Deposito del 04/04/2008 (dalla 85 alla 92) |
S.85/2008 del 31/03/2008 Camera di Consiglio del 13/02/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK Norme impugnate: Art. 1 della legge 20/02/2006, n. 46, sostitutivo dell'art. 593 del codice di procedura penale, e art. 10 della stessa legge. Oggetto: Processo penale - Appello. - Modifiche normative - Possibilità per gli imputati di proporre appello contro le sentenze di non doversi procedere per prescrizione conseguenti al riconoscimento di attenuanti - Preclusione - Inammissibilità dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella. - Modifiche normative - Possibilità per l'imputato di proporre appello contro una sentenza forma lmente di non punibilità, avente come presupposto un accertamento di responsabilità penale (nella specie, in relazione ad un procedimento per reato di evasione, è stata applicata l'esimente speciale di cui all'art. 387, secondo comma, cod. pen.) - Preclusione - Inammissibilità dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella. - Modifiche normative - Possibilità per l'imputato di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Preclusione, salvo nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen. se la nuova prova è decisiva - Inammissibilità dell'appello proposto dall'imputato contro le sentenze di proscioglimento prima dell'entrata in vigore della novella - Richiamo alla sentenza della Corte costituzionale n. 26/2007. Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale Atti decisi: ord. 543, 668 e 742/2007 |
S.86/2008 del 31/03/2008 Udienza Pubblica del 26/02/2008, Presidente BILE, Relatore QUARANTA Norme impugnate: Art. 15 quinquies, c. 5°, del decreto legislativo 30/12/1992, n. 502; art. 59, c. 1°, della legge della Regione Toscana 24/02/2005, n. 40. Oggetto: Sanità pubblica - Medici dirigenti delle ASL - Incarichi di direzione delle strutture sanitarie - Requisito necessario del rapporto di lavoro esclusivo - Distinzione tra l'ipotesi in cui vi sia la concreta possibilità di esercitare l'attività intramuraria per la presenza di strutture idonee e l'ipotesi di impossibilità di esercizio della stessa attività per l'assenza di strutture idonee - Mancata previsione. Sanità pubblica - Norme della Regione Toscana - Incarichi di direzione delle strutture sanitarie - Requisito necessario del rapporto di lavoro esclusivo - Distinzione tra l'ipotesi in cui vi sia la concreta possibilità di esercitare l'attività intramuraria per la presenza di strutture idonee e l'ipotesi di impossibilità di esercizio della stessa attività per l'assenza di strutture idonee - Mancata previsione. Dispositivo: non fondatezza Atti decisi: ord. 533/2007 |
O.87/2008 del 31/03/2008 Camera di Consiglio del 13/02/2008, Presidente BILE, Relatore NAPOLITANO Norme impugnate: Artt. 17 (recte: art. 15), 47, 128, 129 e 150 del decreto legislativo 09/01/2006 n. 5; artt. 24, 25 e 26 [rectius: artt. 24, c. 1°, lett. n), 25, c. 1°, lett. n), e 26, c. 1°, lett. b) ] del decreto del Presidente della Repubblica 14/11/2002, n. 313. Oggetto: Fallimento e procedure concorsuali - Riabilitazione civile. - Non menzione nei certificati del casellario giudiziale dei provvedimenti concernenti il fallimento (in particolare, della sentenza dichiarativa di fallimento) nei casi in cui il fallito sia stato riabilitato con sentenza definitiva - Istanza di soggetto dichiarato fallito presentata in data successiva all'entrata in vigore del decreto legislativo n. 5 del 2006 che ha abrogato il procedimento di riabilitazione - Omessa previsione della possibilità, per i soggetti dichiarati falliti anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto legislativo n. 5 del 2006, che alla stessa data non avessero già ottenuto la sentenza di riabilitazione civile, nonché per i soggetti dichiarati falliti successivamente all'entrata in vigore del predetto decreto, di conseguire la non menzione della sentenza dichiarativa di fall imento nei certificati del casellario giudiziale. - Istanza presentata da soggetto sottoposto a procedura fallimentare dichiarata chiusa in data anteriore all'entrata in vigore del decreto legislativo n. 5 del 2006 che ha abrogato il procedimento di riabilitazione - Prevista ultrattività della previgente legge fallimentare limitatamente ai ricorsi per dichiarazione di fallimento e alle domande di concordato fallimentare depositate prima dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 5 del 2006, nonché alle procedure di fallimento e di concordato fallimentare pendenti alla stessa data - Irragionevole esclusione dalla disciplina transitoria dei procedimenti di riabilitazione civile che presuppongono fallimenti chiusi o comunque disciplinati secondo la normativa previgente - Omessa previsione della possibilità, per i soggetti i cui fallimenti siano stati o comunque restino disciplinati esclusivamente dalla previgente legge fallimentare, di ottenere la riabilitazione civile e d i beneficiare dei persistenti effetti di essa (quale causa di estinzione del reato o della pena di bancarotta semplice e di non menzione del fallimento nei certificati del casellario giudiziale). Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens Atti decisi: ord. 521, 624, 625, 626, 627, 628, 629, 719, 720, 721 e 722/2007 |
O.88/2008 del 31/03/2008 Udienza Pubblica del 26/02/2008, Presidente BILE, Relatore CASSESE Norme impugnate: Art. 13 della legge della Regione Campania 07/02/1994, n. 8. Oggetto: Impiego pubblico - Autorità di bacino interregionale del fiume Sele - Nomina del responsabile della Segreteria tecnico-operativa e del Segretario Generale mediante concorso per titoli riservato ai dirigenti della Regione Campania. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 689/2006 |
O.89/2008 del 31/03/2008 Camera di Consiglio del 27/02/2008, Presidente BILE, Relatore AMIRANTE Norme impugnate: Artt. 159, 160, 420 quater, c. 1°, e 484 del codice di procedura penale. Oggetto: Processo penale - Imputato a cui è stato notificato il decreto di citazione a giudizio previa emissione del decreto di irreperibilità - Sospensione obbligatoria del processo - Mancata previsione. Dispositivo: manifesta infondatezza |
O.90/2008 del 31/03/2008 Camera di Consiglio del 12/03/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK Norme impugnate: Artt. 69, c. 4°, e 99, c. 4°, del codice penale, come modificati dagli artt. 3 e 4 della legge 05/12/2005, n. 251. Oggetto: Reati e pene - Recidiva - Determinazione della pena in caso di recidiva reiterata - Previsione di un aumento obbligatorio e fisso di due terzi - Parità di trattamento di situazioni diverse. Reati e pene - Circostanze del reato - Concorso di circostanze aggravanti e attenuanti - Divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle circostanze inerenti alla persona del colpevole nel caso previsto dall'art. 99, quart o comma, cod. pen. (recidiva reiterata); Determinazione della pena in caso di recidiva reiterata - Previsione di un aumento obbligatorio fisso di pena. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 616/2006; 360 e 384/2007 |
O.91/2008 del 31/03/2008 Camera di Consiglio del 12/03/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK Norme impugnate: Art. 99, c. 1°, 3° e 4°, del codice penale, come modificati dall'art. 4 della legge 05/12/2005, n. 251. Oggetto: Reati e pene - Recidiva - Determinazione della pena - Previsione di un aumento obbligatorio fisso - Mancata previsione che la pena possa essere aumentata "fino alla" misura indicat a dal legislatore. Dispositivo: manifesta infondatezza - manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 645/2007 |
O.92/2008 del 31/03/2008 Camera di Consiglio del 12/03/2008, Presidente BILE, Relatore QUARANTA Norme impugnate: Art. 3, c. 2° bis e 2° ter, del decreto legge 30/11/2005, n. 245, introdotti dalla legge 27/01/2006, n. 21. Oggetto: Giustizia amministrativa - Tribunali amministrativi regionali - Controversie relative alla legittimità delle ordinanze e dei conseguenziali provvedimenti commissariali adottati in tutte le situazioni di emergenza dichiarate ai sensi dell'art. 5, comma 1, della legge 24 febbraio 1992, n. 225 - Comp etenza, in via esclusiva, in primo grado, attribuita al T.A.R. del Lazio - sede di Roma - Irragionevole deroga al principio della competenza del T.A.R. della Regione in cui il provvedimento è destinato ad avere incidenza; In via subordinata: Questione di legittimità costituzionale limitatamente all'inciso "e dei conseguenziali provvedimenti commissariali". Dispositivo: manifesta infondatezza Atti decisi: ord. 692, 693, 694, 695 e 696/2007 |
ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), sostitutivo dell'art. 593 del codice di procedura penale, e dell'art. 10 della stessa legge, promossi con ordinanze del 26 aprile 2006 dalla Corte d'appello di Roma, del 9 febbraio 2007 dalla Corte d'appello di Bologna e del 30 marzo 2007 dalla Corte d'appello di Bari, rispettivamente iscritte ai nn. 543, 668 e 742 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 32, 39 e 44, prima serie speciale dell'anno 2007. Udito nella camera di consiglio del 13 febbraio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick. Ritenuto in fatto 1. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura penale, impedisce all'imputato di proporre appello contro la sentenza di non doversi procedere per p rescrizione, conseguente al riconoscimento di circostanze attenuanti; nonché dell'art. 10 della medesima legge, nella parte in cui impone di dichiarare inammissibile detto appello, ove proposto anteriormente alla data di entrata in vigore della legge stessa. La Corte rimettente riferisce di essere investita dell'appello proposto da tre imputati contro la sentenza emessa dal Tribunale di Frosinone il 2 marzo 2004, che aveva dichiarato non doversi procedere nei loro confronti in ordine ad una serie di reati (corruzione aggravata per atti contrari ai doveri di ufficio, truffa pluriaggravata e abuso in atti d'ufficio), per essere i medesimi estinti per prescrizione, a seguito della concessione delle attenuanti generiche, ritenute prevalenti sulle circostanze aggravanti contestate. Il gravame - prosegue il giudice a quo - dovrebbe essere dichiarato inammissibile ai sensi degli artt. 1 e 10 della legge n. 46 del 2006, non essendo più previsto l'appello come mezzo di impugnazione delle sentenze di proscioglimento. Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale di tale disciplina. È ben vero - osserva il giudice a quo - che il principio del doppio grado di giurisdizione di merito non risulta costituzionalizzato: tanto che si è discussa l'opportunità di abolire l'appello, sia per rendere più celere la definizione dei processi, che per eliminare il contrasto tra un giudizio di primo grado improntato all'oralità e un giudizio di secondo grado essenzialmente «cartolare». Ma una volta che la legge n. 46 del 2006 continua a prevedere l'istituto, le limitazioni poste all'esperibilità di tale mezzo di impugnazione da parte dell'imputato si rivelerebbero contrarie tanto al principio di ragionevolezza, in correlazione al diritto di difesa; quanto al principio di ragionevole durata del processo. L'esclusione di un secondo grado di merito, rispetto ai processi conclusisi in primo grado con una declaratoria di prescrizione, potrebbe ritenersi, difatti, ragionevole allorché sia non vi sia stato, in tali processi, «un sostanziale giudizio di merito»: come avverrebbe nel caso di sentenza emessa ai sensi dell'art. 129 cod. proc. pen., con cui il giudice di prime cure si limita a delibare la non evidenza dell'insussistenza del fatto o dell'estraneità ad esso dell'imputato. Ben diversa sarebbe, invece, l'ipotesi in cui - come nella specie - si pervenga alla declaratoria di prescrizione del reato in esito ad una valutazione di merito, che presuppone il riconoscimento della colpevolezza dell'imputato: riconoscimento il quale non sfocia in una pronuncia di condanna solo a seguito della concessione di attenuanti, che fanno rientrare il reato nell'ambito di applicazione della causa estintiva. In tale evenienza, negare all'imputato la possibilità di ottenere la modifica della decisione, tramite un secondo giudizio «in fatto», costituirebbe soluzione irrazionale, ove si consideri che, in base alla normativa vigente, l'imputato può proporre appello anche solo per ottenere la riduzione della pena della multa; ma non quando - come nell'ipotesi oggetto del giudizio principale - sia stato ritenuto, nella sostanza, un «corrotto». La soluzione normativa censurata violerebbe, altresì, il diritto di difesa: giacché se, da un lato, la sentenza dichiarativa della prescrizione non costituisce, in senso formale, una condanna e, pertanto, non può fare stato nei processi civili e amministrativi; dall'altro lato, però - a prescindere dall'influenza che la sentenza stessa può comunque dispiegare in detti processi - l'art. 24 Cost. assicurerebbe all'imputato il diritto ad esperire tutti i mezzi previsti dall'ordinamento (e l'appello lo è ancora) al fine di tutelare la propria «immagine morale»: immagine certamente compromessa da una pronuncia di prescrizione quale quella in discorso. Da ultimo, l'innovazione introdotta dalla legge n. 46 del 2006 gioverebbe solo apparentemente alla celerità del processo. In realtà, precludendo all'imputato la possibilità di ottenere, con un secondo giudizio «di fatto», una assoluzione nel merito - e, quindi, di giovarsi del giudicato favorevole in un giudizio civile, amministrativo o disciplinare - la disciplina denunciata esporrebbe l'imputato stesso «all'alea di tre gradi di giudizio in sede civile e/o di altri due in sede di contenzioso amministrativo», in contrasto col principio della ragionevole durata del processo. 2. - Con l'ulteriore ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di Bologna ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 10 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui, rispettivamente, escludono che l'imputato possa proporre appello contro sentenze dichiarative di cause di non punibilità che hanno come presupposto un accertamento della responsabilità penale; e prevedono che un simile appello, ove proposto anteriormente all'entrata in vigore della legge, debba essere dichiarato inammissibile. La Corte rimettente riferisce che, con sentenza del 3 ottobre 2002, il Tribunale di Ferrara aveva assolto due persone dal reato di cui all'art. 387 del codice penale (procurata evasione per colpa del custode), in quanto non punibili ai sensi del secondo comma dello stesso articolo (in forza del quale «il colpevole non è punibile se nel termine di tre mesi dalla evasione procura la cattura della persona evasa o la presentazione di lei all'Autorità»). Avverso la sentenza avevano proposto appello sia il pubblico ministero, chiedendo che la causa di non punibilità fosse esclusa e, quindi, la condanna degli imputati; sia questi ultimi, chiedendo di essere assolti per non avere commesso il fatto, o perché il fatto non costituisce reato. Ciò premesso, il giudice a quo osserva come l'«esimente speciale» di cui all'art. 387, secondo comma, cod. pen., da un lato, presupponga l'accertamento che il preposto alla custodia abbia cagionato colposamente l'evasione di un detenuto; e, dall'altro lato, non costituisca una causa di giustificazione, idonea ad escludere l'antigiuridicità del fatto, ma una semplice causa di non punibilità, prevista per evidenti ragioni di politica criminale. Tenuto conto anche delle possibili conseguenze amministrative, contabili o disciplinari della sentenza impugnata, risulterebbe dunque evidente l'interesse degli imputati ad ottenere una pronuncia assolutoria che escluda la commissione del fatto da parte loro o la sussistenza della colpa. In tale ottica, le disposizioni censurate - che imporrebbero di dichiarare inammissibili i gravami degli imputati - violerebbero gli artt. 3 e 24 Cost., in quanto renderebbero insindacabile nel merito una sentenza formalmente di non punibilità, ma che, in realtà, ha come presupposto un accertamento di responsabilità penale; con conseguente compromissione del principio di ragionevolezza e del diritto di difesa, anche nel merito, in ogni stato e grado del procedimento. 3. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di Bari ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111, secondo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 cod. proc. pen., esclude che l'imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, se non nelle ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva; nonché dell'art. 10, comma 2, della citata legge n. 46 del 2006, nella parte in cui prevede che l'appello proposto dall'imputato contro una sentenza di proscioglimento, prima dell'entrata in vigore della medesima legge, sia dichiarato inammissibile. Il giudice a quo premette che, con sentenza del 14 aprile 2005, il Tribunale per i minorenni di Bari aveva dichiarato non doversi procedere per perdono giudiziale nei confronti di un minore, imputato dei reati di minacce, ingiurie, lesioni e danneggiamento; e che, contro tale sentenza, il minore aveva proposto tempestivo appello, onde ottenere un proscioglimento con formula più favorevole. Ciò premesso, la Corte rimettente rileva che, ai sensi dell'art. 593 cod. proc. pen., come modificato dall'art. 1 della legge n. 46 del 2006, l'imputato può appellare le sentenze di condanna, ma non quelle di proscioglimento, tra le quali rientra la sentenza di concessione del perdono giudiziale. La limitazione del potere di appello dell'imputato alle sole sentenze di condanna - prosegue il giudice a quo - si giustificava, nell'originario disegno della novella del 2006, in quanto correlata alla quasi totale soppressione del potere del pubblico ministero di appellare contro le sentenze di proscioglimento. Tale giustificazione sarebbe, peraltro, venuta meno per effetto della sentenza n. 26 del 2007, con la quale questa Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale - per contrasto con il principio di parità delle parti - tanto dell'art. 1 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui sottraeva al pubblico ministero il potere di appello contro le sent enze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi di nuova prova decisiva; quanto dell'art. 10, comma 2, della stessa legge, nella parte in cui prevedeva che l'appello precedentemente proposto dal pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento dovesse essere dichiarato inammissibile. Di conseguenza, alla limitazione del potere di appello dell'imputato viene attualmente a far riscontro un potere di impugnazione del pubblico ministero intatto rispetto al sistema anteriore: con evidente vulnus dei principi di eguaglianza delle parti - in generale e nel processo penale - sanciti dagli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost. La limitazione in questione risulterebbe lesiva, altresì, del diritto di difesa (art. 24 Cost.), in quanto l'imputato prosciolto con formula «non soddisfacente» potrebbe far valere le proprie ragioni solo in condizioni «nettamente deteriori» rispetto alla parte pubblica. Una giustificazione razionale di tale trattamento deteriore non potrebbe essere rinvenuta nella natura dei reati per cui si procede, giacché l'esclusione della facoltà di appello contro le sentenze di proscioglimento riguarda ogni tipo di reato; e neppure in una ipotetica soddisfazione «sostanziale» dell'interesse dell'imputato. Il proscioglimento con formule diverse da quelle della insussistenza e della mancata commissione del fatto - oltre a comprovare un «coinvolgimento» nel fatto stesso, che l'imputato do vrebbe avere il diritto di contestare in modo pieno - potrebbe essere, difatti, valutato (pur senza essere vincolante) nell'eventuale giudizio civile per le restituzioni e il risarcimento del danno. Ciò risulterebbe di tutta evidenza nel caso della sentenza che concede il perdono giudiziale, la quale implica un vero e proprio accertamento di responsabilità. Considerato in diritto 1. - La Corte d'appello di Roma dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura penale, non consente all'imputato di proporre appello contro la sentenza di non doversi procedere per prescrizione, conseguente al riconoscimento di circostanze attenuanti; nonché dell'art. 10, comma 2, della medesima legge , nella parte in cui prevede che detto appello, ove proposto anteriormente all'entrata in vigore della legge stessa, debba essere dichiarato inammissibile. Il giudice a quo muove dal rilievo che la sentenza di proscioglimento per prescrizione del reato conseguente al riconoscimento di circostanze attenuanti implica, nella sostanza, un accertamento di merito in ordine alla colpevolezza dell'imputato. È ben vero, d'altra parte - osserva il rimettente - che il doppio grado di giurisdizione di merito non forma, di per sé, oggetto di garanzia costituzionale: ma una volta che la legge vigente continua a prevedere l'appello - consentendo all'imputato di proporlo anche solo per ottenere la riduzione della pena della multa - negare all'imputato stesso la possibilità di avvalersi di tale rimedio, per contestare l'affermazione di responsabilità insita nella sentenza in questione, costituirebbe sce lta lesiva del principio di ragionevolezza. Sarebbe vulnerato, altresì, il diritto di difesa: giacché detta sentenza di proscioglimento - pur senza essere vincolante - potrebbe influire sui giudizi civili e amministrativi, compromettendo, in ogni caso, l'«immagine morale» del prosciolto. Le disposizioni censurate violerebbero, da ultimo, il principio della ragionevole durata del processo, in quanto - non consentendo all'imputato di ottenere, con un secondo giudizio di merito, l'assoluzione con formula ampiamente liberatoria e di giovarsi, quindi, del giudicato favorevole nei giudizi extrapenali - esporrebbero il prosciolto «all'alea di tre gradi di giudizio in sede civile e/o di altri due in sede di contenzioso amministrativo». 2. - I citati artt. 1 e 10 della legge n. 46 del 2006 sono sottoposti a scrutinio di costituzionalità, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., anche dalla Corte d'appello di Bologna, nella parte in cui, rispettivamente, escludono che l'imputato possa appellare le sentenze dichiarative di cause di non punibilità che hanno come presupposto un accertamento della responsabilità penale; e prevedono che l'appello anteriormente proposto contro tali sentenze vada dichiarato inammissibile. Investita dell'appello proposto da due imputati contro la sentenza che li aveva assolti dal reato di cui all'art. 387 del codice penale (procurata evasione per colpa del custode), in quanto non punibili ai sensi del secondo comma dello stesso articolo, la Corte rimettente osserva come l'«esimente speciale» prevista da quest'ultima disposizione presupponga l'accertamento del fatto contestato e della sua antigiuridicità, limitandosi ad escluderne la punibilità per ragioni di «politica criminale»: donde l'evidente interesse degli imputati - a fronte delle possibili conseguenze amministrative, contabili o disciplinari del suddetto accertamento - ad ottenere una pronuncia assolutoria con formula più ampia.< /SPAN> Impedendo di impugnare con l'appello una sentenza formalmente di non punibilità, ma che, in realtà, comporta un'affermazione di responsabilità penale - col risultato di renderla incensurabile nel merito - le disposizioni violerebbero, di conseguenza, tanto il principio di ragionevolezza che il diritto di difesa. 3. - La Corte d'appello di Bari sottopone a scrutinio di costituzionalità, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111, secondo comma, Cost., l'art. 1 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui, novellando l'art. 593 cod. proc. pen., esclude che l'imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, se non nelle ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, cod. proc. pen., ove la nuova prova risulti decisiva; e l'art. 10, comma 2, della medesima legge, nella parte in cui prevede che sia dichiarato inammissibile l'appello proposto dall'imputato contro una sentenza di proscioglimento, prima dell'entrata in vigore della novella. La Corte rimettente osserva come la limitazione del potere di appello dell'imputato alle sole sentenze di condanna, introdotta dalla legge n. 46 del 2006, si giustificasse, nell'originario disegno della riforma, in quanto correlata alla quasi totale soppressione dell'appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento. Venuta meno, tuttavia, quest'ultima - per effetto della declaratoria di incostituzionalità di cui alla sentenza n. 26 del 2007 di questa Corte - alla perdurante limitazione del potere di appello dell'imputato si contrappone, attualmente, un potere di appello della parte pubblica intatto rispetto alla disciplina anteriore: donde un evidente vulnus del principio di eguaglianza delle parti - in generale e nel processo penale - sancito dagli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost. Risulterebbe leso, correlativamente, anche il diritto di difesa, giacché il proscioglimento con formule diverse da quelle della insussistenza e della mancata commissione del fatto comproverebbe un «coinvolgimento» nel fatto stesso, che l'imputato dovrebbe poter contestare in modo pieno: e ciò anche a fronte della possibilità che la pronuncia penale venga valutata - pur senza essere vincolante - nell'eventuale giudizio civile per le restituzioni e il risarcimento del danno. La validità dell'assunto risulterebbe, d'altro canto, di particolare evidenza nell'ipotesi - oggetto del giudizio a quo - di proscioglimento per perdono giudiziale, trattandosi di pronuncia che implica una sostanziale affermazione della colpevolezza dell'imputato.< o:p> 4. - Le ordinanze di rimessione sollevano questioni analoghe relative alle medesime norme, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione. 5. - La questione è fondata, nei sensi e nei termini di seguito indicati. 5.1. - La legge n. 46 del 2006 - ispirata, secondo le univoche risultanze dei lavori parlamentari, al precipuo intento di sopprimere l'appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento - ha inciso, in modo parallelo, anche sullo speculare potere dell'imputato. In base al nuovo testo dell'art. 593 cod. proc. pen., come riscritto dall'art. 1 della novella, l'imputato e il pubblico ministero possono appellare incondizionatamente - come già in precedenza - le sentenze di condanna (comma 1), fatta eccezione per quelle che abbiano applicato la sola pena dell'ammenda (comma 3). Di contro - ed in ciò risiede il novum della riforma - la norma in questione, prima dell'intervento di questa Corte con la sentenza n. 26 del 2007, consentiva tanto al pubblico ministero che all'imputato di appellare le sentenze di proscioglimento solo in un'ipotesi del tutto marginale sul piano pratico, cioè quella della sopravvenienza o della scoperta di nuove prove decisive dopo il giudizio di primo grado (in sostanza, nel corso del breve termine per appellare). Al di sotto della formale equiparazione delle parti, tale assetto racchiudeva - avuto riguardo alle pretese sostanziali di cui le parti stesse sono portatrici - due asimmetrie di segno contrapposto. Di fronte ad una pronuncia di primo grado totalmente sfavorevole, l'asimmetria era a svantaggio del pubblico ministero; quest'ultimo non poteva appellare la sentenza che avesse disatteso per integrum la pretesa punitiva fatta valere con l'azione intrapresa; invece, l'imputato era (ed è) ammesso a censurare con l'appello la sentenza che abbia completamente disatteso la propria affermazione di innocenza. Per contro, con riferimento all'ipotesi della decisione solo parzialmente sfavorevole, le posizioni risultavano - e risultano - invertite: il pubblico ministero è abilitato ad appellare la sentenza di condanna che abbia accolto solo in parte le proprie richieste; l'imputato, invece, non fruisce dell'omologo potere in rapporto alla sentenza di proscioglimento non integralmente satisfattiva. In effetti, la categoria delle sentenze di proscioglimento - che la riforma assoggetta ad un regime uniforme, quanto alla sottrazione all'appello dell'imputato - non costituisce un genus unitario, ma abbraccia ipotesi marcatamente eterogenee, quanto all'attitudine lesiva degli interessi morali e giuridici del prosciolto. A fianco di decisioni ampiamente liberatorie - quelle pronunciate con le formule «il fatto non sussiste» e l'«imputato non lo ha commesso» - detta categoria comprende, difatti, sentenze che, pur non applicando una pena, comportano - in diverse forme e gradazioni - un sostanziale riconoscimento della responsabilità dell'imputato o, comunque, l'attribuzione del fatto all'imputato medesimo. Paradigmatiche le fattispecie oggetto dei giudizi a quibus: dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione (nel regime anteriore alla legge 5 dicembre 2005, n. 251), conseguente al riconoscimento di circostanze attenuanti; proscioglimento per cause di non punibilità legate a condotte o accadimenti post factum; proscioglimento per concessione del perdono giudiziale; quest'ultimo, in particolare, si traduce - per communis opinio - in una vera e propria affermazione di colpevolezza, non seguita dall'irrogazione della pena (peraltro con effetti preclusivi della reiterazione del beneficio: art. 169, quarto comma, cod. pen.). Come evidenziato da questa Corte in numerose decisioni - concernenti le disposizioni del codice di procedura penale del 1930 che ponevano ampi limiti all'appello dell'imputato contro il proscioglimento, sia dibattimentale (artt. 512 e 513) che istruttorio (artt. 387, 395 e 399) - sentenze come quelle dianzi indicate sono idonee ad arrecare all'imputato significativi pregiudizi, sia di ordine morale che di ordine giuridico (si vedano, con riguardo alle sentenze di proscioglimento per estinzione del reato che presuppongano un sostanziale riconoscimento di colpevolezza, le sentenze n. 249 del 1989, n. 922 del 1988, n. 299 del 1985, n. 224 del 1983, n. 53 del 1981, n. 72 del 1979, n. 73 del 1978 e n. 70 del 1975; con riferimento al proscioglimento perché il fatto non costituisce reato, la sentenza n. 200 del 1986; con riguardo al proscioglimento per difetto di imputabilità, la sentenza n. 140 del 1989). Il pregiudizio di ordine morale può risultare, in taluni casi, persino superiore a quello derivante da una sentenza di condanna: basti pensare al proscioglimento per totale infermità di mente o per cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti, anche quando non venga applicata una misura di sicurezza (al riguardo, si veda la sentenza n. 151 del 1967). I pregiudizi di ordine giuridico si connettono a loro volta, in via generale, alla possibilità che l'accertamento di responsabilità o comunque di attribuibilità del fatto all'imputato, contenuto nelle sentenze in questione - ancorché privo di effetti vincolanti - pesi comunque in senso negativo su giudizi civili, amministrativi o disciplinari connessi al medesimo fatto. Talora, peraltro, il nocumento giuridico può discendere dalla pronuncia in modo diretto, come nel caso della sentenza di proscioglimento per estinzione del reato, che disponga la confisca di beni dell'imputato (eventualmente, di rilevante valore). Rispetto a tale misura di sicurezza - per il disposto dell'art. 579, comma 3, cod. proc. pen. - si ritiene non possa venire comunque in rilievo la clausola di salvez za degli artt. 579 e 680, contenuta nell'art. 593, comma 1, cod. proc. pen.: clausola da cui un indirizzo interpretativo (peraltro non pacifico) desume che l'imputato avrebbe conservato, anche dopo la riforma, il potere di appellare quantomeno il capo della sentenza di proscioglimento relativo all'applicazione di misure di sicurezza. 5.2. - Con la sentenza n. 26 del 2007 questa Corte ha rimosso l'asimmetria introdotta dalla legge n. 46 del 2006, a svantaggio della parte pubblica, in punto di impugnazione delle decisioni totalmente sfavorevoli. Essa, infatti, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale, per contrasto con l'art. 111, secondo comma, Cost., dell'art. 1 di detta legge, nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 cod. proc. pen., esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per l'ipotesi di novum probatorio; nonché della disposizione transitoria di cui all'art. 10 della legge stessa, nella parte in cui prevede che l'appel lo anteriormente proposto dal pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento, è dichiarato inammissibile. Nell'occasione - a fianco dei rilievi che hanno indotto a ritenere incompatibili con il principio di parità delle parti le previsioni censurate; e pur ribadendo che il doppio grado di giurisdizione non forma oggetto di autonoma garanzia costituzionale - la Corte, ha osservato come «l'inappellabilità - sancita per entrambe le parti - delle sentenze di proscioglimento» si prestasse «a sacrificare anche l'interesse dell'imputato, segnatamente allorché il proscioglimento presupponga un accertamento di responsabilità o implichi effetti sfavorevoli». Profilo, questo, atto ad originare ulteriori dubbi di costituzionalità, in quell'occasione non sottoposti, peraltro, alla Corte stessa. 5.3. - Nell'odierno frangente, in cui proprio il tema dianzi indicato forma oggetto di scrutinio, non v'è dubbio che - al fine di assicurare il pieno rispetto dei parametri costituzionali evocati - la limitazione dei poteri di appello dell'imputato avverso le sentenze di proscioglimento, sancita dal comma 2 del novellato art. 593 cod. proc. pen., debba essere anch'essa rimossa: e debba essere rimossa - salvo quanto si osserverà poco oltre - nei termini ampi richiesti dalla Corte d'appello di Bari, con assorbimento dei petita più ristretti formulati dagli altri due giudici rimettenti, calibrati sulle ipotesi di specie. Come già osservato in precedenza, difatti, la norma censurata - accomunando nel medesimo regime situazioni tra loro fortemente eterogenee - nega all'imputato, salvo il novum probatorio, un secondo grado di giurisdizione di merito nei confronti delle sentenze di proscioglimento, anche quando le stesse comportino una sostanziale affermazione di responsabilità o attribuiscano, comunque, il fatto al prosciolto, così da rendere configurabile un suo interesse all'impugnazione; e ciò pur a fronte del riconoscimento al pubblico ministero della facoltà di dolersi nel merito della sentenza di condanna, la quale abbia solo parzialmente recepito le richieste dell'accusa. A ciò viene ad aggiungersi che, per effetto dell'intervento di riequilibrio operato dalla sentenza n. 26 del 2007 con riguardo all'ipotesi delle sentenze totalmente sfavorevoli, il pubblico ministero si trova, allo stato, a poter appellare incondizionatamente la sentenza di primo grado - diversamente dall'imputato - in rapporto ad entrambi gli esiti (proscioglimento e condanna). Giova osservare ancora, sotto altro profilo, che - alla luce di un orientamento giurisprudenziale che appare ormai consolidato, dopo l'intervento delle sezioni unite della Corte di cassazione sul punto - la legge n. 46 del 2006 non ha inciso, in senso limitativo, sul potere di appello della parte civile contro le sentenze di proscioglimento (al riguardo, si veda anche l'ordinanza n. 32 del 2007 di questa Corte). Ne consegue che anche rispetto a detta parte si riscontra un'analoga sperequazione, poiché la parte civile può appellare, a differenza dell'imputato, tanto la pronuncia assolutoria, quanto - ove vi abbia interesse - quella di condanna. Tale assetto - palesemente asimmetrico - risulta lesivo sia del principio di parità delle parti (art. 111, secondo comma, Cost.), in quanto non appare sorretto - per quanto attiene ai rapporti tra imputato e parte pubblica - da alcuna razionale giustificazione, correlata al ruolo istituzionale del pubblico ministero o ad esigenze di corretta e funzionale esplicazione della giustizia; sia dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), stante l'evidenziata equiparazione di esiti decisori tra loro ampiamente diversificati - quali quelli ricompresi nel genus delle sentenze di proscioglimento - nel medesimo regime di inappellabilità da parte dell'imputato. Il medesimo assetto si pone correlativamente in contrasto con il d iritto di difesa (art. 24 Cost.), al quale la facoltà di appello dell'imputato risulta collegata come strumento di esercizio (si vedano, in quest'ultimo senso, oltre alla sentenza n. 26 del 2007, la sentenza n. 98 del 1994 e le sentenze, sopra citate, relative alle disposizioni del codice di rito abrogato). La residua censura della Corte d'appello di Roma, relativa all'asserita violazione del principio di ragionevole durata del processo, resta assorbita. 6. - Dalla declaratoria di illegittimità costituzionale vanno escluse, peraltro, le sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni per le quali potrebbe essere inflitta la sola pena dell'ammenda. Al riguardo, va infatti rilevato come - nel ripristinare, dopo il rinvio della legge alle Camere da parte del Capo dello Stato, una sia pur limitata possibilità di appello delle sentenze di proscioglimento (quella legata alle nuove prove decisive): possibilità che il testo originariamente approvato non contemplava - il legislatore della legge n. 46 del 2006 abbia omesso di reintrodurre la previsione di cui al previgente art. 593, comma 3, seconda parte, cod. proc. pen., che dichiarava inappellabili le sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni punite con la sola pena dell'ammenda o con pena alternativa. E ciò quantunque il nuovo art. 593, comma 3, cod. proc. pen. continui a prevedere l'inappellabilità delle sentenze di condanna relative a contravvenzioni per le qu ali è stata applicata la sola pena dell'ammenda. Un simile regime potrebbe avere - teoricamente - una giustificazione ove si guardi al solo pubblico ministero, dal cui punto di vista il proscioglimento è un esito maggiormente sfavorevole rispetto alla condanna non congrua; ma non - per una ragione opposta - in relazione all'imputato. Appare, infatti, palesemente irrazionale che quest'ultimo sia ammesso ad appellare la sentenza che l'abbia prosciolto da una contravvenzione punibile con la sola ammenda (ancorché senza un pieno riconoscimento della sua innocenza), quando invece gli è precluso in radice l'appello contro la sentenza che, dichiarandone la responsabilità, abbia concretamente irrogato detta pena. Occorre, dunque, evitare che la rimozione, con la presente sentenza, della condizione posta dalla legge n. 46 del 2006 all'appellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte dell'imputato, legata alle nuove prove decisive, generalizzi l'anzidetta incongruenza (circoscritta, attualmente, ad una ipotesi del tutto marginale, come appunto quella delle nuove prove decisive). A tal fine la declaratoria di incostituzionalità va limitata alle sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni per le quali potrebbe essere inflitta, in concreto, la sola pena dell'ammenda (ossia dalle contravvenzioni punite solo con detta pena o con pena alternativa). Tale soluzione appare maggiormente aderente alle linee generali del sistema rispetto all'altra - in astratto alternativamente ipotizzabile - di rimuovere, tramite lo strumento della declaratoria di incostituzionalità in via conseguenziale, la previsione del comma 3 dell'art. 593 cod. proc. pen., consentendo all'imputato di appellare anche contro le sentenze di condanna alla sola pena dell'ammenda; questa seconda soluzione assumerebbe carattere marcatamente "creativo", determinando un risultato - la caduta di ogni limite oggettivo all'appello - privo di riscontro nel pregresso assetto dell'istituto ed estraneo alla stessa voluntas legis. Si deve escludere, infatti, che - al di là del difetto di coordinamento normativo dianzi evidenzia to - il legislatore della legge n. 46 del 2006 intendesse innovare il regime anteriore, quanto alla sottrazione all'appello delle sentenze relative alle contravvenzioni di minore gravità. Militano in tal senso sia il mantenimento del limite oggettivo all'appellabilità delle sentenze di condanna, di cui al comma 3 dell'art. 593 cod. proc. pen.; sia il carattere, come detto, del tutto marginale dell'ipotesi di appellabilità delle sentenze di proscioglimento introdotta dopo il rinvio della legge alle Camere da parte del Capo dello Stato; sia, infine, la circostanza che la legge n. 46 del 2006 aveva come obiettivo generale il contenimento, e non già l'ampliamento, dell'area dell'appellabilità. 7. - L'art. 1 della legge n. 46 del 2006 va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 cod. proc. pen., esclude che l'imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta eccezione per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva. Correlativamente, va dichiarata l'illegittimità costituzionale anche dell'art. 10, comma 2, della citata legge n. 46 del 2006, nella parte in cui prevede che l'appello proposto prima dell'entrata in vigore della medesima legge dall'imputato, a norma dell'art. 593 cod. proc. pen., contro una sentenza di proscioglimento, relativa a reato diverso dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, sia dichiarato inammissibile. La Corte - non potendo applicare l'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, per la non omogeneità delle fattispecie - segnala tuttavia al legislatore l'opportunità di eliminare la dissimetria di poteri tra pubblico ministero e imputato, a svantaggio di quest'ultimo, escludendo l'appellabilità, anche da parte del pubblico ministero, delle sentenze di proscioglimento relative a contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, 1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura penale, esclude che l'imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta eccezione per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva; 2) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 10, comma 2, della citata legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui prevede che l'appello proposto prima dell'entrata in vigore della medesima legge dall'imputato, a norma dell'art. 593 del codice di procedura penale, contro una sentenza di proscioglimento, relativa a reato diverso dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, sia dichiarato inammissibile. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 31 marzo 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giovanni Maria FLICK, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 aprile 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA SENTENZA N. 86< ?xml:namespace prefix = o ns = "urn:schemas-microsoft-com:office:office" /> ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art 15-quinquies, comma 5, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), e dell'art. 59, comma 1, della legge della Regione Toscana 24 febbraio 2005, n. 40 (Disciplina del servizio sanitario regionale), «come interpretato autenticamente» dall'art. 6 della legge della Regione Toscana 14 dicembre 2005, n. 67, recante «Modifiche alla legge regionale 24 febbraio 2005, n. 40 (Disciplina del servizio sanitario regionale). Interpretazione autentica dell'articolo 59 della L.R. n. 40/2005», promosso con ordinanza del 30 ottobre 2006 dal Tribunale di Grosseto, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento civile vertente tra S. V. ed a ltra e l'Azienda U.S.L. n. 9 di Grosseto, iscritta al n. 533 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 32, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di costituzione di S. V., della SOI SAMOI - Società Oftalmologica Italiana - Associazione Medici Oculisti Italiana nonché gli atti di intervento della Regione Toscana e del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 26 febbraio 2008 il Giudice relatore Alfonso Quaranta; uditi gli avvocati Gualtiero Pittalis per S. V., Gian Carlo Muccio per la SOI AMOI, Società Oftalmologica Italiana - Associazione Medici Oculisti Italiana, Vincenzo Cocozza per la Regione Toscana e l'avvocato dello Stato Paolo Cosentino per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.- Il Tribunale ordinario di Grosseto, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale - in riferimento all'art. 3 della Costituzione - dell'art 15-quinquies, comma 5, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), e dell'art. 59, comma 1, della legge della Regione Toscana 24 febbraio 2005, n. 40 (Disciplina del servizio sanitario regionale), «come interpretato autenticamente» dall'art. 6 della legge della Regione Toscana 14 dicembre 2005, n. 67, recante «Modifiche alla legge regionale 24 febbraio 2005, n. 40 (Disciplina del servizio sanitario regionale). Interpretazione autentica d ell'articolo 59 della L.R. n. 40/2005». Il giudice a quo, in particolare, dubita della legittimità costituzionale delle due norme, in quanto «comportano la perdita della funzione dirigenziale» (del ruolo sanitario) «in caso di scelta del medico di proseguire l'attività extra moenia senza distinguere l'ipotesi in cui vi sia la possibilità concreta dell'esercizio della libera professione intra moenia da quella in cui tale possibilità concreta non vi sia». 1.1.- Premette, in punto di fatto, il Tribunale rimettente - dopo avere rammentato di avere già investito la Corte costituzionale, sempre nell'ambito del medesimo giudizio, di analoga questione di legittimità costituzionale, con esito costituito in entrambi i casi da pronunce di restituzione degli atti ad esso rimettente, in ragione di sopravvenienze normative (ordinanze n. 309 del 2002 e n. 422 del 2005) - di essere stato adito, in funzione di giudice del lavoro, per la conferma del provvedimento, adottato ai sensi dell'art. 700 del codice di procedura civile, con il quale sono stati sospes i gli effetti della opzione espressa in data 20 maggio 2000 (a norma dell'art. 15-quater, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992) dal ricorrente nel giudizio a quo, dirigente della divisione oculistica presso l'ospedale di Grosseto. Precisa, dunque, il rimettente che l'oggetto del giudizio principale consiste nella conferma del provvedimento cautelare con il quale si è consentito al predetto dirigente sanitario di evitare l'esercizio dell'opzione - prevista dalla disposizione da ultimo richiamata - tra il rapporto esclusivo alle dipendenze dell'ospedale (implicante il divieto di esercizio della libera professione extramuraria), e lo svolgimento, invece, della libera professione extra moenia. Ai sensi, difatti, del combinato disposto degli artt. 15-quater, comma 3, e 15-quinquies, comma 5, del d.lgs. n. 502 del 1992 - entrambi aggiunti dall'art. 13 del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell'articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419) - i dirigenti sanitari, già in servizio alla data del 31 dicembre 1998 (tale è la condizione in cui versa il ricorrente nel giudizio a quo), erano tenuti a comunicare - entro un termine originariamente fissato nel novantesimo giorno successivo all'entrata in vigore del suddetto d .lgs. n. 229 del 1999, e poi prorogato al 14 marzo 2000 dall'art. 1, comma 1, del decreto legislativo 2 marzo 2000, n. 49 (Disposizioni correttive del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229, concernenti il termine di opzione per il rapporto esclusivo da parte dei dirigenti sanitari) - l'opzione in ordine al rapporto esclusivo (opzione che, oltretutto, si presumeva in assenza di diversa comunicazione), ciò che, oltre a costituire condizione indefettibile per il mantenimento degli incarichi di direzione di struttura, semplice o complessa, comportava anche la necessità di limitare l'attività libero professionale esclusivamente a quella "intramuraria". Assume, inoltre, il rimettente che, mentre l'adozione del provvedimento cautelare con cui sono stati sospesi gli effetti dell'opzione in favore del rapporto esclusivo poteva compiersi (e di fatto è stata compiuta) sulla base di una prognosi di incostituzionalità della relativa disciplina, la conferma di tale provvedimento presuppone, invece, la declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme censurate, in quanto «il giudice della causa di merito, a differenza del giudice della causa avente natura cautelare, non può disapplicare una norma di legge». 1.2.- Ritenuta, pertanto, la perdurante rilevanza della questione, pur a seguito delle sopravvenienze normative che avevano indotto la Corte costituzionale a pronunciare le due ordinanze di restituzione degli atti sopra ricordate, il rimettente ribadisce che le due norme censurate - stabilendo che l'incarico di direzione di una struttura sanitaria, semplice o complessa, implica, senza eccezione alcuna, il rapporto di lavoro esclusivo - finiscono con il parificare, irragionevolmente, «il dirigente che possa esercitare un'effettiva scelta tra due opzioni entrambe praticabili (laddove siano state concretamente allestite le strutture per la libera professione intra moenia) e il dirigente a cui sia in concreto preclusa l'alternativa della libera professione intra moenia», in ragione della mancata predisposizione di tali strutture. Inoltre, la contestata disciplina, con previsione nuovamente irragionevole, impone al dirigente «di esercitare l'opzione prima di sapere se, effettivamente, l'azienda predisporrà le strutture necessarie all'esercizio della libera professione», costringendolo così «ad un salto nel buio». Né, ad escludere detto inconveniente, potrebbe invocarsi il disposto del comma 10 del predetto art. 15-quinquies, che riconosce al medico - in caso di carenza di strutture e spazi idonei alle necessità connesse allo svolgimento delle attività libero-professionali in regime ambulatoriale - l'utilizzazione del proprio studio professionale, fino alla data, certificata dalla Regione o dalla Provincia autonoma, degli interventi strutturali necessari ad assicurare l'esercizio dell'attività libero-professionale intra moenia e comunque entro il 31 luglio 2007. Per un verso, infatti, siffatta previsione «costringe il medico ad esosi e caduchi investimenti strutturali», per altro verso è «comunque lim itata alle attività professionali in regime ambulatoriale». 2.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo la declaratoria di inammissibilità della questione, ovvero il rigetto della stessa. La difesa erariale assume, difatti, l'inammissibilità della questione «per perdurante o comunque sopravvenuta irrilevanza». Previamente ripercorse tanto le vicende oggetto del giudizio principale, quanto l'evoluzione conosciuta dalla legislazione - sia statale che regionale - in materia, l'Avvocatura generale dello Stato contesta l'affermazione sulla quale il rimettente ha fondato la propria rinnovata iniziativa, ovvero che la Corte costituzionale - con la sentenza n. 181 del 2006 - non avrebbe «preso in considerazione l'ipotesi in cui non esista la concreta possibilità di espletare l'attività in regime di rapporto esclusivo», omettendo di valutare anche in base a tale circostanza la ragionevolezza della discipli na in contestazione. Tale assunto sarebbe smentito, secondo la difesa erariale, da quel passaggio della citata sentenza ove si afferma che, nel quadro «di una evoluzione legislativa diretta a conferire maggiore efficienza, anche attraverso innovazioni del rapporto di lavoro dei dipendenti, all'organizzazione della sanità pubblica così da renderla concorrenziale con quella privata», non risulta irragionevole «la previsione di limiti all'esercizio dell'attività libero-professionale da parte dei medici del Servizio sanitario nazionale», e ciò anche in ragione del fatto «che la denunciata - e comunque indiretta - limitazione all'esercizio della libera professione», risulta «peraltro frutto di una precisa scelta del medico». Inoltre, a rendere immune le norme censurate dal denunciato vizio di incostituzionalità - donde la richiesta, formulata in via di subordine dall'Avvocatura generale dello Stato, di declaratoria di non fondatezza della questione - soccorrerebbe la previsione del comma 10 dell'art. 15-quinquies del d.lgs. n. 502 del 1992, giacché essa, in via eccezionale e transitoria, abilita il sanitario all'utilizzazione del proprio studio professionale per lo svolgimento dell'attività intramuraria. Né in senso contrario potrebbe sostenersi - prosegue la difesa erariale - che «detta previsione da un lato costringe il medico ad investimenti per attrezzare il proprio studio professionale e, dall'altro, esclude, o comunque rende estremamente difficoltoso, l'esercizio da parte dello stesso dell'attività libero professionale in regime di ricovero». Difatti, se così fosse - è la conclusione - «la questione andrebbe posta, caso mai, in termini di mancata previsione del rimborso delle spese sostenute» nel primo caso, essendo invece superata, nel secondo, grazie previsione contenuta nell'art. 72, comma 11, della legge 23 dicembre 1998, n. 448 (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), la quale fa carico al direttore generale dell'azienda sanitaria di assum ere specifiche iniziative per reperire fuori dall'azienda spazi sostitutivi in strutture non accreditate nonché ad autorizzare l'utilizzazione di studi professionali privati. 3.- È intervenuta in giudizio la Regione Toscana per chiedere che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque non fondata, atteso che la Corte costituzionale avrebbe già rilevato, con la sentenza n. 181 del 2006, la legittimità costituzionale della norma regionale censurata. 4.¾ Si è costituito in giudizio il ricorrente del giudizio principale. Questi, richiamandosi alle argomentazioni contenute nell'ordinanza di rimessione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale delle norme censurate, rileva, in particolare, come soltanto attraverso l'accoglimento della stessa sarebbe possibile pervenire alla conferma del provvedimento cautelare adottato nel corso del giudizio principale, e dunque alla definitiva reintegrazione di esso ricorrente nell'esercizio delle funzioni di primario ospedaliero, unitamente al riconoscimento della continuazione della facoltà di esercizio della libera professione "extramuraria", risultati questi ambedue conseguiti, sin qui, solo in via interinale, come del resto l'inibitoria imposta all'azienda ospedaliera grossetana, essendole fatto caric o di non di dare corso alla procedura per il conferimento dell'incarico dirigenziale. Ribadisce, per il resto, che i principi costituzionali di «eguaglianza, imparzialità, di buon andamento, proporzionalità, giusto mezzo e ragionevolezza» impongono che «l'esercizio dell'opzione di cui trattasi» - avente ad oggetto la scelta tra la possibilità, da un lato, di esercizio dell'attività libero-professionale extra moenia, accompagnata però dalla perdita delle funzioni di direzione di una struttura sanitaria, e quella, dall'altro, di svolgere unicamente la libera professione intra moenia, conservando le funzioni di direzione - venga richiesto al sanitario soltanto allorché siano state organizzate «le strutture e le attrezzature che effettivamente permettano l'esercizio della libera professione intramuraria». A tale scopo mira, appunto, la sollevata questione di costituzionalità, la quale - osserva la parte privata - ha mantenuto inalterata la sua rilevanza anche dopo gli interventi legislativi, statali e regionali, che hanno nuovamente indotto la Corte costituzionale - con l'ordinanza n. 422 del 2005 - a restituire gli atti al giudice rimettente. Ed infatti, se le modifiche apportate dall'art. 2-septies del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 81 (Interventi urgenti per fronteggiare situazioni di pericolo per la salute pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 maggio 2004, n. 138 del 2004, al testo del comma 4 dell'art. 15-quater del d.lgs. n. 502 del 1992 hanno interessato, «alleggerendole», le conseguenze dell'opzione per il rapporto esclusivo («essendo stata eliminata», osserva sempre la parte privata, «l'irreversibilità della scelta del rapporto esclusivo e l'impossibilità per il medico in rapporto non esclusivo di assumere incarichi di direzione»), resta pur sempre fermo «l'obbligo di optare», e ciò senza che possa ass umere rilievo l'effettiva predisposizione, o meno, delle strutture necessarie allo svolgimento dell'attività professionale intramuraria. D'altra parte, poi, su tale profilo non ha inciso neppure la legge regionale della Toscana n. 40 del 2005, la quale, anzi, ha inteso addirittura far rivivere il sistema - abbandonato dal legislatore statale - secondo cui gli incarichi di direzione di struttura, semplice o complessa, sono conferiti ai dirigenti sanitari «in regime di rapporto di lavoro esclusivo da mantenere per tutta la durata dell'incarico». 5.¾ Si è costituita in giudizio anche la Società Oftalmologica Italiana - Associazione Medici Oculisti Italiani (SOI-AMOI), l a quale, in via preliminare, ha chiarito di aver già spiegato intervento ad adiuvandum a sostegno della pretesa azionata dal ricorrente nel giudizio a quo, ciò che di per sé varrebbe a legittimare la sua partecipazione all'odierno giudizio. Nel merito, oltre a fare propri i rilievi di cui all'ordinanza di rimessione, la predetta società sottolinea l'ininfluenza, rispetto ai già prospettati dubbi di costituzionalità, del mutamento subito dal quadro normativo di riferimento. Essa, infine, ha chiesto la declaratoria di illegittimità costituzionale - oltre che delle disposizioni censurate dal rimettente - anche «delle disposizioni di cui agli artt. 3 e 5» del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229, nonché della legge regionale della Toscana 22 ottobre 2004, n. 56, recante «Modifiche alla legge regionale 8 marzo 2000, n. 22 (Riordino delle norme per l'organizzazione del servizio sanitario regionale) in materia di svolgimento delle funzioni di direzione delle strutture organizzative», ipotizzando la «violazione degli artt. 3, 32, 33, 36, 41, 76, 97 e 117 della Costituzione». 6.- In data 13 febbraio 2008, il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato presso la cancelleria della Corte costituzionale una nuova memoria. Ricostruite, vieppiù, le vicende oggetto del presente giudizio, la difesa erariale osserva che il decreto legislativo n. 229 del 1999 «si è posto l'obiettivo di una radicale discontinuità rispetto alla disciplina previgente», proponendosi «di pervenire, seppure con gradualità, all'esclusività del rapporto di lavoro dei dirigenti sanitari in ruolo al 31 dicembre 1998». In particolare, mentre le «precedenti discipline avevano inteso collegare l'obbligo della scelta dei dirigenti sanitari all'approntamento delle relative strutture», attraverso l'inserimento - nel testo del d.lgs. n. 502 del 1992 - degli artt. da 15-quinqiues a 15-sexies, «il legislatore ha volutamente scelto un sistema inverso a quello precedentemente in vigore, ossia di preventivamente assumere le differenti disponibilità all'attività intra o extra moenia e successivamente riorganizzare il servizio su tale base cognitiva». Pertanto, la decisione assunta a livello statale, «lungi dal costituire una scelta i rragionevole, in quanto non permetterebbe di conoscere le opzioni effettivamente praticabili, costituisce espressione di un principio di razionalizzazione volto a dare concretezza alle scelte del legislatore». Analogamente, il fatto che «la Regione Toscana abbia voluto condizionare l'attribuzione di incarichi apicali alla scelta del rapporto esclusivo, non solo non confligge con alcuna disposizione di rango costituzionale, ma è proprio il portato della legge di riforma del titolo V della Costituzione», che attribuisce alla potestà legislativa concorrente dello Stato e delle Regioni la materia della tutela della salute. Inoltre, la scelta del legislatore regionale appare «funzionale alla protezione di altri interessi ed altre esigenze parimenti fatte oggetto di protezione costituzionale» Su tali basi, quindi, la difesa erariale ha ribadito le conclusioni già formulate. 7.- Sempre in data 13 febbraio anche la SOI-AMOI ha depositato, presso la cancelleria della Corte costituzionale, una nuova memoria. Essa ribadisce di voler «esporre considerazioni che estendono e rafforzano, a suo parere, la manifesta illegittimità delle norme in questione». Deduce, pertanto, la violazione dell'art. 3 Cost. anche sotto altro profilo, assumendo, in particolare, che le norme censurate «sembrano impedire non solo le condizioni di libertà e di eguaglianza del cittadino medico, ma anche l'esercizio della sua personalità umana (indissolubilmente legata alla sua professione)», nonché «il diritto acquisito alla libera professione». Viene ipotizzata, inoltre, la violazione dell'art. 32 Cost., atteso che l'esercizio del diritto alla salute sarebbe «strettamente collegato con la libera scelta del medico e dunque con l'esercizio del rapporto fiduciario da parte dell'utente che, per effetto del sistema delineato, viene, come si è visto, del tutto compromesso». Del pari, è dedotto il contrasto delle norme censurate con il combinato disposto degli artt. 3 e 36 Cost., «la cui armonizzante lettura dispone parità di trattamento in rapporto a parità di compiti e di condizioni dei lavoratori», e con l'art. 41 Cost., poiché la libera competizione tra i medici del Servizio sanitario nazionale verrebbe «sicuramente compromessa» dal sistema delineato dalle norme stesse. Infine, si ipotizza la violazione dell'art. 76 Cost., atteso che il d.lgs. n. 229 del 1999 - nel dettare la previsione di cui all'art. 15-quinquies del d.lgs. n. 502 del 1992 - «avrebbe esorbitato lo spazio offerto dal legislatore delegante». Ribadisce la SOI-AMOI, conclusivamente, l'attualità dei descritti rilievi di illegittimità costituzionale, anche alla luce di quanto ritenuto dalla Corte costituzionale con sentenza n. 50 del 2007, secondo cui la facoltà di scelta tra i due regimi di lavoro dei dirigenti sanitari (esclusivo e non esclusivo) appare «espressione di un principio fondamentale, volto a garantire una tendenziale uniformità tra le diverse legislazioni ed i sistemi sanitari delle Regioni e delle Province autonome in ordine ad un profilo qualificante del rapporto tra sanità ed utenti». Né, poi, una nuova decisione di restituzione degli atti potrebbe essere giustificata dalla sopravvenienza dell'art. 3 della legge 3 agosto 2007, n. 120 (Disposizioni in materia di attività libero-professionale intramuraria e altre norme in materia sanitaria), atteso che tale norma non farebbe «che ribadire l'ennesima disposizione» finalizzata ad «indurre le Regioni e le AUSL ad adottare misure organizzative tali da consentire in concreto la libera professione intramuraria in ogni situazione», oltretutto senza prevedere «alcun finanziamento per i propositi - sempre vanificati - di effettiva organizzazione a sostegno dell'attività professionale intramuraria», anzi facendo «espresso divieto di oneri aggiuntivi nell'impiego di personale che dovrebbe essere posto a sostegno di tal e attività». 8.- Anche la Regione Toscana, del pari in data 12 febbraio, ha depositato, presso la cancelleria della Corte costituzionale, una nuova memoria. La Regione evidenzia, innanzitutto, come il Tribunale rimettente abbia ribadito i dubbi di legittimità costituzionale delle norme censurate - con riferimento al solo art. 3 Cost. - «limitatamente al profilo della prevista perdita della funzione dirigenziale in ogni caso di scelta di proseguire l'attività extra moenia, senza distinguere tra l'ipotesi in cui vi fosse l'alternativa della libera professione intra moenia e quella in cui tale alternativa non vi fosse per carenza di strutture aziendali all'uopo dedicate». Ciò premesso, essa deduce che, subito dopo l'emissione dell'ordinanza di rimessione, è intervenuta la delibera della Giunta regionale della Toscana 23 luglio 2007, n. 555 di recepimento delle disposizioni di cui al decreto legislativo 28 luglio 2000, n. 254 (Disposizioni correttive ed integrative del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229, per il potenziamento delle strutture per l'attività libero-professionale dei dirigenti sanitari), il quale prevedeva «la realizzazione da parte delle aziende sanitarie, tramite un programma di investimenti ad hoc» di apposite «strutture per l'esercizio della libera professione intra moenia». In particolare, detta delibera «stabiliva per quanto attiene all'Azienda USL 9 di Grosseto la realizzazione di strutture per lo svolgimento dell'attività intra moenia entro il 31 luglio 2007». Inoltre, la difesa regionale segnala come l'art. 1 della legge n. 120 del 2007 abbia espressamente previsto che, al fine di garantire l'esercizio dell'attività libero-professionale intramuraria, «le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano assumono le più idonee iniziative volte ad assicurare gli interventi di ristrutturazione edilizia, presso le aziende sanitarie locali, le aziende ospedaliere, le aziende ospedaliere universitarie, i policlinici universitari a gestione diretta e gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS) di diritto pubblico, necessari per rendere disponibili i locali destinati a tale attività» (così, testualmente, il comma 1), stabilendo, altresì, che l'adozione di tali iniziative «dovrà essere completata entro il termine di diciotto mesi a decorrere dalla data del 31 luglio 2007» (in tal senso il comma 2). In attuazione di tali previsioni, prosegue la Regione Toscana, «l'Azienda USL 9 di Grosseto ha già predisposto tutti gli spazi e le tecnologie idonee all'attività intramuraria», come attesterebbe la delibera aziendale n. 494 del 2007. In forza di tali ultime considerazioni, la Regione assume in via pregiudiziale - non senza previamente eccepire, peraltro, «l'inammissibilità degli ulteriori profili di illegittimità costituzionale dedotti dalle parti private intervenute nel presente giudizio incidentale, non richiamate nell'ordinanza di rimessione» (cita, in proposito, la sentenza n. 405 del 1999) e comunque l'impossibilità di imputare il vizio di eccesso dalla delega, pure da esse prospettato, alle leggi regionali (cita la sentenza n. 221 del 1992 e l'ordinanza n. 209 del 2005) - che la questione sollevata non sarebbe «assistita dal requisito della rilevanza». Nel merito, la Regione deduce l'infondatezza della questione, richiamando le sentenze della Corte costituzionale n. 63 del 2000, n. 353 del 1993, oltre che la sentenza n. 181 del 2006, con la quale, in particolare, si è provveduto «a sindacare le specifiche norme oggetto dell'odierno giudizio di costituzionalità, riconoscendone la legittimità costituzionale proprio in relazione all'art. 3 (oltre che all'art. 117 della Costituzione)». In particolare, la Corte ha affermato - sottolinea la difesa regionale - che «non appare irragionevole la previsione di limiti all'esercizio dell'attività libero-professionale da parte dei medici del Servizio sanitario nazionale», e ciò anche in ragione del fatto «che la denunciata - e comunque indiretta - limitazione all'esercizio della libera professione», risulta «peraltro frutto di una precisa scelta del medico». Richiamate, pertanto, anche le sentenze n. 147 del 2005, n. 330 del 1999 e n. 145 del 1985, la Regione insiste per la declaratoria di non fondatezza della questione sollevata. Quanto, poi, in particolare, alla specifica doglianza del rimettente - circa l'assenza delle condizioni che permetterebbero al sanitario di compiere una scelta consapevole in favore del rapporto esclusivo - decisiva appare alla difesa regionale la circostanza che «il legislatore, con l'art. 15-quinquies, comma 10, al fine di ovviare a possibili disfunzioni organizzative, ha consentito l'utilizzo di studi professionali privati, laddove e fino a quando l'azienda non abbia reperito gli spazi adeguati all'esercizio dell'intra moenia»; ne consegue, pertanto, che per lo stesso ricorrente del giudizio principale, «nel momento in cui è stato chiamato ad esercitare l'opzione a favore del regime esclu sivo, l'esercizio dell'attività intramuraria era, comunque, garantito, anche nelle forme della cd. intra moenia allargata». Considerato in diritto 1.- Torna all'esame di questa Corte la questione, già sollevata dal Tribunale ordinario di Grosseto, in funzione di giudice del lavoro, in relazione alla quale sono già state adottate due ordinanze di restituzione degli atti al giudice rimettente (ordinanze n. 309 del 2002 e n. 422 del 2005) in ragione di ius superveniens. Con l'ordinanza di rimessione di cui in epigrafe, il medesimo Tribunale ha sollevato questione di legittimità costituzionale - in riferimento all'art. 3 della Costituzione - dell'art 15-quinquies, comma 5, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), e dell'art. 59, comma 1, della legge della Regione Toscana 24 febbraio 2005, n. 40 (Disciplina del servizio sanitario regionale), «come interpretato autenticamente» dall'art. 6 della legge regionale 14 dicembre 2005, n. 67, recante «Modifiche alla legge regionale 24 febbraio 2005, n. 40 (Disciplina del servizio sanitario regionale). Interpretazione autentica dell'articolo 59 della L.R. n. 40/2005». Il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale delle suddette norme, in quanto «comportano la perdita della funzione dirigenziale» di una struttura sanitaria «in caso di scelta del medico di proseguire l'attività extra moenia senza distinguere l'ipotesi in cui vi sia la possibilità concreta dell'esercizio della libera professione intra moenia da quella in cui tale possibilità concreta non vi sia». 1.2.- Ritenuta la perdurante rilevanza della questione, pur a seguito delle sopravvenienze normative che avevano indotto questa Corte a pronunciare le due ordinanze di restituzione degli atti sopra ricordate, il rimettente assume che le norme censurate - stabilendo che l'incarico di direzione di una struttura sanitaria, semplice o complessa, implica, senza eccezione alcuna, il rapporto di lavoro esclusivo - finiscono con il parificare, irragionevolmente, «il dirigente che possa esercitare un'effettiva scelta tra due opzioni entrambe praticabili (laddove siano state concretamente allestite le strutture per la libera professione intra moenia) e il dirigente a cui sia in concreto preclusa l'alternativa della libera professione intra moenia», in ragione della mancata predisposizione di tali strutture. Inoltre, la contestata disciplina, con previsione oltretutto irragionevole, impone al dirigente «di esercitare l'opzione prima di sapere se, effettivamente, l'azienda predisporrà le strutture necessarie all'esercizio della libera professione», costringendolo così «ad un salto nel buio». 2.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo la declaratoria di inammissibilità della questione, ovvero il rigetto della stessa. In particolare, la difesa erariale reputa che il dubbio di costituzionalità sollevato dal rimettente debba ritenersi superato alla luce di quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 181 del 2006. Si tratta della pronuncia che ha definito un giudizio di legittimità costituzionale in via principale avente ad oggetto, tra le altre norme, tanto l'art. 2-septies, comma 1, del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 81 (Interventi urgenti per fronteggiare situazioni di pericolo per la salute pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 26 maggio 2004, n. 138 (disposizione, questa, che ha sostituito il comma 4 dell'art. 15-quater del d.lgs. n. 502 del 1992, cancellando il principio della irreversibilità che caratterizzava il rapporto esclusivo dei dirigenti s anitari), quanto l'art. 59, comma 1, della legge regionale della Toscana n. 40 del 2005 (cioè proprio una delle due norme censurate dall'odierno rimettente), il quale prevede che gli incarichi di direzione delle strutture organizzative sanitarie siano conferiti ai dirigenti sanitari «in regime di rapporto di lavoro esclusivo da mantenere per tutta la durata dell'incarico». 3.- Si sono costituiti nel presente giudizio il ricorrente del giudizio principale e la Società Oftalmologica Italiana - Associazione Medici Oculisti Italiani (SOI-AMOI), già interveniente nel giudizio a quo, chiedendo l'accoglimento della questione sollevata dal giudice rimettente e sollecitando un ampliamento del thema decidendum. In particolare, la predetta SOI-AMOI ha chiesto la declaratoria di illegittimità costituzionale anche «delle disposizioni di cui agli artt. 3 e 5» del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell'articolo 1 della legge 30 novembre 1998, n. 419), e delle norme «di cui agli artt. 15, 15-bis, 15-ter, 15-quater, 15-quinquies, 15-sexies, 15-nonies» del d.lgs. n. 502 del 1992, nonché della legge regionale della Toscana 22 ottobre 2004, n. 56, recante «Modifiche alla legge regionale 8 marzo 2000, n. 22 (Riordino delle norme per l'organizzazione del servizio sanitario regionale) in materia di svolgimento delle funzioni di direzione delle strutture organizzative», ipotizzando la «violazione degli artt. 3, 32, 33, 36, 41, 76, 97 e 117 della Costituzione». 4.- È intervenuta anche la Regione Toscana per chiedere il rigetto della questione, richiamando anch'essa la già citata sentenza n. 181 del 2006. In via preliminare, peraltro, la Regione ha chiesto che venga dichiarata l'inammissibilità dell'ampliamento del thema decidendum, rispetto a quello prospettato nell'ordinanza di rimessione. Essa, inoltre, ha dedotto il difetto di rilevanza della questione sollevata, in quanto, essendo stata eccepita l'illegittimità delle norme censurate «sul presupposto della mancanza degli spazi idonei per lo svolgimento dell'attività intra moenia», la censura sarebbe divenuta irrilevante per effetto della deliberazione della Giunta regionale della Toscana 23 luglio 2007, n. 555 (la quale, in relazione proprio all'Azienda USL 9 di Grosseto, ha stabilito la realizzazione delle strutture per lo svolgimento dell'attività intra moenia entro il 31 luglio 2007), e, soprattutto, della deliberazione aziendale n. 494 del 2007 (nella quale si dà atto che la predetta Azienda ha già predisposto tutti gli spazi e le tecnologie idonei all'attività intramuraria). 5.- In via preliminare, debbono essere esaminate proprio le eccezioni pregiudiziali sollevate dalla Regione Toscana. 5.1.- La prima eccezione è fondata. Deve, infatti, ribadirsi, quanto all'oggetto del giudizio di costituzionalità in via incidentale, che esso è «limitato alle norme ed ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione, poiché, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, non possono essere presi in considerazione, oltre i limiti in queste fissate, ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, sia che siano stati eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze» (così, testualmente, l'ordinanza n. 174 del 2003, nonché, nello stesso senso, la sentenza n. 244 del 2005 e l'ordinanza n. 273 del 2005). Conseguentemente, devono ritenersi inammissibili le deduzioni delle parti private, costituitesi nel presente giudizio, dirette ad estendere il thema decidendum non soltanto attraverso l'evocazione di ulteriori parametri costituzionali, ma anche attraverso la denuncia di norme ulteriori rispetto a quelle sospettate di illegittimità costituzionale dal giudice rimettente. 5.2.- Non può essere accolta, invece, l'eccezione di inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, atteso che le deliberazioni alle quali fa riferimento la difesa regionale sono di epoca successiva, oltre che alla instaurazione del giudizio a quo, anche alla stessa ordinanza di rimessione. 6.- Ciò premesso, passando ad esaminare il merito del presente giudizio, deve rilevarsi come la questione sollevata dal Tribunale ordinario di Grosseto non sia fondata. 7.- Al riguardo, appare necessario ripercorrere, nei suoi passaggi più significativi, l'evoluzione complessiva della disciplina del rapporto di lavoro dei dirigenti del Servizio sanitario nazionale, contraddistinta sin dall'origine da un tendenziale disfavore nei confronti dello svolgimento dell'attività libero-professionale. 7.1.- In tale prospettiva, deve rammentarsi, innanzitutto, che ai sensi dell'art. 43, lettera d), della legge 12 febbraio 1968, n. 132 (Enti ospedalieri e assistenza ospedaliera), venne stabilito il principio dell'incompatibilità tra rapporto di servizio «a tempo definito» del medico ospedaliero e l'esercizio di attività professionale in case di cura private, principio che superò indenne lo scrutinio di costituzionalità condotto con la sentenza n. 103 del 1977. Questa Corte, infatti, sottolineò gli «effetti negativi ed impeditivi» che avrebbe avuto, rispetto alla scelta legislativa di potenziare con nuove strutture il servizio pubblico di assistenza ospedaliera, «il consentire alla collaterale organizzazione dell'assistenza sanitaria privata di assorbire, con impegni quasi sempre non accidentali, il personale sanitario ospedaliero». Detta scelta legislativa venne, poi, confermata dall'art. 24 del d.P.R. 27 marzo 1969, n. 130 (Stato giuridico dei dipendenti degli enti ospedalieri), che, dando attuazione al suddetto principio di incompatibilità, definì compiutamente due diverse tipologie di rapporti di lavoro. Si previde, infatti, accanto ad un rapporto a «tempo pieno» (instaurato «a domanda» e comportante l'attribuzione di un «premio di servizio», che bilanciava la «rinuncia alla attività libero-professionale extra-ospedaliera» e la «totale disponibilità» per i compiti d'istituto dell'ente ospedaliero), un rapporto a «tempo definito», contraddistinto dalla «facoltà del libero esercizio professionale, anche fuori dell'ospedale», purché non in contrasto con le incompatibilità disposte dal predetto art. 43, lettera d), della citata legge n. 132 del 1968. 7.2.- Tale impianto complessivo risultò confermato anche dall'art. 35, secondo comma, lettere c) e d), del d.P.R. 20 dicembre 1979, n. 761 (Stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali). Infatti, da un lato, venne ribadito il diritto dei medici a «tempo pieno» ad esercitare attività libero-professionale intramuraria, e cioè esclusivamente «nell'ambito dei servizi, presidi e strutture dell'unità sanitaria locale, sulla base di norme regionali», limitandola, al di fuori di tale ambito, soltanto a «consulti e consulenze non continuativi», autorizzati «sulla base di norme regionali»; dall'altro, si stabilì, per i sanitari a «tempo definito», la facoltà di svolgere - purché in orari compatibili e non in contrasto con gli interessi ed i fini istituzionali della struttura sanitaria - l'attività libero-professionale extramuraria, anche «in regime convenzionale», in conformità con le direttive degli accordi nazionali. 7.3.- Segna, viceversa, una cesura rispetto a questa evoluzione l'art. 4, comma 7, della legge 30 dicembre 1991, n. 412 (Disposizioni in materia di finanza pubblica). Con tale intervento il legislatore, vietando ai medici a «tempo definito» prestazioni di lavoro in regime convenzionale o presso strutture convenzionate, ha nel contempo liberalizzato del tutto l'esercizio dell'attività professionale sia extra che intramuraria e ha incentivato «la scelta per il rapporto di lavoro dipendente, assicurando in tal caso, a semplice domanda, il passaggio dal "tempo definito" al "tempo pieno" anche in soprannumero» (sentenza n. 457 del 1993). La liberalizzazione, per tutto il personale sanitario, dell'esercizio della attività professionale in regime esclusivamente privatistico - che, come osservato da questa Corte nella sentenza n. 330 del 1999, «si conformava, per certi aspetti, alla logica della aziendalizzazione del Servizio sanitario e della "privatizzazione" del rapporto di lavoro del personale dipendente» - determinava, come ulteriore effetto, che anche i medici a "tempo pieno" potessero svolgere attività extramuraria, senza la precedente limitazione ai soli consulti e consulenze non continuativi. Orbene, in una situazione siffatta, i soggetti, pubblici e privati, che erogavano prestazioni per conto del Servizio sanitario nazionale, «potevano essere scelti liberamente dal cittadino e venivano retribuiti in base alle prestazioni rese»; si veniva così a determinare una forte «concorrenzialità tra strutture sanitarie pubbliche e strutture sanitarie private» (ancora la citata sentenza n. 330 del 1999). Rispetto a tale situazione, pertanto, «rischiava di apparire contraddittoria la facoltà, riconosciuta al sanitario dipendente pubblico, di esercitare l'attività professionale anche all'esterno della struttura di appartenenza», e ciò tanto più per il dirigente medico, giacché il medesimo «in questo nuovo modello organizzativo, appariva in grado di contribuire efficacemente a determinare sia le scelte strategiche ed operative dell'azienda, attraverso la partecipazione al Consiglio dei sanitari, sia quelle specifiche del dipartimento o del servizio, cui era preposto», donde allora «le premesse per il profilarsi di una situazione di conflitto di interessi, qualora il medico svolgesse libera attività professionale extramuraria». È, dunque, in tale contesto che il legislatore «ha adottato misure per incentivare l'attività professionale intramuraria» ed essa soltanto, e ciò in coerenza con una «evoluzione legislativa diretta a conferire maggiore efficienza, anche attraverso innovazioni del rapporto di lavoro dei dipendenti, all'organizzazione della sanità pubblica così da renderla concorrenziale con quella privata». A questa stessa logica, inoltre, risponde «la previsione di limiti all'esercizio dell'attività libero-professionale» nelle forme dell'extra moenia, da parte dei medici del Servizio sanitario nazionale, previsione che, come affermato da questa Co rte, «non appare irragionevole» (ancora la sentenza n. 330 del 1999). 7.4.- La concreta attuazione di tale disegno è stata affidata all'art. 13 del d.lgs. n. 229 del 1999, che enuncia, tra gli altri, il principio secondo cui gli «incarichi di direzione di struttura, semplice o complessa, implicano il rapporto di lavoro esclusivo» del sanitario (art. 15-quinquies, comma 5, del d.lgs. n. 502 del 1992) e quello che ricollega a detto rapporto esclusivo «il diritto all'esercizio di attività libero professionale individuale, al di fuori dell'impegno di servizio», unicamente «nell'ambito delle strutture aziendali individuate dal direttore generale d'intesa con il collegio di direzione» (comma 2, lettera a, del medesimo art. 15-q uinquies). Il citato art. 13 del d.lgs. n. 229 del 1999 ha inserito nel d.lgs. n. 502 del 1992, tra gli altri, gli artt. 15-quater (Esclusività del rapporto di lavoro dei dirigenti del ruolo sanitario), 15-quinquies (Caratteristiche del rapporto di lavoro esclusivo dei dirigenti sanitari) e 15-sexies (Caratteristiche del rapporto di lavoro dei dirigenti sanitari che svolgono attività libero-professionale extramuraria ). Tale regime, in particolare, è quello applicabile anche nei confronti dei «dirigenti in servizio alla data del 31 dicembre 1998» (tale è la condizione del ricorrente nel giudizio a quo). Per questi ultimi, anzi, è stato previsto un meccanismo di opzione "tacita" in favore del rapporto esclusivo (con conseguente perdita della facoltà di svolgere l'attività libero-professionale extra moenia), atteso che gli interessati, ai sensi dell'art. 15-quater, comma 3, del citato d.lgs. n. 502 del 1992, risultavano «tenuti a comunicare al direttore generale l'opzione in ordine al rapporto esclusivo» (entro un termine originariamente fissato nel novantesimo giorn o successivo all'entrata in vigore del d.lgs. n. 229 del 1999 e poi prorogato al 14 marzo 2000 dal decreto legislativo 2 marzo 2000, n. 49, recante «Disposizioni correttive del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229, concernenti il termine di opzione per il rapporto esclusivo da parte dei dirigenti sanitari»), prevedendosi, inoltre, che, in «assenza di comunicazione», l'opzione del dipendente «per il rapporto esclusivo» fosse da presumersi. 7.4.1.- Nel quadro normativo derivante dai molteplici interventi legislativi cui si è accennato, è stato, tuttavia, previsto un parziale temperamento del principio secondo cui l'esclusività del rapporto di lavoro del dirigente sanitario implica lo svolgimento della sola attività libero-professionale intramuraria. Infatti, l'espressa salvezza - come emerge, in particolare, dalla scelta compiuta dal citato art. 13 del d.lgs. n. 229 del 1999 di inserire anche la previsione di cui alla lettera a), nel testo dell'art. 15-quinquies, comma 2, del d.lgs. n. 502 del 1992 - di «quanto disposto dall'art. 72, comma 11, della legge 23 dicembre 1998, n. 448» (Misure di finanza pubblica per la stabilizzazione e lo sviluppo), già allora comportava l'impegno del direttore generale delle aziende ospedaliere, fino alla realizzazione di «idonee strutture e spazi distinti per l'esercizio dell'attività libero professionale intramuraria in regime di ricovero ed ambulatoriale», «ad assumere le specifiche iniziative per repe rire fuori dall'azienda spazi sostitutivi in strutture non accreditate nonché ad autorizzare l'utilizzazione di studi professionali privati». E per dare concreta attuazione a tale prescrizione, con decreto del Ministro della sanità 28 febbraio 1997 (Attività libero-professionale e incompatibilità del personale della dirigenza sanitaria del Servizio sanitario nazionale), si è fatto carico ai «direttori generali delle unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere» di adottare, sentite le organizzazioni sindacali del personale della dirigenza sanitaria, «un apposito atto regolamentare per definire le modalità organizzative dell'attività libero-professionale del personale medico e delle altre professionalità della dirigenza del ruolo sanitario» (così l'art. 4). Con previsione analoga, anche il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 27 marzo 2000 (Atto di indirizzo e coordinamento concernente l'attività libero-professionale intramuraria del personale della dirigenza sanitaria del Servizio sanitario nazionale) stabilisce che i «direttori generali delle unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere, avvalendosi del collegio di direzione, adottano, in conformità alle direttive regionali, alle previsioni dei contratti collettivi nazionali di lavoro e del presente atto di indirizzo e coordinamento, un apposito atto aziendale per definire le modalità organizzative dell'attività libero-professionale del personale medico e delle altre professionalità della dirigenza del ruolo sanitario» (art. 5). Né è senza significato - ancora nella prospettiva della concreta attuazione del sistema incentrato sull'esercizio dell'attività libero-professionale intra moenia - la previsione di cui all'art. 1 del decreto del Ministro della sanità 8 giugno 2001 (Ripartizione delle risorse finanziarie destinate alla realizzazione delle strutture sanitarie per l'attività libero-professionale intramuraria, ai sensi dell'art. 1 del d.lgs. 28 luglio 2000, n. 254), che ha «approvato il programma per la realizzazione delle strutture sanitarie destinate all'attività libero-professionale intramuraria per un ammontare complessivo di lire 1.599.636.179.465 pari a euro 826.143.140,92». 7.4.2.- La tendenza - di cui sono espressione, oltre alla previsione legislativa da ultimo richiamata, i citati provvedimenti attuativi in sede amministrativa - a rendere meno problematico il passaggio al nuovo regime del rapporto esclusivo (o meglio, ad attenuare le conseguenze derivanti dall'abbandono dell'attività libero-professionale extra moenia) si è vieppiù consolidata, negli anni, alla luce di una serie di ulteriori interventi legislativi. Rileva, in tale prospettiva, innanzitutto, quanto stabilito dagli artt. 1 e 3 del decreto legislativo 28 luglio 2000, n. 254 (Disposizioni correttive ed integrative del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229, per il potenziamento delle strutture per l'attività libero-professionale dei dirigenti sanitari). Il primo di tali articoli - nell'introdurre nel testo del d.lgs. n. 502 del 1992 l'art. 15-duodecies (significativamente rubricato «Strutture per l'attività libero professionale») - ha fatto carico alle Regioni di provvedere, entro il 31 dicembre 2000, «alla definizione di un programma di realizzazione di strutture sanitarie per l'attività libero-professionale intramuraria». Esso, inoltre, ha stabilito che il Ministro della sanità (oggi della salute), d'intesa con la Conferenza Stato-Regioni, determini, seppure entro un limite complessivo dalla stessa norma prefissato, l'ammontare dei fondi «utilizzabili da ciascuna Regione per gli interventi» suddetti . Sempre ai sensi, poi, del predetto art. 1 si è previsto che «in caso di ritardo ingiustificato rispetto agli adempimenti fissati dalle regioni per la realizzazione delle nuove strutture e la acquisizione delle nuove attrezzature e di quanto necessario al loro funzionamento, la regione vi provvede tramite commissari ad acta». Quanto, invece, all'art. 3 del predetto d.lgs. n. 254 del 2000, esso - nel novellare il testo del comma 10 dell'art. 15-quinquies del d.lgs. n. 502 del 1992, dettando una disposizione speculare a quella già prevista, per l'attività libero-professionale in regime di ricovero, dal già citato art. 72, comma 11, della legge n. 448 del 1998 - ha stabilito che al dirigente sanitario «è consentita, in caso di carenza di strutture e spazi idonei alle necessità connesse allo svolgimento delle attività libero-professionali in regime ambulatoriale, limitatamente alle medesime attività e fino al 31 luglio 2003, l'utilizzazione del proprio studio professionale». Successivamente, con nuovi interventi legislativi che si ispirano alla stessa logica, tale termine è stato prorogato prima al 31 luglio 2005 (art. 1, comma 1, del decreto-legge 23 aprile 2003, n. 89, recante «Proroga dei termini relativi all'attività professionale dei medici e finanziamento di particolari terapie oncologiche ed ematiche, nonché delle transazioni con soggetti danneggiati da emoderivati infetti», comma inserito dalla legge di conversione 20 giugno 2003, n. 141), poi al 31 luglio 2006 (in virtù di quanto stabilito dall'art. 1-quinquies del decreto-legge 27 maggio 2005, n. 87, recante «Disposizioni urgenti per il prezzo dei farmaci non rimborsabili dal Servizio sanitario nazionale nonché in materia di confezioni di prodo tti farmaceutici e di attività libero-professionale intramuraria», articolo aggiunto dalla legge di conversione 26 luglio 2005, n. 149), e, da ultimo, «fino alla data, certificata dalla regione o dalla provincia autonoma, del completamento da parte dell'azienda sanitaria di appartenenza degli interventi strutturali necessari ad assicurare l'esercizio dell'attività libero-professionale intramuraria e comunque entro il 31 luglio 2007» (art. 22-bis, comma 2, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, recante «Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale», aggiunto dalla relativa legge di conversione 4 agosto 2006, n. 248). Ancora nella prospettiva cui si è accennato - accanto alla previsione contenuta nel citato art. 2-septies, comma 1, del d.l. n. 81 del 2004 (articolo aggiunto dalla relativa legge di conversione n. 138 del 2004), il quale, nel modificare il comma 4 dell'art. 15-quater del d.lgs. n. 502 del 1992, ha inteso conferire all'opzione in favore del rapporto esclusivo carattere non più irreversibile, stabilendo, difatti, che i dirigenti sanitari «possono optare, su richiesta da presentare entro il 30 novembre di ciascun anno, per il rapporto di lavoro non esclusivo, con effetto dal 1° gennaio dell'anno successivo» - deve essere menzionata la disciplina recata dal l'art. 1 della legge 3 agosto 2007, n. 120 (Disposizioni in materia di attività libero-professionale intramuraria e altre norme in materia sanitaria). Tale articolo ha previsto, innanzitutto, che Regioni e Province autonome, al fine di garantire l'esercizio dell'attività libero-professionale intramuraria, devono assumere «le più idonee iniziative volte ad assicurare gli interventi di ristrutturazione edilizia, presso le aziende sanitarie locali, le aziende ospedaliere, le aziende ospedaliere universitarie, i policlinici universitari a gestione diretta e gli istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCCS) di diritto pubblico, necessari per rendere disponibili i locali destinati a tale attività» (così, in particolare, il comma 1). Nel sancire, poi, che l'adozione di tali iniziative (comma 2) «dovrà essere completata entro il termine di diciotto mesi a decorrere dalla data del 31 luglio 2007», il legislatore ha ino ltre stabilito che, limitatamente a tale periodo e agli ambiti in cui non sia stata ancora data attuazione alle necessarie iniziative, continuino «ad applicarsi i provvedimenti già adottati per assicurare l'esercizio dell'attività libero-professionale intramuraria», anche oltre quel termine del 31 luglio 2007 fino al quale è stata prorogata la possibilità di svolgimento delle attività libero-professionali in regime ambulatoriale mediante l'utilizzazione, da parte dei dirigenti sanitari, del proprio studio professionale. Sempre con il suddetto comma 2 si è, altresì, previsto che Regioni e Province autonome, del pari entro diciotto mesi dal 31 luglio 2007, procedano «all'individuazione e all'attuazione delle misure dirette ad assicurare, in accordo con le organizzazioni sindacali delle categorie interessate e nel rispetto delle vigenti disposizioni contrattuali, il definitivo passaggio al regime ordinario del sistema dell'attività libero- professionale intramuraria della dirigenza sanitaria, medica e veterinaria del Servizio sanitario nazionale e del personale universitario di cui all'articolo 102 del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382» (Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica). Significativo appare, poi, il disposto di cui al comma 4 dell'articolo in esame, secondo il quale, tra le misure di cui al comma 2, «può essere prevista, ove ne sia adeguatamente dimostrata la necessità e nell'ambito delle risorse disponibili, l'acquisizione di spazi ambulatoriali esterni, aziendali e pluridisciplinari, per l'esercizio di attività sia istituzionali sia in regime di libera professione intramuraria, i quali corrispondano ai criteri di congruità e idoneità per l'esercizio delle attività medesime, tramite l'acquisto, la locazione, la stipula di convenzioni»; per la sola attività clinica e diagnostica ambulatoriale è stabilito (comma 9) che «gli spazi e le attrezzature dedicati all'attività istituzionale possono essere utilizzati anche per l'attività libero-profes sionale intramuraria, garantendo la separazione delle attività in termini di orari, prenotazioni e modalità di riscossione dei pagamenti». Ai sensi, inoltre, del comma 5 si fa carico ad ogni «azienda sanitaria locale, azienda ospedaliera, azienda ospedaliera universitaria, policlinico universitario a gestione diretta ed IRCCS di diritto pubblico» di predisporre «un piano aziendale, concernente, con riferimento alle singole unità operative, i volumi di attività istituzionale e di attività libero-professionale intramuraria», disciplinando, con il successivo comma 6, le modalità di approvazione dei detti piani. Di rilievo, infine, è la norma contenuta nel comma 7, secondo cui Regioni e Province autonome «assicurano il rispetto delle previsioni di cui ai commi 1, 2, 4, 5 e 6 anche mediante l'esercizio di poteri sostitutivi e la destituzione, nell'ipotesi di grave inadempienza, dei direttori generali delle aziende, policlinici ed istituti». 8.- Alla luce, pertanto, di tale complessiva disciplina, così come essa si è venuta stratificando ed attuando nel tempo, risulta evidente il carattere assolutamente residuale della ipotesi alla quale si riferisce il rimettente nel sollevare la presente questione di legittimità costituzionale. Ed invero, il caso nel quale la scelta del dirigente, in favore del rapporto esclusivo, rappresenterebbe «un salto nel buio» (per adoperare le parole del Tribunale di Grosseto) si presenta sostanzialmente come un'evenienza del tutto marginale e, in definitiva, di carattere accidentale. 9.- La conclusione della non fondatezza della questione sollevata dal rimettente non postula, tuttavia, che possa essere condivisa la tesi sostenuta dall'Avvocatura generale dello Stato e dalla difesa della Regione Toscana secondo cui tale conclusione deriverebbe da una pedissequa applicazione di quanto deciso da questa Corte con la sentenza n. 181 del 2006. La citata pronuncia ha, innanzitutto, affermato che le singole Regioni «sono libere di disciplinare le modalità relative al conferimento degli incarichi di direzione delle strutture sanitarie, ora privilegiando in senso assoluto il regime del rapporto esclusivo» (è quanto ha fatto il legislatore toscano con il censurato art. 59, comma 1, della legge regionale n. 40 del 2005), ora, invece, «facendo della scelta in suo favore un criterio "preferenziale" per il conferimento degli incarichi di direzione». Essa, inoltre, ha proceduto ad uno scrutinio sulla ragionevolezza della norma regionale, sospettata di illegittimità costituzionale dal Tribunale ordinario di Grosseto, sotto un profilo diverso da quello evocato dal rimettente. Difatti, con la citata sentenza, questa Corte si è limitata a stabilire che, nel «quadro di una evoluzione legislativa diretta a conferire maggiore efficienza, anche attraverso innovazioni del rapporto di lavoro dei dipendenti, all'organizzazione della sanità pubblica così da renderla concorrenziale con quella privata, (...) non appare irragionevole la previsione di limiti all'esercizio dell'attività libero-professionale da parte dei medici del Servizio sanitario nazionale»; e ciò anche in ragione del fatto «che la denunciata - e comunque indiretta - l imitazione all'esercizio della libera professione» risulta «peraltro frutto di una precisa scelta del medico». È rimasto, dunque, estraneo al decisum di detta pronuncia il tema della presunta irragionevolezza dell'art. 59, comma 1, della legge regionale della Toscana n. 40 del 2005, e con esso anche dell'art. 15-quinquies, comma 5, del d.lgs. n. 502 del 1992, dipendente dal fatto che entrambe le disposizioni, ricorrendo certe condizioni fattuali, non garantirebbero una scelta consapevole a favore del rapporto esclusivo. 10.- Alla luce delle considerazioni innanzi svolte deve affermarsi che l'inconveniente lamentato dal rimettente e dalle parti private, nei limitati casi in cui si verifica, non nasce come conseguenza diretta ed immediata delle previsioni legislative censurate, ma deriva dalle differenti condizioni "fattuali" in cui possono trovarsi le strutture sanitarie pubbliche. Da ciò consegue che, al più, può venire in rilievo una situazione di disparità di mero fatto, alla quale la giurisprudenza costituzionale ha sempre negato rilevanza agli effetti della violazione dell'art. 3 Cost. (da ultimo, ordinanze n. 375, n. 186 e n. 142 del 2006). Ha affermato, difatti, questa Corte che «le cosiddette disparità di mero fatto - ossia quelle differenze di trattamento che derivano da circostanze contingenti ed accidentali, riferibili non alla norma considerata nel suo contenuto precettivo ma semplicemente alla sua concreta applicazione - non danno luogo a un problema di costituzionalità, nel senso che l'eventuale funzionamento patologico della norma stessa non può costituire presupposto per farne valere una illegittimità riferita alla lesione (.) del principio di uguaglianza» (così in particolare, ex multis, sentenza n. 417 del 1996). 11.- Da ultimo, deve rilevarsi che l'eventuale inadempimento (o il ritardo nell'adempimento) da parte degli organi delle strutture sanitarie pubbliche, in special modo del direttore generale di esse (come implicitamente conferma il comma 7 dell'art. 5 della legge n. 120 del 2007, nel prevedere la possibilità della destituzione di quest'ultimo), nella predisposizione di quanto necessario per lo svolgimento dell'attività libero-professionale intramuraria da parte dei medici che abbiano optato per il rapporto esclusivo, potrebbe dare luogo a gravi forme di responsabilità dei medesimi organi. Risultano, quindi, previsti, adeguati strumenti affinché possano trovare rimedio i descritti inconvenienti di fatto lamentati dal giudice rimettente e dalle parti private costituitesi nel pr esente giudizio. D'altra parte, l'eventuale accoglimento della tesi secondo cui, per ovviare ai suddetti inconvenienti di fatto, occorrerebbe la declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme denunciate, sarebbe soltanto idoneo, in buona sostanza, a dare vita ad un regime in cui l'opzione per il rapporto esclusivo non costituisca più un prius, bensì un posterius, rispetto alla predisposizione delle strutture occorrenti per lo svolgimento dell'attività libero-professionale intramuraria, e si risolverebbe, inevitabilmente, in un grave fattore di disincentivazione nell'assunzione, da parte dei soggetti a ciò competenti, delle iniziative necessarie a garantire la funzionalità del sistema configurato da l d.lgs. n. 229 del 1999. A tutto ciò va aggiunto che, subordinando - come in sostanza richiede il giudice a quo - l'esercizio della scelta in favore del rapporto esclusivo, da parte del dirigente sanitario, al preventivo allestimento di quanto necessario per l'esercizio della professione nelle forme dell'intra moenia, si finirebbe con il contravvenire ad un elementare principio di programmazione delle scelte organizzative demandate all'amministrazione sanitaria (principio cui si ispira il d.lgs. n. 229 del 1999), costringendo, pertanto, quest'ultima ad invertire la normale sequenza degli adempimenti necessari al corretto funzionamento del sistema. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 15-quinquies, comma 5, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), e dell'art. 59, comma 1, della legge della Regione Toscana 24 febbraio 2005, n. 40 (Disciplina del servizio sanitario regionale), «come interpretato autenticamente» dall'art. 6 della legge regionale 14 dicembre 2005, n. 67, recante «Modifiche alla legge regionale 24 febbraio 2005, n. 40 (Disciplina del servizio sanitario regionale). Interpretazione autentica dell'articolo 59 della L.R. n. 40/2005», sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Grosseto, in funzione di giudice del lavoro. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 31 marzo 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Alfonso QUARANTA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 aprile 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 17 (recte: 15), 47, 128, 129 e 150 del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), nonché degli artt. 24, 25 e 26 (rectius: artt. 24, comma 1, lettera n, 25, comma 1, lettera n, e 26, comma 1, lettera b) del decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2002, n. 313 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti), promossi con ordinanza del 26 febbraio 2007 dal Tribunale ordinario di Udine, con 7 ordinanze del 19 gennaio 2007 e 3 ordinanze del 14 marzo 2007 dal Tribunale ordinario di Pescara, rispettivamente iscritte ai nn. 521, 624, 625, 626, 627, 628, 629, 719, 720, 721 e 722 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 28, 36 e 42, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 13 febbraio 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano. Ritenuto che, nel corso di un giudizio originato dalla istanza di D. G. G., dichiarata fallita con sentenza del 5 giugno 1991, volta ad ottenere, dopo cinque anni dalla chiusura del fallimento, disposta con decreto del 19 ottobre 2000, la dichiarazione di riabilitazione ex art. 142 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), il Tribunale ordinario di Udine, con ordinanza depositata il 26 febbraio 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 17 (recte: 15), 47, 128, 129 e 150 del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), nonché degli artt. 24, 25 e 26 (rectius: artt. 24, comma 1, lettera n, 25, comma 1, lettera n, e 26, comma 1, lettera b) del decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2002, n. 313 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti); che il Tribunale rimettente, osservato che, essendo stato abolito il registro dei falliti a seguito della intervenuta abrogazione dell'art. 50 della legge fallimentare, ed essendo, conseguentemente, anche caduta la previsione della iscrizione in esso del nominativo delle persone delle quali fosse stato dichiarato il fallimento, sono venute meno le conseguenze pregiudizievoli che erano connesse alla predetta iscrizione, rileva che deve ritenersi non più esperibile la procedura di riabilitazione connessa ai fallimenti già chiusi alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006, posto che l'art. 150 dello stesso decreto legislativo prevede che si continui ad applicare la precedente disciplina fallimentare solo alle procedure ancora penden ti al momento della entrata in vigore della nuova normativa, mentre la riabilitazione presuppone la già avvenuta chiusura del fallimento; che, prosegue il rimettente, sebbene la nuova disciplina dei fallimenti preveda, anche per quelli apertisi anteriormente alla sua entrata in vigore, la immediata cessazione di tutte le «incapacità del fallito» al momento della chiusura del fallimento, tuttavia non è possibile «cancellare» dal casellario giudiziale la iscrizione della sentenza dichiarativa del fallimento, se non in caso di revoca di questo; che, aggiunge il Tribunale di Udine, secondo quanto prescritto dall'art. 3, lettera q), del d.P.R. n. 313 del 2002, la iscrizione nel casellario giudiziale della sentenza di fallimento deve tuttora essere eseguita, col risultato che, anche per i fallimenti dichiarati sotto il vigore della nuova disciplina fallimentare, essendo stata abrogata la procedura di riabilitazione, non è più possibile ottenere, neppure dopo la chiusura del fallimento, la non menzione dell'avvenuto fallimento nei certificati del casellario giudiziale; che, secondo il rimettente, ciò determina sia «una palese compromissione dei diritti civili delle persone sottoposte a fallimento», risultando impossibile - a causa della abolizione del procedimento per la riabilitazione - anche per coloro che fossero stati dichiarati falliti sulla base delle norme previgenti e non avessero ancora maturato i requisiti per chiedere la riabilitazione, o comunque non lo avessero fatto prima della entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006, ottenere la «cancellazione» della dichiarazione di fallimento dal casellario giudiziale, sia un'inammissibile disparità di trattamento fra quanti, prima della entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006, hanno conseguito il predetto beneficio, e quanti, quale sia stata la legge regolatrice del loro fallimento, non avendo tempestivamente ottenuto la riabilitazione, continueranno ad essere gravati dalla menzionata pregiudizievole iscrizione; che è intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la inammissibilità o, comunque, per l'infondatezza della questione sollevata; che, preliminarmente, la difesa erariale ha dedotto la inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, affermando che, non sussistendo allo stato a carico della istante nel giudizio a quo alcuna conseguenza pregiudizievole della dichiarazione di fallimento, la medesima sarebbe, in quello stesso giudizio, carente di interesse a ricorrere; che, nel merito, la interveniente difesa ha osservato che il rimettente non avrebbe dimostrato quale lesione possa derivare, a chi sia fallito, dalla iscrizione, meramente rappresentativa del dato storico, della sentenza dichiarativa del fallimento nel casellario giudiziale; che, con dieci ordinanze, sostanzialmente di identico tenore - sette delle quali depositate il 19 gennaio 2007 e tre il 14 marzo 2007, pronunziate nel corso di altrettanti giudizi volti al conseguimento della riabilitazione da parte di coloro il cui fallimento, dichiarato anteriormente alla data di entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006, era stato chiuso oltre 5 anni prima di tale data - il Tribunale ordinario di Pescara ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 150 del d.lgs. n. 5 del 2006, nella parte in cui non prevede la persistente applicabilità, nei confronti di quei soggetti il cui fallimento sia stato integralmente regolato dalla previgente disciplina fallimentare , delle disposizioni che prevedevano e regolavano la procedura di riabilitazione; che, come rileva il rimettente, il 16 gennaio 2006 è entrato in vigore l'art. 47 del d.lgs. n. 5 del 2006, il quale ha abrogato l'art. 50 della legge fallimentare che istituiva il registro dei falliti e correlava alla iscrizione in detto registro la persistenza delle incapacità personali stabilite dalla legge a carico dei falliti; che, prosegue il Tribunale di Pescara, sebbene il citato art. 47 del d.lgs. n. 5 del 2006 sia applicabile anche ai fallimenti dichiarati prima della sua entrata in vigore, di talché, anche per tali fattispecie, può ritenersi che dalla data sopra indicata le incapacità personali che conseguono al fallimento permangono soltanto finché permane lo status di fallito e cessano con la chiusura del fallimento, senza che sia a tal fine necessario procedere alla riabilitazione del fallito, tuttavia non per questo vi è totale carenza di interesse da parte dei ricorrenti nei giudizi a quibus; che, infatti, gli effetti della riabilitazione non si esauriscono nella sola cancellazione del nome del riabilitato dal registro dei falliti e nella conseguente "cessazione delle incapacità personali" connesse a tale iscrizione, residuando anche quelli previsti dall'art. 241 legge fallimentare, relativamente alla estinzione del reato di bancarotta semplice o, in caso di già intervenuta condanna, della esecuzione e degli effetti di questa, nonché dagli artt. 24, 26 e 28 del d.P.R. n. 313 del 2002, disposizioni, queste, che subordinano la non menzione dei provvedimenti concernenti il fallimento nei certificati del casellario giudiziale alla definitività della sentenza di riabilitazione; che, continua il rimettente, a decorrere dal 16 luglio del 2006, data di entrata in vigore nella sua completezza del d.lgs. n. 5 del 2006 - il quale, agli artt. 128 e 129, ha sostituito all'istituto della riabilitazione quello, avente diversa natura, della esdebitazione - si è determinata non solo la impossibilità di ammettere i ricorsi per riabilitazione relativi a fallimenti disciplinati dalle nuove norme, ma anche la impossibilità di ammettere gli analoghi ricorsi riferiti a fallimenti disciplinati dalla normativa previgente; che a tale conclusione il rimettente giunge in quanto l'art. 150 del d.lgs. n. 5 del 2006, nel dettare la disciplina transitoria fra il sistema precedente alla riforma e quello successivo, limita l'ultrattività della previgente legge fallimentare (oltre che ai ricorsi per dichiarazione di fallimento già depositati) alle procedure di fallimento pendenti alla data del 16 luglio 2006, così escludendo i procedimenti per riabilitazione che, sebbene presuppongano una procedura fallimentare, non ne costituiscono una fase, essendo, invece autonomi, per genesi e disciplina, rispetto ad essa; che, da quanto sopra, il rimettente fa derivare, per i debitori dichiarati falliti che già non l'abbiano ottenuta prima del 16 luglio 2006, la impossibilità di accedere alla riabilitazione, anche quale causa di estinzione del reato di bancarotta semplice o degli effetti della relativa condanna nonché quale motivo della non menzione del fallimento nei certificati del casellario giudiziale; che, secondo il rimettente, ciò determina un'inammissibile disparità di trattamento fra situazioni identiche, non trovando giustificazione alcuna la discriminazione, sotto il profilo dell'accesso alla riabilitazione, esistente fra soggetti le cui procedure sono state disciplinate dalla medesima normativa, cagionata solo dal fatto che taluni, e non altri, abbiano ottenuto la riabilitazione prima di una certa data; che il rimettente ritiene non emendabile in via interpretativa la descritta disparità di trattamento, sicché l'unico mezzo per rimuoverla è sollevare la questione di legittimità costituzionale dell'art. 150 del d.lgs. n. 5 del 2006 in quanto non prevede l'applicabilità della disciplina della riabilitazione civile, di cui agli artt. da 142 a 145 della legge fallimentare nel testo anteriore alla entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006, ai fallimenti soggetti, per il resto, alla previgente normativa fallimentare; quanto alla rilevanza della questione, il Tribunale rimettente osserva che la norma censurata deve essere applicata nei giudizi a quibus, derivando dall'esito dell'incidente di costituzionalità l'ammissibilità o meno dei ricorsi; che, relativamente a quattro delle ordinanze di rimessione, cioè quelle contraddistinte dai numeri di registro 719, 720, 721 e 722 del 2007, è intervenuto in giudizio, con comparse di identico tenore, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, il quale, rifacendosi ai medesimi argomenti già svolti in occasione dell'analogo intervento in giudizio concernente l'ordinanza del Tribunale di Udine, ha concluso per la inammissibilità ovvero per l'infondatezza della sollevata questione. Considerato che il Tribunale ordinario di Udine ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 17 (recte: 15), 47, 128, 129 e 150 del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), nonché degli artt. 24, 25 e 26 (rectius: artt. 24, comma 1, lettera n, 25, comma 1, lettera n, e 26, comma 1, lettera b) del decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2002, n. 313 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti), in quanto, essendo stata abolita per il fallito la possibilità di ottenere la riabilitazione civile come prevista dagli articoli da 142 a 145 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo vigente anteriormente alla entrata in vigore del predetto d.lgs. n. 5 del 2006, colui che sia stato dichiarato fallito, vigente la vecchia disciplina, sarebbe stato privato, in maniera irragionevole e co n lesione della facoltà di agire in giudizio a tutela dei propri diritti, della possibilità di conseguire il beneficio della non menzione dei provvedimenti concernenti il fallimento nei certificati, generale e civile, del casellario giudiziale rilasciati a richiesta dell'interessato, conseguendo siffatto beneficio solo alla avvenuta riabilitazione del fallito con sentenza passata in giudicato; che, a sua volta, il Tribunale ordinario di Pescara, con dieci ordinanze aventi contenuto sostanzialmente identico, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del solo art. 150 del d.lgs. n. 5 del 2006, nella parte in cui, non prevedendo la ultrattività - nei confronti di coloro che siano stati dichiarati falliti con integrale applicazione, sino alla chiusura della procedura, della previgente disciplina fallimentare - delle disposizioni che, nel testo della legge fallimentare anteriore alla riforma realizzata col citato d.lgs. n. 5 del 2006, regolavano la riabilitazione civile, impedisce a questi s oggetti di beneficiare delle persistenti conseguenze favorevoli della riabilitazione quali, ai sensi dell'art. 241 legge fallimentare, la estinzione del reato di bancarotta semplice oppure, ove già sia intervenuta condanna, la cessazione della sua esecuzione e degli altri effetti, o quali, ai sensi degli artt. 24 e 26 del d.P.R. n. 313 del 2002, la non menzione dei provvedimenti concernenti il fallimento nei certificati, generale e civile, del casellario giudiziale rilasciati a richiesta dell'interessato; che, attesa l'evidente connessione fra gli incidenti di costituzionalità, essi possono essere riuniti e trattati congiuntamente per essere decisi con unica pronunzia; che, successivamente al deposito delle undici ordinanze di remissione, il quadro normativo di riferimento nel quale si inscrivono le disposizioni oggetto di questione di legittimità costituzionale è sensibilmente mutato; che, in particolare, a decorrere dal 1° gennaio 2008, è entrato in vigore il decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell'art. 1, commi 5, 5-bis, e 6 della legge 14 maggio 2005, n. 80), il quale, all'art. 21, comma 1, ha espressamente disposto la abrogazione di tal une disposizioni contenute del d.P.R. n. 313 del 2002; che, nello specifico, oltre ad essere stati abrogati l'art. 3, comma 1, lettera l), del d.P.R. n. 313 del 2002, norma che disciplinava la iscrizione nel casellario giudiziale, fra l'altro, dei provvedimenti giudiziari aventi ad oggetto la dichiarazione di fallimento, e il successivo art. 5, comma 2, lettera i), del medesimo d.P.R. n. 313 del 2002, che, a sua volta prevedeva la eliminazione della iscrizione della sentenza dichiarativa del fallimento solo in caso di intervenuta revoca definitiva dello stesso, risultano essere stati oggetto di abrogazione anche gli stessi artt. 24, comma 1, lettera n), 25, comma 1, let tera n), e 26, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 313 del 2002, cioè alcune delle disposizioni legislative censurate dal Tribunale di Udine e che anche il Tribunale di Pescara ha tenuto presente nel motivare il proprio incidente di costituzionalità, trattandosi proprio delle disposizioni che disciplinavano la inseribilità o meno nei certificati del casellario giudiziale della sentenza dichiarativa del fallimento; che, peraltro, il medesimo art. 21 del d.lgs. n. 169 del 2007, al comma 2, prevede altresì che, per le procedure concorsuali aperte a far data dal 16 gennaio 2006, il richiamo, contenuto negli artt. 24, comma 1, lettera n), e 26, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 313 del 2002, all'istituto della riabilitazione deve intendersi riferito alla chiusura del fallimento; che, oltre alle ricordate sopravvenienze legislative, è ancora intervenuta la sentenza n. 39 del 2008 di questa Corte che, nel dichiarare la illegittimità costituzionale degli art. 50 e 142 della legge fallimentare, nel testo anteriore alla entrata in vigore del d.lgs. n. 5 del 2006, - concernenti, il primo, la istituzione del "pubblico registro dei falliti" e la previsione della permanenza delle incapacità connesse allo status di fallito fin tanto che dura la predetta iscrizione e, il secondo, la cancellazione della iscrizione in questione e la cessazione delle ricordate incapacità solo a seguito della definitività della sentenza di riabilitazione - ha precisato, anche sulla scorta della giurisprude nza formatasi presso la Corte europea dei diritti dell'uomo, che le norme suddette risultavano in contrasto con l'art. 3 della Costituzione proprio là dove prevedevano che determinati effetti del fallimento, assunti come genericamente sanzionatori, permanessero anche «dopo la chiusura del fallimento [.] senza correlarsi alla protezione di interessi meritevoli di tutela»; che la complessità ed articolazione delle menzionate sopravvenienze, intervenute nell'ambito normativo oggetto delle ordinanze di rimessione, inducono questa Corte a disporre la restituzione degli atti ai due rimettenti perché valutino, anche in considerazione di eventuali ulteriori prospettive interpretative costituzionalmente orientate, la perdurante rilevanza delle rispettive questioni nei giudizi di cui sono investiti. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, ordina la restituzione degli atti al Tribunale ordinario di Udine e al Tribunale ordinario di Pescara. Così deciso in Roma, presso la sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 31 marzo 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 aprile 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 13 della legge della Regione Campania 7 febbraio 1994, n. 8 (Norme in materia di difesa del suolo - Attuazione della legge 18 maggio 1989, n. 183 e successive modificazioni e integrazioni), promosso con ordinanza del 5 aprile 2006 dal Consiglio di Stato sul ricorso proposto dalla Regione Campania ed altro nei confronti di Polito Vincenzo ed altri, iscritta al n. 689 del registro ordinanze del 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visto l'atto di costituzione della Regione Campania; udito nell'udienza pubblica del 26 febbraio 2008 il Giudice relatore Sabino Cassese; udito l'avvocato Vincenzo Cocozza per la Regione Campania. Ritenuto che il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, con ordinanza del 5 aprile 2006 ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 13 della legge della Regione Campania 7 febbraio 1994, n. 8 (Norme in materia di difesa del suolo - Attuazione della legge 18 maggio 1989, n. 183 e successive modificazioni e integrazioni), in riferimento all'art. 97 della Costituzione; che la disposizione impugnata stabilisce che il funzionamento dei bacini interregionali dei fiumi Sele, Fortore e Ofanto è regolato dalle intese interregionali di cui al comma 2 dell'articolo 15 della legge 18 maggio 1989, n. 183; che il Collegio rimettente riferisce che dinanzi a esso pendono due giudizi di appello per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale della Campania, sede di Napoli, 2 luglio 2004, n. 9871, con la quale è stata annullata la delibera della Giunta regionale della Campania 5 dicembre 2003, n. 3570, recante approvazione dell'avviso pubblico di selezione per soli titoli riservato ai dirigenti in servizio presso la Regione Campania, per la copertura del posto di segretario generale dell'Autorità di Bacino del fiume Sele, nella quale il Tribunale amministrativo regionale ha ravvisato un co ntrasto con la disciplina normativa primaria e con i principi più volte enunciati da questa Corte in tema di illegittimità di concorsi riservati al solo personale in servizio presso l'ente che bandisce la procedura concorsuale; che il Collegio osserva che il giudice di primo grado ha ritenuto illegittimo il «bando di concorso», in quanto esso consente la partecipazione ai soli dirigenti della Regione Campania, ma che questa limitazione è prevista dall'intesa interregionale conclusa tra le Regioni Campania e Basilicata e recepita con delibera 2 febbraio 1992, n. 306, della Regione Campania e 30 luglio 1991, n. 307, della Regione Basilicata; che, secondo il giudice a quo, l'intesa regionale, non impugnata nel giudizio pendente dinanzi a esso, trova ancora applicazione, anche in forza della norma della quale viene sollevata questione di legittimità costituzionale, e non può essere disapplicata dal giudice amministrativo «in quanto la fonte normativa della norma in esame appare novata dall'intervento del legislatore regionale che, con il citato articolo 13 della legge n. 8 del 1994 [.] ha, in effetti, legificato la disciplina in esso contenuta, che non può, pertanto, essere disapplicata. [.] E, in particolare, per quanto qui interessa, ha legificato le previsioni normative di cui agli articoli 8 e 12 della predetta convenzione interregiona le che riservano il posto di segretario generale dell'Autorità di bacino interregionale del fiume Sele a funzionari dirigenti della Regione Campania»; che, secondo il Collegio rimettente, la norma censurata, avendo legificato l'art. 8 della convenzione tra le Regioni Campania e Basilicata, laddove è previsto che il responsabile della segreteria tecnico-operativa dell'Autorità di bacino interregionale del fiume Sele venga nominato, dal Comitato istituzionale, tra i dirigenti della Regione Campania, e l'art. 12, comma 2, della convenzione stessa, che ha pure previsto che la figura del segretario generale venga scelta tra i funzionari regionali, appare lesiva dell'articolo 97 della Costituzione; che, per quanto riguarda la non manifesta infondatezza, il Collegio richiama la giurisprudenza della Corte costituzionale che ha riconosciuto nel pubblico concorso la forma generale e ordinaria di reclutamento dei dipendenti pubblici, alla quale può derogarsi solo in presenza di peculiari situazioni giustificatrici e che può dirsi rispettata solo qualora le selezioni non siano caratterizzate da arbitrarie e irragionevoli forme di restrizione dei soggetti legittimati a parteciparvi; che, per quanto riguarda la rilevanza della questione, il rimettente osserva che la declaratoria di illegittimità costituzionale della disciplina in esame porterebbe all'accoglimento dell'originario ricorso, volto all'annullamento dell'avviso di selezione per il conferimento dell'incarico in questione; che nel giudizio dinanzi alla Corte si è costituita la Regione Campania, appellante in uno dei giudizi a quibus, chiedendo che la questione venga dichiarata manifestamente inammissibile, in quanto sollevata nei confronti di una norma non avente forza di legge, o, comunque, manifestamente infondata, in quanto nel caso in esame non vi è assunzione di personale nella pubblica amministrazione, ma conferimento di un incarico temporaneo per lo svolgimento di funzioni dirigenziali. Considerato che la questione sollevata attiene a disposizioni contenute in un'intesa interregionale, come tale priva di valore di legge, e alla quale è interamente riconducibile la scelta secondo la quale, da un lato, il responsabile della segreteria tecnico operativa dell'Autorità di bacino viene nominato tra i dirigenti della Regione Campania, e, dall'altro, il segretario generale della stessa Autorità viene scelto tra i funzionari regionali; che la tesi del rimettente, secondo la quale la relativa previsione dell'intesa è stata «legificata» dalla disposizione impugnata, non è condivisibile, in quanto implicherebbe, da un lato, che ogni difetto dell'intesa si tradurrebbe in un'illegittimità costituzionale della legge e, dall'altro, che, una volta conclusa un'intesa, le Regioni contraenti avrebbero perso il potere di modificarla, perché il loro contenuto sarebbe stato legificato unilateralmente dalla legge emanata da una di esse; che, del resto, tra la disposizione impugnata e quella dell'intesa interregionale manca il rapporto di integrazione e specificazione che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, consente l'impugnazione delle disposizioni legislative, come specificate da quelle di rango subordinato (sentenza n. 389 del 2004); che, pertanto, la questione è manifestamente inammissibile. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 13 della legge della Regione Campania 7 febbraio 1994, n. 8 (Norme in materia di difesa del suolo - Attuazione della legge 18 maggio 1989, n. 183 e successive modificazioni e integrazioni), sollevata, in riferimento all'art. 97 della Costituzione, dal Consiglio di Stato con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 31 marzo 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Sabino CASSESE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 aprile 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 159, 160, 420-quater, comma 1, e 484 del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale di Pinerolo, nel procedimento penale a carico di N. S. O., con ordinanza del 14 marzo 2006 iscritta al n. 145 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell'anno 2007. Udito nella camera di consiglio del 27 febbraio 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante. Ritenuto che, nel corso di un procedimento penale a carico di una persona irreperibile, imputata del reato di cui all'art. 6 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, il Tribunale di Pinerolo ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 10, primo comma, 97, primo comma, e 111, secondo, terzo e quarto comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 159, 160, 420-quater, comma 1, e 484 del codice di procedura penale «nella parte in cui non prevedono la sospensione obbligatoria del processo penale nei confronti degli imputati ai quali il decreto di citazione a giudizio è stato notificato previa emissione d i decreto di irreperibilità»; che nel giudizio a quo l'imputato è stato tratto a giudizio con citazione diretta da parte del pubblico ministero, a lui notificata - previa emissione del decreto di irreperibilità - mediante consegna al difensore d'ufficio designato, secondo il sistema fissato dagli artt. 159 e 160 cod. proc. pen.; che l'imputato, non comparso al dibattimento, è stato quindi dichiarato contumace ed il giudizio dovrebbe proseguire in absentia; che il complesso di norme sopra menzionato appare al giudice a quo in contrasto con gli invocati parametri costituzionali nella parte in cui impone la dichiarazione di contumacia e la conseguente celebrazione del processo nei confronti degli imputati irreperibili, anziché prevedere la sospensione obbligatoria del medesimo; che il Tribunale rammenta come una questione di legittimità costituzionale degli artt. 159 e 160 cod. proc. pen. sia stata già dichiarata non fondata da questa Corte con la sentenza n. 399 del 1998, prima, però, che vi fosse il profondo cambiamento dell'art. 111 Cost. il quale «sembra porsi in netto contrasto con la possibilità che un processo venga celebrato nella totale ignoranza dell'imputato irreperibile»; che nella sentenza n. 399 del 1998 la Corte ha osservato come spetti soltanto al legislatore la scelta tra il rimedio «preventivo e inibitorio, comportante l'obbligatoria sospensione del processo a carico dell'irreperibile-contumace, ovvero quello successivo e riparatorio», che prevede la celebrazione del processo e l'introduzione di strumenti per ottenere eventualmente una nuova pronuncia sui medesimi fatti; che le conclusioni a suo tempo raggiunte con la citata sentenza appaiono al remittente superate dalla nuova formulazione dell'art. 111 Cost. che, introducendo il principio del contraddittorio tipico del processo accusatorio, lo ha reso non soltanto una garanzia soggettiva per l'imputato, ma anche una garanzia oggettiva per l'ordinamento, sicché può ben dirsi che senza contraddittorio non esista un processo penale conforme alla legalità costituzionale; che, al fine di garantire una piena attuazione dei principi costituzionali, appare irrilevante l'ampliamento delle ipotesi di restituzione in termini realizzatosi con la modifica dell'art. 175 cod. proc. pen. disposta con l'art. 1, comma 1, lettera a), del decreto-legge 21 febbraio 2005, n. 17 (Disposizioni urgenti in materia di impugnazione delle sentenze contumaciali e dei decreti di condanna), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 22 aprile 2005, n. 60; che tale modifica, conseguente ad una sentenza di condanna emessa dalla Corte europea dei diritti dell'uomo nei confronti dell'Italia (sentenza Sejdovic 10 novembre 2004), è comunque insufficiente, secondo il remittente, a sanare il vizio d'origine di un processo celebrato e concluso senza effettivo contraddittorio, per essere l'imputato incolpevolmente ignaro dell'esistenza di un'accusa a suo carico; che il combinato disposto delle norme censurate appare al giudice a quo, inoltre, in contrasto anche con gli artt. 10, primo comma, e 97, primo comma, della Costituzione; che l'art. 10, primo comma, Cost., inteso sotto il profilo della violazione delle norme di diritto internazionale accettate dall'Italia, sarebbe rilevante per il contrasto che il Tribunale ravvisa tra le norme denunciate e l'art. 6, comma 3, lettere a) e b), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali; che, invece, quanto al principio del buon andamento della pubblica amministrazione, il remittente sottolinea l'illegittimità costituzionale dell'attuale sistema, che prevede l'obbligo «di celebrare processi inutili a carico di imputati irreperibili» destinati a concludersi con sentenze prive di esecuzione, con dispendio di risorse che potrebbero essere utilizzate per celebrare processi nei confronti di imputati presenti ovvero colpevolmente o volontariamente assenti; che il Tribunale di Pinerolo aggiunge che la sospensione obbligatoria del processo penale a carico degli imputati irreperibili, oltre a porsi come soluzione «costituzionalmente obbligata», non creerebbe alcun problema nell'impianto generale del nostro processo penale, anche perché il codice di rito già conosce l'ipotesi della sospensione obbligatoria del processo qualora l'imputato sia incapace di stare in giudizio (art. 71 cod. proc. pen.), senza che ciò faccia venire meno il principio di obbligatorietà dell'azione penale; che l'ipotizzata sospensione, del resto, non colliderebbe con il principio di ragionevole durata del processo pure previsto dall'art. 111 Cost., in quanto l'unico modello di processo conforme a Costituzione è quello che prevede la presenza dell'imputato; che, ad avviso del giudice a quo, la questione è rilevante, in quanto l'imputato è stato tratto a giudizio, su citazione diretta del pubblico ministero, col rito degli irreperibili, ossia tramite consegna del relativo decreto al difensore d'ufficio all'uopo nominato. Considerato che il Tribunale di Pinerolo dubita, in riferimento agli artt. 3, 10, primo comma, 97, primo comma, e 111, secondo, terzo e quarto comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 159, 160, 420-quater, comma 1, e 484 del codice di procedura penale «nella parte in cui non prevedono la sospensione obbligatoria del processo penale nei confronti degli imputati ai quali il decreto di citazione a giudizio è stato notificato previa emissione di decreto di irreperibilità»; che una questione identica a quella odierna è già stata sottoposta - dal medesimo Tribunale di Pinerolo - all'esame di questa Corte, che l'ha dichiarata non fondata con la sentenza n. 117 del 2007; che in quell'occasione la Corte ha evidenziato la centralità del diritto di difesa, al quale, secondo lo stesso giudice a quo, la CEDU non accorda, in tema di processo svoltosi in absentia, garanzie maggiori di quelle previste dall'art. 111 Cost., sottolineando come la stessa Corte di Strasburgo, con la seconda sentenza emessa nel caso Sejdovic (sentenza della Grande Camera 1° marzo 2006), non abbia negato, in linea di principio, il rilievo che possono assumere idonee misure ripristinatorie; che la presente ordinanza di rimessione non aggiunge, rispetto alla precedente, profili nuovi o diversi di censura; che, pertanto, la presente questione deve ritenersi manifestamente infondata. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi avanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 159, 160, 420-quater, comma 1, e 484 del codice di procedura penale sollevata, in riferimento agli artt. 3, 10, primo comma, 97, primo comma, e 111, secondo, terzo e quarto comma, della Costituzione, dal Tribunale di Pinerolo con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 31 marzo 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 aprile 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 69, quarto comma e 99, quarto comma del codice penale, come modificati dagli articoli 3 e 4 della legge 5 dicembre 2005 n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promossi con ordinanze del 12 giugno 2006 dal Tribunale di Perugia, del 18 dicembre 2006 dal Tribunale di Ragusa e del 10 maggio 2006 dal Tribunale di Ragusa sezione distaccata di Vittoria, rispettivamente iscritte al n. 616 del registro ordinanze 2006 ed ai nu meri 360 e 384 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 3, 20 e 21, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 12 marzo 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick. Ritenuto che, con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Perugia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 99, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall'art. 4 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, d i usura e di prescrizione), nella parte in cui - secondo il giudice a quo - prevede, in caso di recidiva reiterata (recte: di recidiva reiterata aggravata), un aumento «obbligatorio e fisso» della pena di due terzi; che il rimettente - chiamato a giudicare, nelle forme del rito abbreviato, una persona imputata del reato di detenzione e cessione illecite di sostanze stupefacenti, di cui all'art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), con l'aggravante della recidiva reiterata specifica - osserva come, a fronte dell'irrogazione all'imputato di una pena base pari al minimo edittale (sei anni di reclusione, oltre la multa), l'aumento di pena per la recidiva dovrebbe corrispondere all'intera frazione di due terzi, prevista dalla norma impugnata; che - stante l'entità delle precedenti condanne riportate dall'imputato - non verrebbe, difatti, in rilievo il limite stabilito dall'ultimo comma dell'art. 99 cod. pen. (in forza del quale «in nessun caso l'aumento di pena per effetto della recidiva può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo delitto non colposo»); né, d'altra parte, sussisterebbero i presupposti per l'applicazione di circostanze attenuanti e il conseguente giudizio di comparazione con l'aggravante contestata; che il giudice a quo dubita, tuttavia, sotto plurimi profili, della legittimità costituzionale della norma denunciata; che il rimettente osserva anzitutto come, alla luce della giurisprudenza costituzionale, il meccanismo più idoneo per il conseguimento delle finalità della pena sia quello della predeterminazione della medesima entro un limite minimo e un limite massimo, così da consentire l'individualizzazione della risposta punitiva in rapporto alle caratteristiche delle singole fattispecie; che infatti - rileva ancora il giudice a quo - l'adeguamento della pena ai casi concreti contribuisce a rendere quanto più possibile «personale» la responsabilità penale, in ossequio alla previsione dell'art. 27, primo comma, Cost.; concorre ad assicurare una pena quanto più possibile finalizzata alla rieducazione, nella prospettiva dell'art. 27, terzo comma, Cost.; e costituisce, altresì, uno strumento di attuazione dell'uguaglianza di fronte alla pena; che da ciò deriva la tendenziale illegittimità costituzionale delle pene fisse, non suscettibili di adeguata modulazione nei casi concreti: salva l'esigenza di verificare tale illegittimità in relazione alle singole ipotesi normativamente previste, tenendo conto dei residui margini di graduabilità del trattamento sanzionatorio di cui il giudice fruisce; che, nel caso in cui venga contestata la recidiva reiterata e non sussista la possibilità del giudizio di comparazione con circostanze attenuanti concorrenti, il giudice, pur disponendo della facoltà di determinare la pena entro i limiti edittali, si troverebbe a dover irrogare, nell'ipotesi di condanna, una pena «rigidamente aumentata di due terzi»; che la previsione di un aumento di pena rigidamente prefissato - tanto più se di notevoli proporzioni, come nella fattispecie oggetto di scrutinio - risulterebbe inidonea a consentire una risposta individualizzata, diversa a seconda dei casi e della concreta personalità del reo; che, in tale ottica, la disposizione impugnata si porrebbe in contrasto sia con il primo che con il terzo comma dell'art. 27 Cost., non assicurando né un trattamento che valga a rendere «personale» la responsabilità penale,né l'irrogazione di una pena idonea a conseguire la sua finalità rieducativa; che detta disposizione violerebbe, altresì, l'art. 3 Cost., comportando l'irrogazione di pene identiche, a fronte di situazioni anche marcatamente diverse; ciò risulterebbe tanto più evidente quando si discuta di figure criminose - quali la detenzione illegale e lo spaccio di sostanze stupefacenti - caratterizzate da limiti edittali di pena già di per sé elevati; che l'art. 3 Cost. risulterebbe violato anche sotto l'ulteriore profilo della irrazionalità intrinseca della norma, avendo lo stesso legislatore della legge n. 251 del 2005 previsto che, nel caso di recidiva semplice, la pena possa essere aumentata fino a un terzo; e che, nel caso di recidiva aggravata, l'aumento possa essere fino alla metà; che, in tale quadro - mentre non sarebbe irragionevole che, nel caso di recidiva reiterata, l'aumento divenga obbligatorio - risulterebbe viceversa «incongrua» la determinazione di tale aumento in misura fissa, pari a due terzi; apparrebbe, infatti, illogico che - a fronte della commissione di un ulteriore delitto, magari di modesta entità e scarsamente rilevante sul piano della valutazione della personalità del reo - si passi «automaticamente» da un aumento di pena che avrebbe potuto essere anche di un solo giorno, fino al limite massimo della metà, ad un aumento addirittura di due terzi; che, con le due ordinanze indicate in epigrafe, di analogo tenore, il Tribunale di Ragusa e il Tribunale di Ragusa, sezione distaccata di Vittoria, hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., come modificato dall'art. 3 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui stabilisce il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sull'aggravante della recidiva reiterata; nonché dell'art. 99, quarto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 4 della medesima legge, nella parte in cui prevede un aumento di pena fisso per le ipotesi di recidiva reiterata; che i giudici a quibus - chiamati a giudicare, nelle forme del giudizio abbreviato, persone imputate del delitto di detenzione e cessione illecite di sostanze stupefacenti, con l'aggravante della recidiva reiterata - premettono che risulterebbe configurabile, nei casi di specie, a fronte della qualità e quantità dello stupefacente detenuto o ceduto e delle modalità della condotta, la circostanza attenuante ad effetto speciale del fatto di lieve entità, di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990; e che tale circostanza comporta una sensibilissima mitigazione della pena edittale prevista dal comma 1 dello stesso art. 73; che, peraltro - stante il divieto posto dal censurato art. 69, quarto comma, cod. pen. - detta attenuante potrebbe essere considerata, al più, equivalente all'aggravante contestata; sicché all'imputato andrebbe inflitta (salva la successiva diminuzione conseguente al rito) una pena minima di sei anni di reclusione ed euro 26.000 di multa; che, ad avviso dei giudici a quibus, le norme denunciate si porrebbero in contrasto, anzitutto, con il principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.), incidendo in modo così energico sul potere discrezionale del giudice, da non consentire a quest'ultimo l'irrogazione di una pena proporzionata al disvalore dell'illecito commesso; che un ulteriore profilo di violazione dell'art. 3 Cost. emergerebbe dal raffronto con il trattamento sanzionatorio riservato al delitto di associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti: delitto riguardo al quale l'art. 74, comma 6, del d.P.R. n. 309 del 1990 - ove l'associazione sia costituita per commettere fatti di lieve entità - opera un rinvio all'art. 416 cod. pen.; prevedendo, in tal modo - secondo un indirizzo della giurisprudenza di legittimità - una fattispecie autonoma di reato, e non già una semplice diminuzione di pena rispetto alle ipotesi associative più gravi previste dai commi 1 e 2 del medesimo art. 74; che da ciò deriverebbe che il recidivo reiterato, per la cessione anche solo di qualche grammo di hashish, verrebbe punito con la pena della reclusione da sei a venti anni, oltre la multa, stante la natura circostanziale dell'ipotesi di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 e il divieto di prevalenza di detta circostanza; invece, il medesimo recidivo reiterato che - commettendo un fatto da ritenere senz'altro più grave - partecipi o si renda promotore di una associazione dedita al narcotraffico, anche di cosiddette droghe pesanti, per fatti di lieve entità, sarebbe punito con la minore pena della reclusione da uno a cinque anni (nel caso di mera partecipazione) o da tre a sette anni (nel caso di promozione del sodalizio crimino so); che sarebbero compromessi, altresì, i principi di materialità e offensività del reato, desumibili dall'art. 25, secondo comma, Cost.: principi a fronte dei quali il legislatore - pur senza trascurare i profili soggettivi del reato - sarebbe tenuto a valorizzare in modo preminente la condotta posta in essere dall'agente, nella determinazione del trattamento sanzionatorio; che, per contro, facendo derivare dalla mera condizione personale del reo - legata al suo status di recidivo reiterato - il divieto assoluto di prevalenza di circostanze attenuanti pure sussistenti in concreto e stabilendo, altresì, un aumento obbligatorio e fisso della pena nei confronti di detto recidivo, il legislatore imporrebbe l'irrogazione di pene che possono risultare manifestamente sproporzionate rispetto alla gravità del fatto e alle sue modalità di realizzazione; che risulterebbe leso, di conseguenza, anche l'art. 27 Cost., giacché una pena con tali caratteristiche non sarebbe idonea ad esplicare nessuna delle sue funzioni: non quella retributiva, in quanto verrebbe totalmente trascurata la componente oggettiva del fatto; non quella di prevenzione generale, giacché pene troppo severe, se pure suscitano timore, non rafforzano la coscienza giuridica dei consociati, potendo rivelarsi addirittura criminogene; non, infine, quella di prevenzione speciale, in quanto neppure «il più incallito criminale» sarebbe in grado di comprendere il significato di una pena del tutto sproporzionata al fatto commesso; che, al tempo stesso, la regola posta dall'art. 69, quarto comma, cod. pen. determinerebbe un «appiattimento» del trattamento sanzionatorio di situazioni anche completamente diverse, imponendo il giudizio di equivalenza anche in presenza di plurime circostanze attenuanti, benché «autonome» o «indipendenti», come nei casi di specie: col risultato di determinare discriminazioni nell'ambito degli stessi recidivi reiterati; che la medesima regola finirebbe, altresì, per ostacolare la resipiscenza del reo, il quale non avrebbe alcuno stimolo a porre in essere condotte riparatorie o risarcitorie post factum, quali quelle rilevanti ai fini dell'applicazione dell'art. 62, numero 6), cod. pen.; che l'aumento «notarile» della pena previsto dall'art. 99, quarto comma, cod. pen., infine - impedendo sotto un ulteriore profilo l'adeguamento della pena al fatto - rivelerebbe «un totale disinteresse dello Stato» per la finalità di risocializzazione del reo; che in tutti i giudizi di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate non fondate. Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche od analoghe, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione; che i giudici rimettenti - muovendo dal presupposto interpretativo, indimostrato, secondo cui l'aumento di pena per la recidiva reiterata sarebbe divenuto obbligatorio in ogni caso, a seguito della legge 5 dicembre 2005, n. 251 - censurano che il legislatore abbia configurato un «automatismo» sanzionatorio per effetto del quale - a prescindere dalle peculiarità concrete del nuovo delitto e dalla significatività delle precedenti condanne, ai fini della valutazione della personalità del reo - il recidivo reiterato si troverebbe ineluttabilmente esposto ad un aumento fisso della pena di rilevante entità, quale quello previsto dal nuovo art. 99, quarto comma, del codice penale; che, ad avviso del Tribunale di Ragusa, inoltre, la contestazione della recidiva reiterata renderebbe senz'altro operante la previsione dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., in forza della quale, nell'ambito del cosiddetto giudizio di bilanciamento, le circostanze attenuanti non possono essere ritenute prevalenti sulla circostanza aggravante in questione: previsione che avrebbe, dunque, l'effetto di "neutralizzare" - con analogo automatismo - la diminuzione di pena connessa alle attenuanti concorrenti, a prescindere dal numero e dalle caratteristiche di queste ultime; che, nello scrutinare questioni di costituzionalità aventi ad oggetto il citato art. 69, quarto comma, cod. pen., questa Corte ha già avuto modo di rilevare, peraltro, come quella prospettata dagli odierni rimettenti non rappresenti affatto l'unica lettura possibile del vigente quadro normativo (sentenza n. 192 del 2007; ordinanza n. 409 del 2007); che, in primo luogo, difatti - per le ragioni specificate nella sentenza n. 192 del 2007 - è possibile ritenere che la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria unicamente nei casi previsti dall'art. 99, quinto comma, cod. pen. (rispetto ai quali soltanto tale regime è espressamente contemplato), e cioè ove concernente uno dei delitti indicati dall'art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale (il quale reca un elenco di reati ritenuti dal legislatore, a vari fini, di particolare gravità e allarme sociale); salvo, poi, l'ulteriore problema interpretativo di stabilire quale delitto debba rientrare in tale catalogo, affinché scatti l'obbligatorietà: se il delitto oggetto della preced ente condanna; ovvero il nuovo delitto che vale a costituire lo status di recidivo; o indifferentemente l'uno o l'altro; o addirittura entrambi;
che, d'altra parte, nei limiti in cui si escluda che la recidiva
reiterata sia divenuta obbligatoria, è possibile sostenere che il
giudice debba procedere al giudizio di bilanciamento - soggetto al
regime limitativo di cui all'art. 69, quarto comma, cod. pen. -
unicamente quando ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea a
determinare, di per sé, un aumento di pena per il fatto per cui si
procede; ciò che avviene - alla stregua dei criteri di corrente adozione
in tema di recidiva facoltativa - solo allorché il nuovo episodio
delittuoso appaia concretamente significativo, in rapporto alla natura
ed al tempo di commissione dei precedenti, sotto il profilo della più
accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo; che la stessa Corte di cassazione - che in un primo tempo si era espressa sul tema in modo contrastante - risulta aver adottato, nelle più recenti decisioni, la linea interpretativa dianzi indicata; che, in fatto, gli odierni rimettenti procedono per delitti in materia di stupefacenti, che non risultano compresi nell'elenco dell'art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen.; i rimettenti stessi, inoltre, non specificano a quali delitti si riferiscano le precedenti condanne riportate dagli imputati, ovvero riferiscono di condanne per delitti parimenti non compresi nell'elenco; che, nell'ottica della soluzione interpretativa dianzi indicata, i giudici rimettenti - all'esito di un apprezzamento basato sulle caratteristiche del caso concreto - potrebbero, quindi, non applicare affatto l'aumento di pena per la recidiva reiterata; e conseguentemente - quanto ai casi oggetto delle ordinanze di rimessione del Tribunale di Ragusa - non procedere ad alcun giudizio di bilanciamento fra detta aggravante e la circostanza attenuante di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990; che, pertanto - a prescindere dall'ulteriore considerazione che, nelle fattispecie concrete all'esame del Tribunale di Ragusa, l'entità dell'aumento di pena per la recidiva reiterata rimarrebbe comunque irrilevante, posto che, per affermazione degli stessi rimettenti, detto aumento resterebbe neutralizzato, in caso di applicazione dell'art. 69, quarto comma, cod. pen., dal giudizio di equivalenza con l'attenuante concorrente - le questioni sollevate sono manifestamente inammissibili, per la mancata sperimentazione, da parte dei giudici a quibus, della praticabilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei dubbi di costituzionalità ipotizzati, e tale da determinare il possibi le superamento di detti dubbi o da renderli comunque non rilevanti nei casi di specie. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 69, quarto comma, e 99, quarto comma, del codice penale, come modificati dagli artt. 3 e 4 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo c omma, e 27 della Costituzione, dal Tribunale di Perugia, dal Tribunale di Ragusa e dal Tribunale di Ragusa, sezione distaccata di Vittoria, con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 31 marzo 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giovanni Maria FLICK, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 aprile 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 99, primo, terzo e quarto comma, del codice penale, come modificati dall'articolo 4 della legge 5 dicembre 2005 n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promosso con ordinanza del 9 maggio 2007 dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Genova nel procedimento penale a carico di C.M., iscritta al n. 645 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speci ale, dell'anno 2007. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 12 marzo 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick. Ritenuto che, con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Genova, in funzione di giudice dell'udienza preliminare, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 99, primo, terzo e quarto comma, del codice penale, come sostituito dall'art. 4 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui prevede che, nei casi di recidiva semplice, di recidiva pluriaggravata e di recidiva reiterata, la pena possa essere aumentata nella misura fissa indicata in relazione a ciascuna di dette ipotesi, anziché «fino alla» misura stessa; che il giudice a quo premette di essere chiamato a giudicare, nelle forme del giudizio abbreviato, una persona imputata del reato di detenzione illecita di sostanza stupefacente, con l'aggravante della recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale: aggravante per la quale il nuovo testo dell'art. 99 cod. pen. prevede un aumento di pena nella misura fissa di due terzi; che, per la quantità della sostanza detenuta e le modalità della detenzione, il fatto oggetto di giudizio non può - secondo il rimettente - essere considerato di lieve entità ai fini dell'applicazione dell'attenuante speciale di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza); né, d'altra parte, potrebbero essere concesse all'imputato le attenuanti generiche, tenuto conto del negativo comportamento processuale, delle numerose condanne precedentemente riportate - anche per reati gravi, quali la rapina, l'estorsione e il sequestro di persona - e della circostanza che il reato per cui si procede è l'«ultimo di una serie di delitti, tutti determinati dalla condizione di tossicodipendenza, commessi con abitualità e senza soluzione di continuo»; che, pertanto, anche qualora la pena base venisse determinata nel minimo edittale previsto dall'art. 73, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990 (anni sei di reclusione ed euro 26.000 di multa) - scelta, ad avviso del rimettente, «non [.] facilmente giustificabile alla luce dei parametri di cui all'art. 133 cod. pen.» - l'aumento derivante dall'applicazione della recidiva risulterebbe pari a quattro anni di reclusione ed euro 17.333 di multa; ed esso non potrebbe essere temperato - stante l'entità delle condanne già riportate dall'imputato - neppure dal limite posto dall'ultimo comma dell'art. 99 cod. pen., in forza del quale l'aumento per la recidiva non può superare «il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo delitto»; che la norma impugnata presenterebbe, tuttavia, profili di irragionevolezza e di contraddittorietà tali da porla in contrasto con i principi costituzionali sanciti dagli artt. 3, 25 e 27 Cost.; che, al riguardo, il rimettente osserva come la legge n. 251 del 2005, nel modificare l'art. 99 cod. pen., non abbia eliminato - salvo che per i delitti previsti dall'art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale - il carattere facoltativo dell'aumento di pena per la recidiva: onde il giudice conserverebbe la possibilità di valutare se la ricaduta nel reato sia espressione di «insensibilità etica ed attitudine a delinquere», giustificando, perciò, una pena più severa; o se, al contrario, non meriti un inasprimento del trattamento sanzionatorio, avuto riguardo ai motivi contingenti che hanno determinato il nuovo delitto, alla sua eterogeneità rispetto ai precedenti o al lungo intervall o di tempo trascorso rispetto ad essi; che, tuttavia, qualora - come nel caso di specie - non vi siano elementi che giustifichino la scelta di escludere l'operatività della recidiva, la determinazione del conseguente aumento di pena non viene più demandata al prudente apprezzamento del giudice, ma è effettuata ex ante dal legislatore in misura fissa; così che il giudice può modificare l'entità dell'aumento solo variando la pena base, ma non in funzione della maggiore o minore rilevanza concreta della circostanza; che tale regime è stato adottato, in specie, per la recidiva semplice (primo comma dell'art. 99 cod. pen.: aumento nella misura di un terzo); per la recidiva pluriaggravata (terzo comma dello stesso articolo: aumento della metà); per la recidiva reiterata (quarto comma, prima parte: aumento della metà); e per la recidiva reiterata ed aggravata (quarto comma, seconda parte: aumento di due terzi); che l'unico caso nel quale il legislatore non ha determinato in misura fissa l'entità dell'aumento è quello della recidiva monoaggravata, previsto dal secondo comma dell'art. 99 cod. pen., poiché - quando ricorra una sola delle ipotesi descritte da tale disposizione (nuovo delitto della stessa indole; delitto commesso nei cinque anni dalla condanna precedente; delitto commesso durante o dopo l'esecuzione della pena o nel tempo in cui il condannato si è volontariamente sottratto ad essa) - la pena può essere aumentata «fino alla metà»; che - ad avviso del rimettente - tale scelta normativa si rivelerebbe, peraltro, del tutto irrazionale, in quanto, a fronte di essa, sarebbe possibile applicare al recidivo aggravato un aumento di pena anche di un solo giorno di reclusione o di un euro di multa («fino alla metà») e, dunque, minore rispetto all'aumento applicabile al recidivo semplice, necessariamente pari ad un terzo; che non si potrebbe neppure sostenere, in via interpretativa, che nei casi di recidiva aggravata l'aumento non possa essere comunque inferiore a quello previsto per la recidiva semplice (andando, quindi, da un terzo alla metà), trattandosi, da un lato, di una interpretazione in malam partem; dall'altro lato, di una interpretazione preclusa dalla previsione del quinto comma dell'art. 99 cod. pen., in base alla quale soltanto con riferimento ai delitti di cui all'art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen., l'aumento di pena per la recidiva aggravata - oltre ad essere obbligatorio - «non può essere inferiore ad un terzo della pena da infliggere per il nuovo delitto»; che, al di la di ciò, l'intero trattamento sanzionatorio della recidiva, delineato dal nuovo art. 99 cod. pen., darebbe luogo a disparità di trattamento prive di razionale giustificazione, non superabili per effetto della facoltatività dell'applicazione dell'aumento di pena; che, ad esempio, quando l'autore del nuovo delitto abbia già riportato una condanna per un reato della stessa indole (recidiva specifica), l'eventuale aumento di pena può essere discrezionalmente determinato dal giudice in misura variabile da un giorno di reclusione (o un euro di multa), fino alla metà della pena base inflitta per il nuovo reato; per contro, ove il reo abbia già riportato, oltre ad una condanna per un reato della stessa indole, una o più ulteriori condanne per delitti non colposi (recidiva reiterata e specifica), l'eventuale aumento della pena base deve essere senz'altro pari a due terzi; e ciò anche quando le ulteriori condanne riguardino episodi non gravi, del tutto eterogenei rispetto a quello per cui si procede e risalent i nel tempo; che, analogamente, nei confronti di chi abbia commesso un delitto non colposo nei cinque anni dalla precedente condanna, il giudice può determinare l'aumento di pena - entro il limite della metà - tenendo conto della gravità del precedente delitto e della personalità dell'imputato; invece, colui il quale - essendo stato condannato due o più volte per delitti non colposi - commetta, molti anni dopo, un altro delitto non colposo, potrebbe vedersi aumentata la pena «della metà», quale recidivo reiterato, senza che il giudice possa graduare tale aumento alla luce del tempo trascorso, della gravità e della omogeneità o meno del nuovo delitto rispetto ai precedenti; che il rimettente ricorda, altresì, che - secondo quanto chiarito da questa Corte con la sentenza n. 50 del 1980 - il principio di legalità delle pene, sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost., «esige la differenziazione più che l'uniformità»; e che «l'adeguamento delle risposte punitive ai casi concreti contribuisce a rendere quanto più possibile "personale" la responsabilità penale nella prospettiva segnata dall'art. 27, primo comma, della Costituzione»; che da ciò deriva che il legislatore è tenuto ad articolare il sistema sanzionatorio in modo da consentire un «adeguamento individualizzato e proporzionale» delle pene inflitte con le sentenze di condanna, riconoscendo «appropriati ambiti e criteri per la discrezionalità del giudice»: sicché, in linea di principio, previsioni sanzionatorie rigide non appaiono in armonia con il «volto costituzionale» del sistema penale; che, pertanto - allorché, come nella specie, il legislatore differenzi ingiustificatamente situazioni analoghe, prevedendo per alcune aumenti di pena rigidi e per altre, anche di maggior gravità, aumenti di pena graduabili - il contrasto dovrebbe essere risolto tramite la generalizzazione della seconda opzione, che meglio si armonizza con i principi sanciti dai citati artt. 25 e 27 Cost.; che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata. Considerato che il giudice rimettente dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, dell'art. 99, primo, terzo e quarto comma, del codice penale, come sostituito dall'art. 4 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui stabili sce che - nei casi di recidiva semplice, di recidiva pluriaggravata e di recidiva reiterata - la pena possa essere aumentata nella misura fissa indicata in relazione a ciascuna di dette ipotesi, anziché «fino alla» misura stessa; che - come eccepito anche dall'Avvocatura dello Stato - la questione risulta palesemente irrilevante in rapporto alle disposizioni del primo e del terzo comma dell'art. 99 cod. pen., che prevedono gli aumenti di pena, rispettivamente, per la recidiva semplice e la recidiva pluriaggravata; l'unica disposizione che viene in rilievo, nel caso di specie, è quella del quarto comma del citato art. 99 cod. pen., poiché - secondo quanto riferito nell'ordinanza di rimessione - all'imputato nel giudizio a quo è stata contestata la recidiva reiterata (e, più in particolare, la recidiva reiterata aggravata); che - quanto alle censure che investono tale ultima disposizione, e con particolare riguardo alla dedotta violazione dell'art. 3 Cost. - la giurisprudenza di questa Corte è costante nell'affermare che la scelta e la quantificazione delle sanzioni per i singoli fatti punibili rientra nella discrezionalità del legislatore, il cui esercizio è censurabile solo nel caso di manifesta irragionevolezza, in sede di sindacato di costituzionalità (ex plurimis, sentenze n. 22 del 2007, n. 394 del 2006 e n. 144 del 2005): principio, questo, riferibile evidentemente anche alla determinazione degli aumenti di pena per le circostanze aggravanti;</ P> che, nella specie, il rimettente desume l'asserita irrazionalità del regime sanzionatorio della recidiva dal fatto che, nel caso di recidiva reiterata, non sia consentito al giudice graduare il corrispondente aumento di pena in rapporto alle peculiarità del caso concreto, come invece gli è permesso, in base al secondo comma dell'art. 99 cod. pen., nel caso di recidiva aggravata; che, tuttavia, la scelta legislativa di prevedere per talune forme di recidiva un aumento di pena fisso e per altre (la sola recidiva aggravata) un aumento variabile, non comporta - di per sé - una violazione del principio di uguaglianza e di ragionevolezza, fino a quando non consti che la soluzione normativa adottata è atta a produrre sperequazioni prive di qualsiasi ratio giustificativa, nel trattamento sanzionatorio di situazioni omogenee; che, per questo verso, i profili di irrazionalità che il rimettente denuncia - nel passaggio dal trattamento sanzionatorio della recidiva aggravata (e, in particolare, della recidiva specifica) a quello della recidiva reiterata (rimanendo irrilevante, per quanto detto, il confronto tra il regime della recidiva semplice e quello della recidiva aggravata) - vengono a risolversi in censure di merito alle scelte discrezionali del legislatore, in punto di determinazione della pena, basate su personali apprezzamenti dello stesso rimettente; che, d'altra parte - avuto riguardo agli esempi addotti nell'ordinanza di rimessione a dimostrazione dell'asserita irrazionalità, con i quali si prospetta l'eventualità che, nel caso di recidiva reiterata, le precedenti condanne concernano reati non gravi, eterogenei rispetto a quello per cui si procede e risalenti nel tempo - il giudice a quo riconosce che, anche dopo le modifiche operate dalla legge n. 251 del 2005, la recidiva è rimasta facoltativa in tutte le sue forme, salvo che nei casi di cui al quinto comma dell'art. 99 cod. pen. (e, cioè, quando si tratti dei delitti previsti dall'art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale): con l a conseguenza che, nella stessa prospettiva del rimettente, il giudice potrebbe comunque tenere conto della natura delle precedenti condanne per escludere in radice l'applicazione dell'aumento di pena; che quanto, all'asserita violazione degli artt. 25 e 27 Cost., va osservato come l'affermazione di questa Corte - evocata dal giudice a quo - circa la tendenziale contrarietà delle pene fisse al «volto costituzionale» dell'illecito penale (si veda, in particolare, la sentenza n. 50 del 1980), debba intendersi riferita alle pene fisse nel loro complesso: non ai trattamenti sanzionatori che coniughino articolazioni rigide ed articolazioni elastiche, in maniera tale da lasciare comunque adeguati spazi alla discrezionalità del giudice, ai fini dell'adeguamento della risposta punitiva alle singole fattispecie concrete; che questa Corte ha escluso, in tal ottica, che i parametri costituzionali che esigono l'individualizzazione del trattamento sanzionatorio possano considerarsi lesi nell'ipotesi di comminatoria, per un determinato illecito, di una pena pecuniaria fissa, congiunta ad una pena detentiva dotata di una forbice edittale; infatti, in una simile evenienza, il giudice conserva, agendo anche solo sulla pena detentiva, la possibilità di adeguare la risposta punitiva alle specificità del singolo caso (con riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., sentenza n. 472 del 2002; si veda, altresì, la sentenza n. 188 del 1982); che, nell'ipotesi in esame - come lo stesso rimettente riconosce - il giudice può, "a monte", decidere discrezionalmente se applicare o meno l'aumento di pena per l'aggravante in questione; e ciò - alla stregua dei criteri di corrente adozione in tema di recidiva facoltativa - in esito alla valutazione della concreta significatività del nuovo delitto, in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo; che, d'altra parte, ove il giudice opti per l'applicazione dell'aumento di pena, quest'ultimo risulta fisso nella misura frazionaria; la quale, tuttavia, si correla ad un dato variabile, qual è la pena base, che il giudice può discrezionalmente determinare, tra il minimo e il massimo edittale, alla luce dei criteri stabiliti dall'art. 133 cod. pen., incidendo di riflesso anche sull'incremento connesso alla recidiva; che, in conclusione - pur costituendo, quello scrutinato, un assetto che si discosta per più versi dalle linee generali del sistema - deve comunque escludersi che il giudice, per effetto di esso, resti privo di sufficienti margini di adattamento del trattamento sanzionatorio alle peculiarità della singola ipotesi concreta; che la questione deve essere dichiarata, pertanto, manifestamente inammissibile, in rapporto al primo ed al terzo comma dell'art. 99 cod. pen., e manifestamente infondata, in rapporto al quarto comma del medesimo articolo. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 99, primo e terzo comma, del codice penale, come sostituito dall'art. 4 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Genova con l'ordinanza indicata in epigrafe; 2) dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzione dell'art. 99, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall'art. 4 della citata legge 5 dicembre 2005, n. 251, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 25 e 27 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Genova con la medesima ordinanza. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 31 marzo 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giovanni Maria FLICK, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 aprile 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 3, commi 2-bis e 2-ter del decreto-legge 30 novembre 2005, n. 245 (Misure straordinarie per fronteggiare l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania ed ulteriori disposizioni in materia di protezione civile), commi aggiunti dalla relativa legge di conversione 27 gennaio 2006, n. 21, promossi con cinque ordinanze dal Tribunale amministrativo regionale della Calabria, sede di Catanzaro, rispettivamente iscritte ai nn. dal 692 a 696 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di costituzione dell'E.N.I. s.p.a. - Divisione Refining e Marketing nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 12 marzo 2008 il Giudice relatore Alfonso Quaranta.
Ritenuto che, con le ordinanze in epigrafe, il Tribunale amministrativo regionale della Calabria, sede di Catanzaro, ha sollevato - in riferimento agli articoli 3, 24, 111 e 125 della Costituzione - questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 3, commi 2-bis e 2-ter, del decreto-legge 30 novembre 2005, n. 245 (Misure straordinarie per fronteggiare l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania ed ulteriori disposizioni in materia di protezione civile), commi aggiu nti dalla relativa legge di conversione 27 gennaio 2006, n. 21, ipotizzandone l'illegittimità «nella parte in cui prevedono la competenza in primo grado, esclusiva ed inderogabile, estesa anche ai giudizi in corso, del T.A.R. del Lazio, sede di Roma, sui ricorsi giurisdizionali proposti avverso le ordinanze ed i provvedimenti adottati nell'ambito delle situazioni di emergenza dichiarate ai sensi dell'art. 5, comma 1, della legge 24 febbraio 1992, n. 225» (Istituzione del Servizio nazionale della protezione civile); che l'oggetto dei giudizi principali - secondo quanto premesso, in punto di fatto, dal rimettente - è costituito dall'impugnativa di provvedimenti emessi dal Commissario delegato per l'emergenza ambientale nel territorio della Regione Calabria; che il giudice a quo deduce, inoltre, di essere chiamato a conoscere della domanda cautelare proposta dai ricorrenti dei giudizi principali, ma di dover declinare la propria competenza, ai sensi di quanto previsto dal comma 2-bis dell'art. 3 del d.l. n. 245 del 2005, secondo cui, in «tutte le situazioni di emergenza dichiarate ai sensi dell'articolo 5, comma 1, della legge 24 febbraio 1992, n. 225, la competenza di primo grado a conoscere della legittimità delle ordinanze adottate e dei consequenziali provvedimenti commissariali spetta in via esclusiva, anche per l'emanazione di misure cautelari, al tribunale amministrativo regionale del Lazio, con sede in Roma»; che il Tribunale amministrativo rimettente dubita, tuttavia, della conformità alla Costituzione di detta disciplina; che il rimettente ipotizza, innanzitutto, la violazione dell'art. 3 Cost., «per la disparità di trattamento che la deroga alle ordinarie regole di riparto delle competenze comporta, per la tutela giurisdizionale delle rispettive situazioni giuridiche, tra soggetti in situazioni eguali»; che, difatti, risulterebbero assoggettati ad un trattamento differenziato privo di giustificazione i «destinatari delle ordinanze adottate dagli organi governativi o dai commissari delegati, nelle situazioni di dichiarata emergenza, aventi efficacia limitata al territorio di una Regione», rispetto ai «destinatari dei provvedimenti, aventi lo stesso ambito di efficacia, adottati, in via ordinaria», e posti in essere, in genere, «dagli organi esponenziali di enti territoriali regionali o sub regionali»; che in definitiva, osserva il giudice a quo, «mentre l'impugnazione dei provvedimenti adottati nell'esercizio delle ordinarie attribuzioni rientra nella competenza del TAR regionale del luogo ove i provvedimenti hanno incidenza», in caso di dichiarazione della situazione di emergenza ai sensi dell'art. 5, comma 1, della legge n. 225 del 1992, la cognizione a conoscere di quegli stessi provvedimenti, sebbene «volti alla cura dei medesimi interessi» e quindi «idonei a produrre le medesime conseguenze, eventualmente a comprimere uguali posizioni soggettive», spetta al Tribunale amministrativo regionale del Lazio; che, d'altra parte, tale diversità neppure potrebbe essere giustificata «dalla maggiore o minore rilevanza dell'interesse sotteso ai provvedimenti» in questione, in quanto - assume il giudice a quo - il sistema di giustizia amministrativa non contempla una distribuzione di competenza tra gli organi giurisdizionali di primo grado fondata su un simile criterio, che sarebbe, oltretutto, «in contrasto con le disposizioni costituzionali» (segnatamente con l'art. 125 Cost.) che li «pongono su un piano paritario»; che, inoltre, decisiva - nella stessa prospettiva - sarebbe la constatazione che le situazioni di emergenza di cui all'art. 5 della legge n. 225 del 1992 «non si caratterizzano per il particolare rilievo dell'interesse considerato», bensì soltanto «per l'urgenza di provvedere»; che le disposizioni censurate non possano, neppure in ipotesi, trovare fondamento nella pretesa maggiore rilevanza dell'interesse curato, sarebbe confermato dal fatto - osserva ancora il rimettente - che il peculiare regime processuale da esse previsto riguarda unicamente le ordinanze e gli atti commissariali adottati in situazioni emergenziali, «ma non i provvedimenti che tali situazioni di emergenza dichiarino», con conseguente irragionevolezza del «disegno complessivo» realizzato dal legislatore; che, poi, a giustificazione di tale disegno - e quindi della deroga introdotta all'ordinario criterio di riparto della competenza territoriale tra tribunali amministrativi regionali previsto dagli artt. 2 e 3 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei Tribunali amministrativi regionali) - neppure potrebbero invocarsi ragioni analoghe a quelle valorizzate dalla sentenza della Corte costituzionale n. 189 del 1992; che, infatti, tale sentenza - nello scrutinare la legittimità costituzionale dell'art. 4 della legge 12 aprile 1990, n. 74 (Modifica alle norme sul sistema elettorale e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura), articolo che attribuisce al Tribunale amministrativo regionale del Lazio «la competenza esclusiva sull'impugnazione degli atti del C.S.M.» - ha ritenuto di individuare la ratio legis, secondo il rimettente, soltanto nella peculiare posizione costituzionale del Consiglio superiore della magistratura; che, per contro, la disciplina contestata «non appare supportata da alcuna plausibile ragione, dotata di copertura costituzionale»; che essa, inoltre, violerebbe sia l'art. 24 Cost., in ragione dell'«ingiustificato aggravio organizzativo e di costi a cui debbono andare incontro i soggetti incisi dai provvedimenti impugnati» a causa della prevista translatio iudicii nei confronti del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sia l'art. 125 della Carta fondamentale che, «in sostanziale coerenza e continuità logica» con il precedente art. 24, enuncia il principio «del decentramento territoriale della giurisdizione amministrativa» con riferimento a tutte le controversie scaturenti dalla contestazione di atti amministrativi «destinati ad esaurire i propri effetti "in loco"»; che, infine, le censurate disposizioni creano «una sorta di gerarchia tra i T.A.R. territoriali», realizzando anche un «non irrilevante "vulnus" del principio generale del "giusto processo", quale desumibile dal testo novellato dall'art. 111 della Costituzione»; che è intervenuto, in tutti giudizi, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate manifestamente infondate, atteso che questioni identiche a quelle oggetto degli odierni giudizi sono state ritenute non fondate dalla Corte costituzionale con sentenza n. 237 del 2007; che si è costituita in tutti i giudizi (salvo quello originato dall'ordinanza di rimessione iscritta al n. 696 del r.o. 2007) la società Eni s.p.a., ricorrente in ciascuno dei giudizi principali, chiedendo l'accoglimento della questione di legittimità costituzionale. Considerato che, con cinque ordinanze di contenuto pressoché identico, il Tribunale amministrativo regionale della Calabria, sede di Catanzaro, ha sollevato - in riferimento agli articoli 3, 24, 111 e 125 della Costituzione - questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 3, commi 2-bis e 2-ter, del decreto-legge 30 novembre 2005, n. 245 (Misure straordinarie per fronteggiare l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania ed ulteriori disposizioni in materia di prot ezione civile), commi aggiunti dalla relativa legge di conversione 27 gennaio 2006, n. 21, ipotizzandone l'illegittimità «nella parte in cui prevedono la competenza in primo grado, esclusiva ed inderogabile, estesa anche ai giudizi in corso, del T.A.R. del Lazio, sede di Roma, sui ricorsi giurisdizionali proposti avverso le ordinanze ed i provvedimenti adottati nell'ambito delle situazioni di emergenza dichiarate ai sensi dell'art. 5, comma 1, della legge 24 febbraio 1992, n. 225» (Istituzione del Servizio nazionale della protezione civile); che, in via preliminare, deve essere disposta la riunione dei giudizi, atteso che la loro comunanza di oggetto ne giustifica l'unitaria trattazione ai fini di un'unica pronuncia; che, quanto al merito delle censure formulate dal giudice rimettente, deve osservarsi come questa Corte, con sentenza n. 237 del 2007, abbia già escluso la fondatezza di analoghi dubbi di legittimità costituzionale aventi ad oggetto la disciplina processuale in contestazione; che, in primo luogo, le motivazioni della citata sentenza n. 237 del 2007 possono essere qui richiamate in relazione all'ipotizzata violazione dell'art. 3 Cost., prospettata adducendo tanto l'esistenza di una supposta «disparità di trattamento che la deroga alle ordinarie regole di riparto delle competenze comporta, per la tutela delle rispettive posizioni giuridiche, tra soggetti in situazioni eguali» (giacché le disposizioni censurate riserverebbero un trattamento ingiustificatamente differenziato ai «destinatari delle ordinanze adottate dagli organi governativi o dai commissari delegati, nelle situazioni di dichiarata emergenza, aventi efficacia limitata al territorio di una regione, rispetto ai destinatari dei provvedimenti aventi lo stes so ambito di efficacia, adottati, in via ordinaria, dagli organi esponenziali di enti territoriali regionali o sub regionali»), quanto l'irragionevolezza della scelta compiuta dal legislatore, poiché «lo spostamento delle competenza su questa materia è irrazionalmente solo parziale», giacché riguarderebbe unicamente «le ordinanze ed i consequenziali provvedimenti commissariali, ma non i decreti governativi che dichiarano lo stato di emergenza»; che, tuttavia, in ordine alla presunta disparità di trattamento alla quale le norme in contestazione sottoporrebbero «situazioni eguali di fronte alla tutela giurisdizionale», può in questa sede ribadirsi come sia «proprio l'avvenuta dichiarazione della situazione di emergenza, ex art. 5, comma 1, della legge n. 225 del 1992», a costituire «l'elemento caratterizzante la fattispecie oggetto della censurata disciplina, impedendo, così, di ravvisare quel profilo di omogeneità tra tale ipotesi e quella - con cui essa viene posta a confronto - dell'ordinario esercizio dei poteri amministrativi», profilo che rappresenta, invece, «il presupposto indispensabile ai fini della loro valutazione comparativa» (co sì la sentenza n. 237 del 2007); che in relazione, invece, al supposto difetto di ragionevolezza, questa Corte ha rilevato come i giudici rimettenti «non si sono posti alla ricerca di una differente interpretazione» che - «sulla base, peraltro, della semplice lettera della norma» - consenta di ritenere sottoposta alla competenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio «anche l'impugnativa dei provvedimenti dichiarativi dello stato di emergenza, qualunque sia il loro ambito territoriale di efficacia, attesa, tra l'altro, la loro natura di atti presupposti» (così, nuovamente, la sentenza n. 237 del 2007); che, del pari, manifestamente infondata è la censura sollevata con riferimento all'art. 24 Cost. e motivata in ragione dell'«ingiustificato aggravio organizzativo e di costi» che subirebbero «i soggetti incisi dai provvedimenti impugnati» a causa della prevista translatio iudicii nei confronti del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sede di Roma; che, tuttavia, in relazione al primo di tali profili, la sentenza n. 237 del 2007 ha osservato come il denunciato inconveniente non costituisca un «grave ostacolo» al «conseguimento della tutela giurisdizionale», non concretizzando quella condizione di «sostanziale impedimento all'esercizio del diritto di azione garantito dall'art. 24 della Costituzione» suscettibile «di integrare la violazione del citato parametro costituzionale»; che, del pari, è manifestamente infondata la censura concernente la presunta violazione dell'art. 111 Cost., motivata in base all'argomento che le disposizioni censurate, creando «una sorta di gerarchia» tra il Tribunale regionale amministrativo per il Lazio e gli altri tribunali, recherebbero un vulnus al principio del "giusto processo"; che in ordine a tale doglianza - a parte, evidentemente, il rilievo che valgono qui le stesse considerazioni svolte circa l'asserita violazione dell'art. 24 Cost. - può ribadirsi, ancora una volta, quanto osservato nella sentenza n. 237 del 2007, ovvero «che tali censure non sono dotate di una propria autonomia rispetto all'ipotizzata violazione dell'art. 125 della Carta fondamentale»; che in relazione, poi, proprio a tale censura non può che tornarsi a sottolineare che «l'attribuzione della competenza al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, anziché ai diversi Tribunali amministrativi regionali dislocati su tutto il territorio nazionale, non altera il sistema di giustizia amministrativa», esistendo, nella specie, «ragioni idonee a giustificare la deroga agli ordinari criteri di ripartizione della competenza tra gli organi di primo grado della giustizia amministrativa» (sentenza n. 237 del 2007); che, difatti, tali ragioni sono state individuate - sempre nella citata sentenza n. 237 del 2007 - «nel peculiare regime che connota le situazioni di emergenza - e particolarmente quelle di cui alla lettera c) del comma 1 dell'art. 2 della legge n. 225 del 1992 », atteso che, ricorrendo tale evenienza, «i provvedimenti posti in essere dai commissari delegati sono atti dell'amministrazione centrale dello Stato (in quanto emessi da organi che operano come longa manus del Governo) finalizzati a soddisfare interessi che trascendono quelli delle comunità locali coinvolte dalle singole situazioni di emergenza, e ciò in ra gione tanto della rilevanza delle stesse, quanto della straordinarietà dei poteri necessari per farvi fronte»; che, pertanto, non essendo state prospettate - in relazione a nessuna delle censure formulate dal giudice rimettente - argomentazioni nuove, rispetto a quelle già esaminate da questa Corte, si impone, nel caso di specie, la declaratoria di manifesta infondatezza delle questioni sollevate. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 3, commi 2-bis e 2-ter, del decreto-legge 30 novembre 2005, n. 245 (Misure straordinarie per fronteggiare l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania ed ulteriori disposizioni in materia di protezione civile), commi aggiunti dalla relativa legge di conversione 27 gennaio 2006, n. 21, sollevate - in riferimento agli articol i 3, 24, 111 e 125 della Costituzione - dal Tribunale amministrativo regionale della Calabria, sede di Catanzaro, con le ordinanze in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 31 marzo 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Alfonso QUARANTA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 aprile 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA |