Deposito del 23/10/2008 (dalla 342 alla 349) |
S.342/2008 del 20/10/2008 Udienza Pubblica del 23/09/2008, Presidente FLICK, Redattore MADDALENA Norme impugnate: Artt. 2, c. 2°, e 4, c. 2°, della legge della Regione Abruzzo 25/06/2007, n. 16; artt. 39 e 74 della legge della Regione Abruzzo 01/10/2007, n. 34 Oggetto: Edilizia e urbanistica - Norme della Regione Abruzzo - Depositi di gas di petrolio liquefatto (GPL) con capacità non superiore a 13 m.c. - Denuncia di inizio attività per la posa in opera, l'installazione e l'esercizio del deposito - Dichiarazione dell'interessato di aver inviato all'assessorato regionale alla sanità la prevista documentazione a corredo - Div ieto di prosecuzione dell'attività e rimozione dei suoi effetti per mancanza di tale dichiarazione - Controlli dell'assessorato regionale della sanità tramite le competenti ASL - Disciplina delle modalità e del contenuto di dette verifiche - Installazione di nuovi depositi - Comunicazione all'ufficio urbanistico del Comune di competenza, con allegazione di dati e documenti. Energia - Norme della Regione Abruzzo - Costruzione ed esercizio di impianti solari fotovoltaici ad una distanza minima di 500 m. da ogni abitazione - Facoltà attribuita ai soli soggetti pubblici - Moratoria per la realizzazione degli impianti nei centri urbani. Dispositivo: non fondatezza - cessata materia del contendere - estinzione del processo Atti decisi: ric. 38, 48/2007 |
O.343/2008 del 20/10/2008 Camera di Consiglio del 09/07/2008, Presidente BILE, Redattore FINOCCHIARO Norme impugnate: Art. 10, c. 3°, della legge 05/12/2005, n. 251. Oggetto: Reati e pene - Prescrizione - Modifiche normative comportanti termini di prescrizione più brevi - Disciplina transitoria - Inapplicabilità delle nuove norme ai processi già pendenti in appello alla data di entrata in vigore della novella. Dispositivo: manifesta infondatezza Atti decisi: ord. 782/2007 |
O.344/2008 del 20/10/2008 Udienza Pubblica del 23/09/2008, Presiden te FLICK, Redattore MAZZELLA Norme impugnate: Art. 12, c. 2°, della legge 30/04/1969, n. 153, come sostituito dall'art. 6, c. 2°, del decreto legislativo 02/09/1997, n. 314, in combinato disposto con l'art. 48 (ora 51), c. 2°, lett. f-bis), del decreto Presidente della Repubblica 22/12/1986, n. 917, introdotto dall'art. 13, c. 1°, del decreto legislativo 23/12/1999, n. 505. Oggetto: Previdenza e assistenza sociale - Determinazione della retribuzione soggetta a contribuzione previdenziale - Rinvio alle disposizioni contenute nel testo unico delle imposte sui redditi - Esclusione dalla base imponibile delle somme erogate dal datore di lavoro alla generalità dei dipendenti o a categorie di dipendenti per frequenza di asili nido - Omessa previsione dell'esclusione dalla base imponibile anche delle somme che il datore di lavoro eroga alla generalità dei dipendenti o a categorie di dipendenti pe r frequenza di scuole materne, 'rectius', scuole dell'infanzia. Dispositivo: manifesta infondatezza - manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 845/2007 |
O.345/2008 del 20/10/2008 Udienza Pubblica del 23/09/2008, Presidente FLICK, Redattore NAPOLITANO Norme impugnate: Art. 1 della legge della Regione Siciliana 23/12/2000, n. 28. Oggetto: Credito agrario - Norme della Regione Siciliana - Proroga delle cambiali agrarie - Previsione dell'obbligo per gli istituti e gli enti esercenti il credito agrario di prorogare al 31 dicembre 2001 le passività di carattere agricolo già scadute o che andranno a scadere entro il 30 giugno 2001, ancorché già prorogate, purché contratte anteriormente alla data di entrata in vigore della legge regionale n. 28 del 2000, al fine di agevolare la ripresa produttiva delle aziende agricole siciliane. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 55 e 56/2008 |
O.346/2008 del 20/10/2008 Camera di Consiglio del 24/09/2008, Presidente FLICK, Redattore MAZZELLA Norme impugnate: Art. 3, c. 1°, della legge 19/02/1981, n. 27. Oggetto: Ordinamento giudiziario - Indennità giudiziaria - Disciplina antecedente alle modifiche di cui all'art. 1, comma 325, della legge n. 311/2004 - Spettanz a ai magistrati assenti dal lavoro per maternità e puerperio - Esclusione Ordinamento giudiziario - Magistratura - Lavoratrici madri - Corresponsione dell'indennità giudiziaria nel periodo di astensione dal lavoro per maternità e puerperio - Esclusione. Dispositivo: manifesta infondatezza Atti decisi: ord. 46, 110, 111 e 112/2008 |
O.347/2008 del 20/10/2008 Camera di Consiglio del 24/09/2008, Presidente FLICK, Redattore SAULLE Norme impugnate: Art. 33 della legge 22/04/2005, n. 69. Oggetto: Processo penale - Custodia cautelare all'estero in esecuzione del mandato d'arresto europeo - Computo anche agli effet ti della durata dei termini ordinari di fase - Mancata previsione. Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens Atti decisi: ord. 3 e 156/2008 |
O.348/2008 del 20/10/2008 Camera di Consiglio del 24/09/2008, Presidente FLICK, Redattore TESAURO Norme impugnate: Artt. 593 (come sostituito dall'art. 1 della legge 20/02/2006, n. 46) e 443 (come modificato dall'art. 2 della legge 20/02/2006, n. 46) del codice di procedura penale; art. 10 della legge 20/02/2006, n. 46 Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative - Previsione di limiti al potere d'appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento nel g iudizio ordinario e nel giudizio abbreviato - Inammissibilità dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella. Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens Atti decisi: ord. 288, 464, 471, 472, 473, 474, 475, 476, 477, 478, 479, 480, 481, 482, 646, 731 e 732/2007 |
O.349/2008 del 20/10/2008 Camera di Consiglio del 24/09/2008, Presidente FLICK, Redattore NAPOLITANO Norme impugnate: Artt. 593 (come sostituito dall'art. 1 della legge 20/02/2006, n. 46) e 443 (come modificato dall'art. 2 della legge 20/02/2006, n. 46) del codice di procedura penale; art. 10 della legge 20/02/2006, n. 46 Oggetto: Processo p enale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Preclusione, salvo nelle ipotesi previste dall?art. 603, comma 2, cod. proc. pen. se la nuova prova è decisiva. Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens Atti decisi: ord. 31, 77, 168, 200, 319, 506, 601 e 762/2007 |
SENTENZA N. 342 ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZAnei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma 2, e 4, comma 2, della legge della Regione Abruzzo 25 giugno 2007, n. 16, recante «Monitoraggio dei depositi di gas di petrolio liquefatto (GPL) con capacità commerciale non superiore a 13 mc. e conseguenti misure applicative dei principi di salvaguardia e controllo di cui al decreto ministeriale 23 settembre 2004 nonché di quelli introdotti dal decreto del Ministero delle attività produttive n. 329/2004» e degli artt. 39 e 74 della legge della Regione Abruzzo 1° ottobre 2007, n. 34, recante «Disposizioni di adeguamento normativo e per il funzionamento delle strutture», promossi con ricorsi del Presidente del Consiglio dei ministri notificati il 7 settembre e il 3 dicembre 2007, depositati in cancelleria il 17 settembre e il 10 dicembre 2007 ed iscritti ai nn. 38 e 48 del registro ricorsi 2007. Udito nell'udienza pubblica del 23 settembre 2008 il Giudice relatore Paolo Maddalena; udito l'avvocato dello Stato Enrico Arena per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. ¾ Con ricorso notificato il 7 settembre 2007 e depositato in cancelleria il successivo 17 settembre (reg. ric. n. 38 del 2007), il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma 2, e 4, comma 2, della legge della Regione Abruzzo 25 giugno 2007, n. 16, recante «Monitoraggio dei depositi di gas di petrolio liquefatto (GPL) con capacità commerciale non superiore a 13 mc. e conseguenti misure applicative dei principi di salvaguardia e controllo di cui al decreto ministeriale 23 settembre 2004 nonché di quelli introdotti dal decreto del Ministero delle attività produttive n. 329/2004». L'Avvocatura generale dello Stato osserva che, ai sensi degli artt. 2, comma 2, e 4, comma 2, della legge regionale, i depositi di gas di petrolio liquefatto (d'ora in poi anche GPL) di nuova istallazione sono soggetti alla denuncia, corredata da corposa documentazione, di inizio attività per la posa in opera, l'istallazione e l'esercizio del deposito, mentre la mancanza di tale comunicazione può comportare il divieto di proseguimento dell'attività e la rimozione dei suoi effetti. Tali disposizioni, ad avviso della difesa erariale, si porrebbero in contrasto con la normativa statale, costituente principio fondamentale dell'ordinamento, che tutta la Pubblica Amministrazione è tenuta ad osservare, in attuazione del principio di buon andamento di cui all'art. 97 Cost. e di semplificazione dell'azione amministrativa. La normativa statale vigente in materia - osserva l'Avvocatura - ha infatti eliminato l'obbligo della denuncia di inizio attività per i serbatoi di GPL di capacità complessiva non superiore a 13 mc., nonché l'obbligo della redazione del progetto ai fini delle disposizioni di prevenzione incendi. In particolare, l'art. 17 del decreto legislativo 22 febbraio 2006, n. 128 (Riordino della disciplina relativa all'installazione e all'esercizio degli impianti di riempimento, travaso e deposito di GPL, nonché all'esercizio dell'attività di distribuzione e vendita di GPL, in recipienti, a norma dell'articolo 1, comma 52, della legge 23 agosto 2004, n. 2), ha previsto che l'installazione dei depositi di gas di petrolio liquefatto di capacità complessiva non superiore a 13 mc . è considerata, ai fini urbanistici ed edilizi, attività edilizia libera, e dunque soggetta a semplice comunicazione e non a denuncia di inizio attività. L'assoggettamento a denuncia di inizio attività, in aggiunta al normale iter amministrativo previsto dalla specifica normativa statale vigente, si porrebbe in contrasto non solo con l'art. 17 del decreto legislativo n. 128 del 2006, ma anche con il generale e fondamentale principio del divieto di aggravio del procedimento di cui all'articolo 1, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni, provocando una lesione dell'art. 97 della Costituzione. Secondo la difesa erariale, l'ampia documentazione da allegare alla denuncia di inizio attività comporterebbe oneri burocratici gravosi per i soggetti interessati operanti nella Regione Abruzzo, con evidente disparità di trattamento rispetto alle aziende che distribuiscono GPL nelle altre zone del territorio nazionale, in violazione sia dell'art. 3 della Costituzione, sia dei principi di libertà di iniziativa economica di cui all'art. 41 della Costituzione e, conseguentemente, di concorrenza, la cui tutela è riservata alla competenza esclusiva statale, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione. Con riferimento, in particolare, all'art. 2, comma 1, lettera c), della legge regionale in esame, relativa alla redazione del "progetto esecutivo", la Presidenza ricorrente evidenzia che in ambito nazionale il d.P.R. 12 aprile 2006, n. 124, ha eliminato l'obbligo di tale adempimento ai fini della normativa di prevenzione incendi dei serbatoi di GPL, tenendo conto di evidenti necessità di semplificazione e snellimento amministrativo, in coerenza con i principi affermati già dalla legge n. 241 del 1990, e successive modificazioni, e con la specifica normativa nazionale del settore di recente emanazione. Anche l'art. 4 della legge regionale, il quale detta disposizioni in materia di verifiche, presenterebbe violazioni delle norme statali di riferimento, nonché di principi costituzionali. Al riguardo, l'Avvocatura fa presente che la legge 23 agosto 2004, n. 239 (Riordino del settore energetico, nonché delega al Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia), ha fissato i principi fondamentali in materia di energia, prevedendo all'art. 1, comma 7, lettere c) e d), la competenza dello Stato sia per la determinazione dei criteri generali tecnico-costruttivi e delle norme tecniche essenziali degli impianti di produzione, trasporto, stoccaggio e distribuzione dell'energia, nonché delle caratteristiche tecniche e merceologiche dell'energia importata, prodotta, distribuita e consumata; sia per l'emanazione delle norme tecniche volte ad assicurare la prevenzione degli info rtuni sul lavoro e la tutela della salute del personale addetto a tali impianti. Secondo la difesa erariale, «la citata norma regionale non tiene adeguatamente conto di quanto disposto dalle normative nazionali in materia, soprattutto in relazione a ciò che è stato stabilito dal decreto ministeriale 29 agosto 1988 in tema di esonero delle verifiche periodiche, sovrapponendosi alla normativa nazionale che già prevede apposite verifiche periodiche». La normativa regionale, ad avviso della Presidenza ricorrente, non può derogare a quanto previsto dalle disposizioni tecniche emanate dallo Stato, proprio per non creare disparità di trattamento nelle diverse realtà regionali, in violazione dell'art. 3 della Costituzione. 1.1. ¾ In prossimità dell'udienza l'Avvocatura ha depositato una memoria illustrativa. 2. ¾ Con successivo ricorso, notificato il 3 dicembre 2007 e depositato il 10 dicembre 2007 (reg. ric. n. 48 del 2007), il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questione di legittimità costituzionale degli artt. 39 e 74 della legge della Regione Abruzzo 1° ottobre 2007, n. 34, recante «Disposizioni di adeguamento normativo e per il funzionamento delle strutture». L'art. 39 della legge regionale apporta modifiche alla legge regionale 25 giugno 2007, n. 16. L'art. 39 della legge regionale n. 34 del 2007, con le modifiche apportate all'art. 2 della legge regionale n. 16 del 2007, sostituisce l'obbligo di denuncia di inizio dell'attività di installazione di nuovi depositi di GPL con quello di comunicazione. Esso, tuttavia, lascerebbe assolutamente uguali il numero e il tipo di dichiarazione e di documenti che è necessario allegare a tale dichiarazione. L'art. 39, pertanto, mentre recepisce il rilievo in merito all'incostituzionalità dell'obbligo della denuncia di inizio di attività, per altro verso non alleggerisce l'onerosa necessità di produrre una corposa documentazione. Ad avviso della difesa erariale, la modifica normativa non si sottrae ai dubbi di illegittimità nella parte in cui non modifica la documentazione richiesta a corredo della comunicazione. Anche per il comma 1 dell'art. 39 varrebbe, quindi, l'osservazione formulata nei confronti dell'art. 2 della già impugnata legge regionale n. 16 del 2007, ossia che tale disposizione si pone in contrasto con principi fondamentali della normativa statale e con l'art. 97 della Costituzione, il quale prevede che tutta la pubblica amministrazione deve operare in attuazione del principio di buon andamento e di semplificazione dell'azione amministrativa. Sarebbe riscontrabile un evidente contrasto sia con l'art. 17 del d.lgs. n. 128 del 2006, il quale dispone che l'installazione dei depositi di GPL è considerata, ai fini urbanistici ed edilizi, un'attività edilizia libera, sia con l'art. 1, comma 2, della legge n. 241 del 1990, che prevede il generale e fondamentale principio del divieto di aggravio del procedimento amministrativo. Inoltre, l'ampia documentazione richiesta comporterebbe oneri burocratici gravosi per i soggetti operanti nella Regione Abruzzo, con evidente disparità di trattamento rispetto alle aziende che distribuiscono GPL nelle altre zone del territorio nazionale, in violazione sia dell'art. 3 Cost., sia dei principi di libertà di iniziativa economica di cui all'art. 41 Cost., sia, conseguentemente, del principio di concorrenza, la cui tutela è riservata alla competenza esclusiva statale ai sensi dell'articolo 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione. Per quanto concerne, in particolare, l'art. 39, comma 1, lettera c), della legge regionale, relativo al progetto esecutivo, l'Avvocatura sottolinea che «in ambito nazionale il d.P.R. n. 214 del 2006 ha eliminato l'obbligo di adempimento ai fini della normativa di prevenzione incendi di serbatoi di GPL, tenendo conto di evidenti necessità di semplificazione e snellimento amministrativo, in coerenza con i principi affermati dalla legge n. 241 del 1990 e successive modificazioni, e con la specifica normativa nazionale del settore di recente emanazione». Di qui il contrasto con la legislazione nazionale e la conseguente lesione dei sottesi principi costituzionali. La ricorrente impugna, inoltre, l'art. 74 della medesima legge regionale, il quale disciplina le modalità per la costruzione e l'esercizio degli impianti solari fotovoltaici. Ai fini della salvaguardia di talune finalità di conservazione dei luoghi urbani e rurali richiamate nella prima parte dello stesso articolo, la norma consente, per i soggetti pubblici, la realizzazione di impianti fotovoltaici, purché a una distanza minima di 0,5 Km. da ogni abitazione. Per gli altri soggetti, non sarebbe prevista alcuna disciplina: pertanto ai soggetti privati sembrerebbe integralmente pr eclusa la realizzazione degli impianti. Secondo la difesa erariale, tale irragionevole ed irrazionale esclusione dei soggetti privati da coloro che possono realizzare impianti fotovoltaici configurerebbe una ingiustificata disparità di trattamento, violando gli articoli 3 e 97 della Costituzione; inoltre, contrasterebbe con l'art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, poiché limiterebbe il libero accesso al mercato dell'energia, creando uno squilibrio nella concorrenza fra i diversi modi di produzione della stessa. La disposizione censurata introdurrebbe una moratoria per la realizzazione di tali impianti in tutti i centri urbani (verosimilmente, perché in questi risulta di difficile applicazione la condizione della distanza di 0,5 Km da ogni abitazione). In ogni caso, la materia in cui ricade la disciplina dell'art. 74 della legge regionale - produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia - rientrerebbe nella competenza concorrente regionale, in cui lo Stato deve emanare i principi fondamentali. Con riferimento alla produzione di energia derivante da fonti rinnovabili, i principi fondamentali sarebbero rintracciabili nel decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387, recante «Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell'energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell'elettricità». Tale decreto, oltre a promuovere un maggior contributo delle fonti energetiche rinnovabili alla produzione di elettricità nel relativo mercato italiano e comunitario, favorisce lo sviluppo di impianti di microgenerazione elettrica alimentati da fonti rinnovabili. L'art. 7 dello stesso decreto detta disposizioni specifiche per l'energia solare e prevede che il Ministero dello sviluppo economico, di concerto con il Ministero dell'ambiente, d'intesa con la Conferenza unificata, adotti uno o più decreti con i quali sono definiti i criteri per l'incentivazione della produzione di energia elettrica dalla fonte solare. In attuazione di tale disposizione - prosegue la difesa erariale - è stata emanata una serie di decreti ministeriali, l'ultimo dei quali, il decreto ministeriale del 19 febbraio 2007, prevede che: gli impianti fotovoltaici possono essere realizzati anche disponendo i relativi moduli sugli edifici; gli impianti fotovoltaici con moduli collocati secondo criteri di integrazione architettonica o funzionale su elementi di arredo urbano e viario, superfici esterne degli involucri di edifici, fabbricati e strutture edilizie di qualsiasi funzione e destinazione, non ricadenti in aree naturali protette, non sono assoggettati a proce dura di valutazione di impatto ambientale in ragione dei predetti criteri di integrazione; è privilegiata l'incentivazione di impianti fotovoltaici i cui moduli sono posizionati o integrati nelle superfici esterne degli involucri degli edifici e negli elementi di arredo urbano e viario, tenendo tuttavia conto anche dei maggiori costi degli impianti di piccola potenza, nonché di alcune applicazioni specifiche; possono beneficiare delle tariffe agevolate le persone fisiche, le persone giuridiche, i soggetti pubblici e i condomini di unità abitative o di edifici. Tali disposizioni, ad avviso dell'Avvocatura, costituiscono principi fondamentali in materia di produzione di energia da fonti rinnovabili. L'art. 10, comma 3, del d.lgs. n. 387 del 2003, inoltre, con riferimento agli obiettivi regionali, prevede espressamente che le Regioni possono adottare misure per promuovere l'aumento del consumo di elettricità da fonti rinnovabili nei rispettivi territori, aggiuntive rispetto a quelle nazionali. Viceversa, l'impugnata norma introdotta dal legislatore regionale si muoverebbe in senso limitativo e riduttivo rispetto alla normativa nazionale vigente. Così come formulata, invero, la norma regionale inciderebbe sulla materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia», rientrante nella competenza legislativa concorrente delle Regioni, ai sensi dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione, violando i principi fondamentali in materia di cui agli artt. 7 e 10 del d.lgs. n. 387 del 2003, nonché i decreti ministeriali 28 luglio 2005, 6 febbraio 2006 e 19 febbraio 2007. La norma censurata, inoltre, contrasterebbe con l'articolo 117, primo e secondo comma, lettera a), della Costituzione, perché impedirebbe di fatto il raggiungimento dell'obiettivo di incremento della produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, perseguito dallo Stato in attuazione di specifici impegni internazionali (protocollo di Kyoto 11 dicembre 1997, reso esecutivo con la legge di autorizzazione alla ratifica 1° giugno 2002, n. 120) e comunitari (direttive n. 2001/77/CE, n. 2006/32/CE, e n. 2006/32/CE). In particolare, la moratoria introdotta porterebbe alla mancata realizzazione degli impianti fotovoltaici, previsti per concorrere al raggiungimento dell'obiettivo di cui all'articolo 7, comma 2, lettera e), del d.lgs. n. 387 del 2003. Infine, secondo la Presidenza ricorrente, la norma della legge regionale, consentendo ai soggetti pubblici di realizzare impianti per la produzione ad energia tramite la conversione fotovoltaica ad una distanza minima di 500 m. da ogni abitazione (intesa, ai sensi dello stesso articolo, quale ambiente interno), istituirebbe implicitamente la disciplina di una servitù di "fotovoltaico". La norma, infatti, distingue tra ambiente interno, inteso quale abitazione, ed ambiente esterno, inteso quale luogo circostante l'abitazione, e autorizza i soggetti pubblici ad installare i suddetti impianti a una distanza minima di 500 metri da ogni abitazione, nel rispetto delle normative vigenti. Il soggetto pubblico quindi potrebbe, di fatto, incidere sulla proprietà privata, obbligando a dare il passaggio sulla proprietà altrui. La norma impugnata finirebbe così con il disciplinare materie, quali la proprietà e la servitù, riservate in via esclusiva dall'art. 117, secondo comma, lettera i), della Costituzione al legislatore nazionale. 2.1. ¾ Con successivo atto, notificato il 2 aprile e depositato l'8 aprile 2008, l'Avvocatura generale dello Stato, previa deliberazione assunta nella seduta del Consiglio dei ministri nella seduta del 19 marzo 2008, ha rinunciato all'impugnativa dell'art. 74 della legge della Regione Abruzzo 1° ottobre 2007, n. 34. Ciò in quanto la Regione Abruzzo - recependo i rilievi governativi in merito alla lamentata illegittimità costituzionale - ha abrogato il citato art. 74 con l'art. 2 della legge regionale 31 dicembre 2007, n. 47 (Disposizioni finanziarie per la redazione del bilancio annuale 2008 e pluriennale 2008-2010 della Regione Abruzzo - legge finanziaria 2008). 3. ¾ In data 23 settembre 2008 la Regione Abruzzo ha depositato un atto di accettazione della rinuncia parziale al ricorso formalizzata dall'Avvocatura generale dello Stato. Considerato in diritto 1. ¾ Con due distinti ricorsi, il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato disposizioni della legge della Regione Abruzzo 25 giugno 2007, n. 16, recante «Monitoraggio dei depositi di gas di petrolio liquefatto (GPL) con capacità commerciale non superiore a 13 mc. e conseguenti misure applicative dei principi di salvaguardia e controllo di cui al decreto ministeriale 23 settembre 2004 nonché di quelli introdotti dal decreto del Ministero delle attività produttive n. 329/2004» e della legge della Regione Abruzzo 1° ottobre 2007, n. 34 (Disposizioni di adeguamento normativo e per il funzionamento delle strutture). Le norme impugnate con il primo ricorso (reg. ric. n. 38 del 2007) sono gli artt. 2, comma 2, e 4, comma 2, della legge della Regione Abruzzo n. 16 del 2007: l'uno prevede che i depositi di GPL di nuova istallazione sono soggetti alla denuncia, corredata da documentazione, di inizio attività per la posa in opera, l'istallazione e l'esercizio del deposito, e che, in mancanza della prescritta documentazione, le amministrazioni comunali comunicano all'interessato il divieto di proseguimento dell'attività e la rimozione dei suoi effetti; l'altro detta disposizioni in materia di verifiche e controlli. L'Avvocatura erariale prospetta il contrasto dell'art. 2, comma 2, con gli artt. 3, 41, 97 e 117 della Costituzione e dell'art. 4, comma 2, con gli artt. 3 e 117 della Costituzione. Mentre l'art. 17 del decreto legislativo 22 febbraio 2006, n. 128, considera l'installazione dei depositi di gas di petrolio liquefatti di capacità complessiva non superiore a 13 mc. attività edilizia libera ai fini urbanistici ed edilizi, e dunque soggetta a semplice comunicazione e non a denuncia di inizio attività, la legge regionale assoggetterebbe detta installazione a denuncia di inizio attività, in contrasto anche con il generale e fondamentale principio del divieto di aggravio del procedimento di cui all'art. 1, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241, e successive modificazioni. Inoltre, l'ampia documentazione da allegare alla denuncia di inizio attività - e, tra essa, il progetto esecutivo con dettagliata indicazione dei presidi di protezione, laddove in ambito nazionale il d.P.R. 12 aprile 2006, n. 124, ha eliminato l'obbligo della redazione del progetto esecutivo ai fini della normativa di prevenzione incendi dei serbatoi di GPL - comporterebbe oneri burocratici gravosi per i soggetti interessati operanti nella Regione Abruzzo, con evidente disparità di trattamento rispetto alle aziende che distribuiscono GPL nelle altre zone del territorio nazionale, in violazione sia dell'art. 3 della Costituzione, sia dei p rincipi di libertà di iniziativa economica di cui all'art. 41 della Costituzione e, conseguentemente, di concorrenza, la cui tutela è riservata alla competenza esclusiva statale, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione. Infine, la disciplina delle verifiche si sovrapporrebbe alla normativa nazionale, che già prevede apposite verifiche periodiche, e derogherebbe a quanto previsto dalle disposizioni tecniche emanate dallo Stato, così creando disparità di trattamento nelle diverse realtà regionali. Le norme impugnate con il secondo ricorso (reg. ric. n. 48 del 2007) sono gli artt. 39 e 74 della legge della Regione Abruzzo n. 34 del 2007. L'art. 39 della legge regionale n. 34 del 2007, modificando l'art. 2 della legge regionale n. 16 del 2007, ha sostituito l'obbligo di denuncia di inizio dell'attività di installazione di nuovi depositi di GPL con quello di comunicazione, ma - lamenta il Presidente del Consiglio ricorrente - avrebbe lasciato assolutamente uguali il numero e il tipo di dichiarazione e di documenti che è necessario allegare a tale dichiarazione, non alleggerendo così l'onere di produrre una corposa documentazione e mantenendo l'obbligo del progetto esecutivo ai fini del rispetto della normativa di prevenzione incendi. Di qui la prospettata violazione degli artt. 3, 41, 97 e 117, primo comma, secondo comma, lettere a), e) e l), e terzo comma, della Costituzione. L'art. 74 della medesima legge regionale disciplina le modalità per la costruzione e l'esercizio degli impianti solari fotovoltaici. Di tale norma la difesa erariale prospetta il contrasto con gli artt. 3, 97 e 117 della Costituzione. 2. ¾ Poiché i ricorsi coinvolgono questioni almeno in parte connesse, i relativi giudizi possono essere riuniti per essere decisi con unica pronuncia. 3. ¾ Successivamente alla proposizione del ricorso iscritto al n. 48 del registro ricorsi del 2007, la Regione Abruzzo ha abrogato l'art. 74 della legge regionale n. 34 del 2007 con l'art. 2 della legge regionale 31 dicembre 2007, n. 47 (Disposizioni finanziarie per la redazione del bilancio annuale 2008 e pluriennale 2008-2010 della Regione Abruzzo - legge finanziaria regio nale 2008). L'Avvocatura generale dello Stato, con atto notificato il 2 aprile 2008 e depositato l'8 aprile 2008, ha quindi dichiarato di rinunciare all'impugnativa del citato art. 74, secondo la conforme delibera della Presidenza del Consiglio dei ministri in data 19 marzo 2008. La rinuncia parziale al ricorso, accettata dalla controparte, comporta, ai sensi dell'art. 25 delle norme integrative per i giudizi dinanzi a questa Corte, l'estinzione del giudizio avente ad oggetto l'art. 74 della legge della Regione Abruzzo n. 34 del 2007. 4. ¾ Deve dichiararsi la cessazione della materia del contendere in ordine alla questione di legittimità costituzionale concernente il testo originario dell'art. 2, comma 2, della legge della Regione Abruzzo n. 16 del 2007, impugnato con il ricorso iscritto al n. 38 del registro ricorsi del 2007. Difatti, successivamente alla proposizione dell'impugnativa, la disposizione censurata, che inizialmente assoggettava i depositi di GPL di nuova installazione alla denuncia di inizio attività per la posa in opera, l'installazione e l'esercizio del deposito, è stata sostituita ad opera dell'art. 39 della legge n. 34 del 2007, che prevede l'obbligo di inoltrare semplice comunicazione all'ufficio urbanistico del comune di competenza per i soggetti che intendono installare nuovi depositi di GPL con capacità complessiva non superiore ai 13 mc. Per effetto della sopravvenienza di tale disposizione, la cui efficacia retroagisce al momento di entrata in vigore della legge novellata, sono venuti meno i motivi della controversia e l'interesse del Presidente del Consiglio dei ministri ad ottenere una pronuncia di questa Corte con riguardo al testo originario del citato art. 2, comma 2, tanto più che non consta che esso abbia avuto medio tempore applicazione. 5. ¾ La questione avente ad oggetto l'art. 2, comma 2, della legge regionale n. 16 del 2007, nel testo risultante dalla sostituzione operata dall'art. 39 della legge regionale n. 34 del 2007, non è fondata. La disposizione novellata sostituisce, per i soggetti che intendono installare nuovi depositi di GPL con capacità complessiva non superiore ai 13 mc., l'obbligo di denuncia di inizio attività con quello di semplice comunicazione. Essa risulta, pertanto, non in contrasto con la disciplina dettata dal d.lgs. 22 febbraio 2006, n. 128, il quale, nel dettare norme sull'installazione e l'esercizio degli impianti di riempimento, travaso e deposito di GPL, nonché sull'esercizio dell'attività di distribuzione e vendita, prevede, all'art. 17, che l'installazione dei depositi di capacità complessiva non superiore a 13 mc. è considerata, ai fini urbanistici ed edilizi, attività edilizia libera, ai sensi dell'art. 6 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, e successi ve modificazioni. La doglianza del ricorrente, secondo cui la disposizione novellata lascerebbe comunque intatta l'onerosa necessità di produrre una corposa documentazione a corredo della comunicazione, muove da un inesatto presupposto interpretativo. Invero, per un verso, la comunicazione da inviare all'ufficio urbanistico del comune di competenza deve essere bensì corredata dalla documentazione relativa alla indicazione del soggetto installante, alla località ed ubicazione del deposito, alla dichiarazione che il manufatto rientra nella tipologia degli apparecchi di cui al d.lgs. 25 febbraio 2000, n. 93, relativo all'attuazione della direttiva 97/23/CE in materia di attrezzature a pressione, nonché al progetto esecutivo con indicazione dei presidi di protezione; ma - contrariamente a quanto ritenuto dalla difesa erariale - l'incompletezza della documentazione a corredo o il mancato invio della stessa non comporta il divieto per l'interessato di prosecuzione dell'attività, giacché, per espressa previsione (c omma 3 dell'art. 2), in caso di omessa comunicazione, l'Assessorato regionale alla sanità procede d'ufficio per il tramite del proprio servizio ispettivo a reperire i dati necessari. Per altro verso, ai sensi del novellato art. 2, comma 1, lettera c), il progetto esecutivo con indicazione dei presidi di protezione posti a tutela del manufatto non è più necessario per serbatoi fissi di capacità complessiva non superiore a 5 mc.: anche sotto questo aspetto, pertanto, la disciplina regionale si conforma alle linee di semplificazione delle procedure di prevenzione degli incendi relative ai depositi di GPL, dettate con il d.P.R. 12 aprile 2006, n. 214. 6. ¾ Non fondata è la questione concernente l'art. 4, comma 2, della legge regionale n. 16 del 2007. La norma denunciata - collocata in un più ampio contesto che attribuisce all'Assessorato regionale alla sanità il compito di eseguire, per il tramite delle ASL competenti per territorio, i controlli relativi alla esecuzione delle verifiche di cui al decreto ministeriale 23 settembre 2004 - prevede in particolare che, in occasione di ogni ispezione, sono controllati tutti i presidi di sicurezza e le protezioni attive e passive di ciascun deposito, e sono verificate l'effettiva esistenza e funzionalità e, in caso di nuova installazione, la rispondenza ai dati di cui all'art. 2 della medesima legge; e che la ASL competente valuta, nel rispetto della normativa di settore, l'adozione di ogni ed opportuno provvedimento anche relativo al divieto di prosecuzione dell'esercizio del serbatoio. La disposizione impugnata non deroga alle norme tecniche previste dalla disciplina statale. Innanzitutto, l'art. 2 della legge regionale impone alla ASL competente di osservare la normativa di settore che, evidentemente, è anche quella statale; in secondo luogo, la stessa legge regionale non tocca il potere dello Stato di emanare, a norma dell'art. 1, comma 7, della legge 23 agosto 2004, n. 239, le regole di prevenzione degli incendi e degli infortuni sul lavoro e la tutela della salute del personale addetto agli impianti di deposito di GPL, né pone una disciplina diversa ed ulteriore rispetto a quella fissata, in tema di sicurezza per la progettazione, l'installazione e l'esercizio dei depositi di GPL, dal decreto ministeriale 29 febbraio 1988 e dal decreto ministeriale 23 febbrai o 2004, che del primo costituisce modifica. Piuttosto, la norma denunciata - la quale si muove nel quadro delle regole tecniche dettate dai citati decreti ministeriali, che già prevedono verifiche di omologazione di primo o nuovo impianto e verifiche decennali - mira a rendere effettiva l'esecuzione delle prescritte verifiche: a tal fine essa demanda alle ASL competenti il compito di controllare tutti i presidi di sicurezza e le protezioni attive e passive e, ove il controllo manifesti carenze o difetti di funzionalità, di emanare le opportune misure conformative e inibitorie. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara estinto il giudizio concernente l'art. 74 della legge della Regione Abruzzo 1° ottobre 2007, n. 34 (Disposizioni di adeguamento normativo e per il funzionamento delle strutture), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso, indicato in epigrafe, iscritto al n. 48 del registro ricorsi del 2007; 2) dichiara la cessazione della materia del contendere in ordine alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 2, della legge della Regione Abruzzo 25 giugno 2007, n. 16, recante «Monitoraggio dei depositi di gas di petrolio liquefatto (GPL) con capacità commerciale non superiore a 13 mc. e conseguenti misure applicative dei principi di salvaguardi e controllo di cui al decreto ministeriale 23 settembre 2004 nonché di quelli introdotti dal decreto del Ministero delle attività produttive n. 329/2004», promossa, in riferimento agli artt. 3, 41, 97 e 117 della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso, indicato in epigrafe, iscritto al n. 38 del registro ricorsi del 2007; 3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 2, della legge della Regione Abruzzo 25 giugno 2007, n. 16, nel testo sostituito ad opera dell'art. 39 della legge della Regione Abruzzo 1° ottobre 2007, n. 34, promossa, in riferimento agli artt. 3, 41, 97 e 117 della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso, indicato in epigrafe, iscritto al n. 48 del registro ricorsi del 2007; 4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 2, della legge della Regione Abruzzo 25 giugno 2007, n. 16, promossa, in riferimento agli artt. 3 e 117 della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso, indicato in epigrafe, iscritto al n. 38 del registro ricorsi del 2007. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 ottobre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Paolo MADDALENA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 23 ottobre 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ORDINANZA N. 343 ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai Signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promosso con ordinanza del 29 giugno 2007 dalla Corte d'Appello di Bari nel procedimento penale a carico di Barnaba Vincenzo ed altri, iscritta al n. 782 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale dell a Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 9 luglio 2008 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro. Ritenuto che, con ordinanza del 29 giugno 2007, la Corte d'Appello di Bari ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui esclude l'applicabilità della nuova disciplina della prescrizione nei processi pendenti dinanzi alla corte d'appello alla data di entrata in vigore della suddetta legge; che la Corte rimettente riferisce che gli imputati hanno proposto appello avverso condanne riportate in primo grado; che la questione sollevata - ad avviso del rimettente - è rilevante nel giudizio a quo perché i reati ascritti agli imputati risulterebbero già prescritti, con conseguente obbligo di pronunciare il proscioglimento degli stessi ai sensi dell'art. 129 del codice di procedura penale per estinzione dei reati, qualora fossero applicabili i nuovi termini di prescrizione, fissati dall'art. 157 del codice penale, nel testo sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, se non vi ostasse il disposto dell'art. 10, terzo comma, della stessa legge, per il quale spiegherebbe ulteriore efficacia la normativa abrogata, in ragione dello stato del processo all'atto dell'entrata in vigore della modifica dell'art. 157 cod. pen.; che, secondo la Corte d'appello di Bari, inoltre, la questione sarebbe non manifestamente infondata, in quanto la legge n. 251 del 2005 ha introdotto nuovi termini di prescrizione che, per molte ipotesi di reato, incluse quelle contestate agli imputati, risultano più brevi di quelli precedentemente previsti dal codice penale; che la modifica legislativa è stata operata allo scopo di ridurre, in linea generale (e salvo specifiche eccezioni per reati di particolare gravità), il periodo di tempo durante il quale l'imputato può restare assoggettato alle possibili conseguenze dell'intervento penale, con l'intento di incidere anche per tal via sulla durata complessiva dei processi; che la modifica normativa del regime della prescrizione non è stata motivata da finalità contingenti, né appare mirata a correggere il regime giuridico di singole ipotesi di reato, ma rappresenta il frutto di una generale revisione, per tutti i reati, dei termini di prescrizione degli stessi, ridisegnati sulla base di parametri di calcolo in parte diversi, ed in larga parte più brevi di quelli precedentemente vigenti nel nostro ordinamento penale; che l'art. 10 della stessa legge ha introdotto, però, nel testo risultante a seguito della sentenza n. 393 del 2006, un discrimine di natura temporale, in ordine alla applicabilità della nuova disciplina sostanziale dell'estinzione del reato per prescrizione, restando i nuovi termini più brevi inapplicabili a quei reati per i quali il relativo giudizio penale fosse, alla data dell'8 dicembre 2005, già entrato in una fase di impugnazione, di merito o di legittimità; che tale discrimine comporta l'ultrattività della normativa precedente sui termini di prescrizione, in aperta deroga al principio generale fissato dall'art. 2 cod. pen. secondo cui «se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile»; che, ad avviso della rimettente, tale discrimine appare di dubbia ragionevolezza, e, conseguentemente, non risulta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale per contrasto con l'art. 3 della Costituzione; che - ricorda il Collegio a quo - la Corte costituzionale, nella sentenza n. 393 del 2006, ha riaffermato esplicitamente la natura sostanziale dell'istituto della prescrizione penale; che, secondo la rimettente, da ciò discende che l'istituto della prescrizione non può non essere sottoposto ai medesimi principi generali che regolano tutti gli altri istituti del diritto penale sostanziale in occasione delle modifiche normative, ivi compreso il principio dell'applicazione della disciplina più favorevole, sancito dall'art. 2 cod. pen.; che, conseguentemente, non può non apparire incongruo - prosegue il Collegio a quo - che il mutamento generalizzato della rilevanza penale nel tempo dei fatti di reato, voluto dal legislatore con un disegno unitario di rivisitazione generale dei termini prescrizionali per tutti i reati, sia poi in concreto applicato in maniera differenziata in funzione della particolare fase processuale in cui trovasi il processo penale al momento della introduzione nell'ordinamento di tali nuove valutazioni sostanziali e finisca in tal modo per condurre a differenti discipline dell'estinzione del reato pur per reati identici e commessi nella stessa epoca; che la scelta del legislatore del 2005 appare alla Corte rimettente a maggior ragione incongrua ove si pensi che il grado di avanzamento del processo penale non esprime di per sé alcun valore di natura sostanziale, ma rappresenta unicamente un mero dato temporale, legato a fattori molteplici ed estremamente diversificati, derivanti dall'attività o meno di molti soggetti, e spesso anche scaturente da pura casualità; che, inoltre, la norma impugnata - rileva la stessa Corte - deroga all'art. 2 cod. pen., proprio per quei fatti che, quantomeno sulla base del momento processuale considerato, sono più remoti nel tempo, e, dunque, più affievolite le esigenze di tutela penale; che, infine, ad avviso del Collegio a quo, non sembra poter giustificare il discrimine temporale introdotto dalla legge del 2005 il rilievo che il passaggio formale di grado del processo incide sul corso della prescrizione interrompendola; che l'effetto interruttivo che è proprio di diverse attività processuali in tutti i gradi di giudizio comunque non incide - si osserva nella ordinanza di rimessione - sulla durata del termine massimo di prescrizione, che non muta nel suo limite assoluto, e che, rappresentando l'espressione di una valutazione astratta di gravità del reato e della correlata scelta di mantenerne gli effetti, non può che operare egualmente per tutti i fatti oggetto di accertamento penale, e non può essere differenziata in base al concreto avanzamento del singolo processo; che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata infondata in quanto, ferma restando la necessità di rispettare il principio di retroattività della legge penale più favorevole al reo, il legislatore può graduare nel tempo l'applicazione dei più favorevoli termini di prescrizione, senza per questo violare il principio di uguaglianza. Considerato che, successivamente all'emanazione della ordinanza di rimessione questa Corte, con sentenza n. 72 del 2008, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251, sollevata in riferimento all'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui esclude l'applicabilità della nuova disciplina della prescrizione nei processi pendenti dinanzi alla corte d'appello alla data di entrata in vigore della suddetta legge, per la ragionevolezza della scelta operata, ulteriormente comprovata dal rilievo che tale scelta «mira ad evitare la dispersione delle attività processuali già compiute all'entrata in vig ore della legge n. 251 del 2005, secondo cadenze calcolate in base ai tempi di prescrizione più lunghi vigenti all'atto del loro compimento, e così tutela interessi di rilievo costituzionale sottesi al processo (come la sua efficienza e la salvaguardia dei diritti dei destinatari della funzione giurisdizionale)»; che il giudice a quo non fornisce alcun argomento diverso o ulteriore rispetto a quelli già esaminati e disattesi; che la questione va, quindi, dichiarata manifestamente infondata. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, della norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dalla Corte d'Appello di Bari, con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 ottobre 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Alfio FINOCCHIARO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 23 ottobre 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 12, secondo comma, della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), in combinato disposto con l'art. 48 (ora 51), lettera f-bis), del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), come modificato dall'art. 13, comma 1, del decreto legislativo 23 dicembre 1999, n. 505 (Disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi 2 settembre 1997, n. 314, 21 novembre 1997, n. 461, 18 dicembre 1997, n. 466 e n. 467 , in materia di redditi da capitale, di imposta sostitutiva della maggiorazione di conguaglio e di redditi di lavoro dipendente), promosso con ordinanza del 13 luglio 2007 dal Tribunale di Parma nel procedimento civile vertente tra la Chiesi Farmaceutici s.p.a. e l'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) ed altro, iscritta al n. 845 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di costituzione dell'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 23 settembre 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella; uditi l'avvocato Luigi Caliulo per l'INPS e l'avvocato dello Stato Gianna Maria De Socio per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto che nel corso di un giudizio promosso davanti al Tribunale di Parma la società Chiesi Farmaceutici s.p.a. chiedeva la dichiarazione di infondatezza di un accertamento ispettivo con il quale l'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) le aveva contestato di non aver assoggettato a contribuzione previdenziale le somme da essa erogate ai propri dipendenti a titolo di rimborso delle rette di frequenza delle scuole materne (recte: "scuole dell'infanzia") dei loro figli; che il Tribunale adìto ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4 e 31 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'articolo 12, secondo comma, della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), in combinato disposto con l'art. 51 (ex 48), lettera. f-bis), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), come modificato dall'art. 13, comma 1, del decreto legislativo 23 dicembre 1999, n. 505 (Disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi 2 settembre 1997, n. 314, 21 novembre 1997, n. 461, 18 dicembre 1997, n. 466 e n. 467, in materia di redditi da capitale, di imposta sostitutiva della maggiorazione di conguaglio e di redditi di lavoro dipendente), nella parte in cui prevede che non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente le somme erogate dal datore di lavoro alla generalità dei propri dipendenti o a categorie di dipendenti per la frequenza di asili nido da parte dei familiari indicati dall'art. 12 del medesimo d.P.R. n. 917 del 1986 e successive modificazioni, e non anche le somme che il datore di lavoro eroga alla generalità dei propri dipendenti, o a categorie di dipendenti, per la frequenza delle scuole dell'infanzia; che, secondo il rimettente, le somme erogate dal datore di lavoro per la frequenza di queste ultime scuole, proprio perché non previste dal citato art. 51, lettera f-bis), del d.P.R. n. 917 del 1986, restano soggette al calcolo dei contributi di previdenza ed assistenza a differenza di quanto avviene per le somme erogate per la frequenza di asili nido; che, premessa la rilevanza della questione, originata dalla pretesa creditoria avanzata dall'INPS in riferimento alle somme erogate dalla società ricorrente al predetto titolo, osserva il rimettente che le due fattispecie sono accomunate da una identica ratio, ravvisabile nella necessità di incentivare l'attribuzione alle famiglie di un sostegno economico per la frequenza, da parte dei figli sin dal terzo mese di vita, di adeguate strutture che, da un lato, consentano la formazione e l'apprendimento dei bambini, e, dall'altro, agevolino i genitori nelle loro necessità di lavoro; che, dopo aver richiamato i principi costituzionali coinvolti nella questione (artt. 3, 4 e 31 Cost.), il Giudice del lavoro di Parma richiama l'allegato A previsto dall'art. 12, comma 2 del d.lgs. 19 febbraio 2004, n. 59 (Definizione delle norme generali relative alla scuola dell'infanzia e al primo ciclo dell'istruzione, a norma dell'articolo 1 della legge 28 marzo 2003, n. 53), sottolineando che l'art. 1 del suddetto decreto legislativo afferma che la scuola materna contribuisce alla realizzazione del principio di uguaglianza delle opportunità ed alla rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini; che, nel costituirsi in giudizio, l'INPS ha rilevato che il rimettente trascura l'oggettiva diversità delle situazioni poste a confronto, sia in ordine alle modalità di accesso alle strutture, sia in relazione all'età dei bambini interessati, né considera la discrezionalità del legislatore nell'assecondare le esigenze di contenimento delle spese a carico dello Stato; che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri - rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato - eccependo l'inammissibilità della questione in quanto il rimettente si limita a contestare la tesi difensiva dell'INPS, senza individuare esattamente la disciplina applicabile alle scuole materne statali, e, quindi, i termini esatti dell'asserita disparità di trattamento, ed eccependo altresì l'assoluta genericità del riferimento operato dal rimettente agli artt. 4 e 31 Cost.; che, in ogni caso - secondo la difesa erariale - anche in riferimento all'art. 3 Cost., la questione sarebbe manifestatamente infondata in quanto le situazioni poste a confronto non sono omogenee; che, infatti, la frequenza delle scuole dell'infanzia (nuova denominazione delle scuole materne, ai sensi dell'art 12 del d.lgs. n. 59 del 2004) è gratuita, il che dimostra come il legislatore abbia predisposto differenti sistemi per la tutela della famiglia, dell'istruzione e del lavoro, proprio in ragione della necessità di differenziare la disciplina con riferimento alla incomparabilità delle esigenze dei bambini compresi fra i tre mesi ed i tre anni di vita rispetto quelli di età superiore; che, in prossimità dell'udienza, l'INPS ha depositato memoria illustrativa ribadendo gli argomenti esposti in precedenza. Considerato che il Tribunale di Parma dubita della legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 12, secondo comma, della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), e 48 (ora 51), lettera f-bis), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), come modificato dall'art. 13, comma 1, del decreto legislativo 23 dicembre 1999, n. 505 (Disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi 2 settembre 1997, n. 314, 21 novembre 1997, n. 461, 18 dicembre 1997, n. 466 e n. 467, in materia di redditi da capitale, di imposta sostitutiva della maggiorazione di conguaglio e di redditi di lavoro dipendente), nella parte in cui prevede che non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente le somme erogate dal datore di lavoro alla generalità dei propri dipendenti, o a categorie di dipendenti, per la frequenza di asili nido da parte dei familiari indicati dall'art. 12 del medesimo d.P.R. n. 917 del 1986 e successive modificazioni, e non anche le somme che il datore di lavoro eroga alla generalità dei propri dipendenti, o a categorie di dipendenti, per la frequenza delle scuole dell'infanzia ; che, a giudizio del rimettente, identiche essendo le situazioni poste a confronto, la scelta operata soltanto con riguardo alle somme riferite alla frequenza degli asili nido non sarebbe coerente con i principi costituzionali di parità di trattamento (art. 3 Cost.), di tutela della famiglia (art. 31 Cost.) e di pari opportunità di accesso al lavoro (art. 4 Cost.); che la questione di legittimità costituzionale è rilevante ai fini della decisione della controversia pendente innanzi al Tribunale rimettente, poiché incide direttamente sulla fondatezza della domanda proposta dalla società ricorrente, la quale contesta la pretesa dell'INPS all'integrale recupero di contributi sulle somme da essa erogate ai propri dipendenti a titolo di rimborso delle rette di frequenza delle scuole dell' infanzia da parte dei loro figli; che non si ravvisa alcuno dei profili di inammissibilità della questione sollevati dalla difesa erariale per non aver il rimettente chiarito il contenuto della disciplina sulla cui base la ricorrente società sarebbe obbligata a versare i contributi sulle somme erogate a copertura (parziale o totale) delle rette di frequenza delle scuole dell'infanzia; che il profilo di inammissibilità non ha pregio, essendo del tutto pacifica l'avvenuta erogazione delle somme previste dalla specifica disciplina collettiva; che, quanto ai parametri costituzionali invocati dal rimettente, deve rilevarsi che - conformemente all'eccezione dell'Avvocatura dello Stato - del tutto apodittico è il riferimento agli artt. 4 e 31 della Costituzione, che si esaurisce in un vago richiamo ai principi di pari opportunità nell'accesso al lavoro, ed alla tutela della famiglia, il che rende manifestamente inammissibile la questione in relazione ai citati parametri; che, invece, appropriato è il riferimento all'art. 3 Cost. sotto il profilo della irragionevolezza del diverso trattamento normativo riservato dalla norma censurata alle due situazioni poste a confronto; che, nel merito, la questione è manifestamente infondata; che l'art. 12, secondo comma della legge 30 aprile 1969, n. 153 - in combinato disposto con l'art. 48 (ora 51), lettera f-bis), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, come modificato dall'art. 13, comma 1, del decreto legislativo 23 dicembre 1999, n. 505 - prevede che non concorrono a formare il reddito di lavoro dipendente, costituente base imponibile per il calcolo dei contributi di previdenza, le somme erogate dal datore di lavoro alla generalità dei propri dipendenti o a categorie di dipendenti per la frequenza di asili nido da parte dei familiari indicati dall'art. 12 del medesimo d.P.R. n. 917 del 1986 e successive modificazioni; che lo stesso trattamento non è previsto per le somme che il datore di lavoro eroga alla generalità dei propri dipendenti, o a categorie di dipendenti, in adempimento di quanto disposto dalla contrattazione collettiva, per la frequenza delle "scuole dell' infanzia"; che le due situazioni poste a confronto presentano aspetti differenziali sufficienti a giustificare il diverso regime contributivo riservato a ciascuna di esse; che, infatti, le somme erogate per la frequenza dei figli dei dipendenti alle scuole dell'infanzia si traducono, comunque, in un "incremento netto del reddito", stante la gratuità di tale servizio scolastico prevista dall'art. 99, comma 3, del d. lgs. 16 aprile 1994, n. 297 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado); che, al contrario, le somme erogate per la frequenza di asili nido da parte dei familiari indicati dall'art. 12 del d.P.R. n. 917 del 1986 sono destinate a coprire le rette già sostenute dai dipendenti per la partecipazione dei propri figli (da tre mesi a tre anni di età) agli asili nido, essendo del tutto infrequenti i casi in cui tali strutture siano già operative a carico dell'azienda; che, a parte l'incomparabilità delle esigenze dei bambini compresi fra i tre mesi ed i tre anni di vita, rispetto a quelli di età superiore, nonché la discrezionalità del legislatore nell'assecondare esigenze di contenimento delle spese a carico dello Stato, il carattere straordinario ed eccezionale dell'intervento legislativo di favore costituito dalla normativa censurata rende quest'ultima intrinsecamente inidonea a fungere da tertium comparationis per estendere tale disciplina derogatoria ai casi non inclusi (ordinanza n. 178 del 2006); che, a quest'ultimo riguardo, va rilevato che le eccezioni al principio generale fissato dall'art. 12, primo comma, della legge 30 aprile 1969, n. 153, per il quale costituisce retribuzione imponibile ai fini della contribuzione assicurativa ogni erogazione fatta dai datori di lavoro a favore dei lavoratori in dipendenza del rapporto di lavoro, hanno carattere tassativo, sicché i titoli in relazione ai quali vi è esenzione totale o parziale dalla contribuzione non possono essere ampliati né in via analogica né tramite interpretazione estensiva; che, pertanto, la questione è manifestamente infondata. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 12, secondo comma, della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), e dell'art. 48 (ora 51), lettera f-bis), del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi), come modificato dall'art. 13, comma 1, del decreto legislativo 23 dicembre 1999, n. 505 (Disposizioni integrative e correttive dei decreti legislativi 2 settembre 1997, n. 314,21 novembre 1997, n. 461, 18 dicembre 1997, n. 466 e 467, in materia di redditi da capitale, di imposta sostitutiva della maggiorazione di conguaglio e di redditi di lavoro dipendente), sollevata, in riferimento agli articoli 4 e 31 della Costituzione, dal Tribunale di Parma con l'ordinanza indicata in epigrafe; dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità delle medesime disposizioni sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Parma con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 ottobre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Luigi MAZZELLA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 23 ottobre 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge della Regione siciliana 23 dicembre 2000, n. 28 (Proroga delle cambiali agrarie ed altre norme in materia di agricoltura. Norme in materia di usi civici), promossi con due ordinanze del 19 luglio 2007 dalla Corte d'appello di Milano nei procedimenti civili rispettivamente vertenti tra De Gregorio Massimo e la Barclays Bank PLC e tra De Gregorio Giovanni e la stessa Barclays Bank PLC, iscritte ai nn. 55 e 56 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visti gli atti di costituzione della Barclays Bank PLC nonché gli atti di intervento della Regione siciliana; udito nell'udienza pubblica del 23 settembre 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano; uditi gli avvocati Bruno Andreozzi, Susanna Buonvino e Fulvio Di Domenico per la Barclays Bank PLC e Beatrice Fiandaca per la Regione siciliana. Ritenuto che, con due distinte ordinanze, aventi tuttavia identico tenore, la Corte di appello di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge della Regione siciliana 23 dicembre 2000, n. 28 (Proroga delle cambiali agrarie ed altre norme in materia di agricoltura. Norme in materia di usi civici), nella parte in cui prevede che «gli istituti e gli enti esercenti il credito agrario prorogano al 31 dicembre 2001 le passività di carattere agricolo, ivi compresi i ratei relativ i a prestiti di dotazione per l'acquisto di macchine agricole ed animali, già scadute o che andranno a scadere entro il 30 giugno 2001, ancorché già prorogate, purché contratte anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge»; che la Corte rimettente riferisce di essere chiamata a giudicare, in sede di gravame, in ordine alle opposizioni proposte dai due titolari di un'azienda agricola avverso il decreto ingiuntivo emesso nei loro confronti dal Tribunale di Milano, su ricorso presentato da un istituto di credito, col quale è stato loro ingiunto il pagamento di una somma di danaro in restituzione di un «prestito» ricevuto; che il giudice a quo, nel sintetizzare le precedenti fasi dei giudizi, precisa: che le opposizioni si basano sull'avvenuta proroga delle passività di carattere agricolo prevista dalla disposizione normativa censurata; che esse sono state rigettate in primo grado in quanto il tribunale ha ritenuto la inapplicabilità di questa alle fattispecie al suo esame; che, nell'impugnare le sentenze di rigetto delle opposizioni, gli appellanti hanno contestato tale affermazione, rilevando che, essendo stato concluso in Palermo il contratto di mutuo, ad esso va applicata la legge regionale siciliana in riferimento al luogo dove è stato concluso l'accordo; che, osserva ancora la Corte rimettente onde fondare la rilevanza nei giudizi a quibus del dubbio di costituzionalità della norma censurata, l'assunto posto a base della sentenza del giudice di prime cure «appare suscettibile di differente valutazione»; che, sempre secondo la Corte lombarda, assume perciò rilevanza la questione relativa alla conformità dell'art. 1 della legge reg. n. 28 del 2000 ai principi dell'ordinamento statale, in particolare a quelli del diritto civile in tema di «regole sul completo e tempestivo adempimento delle obbligazioni e sulla responsabilità per inadempimento», oltre che al «contrasto fra la citata norma e il principio sancito dall'art. 3 della Costituzione»; che, ad avviso del rimettente, la disposizione censurata «integra, nella sua assolutezza ed indiscriminata omnicomprensività una vera e propria interferenza del potere legislativo regionale con la disciplina dei diritti soggettivi», in specie con quella avente ad oggetto l'adempimento delle obbligazioni, tanto più ove si tenga presente che è principio riconosciuto e condiviso che il diritto privato costituisce materia a sé stante in relazione alla quale non sono consentite intromissioni, neppure ove esse siano connesse con la cura di «interessi pubblici» concernenti «materie regionali»; che si è costituita nei due giudizi di legittimità costituzionale la Barclays Bank PLC, concludendo per la fondatezza della questione; che, secondo la parte privata, la norma censurata sarebbe incostituzionale in quanto violerebbe sia il limite territoriale di applicazione delle leggi regionali, potendo queste disciplinare solo «fattispecie che si esauriscono nel territorio della Regione stessa», sia quello relativo alla competenza materiale delle Regioni, interferendo con la materia del diritto civile, cosa che, per costante giurisprudenza della Corte, è preclusa alla legislazione regionale; che è, altresì, intervenuta nei giudizi la Regione siciliana, contestando sia la ammissibilità che la fondatezza della questione di legittimità costituzionale; che, in particolare, la difesa regionale osserva che il giudice rimettente non ha esperito alcun tentativo volto ad assegnare alla disposizione censurata un significato conforme a Costituzione, potendo questo essere rinvenuto ove, come opinato dalla difesa medesima, essa fosse interpretata nel senso di costituire un mero «invito a porre in essere la prevista proroga» onde realizzare, nel rispetto della volontà delle parti, l'interesse generale sotteso alla disposizione stessa; che la questione sarebbe, altresì, inammissibile sia per la genericità delle censure formulate dalla Corte di appello di Milano, sia perché nella ordinanza, a fronte del preciso dettato dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), mancherebbe la indicazione delle disposizioni di rango costituzionale che si assumono violate; che, aggiunge la difesa siciliana, non varrebbe a sanare il predetto vizio la mera citazione dell'art. 3 della Costituzione, non essendo stato utilizzato tale parametro, unico espressamente richiamato nell'ordinanza, quale profilo per la puntuale prospettazione di un'ipotesi di illegittimità costituzionale; che il vizio di inammissibilità neppure sarebbe sanato ove si ritenesse che il richiamo alla violazione dei principi civilistici valga quale evocazione dell'art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, in quanto il rimettente, il quale invochi nei confronti di una Regione a statuto speciale il contrasto con una disposizione contenuta nella Costituzione, dovrebbe motivare in ordine alla applicazione alla Regione di tale parametro ai sensi dell'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione); che, riguardo al merito, la Regione ritiene che il tenore letterale della disposizione censurata non induce a ritenere che essa stabilisca un obbligo di prorogare le passività di carattere agricolo, avendo, invece, il legislatore regionale rimesso alle parti di assumere le determinazioni al riguardo, gravando gli eventuali costi sul debitore; che non sarebbe neppure violato il principio di eguaglianza, in quanto, per un verso, tale violazione ricorre ove siano diversamente trattate situazioni identiche e non ove le diverse discipline corrispondono a situazioni differenti, ed in quanto, per altro verso, il rimettente non ha preso in considerazione la ratio della disposizione censurata, volta ad agevolare gli imprenditori agricoli siciliani, oberati da notori problemi legati alla siccità e da altri eventi calamitosi che ne ostacolano la ripresa produttiva; che, nell'imminenza della udienza, sia la Regione siciliana che la Barclays Bank PLC hanno depositato brevi memoria illustrative, nelle quali hanno insistito nelle loro rispettive conclusioni. Considerato che, nel corso di due giudizi in grado di appello, aventi ad oggetto opposizione a decreto ingiuntivo, la Corte di appello di Milano, con altrettante ordinanze, peraltro di identico tenore, dubita della legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge della Regione siciliana 23 dicembre 2000, n. 28 (Proroga delle cambiali agrarie ed altre norme in materia di agricoltura. Norme in materia di usi civici), nella parte in cui prevede che «gli istituti e gli enti esercenti il credito agrario prorogano al 31 d icembre 2001 le passività di carattere agricolo, ivi compresi i ratei relativi a prestiti di dotazione per l'acquisto di macchine agricole ed animali, già scadute o che andranno a scadere entro il 30 giugno 2001, ancorché già prorogate, purché contratte anteriormente alla data di entrata in vigore della presente legge»; che, tenuto conto della evidente connessione fra i due giudizi, se ne deve disporre la riunione affinché essi siano definiti con unica decisione; che il rimettente motiva in maniera assai generica in ordine alla effettiva rilevanza nei giudizi a quibus della sollevata questione di legittimità costituzionale, motivazione che, viceversa, appare tanto più necessaria attesa la peculiarità costituita dalla affermata applicabilità di una disposizione legislativa regionale siciliana in ordinari giudizi civili di cognizione in corso di svolgimento di fronte ad un organo giudiziario lombardo, e, nell'argomentare riguardo alla non manifesta infondatezza della questione stessa, non precisa quali siano i parametri costituzionali che egli ritiene violati dalla disposizione legislativa medesima, limitandosi ad una vaga evocazione dell'art. 3 della Costituzione, senza affatto chiarire in quale senso sarebbe violato il principio di eguaglianza a presidio del quale esso è posto; che, d'altra parte, il rimettente, il quale pur solleva questione di legittimità costituzionale di una legge adottata da una Regione a statuto speciale lamentando violazioni del riparto di competenze tra Stato e Regioni, non individua un preciso parametro normativo che possa essere preso a riferimento per procedere alla valutazione della questione sottoposta a questa Corte, né fornisce elementi riguardo alla possibile estensione anche alla Regione siciliana, nella materia de qua, delle disposizioni contenute nella Costituzione in ordine alla suddivisione delle competenze legislative tra lo Stato e le Regioni ordinarie, né si esprime - anche solo per negarne, con formulazione sintetica, la presenza - circa la sussistenza di disposizioni statutarie che vengano, nel caso in oggetto, a derogare a tale riparto; che, viceversa, l'art. 23 della legge 11 marzo1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), espressamente prescrive che l'ordinanza di rimessione contenga l'indicazione delle «disposizioni della Costituzione e delle leggi costituzionali, che si assumono violate»; che dalle descritte omissioni deriva, quale conseguenza, la inammissibilità della questione. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge della Regione siciliana 23 dicembre 2000, n. 28 (Proroga delle cambiali agrarie ed altre norme in materia di agricoltura. Norme in materia di usi civici), sollevata dalla Corte di appello di Milano, con le ordinanze in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 ottobre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 23 ottobre 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 3, primo comma, della legge 19 febbraio 1981, n 27 (Provvidenze per il personale di magistratura), promossi con ordinanze del 22 novembre 2007 dal Tribunale amministrativo regionale della Puglia, sezione distaccata di Lecce e con tre ordinanze del 22 gennaio 2008 dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia rispettivamente iscritte ai nn. 46, 110, 111 e 112 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 11 e 17, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l' atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 24 settembre 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella. Ritenuto che nel corso di distinti giudizi promossi da Albertini Bruna ed altre, tutte magistrati ordinari, nei confronti del Ministero della giustizia e del Ministero dell'economia e delle finanze, al fine di ottenere la corresponsione dell'"indennità giudiziaria" prevista dall'art. 3 della legge 19 febbraio 1981, n. 27 (Provvidenze per il personale di magistratura), anche durante il periodo di astensione dal lavoro per maternità e puerperio ai sensi dell'art. 4 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204 (Tutela delle lavoratrici madri), il Tribunale amminist rativo regionale della Lombardia - con tre ordinanze, di analogo tenore, del 22 gennaio 2008 - ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, primo comma, della legge n. 27 del 1981 - nel testo anteriore alla modifica introdotta dall'art. 1, comma 325 della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2005) - nella parte in cui esclude la corresponsione della predetta indennità nei periodi di assenza obbligatoria o facoltativa per maternità, di cui agli artt. 4 e 7 della legge n. 1204 del 1971; che, a giudizio del rimettente, tale esclusione darebbe luogo ad una ingiustificata disparità di trattamento rispetto al personale amministrativo delle cancellerie e delle segreterie giudiziarie, nei cui confronti l'erogazione della medesima indennità - dapprima esclusa nei periodi di astensione obbligatoria dal lavoro per maternità e puerperio, in base all'art. 1 della legge 22 giugno 1988, n. 221 (Provvedimenti a favore del personale delle cancellerie e segreterie giudiziarie) - é stata disposta dall'art. 21 del d.P.R. 17 gennaio 1990, n. 44 (Regolamento per il recepimento delle norme risultanti dalla disciplina prevista dall'accordo del 26 settembre 1989 concernente il personale del comparto Ministeri ed altre c ategorie di cui all'art. 2 del d.P.R. 5 marzo 1986, n. 68) anche nei periodi di astensione obbligatoria per maternità o puerperio; che tale previsione é stata recepita dal Ministero della Giustizia (Circolare n. 22 del 22 settembre 1993 della Direzione Generale dell'organizzazione giudiziaria e affari generali), e ribadita nei successivi contratti collettivi nazionali del comparto Ministeri, con la conseguenza che, mentre il personale dirigente - e qualifiche equiparate delle cancellerie e segreterie giudiziarie - percepiscono l'indennità di cui all'art. 3 della legge n. 27 del 1981 (loro estesa dall'art. 1 della legge n. 221 del 1988) anche nei periodi di astensione obbligatoria per maternità e puerperio (art. 21 del d.P.R. n. 44 del 1990), le donne magistrato non percepiscono alcunché al medesimo titolo, nonostante l'identità della lo ro posizione e la ricorrenza della medesima ratio legis per entrambe le categorie; che, secondo il giudice a quo, la diversa natura della fonte regolatrice dei due rapporti di lavoro posti a confronto non sarebbe sufficiente per giustificare la differenza di trattamento dei magistrati rispetto a quello dei dirigenti delle cancellerie e delle segreterie giudiziarie (contrattualizzati questi ultimi, e non i primi); che, ritenuta pacifica la rilevanza della questione, il giudice a quo osserva che la legittimità costituzionale della norma impugnata è stata più volte positivamente verificata da questa Corte con riferimento a diversi parametri costituzionali, e in confronto con altre posizioni similari (sent. n. 238 del 1990, n. 407 del 1996 e ord. n. 106 del 1997), ma non con quella delle dipendenti dal Ministero della Giustizia addette alle cancellerie ed alle segreterie giudiziarie; che la posizione delle (diverse) categorie di lavoratrici considerate non presenta differenze tali da giustificare l'attribuzione ad una sola del diritto a detta indennità, laddove l'identità di ratio del medesimo emolumento (diretto a compensare la gravosità dell'impegno connesso all'esercizio dell'attività giudiziaria) esclude la compatibilità di una disciplina differenziata dei relativi diritti tra classi di dipendenti del tutto omologhe, rispetto al parametro costituzionale che esige la parità di trattamento di situazioni uguali (sent. n. 476 del 2002); che in data 1° gennaio 2005 è entrata in vigore la legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2005), la quale all'art. 1, comma 325, ha disposto che «all'articolo 3, primo comma, della legge 19 febbraio 1981, n. 27, le parole "assenza obbligatoria o facoltativa previsti negli articoli 4 e 7 della legge 30 dicembre 1971, n. 1204" sono sostituite dalle seguenti "astensione facoltativa prevista dagli articoli 32 e 47, commi 1 e 2 de l testo unico di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151" (Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità, a norma dell'articolo 15 della legge 8 marzo 2000, n. 53)>>, in tal modo rimuovendo l'ostacolo posto a base delle censure di legittimità costituzionale in esame; che, secondo il rimettente, la normativa sopravvenuta non può applicarsi alle situazioni dedotte in giudizio, in quanto esauritesi prima della sua entrata in vigore; che, in termini del tutto identici, il Tribunale amministrativo regionale della Puglia, sezione di Lecce, con ordinanza del 22 novembre 2007 ha sollevato la medesima questione di legittimità costituzionale, deducendo la violazione degli artt. 3 e 37 della Costituzione, nel giudizio originato dal ricorso proposto da Consiglia Invitto, avvocato dello Stato, in servizio presso l'Avvocatura distrettuale di Lecce, parificata, quanto allo stipendio ed alla cosiddetta indennità giudiziaria, alle donne-magistrato; che in questo giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri - rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato - rilevando che lo status delle addette alle cancellerie ed alle segreterie giudiziarie è completamente diverso rispetto a quello dei magistrati, essendo, in particolare, diversa la fonte da cui scaturisce il trattamento economico concernente le due categorie poste a confronto (il contratto collettivo per le prime e la legge per i secondi); che, secondo l'Avvocatura generale, diversa è altresì la genesi ed il fine dell'indennità in questione per ciascuna delle categorie poste a confronto: per i magistrati e per gli avvocati dello Stato viene in evidenza la finalità di studio e di aggiornamento professionale, piuttosto che la gravosità dell'impegno connesso all'attività giudiziaria; che nessuna disparità sussiste, inoltre, per la circostanza che altre donne magistrato, o avvocato dello Stato, possano percepire l'indennità dopo l'entrata in vigore della nuova normativa del 2004, atteso che rientra nella discrezionalità del legislatore derogare o meno al principio di irretroattività della legge. Considerato che il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia ha sollevato - con tre ordinanze di identico contenuto - con esclusivo riferimento all'art. 3, primo comma della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, primo comma della legge 19 febbraio 1981, n.27 (Provvidenze per il personale di magistratura) nel testo anteriore alla modifica introdotta dall'art. 1, comma 325 della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2005), nella parte i n cui escludeva la corresponsione della indennità giudiziaria durante il periodo di astensione obbligatoria per maternità; che identica questione è stata sollevata dal Tribunale amministrativo regionale della Puglia, sezione di Lecce, deducendo la violazione degli artt. 3 e 37 della Costituzione, con riferimento al ricorso proposto da Consiglia Invitto, avvocato dello Stato, in servizio presso l'Avvocatura distrettuale di Lecce, parificata, quanto allo stipendio ed alla cosiddetta indennità giudiziaria, alle donne-magistrato; che i rimettenti, pur dando atto che la norma censurata è stata modificata dal richiamato art. 1, comma 325, della legge n. 311 del 2004, nel senso che l'astensione obbligatoria dell'attività lavorativa per maternità non comporta più la perdita dell'indennità prevista dall'art. 3, primo comma della legge n. 27 del 1981, rilevano che la novella legislativa non è applicabile alle fattispecie oggetto dei giudizi principali, perché la modifica ha effetto con decorrenza 1° gennaio 2005; che, relativamente al periodo anteriore a tale data, i rimettenti deducono l'illegittimità della norma denunciata, per disparità di trattamento rispetto al personale amministrativo delle cancellerie e segreterie giudiziarie, al quale, invece, l'indennità in questione veniva già concessa anche durante il periodo di astensione obbligatoria per maternità, come previsto dalla contrattazione collettiva riguardante il rapporto di lavoro di quel personale, a partire dall'accordo recepito con il d.P.R. 17 gennaio 1990, n. 44 (Regolamento per il recepimento delle norme risultanti dalla disciplina prevista dall'accordo del 26 settembre 1989 concernente il personale del comparto Ministeri ed altre categorie di cui all' art. 2 del d.P.R. del 5 marzo 1986, n. 68); che, secondo i giudici a quibus, la diversità del regime della regolamentazione dei rapporti di lavoro tra le categorie poste a raffronto (magistrati, da una parte, e personale dirigente delle cancellerie e segreterie, dall'altra) non vale ad escludere la prospettata violazione degli artt. 3 e 37 della Costituzione: il fatto che un tipo di rapporto sia regolato dalla legge e l'altro dal contratto collettivo, non esime il legislatore che regola il primo dall'obbligo di rispettare i suddetti precetti costituzionali, quand'anche il trattamento più favorevole venga introdotto da un contratto collettivo successivo alla legge; che l'identità della materia e delle questioni prospettate rendono opportuna la riunione dei giudizi, per la loro trattazione congiunta e per la loro decisione con unica pronuncia; che, nel merito, la questione è manifestamente infondata; che l'indennità di funzione - per i magistrati e gli avvocati dello Stato, unitariamente contemplati dall'art. 9, comma terzo, della legge 2 aprile 1979, n. 97 (Norme sullo stato giuridico e sul trattamento economico dei magistrati ordinari e amministrativi, dei magistrati della giustizia militare e degli avvocati dello Stato) - ha mantenuto, sin dalla sua istituzione, connotati peculiari perché assoggettata al meccanismo di rivalutazione automatica previsto per gli stipendi dei magistrati (ed avvocati dello Stato) dal precedente art. 2 della legge n. 27 del 1981; che tale rivalutazione si ispira al precetto costituzionale dell'indipendenza dei magistrati, costituendo una guarentigia idonea a tale scopo; che, conseguentemente, tale meccanismo, connesso allo status dei magistrati, non è stato mai esteso sic et simpliciter al personale delle cancellerie e segreterie giudiziarie (legge 22 giugno 1988, n. 221, recante << Provvedimenti a favore del personale delle cancellerie e segreterie giudiziarie>>), né a quello amministrativo delle magistrature speciali (legge 15 febbraio 1989, n. 51, recante "Attribuzione dell'indennità giudiziaria al personale amministrativo delle magistrature speciali >>), in quanto l'indennità è stata attribuita in misura fissa con l'esclusione di ogni meccanismo di adeguamento automatico (sentenza n. 1 5 del 1995); che le differenze di regime giuridico tra le due categorie di dipendenti statali si sono accentuate a seguito della riforma del pubblico impiego, stante la diversità ormai riscontrabile sul piano delle fonti di disciplina dei rispettivi rapporti di impiego (il rapporto di lavoro degli impiegati è disciplinato, in gran parte - e in particolare quanto al trattamento economico - da fonti contrattuali, quello dei magistrati esclusivamente dalla legge) (ordinanze n. 290 del 2006 e n. 137 del 2008); che, in conclusione, trattandosi di posizioni e funzioni diverse, non è possibile accomunare il regime dell'indennità di funzione riferito ai magistrati a quello riservato al personale delle cancellerie e segreterie giudiziarie, sicché non è configurabile una irrazionale disparità di trattamento per il solo fatto che da tale raffronto discende una diversa quantificazione delle rispettive prestazioni; che, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici a quibus, non è possibile dedurre dall'intervento dell'art. 1, comma 325, della legge finanziaria per l'anno 2005 a favore dei magistrati assenti per maternità, l'intento del legislatore di rimuovere una situazione di illegittima disparità di trattamento, costituendo, piuttosto, la novella citata la manifestazione della discrezionalità del legislatore nel collocare nel tempo le innovazioni normative (ordinanza n. 137 del 2008 citata); che, pertanto la questione sollevata è manifestamente infondata. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, primo comma, della legge 19 febbraio 1981, n. 27 (Provvidenze per il personale di magistratura), nel testo anteriore alla modifica introdotta dall'art. 1, comma 325, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2005), nella parte in cui esclude la corresponsione dell'indennità da esso prevista nel periodo di astensione obbligatoria per maternità, sollevat a, in riferimento all'art. 3, primo comma, della Costituzione, dai Tribunali amministrativi regionali della Lombardia e della Puglia - sezione di Lecce - con le ordinanze in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 ottobre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Luigi MAZZELLA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 23 ottobre 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 33 della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d'arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), promossi con ordinanze del 5 ottobre 2007 e dell'8 febbraio 2008 dal Tribunale di Napoli, sezione per il riesame, nei procedimenti penali a carico di P.P. e di L.T.T.F., iscritte ai nn. 3 e 156 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 7 e 22, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di costituzione di L.T.T.F.; udito nella camera di consiglio del 24 settembre 2008 il Giudice relatore Maria Rita Saulle. Ritenuto che, con ordinanza del 5 ottobre 2007, il Tribunale di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 33 della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d'arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), nella parte in cui non prevede che il periodo di custodia cautelare scontato all'estero in esecuzione del ma ndato d'arresto europeo sia computato anche agli effetti della durata dei termini di fase previsti dall'art. 303, commi 1 e 3, del codice di procedura penale; che il rimettente riferisce che, a seguito di mandato di arresto europeo emesso il 28 febbraio 2007 dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Napoli, P.P. è stato arrestato in Olanda; che, il 23 giugno 2007, il difensore dell'imputato ha chiesto che lo stesso fosse rimesso in libertà per decorrenza dei termini di fase della custodia cautelare, dovendosi a tal fine computare anche il periodo di detenzione sofferta all'estero prima della consegna all'autorità giudiziaria italiana; che detta istanza è stata rigettata dal GIP, in quanto l'art. 33 della legge n. 69 del 2005 prevede che il periodo di custodia cautelare sofferto all'estero in esecuzione del mandato d'arresto europeo sia computato solo ai fini dei termini massimi di fase e non anche dei termini ordinari di fase; che il rimettente, investito del gravame avverso il cennato provvedimento, nel condividere l'interpretazione fornita dal GIP della disposizione censurata, ritiene che essa si pone in contrasto con i principi di eguaglianza e ragionevolezza, avendo la Corte costituzionale, con la sentenza n. 253 del 2004, dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 722 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedeva che il periodo di custodia cautelare sofferto all'estero in conseguenza di una domanda di estradizione presentata dallo Stato, fosse computato anche agli effetti della durat a dei termini di fase; che, in particolare, secondo il Tribunale, comune agli istituti dell'estradizione e del mandato di arresto europeo è l'esigenza che i tempi di custodia cautelare non superino i termini stabiliti dal codice di rito, ciò tenuto conto del principio della equivalenza tra la detenzione cautelare all'estero in attesa di estradizione e la custodia cautelare in Italia affermato dalla Corte nella indicata sentenza; che, infine, secondo il giudice a quo la disposizione censurata violerebbe anche il diritto alla libertà personale ed il diritto di difesa; che, in punto di rilevanza, il rimettente osserva che, nel caso in cui la disposizione censurata fosse dichiarata incostituzionale, potrebbe accogliere la richiesta di revoca della misura in atto applicata all'indagato; che questione analoga è sollevata dal Tribunale di Napoli, ottava sezione penale, con ordinanza dell'8 febbraio 2008, con la quale è censurato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, l'art. 33 della legge n. 69 del 2005; che il rimettente è investito, in sede di riesame, del gravame avverso il rigetto dell'istanza, proposta da L.T.T.F., volta ad ottenere la declaratoria di inefficacia della misura cautelare della custodia in carcere disposta nei suoi confronti; che il Tribunale riferisce che il provvedimento impugnato si fonda sulla circostanza che l'indagato è stato consegnato allo Stato italiano in esecuzione di mandato di arresto europeo, di talché il periodo di custodia cautelare da quest'ultimo scontato all'estero deve essere calcolato, a norma dell'art. 33 della legge n. 69 del 2005, solo ai fini del termine di cui all'art. 303, comma 4, del codice di procedura penale; che, secondo il giudice a quo, tale interpretazione risulta l'unica possibile, stante il tenore letterale della disposizione censurata, la quale prevede che il periodo di custodia cautelare sofferto all'estero in esecuzione del mandato d'arresto europeo è computato solo ai sensi e per gli effetti degli artt. 303, comma 4, 304 e 657 del codice di procedura penale; che, pertanto, a parere del rimettente, l'art. 33 della legge n. 69 del 2005, nella parte in cui non prevede che la custodia cautelare all'estero, in esecuzione del mandato d'arresto europeo, sia computata anche agli effetti della durata dei termini di fase previsti dall'art. 303, commi 1, 2 e 3 del codice di procedura penale, viola i principi di razionalità e eguaglianza sanciti dall'art. 3 della Costituzione; che, secondo il Tribunale, la denunciata violazione risulta ancora più palese tenuto conto della sentenza n. 253 del 2004, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l'incostituzionalità dell'art. 722 del codice di procedura penale, non potendosi non applicare anche alla fattispecie in esame i principi in essa affermati con riferimento al procedimento di estradizione; che il giudice a quo ritiene la questione rilevante, poiché la declaratoria di incostituzionalità della disposizione censurata comporterebbe l'accoglimento del gravame. Considerato che il dubbio di costituzionalità sottoposto a questa Corte ha ad oggetto l'art. 33 della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d'arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), nella parte in cui non prevede che il periodo di custodia cautelare all'estero, in esecuzione del mandato d'arresto europeo, sia computato anche agli effetti della durata dei termini di fase previsti dall'art. 303, commi 1, 2 e 3 del codice di procedura penale; che, stante l'identità delle questioni sollevate, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia; che, successivamente alle ordinanze di rimessione, questa Corte, con sentenza n. 143 del 2008, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 33 della legge 22 aprile 2005, n. 69, nella parte in cui non prevede che la custodia cautelare all'estero, in esecuzione del mandato d'arresto europeo, sia computata anche agli effetti della durata dei termini di fase previsti dall'art. 303, commi 1, 2 e 3 del codice di procedura penale; che, pertanto, alla stregua della richiamata pronuncia di questa Corte, gli atti devono essere restituiti ai giudici rimettenti per un nuovo esame della rilevanza delle questioni. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, ordina la restituzione degli atti al Tribunale di Napoli. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 ottobre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Maria Rita SAULLE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 23 ottobre 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1, 2 e 10 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), promossi con ordinanze del 14 novembre, del 18 aprile, del 9, del 10 (n. 3 ordinanze) e del 26 ottobre, dell'8, del 13, del 14 (n. 3 ordinanze) e del 17 novembre (n. 2 ordinanze), del 13 marzo, del 21 dicembre e del 2 novembre 2006 dalla Corte d'appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, rispettivamente iscritte ai nn. 288, 464, da 471 a 482, 646, 731, e 732 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 17, 25, 37 e 43, prima serie speciale, dell'anno 2007. Udito nella camera di consiglio del 24 settembre 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro. Ritenuto che, con diciassette ordinanze sostanzialmente coincidenti nella parte motiva, la Corte d'appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, 111 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui non consentono al pubblico minister o di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento, nonché dell'art. 10 della medesima legge; che, ai fini della rilevanza, la Corte d'appello rimettente premette che gli appelli di cui essa è investita, proposti dal pubblico ministero anteriormente alla data di entrata in vigore della legge n. 46 del 2006 contro sentenze di proscioglimento pronunciate dal Tribunale di Sassari, dal Tribunale di Tempio Pausania e dal Tribunale di Nuoro, dovrebbero essere dichiarati inammissibili ai sensi dell'art. 10, comma 2, della medesima legge; che, a suo avviso, gli artt. 1 e 2 della legge n. 46 del 2006, i quali hanno rispettivamente sostituito l'art. 593 del codice di procedura penale e modificato l'art. 443, comma 1, dello stesso codice, eliminando l'appello avverso le sentenze di proscioglimento pronunciate all'esito del dibattimento o emesse a seguito di giudizio abbreviato, e l'art. 10 della citata legge, che prevede l'immediata applicabilità di tale regime ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge, violerebbero, in primo luogo, il principio di uguaglianza (art. 3 Cost.) e il principio di parità delle parti nel processo (art. 111, secondo comma, Cost.); che, infatti, la nuova disciplina dell'appello, privando il pubblico ministero della possibilità di impugnare le sentenze di proscioglimento «con lo stesso mezzo riconosciuto all'imputato avverso le sentenze di condanna», avrebbe determinato una ingiustificata disparità di trattamento in danno della pubblica accusa ed avrebbe alterato l'equilibrio dei poteri processuali delle parti; che in senso contrario non potrebbe valere quanto in precedenza affermato dalla Corte costituzionale con riferimento alle limitazioni stabilite dall'art. 443, comma 3, cod. proc. pen. per il potere di appello del pubblico ministero avverso le sentenze di condanna, secondo cui la disparità di trattamento in danno della pubblica accusa trovava ragionevole giustificazione «alla luce del risultato perseguito con il ricorso al rito abbreviato e delle peculiarità di questo»; che, diversamente, per le «sentenze di assoluzione, pur pronunciate a seguito di rito abbreviato», la preclusione all'appello non potrebbe dirsi ragionevole, «stante il perdurante interesse della parte pubblica all'accertamento della verità», dimostrato anche dalla conservazione al pubblico ministero del gravame contro le sentenze di condanna che modifichino il titolo del reato; che il contrasto tra la censurata disciplina e gli artt. 3 e 111 Cost. appare alla Corte d'appello rimettente ancora più evidente ove si consideri che alla parte civile è stato invece conservato, anche dopo le modifiche recate dalla legge n. 46 del 2006 all'art. 576 cod. proc. pen., il potere di proporre appello contro le sentenze di assoluzione; che sarebbero altresì violati gli artt. 27, terzo comma, e 112 Cost., in quanto la eliminazione del potere di appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento inciderebbe, rendendola «più difficoltosa», sulla «attuazione della ricerca della verità e, quindi dell'istanza di giustizia propria della collettività», di cui il principio della obbligatorietà dell'azione penale e il principio secondo cui la pena deve tendere alla rieducazione del condannato costituiscono «espressione». Considerato che le questioni di costituzionalità sollevate dalla Corte d'appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari, hanno tutte ad oggetto la preclusione - conseguente alla sostituzione dell'art. 593 cod. proc. pen. ed alla modifica dell'art. 443, comma 1, cod. proc. pen. ad opera, rispettivamente, degli artt. 1 e 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) - dell'appello contro le sentenze di prosciogl imento emesse all'esito del dibattimento o pronunciate a seguito di giudizio abbreviato, e l'immediata applicabilità di tale regime, in forza dell'art. 10 della medesima legge, ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge; che, stante l'identità delle questioni, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia; che, successivamente alle ordinanze di rimessione, questa Corte, con sentenza n. 26 del 2007, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva, e dell'art. 10, comma 2, della medesima legge, nella parte in cui prevede che l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della med esima legge è dichiarato inammissibile; che, inoltre, con sentenza n. 320 del 2007, questa Corte ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 2 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui, modificando l'art. 443, comma 1, del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio abbreviato, e dell'art. 10, comma 2, nella parte in cui prevede che sia dichiarato inammissibile l'appello proposto dal pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento emessa a seguito di giudizio abbreviato, prima dell'entrata in vigore della medesima legge; che, alla stregua delle richiamate pronunce, gli atti devono essere restituiti ai giudici rimettenti per un nuovo esame della rilevanza delle questioni. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, ordina la restituzione degli atti alla Corte d'appello di Cagliari, sezione distaccata di Sassari. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 ottobre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Giuseppe TESAURO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 23 ottobre 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e dell'art. 10 della stessa legge n. 46 del 2006, promossi con ordinanze del 19 giugno 2006 e del 6 luglio 2006 dalla Corte d'appello di Palermo, del 1° giugno 2006 dalla Corte d'appello di Torino, del 13 giugno 2006 dalla Corte d'appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, del 24 novembre e del 9 ma ggio 2006 dalla Corte d'appello di Brescia e del 7 dicembre 2006 (numero due ordinanze) dalla Corte d'appello di Bari, iscritte ai nn. 31, 77, 168, 200, 319, 506, 601 e 762 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 8, 10, 14, 15, 18, 27, 35 e 46, prima serie speciale, dell'anno 2007. Udito nella camera di consiglio del 24 settembre 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano. Ritenuto che la Corte d'appello di Palermo, con due ordinanze del 19 giugno 2006 e del 6 luglio 2006 (r.o. n. 31 e n. 168 del 2007), la Corte d'appello di Torino, con ordinanza del 1° giugno 2006 (r.o. n. 77 del 2007), la Corte d'appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, con ordinanza del 13 giugno 2006 (r.o. n. 200 del 2007), la Corte d'appello di Brescia, con due ordinanze identiche nella parte motiva, rispettivamente del 9 maggio 2006 (r.o. n. 506 del 2007) e del 24 novembre 2006 (r.o. n. 319 del 2007), la Corte d'appello di Bari con due ordinanze del 7 dicembre 2006 (r.o. n. 601 e n. 762 del 2007) hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui limita l'appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento alle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen.: ossia quando sopravvengano o si scoprano nuove prove dopo il giudizio di primo grado e qualora tali prove risultino decisive; che le Corti rimettenti (ad eccezione della Corte d'appello di Brescia) dubitano, in riferimento ai medesimi parametri, anche della legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge n. 46 del 2006, che prevede l'immediata applicabilità della nuova disciplina ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore, stabilendo altresì che l'appello proposto dal pubblico ministero, prima della data di entrata in vigore della legge, avverso una sentenza di proscioglimento sia dichiarato inammissibile; che, ai fini della rilevanza della questione, le Corti rimettenti precisano di essere investite di appelli proposti dal pubblico ministero avverso sentenze di proscioglimento e di doverli dichiarare inammissibili in applicazione delle norme censurate; che, nel merito, tutte le Corti rimettenti ritengono che l'eliminazione dell'appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento ad opera dell'art. 1 della novella del 2006 sia in contrasto con il principio di parità fra le parti di cui all'art. 111, secondo comma, Cost., in quanto sarebbe del tutto irragionevole sottrarre ad una sola delle parti (il pubblico ministero) lo strumento processuale indirizzato a veder affermata la propria pretesa; che, infatti, solo apparentemente il limite all'appello delle sentenze di proscioglimento da parte del pubblico ministero e dell'imputato rispetterebbe il principio di parità, considerato il diverso interesse ad impugnare tali sentenze che fa capo all'organo della pubblica accusa e all'imputato; che l'ablazione integrale del potere impugnatorio della pubblica accusa non troverebbe alcuna giustificazione nella tutela di valori costituzionali di pari rilievo, né sarebbe giustificata dalla posizione istituzionale del pubblico ministero, dalla sua funzione o da esigenze di corretta amministrazione della giustizia; che il principio della parità nel contraddittorio, pur non comportando necessariamente l'identità fra i poteri processuali delle parti, impone comunque che non sia alterato in misura intollerabile l'equilibrio tra le parti, come avverrebbe ad opera delle norme censurate; che il principio del contraddittorio delle parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo ed imparziale di cui all'art. 111 Cost., secondo comma, secondo la Corte d'appello di Torino, non può intendersi limitato alla fase anteriore alla pronuncia del giudice, giacché il termine «processo» indica l'intero iter attraverso il quale si attua la giurisdizione, fino alla pronuncia definitiva; che, pertanto, il principio della parità delle parti comprenderebbe anche la fase dell'appello e, nell'ambito di essa, il suo momento introduttivo e fondante, ossia la definizione dei casi in cui è consentito appellare; che la residua possibilità di appello, nelle ipotesi previste dal comma 2 dell'art. 603 cod. proc. pen., non eliminerebbe i profili di incostituzionalità della disciplina censurata, attesa l'assoluta marginalità di esse; che le Corti rimettenti prospettano altresì la violazione dell'art. 3 Cost., sia sotto il profilo del difetto di ragionevolezza, sia sotto il profilo della disparità di trattamento; che secondo le Corti d'appello di Palermo e di Brescia risulterebbe contraria al principio di ragionevolezza la circostanza che il pubblico ministero sia privato del potere di impugnare le sentenze di proscioglimento, conservando, invece, quello di appellare le sentenze di condanna, onde ottenere l'irrogazione di una pena più severa «in tal modo tutelando, un interesse processuale di ben minore consistenza»;
che limitare
il potere d'appello contro le sentenze di assoluzione emesse a seguito
di un giudizio ordinario contrasterebbe con il principio di
ragionevolezza, anche perché, secondo le Corti d'appello di Torino e di
Brescia, nessun applicazione di tale criterio, né alcuna peculiare
finalità riconosciuta dal legislatore appare giustificare una disciplina
che squilibra così fortemente i rapporti tra accusa e difesa e che,
secondo la Corte d'appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, non
troverebbe ragionevole giustificazione né nella peculiare posizione
della parte pubblica, né nella funzione ad essa attribuita, né in
esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia; che, secondo la Corte d'appello di Torino, la limitazione all'appellabilità delle sentenze di proscioglimento per entrambe le parti «solo apparentemente soddisfa l'esigenza di parità garantita dalla disposizione costituzionale», mentre sarebbe del tutto irragionevole posto che, in realtà, è solo con riferimento all'organo dell'accusa che tale limitazione «assume preponderanza e rilievo centrale», avendo solo il pubblico ministero l'interesse ad impugnare le sentenze di proscioglimento ed essendo già in precedenza inibita all'imputato l'impugnazione della sentenza di proscioglimento con formula piena; che, secondo la Corte d'appello di Bari, sarebbe palese la totale irragionevolezza di un processo che, nato come penale con l'appendice eventuale e meramente sussidiaria di una domanda di risarcimento, prosegua in appello come processo esclusivamente civile, celebrato dinanzi al giudice penale per iniziativa e volontà di una parte privata che, pur non avendo il potere di promuovere l'azione autonomamente in sede penale, ha il potere esclusivo di proseguirla dinnanzi al giudice di appello penale; che, quanto alla violazione del principio di uguaglianza, sarebbe, secondo la Corte d'appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, evidente la disparità di trattamento «tra l'imputato assolto all'esito del giudizio abbreviato e l'imputato assolto all'esito del giudizio ordinario», posto che nella seconda ipotesi il divieto di appellare per il pubblico ministero trova un'eccezione nel caso in cui, dopo il giudizio di primo grado, siano sopravvenute o scoperte nuove prove decisive a carico dell'imputato; con la conseguenza che l'imputato nel giudizio abbreviato godrebbe di un ulteriore ingiustificato beneficio, oltre che di un trattamento sanzionatorio premiale; che, secondo la Corte d'appello di Bari, la norma censurata, nell'attribuire alla parte civile la facoltà di impugnazione negata alla pubblica accusa, determinerebbe una ulteriore evidente disparità di trattamento tra le parti private con una ulteriore inaccettabile prevalenza attribuita all'interesse privato rispetto all'interesse pubblico; che tutte le Corti d'appello rimettenti, ad eccezione della Corte d'appello di Torino, evocano a parametro della questione di costituzionalità anche l'art. 112 Cost., assumendo il contrasto della disciplina censurata con il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, sul presupposto che tale principio, espressione dell'interesse punitivo dello Stato, implichi, logicamente e coerentemente, anche il potere di impugnazione; che anche se la Corte costituzionale ha affermato che il potere di appello del pubblico ministero non può essere ricondotto all'obbligo di esercitare l'azione penale, nel senso che la facoltà di impugnazione non costituisce "estrinsecazione necessaria" dell'esercizio dell'azione penale, tuttavia, secondo la Corte d'appello di Brescia, una così ampia limitazione al potere di impugnazione, certamente, inciderebbe anche sulla completezza delle possibilità di esercizio dell'azione penale; che, sempre a parere della Corte d'appello di Brescia, risulterebbe leso anche il diritto di difesa che l'art. 24 Cost. garantisce anche alle parti offese dei reati, e che non può ritenersi soddisfatto dalla possibilità di appello della parte civile avverso la sentenza di proscioglimento di primo grado, sia pure ai soli effetti della responsabilità civile, in quanto solo l'esercizio dell'azione penale da parte del pubblico ministero può offrire alle vittime dei reati l'essenziale tutela del loro legittimo interesse ad ottenere giustizia, a prescindere dalle possibilità che dette vittime in concreto abbiano di accedere al processo nelle forme dell'azione civile ivi direttamente intrapresa;</ SPAN> che, secondo la Corte d'appello di Palermo, la disciplina transitoria di cui all'art. 10 della legge n. 46 del 2006 violerebbe anche l'art. 97 Cost., essendo contraria al principio del buon andamento dell' attività giudiziaria la mancata previsione di norme di salvaguardia delle attività processuali compiute dalle parti prima dell'entrata in vigore della legge. Considerato che il dubbio di costituzionalità sottoposto a questa Corte ha per oggetto la preclusione - conseguente alla sostituzione dell'art. 593 del codice di procedura penale ad opera dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) - dell'appello delle sentenze dibattimentali di proscioglimento da parte del pubblico ministero e l'immediata applicabilità di tale regime, in forza dell'art. 10 della stessa legge, ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge medesima; che, stante l'identità delle questioni proposte, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia; che, successivamente alle ordinanze di rimessione, questa Corte, con la sentenza n. 26 del 2007, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della citata legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva», e dell'art. 10, comma 2, della stessa legge, «nella parte in cui prevede che l'appello proposto contro una senten za di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge è dichiarato inammissibile»; che, alla stregua della richiamata pronuncia di questa Corte, gli atti devono pertanto essere restituiti ai giudici rimettenti per un nuovo esame della rilevanza delle questioni. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, ordina la restituzione degli atti alle Corti d'appello di Palermo, Torino, Brescia, Lecce, sezione distaccata di Taranto, e Bari. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 20 ottobre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 23 ottobre 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA |