dell'attività libero-professionale intramuraria e comunque non oltre il termine di cui al comma 2, primo periodo», vale a dire quello di diciotto mesi a decorrere dalla data del 31 luglio 2007), costituirebbe una illegittima limitazione della facoltà «di ricorrere alle soluzioni organizzative più adatte», spettante alla Provincia autonoma «nell'ambito della sua autonomia legislativa ed amministrativa».

    1.3.5.- Infine, anche il comma 11 dell'art. 1 sarebbe lesivo «dell'autonomia provinciale in materia di organizzazione degli enti paraprovinciali», ex art. 8, primo comma, dello statuto di autonomia, in quanto «non regola aspetti dello status dei dirigenti che attengono all'erogazione del servizio», bensì individua «l'organo competente, all'interno dell'apparato dell'ente a "dirimere le vertenze dei dirigenti sanitari in ordine all'attività libero-professionale intramuraria"».

    Qualora, poi, si volesse individuare la materia interessata dall'intervento legislativo de quo in quella della tutela della salute, l'illegittimità della disposizione deriverebbe dal suo «carattere dettagliato ed autoapplicativo».

    2.- Anche la Regione Lombardia, con ricorso (reg. ric. n. 44 del 2007) del 5 ottobre 2007, depositato in cancelleria il successivo 15 ottobre, ha promosso questione di legittimità costituzionale dell'intero articolo 1 della legge n. 120 del 2007.

    In via preliminare, la ricorrente evidenzia che la «possibilità di ricorrere a prestazioni sanitarie intra moenia ma in regime di tipo libero-professionale risponde alla necessità di garantire il fondamentale diritto alla salute sancito dall'art. 32 della Costituzione anche sotto il profilo della autodeterminazione dei singoli». In tale prospettiva, pertanto, già l'art. 10, comma 4, del d.lgs. n. 502 del 1992 aveva stabilito che «all'interno dei presìdi ospedalieri e delle aziende ospedaliere siano riservati spazi adeguati per consentire la libera professione intramuraria in regime di degenza con camere a pagamento».

    Tuttavia, la legge impugnata recherebbe, all'art. 1, «una disciplina analitica e di dettaglio sull'attività libero-professionale intramuraria» che «infrange in modo palese il vigente riparto di competenze tra Stato e Regioni».

    2.1.- Alla luce di tale premessa generale, la ricorrente ipotizza, in primo luogo, la violazione degli artt. 117, quarto comma, e 118 Cost., nonché «dei principi di ragionevolezza (art. 3 Cost.), buon andamento (art. 97 Cost.) e leale collaborazione (art. 120 Cost.)».

    Essa assume, difatti, che le disciplina in contestazione inciderebbe «pesantemente all'interno di un settore, l'organizzazione sanitaria, tradizionalmente affidato alle Regioni», atteso che la giurisprudenza costituzionale, già con riferimento al sistema di riparto delle competenze legislative delineato dal testo originario del Titolo V della Parte II della Costituzione, avrebbe «manifestato chiaramente l'importanza e la necessità che la gestione e l'organizzazione della sanità venisse svolta in modo autonomo dalle Regioni».

    2.1.1.- Richiamato, pertanto, quel tradizionale indirizzo secondo cui, a norma dell'art. 117 Cost., quella dell'assistenza sanitaria ed ospedaliera è materia di competenza delle Regioni, le quali possono quindi, secondo le previsioni costituzionali, regolarla variamente nel quadro dei principi delle leggi statali, la ricorrente evidenzia come - secondo la giurisprudenza costituzionale formatasi anteriormente alla riforma del titolo V della Costituzione - nella materia «assistenza sanitaria ed ospedaliera», nella quale alle Regioni risultava anche «riservata la generalità delle correlative funzioni amministrative» (sentenza n. 307 del 1983), fosse da includere pure la «disciplina dell'organizzazione sanitaria» (sentenza n. 214 del 1988).

    2.1.2.- Inoltre, se per effetto della riforma del titolo V della parte II della Costituzione la materia della tutela della salute è divenuta oggetto di potestà legislativa concorrente, statale e regionale, nulla è stato, invece, disposto - osserva la ricorrente - «rispetto alla "vecchia" materia dell'"assistenza sanitaria e ospedaliera"».

    La Regione Lombardia ritiene, pertanto, che la stessa, non essendo «più contemplata nell'elenco delle materie su cui insiste la competenza concorrente», vada «ricondotta alla competenza esclusiva delle Regioni».

    La conclusione proposta sarebbe suffragata anche dalla giurisprudenza costituzionale, secondo cui - osserva la ricorrente - la tutela della salute dovrebbe ritenersi ripartita «fra la materia di competenza regionale concorrente della "tutela della salute" (terzo comma), la quale deve essere intesa come "assai più ampia rispetto alla precedente materia assistenza sanitaria e ospedaliera" (sentenze n. 181 del 2006 e n. 270 del 2005), e quella dell'organizzazione sanitaria, in cui le Regioni possono adottare "una propria disciplina anche sostitutiva di quella statale" (sentenza n. 510 del 2002)» (è citata la sentenza n. 328 del 2006).

    2.1.3.- Tutto ciò premesso, la ricorrente evidenzia come le disposizioni censurate rivelino in modo inequivocabile «la volontà di comprimere gli spazi di autonomia regionale in materia di organizzazione sanitaria».

    Se, infatti, lo Stato, in questa materia, ha unicamente titolo per intervenire - come avrebbe chiarito la sentenza della Corte costituzionale n. 88 del 2003 - per la determinazione dei livelli essenziali di assistenza, ponendosi gli stessi come «un fondamentale strumento per garantire il mantenimento di una adeguata uniformità di trattamento sul piano dei diritti di tutti i soggetti, pur in un sistema caratterizzato da un livello di autonomia regionale e locale decisamente accresciuto», deve riconoscersi che nella disciplina in contestazione «non vi è traccia di alcun elemento attinente alla garanzia dell'uniformità dei diritti e delle prestazioni».

    Ed invero, l'art. 1 della legge n. 120 del 2007: «impone la ristrutturazione edilizia per garantire l'esercizio dell'attività libero professionale intramuraria»; «definisce le modalità di acquisizione degli spazi ambulatoriali esterni, aziendali e pluridisciplinari»; «impone la determinazione, in accordo con i professionisti, di tariffe idonee ad assicurare l'integrale copertura dei costi correlati alla gestione delle attività libero-professionali intramurarie».

    In conclusione, essa incide in un ambito - quello dell'organizzazione sanitaria - sul quale le Regioni già «esercitavano precise funzioni normative ed amministrative», oggetto di «un sostanziale ampliamento e rinvigorimento» dopo la riforma operata dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, essendo stata la stessa affidata «alla competenza residuale esclusiva delle Regioni».

    2.2.- È solo, quindi, in via di subordine - per il caso in cui si ritenesse di identificare la materia oggetto delle disposizioni impugnate in quella non dell'organizzazione sanitaria ma della tutela della salute - che viene dedotta la violazione degli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost., nonché «dei principi di ragionevolezza (art. 3 Cost.), buon andamento (art. 97 Cost.) e leale collaborazione (art. 120 Cost.)».

    2.2.1.- Difatti, secondo la ricorrente, la disciplina in contestazione risulta «estremamente dettagliata e minuziosa non lasciando alcun margine discrezionale all'ente regionale».

    La ricorrente, difatti, deduce che - come avrebbe chiarito la giurisprudenza costituzionale, a partire dalla sentenza n. 510 del 2002 - nella materia della tutela della salute, venendo in rilievo un'ipotesi di competenza legislativa ripartita tra Stato e Regioni, «spetta al primo la fissazione dei principi fondamentali, mentre alle seconde compete dettare la disciplina attuativa di tali principi con l'autonomia e l'autodeterminazione che, nel disegno costituzionale, ad esse sono state riconosciute».

    Inoltre, talune più recenti pronunce avrebbero non solo ribadito tale affermazione, ma anche precisato che «la materia della sanità, dopo la riforma del titolo V della parte II della Costituzione, ricomprende sia la tutela della salute, che assume oggi un significato più ampio rispetto alla precedente materia dell'assistenza sanitaria e ospedaliera, sia l'organizzazione sanitaria in senso stretto, nella quale le Regioni possono adottare una disciplina anche sostitutiva di quella statale» (così la sentenza n. 105 del 2007, ma nello stesso senso anche la successiva sentenza n. 162 del 2007).

    Conforme sarebbe, inoltre, la stessa giurisprudenza amministrativa (è citata, in particolare, la decisione n. 398 del 2004 del Consiglio di Stato, Sezione IV).

    Ciò premesso, la ricorrente sottolinea che nessuna delle disposizioni contenute nell'art. 1 della legge n. 120 del 2007 «è configurabile come "principio fondamentale"» della materia tutela della salute.

    Difatti, dopo la riforma operata dalla legge costituzionale n. 3 del 2001, spetta allo Stato, nella materia suddetta, «predisporre un quadro normativo di base capace di assicurare un indirizzo generale alle diverse Regioni che, nell'ambito del relativo territorio, potranno disciplinare l'organizzazione e la fornitura dei servizi sanitari in autonomia e nel rispetto di tali principi fondamentali statali».

    Sulla base, pertanto, di tali rilievi la ricorrente evidenzia che, nel caso di specie, le censurate disposizioni siano ben lontane, proprio in ragione del loro carattere dettagliato ed autoapplicativo, dal configurarsi come principi fondamentali, essendo per tale motivo costituzionalmente illegittime.

    3.- Si è costituito in entrambi i giudizi - con atti depositati in cancelleria il 23 ottobre 2007 - il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che i ricorsi siano rigettati perché inammissibili e comunque non fondati.

    3.1.- La difesa statale reputa opportuno evidenziare, in via preliminare, come la Corte costituzionale, con sentenza n. 50 del 2007, abbia avuto modo di pronunciarsi sul tema delle modalità di esercizio, da parte dei sanitari, dell'attività libero-professionale intramuraria.

    Essa, infatti, nel pronunciarsi sulla legittimità costituzionale dell'articolo 14, comma 1, lettera i), della legge della Provincia autonoma di Bolzano 10 agosto 1995, n. 16 (Riforma dell'ordinamento del personale della Provincia), «pur riconoscendo all'istituto dell'esclusività del rapporto di lavoro del dirigente sanitario» l'idoneità ad «incidere contestualmente su una pluralità di materie», ha individuato nella tutela della salute - sottolinea l'Avvocatura generale dello Stato - «l'ambito materiale prevalente».

    In particolare, la citata sentenza avrebbe chiarito «che le disposizioni regolanti la facoltà di scelta tra i due regimi di lavoro, esclusivo e non esclusivo, costituiscono espressione di un principio fondamentale, volto a garantire una tendenziale uniformità tra le diverse legislazioni e i sistemi sanitari delle Regioni e delle Province autonome in ordine ad un profilo qualificante del rapporto tra sanità ed utenti».

    Tali rilievi, sottolinea la difesa statale, costituirebbero «un punto fondamentale a dimostrazione della perfetta coerenza con la Carta costituzionale delle disposizioni censurate».

    Ed invero, l'impugnata legge n. 120 del 2007 non farebbe che reiterare «la possibilità di utilizzo degli studi privati in caso di carenze di strutture e spazi idonei alle necessità connesse allo svolgimento dell'attività libero professionale dei medici del servizio sanitario nazionale».

    Difatti, la disciplina in contestazione si sarebbe resa necessaria in quanto è rimasta lungamente priva di attuazione la «predisposizione di spazi adeguati per consentire l'esercizio della libera professione in strutture aziendali», e ciò malgrado l'attivazione di tali strutture costituisse uno dei principi cardine fissati dall'art. 1, commi 8, 10 e 11, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica). Conseguentemente, lo Stato, «di fronte all'inerzia di quasi tutte le Regioni e le Province autonome, si è limitato a prorogare di anno in anno la possibilità di esercizio in intra moenia allargata» dell'attività libero -professionale dei sanitari.

    Orbene, «di fronte all'inerzia di buona parte delle Regioni» il Parlamento ha deliberato di concedere un'ulteriore proroga, dettando al contempo norme stringenti finalizzate ad assicurare il conseguimento dell'obiettivo.

    In forza, dunque, di tali considerazioni, l'Avvocatura generale dello Stato ha concluso affinché i ricorsi siano rigettati perché inammissibili o non fondati.

    4.- In prossimità dell'udienza pubblica, il Presidente del Consiglio dei ministri, in data 7 ottobre 2008, ha depositato memorie in ordine ad entrambi i ricorsi, deducendo in particolare che l'attività libero-professionale intramuraria sarebbe riconducibile, per alcuni profili, alla fissazione dei livelli essenziali di assistenza, per altri, alla tutela della salute.

    Le norme impugnate - secondo la difesa statale - tendono, inoltre, a salvaguardare le risorse pubbliche da un uso improprio, garantendo che i costi che lo Stato sostiene per lo svolgimento dell'attività intramoenia siano integralmente finanziati dalle tariffe poste a carico dei cittadini. Ciò, quale manifestazione specifica del generale principio di economicità della gestione, alla cui osservanza è tenuto il Servizio sanitario nazionale.

    L'Avvocatura generale dello Stato ribadisce, altresì, richiamando lo specifico contenuto precettivo delle disposizioni impugnate, che le stesse sono dirette a fissare principi generali, al fine di garantire che: l'attività in questione si svolga in spazi adeguati e specifici; non diventi prevalente rispetto all'attività istituzionale e dunque potenzialmente sostitutiva di questa; prevenga situazioni di potenziale conflitto di interessi e di concorrenza sleale; sia esercitata in modo da non interferire negativamente con l'ordinario svolgimento dell'attività istituzionale; sia tariffata in modo da comportare l'integrale copertura dei relativi oneri diretti ed indiretti.

    La fissazione dei suddetti principi, in particolare, costituisce diretta conseguenza del fatto che l'attività in esame concorre, a tutti gli effetti, alla formazione dell'offerta sanitaria pubblica, determinando, in termini quantitativi e qualitativi, il livello delle prestazioni fruibili dai cittadini.

    Si sarebbe, quindi, in un contesto che, stabilendo limiti dimensionali entro i quali possono essere validamente erogate prestazioni in regime di intra moenia, tutela l'erogazione di prestazioni nell'ambito del regime istituzionale e rientra nella sfera della fissazione dei livelli essenziali di assistenza.

    Infine, la difesa statale rileva come la previsione del potere sostitutivo tenda a garantire il rispetto del generale principio di economicità della gestione, che deve essere osservato dal Servizio sanitario nazionale.

    5.- In data 8 ottobre 2008 entrambe le ricorrenti hanno depositato una memoria, insistendo nelle conclusioni già proposte e confutando la tesi difensive dell'Avvocatura generale dello Stato.

Considerato in diritto

    1.- La Provincia autonoma di Trento ha promosso questione di legittimità costituzionale dell'articolo 1, commi 4, 5, 6, 7, primo e quarto periodo, 10 e 11, della legge 3 agosto 2007, n. 120 (Disposizioni in materia di attività libero-professionale intramuraria e altre norme in materia sanitaria).

    Nel ricorso si deduce che le impugnate disposizioni contrastano con gli artt. 8, numero 1), 9, numero 10), e 16 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), nonché con le relative norme di attuazione dello statuto di autonomia ed, in particolare, con il d.P.R. 28 marzo 1975, n. 474 (Norme di attuazione dello statuto per la regione Trentino-Alto Adige in materia di igiene e sanità), con il d.P.R. 26 gennaio 1980, n. 197 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti integrazioni alle norme di attuazione in materia di igiene e sanità approvate con d.P.R. 28 marzo 1975, n. 474), con l'art. 8 del d.P.R. 19 novembre 1987, n. 526 (Estensione alla regione Trentino-Alto Adige ed alle province autonome di Trento e Bolzano delle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616), con gli artt. 2 e 4 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento) e che le stesse, inoltre, violano anche gli artt. 117, 118 e 120 della Costituzione in connessione con l'art. 10 della legge costitu zionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione).

    Sul presupposto di essere titolare, in forza dello statuto di autonomia (e delle norme che ad esso danno attuazione), di «competenza legislativa concorrente in materia "di igiene e sanità, compresa l'assistenza sanitaria ed ospedaliera"», nonché «di potestà legislativa primaria in materia di "ordinamento degli uffici provinciali e del personale ad essi addetto"», oltre che, nelle stesse materie, delle «correlative potestà amministrative», la ricorrente lamenta la violazione di tali norme ad opera della disciplina in contestazione.

    2.- Anche la Regione Lombardia ha promosso questione di legittimità costituzionale dell'intero articolo 1 della legge n. 120 del 2007, ipotizzando, in primo luogo, la violazione degli artt. 117, quarto comma, e 118 Cost., nonché «dei principi di ragionevolezza (art. 3 Cost.), buon andamento (art. 97 Cost.) e leale collaborazione (art. 120 Cost.)», sul presupposto che la disciplina in contestazione inciderebbe «pesantemente all'interno di un settore, l'organizzazione sanitaria, tradizionalmente affidato alle Regioni».

    Soltanto in subordine - per il caso in cui si ritenesse di identificare la materia oggetto delle disposizioni impugnate in quella della tutela della salute - la ricorrente deduce la violazione degli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost., nonché «dei principi di ragionevolezza (art. 3 Cost.), buon andamento (art. 97 Cost.) e leale collaborazione (art. 120 Cost.)», assumendo che la disciplina in contestazione sarebbe «estremamente dettagliata e minuziosa non lasciando alcun margine discrezionale all'ente regionale».

    3.- Preliminarmente, poiché i predetti ricorsi pongono questioni analoghe, deve essere disposta la riunione dei relativi giudizi ai fini di un'unica decisione.

    4.- Ancora in via preliminare, per individuare quale sia l'ambito materiale interessato dalle disposizioni di cui all'art. 1 della legge n. 120 del 2007, è necessario specificare il loro contenuto.

    I commi 1 e 2 del citato art. 1 fanno carico alle Regioni e alle Province autonome di Trento e di Bolzano di assumere, entro il termine di diciotto mesi decorrente dal 31 luglio 2007, allo scopo di garantire l'esercizio dell'attività libero-professionale intramuraria dei sanitari, «le più idonee iniziative volte ad assicurare gli interventi di ristrutturazione edilizia, presso le aziende sanitarie locali, le aziende ospedaliere, le aziende ospedaliere universitarie, i policlinici universitari a gestione diretta e gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS) di diritto pubblico».

    In particolare, il comma 2 stabilisce che, limitatamente allo stesso periodo e agli ambiti in cui non siano ancora state adottate le iniziative sopra descritte, «in deroga a quanto disposto dal comma 2 dell'articolo 22-bis del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248» (che ha prorogato fino al 31 luglio 2007 la facoltà spettante ai dirigenti sanitari, «in caso di carenza di strutture e spazi idonei alle necessità connesse allo svolgimento delle attività libero-professionali in regime ambulatoriale», di avvalersi «del proprio studio professionale»), «continuano ad applicarsi i provvedimenti gi à adottati per assicurare l'esercizio dell'attività libero-professionale intramuraria»; nel medesimo periodo, inoltre, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano debbono procedere «all'individuazione e all'attuazione delle misure dirette ad assicurare, in accordo con le organizzazioni sindacali delle categorie interessate e nel rispetto delle vigenti disposizioni contrattuali, il definitivo passaggio al regime ordinario del sistema dell'attività libero-professionale intramuraria della dirigenza sanitaria, medica e veterinaria del Servizio sanitario nazionale e del personale universitario di cui all'articolo 102 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382».

    Ai sensi del comma 3, poi, la «risoluzione degli accordi di programma di cui all'articolo 1, comma 310, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, si applica anche alla parte degli accordi di programma relativa agli interventi di ristrutturazione edilizia» sopra indicati, per i quali la Regione «non abbia conseguito il collaudo entro il termine stabilito dal comma 2, primo periodo».

    A sua volta, il successivo comma 4, innanzitutto, individua - tra le misure che le Regioni e le Province autonome possono assumere allo scopo di garantire l'esercizio dell'attività libero-professionale intramuraria dei sanitari, sempre che «ne sia adeguatamente dimostrata la necessità e nell'ambito delle risorse disponibili» - «l'acquisizione di spazi ambulatoriali esterni, aziendali e pluridisciplinari, per l'esercizio di attività sia istituzionali sia in regime di libera professione intramuraria, i quali corrispondano ai criteri di congruità e idoneità per l'esercizio delle attività medesime, tramite l'acquisto, la locazione, la stipula di convenzioni, previo parere vincolante da parte del Collegio di direzione di cui all'articolo 17 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni, o, qualora esso non sia costituito, di una commissione paritetica di sanitari che esercitano l'attività libero-professionale intramuraria, costituita a livello aziendale».

    Inoltre, il medesimo comma 4 fa comunque carico alle Regioni ed alle Province autonome di «garantire che le aziende sanitarie locali, le aziende ospedaliere, le aziende ospedaliere universitarie, i policlinici universitari a gestione diretta e gli IRCCS di diritto pubblico gestiscano, con integrale responsabilità propria, l'attività libero-professionale intramuraria, al fine di assicurarne il corretto esercizio, in particolare nel rispetto delle seguenti modalità:

    a) affidamento a personale aziendale, o comunque dall'azienda a ciò destinato, senza ulteriori oneri aggiuntivi, del servizio di prenotazione delle prestazioni, da eseguire in sede o tempi diversi rispetto a quelli istituzionali, al fine di permettere il controllo dei volumi delle medesime prestazioni, che non devono superare, globalmente considerati, quelli eseguiti nell'orario di lavoro;

    b) garanzia della riscossione degli onorari relativi alle prestazioni erogate sotto la responsabilità delle aziende, policlinici e istituti di cui al comma 1. Agli eventuali oneri si provvede ai sensi della lettera c);

    c) determinazione, in accordo con i professionisti, di un tariffario idoneo ad assicurare l'integrale copertura di tutti i costi direttamente e indirettamente correlati alla gestione dell'attività libero-professionale intramuraria, ivi compresi quelli connessi alle attività di prenotazione e di riscossione degli onorari;

    d) monitoraggio aziendale dei tempi di attesa delle prestazioni erogate nell'ambito dell'attività istituzionale, al fine di assicurare il rispetto dei tempi medi fissati da specifici provvedimenti; attivazione di meccanismi di riduzione dei medesimi tempi medi; garanzia che, nell'ambito dell'attività istituzionale, le prestazioni aventi carattere di urgenza differibile vengano erogate entro 72 ore dalla richiesta;

    e) prevenzione delle situazioni che determinano l'insorgenza di un conflitto di interessi o di forme di concorrenza sleale e fissazione delle sanzioni disciplinari e dei rimedi da applicare in caso di inosservanza delle relative disposizioni, anche con riferimento all'accertamento delle responsabilità dei direttori generali per omessa vigilanza;

    f) adeguamento dei provvedimenti per assicurare che nell'attività libero-professionale intramuraria, ivi compresa quella esercitata in deroga alle disposizioni di cui al comma 2 dell'articolo 22-bis del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, siano rispettate le prescrizioni di cui alle lettere a), b) e c) del presente comma, anche nel periodo di operatività transitoria delle convenzioni di cui all'alinea, primo periodo, del presente comma, e fermo restando il termine di cui al comma 2, primo periodo, e al comma 10;

    g) progressivo allineamento dei tempi di erogazione delle prestazioni nell'ambito dell'attività istituzionale ai tempi medi di quelle rese in regime di libera professione intramuraria, al fine di assicurare che il ricorso a quest'ultima sia conseguenza di libera scelta del cittadino e non di carenza nell'organizzazione dei servizi resi nell'ambito dell'attività istituzionale. A tal fine, il Ministro della salute presenta annualmente al Parlamento una relazione sull'esercizio della libera professione medica intramuraria, ai sensi dell'articolo 15-quaterdecies del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, c on particolare riferimento alle implicazioni sulle liste di attesa e alle disparità nell'accesso ai servizi sanitari pubblici».

    Quanto al contenuto del comma 5, esso fa carico a ciascuna delle strutture sanitarie di cui ai commi precedenti di predisporre «un piano aziendale, concernente, con riferimento alle singole unità operative, i volumi di attività istituzionale e di attività libero-professionale intramuraria». Di tale piano deve essere assicurata «adeguata pubblicità ed informazione»; in particolare, ciascun ente sanitario deve provvedere alla esposizione del piano «nell'ambito delle proprie strutture ospedaliere ed all'informazione nei confronti delle associazioni degli utenti, sentito il parere del Collegio di direzione di cui all'articolo 17 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni , o, qualora esso non sia costituito, della commissione paritetica di sanitari» di cui al comma 4 del medesimo articolo 1. Lo stesso comma precisa, poi, che le informazioni suddette debbono riguardare, in particolare, «le condizioni di esercizio dell'attività istituzionale e di quella libero-professionale intramuraria, nonché i criteri che regolano l'erogazione delle prestazioni e le priorità di accesso».

    La procedura di approvazione dei piani è disciplinata dal comma 6, il quale stabilisce che essi debbano essere presentati alla Regione o alla Provincia autonoma competente, «in fase di prima applicazione, entro quattro mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge e, successivamente, entro un limite massimo di tre anni dall'approvazione del piano precedente». Ciascuna Regione o Provincia autonoma «approva il piano, o richiede variazioni o chiarimenti, entro sessanta giorni dalla presentazione»; in quest'ultimo caso le variazioni o i chiarimenti «sono presentati entro sessanta giorni dalla richiesta medesima» ed esaminati «entro i successivi sessanta giorni». Infine, subito dopo l'approvazione, la Regione o Provincia autonoma «trasmette il piano al Ministero della salute»; decorsi sessanta giorni dalla trasmissione, «in assenza di osservazioni da parte del Ministero della salute, i piani si intendono operativi».

    In base al comma 7, inoltre, Regioni e Province autonome «assicurano il rispetto delle previsioni di cui ai commi 1, 2, 4, 5 e 6 anche mediante l'esercizio di poteri sostitutivi e la destituzione, nell'ipotesi di grave inadempienza, dei direttori generali delle aziende, policlinici ed istituti di cui al comma 5». È previsto anche che sia il Governo ad esercitare, a propria volta, i poteri sostitutivi «ai sensi e secondo la procedura di cui all'articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131», e ciò «in caso di inadempimento», pure «con riferimento alla destituzione di cui al primo periodo del presente comma», da parte delle Regioni e delle Province autonome, alle quali è, per l'effetto, anche «precluso l'acces so ai finanziamenti a carico dello Stato integrativi rispetto ai livelli di cui all'accordo sancito l'8 agosto 2001 dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 207 del 6 settembre 2001».

    Il comma 8 fa carico alle Regioni e Province autonome di trasmettere al Ministro della salute «una relazione sull'attuazione dei commi 1, 2, 4, 5, 6 e 7, con cadenza trimestrale fino al conseguimento effettivo, da parte della stessa, del definitivo passaggio al regime ordinario di cui al comma 2, e successivamente con cadenza annuale».

    Limitatamente, poi, all'attività clinica e di diagnostica ambulatoriale, il comma 9 dispone che «gli spazi e le attrezzature dedicati all'attività istituzionale possono essere utilizzati anche per l'attività libero-professionale intramuraria, garantendo la separazione delle attività in termini di orari, prenotazioni e modalità di riscossione dei pagamenti».

    In stretta connessione con la previsione di cui al comma 4, primo periodo, del medesimo art. 1, il comma 10 stabilisce che le convenzioni ivi menzionate vengano autorizzate dalle Regioni e dalle Province autonome «per il periodo necessario al completamento, da parte delle aziende, policlinici o istituti interessati, degli interventi strutturali necessari ad assicurare l'esercizio dell'attività libero-professionale intramuraria e comunque non oltre il termine di cui al comma 2, primo periodo» (e cioè, diciotto mesi a decorrere dalla data del 31 luglio 2007).

    Il comma 11 affida, poi, al Collegio di direzione o, qualora esso non sia costituito, alla commissione paritetica di sanitari di cui al comma 4 del medesimo art. 1, «anche il compito di dirimere le vertenze dei dirigenti sanitari in ordine all'attività libero-professionale intramuraria».

    Il comma 12, viceversa, pone a carico di Regioni e Province autonome il compito di «definire le modalità per garantire l'effettuazione, da parte dei dirigenti veterinari del Servizio sanitario nazionale, delle prestazioni libero-professionali che per la loro particolare tipologia e modalità di erogazione esigono una specifica regolamentazione».

    Ai sensi del comma 13 è stabilita l'attivazione, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore legge n. 120 del 2007, di un «Osservatorio nazionale sullo stato di attuazione dei programmi di adeguamento degli ospedali e sul funzionamento dei meccanismi di controllo a livello regionale e aziendale, come previsto dall'articolo 15-quaterdecies del citato decreto legislativo n. 502 del 1992».

    Infine, il comma 14 dispone che dalla «eventuale costituzione» e «dal funzionamento delle commissioni paritetiche di cui ai commi 4, 5 e 11, nonché dall'attuazione del medesimo comma 11, non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica».

    5.- Così precisato il contenuto delle disposizioni impugnate, occorre preliminarmente procedere alla individuazione della materia entro la quale esse devono essere collocate, almeno in prevalenza.

    Al riguardo, la ricorrente Provincia autonoma di Trento prospetta la tesi della loro riconducibilità alle materie dell'ordinamento del personale provinciale o dell'igiene e sanità, con particolare riferimento alla organizzazione della libera professione intramuraria, richiamando norme dello statuto speciale o di attuazione di questo e, in alternativa, le disposizioni degli artt. 117 e 118 Cost.

    La Regione Lombardia, dal canto suo, fa riferimento alla materia dell'organizzazione sanitaria che sarebbe di esclusiva competenza regionale ai sensi dell'art. 117, quarto comma, Cost.

    Solo in via subordinata entrambe le ricorrenti, sul presupposto dell'appartenenza delle norme censurate alla materia della tutela della salute, lamentano la eccessiva specificità ed analiticità delle stesse, che non potrebbero essere considerate espressione di principi fondamentali di competenza statale ai sensi del terzo comma della citata disposizione costituzionale.

    L'Avvocatura generale dello Stato nelle sue difese, a sua volta, ha insistito nella tesi secondo cui le disposizioni in questione rientrerebbero nella competenza esclusiva dello Stato a fissare i livelli essenziali di assistenza in materia sanitaria. In ogni caso, anche a volerle considerare rientranti nella materia della tutela della salute, esse conterrebbero principi fondamentali di detta materia, come tali di competenza concorrente statale.

    Ciò premesso, deve innanzitutto chiarirsi che, per la Provincia autonoma di Trento, non vengono in rilievo norme dello statuto speciale del Trentino-Alto Adige/Südtirol (o delle relative disposizioni di attuazione), bensì l'art. 117 Cost., pure invocato nel ricorso e nelle successive difese.

    Questa Corte, infatti, nella sentenza n. 50 del 2007 - oltre ad aver escluso che l'art. 2 del d.lgs. n. 474 del 1975 abbia integrato la competenza legislativa delle Province autonome di Trento e Bolzano in materia sanitaria (negando, così, che con esso si sia inteso «assimilare, quanto alla natura primaria della potestà legislativa, le competenze provinciali ivi contemplate alla competenza della Regione Trentino-Alto Adige») - ha anche ribadito che «l'unica competenza legislativa della Provincia in materia sanitaria (quella appunto di cui all'art. 9, numero 10, dello Statuto regionale)» si configura «come una competenza di tipo concorrente». E nella stessa sentenza la Corte ha ulteriormente precisato che «nessuna norma di attuazione, pur notoriamente dotata di u n potere interpretativo ed integrativo del dettato statutario (si vedano, fra le altre, le sentenze di questa Corte n. 51 del 2006, n. 249 del 2005 e n. 341 del 2001), potrebbe trasformare una competenza di tipo concorrente in una competenza di tipo esclusivo, così violando lo statuto regionale».

    La giurisprudenza costituzionale ha, altresì, affermato che i poteri delle Province autonome in materia sanitaria si radicano direttamente nel terzo comma dell'art. 117 Cost., il quale prevede una loro competenza in tale materia, attraverso il riferimento alla tutela della salute, sicché - a norma dell'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 - è alla disposizione costituzionale di cui al citato art. 117 che occorre fare riferimento (sentenze n. 162 del 2007 e n. 134 del 2006).

    Ciò chiarito, le tesi sostenute, in via principale, dalle parti contendenti, nella loro assolutezza, non sono condivisibili.

    In particolare, non lo è quella che colloca le norme censurate nella materia dell'ordinamento degli uffici regionali o provinciali ovvero nell'ambito dell'organizzazione sanitaria locale. Tale ultimo ambito, peraltro, neppure può essere invocato come "materia" a sé stante, agli effetti del novellato art. 117 Cost., in quanto l'organizzazione sanitaria è parte integrante della "materia" costituita dalla "tutela della salute" di cui al terzo comma del citato art. 117 Cost.

    Neppure può ritenersi fondata la tesi della difesa dello Stato che riconduce, in toto, le norme stesse ai livelli essenziali di assistenza (cosìdetti LEA), in quanto la determinazione di tali livelli presuppone la individuazione di prestazioni sanitarie essenziali da assicurare agli utenti del Servizio sanitario nazionale.

    Occorre in proposito ricordare, infatti, che nella giurisprudenza di questa Corte la fissazione dei livelli essenziali di assistenza si identifica esclusivamente nella «determinazione degli standard strutturali e qualitativi delle prestazioni, da garantire agli aventi diritto su tutto il territorio nazionale», non essendo «pertanto inquadrabili in tale categoria le norme volte ad altri fini, quali, ad esempio, l'individuazione del fondamento costituzionale della disciplina, da parte dello Stato, di interi settori materiali (sentenze n. 383 e n. 285 del 2005) o la regolamentazione dell'assetto organizzativo e gestorio degli enti preposti all'erogazione delle prestazioni (sentenza n. 120 del 2005)» (così, da ultimo, la sent enza n. 237 del 2007).

    In realtà, è indubbio che l'art. 1 della legge impugnata - anche in ragione dell'eterogeneità del suo contenuto - investa, nel complesso, una pluralità di ambiti materiali, ivi compresi quelli cui hanno fatto riferimento le parti del giudizio. Tuttavia, questa Corte ritiene che la materia sulla quale le disposizioni de quibus, in via prevalente, incidono sia quella della tutela della salute, di competenza ripartita tra lo Stato e le Regioni.

    D'altronde, la Corte ha già sottolineato - nello scrutinare un intervento operato dal legislatore statale proprio sul rapporto di lavoro dei dirigenti sanitari, relativo anche ad aspetti attinenti all'attività libero-professionale da essi svolta - che il «nuovo quadro costituzionale», delineato dalla legge di riforma del titolo V della parte II della Costituzione, recepisce, come si è sopra precisato, una nozione della materia "tutela della salute" «assai più ampia rispetto alla precedente materia "assistenza sanitaria e ospedaliera"», con la conseguenza che le norme attinenti allo svolgimento dell'attività professionale intramuraria, «sebbene si prestino ad incidere contestualmente su una pluralità di materie (e segnatamente, tra le altre, su quella della organizzazione di enti "non statali e non nazionali")», vanno «comunque ascritte, con prevalenza, a quella della "tutela della salute"». Rileva, in tale prospettiva, «la stretta inerenza che tutte le norme de quibus presentano con l'organizzazione del servizio sanitario regionale e, in definitiva, con le condizioni per la fruizione delle prestazioni rese all'utenza, essendo queste ultime condizionate, sotto molteplici aspetti, dalla capacità, dalla professionalità e dall'impegno di tutti i sanitari addetti ai servizi, e segnatamente di coloro che rivestono una posizione apicale» (sentenze n. 181 del 2006 e n. 50 del 2007).

    6.- Ancora in via preliminare, devono essere dichiarate inammissibili le questioni proposte dalla Regione Lombardia con riferimento alla violazione dei principi di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e di buon andamento (art. 97 Cost.).

    Ed invero, quanto all'ipotizzato contrasto con i citati parametri costituzionali, deve ribadirsi il consolidato orientamento di questa Corte (ex multis, sentenze n. 216 del 2008 e 401 del 2007) secondo il quale «le Regioni sono legittimate a censurare, in via di impugnazione principale, leggi dello Stato esclusivamente per questioni attinenti al riparto delle rispettive competenze», essendosi «ammessa la deducibilità di altri parametri costituzionali soltanto ove la loro violazione comporti una compromissione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite»; evenienza, questa, neppure ipotizzata nel caso di specie.

    Non fondata è, invece, la dedotta violazione del principio di leale collaborazione, atteso che costituisce «giurisprudenza pacifica di questa Corte che l'esercizio dell'attività legislativa sfugge alle procedure di leale collaborazione» (così, da ultimo, sentenze n. 222 del 2008 e n. 401 del 2007).

    7.- Nel merito, le questioni prospettate dalle ricorrenti sono in parte fondate, per violazione dell'art. 117, terzo comma, Cost., in relazione al riparto della competenza concorrente dello Stato e delle Regioni e Province autonome nella materia in questione.

    Risulta, in particolare, costituzionalmente illegittimo l'intero testo dei commi 6 e 11 dell'impugnato art. 1, nonché, ma soltanto in parte qua, quello dei commi 4, 7 e 10 del medesimo articolo.

    Si presentano, invece, esenti dai denunciati vizi di costituzionalità i restanti commi 1, 2, 3, 5, 8, 9, 12, 13 e 14.

    8.- Non è fondata - come si è appena rilevato - la questione, proposta dalla sola Regione Lombardia, avente ad oggetto i commi 1, 2 e 3 dell'impugnato art. 1.

    Le disposizioni ivi contenute lasciano alla più ampia discrezionalità delle Regioni e delle Province autonome di Trento e di Bolzano (salva l'enunciazione di alcuni criteri, quali quelli ricavabili dagli stessi commi 2 e 3, che hanno comunque carattere generale) l'assunzione delle iniziative che esse reputino più idonee ad assicurare l'effettuazione di quegli interventi di ristrutturazione edilizia, presso le strutture sanitarie pubbliche, occorrenti per la predisposizione dei locali da destinare allo svolgimento dell'attività libero-professionale intramuraria. Esse, pertanto, si pongono l'obbiettivo di garantire l'effettività del diritto, spettante ai sanitari che abbiano optato per l'esclusività del rapporto di lavoro, di svolgere l a sola tipologia di attività libero-professionale loro consentita, cioè quella intramuraria.

    Giova, in proposito, ricordare che, ai sensi dell'art. 15-quinquies del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), se gli «incarichi di direzione di struttura, semplice o complessa, implicano il rapporto di lavoro esclusivo» del sanitario (comma 5), l'opzione per tale tipologia comporta «il diritto all'esercizio di attività libero-professionale individuale, al di fuori dell'impegno di servizio, nell'ambito delle strutture aziendali individuate dal direttore generale d'intesa con il collegio di direzione» (comma 2, lettera a).

    Nella stessa prospettiva, del resto, deve osservarsi che la «facoltà di scelta tra i due regimi di lavoro dei dirigenti sanitari (esclusivo e non esclusivo)», è essa stessa «espressione di un principio fondamentale, volto a garantire una tendenziale uniformità tra le diverse legislazioni ed i sistemi sanitari delle Regioni e delle Province autonome in ordine ad un profilo qualificante del rapporto tra sanità ed utenti» (sentenza n. 50 del 2007).

    Ne consegue, pertanto, che è destinata a partecipare di questo stesso carattere di normativa di principio anche quella volta ad assicurare che non resti priva di conseguenze, in termini di concrete possibilità di svolgimento dell'attività libero-professionale intramuraria, l'opzione compiuta dal sanitario in favore del rapporto di lavoro esclusivo.

    In forza di tali rilievi deve, quindi, concludersi per la non fondatezza della censura che investe i primi tre commi dell'impugnato art. 1.

    9.- Deve ritenersi parzialmente illegittimo, invece, il comma 4 dell'art. 1.

    Sul punto è necessario esaminare partitamente - seguendo, del resto, la prospettazione contenuta nel ricorso della Provincia autonoma di Trento - il contenuto della norma, giacché esso forma oggetto di due censure.

    Il comma in questione stabilisce, per un verso, che «può essere prevista» - tra le misure idonee a garantire il reperimento di locali destinati allo svolgimento dell'attività libero-professionale intra moenia - anche «l'acquisizione di spazi ambulatoriali esterni, aziendali e pluridisciplinari, per l'esercizio di attività sia istituzionali sia in regime di libera professione intramuraria, i quali corrispondano ai criteri di congruità e idoneità per l'esercizio delle attività medesime, tramite l'acquisto, la locazione, la stipula di convenzioni»; ciò «previo parere vincolante da parte del Collegio di direzione di cui all'articolo 17 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e su ccessive modificazioni, o, qualora esso non sia costituito, di una commissione paritetica di sanitari che esercitano l'attività libero-professionale intramuraria, costituita a livello aziendale».

    Per altro verso, lo stesso comma dispone che Regioni e Province autonome devono garantire che tutte le strutture sanitarie, individuate nel comma stesso, «gestiscano, con integrale responsabilità propria, l'attività libero-professionale intramuraria, al fine di assicurarne il corretto esercizio», attenendosi, in particolare, ad una serie di specifiche prescrizioni, indicate nelle lettere da a) a g) del medesimo comma 4.

    Orbene, la censura che investe la previsione da ultimo indicata, contenuta nella seconda parte del comma in esame, non è fondata, in quanto il legislatore statale ha inteso fissare soltanto alcuni criteri di carattere generale attinenti al corretto svolgimento dell'attività libero-professionale intramuraria dei sanitari, nell'ambito della disciplina, ad esso spettante per le motivazioni già in precedenza indicate, di questo peculiare aspetto del loro rapporto di lavoro.

    Tali criteri attengono, nell'ordine: al «servizio di prenotazione delle prestazioni» ed al loro volume (lettera a); alla «riscossione degli onorari relativi alle prestazioni erogate» (lettera b); al «tariffario» (lettera c); al «monitoraggio aziendale dei tempi di attesa delle prestazioni erogate nell'ambito dell'attività istituzionale» (lettera d); alla «prevenzione delle situazioni che determinano l'insorgenza di un conflitto di interessi o di forme di concorrenza sleale» (lettera e); ai «provvedimenti per assicurare che nell'attività libero-profess ionale intramuraria» siano «rispettate le prescrizioni di cui alle lettere a), b) e c)» sopra indicate (lettera f); al «progressivo allineamento dei tempi di erogazione delle prestazioni nell'ambito dell'attività istituzionale ai tempi medi di quelle rese in regime di libera professione intramuraria » (lettera g).

    Merita, viceversa, parziale accoglimento la censura che investe la prima parte del comma 4, giacché - nell'ambito di una disposizione che pur riconosce un'ampia facoltà a Regioni e Province autonome nella scelta degli strumenti più idonei ad assicurare il reperimento dei locali occorrenti per lo svolgimento della attività intra moenia - si prevede un parere «vincolante» (da esprimersi da parte del Collegio di direzione di cui all'art. 17 del d.lgs. n. 502 del 1992, o, in mancanza, della commissione paritetica dei sanitari che esercitano l'attività libero-professionale intramuraria) ai fini dell'acquisto, della locazione o della stipula delle convenzioni finalizzate al reperimento di quegli spazi amb ulatoriali esterni, aziendali e pluridisciplinari, da adibire anche allo svolgimento dell'attività libero-professionale intramuraria.

    In tal modo è stata posta una prescrizione che, lungi dall'essere espressiva di un principio fondamentale, regola in modo dettagliato ed autoapplicativo l'attività di reperimento dei locali in questione. Così disponendo, però, la norma statale opera una eccessiva compressione della facoltà di scelta spettante alle Regioni e alle Province autonome. Essa è, quindi, lesiva della loro potestà di disciplinare aspetti relativi alle modalità di organizzazione dell'esercizio della libera professione intra moenia da parte dei sanitari che abbiano optato per il tempo pieno. Pertanto, deve essere dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 4, della legge n. 120 del 2007, limitatamente alla parola «vincolante».

    10.- In relazione a quanto sopra, deve ritenersi fondata, e per le medesime ragioni, anche la questione di costituzionalità proposta dalle ricorrenti nei confronti del comma 10, che viene esaminato qui per la sua connessione con quanto previsto dal comma 4.

    Il citato comma 10 stabilisce che le «convenzioni di cui al comma 4, primo periodo» debbano essere autorizzate dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e di Bolzano «per il periodo necessario al completamento, da parte delle aziende, policlinici o istituti interessati, degli interventi strutturali necessari ad assicurare l'esercizio dell'attività libero-professionale intramuraria e comunque non oltre il termine di cui al comma 2, primo periodo» (e cioè, diciotto mesi a decorrere dalla data del 31 luglio 2007).

    Anche la fissazione di questo termine, che risulta eguale per tutte le realtà territoriali, senza che sia possibile tenere conto, se del caso, delle peculiarità di ciascuna di esse, costituisce un intervento di dettaglio, essendo tale termine riferito (diversamente da quello previsto dal comma 2, che presenta portata generale) ad un adempimento specifico, l'autorizzazione alla stipula delle convenzioni finalizzate all'acquisizione degli spazi ambulatoriali esterni, aziendali e pluridisciplinari, occorrenti per l'esercizio di attività sia istituzionali, sia in regime di libera professione intramuraria. Esso, pertanto, avrebbe dovuto essere lasciato alla potestà legislativa delle Regioni e delle Province autonome.

    Il comma in esame deve, pertanto, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui così dispone: «e comunque non oltre il termine di cui al comma 2, primo periodo».

    11.- Merita, inoltre, accoglimento, tra le questioni relative ai commi 5 e 6, esclusivamente quella concernente il secondo.

    Ed invero, il comma 5 detta - come è riconosciuto, del resto, dalla stessa Provincia autonoma di Trento (che, coerentemente, omette di impugnarlo, sotto questo specifico profilo) - una norma di principio, facendo carico a ciascuna «azienda sanitaria locale, azienda ospedaliera, azienda ospedaliera universitaria, policlinico universitario a gestione diretta ed IRCCS di diritto pubblico», di predisporre un piano aziendale, concernente, con riferimento alle singole unità operative, i volumi di attività istituzionale e di attività libero-professionale intramuraria. Il successivo comma 6, invece, nel disciplinare minuziosamente le modalità di approvazione dello stesso, integra un non consentito intervento legislativo di dettaglio; ciò che invece non può ritenersi per le modalità di pubblicazione ed informazione del piano stesso previste dal già citato comma 5. D'altronde, la stessa eccessiva procedimentalizzazione indicata dal comma in esame si presenta incompatibile con la fissazione di un principio fondamentale della materia, appartenendo - per sua stessa natura - all'ambito della disciplina meramente attuativa, come tale rientrante nella sfera di competenza legislativa concorrente delle Regioni e delle Province autonome.

    12.- Costituzionalmente illegittimo, in parte qua, è anche il successivo comma 7.

    Deve premettersi, innanzitutto, che può ritenersi esente dall'ipotizzato vizio di costituzionalità il primo periodo del comma in esame, nella parte in cui fa carico alle Regioni ed alle Province autonome di assicurare il rispetto delle previsioni di cui ai precedenti commi sia attraverso l'esercizio di poteri sostitutivi nei confronti delle strutture di sanità pubblica, sia attraverso l'irrogazione della sanzione della destituzione, per grave inadempienza, dei direttori generali delle aziende, policlinici ed istituti di cui al comma 5.

    Ed invero, quanto alla censura che investe la seconda parte del comma 7, deve rilevarsi che si mantiene nell'ambito dell'enunciazione di un principio fondamentale la scelta del legislatore statale di ricollegare alla «grave inadempienza» dei direttori generali delle strutture sanitarie pubbliche la misura della destituzione. Resta invece ferma, ovviamente, la competenza di Regioni e Province autonome - nell'esercizio della potestà legislativa ad esse spettante - di stabilire i casi in cui sia ravvisabile una «grave inadempienza», di disciplinare il procedimento finalizzato all'applicazione della suddetta misura sanzionatoria, nonché di fissare le altre sanzioni irrogabili in presenza di inadempienze di minore rilievo.

    Deve ritenersi, invece, costituzionalmente illegittima la previsione, contenuta nel medesimo comma 7, secondo cui, in «caso di mancato adempimento degli obblighi a carico delle Regioni e delle Province autonome di cui al presente comma, è precluso l'accesso ai finanziamenti a carico dello Stato integrativi rispetto ai livelli di cui all'accordo sancito l'8 agosto 2001 dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 207 del 6 settembre 2001».

    Si tratta, infatti, di una disposizione che può essere qualificata come di dettaglio, giacché incide su profili che attengono direttamente all'organizzazione del servizio sanitario; profili che rientrano nella competenza organizzativa delle Regioni e delle Province autonome data la stretta inerenza tra l'organizzazione sanitaria regionale e provinciale e i flussi finanziari necessari per assicurare il regolare espletamento del servizio sanitario in sede locale.

    È, infine, lesiva dell'art. 120 Cost. la previsione - contenuta nell'ultimo periodo del comma in esame - relativa all'esercizio dei poteri sostitutivi, da parte del Governo, nei confronti delle Regioni e delle Province autonome, giacché destinata ad operare al di fuori dei casi espressamente contemplati dalla norma costituzionale. Non vi è dubbio al riguardo che l'art. 120 Cost. trovi applicazione, nel caso di specie, anche nei confronti della Provincia autonoma di Trento, avendo affermato questa Corte che è «da respingere la tesi secondo la quale i principi dell'art. 120 Cost. non sarebbero in astratto applicabili alla Regioni speciali» (o alla Province autonome), dovendo invece «concludersi che un pote re sostitutivo potrà trovare applicazione anche nei loro confronti», giacché la sua previsione è diretta a fare «sistema con le norme costituzionali di allocazione delle competenze» (sentenza n. 236 del 2004)

    Resta, invece, salva la facoltà delle Regioni e delle due Province autonome, prevista nel medesimo comma 7, prima parte, di esercitare poteri sostitutivi nell'ipotesi in cui le singole strutture di sanità pubblica non assicurino il rispetto delle prescrizioni contenute nei commi precedenti.

    13.- Merita accoglimento anche la censura proposta, nei confronti del comma 11, da entrambe le ricorrenti.

    La norma impugnata, in primo luogo, investe profili che attengono strettamente all'organizzazione del servizio sanitario, incidendo, così, sull'autonomia delle scelte organizzative delle Regioni e delle Province autonome.

    Essa, inoltre, anche in ragione delle incertezze che circondano la qualificazione giuridica da riservare all'attività affidata al Collegio di direzione o alla commissione paritetica di sanitari («dirimere le vertenze dei dirigenti sanitari in ordine all'attività libero-professionale intramuraria»), nonché alla natura di tali controversie e dei soggetti "contraddittori" dei dirigenti sanitari, si presenta troppo generica per poter essere ritenuta espressiva di un principio fondamentale della materia "tutela della salute".

    14.- Infine, non fondate devono ritenersi le questioni - promosse dalla sola Regione Lombardia - aventi ad oggetto le restanti disposizioni di cui ai commi 8, 9, 12, 13 e 14.

    Viene nuovamente in rilievo, al riguardo, l'enunciazione di principi generali, attinenti ora alle informazioni che Regioni e Province autonome dovranno fornire al Ministro della salute in ordine alla piena attuazione del regime dell'intra moenia (comma 8), ora alla separazione che dovrà essere assicurata tra l'attività istituzionale espletata presso le strutture sanitarie pubbliche e quella libero-professionale destinata a svolgersi nei loro spazi (comma 9), ora, infine, alla necessità di prevedere un'attività di monitoraggio attraverso l'istituzione di un apposito Osservatorio nazionale (comma 13).

    Infine, non assistiti da fondamento devono ritenersi i dubbi di costituzionalità prospettati con riferimento ai restanti commi 12 e 14, dal momento che il primo riconosce a Regioni e Province autonome un'amplissima facoltà di regolamentazione dell'attività libero-professionale dei dirigenti veterinari (senza, invero, dettare prescrizioni di sorta in grado di limitare l'autonomia delle ricorrenti), mentre il secondo si limita a stabilire che dalla costituzione e dal funzionamento delle più volte menzionate commissioni paritetiche di sanitari che esercitano l'attività libero-professionale intramuraria «non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica». Trattandosi di norme che possono essere qualificate come espressive di principi fondamentali della materia, esse non sono suscettibili di apportare alcuna lesione alla potestà spettante alle ricorrenti di intervenire con legislazione di dettaglio nella materia della tutela della salute.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    dichiara l'illegittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 4, della legge 3 agosto 2007, n. 120 (Disposizioni in materia di attività libero-professionale intramuraria e altre norme in materia sanitaria), limitatamente alla parola «vincolante»;

    dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 6, della medesima legge n. 120 del 2007;

    dichiara l'illegittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 7, della medesima legge n. 120 del 2007, limitatamente alle parole «In caso di mancato adempimento degli obblighi a carico delle regioni e delle province autonome di cui al presente comma, è precluso l'accesso ai finanziamenti a carico dello Stato integrativi rispetto ai livelli di cui all'accordo sancito l'8 agosto 2001 dalla Conferenza permanente pe r i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 207 del 6 settembre 2001. Il Governo esercita i poteri sostitutivi in caso di inadempimento da parte delle regioni o delle province autonome, ai sensi e secondo la procedura di cui all'articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131, anche con riferimento alla destituzione di cui al primo periodo del presente comma»;

    dichiara l'illegittimità costituzionale dell'articolo 1, commi 10, della medesima legge n. 120 del 2007, limitatamente alle parole «e comunque non oltre il termine di cui al comma 2, primo periodo»;

    dichiara l'illegittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 11, della medesima legge n. 120 del 2007;

    dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della medesima legge n. 120 del 2007, promossa dalla Regione Lombardia - in riferimento ai principi di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e buon andamento (art. 97 Cost.) - con il ricorso di cui in epigrafe;

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della medesima legge n. 120 del 2007, promossa dalla Regione Lombardia - in riferimento al principio di leale collaborazione (art. 120 Cost.) - con il ricorso di cui in epigrafe;

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 5, della medesima legge n. 120 del 2007, promossa dalla Provincia autonoma di Trento in riferimento agli artt. 8, numero 1), 9, numero 10), e 16 del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), nonché in riferimento al d.P.R. 218 marzo 1975, n. 474 (Norme di attuazione dello statuto per la regione Trentino-Alto Adige in materia di igiene e sanità), al d.P.R. 26 gennaio 1980, n. 197 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti integrazioni alle norme di attuazione in materia di igiene e sanità approvate con d.P.R. 28 marzo 1975, n. 474), all'art. 8 del d.P.R. 19 novembre 1987, n. 526 (Estensione alla regione Trentino-Alto Adige ed alle province autonome di Trento e Bolzano delle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616), ed agli artt. 2 e 4 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), nonché agli artt. 117, 118 e 120 della Costituzione in connessione con l 'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), con il ricorso indicato in epigrafe;

    dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 1, 2, 3, 5, 8, 9, 12, 13 e 14 della medesima legge n. 120 del 2007, promossa dalla Regione Lombardia, in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost., con il ricorso indicato in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 novembre 2008.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Alfonso QUARANTA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 novembre 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedente< img src="http://www.cortecostituzionale.it/img/ico12.gif" border="0" hspace="3" vspace="0" alt="Pronuncia successiva">

SENTENZA N. 372

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Giovanni Maria  FLICK              Presidente

- Francesco       AMIRANTE             Giudice

- Ugo             DE SIERVO               "

- Paolo           MADDALENA               "

- Alfio           FINOCCHIARO             "

- Alfonso         QUARANTA                "

- Franco          GALLO                   "

- Luigi           MAZZELLA                "

- Gaetano         SILVESTRI               "

- Maria Rita      SAULLE                  "

- Giuseppe        TESAURO                 "

- Paolo Maria     NAPOLITANO              "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale della  legge della Regione Campania 22 giugno 2007, n. 7 (Disposizioni per la valorizzazione, la promozione ed il commercio della carne di bufalo campano), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 27 agosto 2007, depositato in cancelleria il 6 settembre 2007 ed iscritto al n. 37 del registro ricorsi 2007.

    Visto l'atto di costituzione della Regione Campania;

    udito nell'udienza pubblica del 23 settembre 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;

    uditi l'avvocato dello Stato Gaetano Zotta per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Vincenzo Cocozza per la Regione Campania.

Ritenuto in fatto

    1. - Con ricorso notificato il 27 agosto 2007, depositato il successivo 6 settembre, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato, in riferimento agli artt. 97 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'intera legge della Regione Campania 22 giugno 2007, n. 7 (Disposizioni per la valorizzazione, la promozione ed il commercio della carne di bufalo campano), «e comunque, in particolare» degli artt. 1, 3 e 5 della medesima legge.

    1.1. - Il ricorrente premette che la legge regionale n. 7 del 2007 intende promuovere la valorizzazione, la diffusione ed il commercio della carne di bufalo campano, «così come tutelata ai sensi del regolamento (CE) n. 510/2006» (art. 1); individua il suo ambito di applicazione nella zona regionale di allevamento e di trasformazione della carne di bufalo campano, rappresentata, in osservanza al suddetto regolamento comunitario, da «quell'area del territorio amministrativo della Regione Campania definito dal disciplinare di produzione» (art. 2); detta disposizioni relative all'allevamento del bufalo campano, preordinate ad assicurare le caratteristiche organolettiche tipiche delle sue carni (art. 3), nonché disposi zioni relative alla valorizzazione ed alla commercializzazione del prodotto, stabilendo che, per il perseguimento di tali fini, allevatori, macellatori ed imprese di lavorazione della filiera possono costituire dei «consorzi di valorizzazione» (artt. 4 e 5); istituisce un regime di aiuti di durata quinquennale in favore dei «consorzi di valorizzazione» (artt. 6 e 7), subordinando l'esecutorietà dei provvedimenti di ammissione del beneficio al parere di conformità della Commissione europea (art. 8).

    1.2. - Secondo il ricorrente, la legge impugnata sarebbe stata adottata dalla Regione Campania «in sedicente attuazione» del regolamento (CE) 20 marzo 2006, n. 510/2006 (Regolamento del Consiglio relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d'origine dei prodotti agricoli e alimentari). Invero, le diverse disposizioni della legge regionale poggerebbero sul «presupposto» del «riconoscimento del prodotto su base geografica», mentre tale riconoscimento, «riservato alla Comunità europea, ai sensi del Trattato CE (artt. 32 e seguenti)», non è ancora intervenuto.

    L'intera legge campana, pertanto, anticiperebbe il riconoscimento della denominazione geografica carne di bufalo campano e mirerebbe ad assicurare a quest'ultima una tutela non prevista in sede comunitaria, in contrasto con le norme del Trattato che istituisce la Comunità europea sopra richiamate e con il regolamento (CE) n. 510/2006, art. 5, comma 5; conseguentemente, violerebbe l'art. 117, primo comma, della Costituzione.

    L'incompatibilità con la disciplina comunitaria risulterebbe evidente per gli artt. 1, 3 e 5 della legge regionale n. 7 del 2007.

    In particolare, ad avviso del ricorrente, l'art. 1 sancirebbe che la carne di bufalo campano è tutelata ai sensi del regolamento (CE) n. 510/2006, nonostante, prima della iscrizione della denominazione geografica nell'apposito registro comunitario, «non vi possa essere alcuna tutela ai sensi dello specifico regolamento di settore». Inoltre, gli artt. 3 e 5 si riferirebbero ad un disciplinare di produzione, che «semplicemente non esiste».

    La denunciata legge violerebbe altresì l'art. 97 della Costituzione, e soprattutto «le regole di coamministrazione fra amministrazione comunitaria ed amministrazione interna», risultando «inopportuna ed intempestiva», poiché emanata pochi mesi prima della trasmissione alla Commissione europea, da parte del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, della documentazione inerente alla domanda di iscrizione nel registro comunitario delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche protette, presentata dal Comitato per la registrazione della IGP carne di bufalo campana.

    2. - Si è costituita in giudizio la Regione Campania, chiedendo di dichiarare il ricorso improcedibile, inammissibile e, comunque, infondato.

    2.1. - In via preliminare, la resistente eccepisce la genericità dei motivi addotti a sostegno della questione di costituzionalità, sollevata «senza definire con precisione il presunto contrasto con la normativa comunitaria, se non accennando all'incidentale richiamo al regolamento CE n. 510/06 effettuato dal primo articolo».

    Nel merito, osserva che la legge impugnata investe un ambito materiale, quello dell'agricoltura, riservato alla competenza esclusiva della Regione, facendone conseguire che «se si ipotizza un contrasto con la normativa comunitaria, questo deve essere puntuale e deve essere rilevato sulla base di un attento confronto tra le due discipline (comunitaria e regionale) poste in essere da organi entrambi competenti nel settore specifico».

    In realtà, le finalità della normativa regionale e quelle della normativa comunitaria non coinciderebbero affatto: mentre il regolamento (CE) n. 510/06 avrebbe ad oggetto la disciplina della procedura di registrazione delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche protette, nonché l'individuazione delle garanzie afferenti all'impiego commerciale ed alla protezione delle denominazioni registrate, la legge regionale, disinteressandosi del riconoscimento e della protezione della denominazione carne di bufalo campano, si limiterebbe a prevedere e regolare i finanziamenti regionali in favore dei consorzi di valorizzazione del prodotto.

    Il riferimento al regolamento (CE) n. 510/06, contenuto nell'art. 1 della legge impugnata, secondo la difesa regionale, «rinvia al riconoscimento che sarà effettuato dalla Commissione europea» e, dunque, «si giustifica in considerazione dell'avanzato stato della pratica avviata per la registrazione del marchio [.] di cui la Regione ha voluto tener conto, ma che non comporta alcuna conseguenza sul piano degli effetti di tutela prevista dalla normativa comunitaria, sino alla registrazione stessa».

    Per quel che attiene, poi, agli artt. 3 e 5 della legge n. 7 del 2007, la Regione contesta l'assunto del ricorrente, secondo cui non esisterebbe alcun disciplinare, rilevando che proprio sulla base del disciplinare è stata avviata la procedura prevista dall'art. 5 del regolamento (CE) n. 510/06.

    2.2. - In prossimità dell'udienza, la Regione Campania ha depositato una memoria per ribadire e svolgere ulteriormente le proprie tesi, deducendo testualmente che «è evidente che il legislatore regionale abbia semplicemente voluto predisporre la base organizzativa e normativa per i futuri interventi di "valorizzazione, diffusione e commercializzazione", soprattutto con riferimento agli strumenti finanziari di sicura competenza regionale, una volta che la Commissione europea, accogliendo l'istanza, abbia effettuato il riconoscimento IGP ed approvato il rel ativo disciplinare».

    In definitiva, secondo la resistente, la legge regionale «non anticipa alcun riconoscimento, ma anzi, condiziona l'efficacia delle previsioni al riconoscimento che effettuerà la Commissione».

    3. - All'udienza pubblica le parti hanno insistito per l'accoglimento delle conclusioni rassegnate nelle difese scritte.

Considerato in diritto

    1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri dubita della legittimità costituzionale dell'intera legge della Regione Campania 22 giugno 2007, n. 7 (Disposizioni per la valorizzazione, la promozione ed il commercio della carne di bufalo campano), per violazione degli artt. 97 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione agli artt. 32 e seguenti del Trattato che istituisce la Comunità europea, nonché all'art. 5, comma 5, del regolamento (CE) 20 marzo 2006, n. 510/2006 (Regolamento del Consiglio relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d'origine dei prodotti agr icoli e alimentari).

    Le censure si riferiscono in particolar modo all'art. 1 della citata legge, in base al quale la Regione promuove la valorizzazione, la diffusione ed il commercio della carne di bufalo campano, «così come tutelata ai sensi del Regolamento (CE) n. 510/2006 del Consiglio del 20 marzo 2006»; nonché all'art. 3, che detta disposizioni relative all'allevamento del bufalo campano, preordinate ad assicurare le caratteristiche organolettiche tipiche delle sue carni, sempre rinviando alle prescrizioni del «disciplinare della carne di bufalo campano», ed all'art. 5 della medesima legge, che consente la costituzione di «consorzi di valorizzazione» ai soli operat ori iscritti negli elenchi «di cui all'art. 4 del disciplinare del regolamento indicato all'art. 1».

    Ad avviso del ricorrente, queste norme, così come le altre contenute nella legge impugnata, ora richiamando il regolamento (CE) n. 510/2006, ora rinviando al disciplinare previsto dall'art. 4 del medesimo regolamento, sarebbero fondate sul «presupposto» dell'«avvenuto riconoscimento del prodotto» quale indicazione geografica, nonostante la denominazione carne di bufalo campano non sia in realtà ancora registrata a livello comunitario e, conseguentemente, alcun disciplinare sia venuto a giuridica esistenza relativamente ad essa.

    L'intera legge regionale, dunque, si porrebbe in contrasto con gli artt. 32 e seguenti del Trattato CE e con il regolamento (CE) n. 510/2006, in quanto anticiperebbe il riconoscimento del prodotto su base geografica e mirerebbe ad assicurare alla carne di bufalo campano una tutela non ancora prevista in sede comunitaria.

    Il Presidente del Consiglio dei ministri lamenta altresì una violazione del principio del buon andamento della pubblica amministrazione e soprattutto delle «regole di coamministrazione fra amministrazione comunitaria ed amministrazione interna», deducendo l'inopportunità e l'intempestività della legge impugnata, emanata, con le caratteristiche descritte, pochi mesi prima della chiusura della fase nazionale del procedimento per la iscrizione della denominazione «carne di bufalo campana» nel registro comunitario delle denominazioni di origine protette e delle indicazioni geografiche protette. </ P>

    2. - Deve preliminarmente essere respinta l'eccezione d'inammissibilità della questione, formulata dalla difesa regionale sul rilievo della genericità dei motivi addotti dal ricorrente.

    Invero, l'atto introduttivo del giudizio contiene i requisiti argomentativi minimi per identificare i termini della questione, riguardante una legge caratterizzata da disposizioni di contenuto omogeneo, tutte coinvolte dalle censure in ragione di una presunta interferenza, sotto i profili sopra richiamati, con la normativa comunitaria in materia di segni distintivi dei prodotti agroalimentari.

    3. - La questione relativa alla violazione dell'art. 117, primo comma, Cost. non è fondata.

    Il ricorrente ritiene che la legge regionale illegittimamente anticipi, per il prodotto locale carne di bufalo, il riconoscimento di una «qualifica» prevista dal regolamento (CE) n. 510/06, di competenza delle istituzioni comunitarie.

    Per verificare la correttezza di un tale assunto, giova partire dall'esame dell'art. 1 della legge impugnata, il quale, nell'individuare le «finalità della legge», dispone che «La Regione Campania promuove la valorizzazione, la diffusione ed il commercio della carne di bufalo campano, così come tutelata ai sensi del Regolamento (CE) n. 510/2006 del Consiglio del 20 marzo 2006, di seguito indicata carne di bufalo campano».

    Ora, è evidente che l'uso della proposizione «così come tutelata ai sensi del Regolamento (CE) n. 510/2006» di per sé non implica affatto l'attribuzione di uno dei riferimenti geografici previsti in ambito comunitario alla carne di bufalo campano.

    Tantomeno esso implica l'ammissione del prodotto ad un regime di protezione analogo a quello garantito dall'art. 13 del citato regolamento, secondo il quale le denominazioni registrate sono tutelate contro qualsiasi impiego commerciale diretto o indiretto per prodotti che non sono oggetto di registrazione, qualsiasi usurpazione, imitazione o evocazione, qualsiasi altra indicazione falsa o ingannevole relativa alla provenienza, all'origine, alla natura o alle qualità essenziali dei prodotti, qualsiasi altra prassi che possa indurre in errore il consumatore sulla vera origine dei prodotti.

    La legge impugnata, invero, non intende affatto istituire una simile protezione, bensì, in linea con le competenze regionali, introduce misure di sostegno per interventi promozionali del prodotto locale carne di bufalo, sul presupposto dell'avvenuto riconoscimento della relativa denominazione a livello comunitario.

    Il richiamo alla fonte comunitaria, piuttosto, sottintende la necessità di un raccordo e, perciò, suppone che la Regione possa applicare la propria legge, dando corso all'erogazione dei finanziamenti con la medesima istituiti, solamente dopo che sia intervenuta la registrazione della denominazione geografica carne di bufalo campano ai sensi del regolamento (CE) n. 510/06.

    Così interpretato l'art. 1, la denunciata illegittimità non sussiste neppure per le altre norme della legge regionale, le quali rinviano al disciplinare allegato alla domanda di iscrizione della carne di bufalo campana nel registro comunitario delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche protette, presentata dal Comitato per la registrazione della IGP carne di bufalo campana ed ora all'esame della Commissione europea.

    Le norme, appunto, vanno intese nel senso che, per univoca volontà del legislatore regionale, la loro efficacia resta comunque condizionata alla effettiva iscrizione della denominazione carne di bufalo campano nel registro comunitario delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche protette; entro un tale limite, non interferiscono con il regime comunitario dei segni distintivi dei prodotti agroalimentari.

    4. - Del pari non fondata è la censura riferita all'art. 97 Cost.

    Non risulta conferente, difatti, l'invocazione del principio del buon andamento dell'azione amministrativa, poiché il ricorrente - assumendo che la legge regionale sia «inopportuna ed intempestiva», perché emanata pochi mesi prima della conclusione della fase nazionale del procedimento composito per la registrazione del prodotto quale indicazione geografica protetta - non ha posto in discussione il contenuto di disposizioni legislative che impongano un determinato comportamento alla pubblica amministrazione, bensì esclusivamente il corretto svolgimento dell'iter procedimentale legislativo (sentenza n. 241 del 2008).

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Campania 22 giugno 2007, n. 7 (Disposizioni per la valorizzazione, la promozione ed il commercio della carne di bufalo campano), sollevata, in riferimento agli artt. 97 e 117, primo comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe indicato.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 novembre 2008.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 novembre 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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SENTENZA N. 373

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Giovanni Maria  FLICK              Presidente

- Francesco       AMIRANTE             Giudice

- Ugo             DE SIERVO               "

- Paolo           MADDALENA               "

- Alfio           FINOCCHIARO             "

- Alfonso         QUARANTA                "

- Franco          GALLO                   "

- Luigi           MAZZELLA                "

- Gaetano         SILVESTRI               "

- Sabino          CASSESE                 "

- Maria Rita      SAULLE                  "

- Giuseppe        TESAURO                 "

- Paolo Maria     NAPOLITANO              "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 1, lettera c), del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), promosso con ordinanza depositata il 12 ottobre 2007 dalla Commissione tributaria provinciale di Novara nel giudizio vertente tra Mauro Bolognesi e l'Agenzia delle entrate, ufficio di Novara, iscritta al n. 138 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell'anno 2008.

      Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

      udito nella camera di consiglio del 22 ottobre 2008 il Giudice relatore Franco Gallo.

Ritenuto in fatto

    1. - Con ordinanza depositata il 12 ottobre 2007, la Commissione tributaria provinciale di Novara ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi). La questione è sollevata nel corso di un giudizio di impugnazione del diniego di rimborso dell'IRPEF relativa a quanto corrispost o da un contribuente, nell'anno 2004, alla propria ex coniuge, quale contributo periodico determinato dal Tribunale di Novara in sede di modificazione delle condizioni di divorzio, per il mantenimento del comune figlio maggiorenne. La Commissione tributaria provinciale censura la predetta disposizione nella parte in cui esclude la deducibilità dal reddito complessivo, ai fini delle imposte dirette, degli assegni periodici corrisposti al coniuge a séguito di separazione o divorzio, nella misura in cui risultano dovuti in base a provvedimenti dell'autorità giudiziaria, per il mantenimento dei figli. Secondo il giudice rimettente, la disposizione censurata, nel prevedere la menzionata indeducibilità dei suddetti assegni per il mantenimento dei figli, crea una ingiustificata disparità di trattamento fiscale rispetto all'ipotesi di somme corrisposte in adempimento dell'obbligo di prest are gli alimenti ai soggetti indicati dall'art. 433 del codice civile (e, quindi, anche ai figli), le quali, invece - sempre nella misura in cui risultano da provvedimenti dell'autorità giudiziaria -, sono deducibili dal reddito complessivo, ai fini delle imposte dirette (art. 10, comma 1, lettera d, del d.P.R. n. 917 del 1986). A sostegno di tale assunto il rimettente afferma che, in tali casi, l'assegno di mantenimento e quello alimentare hanno «analoga funzione» e che, pertanto, la disparità di trattamento fiscale tra tali assegni «risulta [.] ingiustificata»; e ciò tanto piú ove il giudizio di separazione o di divorzio faccia séguito ad una precedente condanna al pagamento degli alimenti a favore del figlio, perché, in tal caso, «gli importi destinati a quest'ultimo sarebbero legittimamente deducibili dal reddito dell'onerato». In particolare, il giudice a quo nega che la invocata deducibilità dell'assegno periodico fissato dal giudice per il mantenimento del figlio comporta la necessità - come, invece, obiettato dall'amministrazione finanziaria resistente in giudizio - di riconoscere anche all'altro coniuge una pari deduzione per le spese sostenute allo stesso fine. Per la Commissione tributaria, infatti, la somma di denaro determinata autoritativamente dal giudice non può essere assimilata a «spese, genericamente riconducibili al generico ménage familiare del genitore convivente e non precisamente determinabili, che come tali giustificano la apposita detrazione forfetaria per familiari a carico». La medesima Commissione tributaria aggiunge che la questione cosí prospettata è diversa da quella dichiarata manifestame nte infondata dalla Corte costituzionale, con ordinanza n. 950 del 1988; questione sollevata - con riferimento all'assegno periodico determinato dal giudice e corrisposto al coniuge separato o divorziato - sotto il profilo della denunciata disparità di trattamento fiscale tra la deducibilità dell'assegno per il mantenimento del coniuge e l'indetraibilità di quello per il mantenimento dei figli assegnati all'altro coniuge.

    2. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in giudizio, deducendo che: a) il giudice a quo erroneamente pone a raffronto situazioni diverse, cioè l'obbligo (rientrante tra gli ordinari doveri dei genitori di mantenere ed educare i propri figli, ancorché maggiorenni) di corrispondere al coniuge un assegno per il mantenimento dei figli e quello (derivante dal dovere di assicurare le necessarie fonti di sostentamento ai congiunti in stato di indigenza) di corrispondere al figlio di un assegno alimentare ai sensi dell'art. 433 cod. civ.; b) la manifesta difformità di tali situazioni, basate su presupposti affatto diversi e su diritt i azionabili da differenti soggetti, è affermata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (vengono citate le sentenze n. 12477 del 2004, n. 26259 del 2005 e n. 24498 del 2006); c) rientra nella discrezionalità del legislatore regolare le ipotesi di deducibilità delle spese ai fini fiscali (come sottolineato, proprio in ordine alla disposizione censurata, dalla Corte costituzionale, con l'ordinanza n. 950 del 1988); d) l'accoglimento della sollevata questione comporterebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra il genitore separato o divorziato che, in quanto destinatario di un provvedimento giudiziario che lo obbliga a corrispondere l'assegno per il mantenimento del figlio, può dedurre tale assegno dal reddito imponibile ed il genitore che, in quanto contribuisca al mantenimento del figlio in via ordinaria (ai sensi degli artt. 147 e 148 cod. civ.), non può operare detta deduzione. La difesa erariale conclude chiedendo che la q uestione sia dichiarata inammissibile o, comunque, manifestamente infondata.

Considerato in diritto.

    1. - La Commissione tributaria provinciale di Novara dubita, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, della legittimità dell'art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), nella parte in cui esclude la deducibilità dal reddito complessivo, ai fini delle imposte dirette, degli assegni periodici corrisposti al coniuge a séguito di separazione o divorzio, nella misura in cui risultano da provvedimenti dell'autorità giudiziaria, per il mantenimento dei figli. Secondo la Commissione tributaria, la disposizione denunciata víola l'art. 3 Cost., perché crea una ingiustificata disparità di trattamento fiscale rispetto all'«analoga» ipotesi di somme corrisposte in adempimento dell'obbligo di prestare gli alimenti ai soggetti indicati dall'art. 433 del codice civile (e, quindi, anche ai figli), le quali, invece - nella misura in cui risultano da provvedimenti dell'autorità giudiziaria -, sono deducibili dal reddito complessivo, ai fini delle imposte dirette (art. 10, comma 1, lettera d, del d.P.R. n. 917 del 1986).

    2. - La questione non è fondata.

    Questa Corte ha costantemente affermato che la previsione di ipotesi di deducibilità e detraibilità ai fini fiscali resta affidata alla discrezionalità del legislatore, la quale «rimane insindacabile nel giudizio di costituzionalità, a meno che non trasmodi in arbitrio» (ordinanza n. 950 del 1988; nello stesso senso, ex plurimis, sentenza n. 134 del 1982; ordinanze n. 258 del 2008 e n. 370 del 1999). Nella specie, la scelta del legislatore di differenziare - nell'àmbito degli assegni determinati iussu iudicis a favore dei figli - il regime fiscale dell'assegno di mantenimento da quello dell'assegno di alimenti legali non è arbitraria, per almeno due distinte e concorrenti ragioni.

    2.1. - In primo luogo, va rilevato che dall'esatta premessa che l'assegno alimentare costituisce, quantitativamente, un minus rispetto all'assegno di mantenimento, il rimettente trae l'erronea conseguenza che tali assegni debbono avere il medesimo trattamento fiscale. Dalla suddetta premessa deriva soltanto, invece, che, nel caso di assegno di mantenimento per i figli, la funzione propriamente alimentare del medesimo assegno è assolta dal minore importo, in esso ricompreso, corrispondente all'ammontare di un ipotetico assegno di alimenti legali. Al riguardo, questa Corte ha già precisato che il credito di alimenti legali va equiparato a quello relativo all'assegno di mantenimento solo «nei limiti in cui questo abbia car attere alimentare» (sentenza n. 506 del 2002) e, quindi, solo «una volta accertato lo stato di bisogno del beneficiario» (sentenza n. 1041 del 1988). Occorre, tuttavia, osservare che, anche ove risulti accertato lo stato di bisogno, la quota dell'assegno di mantenimento che soddisfa esigenze strettamente alimentari non è concretamente determinata nel quantum ed è indistinguibile dal piú ampio ammontare fissato dal giudice per il mantenimento. Questa circostanza è da sola sufficiente a rendere non arbitraria la scelta legislativa di consentire la deduzione fiscale delle sole prestazioni alimentari certe nel loro ammontare e di escluderla per quelle non certe perché ricomprese nella piú ampia prestazione di mantenimento. Questa Corte, infatti, ha piú volte sottolineato che, nella individuazione degli oneri detraibili, è ragionevole che il legislatore si ispiri ad esigenze di certezza, senza lasciare tale indi viduazione alla volontà del contribuente o alla discrezionalità dell'amministrazione finanziaria (ex pluribus, la citata ordinanza n. 370 del 1999, che ha ritenuto non illegittima costituzionalmente la normativa che consente la deduzione dal reddito imponibile degli assegni alimentari limitatamente alla misura risultante da provvedimento dell'autorità giudiziaria e la esclude per la prestazione alimentare spontaneamente corrisposta dal debitore).

    Non potrebbe obiettarsi, come fa il rimettente, che la misura degli alimenti sarebbe determinata almeno nel caso in cui una condanna al pagamento degli alimenti a favore del figlio sia seguíta da un giudizio di separazione o di divorzio recante condanna al mantenimento del medesimo figlio. Detta ipotesi non è in concreto configurabile, sia perché la sussistenza dell'obbligo di mantenimento è alternativa a quella dell'obbligo alimentare e, pertanto, esclude la condanna agli alimenti legali; sia perché, in ogni caso, ove anche alla condanna agli alimenti legali segua - di fatto - quella al mantenimento, dovrebbe aversi riguardo solo a quest'ultima pronuncia, senza che all'importo dovuto per il mantenimento (fiscalmente non deducibile) si possa sottra rre quanto dovuto per gli alimenti legali (fiscalmente deducibile) in base ad una precedente sentenza.

    L'identico trattamento fiscale dei due obblighi non è giustificato, del resto, nemmeno dalla loro comune funzione di sostegno economico al beneficiato, evidenziata da questa Corte nella sentenza interpretativa di rigetto n. 17 del 2000. Nella fattispecie esaminata da tale sentenza non veniva, infatti, in rilievo l'indicata esigenza di certezza nella determinazione degli oneri imponibili, ma la possibilità di un'interpretazione conforme a Costituzione dell'art. 2751, n. 4, cod. civ., al solo fine di estendere la garanzia del privilegio generale prevista per il credito alimentare al credito di mantenimento del coniuge separato o divorziato.

    2.2. - In secondo luogo, la norma denunciata appare non irragionevole in considerazione delle evidenti differenze di presupposti e di funzioni tra l'obbligo di mantenimento dei figli e l'obbligo degli alimenti legali in favore dei medesimi.

    La Corte di cassazione civile, con numerose pronunce non prese in considerazione dal rimettente e che, per uniformità e costanza, assurgono a diritto vivente (ex plurimis, sentenze n. 12477 del 2004, n. 2196 del 2003), ha da tempo precisato che l'obbligo di mantenere i figli previsto dagli artt. 147, 148 e 261 cod. civ.: a) consiste nel prestare loro quanto occorre per tutte le esigenze della vita (tenendo conto delle loro capacità, inclinazioni naturali e aspirazioni); b) si commisura in proporzione alle sostanze dei genitori; c) prescinde dallo stato di bisogno dei figli medesimi; d) decorre dal momento in cui sorge il rapporto di filiazione e termina nel momento in cui il figlio maggiorenne è in condizione di avere una propria autonomia economica. Secondo le medesime pronunce, l'obbligo di prestare gli alimenti legali ai figli previsto dagli artt. 433, primo comma, numero 3, 438, 440 e 445 cod. civ., invece: a) ha un contenuto piú ristretto dell'obbligo di mantenimento, perché consiste nel somministrare quanto necessario per le fondamentali esigenze di vita dell'alimentando, avuto riguardo alla sua posizione sociale; b) si commisura in proporzione al bisogno di chi domanda gli alimenti ed alle condizioni economiche di chi li deve somministrare; c) sorge soltanto in mancanza dell'obbligo di mantenimento, quando sussista il duplice presupposto dello stato di bisogno dell'alimentando (cioè dell'incapacità di far fronte alle proprie fondamentali esigenze di vita) e dell'impossibilità per quest'ultimo di provvedere al proprio mantenimento, restando irrilevante se lo stato di bisogno derivi dalla colpa dell'alimentando (salva la riducibilità dell'assegno alime ntare in caso di condotta disordinata o riprovevole dell'alimentato); d) decorre dalla domanda giudiziale o dal giorno della messa in mora da parte dell'alimentando (ove questa sia seguíta entro sei mesi dalla domanda giudiziale) e termina con la cessazione dello stato di bisogno o con la sopravvenuta possibilità per l'alimentando di provvedere al proprio mantenimento.

    Da tali pronunce si desume, in particolare, che, mentre l'obbligo di mantenimento è espressione del dovere di solidarietà familiare sancito dall'art. 30 Cost. ed assolve la funzione di consentire il pieno sviluppo della personalità dei figli, l'obbligo alimentare sussiste, invece, solo ove non vi sia obbligo di mantenimento ed assolve la diversa funzione di assistenza familiare, in quanto è diretto esclusivamente ad ovviare allo stato di bisogno ed all'incapacità dell'alimentando di farvi fronte. Corollario di questa impostazione giurisprudenziale sono le svariate sentenze della stessa Corte di cassazione civile - anch'esse non prese in considerazione dal rimettente - secondo le quali la diver sità tra l'azione diretta ad ottenere il mantenimento e quella diretta ad ottenere gli alimenti legali comporta che alla prima non si applica la sospensione dei termini processuali nel periodo feriale prevista dalla legge per la seconda (ex plurimis, Cassazione civile, sentenze n. 8417 del 2000; n. 7358 del 1994).

    A diversa conclusione non può portare l'orientamento della stessa Corte di cassazione civile secondo cui la richiesta in appello degli alimenti non costituisce una vietata mutatio libelli rispetto alla domanda di mantenimento avanzata in primo grado, ma una mera emendatio libelli, come tale consentita dall'art. 345 del codice di procedura civile (ex plurimis, sentenze n. 1761 del 2008; n. 4198 del 1998; n. 6106 e n. 5381 del 1997). Invero, la generica comune funzione di sostenere economicamente il beneficiato, assolta dal credito alimentare e da quello di mantenimento, ed il fatto che - ove sussista anche lo stato di bisogno del figlio - l'as segno di mantenimento comprenda in sé, nel quantum, il minore importo dell'assegno alimentare sono circostanze che possono portare ad escludere, secondo il citato orientamento giurisprudenziale, la mutatio libelli, ma certamente non eliminano le indicate rilevanti diversità dei due istituti.

    Deve, pertanto, concludersi che le situazioni poste a raffronto dal rimettente non sono omogenee e che la norma denunciata si sottrae alla censura di ingiustificata disparità di trattamento fiscale rispetto all'assegno alimentare per i figli. In particolare, la scelta del legislatore di consentire la deduzione fiscale esclusivamente dell'assegno periodico alimentare e non di quello di mantenimento appare ispirata alla non irragionevole ratio non solo di differenziare il trattamento fiscale di prestazioni eterogenee, ma anche di favorire l'adempimento dell'obbligo alimentare, cioè di un obbligo che sorge solo ove manchi quello di mantenimento e, quindi, ove sia divenuto meno intenso il vincolo di solidarietà familiare.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 1, lettera c), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Novara con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 novembre 2008.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 novembre 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedente

ORDINANZA N. 374

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

- Giovanni Maria  FLICK       Presidente

- Francesco       AMIRANTE      Giudice

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito delle deliberazioni della Camera dei deputati del 2 maggio 2007, relative alla insindacabilità, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dai deputati Mario Borghezio ed altri, promosso con ricorso del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Verona depositato in cancelleria il 24 aprile 2008 ed iscritto al n. 10 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2008, fase di ammissibilità.

    Udito nella camera di consiglio dell'8 ottobre 2008 il Giudice relatore Paolo Maddalena.

    Ritenuto che il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Verona ha sollevato conflitto di attribuzione «in ordine al corretto uso del potere di decidere con riguardo alla ricorrenza dei presupposti di applicabilità dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, come esercitato dalla Camera dei deputati con le delibere del 2 maggio 2007 relativamente al procedimento penale», pendente dinanzi al medesimo giudice, «a carico dei deputati Mario Borghezio, Umberto Bossi, Enrico Cavaliere, Giacomo Chiappori, Giancarlo Pagliarini, Luigino Vascon, Roberto Maroni e Roberto Calderoli»;

    che il ricorrente precisa che nei confronti dei suddetti deputati - dopo la sentenza di proscioglimento per i reati di cui agli artt. 241, 283 e 271 del codice penale, trattandosi di fatti non più previsti dalla legge come reato a seguito della declaratoria di incostituzionalità recata dalla sentenza n. 243 del 2001 della Corte costituzionale e della successiva legge 24 febbraio 2006, n. 85 - residua la richiesta di rinvio a giudizio per l'imputazione relativa al reato di cui agli artt. 81 cod. pen. e 1 del d.lgs. 14 febbraio 1948, n. 43;

    che nel ricorso si evidenzia altresì che la Corte costituzionale, con ordinanza n. 102 del 2007, richiamata la propria sentenza di inammissibilità n. 267 del 2005, ha dichiarato inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dallo stesso Giudice ricorrente nei confronti del Senato della Repubblica in relazione alle deliberazioni adottate dall'Assemblea nella seduta del 31 gennaio 2001 (doc. IV-quater n. 60), con le quali è stato ritenuto che i fatti oggetto del procedimento penale a cari co dei senatori Vito Gnutti e Francesco Speroni concernono opinioni espresse da membri del Parlamento nell'esercizio delle loro funzioni e, in quanto tali, sono insindacabili: e ciò in quanto il conflitto contro la stessa delibera del Senato è stato «riproposto nel corso della stessa fase del giudizio e dall'identico giudice»;

    che, pertanto, nei confronti dei senatori Gnutti e Speroni è stata pronunciata all'udienza preliminare del 31 marzo 2008 sentenza di non doversi procedere, ai sensi dell'art. 129 del codice di procedura penale e dell'art. 6, comma 8, della legge 20 giugno 2003, n. 140, per difetto della condizione di procedibilità, essendo stati gli imputati «ritenuti immuni ai sensi dell'art. 68, comma primo, della Costituzione»;

    che, successivamente, con ordinanza del 9 ottobre 2006, lo stesso Giudice rimetteva gli atti, ai sensi degli artt. 3, commi 4 e 5, della legge n. 140 del 2003 e 68, primo comma, Cost., al Parlamento italiano in relazione alla posizione dei deputati innanzi indicati ed al Parlamento europeo in riferimento all'analoga posizione di Gian Paolo Gobbo, parlamentare europeo;

    che, con decisione del 24 ottobre 2007, il Parlamento europeo riteneva di «non difendere l'immunità né i privilegi del parlamentare europeo On. Gian Paolo Gobbo, reputando che i fatti attribuitigli non siano coperti da immunità parlamentare»;

    che, con nota del 4 maggio 2007, il Presidente della Camera dei Deputati comunicava «che l'Assemblea, nella seduta del 2 maggio 2007, ha approvato la relazione doc. IV quater n. 9, deliberando che i fatti per i quali è in corso il presente processo penale a carico di Mario Borghezio, Umberto Bossi, Enrico Cavaliere, Giacomo Chiappori, Giancarlo Pagliarini, Luigino Vascon, Roberto Maroni e Roberto Calderoli, deputati all'epoca dei fatti, concernono opinioni espresse da membri del Parlamento nell'esercizio delle loro funzioni, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione»;

    che, tanto premesso, il ricorrente sostiene che, non essendo stata mai investita la Corte costituzionale della risoluzione di un conflitto di attribuzione contro la predetta delibera della Camera dei deputati, sussisterebbe, nel caso di specie, l'interesse a ricorrere, non potendo spiegare effetti nei confronti dei deputati anzidetti le declaratorie di inammissibilità, di cui alle pronunce della Corte costituzionale sopra ricordate, dei ricorsi con cui era stato sollevato conflitto contro il Senato della Repubblica, concernenti unicamente le posizioni dei senatori Gnutti e Speroni, allora imputati;

    che, dunque, ad avviso del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Verona, nel caso in esame, «il ricorso viene proposto contro la Camera dei Deputati e avverso la delibera del 2 maggio 2007, ossia avverso un atto nuovo e distinto dalla delibera all'epoca adottata da un altro ramo del Parlamento, e cioè dal Senato della Repubblica, e che si ritiene viziato da incompetenza»;

    che il ricorrente, dopo aver descritto i fatti addebitati ai singoli imputati, nonché i risultati delle indagini promosse a loro carico, sostiene che «gli atti integranti il reato di partecipazione ad una associazione di tipo militare, svolgendo in essa compiti promozionali, direttivi e organizzativi, nonché sovrintendendo alle adesioni al gruppo da parte di terze persone, sono estranei al concetto di opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni parlamentari, ancorché letti nel contesto ideologico da cui si è mossa l'azione politica della Lega Nord ed il programma secessionista cui i parlamentari imputati hanno aderito»;

    che, pertanto, secondo il giudice confliggente, nella proposta di insindacabilità della Giunta per le autorizzazioni della Camera dei deputati, poi approvata dall'Assemblea nella seduta del 2 maggio 2007, non sarebbe stato adeguatamente affrontato «il tema della connessione tra l'esercizio delle funzioni parlamentari e le attività svolte, invece, in relazione all'associazione vietata dalla legge», né sarebbero state esplicitate le ragioni «per cui attività materiali come quelle più volte descritte nei paragrafi superiori possano ricondursi alla categoria delle "opinioni" espresse nell'esercizio delle funzioni di parlamentare», limitandosi detta proposta a qualificare le condotte oggetto di imputazione come u na proiezione di uno specifico «disegno politico»;

    che, quindi, la delibera di insindacabilità si sarebbe discostata dai principi espressi dalla Corte costituzionale in più di un'occasione circa l'ambito di operatività della garanzia prevista dall'art. 68, primo comma, Cost.;

    che, difatti, argomenta ancora il ricorrente, nei comportamenti addebitati ai predetti parlamentari «manca del tutto la riproduzione o divulgazione di una precedente attività parlamentare rispetto alla quale i fatti in esame presentino una "sostanziale identità di contenuti" tale da comportare un "nesso funzionale"»;

    che, in definitiva, conclude il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Verona, la delibera impugnata, nel ritenere sostanzialmente che la prerogativa dell'insindacabilità copra «tutti i comportamenti riconducibili all'attività politica lato sensu intesa del parlamentare, e che la sua ricorrenza non è esclusa anche di fronte a comportamenti che in astratto possono rivestire natura illecita», esorbiterebbe «dall'ambito derogatorio consentito dall'art. 68, primo comma, Cost., risultando violati, da un lato, anche gli artt. 101, secondo comma, 102, primo comma, e 104, primo comma, Cost., posti a tutela della titolarità della funzione giurisdizionale in capo alla mag istratura e della legalità ed indipendenza del suo esercizio; dall'altro, l'art. 3, primo comma, Cost., per la disparità di trattamento che in tal modo viene introdotta tra cittadini ordinari e parlamentari, consentendosi a questi ultimi condotte in ipotesi integranti figure di reato prive di qualsiasi connessione con la funzione parlamentare».

    Considerato che, in questa fase del giudizio, la Corte è chiamata, a norma dell'art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, a deliberare, senza contraddittorio, se il ricorso sia ammissibile in quanto vi sia la «materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza», sussistendone i requisiti soggettivo ed oggettivo e restando impregiudicata ogni ulteriore questione, anche in punto di ammissibilità;

    che, sotto il profilo del requisito soggettivo, va riconosciuta la legittimazione del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Verona a sollevare conflitto, in quanto organo giurisdizionale, in posizione di indipendenza costituzionalmente garantita, competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene nell'esercizio delle funzioni attribuitegli;

    che, parimenti, deve essere riconosciuta la legittimazione della Camera dei deputati ad essere parte del presente conflitto, quale organo competente a dichiarare in modo definitivo la propria volontà in ordine all'applicabilità dell'art. 68, primo comma, della Costituzione;

    che, per quanto attiene al profilo oggettivo, il giudice ricorrente lamenta la lesione della propria sfera di attribuzione, costituzionalmente garantita, in conseguenza di un esercizio ritenuto illegittimo, per inesistenza dei relativi presupposti, del potere spettante alla Camera di appartenenza dei parlamentari di dichiarare l'insindacabilità delle opinioni espresse da questi ultimi ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione;

    che, dunque, esiste la materia di un conflitto la cui risoluzione spetta alla competenza di questa Corte.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara ammissibile, ai sensi dell'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il conflitto di attribuzione proposto dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Verona nei confronti della Camera dei deputati con il ricorso indicato in epigrafe;

    dispone:

    a) che la cancelleria della Corte costituzionale dia immediata comunicazione della presente ordinanza al ricorrente Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Verona;

    b) che il ricorso e la presente ordinanza siano, a cura del ricorrente, notificati alla Camera dei deputati, in persona del suo Presidente, entro il termine di sessanta giorni dalla comunicazione di cui al punto a), per essere successivamente depositati, con la prova dell'avvenuta notifica, presso la cancelleria della Corte entro il termine fissato dall'art. 26, comma 3, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 novembre 2008.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 novembre 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA



 
   
    Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16 marzo 1956).

   Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale su quello sopra trascritto, in caso di divergenza.