Deposito del 31/10/2008 (dalla 354 alla 360) |
S.354/2008 del 22/10/2008 Camera di Consiglio del 24/09/2008, Presidente FLICK, Redattore AMIRANTE Norme impugnate: Art. 3, c. 5°, della legge 23/10/1985, n. 595, come integrato dagli artt. 2 e 7 del decreto ministeriale 03/11/1989, e dall'art. 2 del decreto ministeriale 13/05/1993. Oggetto: Sanità pubblica - Diritto alla fruizione di prestazioni sanitarie in forma indiretta in strutture estere diverse dai centri di altissima specializzazione - Mancata previsione anche nei casi in cui tali prestazioni siano l'unica possibilità per evitare un danno grave ed irreversibile alla salute. Dispositivo: non f ondatezza Atti decisi: ord. 105/2008 |
S.355/2008 del 22/10/2008 Udienza Pubblica del 07/10/2008, Presidente FLICK, Redattore MADDALENA Conflitto: Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati 02/08/2007. Oggetto: Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento penale a carico dell'on. Carlo Taormina per il reato di diffamazione a mezzo televisione nei confronti della dott.ssa Maria Del Savio Bonaudo, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Aosta - Deliberazione di insindacabilità della Camera dei deputati. Dispositivo: inammissibile < strong>Atti decisi: confl. pot. mer. 12/2007 |
S.356/2008 del 22/10/2008 Camera di Consiglio del 08/10/2008, Presidente FLICK, Redattore GALLO Norme impugnate: Art. 10 della legge 27/12/2002, n. 289. Oggetto: Imposte e tasse - Termini per la notifica degli avvisi di accertamento - Proroga dei termini disposta dall'art. 10 della legge n. 289 del 2002 nel caso in cui i contribuenti non si siano avvalsi delle forme di sanatoria ivi contemplate. - Ricorso proposto da società sottoposta ad amministrazione straordinaria avverso avvisi di accertamento per imposte dirette notificati dall'amministrazione finanziaria in forza della detta proroga - Dedotta impossibilit&a grave; per il soggetto giuridico sottoposto ad amministrazione straordinaria di accedere al condono e di evitare l'effetto punitivo della proroga dei termini per l'accertamento fin tanto che il credito erariale non sia stato accertato ed inserito dal giudice delegato nello stato passivo. - Ricorso avverso avviso di accertamento relativo all'anno di imposta 1998 e notificato dall'amministrazione finanziaria al contribuente nel dicembre 2005, in forza della detta proroga. Dispositivo: non fondatezza - manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 120, 124/2008 |
O.357/2008 del 22/10/2008 Udienza Pubblica del 07/10/2008, Presidente FLICK, Redattore AMIRANTE Norme impugnate: Art. 13, c. 7°, della legge 27/03/1992, n. 257, come modificato dall'art. 1 bis del decreto legge 05/06/1993, n. 169, aggiunto dalla legge 04/08/1993, n. 271. Oggetto: Previdenza - Lavoratori affetti da malattia cagionata da esposizione all'amianto e in posizione di quiescenza al momento dell'entrata in vigore della legge censurata - Beneficio della rivalutazione contributiva - Esclusione. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 728/2007 |
O.358/2008 del 22/10/2008 Camera di Consiglio del 08/10/2008, Presidente FLICK, Redattore SILVESTRI Norme impugnate: Art. 5 bis del decreto legge 11/07/1992, n. 333, c onvertito con modificazioni in legge 08/08/1992, n. 359. Oggetto: Espropriazione per pubblica utilità - Criteri di determinazione dell'indennizzo in misura ridotta rispetto al valore venale degli immobili. Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens Atti decisi: ord. 616, 780/2007 e 134/2008 |
O.359/2008 del 22/10/2008 Camera di Consiglio del 08/10/2008, Presidente FLICK, Redattore SILVESTRI Norme impugnate: Art. 294 del codice di procedura penale. Oggetto: Processo penale - Misure cautelari personali - Interrogatorio della persona sottoposta a misura cautelare personale - Mancata prev isione dell'obbligo dell'interrogatorio nel caso di aggravamento della misura di garanzia disposto ai sensi dell'art. 276, comma 1, cod. proc. pen. dopo la pronuncia della sentenza di primo grado e fino all'inizio del giudizio di appello. Dispositivo: manifesta infondatezza Atti decisi: ord. 157/2008 |
O.360/2008 del 22/10/2008 Camera di Consiglio del 08/10/2008, Presidente FLICK, Redattore AMIRANTE Conflitto: Ammissibilità di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati 12/09/2007. Oggetto: Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento penale per il reat o di diffamazione aggravata a mezzo della stampa a carico dell'on. Vittorio Sgarbi per le opinioni espresse nei confronti dei magistrati Elvira Castelluzzo e Angelica Di Giovanni - Deliberazione di insindacabilità della Camera dei deputati. Dispositivo: ammissibile Atti decisi: confl. pot. amm. 11/2008 |
SENTENZA N. 354 ANNO 2008REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 5, della legge 23 ottobre 1985, n. 595 (Norme per la programmazione sanitaria e per il piano sanitario triennale 1986-1988), come integrato dagli artt. 2 e 7 del d.m. 3 novembre 1989 e dall'art. 2 del d.m. 13 maggio 1993, promosso dalla Corte di cassazione, sul ricorso proposto dall'Azienda sanitaria locale della Provincia di Milano 3 e R. S. ed altra, con ordinanza del 24 gennaio 2008 iscritta al n. 105 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell'anno 2008. Udito nella camera di consiglio del 24 settembre 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante. Ritenuto in fatto Nel corso di una controversia promossa da un privato contro un'azienda sanitaria locale, la Corte di cassazione, sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 32 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 5, della legge 23 ottobre 1985, n. 595 (Norme per la programmazione sanitaria e per il piano sanitario triennale 1986-1988), «come integrato dagli artt. 2 e 7 del d.m. 3 novembre 1989 e dall'art. 2 del d.m. 13 maggio 1993, nella parte in cui non è applicabile alle ipotesi di prestazioni sanitarie ottenute presso strutture estere diverse dai centri di altissima specializzazione, nei casi in cui tali pr estazioni siano l'unica possibilità per evitare un danno grave e irreversibile alla salute». Premette la Corte che una cittadina italiana, nel corso di un soggiorno in Messico, aveva dovuto subire un ricovero d'urgenza, con intervento di tracheotomia, a causa di un edema polmonare. In conseguenza di ciò, la medesima aveva citato in giudizio la ASL competente per territorio al fine di ottenere il rimborso delle spese sanitarie sostenute. Respinta la domanda in primo grado, la stessa era stata invece accolta dalla Corte d'appello. Proposto ricorso per cassazione da parte della ASL, il giudice a quo osserva che la sentenza impugnata è meritevole di censura, poiché l'art. 3, comma 5, della legge n. 595 del 1985 consente il recupero, da parte dei cittadini italiani, delle spese sostenute per prestazioni di assistenza sanitaria ottenute all'estero a condizione che le stesse siano state erogate da centri di «altissima specializzazione» e che riguardino «prestazioni che non siano ottenibili nel nostro Paese tempestivamente o in forma adeguata alla particolarità del caso clinico». La norma in questione rimanda ad un decreto ministeriale, successivamente emanato (d.m. 3 novembre 1989), il quale fissa (art. 2) le tipologie di prestazioni erogabili, fornendo altresì (art. 5 ) la definizione di «centro di altissima specializzazione»; tale decreto dispone anche, all'art. 7 (modificato dall'art. 2 del d.m. 13 maggio 1993), che si può prescindere dalla preventiva autorizzazione - ai fini del rimborso - in presenza di prestazioni di comprovata eccezionale gravità ed urgenza, ivi comprese quelle usufruite dai cittadini che già si trovino all'estero. Tale previsione, tuttavia, non consente - ad avviso della Corte di cassazione - di ritenere ampliato il novero delle ipotesi previste dalla censurata disposizione, poiché essa deve essere interpretata, in conformità ad altre pronunce della medesima Corte, nel senso che il rimborso è consentito solo in quanto relativo alle prestazioni di cui all'art. 2 del citato decreto; né può giungersi a diversa conclusione in base alle disposizioni del d.P.R. 31 luglio 1980, n. 618 - che riguarda l'assistenza dei cittadini italiani all'estero - poiché nel caso di sp ecie si tratta di un cittadino che si trovava all'estero per motivi diversi da quelli di studio e di lavoro. La predetta interpretazione dà conto della rilevanza della questione, perché il ricorso della ASL, allo stato attuale del sistema, dovrebbe essere accolto; ma è proprio tale interpretazione, secondo il giudice a quo, a porsi in contrasto con gli invocati parametri costituzionali. È vero, infatti, che la giurisprudenza costituzionale ha affermato che la tutela del diritto alla salute viene a subire le limitazioni ed i condizionamenti che derivano dalla limitatezza delle risorse finanziarie; è altrettanto vero, però, che il bilanciamento che il legislatore certamente può compiere non deve assumere «un peso talmente preponderante da comprimere il nucleo irriducibile di tale diritto, protetto dalla Costituzione come ambi to inviolabile della personalità umana». L'ordinanza di rimessione richiama, in proposito, la sentenza n. 309 del 1999 di questa Corte, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della disposizione che limitava l'assistenza sanitaria gratuita in favore dei cittadini italiani all'estero che versano in disagiate condizioni economiche; d'altra parte, anche il fatto di soggiornare all'estero per motivi diversi da quelli di studio o di lavoro non può implicare, di per sé, una limitazione del predetto diritto. La disciplina vigente - osserva la Corte di cassazione - ha in sé una «valenza espansiva», com'è dimostrato anche dal fatto che la stessa disposizione censurata rinvia a vari decreti ministeriali che, nel corso del tempo, le hanno dato attuazione, indicando i tipi di patologia suscettibili di rimborso in relazione alle spese sanitarie sostenute all'estero. Tuttavia la lesione del diritto alla salute è identica quando la patologia può essere curata soltanto all'estero, presso un centro di altissima specializzazione, e quando - come nella specie - la patologia sia insorta all'estero e non tolleri alcun differimento delle necessarie cure, anche presso centri non rientranti tra quelli di altissima specializzazione. Ne co nsegue che è in contrasto con l'art. 3 Cost. negare l'assistenza indiretta in relazione a situazioni di malattia le quali, benché sorte in base a diversi presupposti, rappresentano un'identica minaccia al diritto alla salute costituzionalmente protetto, soprattutto quando le prestazioni sanitarie sono rese indispensabili da «comprovate ragioni di gravità e urgenza». Considerato in diritto 1.- La Corte di cassazione ha rimesso a questa Corte, in riferimento agli artt. 3 e 32 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 5, della legge 23 ottobre 1985, n. 595 (Norme per la programmazione sanitaria e per il piano sanitario triennale 1986-1988), come integrato dagli artt. 2 e 7 del d.m. 3 novembre 1989 e dall'articolo 2 del d.m. 13 maggio 1993, «nella parte in cui non è applicabile alle ipotesi di prestazioni sanitarie ottenute presso strutture estere diverse dai centri di altissima specializzazione nei casi in cui tali prestazioni siano l'unica possibilità per evitare un danno grave e irreversibi le alla salute». La remittente riferisce che pende davanti ad essa un giudizio promosso dall'Azienda sanitaria locale n. 3 della Provincia di Milano per ottenere la cassazione della sentenza della locale Corte d'appello, che, in riforma della sentenza di primo grado, ha accolto la domanda di una cittadina italiana diretta ad ottenere il rimborso delle spese sanitarie sostenute in Messico, dove, a causa di un edema polmonare acuto, le era stata praticata la tracheotomia. Nell'ordinanza di rimessione si premette che la normativa impugnata prevede l'assistenza indiretta soltanto per i cittadini italiani residenti in Italia che debbono fruire di prestazioni assistenziali «presso centri di altissima specializzazione all'estero, che non siano ottenibili nel nostro paese tempestivamente o in forma adeguata alla particolarità del caso clinico». Poiché, nella fattispecie oggetto del giudizio principale, la prestazione sanitaria, del cui costo si chiede il rimborso, non è stata ottenuta nelle condizioni e circostanze suddette, il ricorso dovrebbe essere accolto. Tuttavia la disciplina in scrutinio può essere sospettata di illegittimità per contrasto con gli artt. 3 e 32 della Costituzione. Secondo la remittente, il principio generale - il quale prevede che i presupposti, il tipo e le modalità di erogazione delle prestazioni assistenziali, dirette a tutelare il diritto alla salute, siano stabiliti dal legislatore nell'esercizio della discrezionalità di apprezzamento che gli compete nel contemperamento tra le esigenze degli assistiti e quelle di bilancio - subisce deroga qualora si tratti del nucleo essenziale del diritto alla salute e la prestazione in questione sia indispensabile e indifferibile per la sua tutela. A tal proposito la remittente richiama la sentenza di questa Corte n. 309 del 1999, con la quale, scrutinando una questione sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 32 Cost., fu dichiarata «l'illegittimità costituzionale degli articoli 37 della legge 23 dicemb re 1978, n. 833 (Istituzione del Servizio sanitario nazionale), e 1 e 2 del d.P.R. 31 luglio 1980, n. 618 (Assistenza sanitaria ai cittadini italiani all'estero), nella parte in cui, a favore dei cittadini italiani che si trovano temporaneamente all'estero, non appartengano alle categorie indicate nell'art. 2 del medesimo decreto e versano in disagiate condizioni economiche, non prevedono forme di assistenza sanitaria gratuita da stabilirsi dal legislatore». 2.- In via preliminare si rileva che, pur facendo parte della normativa censurata anche disposizioni di atti regolamentari, la questione è ammissibile perché questi, espressamente previsti dalla disposizione di legge impugnata, di quest'ultima costituiscono specificazione (sentenze n. 1104 del 1988, n. 456 del 1994, nonché, in applicazione dello stesso principio, ma in senso negativo nei casi risolti, sentenza n. 162 del 2008 e ordinanza n. 389 del 2004). La fattispecie oggetto del giudizio principale è esaurientemente, anche se succintamente, descritta con l'indicazione della patologia di per sé grave (edema polmonare) e della natura e urgenza dell'intervento (tracheotomia). L'assenza di qualsiasi cenno alle condizioni economiche della resistente nel giudizio di cassazione, alle ragioni della sua permanenza in Messico e all'importo delle spese sostenute per l'intervento subito non si configura come un difetto di descrizione della fattispecie, ma invece rende certi che si tratta di persona non indigente (neppure in senso relativo, cioè in riferimento al costo del suddetto intervento terapeutico) che si trovava all'estero non per ragioni di lavoro o per fruire di borsa di studio. Ciò esclude la rilevanza diretta delle disposizioni del d.P.R. n. 618 del 1980, sulle quali ha inciso la suddetta sentenza di questa Corte n. 309 del 1999, la quale, fra l'altro, ha sottolineato che la mancanza di mezzi economici dell'assistito deve essere valutata non in assoluto, ma in relazione all'onerosità della cura. Infatti, la piena consapevolezza dimostrata dalla remittente in merito al contenuto della suddetta sentenza, unitamente all'esplicito riferimento effettuato nell'ordinanza alla «vocazione espansiva» della tutela del diritto alla salute «indipendentemente dalle condizioni economiche dei cittadini interessati», sono il chiaro sintomo dell'individuazione di una situazione diversa da quella esaminata nella suddetta decisione, nella quale alle condizioni economiche dell'assistito è stato attribuito decisivo rilievo, ai sensi dell'art. 32 della Costituzione. Pertanto, anche sotto i profili indicati, non si ravvisano ragioni di inammissibilità della questione. 3.- È opportuno premettere che essa venne già proposta a questa Corte dal Tribunale di Sondrio e risolta con ordinanza di manifesta inammissibilità n. 78 del 1996. Tale provvedimento fu motivato con il rilievo che l'estensione della disciplina impugnata ad una ipotesi del tutto diversa da quella cui si riferisce la norma stessa avrebbe imposto «di definire condizioni, limiti e modalità di un'ipotesi nuova di assistenza indiretta da dispensare all'estero, aspetti rispetto ai quali non è possibile individuare un'unica soluzione, ma che dovrebbero formare oggetto di scelte affidate alla discrezionalità del legislatore ed eventualmente dell'autorità amministrativa». Successivamente, con la citata sentenza n. 309 del 1999, richiamata nell'ordinanza di rimessione a conforto del giudizio di non manifesta infondatezza, questa Corte, scrutinando una questione diversa, ma connotata da elementi di analogia con la presente, la risolse nel merito, emettendo il dispositivo sopra riferito e quindi una pronuncia additiva di principio. La remittente ipotizza una pronuncia di questo tipo. Conseguentemente, anche da questo punto di vista, la questione, come proposta, non può essere ritenuta inammissibile in linea di principio. 4.- Per l'esame del merito della questione va precisato che essa non riguarda i trattamenti sanitari fruibili dai cittadini italiani negli Stati membri dell'Unione europea (disciplinati dal regolamento CEE del Consiglio 14 giugno 1971, n. 1408 e dal regolamento CE del Parlamento europeo e del Consiglio 29 aprile 2004, n. 833), dello Spazio economico europeo e della Svizzera (cui si riferisce la legge di ratifica 28 luglio 1993, n. 300) e neppure concerne quelli garantiti da altri Stati in base ad accordi bilaterali o multilaterali (fatti salvi dall'art. 2 del d.P.R. 31 luglio 1980, n. 618). Così definitone l'ambito, la questione non è fondata. È necessario richiamare gli orientamenti più volte enunciati da questa Corte, anche con la sentenza n. 309 del 1999, secondo i quali, da un lato, la tutela del diritto alla salute nel suo aspetto di pretesa all'erogazione di prestazioni «non può non subire i condizionamenti che lo stesso legislatore incontra nel distribuire le risorse finanziarie delle quali dispone»; dall'altro, le «esigenze della finanza pubblica non possono assumere, nel bilanciamento del legislatore, un peso talmente preponderante da comprimere il nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana» (in questo senso, oltre alla citata sentenza, ex plurimis: se ntenze n. 455 del 1990; n. 267 del 1998; n. 509 del 2000; n. 252 del 2001; n. 432 del 2005). Ora, come risulta dall'art. 37 della legge n. 833 del 1978, l'assistenza sanitaria agli italiani all'estero costituisce oggetto di una disciplina specifica rispetto a quella che regola l'assistenza a favore di coloro che si trovano nel territorio dello Stato. Specificità che deriva dal fatto che il servizio sanitario, come in genere i servizi pubblici, incontra di norma i limiti territoriali propri dello Stato, sicché le prestazioni vengono erogate direttamente mediante strutture pubbliche organizzate nel territorio oppure da soggetti con i quali le pubbliche amministrazioni stipulano convenzioni (si vedano, in particolare, gli artt. 19 e 25 della legge n. 833 del 1978). Ciò non può non riflettersi sulla disciplina delle condizioni alla cui sussistenza è subordinato il diritto alle prestazioni e sul tipo, entità e modalità della loro erogazione e, quindi, anche sui criteri cui ci si attiene nell'operare il bilanciamento di cui si è detto tra tutela del diritto alla salute ed esigenze dello Stato di natura finanziaria e, più in generale, organizzativa. Tali considerazioni spiegano perché il legislatore, nel disciplinare l'assistenza agli italiani all'estero esercitando la delega di cui all'art. 37 della legge n. 833 del 1978, abbia richiesto che la presenza all'estero fosse motivata da ragioni di lavoro o da particolari motivi di studio (fruizione di borse di studio) ritenendo che, in tali casi, l'espatrio realizzasse non soltanto l'interesse individuale dei singoli, ma anche un interesse generale e, come tale, meritevole di trattamenti idonei a non ostacolarlo. 5.-- Ragioni diverse, ma pur sempre ispirate a valutazioni di interesse generale, sono alla base della normativa impugnata e della quale si postula l'integrazione per ricondurla a legittimità costituzionale. Il legislatore, preso atto della impossibilità o della eccessiva onerosità di predisporre nel territorio nazionale strutture di altissima specializzazione in grado di fornire particolari prestazioni o della impossibilità di assicurare un'organizzazione tale da fornire, per ogni evenienza, in tempo utile le necessarie terapie, ha previsto la facoltà dei residenti in Italia di recarsi all'estero in luoghi dove sia possibile fruire delle prestazioni richieste dal caso sotto i profili qualitativo e temporale, sia pure entro determinati limiti e a precise condizioni. La remittente invoca la sentenza di questa Corte n. 309 del 1999 per sostenere che da essa si deduce l'affermazione del principio generale secondo il quale, ogni qual volta sia in pericolo il nucleo essenziale del diritto alla salute, il cittadino italiano, anche se si trovi all'estero, quali che siano le ragioni che l'abbiano indotto all'espatrio, abbia comunque diritto ad ottenere che il costo delle necessarie prestazioni sanitarie sia sostenuto dal servizio sanitario nazionale o, quanto meno, con il contributo di questo. In realtà, la suddetta pronuncia è stata emessa sul fondamento che l'art. 32, comma primo, Cost. «garantisce cure gratuite agli indigenti» e in considerazione del fatto che, per costoro, l'insufficienza delle condizioni economiche, unitamente alla mancata previsione del dir itto di ottenere il rimborso delle spese necessarie, potrebbe determinare l'impossibilità di procurarsi le indispensabili prestazioni sanitarie e risolversi, quindi, in un pregiudizio diretto e immediato del diritto alla salute. Infatti, in essa la Corte ha precisato come il richiedere, anche per gli indigenti (nel senso suddetto), che la presenza all'estero fosse motivata da ragioni di lavoro o da particolari ragioni di studio avrebbe costituito «aggravamento di una condizione materiale negativa; aggravamento che al legislatore è vietato introdurre». Per altro verso, dalla sentenza richiamata non si ricava l' equiparazione dei motivi del soggiorno al di fuori del territorio nazionale diversi da quelli di lavoro o di studio a questi ultimi, ma soltanto che ai primi non è consentito «collegare una aprioristica valutazione negativa», tale da escludere qualsiasi intervento pubblico anche nel caso di persona indigente. In conclusione, alla stregua dell'art. 32 Cost., non può essere affermato in modo assoluto il principio secondo il quale, in caso di gravità della malattia e di urgenza dell'intervento terapeutico, il costo di quest'ultimo deve essere rimborsato pure a coloro che non si trovino in una condizione di indigenza anche in senso relativo. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 5, della legge 23 ottobre 1985, n. 595 (Norme per la programmazione sanitaria e per il piano sanitario triennale 1986-1988), come integrato dagli artt. 2 e 7 del d.m. 3 novembre 1989 e dall'art. 2 del d.m. 13 maggio 1993, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 32 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 31 ottobre 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA SENTENZA N. 355 ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZAnel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati del 2 agosto 2007 (doc. IV-quater, nn. 19 e 20) relativa alla insindacabilità, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dal deputato Carlo Taormina nei confronti della dott.ssa Maria Del Savio Bonaudo, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Aosta, promosso con ricorso del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, notificato il 14 maggio 2008, depositato in cancelleria il 23 maggio 2008 ed iscritto al n. 12 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2007, fase di merito. Visto l'atto di costituzione della Camera dei deputati; udito nell'udienza pubblica del 7 ottobre 2008 il Giudice relatore Paolo Maddalena; udito l'avvocato Stefano Grassi per la Camera dei deputati. Ritenuto in fatto 1. ¾ Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, con ricorso in data 12 ottobre 2007, ha sollevato conflitto di attribuzi one tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati a seguito della delibera in data 2 agosto 2007 (doc. IV-quater, nn. 18, 19 e 20: recte: doc. IV-quater, nn. 19 e 20), con cui, in conformità alla proposta adottata a maggioranza dalla Giunta per le autorizzazioni, è stato dichiarato che i fatti per i quali il deputato Carlo Taormina è sottoposto a procedimento penale per il delitto di diffamazione, riguardano opinioni espresse dallo stesso nell'esercizio delle sue funzioni parlamentari e sono, quindi, insindacabili ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione. Il ricorrente premette di essere investito di un procedimento penale nei confronti del predetto deputato, imputato del delitto di cui agli artt. 61, numero 10, 81, secondo comma, 595, primo e terzo comma, del codice penale, 30 della legge 6 agosto 1990, n. 223 (Disciplina del sistema radiotelevisivo pubblico e privato), e 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa), per avere rilasciato, nel corso di trasmissioni televisive e a un'agenzia di stampa, dichiarazioni offensive dell'onore e della reputazione della dott.ssa Maria Del Savio Bonaudo, Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Aosta, accusata di avere, nel corso di un'indagine penale a carico di Annamaria Franzoni (imputata di omicidio del figlio Samuele Lorenzi), della quale il deputato Taormina era di fensore, nascosto elementi in proprio possesso o dolosamente ritardato atti del proprio ufficio, con persecuzioni nei confronti dell'imputata e del suo difensore. Il Giudice per le indagini preliminari - riportate le argomentazioni utilizzate dalla Giunta per le autorizzazioni a sostegno della proposta di insindacabilità - ritiene che nella specie in realtà non sussista il nesso tra attività parlamentare e dichiarazioni extra moenia. Dopo avere richiamato la giurisprudenza costituzionale sull'àmbito della prerogativa dell'insindacabilità parlamentare, il ricorrente osserva che la delibera in questione non conterrebbe alcun elemento concreto che lasci desumere la sussistenza di una corrispondenza sostanziale tra i contenuti delle dichiarazioni giornalistiche e televisive, oggetto della querela, e le opinioni già espresse dal deputato in specifici atti parlamentari, non essendo sufficiente una mera comunanza di tematiche e un generico riferimento alla rilevanza dei fatti pubblici. Ad avviso del Giudice per le indagini preliminari, l'interpretazione prospettata dalla delibera della Camera comporterebbe, di fatto, una trasformazione dell'istituto previsto dalla norma costituzionale, da esenzione di responsabilità legata alla funzione in privilegio personale. Secondo il ricorrente, la condotta addebitabile al deputato Taormina - astrattamente idonea, nella sua specificità e gravità, ad integrare un illecito - esulerebbe dall'esercizio delle funzioni parlamentari e non presenterebbe oggettivamente alcun legame con atti parlamentari, neppure nell'accezione più ampia. Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano ha chiesto quindi che la Corte costituzionale voglia dichiarare che non spettava alla Camera dei deputati affermare l'insindacabilità delle opinioni espresse dal deputato Taormina e, conseguentemente, annullare la delibera in data 2 agosto 2007 (doc. IV-quater, nn. 19 e 20). 2. ¾ Il conflitto è stato dichiarato ammissibile, in via di preliminare delibazione, con l'ordinanza di questa Corte n. 122 del 2008, depositata il 30 aprile 2008. Il ricorrente ha provveduto a notificarla alla Camera dei deputati, unitamente all'atto introduttivo del giudizio, in data 14 maggio 2008. Il conseguente deposito è stato effettuato il 23 maggio 2008. 3. ¾ Nel giudizio dinanzi alla Corte costituzionale si è costituita la Camera dei deputati, la quale ha concluso per l'inammissibilità o la non fondatezza del ricorso per conflitto di attribuzioni. La Camera riprende le motivazioni addotte nella relazione della Giunta per le autorizzazioni. Ad avviso della Camera, l'interrogazione n. 3-00906-XIV legislatura, presentata il 22 aprile 2002, di fatto contiene concetti sostanzialmente analoghi a quelli contestati nei capi di imputazione. Quando nell'interrogazione stessa si sostiene infatti che non risultano conformi all'etica professionale e alle doti di equilibrio, che dovrebbero caratterizzare il magistrato inquirente, le dichiarazioni rese dai pubblici ministeri a carico della Franzoni e quelle rilasciate a critica di un provvedimento del giudice per le indagini preliminari, che occorre verificare se corrisponda a verità che gli investigatori non avrebbero, quanto meno per negligenza, adottato le doverose cautele per preservare il luogo del delitto e che vi era la possibilità concreta che l'arma del delitto potesse essere stata sottratt a, in fondo si dice che vi sono state delle insufficienze professionali degli investigatori, tra i quali, in primis, rientrano i titolari dell'azione penale e cioè i pubblici ministeri. Del resto, le espressioni «marescialli di paese», «la procura di Aosta ha indagato in una sola direzione», i magistrati che hanno indagato su Cogne sono degli «incapaci», il processo di Cogne è quello «peggio istruito nella storia della Repubblica», sarebbero tutte critiche rivolte non alle persone, ma all'operato istituzionale di queste. Ci si troverebbe di fronte alla legittima critica dell'esercizio di una pubblica funzione. Con riguardo alle esternazioni circa la falsificazione delle prove, la difesa della resistente osserva che il deputato Taormina si riferiva al decreto di archiviazione del GIP di Aosta relativo al procedimento penale n. 637/2003 RGNR a carico degli ufficiali del RIS di Parma. Costoro erano stati denunciati per falso ideologico e calunnia reale dalla famiglia Lorenzi-Franzoni per avere pretesamente alterato i luoghi e gli elementi di prova. Pur archiviata tale accusa, il GIP afferma in effetti che se in data 17 settembre 2002 era stata osservata e fotografata, all'interno del calco di materiale ematico-cerebrale, la presenza di un frammento talvolta definito osseo, nella documentazione fotografica del successivo 24 ottobre, invece, tale frammento non era più visibile. 4. ¾ In prossimità dell'udienza, la Camera dei deputati ha depositato una memoria illustrativa. Il ricorso sarebbe inammissibile per erronea individuazione dell'oggetto del conflitto, perché esso si riferisce ad un procedimento penale (il n. 22087/06 RGNR) diverso da quelli (il n. 90/06 RGNR ed il n. 25606/06 RGNR) ai quali fa riferimento la delibera della Camera dei deputati del 2 agosto 2007. Del resto - prosegue la memoria - il ricorrente non ha depositato presso la cancelleria della Corte gli atti del procedimento penale nel quale è stata eccepita dal deputato Taormina l'insindacabilità, per consentire alla Camera dei deputati ed alla Corte di accertare - senza dubbio alcuno - quale fosse l'oggetto del conflitto sollevato. Nel merito il conflitto sarebbe infondato, perché le dichiarazioni oggetto del conflitto sono state rilasciate dal deputato Taormina come esternazione di opinioni già espresse nell'esercizio delle proprie funzioni di parlamentare e come tali soggette ad insindacabilità ai sensi dell'art. 68 della Costituzione. Come deputato, il Taormina aveva, infatti, presentato la citata interrogazione a risposta orale in data 22 aprile 2002 (3-00906) per sapere se - in relazione al comportamento tenuto dall'autorità giudiziaria e da quella inquirente nell'istruzione del delitto Cogne - il Ministro della giustizia volesse disporre un'ispezione e intendesse adottare le iniziative di sua competenza anche di carattere disciplinare. L'interrogazione del deputato Taormina era intesa a mettere in evidenza, da un lato, una sostanziale grave negligenza nella conduzione delle operazioni di indagine da parte delle forze di polizia e della magistratura inquirente che, ad avviso dello stesso deputato, poteva avere alterato il corso del processo relativo al delitto di Cogne; dall'altro, un intento diffamatorio e persecutorio della stessa magistratura inquirente, ed in particolare del procuratore capo del Tribunale di Aosta. Le esternazioni fatte successivamente dal deputato Taormina nel novembre 2004, in relazione ai medesimi fatti già denunciati con la propria attività di parlamentare, riprenderebbero pressoché letteralmente le affermazioni critiche svolte nella citata interrogazione parlamentare. In tali affermazioni, infatti, al di là della maggiore veemenza espressiva riportata dai giornali, vi sarebbe l'evidente contestazione dell'attività istruttoria svolta dagli organi inquirenti nel processo di Cogne, nonché dell'atteggiamento della procura di Aosta, ritenuto dal deputato Taormina persecutorio e diffamatorio. Secondo la difesa della Camera, il contenuto asseritamente diffamatorio delle opinioni espresse nelle interviste rilasciate dal parlamentare non assume alcun rilievo nell'esame che la Corte costituzionale deve compiere circa la sussistenza dell'insindacabilità delle opinioni espresse. Altrettanto irrilevante sarebbe la circostanza che il parlamentare abbia assunto - dopo la presentazione dell'interrogazione - la difesa dell'imputata nel processo di Cogne. Considerato in diritto 1. ¾ Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, con ricorso in data 12 ottobre 2007, ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti della Camera dei deputati in relazione alla delibera adottata nella seduta del 2 agosto 2007 (Doc. IV-quater, nn. 19 e 20), con la quale è sta ta dichiarata, ai sensi del primo comma dell'art. 68 della Costituzione, l'insindacabilità delle dichiarazioni del deputato Carlo Taormina, rispetto alle quali pende procedimento penale. Ad avviso del Giudice per le indagini preliminari, le dichiarazioni del parlamentare, oggetto di conflitto, non possono essere ricondotte ad alcuno degli atti previsti dall'art. 68, primo comma, della Costituzione. Di qui il sollevato conflitto, giacché la deliberazione di insindacabilità adottata dalla Camera dei deputati, proprio perché frutto di una erronea valutazione dei presupposti richiesti dalla norma costituzionale, interferirebbe illegittimamente nelle attribuzioni dell'autorità giudiziaria. 2. ¾ La difesa della Camera dei deputati ha eccepito l'inammissibilità del ricorso. L'eccezione è fondata. Sulla base della relazione della Giunta per le autorizzazioni a procedere (doc. IV-quater, nn. 19 e 20), presentata alla Presidenza il 12 luglio 2007, l'Assemblea, nella seduta n. 200 del 2 agosto 2007, ha dichiarato l'insindacabilità delle opinioni espresse dal deputato Taormina ai sensi dell'art. 68 della Costituzione con specifico riferimento ai procedimenti penali n. 90/06 RGNR e n. 25606/06 RGNR, pendenti, l'uno, dinanzi al GIP del Tribunale di Milano dott. Barbuto, a seguito della querela proposta dalla dott.ssa Maria Del Savio Bonaudo e dalla dott.ssa Stefania Cugge, l'altro, dinanzi al GIP del Tribunale di Milano dott. Tutinelli, a seguito della querela proposta dalla dott.ssa Maria Del Savio Bonaudo. Il procedimento penale indicato nel ricorso per conflitto di attribuzione è invece il n. 22087/06 RGNR: a tale procedimento non fanno riferimento né la deliberazione della Giunta per le autorizzazioni doc. IV-quater, nn. 19 e 20, né la delibera della Camera dei deputati del 2 agosto 2007. Il conflitto è, pertanto, inammissibile per erronea individuazione del suo oggetto, mancando la prova - il cui onere incombeva sul ricorrente - della riferibilità della citata delibera parlamentare di insindacabilità allo specifico procedimento in corso dinanzi al Giudice confliggente, né essendo detta riferibilità aliunde deducibile. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibile il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato, nei confronti della Camera dei deputati, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Paolo MADDALENA, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 31 ottobre 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA SENTENZA N. 356 ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Alfio FINOCCHIARO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2003), come modificato dall'art. 5-bis, comma 1, lettera e), del decreto-legge 24 dicembre 2002, n. 282 (Disposizioni urgenti in materia di adempimenti comunitari e fiscali, di riscossione e di procedure di contabilità), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2003, n. 27, promossi con ordinanze depositate il 10 ottobre 2006 dalla Commissione tributaria provinciale di Frosinone ed il 24 agosto 2007 dalla Commissione tributaria provinciale di Cosenza nei giudizi rispettivamente vertenti tra la s.p.a. DEA in amministrazione straordinaria e l'Agenzia delle entrate, ufficio di Frosinone, nonché tra la s.r.l. Ciesse e l'Agenzia delle entrate, ufficio di Cosenza, iscritte al n. 120 ed al n. 124 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18 e n. 19, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio dell'8 ottobre 2008 il Giudice relatore Franco Gallo. Ritenuto in fatto 1. - Nel corso di un giudizio promosso da una società per azioni, in amministrazione straordinaria, avverso alcuni avvisi di accertamento delle imposte sui redditi, dell'IRAP e dell'IVA notificati in data 10 ottobre 2005 e riguardanti i periodi d'imposta dal 1998 al 2001, la Commissione tributaria provinciale di Frosinone, con ordinanza depositata il 10 ottobre 2006 (r.o. n. 120 del 2008), ha sollevato - in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione - questioni di legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2003), come modificat o dall'art. 5-bis, comma 1, lettera e), del decreto-legge 24 dicembre 2002, n. 282 (Disposizioni urgenti in materia di adempimenti comunitari e fiscali, di riscossione e di procedure di contabilità), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2003, n. 27, nella parte in cui proroga di due anni - nei confronti dei contribuenti che non si avvalgono delle agevolazioni fiscali previste dagli articoli da 7 a 9 della medesima legge n. 289 del 2002 - i termini di decadenza previsti dagli artt. 43 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (e successive modificazioni), e 57 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (e successive modificazioni), per la notificazione degli avvisi di accertamento delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto, e ciò anche nei confronti dell'imprenditore sottoposto ad ammini strazione straordinaria ai sensi del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270 (Nuova disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, a norma dell'articolo 1 della legge 30 luglio 1998, n. 274), allorché l'autorità fiscale non abbia provveduto a far inserire il proprio credito tributario nello stato passivo della procedura.
1.1. - Il
giudice rimettente premette, in punto di fatto, che: a) la società
ricorrente ha impugnato gli avvisi di accertamento deducendo che le
erano stati notificati oltre il termine decadenziale previsto dall'art.
43 del d.P.R. n. 600 del 1973 (quarto anno successivo a quello in cui è
stata presentata la dichiarazione); b) l'amministrazione finanziaria,
benché avesse ricevuto tempestiva notificazione della sentenza
dichiarativa dello stato di insolvenza della predetta società, non aveva
insinuato i suddetti crediti tributari nello stato passivo
dell'amministrazione straordinaria; c) la società non si era avvalsa
delle agevolazioni fiscali previste dagli articoli da 7 a 9 della legge
n. 289 del 2002. 1.2. - Lo stesso giudice premette altresí, in punto di diritto, che: a) la norma censurata proroga di due anni i termini per la notificazione degli avvisi di accertamento delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto esclusivamente nei confronti dei contribuenti che, pur potendo accedere alle suddette agevolazioni fiscali al fine di «estinguere il credito certo vantato dall'Amministrazione finanziaria», hanno tuttavia ritenuto di non avvalersene; b) la mancata insinuazione dei crediti tributari nello stato passivo e, quindi, il mancato accertamento del credito erariale hanno impedito al commissario straordinario della procedura di avvalersi delle agevolazioni fiscali previste dalla legge n. 289 del 2002. 1.3. - In ordine alla non manifesta infondatezza delle sollevate questioni, il giudice a quo afferma che la disposizione censurata víola: a) l'art. 3 Cost., perché comporta una irragionevole disparità di trattamento «tra chi può accedere al meccanismo "premiale"» previsto dalla legge n. 289 del 2002, avvalendosi del "condono", e «chi, invece, [.] subisce soltanto il meccanismo "punitivo" della proroga dei termini per l'accertamento»; b) l'art. 24 Cost., perché, avendo omesso di indicare «che, i termini di cui all'art. 43 del DPR 600/73, non sono prorogati per i contribuenti che non possono accedere al beneficio del condono», assoggetta «ad un termine indefinito il cittadino alla azione di accertamento dell'Amministrazione Finanziaria»; c) l' art. 97 Cost., perché, escludendo «quella minima attività di riscontro volta ad individuare la possibilità di un soggetto giuridico sottoposto ad amministrazione straordinaria di accedere al condono», lede i princípi di efficienza e di buon andamento della pubblica amministrazione, nonché il dovere di leale collaborazione nei confronti degli amministrati; d) l'art. 111 Cost. 2. - È intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate. La difesa erariale osserva che: a) le questioni sono irrilevanti con riferimento agli anni 2000 e 2001, perché la notificazione degli avvisi di accertamento per tali anni (effettuata il 10 ottobre 2005) è avvenuta entro il termine di cui all'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, senza l'applicazione della proroga disposta dalla norma denunciata; b) il commissario straordinario della procedura di amministrazione straordinaria avrebbe ben potuto avvalersi delle agevolazioni fiscali previste dalla legge n. 289 del 2002 (previa acquisizione del parere del comitato di sorveglianza) - come chiarito dal punto 2.1.3. della circolare 21 febbraio 2003, n. 12, dell'Agenzia delle entrate -, indipendentemente dalla previa inserzione del credito tributario nello stato passivo. 3. - Nel corso di un giudizio promosso da una società a responsabilità limitata avverso un avviso di accertamento dell'IRPEG, dell'IRAP e dell'IVA notificato in data 27 dicembre 2005, conseguito ad un processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di finanza in data 1° ottobre 2002 e riguardante l'anno d'imposta 1998, la Commissione tributaria provinciale di Cosenza, con ordinanza depositata il 24 agosto 2007 (r.o. n. 124 del 2008), ha sollevato - in riferimento agli artt. 3, 24 e 97 Cost. - questioni di legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge n. 289 del 2002, come modificato dall'art. 5-bis, comma 1, lettera e), del decreto-legge n. 282 del 2002, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge n. 27 del 2003, nella parte in cui proroga di due anni - nei confronti dei contribuenti che non si avvalgono delle agevolazioni fiscali previste dagli articoli da 7 a 9 della medesima legge n. 289 del 2002 - i termini di decadenza previsti dagli artt. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 (e successive modificazioni), e 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 (e successive modificazioni), per la notificazione degli avvisi di accertamento delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto. 3.1. - Il giudice rimettente premette, in punto di fatto, che la società ricorrente ha impugnato l'avviso di accertamento deducendo che le era stato notificato oltre il termine decadenziale previsto dall'art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 (quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione); b) la società non si era avvalsa delle agevolazioni fiscali previste dagli articoli da 7 a 9 della legge n. 289 del 2002. 3.2. - In ordine alla non manifesta infondatezza delle sollevate questioni, il giudice a quo afferma che la disposizione censurata - oltre a porsi in contrasto sia con il divieto di proroga dei termini di prescrizione e di decadenza per gli accertamenti d'imposta stabilito dall'art. 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), sia con i princípi di affidamento, di certezza nei rapporti e di non discriminazione garantiti dalle norme comunitarie - víola: a) l'art. 3 Cost., perché irragionevolmente penalizza il contribuente che non presenti istanza di definizione agevolata, prorogando nei suoi confronti i termini per la notificazione dell'accertamento delle imposte riguardanti non solo l'«anno di imposta in scadenza alla data di entrata in vigore della legge 289/2002, come è avvenuto con l'art. 32, sesto comma, della legge 516/1982, bensí cinque anni d'imposta»; b) l'art. 24 Cost.; c) l'art. 97 Cost., perché, in contrasto con i princípi di buon andamento e di imparzialità della pubblica amministrazione, favorisce l'amministrazione finanziaria e danneggia il contribuente, il quale, per i motivi piú vari, non si sia avvalso delle suddette agevolazioni fiscali. Il rimettente aggiunge che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 280 del 2005, ha ricordato che il contribuente non può essere sottoposto sine die alla volontà dell'Erario e che, con le sentenze n. 175 del 1986 e n. 85 del 1965, ha dichiarat o «incostituzionali norme che si ponevano al di fuori del principio della ragionevolezza». 4. - Anche in questo giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate. La difesa erariale deduce che le questioni sono inammissibili, perché: a) la dedotta violazione dell'art. 24 Cost. è priva di motivazione; b) il giudice rimettente ammette la ragionevolezza della proroga dei termini di accertamento delle imposte relative al solo «anno di imposta in scadenza alla data di entrata in vigore della legge 289/2002», cioè all'anno 2003 (essendo la legge entrata in vigore il 1° gennaio 2003), ma non considera che «in tale anno scadevano le sole dichiarazioni presentate nel 1998 per il 1997, in quanto a norma dell'art. 43 del D.P.R. n. 600/73 e dell'art. 57 del D.P.R. n. 633/72 il termine per gli accertamenti scadeva il 31 dicembre del 5° anno successivo per le imposte dirette (ridotto al quar to anno solo per le dichiarazioni successive al 1.1.1999) e il 31 dicembre del 4° anno per l'IVA». Nel merito, la medesima difesa erariale afferma che le questioni non sono fondate, perché: a) la proroga dei termini di accertamento disposta dalla censurata disposizione si è resa necessaria a tutela dell'efficacia dell'azione amministrativa, in conseguenza della possibilità offerta ai contribuenti di avvalersi del condono nel periodo compreso tra il 1° gennaio 2003 ed il 20 aprile 2004, con correlativo rallentamento di fatto, nello stesso periodo, dell'attività di accertamento; b) la denunciata proroga dei termini dell'accertamento è diretta, altresí, ad ovviare all'aggravio di lavoro derivante, per l'amministrazione finanziaria, dall'applicazione delle suddette agevolazioni e, pertanto, si giustifica in ragione della tutela dell'interesse dell'amministrazione finanziaria al regolare accertamento e riscossione delle imposte, che trova una precisa garanzia nell'art. 53 Cost., secondo cui tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche (l'Avvocatura generale dello Stato richiama, al riguardo, la decisione della Corte costituzionale n. 375 del 2002, riguardante l'analoga proroga dei termini per l'accertamento disposta dall'art. 57, comma 2, della legge 30 dicembre 1991, n. 413); c) non è pertinente il richiamo, da parte del giudice rimettente, della sentenza della Corte costituzionale n. 280 del 2005, con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale di una norma che, diversamente da quella denunciata dal medesimo rimettente, aveva di fatto eliminato il termine per la notificazione della cartella di pagamento. Considerato in diritto 1. - In due distinti giudizi - aventi ad oggetto l'impugnazione, rispettivamente, di: a) alcuni avvisi di accertamento delle imposte sui redditi, dell'IRAP e dell'IVA, notificati in data 10 ottobre 2005 e riguardanti i periodi d'imposta dal 1998 al 2001; b) un avviso di accertamento dell'IRPEG, dell'IRAP e dell'IVA notificato in data 27 dicembre 2005, conseguito ad un processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di finanza in data 1° ottobre 2002 e riguardante l'anno d'imposta 1998 - le Commissioni tributarie provinciali di Frosinone (r.o. n. 120 del 2008) e di Cosenza (r.o. n. 124 del 2008) hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 della Costituzione e, quanto alla Commissione tributaria di Frosinone, anche all'art. 111 Cost ., questioni di legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2003), come modificato (con effetto dal 23 febbraio 2003) dall'art. 5-bis, comma 1, lettera e), del decreto-legge 24 dicembre 2002, n. 282 (Disposizioni urgenti in materia di adempimenti comunitari e fiscali, di riscossione e di procedure di contabilità), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2003, n. 27. In particolare, i giudici rimettenti censurano detta disposizione nella parte in cui proroga di due anni, nei confronti dei contribuenti che non si avvalgono delle agevolazioni fiscali previste dagli articol i da 7 a 9 della medesima legge n. 289 del 2002, i termini di decadenza previsti dagli artt. 43 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (e successive modificazioni), e 57 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (e successive modificazioni), per la notificazione degli avvisi di accertamento delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto (ordinanza r.o. n. 124 del 2008), nonché nella parte in cui rende applicabile detta proroga all'imprenditore sottoposto ad amministrazione straordinaria ai sensi del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270 (Nuova disciplina dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza, a norma dell'articolo 1 della legge 30 luglio 1998, n. 274), anche nel caso in cui l'autorità fiscale non abbia provveduto a far inserire il proprio credito tributario nello stato passivo della procedura (ordinanza r.o. n. 120 del 2008). 2. - L'identità della disposizione denunciata e l'analogia delle censure prospettate dai giudici a quibus impone la riunione dei giudizi di legittimità costituzionale, al fine di decidere congiuntamente le sollevate questioni. 3. - I rimettenti affermano che la disposizione denunciata - nello stabilire la proroga di due anni dei termini per l'accertamento delle imposte sui redditi e dell'IVA per i contribuenti che non si siano avvalsi delle agevolazioni fiscali di cui agli artt. da 7 a 9 della legge n. 289 del 2002 - víola l'art. 3 Cost., perché: a) in violazione del principio di uguaglianza, comporta una irragionevole disparità di trattamento «tra chi può accedere al meccanismo "premiale"» previsto dalla legge n. 289 del 2002, avvalendosi del "condono", e «chi, invece, [.] subisce soltanto il meccanismo "punitivo" della proroga dei termini per l'accertamento» (ordinanza r.o. n. 120 del 2008); b) in violazione del principio di ragionevolezza, penalizza irragionevolmente il contribuente che non presenti istanza di definizione agevolata, prorogando nei suoi confronti i termini per la notificazione dell'accertamento delle imposte riguardanti non solo l'«anno di imposta in scadenza alla data di entrata in vigore della legge 289/2002, come è avvenuto con l'art. 32, sesto comma, della legge 516/1982, bensí cinque anni d'imposta» (ordinanza r.o. n. 124 del 2008). Entrambi i rimettenti denunciano, altresí, la violazione dell'art. 24 Cost. E ciò, secondo quanto precisato nella sola ordinanza r.o. n. 120 del 2008, perché la suddetta disposizione, omettendo di indicare «che, i termini di cui all'art. 43 del DPR 600/73, non sono prorogati per i contribuenti che non possono accedere al beneficio del condono», assoggetta «ad un termine indefinito il cittadino alla azione di accertamento dell'Amministrazione Finanziaria». Inoltre, i giudici a quibus affermano che la disposizione censurata, in violazione dell'art. 97 Cost., lede i princípi di efficienza e di buon andamento della pubblica amministrazione, nonché il dovere di leale collaborazione nei confronti degli amministrati, perché esclude «quella minima attività di riscontro volta ad individuare la possibilità di un soggetto giuridico sottoposto ad amministrazione straordinaria di accedere al condono» (ordinanza r.o. n. 120 del 2008); ovvero, perché favorisce l'amministrazione finanziaria e danneggia il contribuente il quale, per i motivi piú vari, non si sia avvalso delle suddette agevolazioni fiscali (ordinanza r.o. n. 124 del 2008). La Commissione tributaria provinciale di Frosinone (ordinanza n. 120 del 2008) denuncia anche il contrasto della suddetta disposizione con l'art. 111 Cost., senza però addurre alcuna argomentazione a sostegno. Va infine rilevato che, nell'ordinanza emessa dalla Commissione tributaria provinciale di Cosenza (r.o. n. 124 del 2008), si accenna anche al contrasto dell'art. 10 della legge n. 289 del 2002: a) con il principio generale dell'ordinamento tributario costituito dal divieto di proroga - mediante leggi speciali o norme non espresse - dei termini di decadenza e prescrizione per gli accertamenti d'imposta, stabilito dagli artt. 1 e 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente); b) con i princípi di affidamento, di certezza nei rapporti e di non discriminazione menzionati in non meglio precisate «norme Comunitarie». Tuttavia, l'accenno a tali contrasti è fatto dal rimettente solo ad abundantiam, pe r "colorare" le argomentazioni svolte a sostegno delle sollevate censure e non si traduce in ulteriori questioni di illegittimità costituzionale per violazione del cosiddetto "statuto del contribuente" e della normativa comunitaria, perché - come risulta chiaramente dalla parte motiva e dal dispositivo dell'ordinanza - i parametri evocati sono esclusivamente gli artt. 3, 24, 97 Cost. e viene chiesto alla Corte di costituzionale di pronunciarsi sulla violazione di essi soltanto. 4. - La difesa erariale eccepisce, in via preliminare, l'inammissibilità di alcune delle questioni sollevate. 4.1. - In primo luogo, l'Avvocatura Generale dello Stato eccepisce il difetto di motivazione della questione posta dall'ordinanza r.o. n. 124 del 2008 con riferimento all'art. 24 Cost. L'eccezione è fondata. Il giudice rimettente, infatti, con riferimento al suddetto parametro costituzionale, non ha articolato alcuna censura, essendosi limitato ad affermare, senza motivarla, l'illegittimità costituzionale della disposizione censurata. Ciò comporta, in base alla costante giurisprudenza di questa Corte, la manifesta inammissibilità della questione (ex plurimis: ordinanze n. 72 del 2007; n. 414 e n. 311 del 2005). 4.2. - Per i medesimi motivi è inammissibile anche la questione posta dall'ordinanza r.o. n. 120 del 2008 con riferimento all'art. 111 Cost., essendo tale questione del tutto priva di argomentazione. 4.3. - In secondo luogo, la difesa erariale, quanto all'ordinanza r.o. n. 120 del 2008, eccepisce la manifesta inammissibilità, per difetto di rilevanza, delle questioni concernenti gli anni d'imposta 2000 e 2001, con riferimento a tutti i parametri evocati. L'eccezione è fondata, perché la notificazione degli avvisi di accertamento relativi a tali anni è stata tempestivamente effettuata in data 10 ottobre 2005, cioè entro l'originario termine di cui agli artt. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 (quarto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione) e non nel termine prorogato previsto dalla norma denunciata. Ne consegue che il giudice rimettente non deve fare applicazione, in riferimento agli anni d'imposta suddetti, della norma censurata e, pertanto, la questione è irrilevante. 4.4. - In terzo luogo, la difesa erariale eccepisce, con riguardo al giudizio r.o. n. 124 del 2008, la manifesta inammissibilità della questione sollevata in riferimento all'art. 3 Cost. Secondo l'Avvocatura generale dello Stato, tale inammissibilità deriverebbe dal fatto che il giudice rimettente riconosce la ragionevolezza della proroga dei termini di accertamento delle imposte relative al solo «anno di imposta in scadenza alla data di entrata in vigore della legge 289/2002» (e cioè al 2003, essendo la legge entrata in vigore il 1° gennaio 2003), ma non considera che «in tale anno scadevano le sole dichiarazioni presentate nel 1998 per il 1997, in quanto a norma dell'art. 43 del D.P.R. n. 600/73 e dell'art. 57 del D.P.R. n. 633/72 il termine per gli accertamenti scadeva il 31 dicembre del 5° anno successivo per le imposte dirette (ridotto al quarto anno solo per le dichiarazioni successive al 1.1.1999) e il 31 dicembre del 4° anno per l'IVA». Anche tale eccezione è fondata. Il giudice a quo afferma che il censurato art. 10 della legge n. 289 del 2002 è «irragionevole perché la norma non si è limitata a prorogare l'ultimo anno in scadenza [rectius: "i termini per la notificazione dell'accertamento aventi scadenza"] alla data di entrata in vigore della legge 289/2002 [scilicet: nell'anno 2003], come è avvenuto con l'art. 32, sesto comma, della legge 516/1982, bensí cinque anni d'imposta [rectius: "i termini per la notificazione dell'accertamento relativo a cinque anni d'imposta"]». Il rimettente, pertanto, denuncia l'irragionevolezza della disposizione solo in quanto quest'ultima proroga i termini per la notificazione del l'accertamento che non scadono nel 2003. Tuttavia, nella specie, il giudizio a quo ha ad oggetto un avviso di accertamento dell'IRPEG, dell'IRAP e dell'IVA notificato in data 27 dicembre 2005 e riguardante l'anno d'imposta 1998, con termine per la notificazione dell'accertamento avente originariamente scadenza - ai sensi dei citati artt. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 57 del d.P.R. n. 633 del 1972 - proprio nel 2003 (anno di entrata in vigore della disposizione censurata), cioè nel quarto anno successivo a quello (1999) in cui è stata presentata la dichiarazione. Pertanto, l'irragionevolezza dedotta dalla Commissione tributaria provinciale di Cosenza non rileva nel giudizio a quo, perch é prospettata con esclusivo riferimento ad anni di imposta diversi da quello oggetto dell'impugnazione del contribuente. La questione è, di conseguenza, manifestamente inammissibile. 5. - Nel merito, la Commissione tributaria provinciale di Frosinone (ordinanza r.o. n. 120 del 2008) afferma che la norma denunciata, nel disporre la proroga dei termini decadenziali per l'accertamento nei confronti dei contribuenti che non si avvalgono delle agevolazioni previste dagli articoli da 7 a 9 della legge n. 289 del 2002, víola l'art. 3 Cost., nella parte in cui si applica «ad un soggetto giuridico sottoposto ad Amministrazione Straordinaria ex d.lgs. 270/99 nel caso in cui l'autorità fiscale non abbia già provveduto ad iscrivere il proprio credito nello stato passivo della procedura». Detta disposizione comporterebbe, infatti, una irragionevole disparità di trattamento tra chi, avvalendosi del "condono", «può accedere al meccanismo "premiale"» previsto dalla legge n. 289 del 2002 e chi invece, non potendovi aderire per il fatto del terzo - cioè dell'amministrazione finanziaria che non ha insinuato il proprio credito tributario nello stato passivo della procedura -, «subisce soltanto il meccanismo "punitivo" della proroga dei termini per l'accertamento». In altri termini, il rimettente denuncia l'irragionevolezza della previsione di un'identica proroga dei termini decadenziali riguardo a situazioni da lui reputate diverse: da un lato, la situazione di chi sceglie di non avvalersi del condono, potendosene avvalere, e, dall'altro, quella di chi non si avvale del condono, non avendo la possibilità giuridica di avvalersene. La questione sollevata si basa su due distinti presupposti interpretativi: a) che la denunciata proroga dei termini per l'accertamento ha carattere "punitivo" nei confronti del contribuente che sceglie di non avvalersi del condono, potendosene avvalere; b) che il contribuente sottoposto ad amministrazione straordinaria non può accedere, anche volendolo, al condono se l'amministrazione finanziaria non ha provveduto ad insinuare il proprio credito tributario nello stato passivo della procedura. La questione non è fondata, per l'erroneità di entrambi i presupposti interpretativi da cui muove il rimettente. 5.1. - Riguardo al primo presupposto, si deve rilevare che la proroga disposta dalla norma censurata ha la finalità non di "punire" chi abbia scelto di non avvalersi del condono, ma di ovviare al sensibile aggravio di lavoro e ai relativi rischi di disservizio e di mancato rispetto degli ordinari termini di prescrizione e di decadenza della pretesa fiscale, che prevedibilmente derivano agli uffici finanziari dalla necessità di eseguire le operazioni di verifica conseguenti alla presentazione delle richieste di condono dei contribuenti. Tale proroga è, dunque, diretta a tutelare il preminente interesse dell'amministrazione finanziaria al regolare accertamento e riscossione delle imposte nei confronti del contribuente che non si avvalga dell'agevolazione, indipendentemente dalla circostanza che quest'ultimo non si sia avvalso, per qualche ragione (giuridica o di fatto), dell'agevolazione medesima. In tal senso, si è già espressa questa Corte con la sentenza n. 375 del 2002, in riferimento ad una disposizione analoga a quella oggetto del presente giudizio. 5.2. - Riguardo al secondo presupposto interpretativo, va osservato che, contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente, la legge n. 289 del 2002 e la correlativa prassi attuativa (circolare dell'Agenzia delle entrate n. 12/E del 21 febbraio 2003) non escludono che il commissario dell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza possa avvalersi delle disposizioni agevolative sopra citate, previa acquisizione del parere del comitato di sorveglianza e con l'autorizzazione dell'autorità amministrativa che vigila sulla liquidazione. Il fatto che l'amministrazione finanziaria non abbia provveduto ad insinu are il proprio credito tributario nello stato passivo della procedura non costituisce, pertanto, un ostacolo a che l'imprenditore sottoposto ad amministrazione straordinaria ai sensi del d.lgs. n. 270 del 1999 possa aderire al condono. 5.3. - Né a tale conclusione può opporsi, come fa il medesimo rimettente, che, con la disciplina censurata, il legislatore ha previsto «termini di scadenza [.], sostanzialmente, indefiniti, per la notifica dell'avviso di accertamento», con ciò violando l'evocato art. 3 Cost. Infatti, contrariamente all'assunto del giudice a quo, il censurato art. 10 della legge n. 289 del 2002 ha eccezionalmente e transitoriamente disposto una proroga definita nel tempo (un biennio) dei termini previsti per la notificazione degli accertamenti tributari relativi ad alcuni anni d'imposta. L'eccezionalità della situazione in cui si vengono a trovare gli uffici per l'app licazione delle agevolazioni fiscali di cui agli artt. da 7 a 9 della legge n. 289 del 2000 e la precisa determinazione temporale della proroga giustificano, perciò, una transitoria disciplina dei termini di notificazione degli accertamenti tributari, che ben può divergere da quella a regime (per tale principio, ex plurimis: sentenze n. 11 del 2008; n. 21 del 2005, n. 413 del 2002 e n. 217 del 1998; ordinanze n. 66 del 1994 e n. 131 del 1988). 6. - Entrambi i rimettenti denunciano, altresí, la violazione dell'art. 97 Cost., affermando che la disposizione censurata si pone in contrasto: a) con i princípi di efficienza e di buon andamento della pubblica amministrazione, nonché con il «dovere di leale collaborazione nei confronti degli amministrati», perché esclude «quella minima attività di riscontro volta ad individuare la possibilità di un soggetto giuridico sottoposto ad amministrazione straordinaria di accedere al condono» (ordinanza r.o. n. 120 del 2008); b) con i princípi di buon andamento e di imparzialità della pubblica amministrazione, perché favorisce l'amministrazione finanziaria e danneggia il contribuente il quale, per i motivi piú vari, non si sia avvalso delle suddette agevolazioni fiscali (ordinanza r.o. n. 124 del 2008). Nessuno di tali rilievi può essere accolto. Come già osservato, la ratio delle proroghe dei termini per la notifica degli avvisi di accertamento è quella di porre gli uffici finanziari in condizione di far fronte all'oggettivo aggravio di lavoro determinato dall'applicazione delle agevolazioni fiscali di cui agli artt. da 7 a 9 della legge n. 289 del 2002 ed è, perciò, ispirata proprio a quei valori costituzionali, presupposti dall'art. 97 Cost., che i rimettenti erroneamente affermano essere stati violati dal legislatore. Infatti, la suddetta proroga: a) mette la pubblica amministrazione in grado di far valere, nei confronti di tutti contribuenti ed in condizioni di uguaglianza, le pretese del fisco e non comporta, quindi, alcuna lesione dell'evocato principio di imparzialità; b) trova la propria giustificazione nell'esigenza di evitare i disservizi conseguenti all'aggravio di lavoro imposto dall'applicazione del condono e, pertanto, non víola il principio dell'efficienza della pubblica amministrazione. 7. - La Commissione tributaria provinciale di Frosinone afferma, altresí, che la disposizione censurata, in violazione dell'art. 24 Cost., lede il diritto di difesa del contribuente, perché proroga i termini per la notificazione dell'accertamento previsti dagli artt. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 57 del d.P.R. n. 633 del 1972, anche «per i contribuenti che non possono accedere al beneficio del condono e, quindi», assoggetta «ad un termine indefinito il cittadino alla azione di accertamento dell'Amminis trazione Finanziaria» (ordinanza r.o. n. 120 del 2008). La censura non è fondata per le stesse ragioni indicate con riguardo alla dedotta violazione degli artt. 3 e 97 Cost. Va ribadito, in particolare, che la disposizione denunciata fissa una proroga limitata ad un biennio e, perciò, non può mai comportare l'assoggettamento del contribuente all'azione di accertamento per un tempo indefinito. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge 27 dicembre 2002, n. 289 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2003), come modificato dall'art. 5-bis, comma 1, lettera e), del decreto-legge 24 dicembre 2002, n. 282 (Disposizioni urgenti in materia di adempimenti comunitari e fiscali, di riscossione e di procedure di contabilità), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 21 febbraio 2003, n. 27, sollevate in riferimento all'art. 111 della Costituzione, nonché, limitatamente agli anni d'imposta 2000 e 2001, agli ar tt. 3, 24 e 97 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Frosinone con l'ordinanza indicata in epigrafe; dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 10 della legge n. 289 del 2002, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Cosenza con l'ordinanza indicata in epigrafe; dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale del medesimo art. 10 della legge n. 289 del 2002, sollevate, con riguardo agli anni d'imposta 1998 e 1999, in riferimento agli artt. 3, 24 e 97 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Frosinone con l'ordinanza indicata in epigrafe; dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale del medesimo art. 10 della legge n. 289 del 2002, sollevate, in riferimento all'art. 97 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Cosenza con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Franco GALLO, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 31 ottobre 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA ORDINANZA N. 357 ANNO 2008REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 7, della legge 27 marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto), promosso dal Tribunale di Ravenna nel procedimento civile vertente tra G. D. N. e l'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 10 luglio 2007, iscritta al n. 728 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di costituzione di G. D. N. (fuori termine) e dell' INPS, nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 7 ottobre 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante; uditi l'avvocato Alessandro Riccio per l'INPS e l'avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto che, nel corso di un giudizio instaurato da un ex lavoratore di uno zuccherificio, titolare di pensione di anzianità dal 1° marzo 1991, nei confronti dell'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), allo scopo di ottenere la ricostituzione della propria pensione con l'applicazione del beneficio previsto dall'art. 13, comma 7, della legge 27 marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto), il Tribunale di Ravenna, con ordinanza del 10 luglio 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2 e 3, primo comma, dell a Costituzione, questione di legittimità costituzionale della citata disposizione, «nella parte in cui nega che spetti l'erogazione del beneficio della rivalutazione contributiva ai lavoratori affetti da malattia cagionata da esposizione all'amianto che si trovassero in pensione al momento dell'entrata in vigore della legge n. 257 del 1992 (28 aprile 1992)»; che - precisa il remittente - il ricorrente in data 28 ottobre 2002 ha ricevuto dall'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (INAIL) l'attestazione positiva di esposizione all'amianto per l'intero periodo di lavoro (protrattosi per più di ventotto anni), dopo aver ottenuto, pochi mesi prima, dallo stesso Istituto il riconoscimento di aver contratto una malattia professionale a causa della suddetta esposizione; che, conseguentemente, egli ha chiesto all'INPS la concessione del beneficio di cui all'art. 13, comma 7, della legge n. 257 del 1992 (ossia la moltiplicazione del numero di settimane assoggettate a contributi per il coefficiente di 1,5), ma la domanda è stata respinta in quanto il richiedente era già titolare di pensione di anzianità alla data di entrata in vigore della suddetta legge; che il Tribunale di Ravenna sottolinea come questa Corte - che, da ultimo, si è pronunciata in materia di benefici previdenziali concessi ai lavoratori esposti all'amianto con la sentenza n. 434 del 2002 - non sia stata mai chiamata a decidere sulla legittimità costituzionale della disposizione oggi in esame, che ha una portata oggettiva e soggettiva diversa rispetto a quella del successivo comma 8 del menzionato art. 13; che, peraltro, la Corte di cassazione, nella sentenza 13 febbraio 2004, n. 2849, «sembra aver accomunato i due diversi tipi di benefici», escludendone l'applicabilità per tutti coloro che alla data di entrata in vigore della legge n. 257 del 1992 fossero già titolari di pensione di anzianità o di vecchiaia, senza operare alcuna distinzione con riguardo alla situazione di chi abbia contratto una malattia professionale correlata all'asbesto; che, conseguentemente - ad avviso del giudice a quo - «se questo individuato dalla Corte di cassazione dovesse essere il corretto tenore dell'art. 13, comma 7, della legge n. 257 del 1992», allora ne deriverebbe inevitabilmente la lesione degli indicati parametri costituzionali; che il Tribunale rileva come, mentre per ottenere il beneficio di cui al comma 8 dell'art. 13 è necessario fornire la prova di una esposizione qualificata all'amianto protrattasi per più di dieci anni, per l'applicazione del beneficio previsto dal precedente comma 7 sia sufficiente dimostrare di aver contratto una malattia professionale in conseguenza di tale esposizione, a prescindere dalla relativa durata e intensità; che una indiretta conferma di tale distinzione deriva dall'art. 47 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, norma che ha modificato, in senso peggiorativo, la disciplina dei lavoratori esposti ultradecennali, lasciando nel contempo immutata la situazione per i lavoratori colpiti da malattia professionale riconosciuta dalle necessarie certificazioni; che, ad avviso del remittente, «qualora si volesse condividere la tesi sostenuta dalla Corte di cassazione che esclude dall'ambito di applicazione della normativa i lavoratori affetti da malattie da amianto che fossero pensionati prima della legge del 1992», la lesione dei citati parametri costituzionali sarebbe del tutto evidente; che, infatti, potendo la manifestazione delle malattie da esposizione all'amianto verificarsi anche molti anni dopo la cessazione dell'attività lavorativa - trattandosi di patologie che possono avere un lungo periodo di latenza asintomatica, variabile da dieci fino a quarant'anni - la differenziazione basata sul solo dato temporale del collocamento in pensione prima o dopo l'entrata in vigore della legge n. 257 del 1992, non potrebbe non tradursi in una violazione del principio di uguaglianza; che, inoltre, siffatta irragionevole discriminazione si porrebbe «anche in contrasto con i doveri inderogabili di solidarietà sociale ed umana, solennemente proclamati dall'art. 2 della Costituzione»; che, ad ulteriore sostegno del dubbio di legittimità costituzionale, il Tribunale di Ravenna si sofferma ampiamente ad illustrare le ragioni per le quali - a suo parere - l'intera normativa di favore verso i lavoratori esposti all'amianto troverebbe il proprio principale fondamento non tanto nell'obiettivo di agevolare l'esodo dei medesimi, quanto piuttosto in una finalità di natura «compensativa» e risarcitoria, come più volte affermato dalla giurisprudenza della Corte di cassazione (a partire dalla sentenza 3 aprile 2001, n. 4913) e come espressamente disposto - per i lavoratori esposti ultradecennali - dalla nuova normativa introdotta nel 2003; che, peraltro, anche questa Corte ha riconosciuto l'esistenza di tale finalità nelle sentenze n. 5 del 2000 e n. 127 del 2002, rispetto alle quali, pertanto, la sentenza n. 434 del 2002 - che attribuisce all'impugnato art. 13 «la principale funzione di permettere ai lavoratori coinvolti nel processo di dismissione delle lavorazioni comportanti l'uso dell'amianto di ottenere il diritto alla pensione» - sembra marcare una diversità non considerata nella motivazione delle pronunce precedenti; che il riconoscimento della menzionata finalità compensativa dà ragione, secondo il Tribunale, dell'illegittimità costituzionale derivante dalla mancata estensione dei benefici previsti dalla censurata disposizione anche a favore dei lavoratori già pensionati alla data di entrata in vigore della legge n. 257 del 1992; che si è costituito l'INPS, concludendo per l'inammissibilità o comunque l'infondatezza della questione; che nello stesso senso ha concluso anche il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che è intervenuto in giudizio. Considerato che il Tribunale di Ravenna dubita, in riferimento agli artt. 2 e 3, primo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 7, della legge 27 marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto), «nella parte in cui nega che spetti l'erogazione del beneficio della rivalutazione contributiva ai lavoratori affetti da malattia cagionata da esposizione all'amianto che si trovassero in pensione al momento dell'entrata in vigore della legge n. 257 del 1992 (28 aprile 1992)»; che la questione è stata sollevata nel corso di un giudizio instaurato da un ex lavoratore di uno zuccherificio, titolare di pensione di anzianità dal 1° marzo 1991 e riconosciuto affetto da una malattia professionale derivante dall'esposizione all'amianto nel 2002, al fine di ottenere l'aumento dell'importo della pensione stessa per effetto dell'applicazione del suddetto beneficio, non riconosciutogli in sede amministrativa a causa della decorrenza della pensione da epoca anteriore all'entrata in vigore della citata legge n. 257 del 1992; che, come risulta dalla precedente esposizione, il remittente, dopo aver sottolineato la diversità esistente tra la disposizione attualmente censurata e quella del successivo comma 8 del medesimo art. 13, ha altresì rilevato come questa Corte abbia scrutinato soltanto questa seconda norma, al pari della Corte di cassazione, la quale in un'unica pronuncia (la sentenza 13 febbraio 2004, n. 2849), a suo dire, «sembra aver accomunato i due diversi tipi di benefici»; che, nella prospettazione del giudice a quo, la lesione degli indicati parametri costituzionali si fa, ipoteticamente, derivare dal vaglio della correttezza di tale ultima sentenza, tanto che la questione viene espressamente sollevata al fine di «affinare l'interpretazione» della normativa onde pervenire «all'individuazione del significato maggiormente aderente al dettato costituzionale», oltretutto sulla base di una lettura della giurisprudenza costituzionale - e, in particolare, della sentenza n. 434 del 2002 - tale da ricomprendervi anche la disposizione attualmente censurata, in contrasto con l'indicata premessa; che, pertanto, la sollevata questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile non soltanto per la suddetta evidente incongruenza logica, ma soprattutto perché impropriamente sollevata per ottenere un avallo a favore di una determinata interpretazione della disposizione censurata (sentenza n. 147 del 2008 e ordinanze n. 124 e n. 157 del 2008). per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 13, comma 7, della legge 27 marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto), sollevata, in riferimento agli articoli 2 e 3, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Ravenna con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 31 ottobre 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA ORDINANZA N. 358 ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente ORDINANZAnei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, promossi con ordinanze della Corte d'appello di Venezia del 20 aprile 2007, della Corte d'appello di Firenze del 24 luglio 2007 e della Corte d'appello di Torino del 22 ottobre 2007, iscritte, rispettivamente, ai nn. 616 e 780 del registro ordinanze 2007 ed al n. 134 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 36 e 47, prima serie speciale, dell'anno 2007 e n. 20, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio dell'8 ottobre 2008 il Giudice relatore Gaetano Silvestri. Ritenuto che la Corte d'appello di Venezia, con ordinanza del 20 aprile 2007 (r.o. n. 616 del 2007), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, per violazione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU); che la rimettente è investita, in sede di giudizio di rinvio dalla Corte di cassazione, della decisione in ordine all'applicazione della decurtazione del 40% dell'indennità di espropriazione, prevista dall'art. 5-bis citato, essendo stata sul punto annullata, per difetto di motivazione, la sentenza pronunciata da altra sezione della medesima Corte d'appello; che, riferisce inoltre il giudice a quo, nell'atto di riassunzione i soggetti espropriati hanno avanzato domanda diretta ad ottenere «la determinazione della giusta indennità di espropriazione e la conseguente giusta indennità di occupazione nella somma già liquidata da questa Corte con la sentenza cassata ma senza la decurtazione del 40% e con l'aggiunta di un'ulteriore somma a titolo di indennità agricola ai sensi dell'art. 37 comma nono del D.P.R. 327/2001», mentre la controparte ha chiesto il rigetto delle domande e la conferma dell'indennità nella misura già determinata; che, prosegue la rimettente, disposta la riunione al predetto giudizio di altra causa pendente tra le stesse parti e precisate le conclusioni, in comparsa conclusionale gli appellanti in riassunzione hanno eccepito l'illegittimità costituzionale dell'art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, richiamando la decisione assunta in data 29 marzo 2006 dalla Grande Chambre della Corte EDU, nella causa Scordino contro Governo italiano; che il giudice a quo condivide il dubbio di costituzionalità della norma citata e richiama, a sua volta, sia la motivazione della citata sentenza della Corte EDU, sia l'orientamento della giurisprudenza di legittimità (Cassazione civile, ordinanze n. 11887 del 2005 e n. 22357 del 2006, con le quali è stata sollevata identica questione), secondo cui, diversamente da quanto avviene per i regolamenti comunitari, deve ritenersi escluso che il giudice nazionale possa disapplicare le norme interne contrastanti con la Convenzione, così imponendosi il ricorso al giudice delle leggi; che la Corte rimettente conclude osservando che «l'eventuale esercizio, da parte dello Stato, del proprio potere normativo in materia espropriativa in contrasto con l'art. 1 del primo Protocollo addizionale della Convenzione Europea risulterebbe in contrasto con la disposizione dell'art. 117 della Costituzione»; che, con atto depositato il 9 ottobre 2007, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale, dopo aver rilevato l'analogia tra la questione in esame ed altre quattro questioni già trattate all'udienza del 3 luglio 2007 (r.o. nn. 401, 402, 681 del 2006, e n. 2 del 2007), ha concluso per la declaratoria di non fondatezza; che anche le Corti d'appello di Firenze (r.o. n. 780 del 2007, del 24 luglio 2007) e di Torino (r.o. n. 134 del 2008, del 22 ottobre 2007) hanno sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, rispettivamente in riferimento all'art. 117 Cost. (r.o. n. 780 del 2007) ed agli artt. 111 e 117 Cost., anche in rapporto all'art. 6 della CEDU e all'art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione EDU (r.o. n. 134 del 2008); che la Corte d'appello di Firenze, nell'ambito di due giudizi riuniti aventi ad oggetto la domanda di pagamento dell'indennità di occupazione d'urgenza di un'area edificabile e l'opposizione alla stima, è chiamata a determinare, ai sensi dell'art. 5-bis citato, l'indennità di espropriazione ed occupazione; che, secondo quanto riferito dalla rimettente, i soggetti espropriati hanno chiesto la disapplicazione dei criteri di quantificazione dell'indennità previsti dalla predetta norma e la rideterminazione dell'indennità medesima sulla base del valore venale dei beni ablati, prospettando, in subordine, «la necessità di sollevare la questione interpretativa ex art. 234 del Trattato UE, ovvero, in via ulteriormente gradata, la necessità di sollevare la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5-bis»; che la Corte d'appello di Firenze argomenta sia in punto di inaccoglibilità della richiesta di disapplicazione dell'art. 5-bis per contrasto con le norme convenzionali, sia in punto di non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della citata norma per contrasto con l'art. 117 Cost., richiamando diffusamente le motivazioni con le quali la Corte di cassazione ha sollevato identica questione (ordinanze n. 22357 e n. 12810 del 2006); che, in particolare, la rimettente si sofferma sulla pronuncia resa dalla Grande Chambre della Corte EDU, in causa Scordino contro Governo italiano, del 29 marzo 2006, nella quale si troverebbe affermato che il citato art. 5-bis viola il "sistema" della Convenzione sulla privazione della proprietà individuale per pubblica utilità, come interpretato sulla base della relazione tra i due commi dell'art. 1 del I Protocollo addizionale; che, infatti, la previsione di una indennità largamente inferiore al valore venale dei beni ablati, riducibile fino ad un terzo del prezzo di mercato, oltre al carico tributario, e senza considerazione dell'entità della causa di pubblica utilità, «rompe il giusto equilibrio tra interesse generale e diritto di proprietà individuale tutelato dall'art. 1 del I Protocollo addizionale», là dove tale ultima norma impone di regola un ristoro corrispondente al valore di mercato; che la rimettente richiama la motivazione della già citata ordinanza n. 22357 del 2006 della Corte di cassazione, nella quale si assume che le modifiche apportate all'art. 117 Cost. dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), pur avendo effetto dalla data di entrata in vigore, incidono non solo sulla normativa futura ma anche su quella previgente, che deve essere dichiarata illegittima se con esse contrastanti; che, pertanto, l'art. 5-bis violerebbe l'art. 117, primo comma, Cost., in rapporto all'art. 1 del primo Protocollo addizionale alla Convenzione EDU; che la Corte d'appello di Torino solleva analoga questione, nell'ambito di giudizio di rinvio avente ad oggetto la rideterminazione dell'indennità di occupazione di aree edificabili; che, in punto di rilevanza, la rimettente precisa di dover applicare l'art. 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, in quanto il principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione impone di liquidare l'indennità di occupazione in misura corrispondente ad una percentuale di quella che sarebbe spettata per l'espropriazione dell'area occupata; che nel ricorso in riassunzione i soggetti espropriati hanno eccepito l'illegittimità costituzionale della predetta norma, richiamando le ordinanze della Corte di cassazione che hanno sollevato identica questione (ordinanze n. 22357 e n. 12810 del 2006); che, in punto di non manifesta infondatezza, la rimettente dichiara di voler esporre argomentazioni «del tutto aderenti a quelle già svolte dalle citate ordinanze della Corte di cassazione», e richiama i relativi passaggi motivazionali, in termini sostanzialmente analoghi a quanto sintetizzato con riferimento alla questione sollevata dalla Corte d'appello di Firenze; che, in aggiunta alla prospettata violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., comune anche alle ordinanze di rimessione provenienti dalle Corti d'appello di Venezia e di Firenze, la Corte d'appello di Torino censura l'art. 5-bis con riguardo all'applicazione retroattiva dei criteri in esso previsti, e ciò sul rilievo che nel giudizio a quo i soggetti espropriati avevano proposto opposizione alla stima prima dell'entrata in vigore della predetta norma; che, pertanto, sarebbe violato l'art. 111 Cost., in rapporto all'art. 6 della Convenzione EDU; che, in linea con le più volte citate ordinanze della Corte di cassazione, la rimettente osserva come il principio del «giusto processo», posto a garanzia della parità delle parti davanti al giudice, implichi tra l'altro il divieto di ingerenza del potere legislativo nella risoluzione della singola causa o di una determinata categoria di controversie; che, in prossimità della decisione, il Presidente del Consiglio dei ministri, già intervenuto nel giudizio introdotto con l'ordinanza r.o. n. 616 del 2007 della Corte d'appello di Venezia, ha depositato breve memoria nella quale rileva che la norma censurata è stata dichiarata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 348 del 2007 della Corte costituzionale, successiva all'ordinanza di rimessione, e conclude chiedendo che sia disposta la restituzione degli atti al giudice a quo per una nuova valutazione della rilevanza. Considerato che con tre distinte ordinanze le Corti d'appello di Venezia, Firenze e Torino sottopongono a scrutinio di costituzionalità l'art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, per contrasto con l'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 1 del primo Protocollo addizionale della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU); che la sola Corte d'appello di Torino solleva questione di legittimità costituzionale del citato art. 5-bis per contrasto con l'art. 111 Cost., anche in rapporto all'art. 6 della medesima Convenzione europea; che, stante l'identità delle questioni, i giudizi possono essere riuniti per essere decisi con unico provvedimento; che questa Corte, con la sentenza n. 348 del 2007, successiva alle ordinanze di rimessione, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 5-bis, commi 1 e 2, del decreto-legge n. 333 del 1992, per contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost.; che nella citata pronuncia è precisato che «la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma censurata in riferimento all'art. 117, primo comma, Cost., rende superflua ogni valutazione sul dedotto contrasto con l'art. 111 Cost., in rapporto all'applicabilità della stessa norma ai giudizi in corso al momento della sua entrata in vigore, poiché, ai sensi dell'art. 30, terzo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, essa non potrà avere più applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione delle presente sentenza»; che, inoltre, con la medesima sentenza è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale, in via consequenziale, dei commi 1 e 2 dell'art. 37 del d.P.R. 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), stante l'identità delle norme ivi contenute con quelle già dichiarate in contrasto con la Costituzione; che, pertanto, deve essere disposta la restituzione degli atti ai giudici rimettenti, per un rinnovato esame della rilevanza delle questioni (ex plurimis, ordinanze nn. 340 e 317 del 2008). Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. per questi motiviLA CORTE COSTITUZIONALEriuniti i giudizi, ordina la restituzione degli atti alle Corti d'appello di Venezia, Firenze e Torino. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Gaetano SILVESTRI, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 31 ottobre 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA ORDINANZA N. 359 ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente ORDINANZAnel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 294 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 7 febbraio 2008 dal Tribunale di Napoli nel procedimento penale a carico di R.G., iscritta al n. 157 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio dell'8 ottobre 2008 il Giudice relatore Gaetano Silvestri. Ritenuto che il Tribunale di Napoli, sezione per le impugnazioni dei provvedimenti cautelari, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 294 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l'obbligo di interrogare la persona nei cui confronti sia stato disposto l'aggravamento della misura cautelare, ai sensi del precedente art. 276, comma 1, nella fase compresa tra la pronuncia della sentenza di primo grado e l'inizio del giudizio di appello; che dinanzi al rimettente è impugnato il provvedimento con il quale la Corte d'appello di Napoli ha respinto l'istanza, presentata dalla difesa dell'imputato, per la «declaratoria dell'inefficacia dell'ordinanza di aggravamento della misura cautelare degli arresti domiciliari per omissione dell'interrogatorio»; che l'aggravamento della misura, precisa il rimettente, era stato disposto dal giudice di primo grado, dopo la pronuncia della sentenza di condanna e prima della trasmissione degli atti alla Corte d'appello per il giudizio di gravame; che, riferisce ancora il giudice a quo, in sede di appello cautelare la difesa dell'imputato ha contestato, tra l'altro, il presupposto sul quale è motivato il rigetto dell'istanza de libertate, e cioè che, trattandosi di misura cautelare disposta nell'ambito della «procedura sanzionatoria» regolata dall'art. 276 cod. proc. pen., non occorresse procedere ad un successivo interrogatorio di garanzia ai sensi dell'art. 294 cod. proc. pen.; che secondo la tesi difensiva occorrerebbe distinguere tra l'ipotesi di aggravamento della misura cautelare prevista dall'art. 276, comma 1-ter, cod. proc. pen. (violazione della prescrizione di non allontanarsi dal luogo degli arresti domiciliari), nella quale l'interrogatorio non sarebbe richiesto, e l'ipotesi di aggravamento disposto ai sensi del comma 1 del medesimo art. 276, nella quale, invece, l'interrogatorio dovrebbe ritenersi prescritto a pena di estinzione della misura; che il rimettente condivide l'interpretazione della difesa e ritiene, in linea con il più recente indirizzo della Corte di cassazione (sono richiamate Cassazione penale, sentenze n. 21407 del 2005 e n. 1600 del 2006), che l'aggravamento della misura cautelare, disposto ai sensi del comma 1 dell'art. 276 cod. proc. pen., si caratterizzi per l'esercizio di un potere «largamente discrezionale» del giudice, non dissimile, sotto il profilo dell'incidenza sulla libertà personale, da quello che connota l'applicazione ex novo di una misura coercitiva, con la conseguenza che l'interessato dovrebbe poter rappresentare immediatamente le proprie ragioni in ordine alla sussistenza e alla rilevanza della trasgressione; che da ciò discenderebbe la necessità dell'interrogatorio di garanzia, quale unico strumento idoneo ad assicurare adeguatamente il diritto di difesa, non potendo riconoscersi un valore equivalente ai rimedi impugnatori; che, precisata in tal senso l'opzione interpretativa alla base della questione, il rimettente osserva come, nel caso di specie, l'aggravamento della misura sia stato disposto dopo la pronuncia della sentenza di primo grado, e prima della trasmissione degli atti alla corte d'appello, cioè in un momento in cui, secondo l'art. 294 cod. proc. pen., l'interrogatorio di garanzia non era dovuto, in quanto la predetta norma «espressamente limita l'obbligo dell'interrogatorio al momento in cui è dichiarato aperto il dibattimento»; che il giudizio principale, di conseguenza, dovrebbe essere definito con il rigetto del gravame; che, peraltro, il giudice a quo censura la disposizione contenuta nell'art. 294 cod. proc. pen., ritenendola contrastante con il diritto di difesa, nella parte in cui non impone la verifica immediata, e nella pienezza del contraddittorio, delle condizioni che giustificano il provvedimento di aggravamento; che inoltre, ad avviso del rimettente, la norma censurata si porrebbe in contrasto con l'art. 3 Cost., in quanto riserva un trattamento deteriore al soggetto che, nel periodo compreso tra la conclusione del giudizio di primo grado e l'inizio del giudizio d'appello, subisca la modifica in peius del regime cautelare, ai sensi dell'art. 276, comma 1, cod. proc. pen., rispetto al soggetto che tale aggravamento abbia subito nel periodo intercorrente tra la richiesta di rinvio a giudizio e l'udienza preliminare, ovvero tra la trasmissione degli atti al giudice di primo grado e l'apertura del dibattimento (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 1999); che il rimettente procede, quindi, all'esame dell'ordinanza n. 230 del 2005 della Corte costituzionale, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità degli artt. 294 e 302 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono l'obbligo dell'interrogatorio di garanzia della persona sottoposta a custodia cautelare «anche dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento», per evidenziare come tale pronuncia, a suo dire, non possa incidere sull'odierna questione; che infatti, secondo il giudice a quo, nel caso di specie si discuteva delle garanzie de libertate a fronte di una misura disposta «nel corso del dibattimento», tanto che la Corte avrebbe argomentato l'infondatezza della questione allora sollevata «avuto riguardo alle peculiarità che caratterizzano la fase del dibattimento ed alla adeguatezza del livello di garanzie de libertate apprestato in esso dal sistema»; che, diversamente, la fattispecie in esame si caratterizza per l'ormai intervenuta definizione del giudizio di primo grado, sicché mancherebbe la possibilità di verificare con immediatezza «sia la legittimità dello status, sia la permanenza delle condizioni che determinarono l'adozione della misura custodiale» (è richiamata ancora la sentenza n. 32 del 1999), essendo tra l'altro inutilizzabile la previsione contenuta nell'art. 494 cod. proc. pen., che riconosce all'imputato la facoltà di rendere dichiarazioni in ogni stato del dibattimento; che, inoltre, il rimettente pone a raffronto l'ipotesi prevista dall'art. 276, comma 1, cod. proc. pen. e quella prevista dall'art. 275, comma 1-bis, dello stesso codice, che disciplina la misura cautelare emessa «contestualmente o successivamente alla sentenza di condanna», e per la quale si esclude la necessità dell'interrogatorio di garanzia; che tale disciplina, ad avviso del giudice a quo, trova giustificazione proprio in quanto la misura è emessa all'esito del dibattimento, nel quale si realizza quella «coesistenza e assorbimento delle funzioni cautelari in quelle di merito, nel che sta quel valore di "immanenza" richiamato dalla sentenza n. 32 del 1999» (è nuovamente richiamata l'ordinanza n. 230 del 2005), ciò che non avverrebbe nell'ipotesi di aggravamento della misura a seguito di trasgressione, nella quale il giudice che procede esercita esclusivamente le attribuzioni incidentali di natura cautelare di cui all'art. 276 cod. proc. pen.; che, peraltro, il riconoscimento della necessità dell'interrogatorio di garanzia, nei termini fin qui prospettati, non incontrerebbe ostacoli di carattere sistematico, atteso che la già affermata eccentricità dell'istituto in esame rispetto alla fase dibattimentale non sussisterebbe «dopo la chiusura della fase in questione e rispetto ad un fatto che non attiene al merito dell'imputazione per cui si procede»; che, evidenzia ancora il giudice a quo, «l'intervallo di tempo intercorrente tra la pronunzia della sentenza di primo grado e l'inizio del giudizio di appello può essere (o meglio, è) caratterizzato da un'estensione maggiore rispetto a quella intercorrente tra la richiesta di rinvio a giudizio e l'udienza preliminare»; che identica considerazione, avuto riguardo al tempo intercorrente tra la trasmissione degli atti e l'apertura del dibattimento, sarebbe posta alla base della dichiarazione di illegittimità parziale dell'art. 294 cod. proc. pen. intervenuta con la già richiamata sentenza n. 32 del 1999; che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso nel senso dell'inammissibilità o, comunque, dell'infondatezza della questione; che, quanto al presupposto interpretativo posto alla base della questione, la difesa erariale richiama il diverso orientamento della Corte di cassazione che esclude la necessità dell'interrogatorio di garanzia in caso di aggravamento della misura cautelare disposto ai sensi dell'art. 276, comma 1, cod. proc. pen. (sono richiamate, tra le altre, Cassazione penale, sentenze n. 37948 del 2007, n. 7394 del 2007 e n. 41204 del 2006), di talché la questione dovrebbe essere dichiarata inammissibile, risultando irrilevante; che, nel merito, l'Avvocatura generale richiama il precedente specifico con il quale la Corte costituzionale ha già affermato che la necessità dell'interrogatorio di garanzia è imposta fino all'apertura del dibattimento (ordinanza n. 230 del 2005); che, in particolare, sono evidenziati i passaggi motivazionali della citata ordinanza n. 230 del 2005, nei quali si trova affermato che il diritto di difesa può ammettere modulazioni differenziate, e che «in particolare, e proprio sul versante dell'interrogatorio di garanzia della persona sottoposta a custodia cautelare è evidente come un simile atto presenti connotazioni ben diverse, non soltanto a seconda dello stadio raggiunto dal procedimento - e con esso dal corrispondente tasso di cristallizzazione dell'accusa e del relativo materiale di prova - ma anche in rapporto alle specifiche attribuzioni del giudice chiamato ad intervenire in quello specifico segmento del procedimento»; che pertanto, osserva la difesa erariale, una volta aperto il dibattimento, la continuità della interlocuzione tra giudice ed imputato escluderebbe in radice la necessità dell'interrogatorio di garanzia; che inoltre, pur dovendosi ammettere l'assenza di un contatto immediato tra giudice e imputato nel lasso di tempo che intercorre tra la pronuncia della sentenza di primo grado e l'apertura del dibattimento di appello, tuttavia, secondo l'Avvocatura generale, la pienezza della cognizione che necessariamente precede la sentenza di condanna renderebbe superfluo lo svolgimento dell'interrogatorio di garanzia, là dove le questioni inerenti all'esistenza, all'entità ed alla eventuale giustificabilità della trasgressione possono essere fatte valere con gli ordinari rimedi impugnatori. Considerato che il Tribunale di Napoli, in sede di appello de libertate, solleva, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 294 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l'obbligo dell'interrogatorio di garanzia della persona sottoposta ad aggravamento della misura cautelare, ai sensi del precedente art. 276, comma 1, nella fase compresa tra la pronuncia della sentenza di primo grado e l'inizio del giudizio di appello; che, pertanto, oggetto di censura è la norma prevista dal comma 1 dell'art. 294 cod. proc. pen.; che il giudice a quo, con riferimento alla peculiare fattispecie dell'aggravamento di misura cautelare disposto a seguito di trasgressione, vorrebbe che l'obbligo di effettuare l'interrogatorio di garanzia fosse esteso alle fasi successive all'apertura del dibattimento; che identica questione è già stata esaminata da questa Corte e dichiarata manifestamente infondata con l'ordinanza n. 267 del 2008, successiva all'odierno provvedimento di rimessione; che nella citata pronuncia è stata ribadita la ragionevolezza della scelta legislativa attuata − all'indomani della sentenza di questa Corte n. 32 del 1999 − con il decreto-legge 22 febbraio 1999, n. 29 (Nuove disposizioni in materia di competenza della corte d'assise e di interrogatorio di garanzia), convertito, con modificazioni, dalla legge 29 aprile 1999, n. 109, e dunque l'adeguatezza in funzione di garanzia - nelle fasi successive alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado - dei rimedi impugnatori proponibili contro i provvedimenti restrittivi della libertà personale (ordinanza n. 230 del 2005); che, sempre con l'ordinanza n. 267 del 2008, si è ritenuta ininfluente l'opzione interpretativa che si intenda assumere riguardo alla necessità dell'interrogatorio di garanzia in caso di aggravamento della misura cautelare, posto che tale adempimento sarebbe comunque escluso, a norma dell'art. 294 cod. proc. pen., dopo l'avvio del dibattimento; che, non essendo stati prospettati elementi idonei a determinare un diverso giudizio di questa Corte, la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata. Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. per questi motiviLA CORTE COSTITUZIONALEdichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 294, comma 1, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Napoli con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Gaetano SILVESTRI, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 31 ottobre 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA ORDINANZA N. 360 ANNO 2008REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati del 12 settembre 2007, relativa alla insindacabilità, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dall'onorevole Vittorio Sgarbi nei confronti dei magistrati Elvira Castelluzzo e Angelica Di Giovanni promosso dal Tribunale di Monza, sezione distaccata di Desio, con ricorso depositato in cancelleria il 5 maggio 2008 ed iscritto al n. 11 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2008, fase di ammissibilità. Udito nella camera di consiglio dell'8 ottobre 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante. Ritenuto che il Giudice unico del Tribunale di Monza, sezione distaccata di Desio, nel corso di un procedimento penale per il reato di diffamazione aggravata a carico del deputato Vittorio Sgarbi, con ricorso del 25 febbraio 2008, depositato il 5 marzo 2008 nella cancelleria della Corte, ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati, in relazione alla delibera adottata il 12 settembre 2007 (doc. IV-ter, n. 5-A), con la quale è stata dichiarata - su conforme proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere - l'insindacabilità dei fatti per i quali è in corso l'indicato procedimento, ai sensi dell'articolo 68 della Costituzione, costi tuendo essi opinioni espresse nell'esercizio delle funzioni di parlamentare; che il ricorrente, dopo aver riportato in premessa il capo di imputazione, esclude, richiamandosi alla giurisprudenza di questa Corte, la ravvisabilità, nella specie, di alcun nesso funzionale tra le dichiarazioni stesse - e, in particolare, alcune di esse - e l'esercizio delle funzioni parlamentari; che, espone il Tribunale, l'on. Sgarbi, in alcuni articoli di stampa, aveva espresso giudizi asseritamente denigratori sui magistrati Elvira Castelluzzo e Angelica Di Giovanni, a seguito dell'arresto, da queste disposto, del senatore Lino Jannuzzi; che, osserva il ricorrente, per ravvisare il citato nesso funzionale, non basta rilevare come il deputato sia spesso intervenuto sull'operato della magistratura, nel contesto della sua attività parlamentare, con toni molto accesi e di forte critica; che, infatti, per escludere ogni riconducibilità delle opinioni espresse alle tipiche attività parlamentari svolte dall'imputato, sarebbe sufficiente rileggere alcune delle dichiarazioni in questione: «ancora una volta si erano sbagliati i suoi amici giudici. Sbagliati non per la severità del giudizio... ma per ignoranza. Per ignoranza della legge....giudici che avrebbero dovuto applicare la legge, se mai l'avessero conosciuta»; che il Tribunale, sospeso il giudizio, chiede a questa Corte, previa ammissibilità del conflitto, la declaratoria di non spettanza alla Camera dei deputati della valutazione circa la condotta attribuita al parlamentare oggetto di contestazione nel giudizio e, per l'effetto, l'annullamento della deliberazione della Camera dei deputati del 12 settembre 2007, in quanto lesiva delle prerogative dell'ordine giurisdizionale. Considerato che, in questa fase, la Corte è chiamata, ai sensi dell'art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, ad accertare se il sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sia ammissibile, valutando, senza contraddittorio tra le parti, se ne sussistano i requisiti soggettivo ed oggettivo, restando impregiudicata ogni ulteriore decisione anche in punto di ammissibilità; che, quanto al requisito soggettivo, il Tribunale di Monza è legittimato a sollevare il conflitto, essendo competente a dichiarare definitivamente, in relazione al procedimento del quale è investito, la volontà del potere cui appartiene, in considerazione della posizione di indipendenza, costituzionalmente garantita, di cui godono i singoli organi giurisdizionali; che, analogamente, la Camera dei deputati, in quanto ha deliberato l'insindacabilità delle opinioni espresse da un proprio membro, è legittimata ad essere parte del conflitto, in qualità di organo competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere che rappresenta; che, per quanto riguarda il profilo oggettivo del conflitto, il Tribunale ricorrente denuncia la menomazione della propria sfera di attribuzione, garantita da norme costituzionali, in conseguenza dell'adozione, da parte della Camera dei deputati, di una deliberazione ove si afferma, in maniera asseritamente illegittima, che le opinioni espresse da un proprio membro rientrano nell'esercizio delle funzioni parlamentari, in tal modo godendo della garanzia di insindacabilità stabilita dall'art. 68, primo comma, della Costituzione; che, pertanto, esiste la materia di un conflitto la cui risoluzione spetta alla competenza della Corte. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara ammissibile, ai sensi dell'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il conflitto di attribuzione proposto dal Tribunale di Monza, sezione distaccata di Desio, nei confronti della Camera dei deputati con il ricorso indicato in epigrafe; dispone: a) che la cancelleria della Corte dia immediata comunicazione della presente ordinanza al ricorrente; b) che l'atto introduttivo e la presente ordinanza siano, a cura del ricorrente, notificati alla Camera dei deputati entro il termine di sessanta giorni dalla comunicazione di cui al punto a), per essere poi depositati, con la prova dell'avvenuta notifica, nella cancelleria di questa Corte entro il termine di venti giorni previsto dall'art. 26, comma 3, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 31 ottobre 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA |