Ultime
pronunce pubblicate deposito del 24/10/2008 |
|||
![]() |
|||
![]() |
350/2008 pres. FLICK, red. DE SIERVO |
![]() |
![]() |
![]() |
351/2008 pres. FLICK, red. CASSESE |
![]() |
![]() |
![]() |
352/2008 pres. FLICK, red. DE SIERVO |
![]() |
![]() |
![]() |
353/2008 pres. FLICK, red. AMIRANTE |
![]() |
![]() |
Deposito del 24/10/2008 (dalla 350 alla 353) |
S.350/2008 del 22/10/2008 Camera di Consiglio del 24/09/2008, Presidente FLICK, Redattore DE SIERVO Norme impugnate: Artt. 1, 3, 4, 8, c. 1°, lett. e), f), h) ed i), e 2°, 9, c. 1°, lett. c), e 2°, e 12 della legge della Regione Lombardia 03/03/2006, n. 6 Oggetto: Telecomunicazioni - Regione Lombardia - Norme per l'insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa - Riconduzione della normativa stessa "nel quadro delle competenze della Regione e dei comuni in materia di commercio" (rientranti nella legislazione residuale regionale ex art. 117, comma quarto, Costituzione), anziché alla materia delle comunicazioni (rientrante ne lla legislazione concorrente, ex art. 117, comma terzo, Costituzione), alla tutela della concorrenza (art. 117, comma secondo, lett. e), Costituzione) e alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali (art. 117, comma secondo, lett. m), Costituzione); Introduzione di un sistema generalizzato di autorizzazione comunale per l'esercizio dell'attività; Requisiti e prescrizioni igienico-sanitari - Applicabilità retroattiva; Inosservanza, da parte del titolare dell'autorizzazione del centro di telefonia fisso, degli obblighi, prescrizioni e autorizzazioni in materia di edilizia, urbanistica ed igienico-sanitaria, nonché delle disposizioni sulla destinazione d'uso dei locali e degli edifici, prevenzione incendi e sicurezza, preventivamente all'avvio dell'attività, o entro un anno dall'entrata in vigore della legge censurata - Prevista revoca dell'autorizzazione e sospensione dell'attività; Requisiti e pre scrizioni igienico-sanitari - Obbligo per i titolari dei centri di telefonia già attivi alla data di entrata in vigore della legge censurata di porsi in regola con le vigenti norme e con le prescrizioni e autorizzazioni in materia di edilizia, urbanistica ed igienico-sanitaria, previsti dalla legge medesima entro un anno da detta data. Dispositivo: illegittimità costituzionale - manifesta inammissibilità - altro Atti decisi: ord. 2, 15, 65, 66, 67, 100, 101, 102, 103 e 127/2008 |
S.351/2008 del 22/10/2008 Udienza Pubblica del 21/10/2008, Presidente FLICK, Redattore CASSESE Norme impugnate: Art. 1 della legge della Regione Lazio 13/06/2007, n. 8 Dispositivo: illegittimità costituzionale Atti decisi: ord. 88/2008 |
S.352/2008 del 22/10/2008 Udienza Pubblica del 07/10/2008, Presidente FLICK, Redattore DE SIERVO Norme impugnate: Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 29/01/2008 Oggetto: Regione siciliana - Presidente della Regione - Dimissioni irrevocabili - Decreto del Presidente del Consiglio dei ministri del 29 gennaio 2008, con il quale "a decorrere dal 18 gennaio 2008 è accertata la sospensione del Sig. Salvatore Cuffaro dalla carica di deputato dell'Assemblea regionale siciliana e di Presidente della Regione siciliana ai sensi dell'art. 15, comma 4 bis, della legge 19 marzo 1990, n. 55". Dispositivo: respinge il ricorso Atti decisi: confl. enti 6/2008 |
O.353/2008 del 22/10/2008 Udienza Pubblica del 23/0 9/2008, Presidente FLICK, Redattore AMIRANTE Norme impugnate: Art. 1, c. 2°, della legge della Regione Emilia Romagna 27/07/2007, n. 19 Oggetto: Beni culturali - Norme della Regione Emilia Romagna - Partecipazione della Regione all'Associazione dell'Emilia Romagna delle rievocazioni storiche, AERRS. Dispositivo: estinzione del processo Atti decisi: ric. 41/2007 |
SENTENZA N. 350 ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 1; 3; 4; 8, comma 1, lettere e), f), h) ed i) e comma 2; 9, comma 1, lettera c), e comma 2; e 12 della legge della Regione Lombardia 3 marzo 2006, n. 6 (Norme per l'insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa), promossi con ordinanze del 20 settembre 2007 (numero 2 ordinanze), del 29 ottobre 2007, del 26 novembre 2007 (numero 3 ordinanze), del 10 dicembre 2007 (numero 2 ordinanze), del 27 dicembre 2007 e del 22 gennaio 2008, dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, Sezione IV di Milano, iscritte ai numeri 2, 15, 65, 66, 67, 100, 101, 102, 103 e 127 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 7, 8, 13, 16,e 19, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di intervento della Regione Lombardia; udito nella camera di consiglio del 24 settembre 2008 il Giudice relatore Ugo De Siervo. Ritenuto in fatto 1. - Con dieci distinte ordinanze (r.o. nn. 2, 15, 65, 66, 67, 100, 101, 102, 103 e 127 del 2008), adottate nel corso di altrettanti giudizi, il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, Sezione IV di Milano, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli articoli 1; 4; 8, commi 1, lettere e), f), h) ed i), e 2; 9, commi 1, lettera c), e 2; e 12 della legge della Regione Lombardia 3 marzo 2006, n. 6 (Norme per l'insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa), in riferimento agli articoli 3, 15, 41 e 117 della Costituzione. 2. - Il rimettente riferisce che i ricorrenti sono titolari di centri di telefonia già attivi alla data di entrata in vigore della legge regionale n. 6 del 2006 e che nei loro confronti è stata disposta, con ordinanze delle rispettive amministrazioni comunali, la cessazione dell'attività «per mancata conformazione ai nuovi requisiti (in prevalenza igienico-sanitari e di sicurezza dei locali) disposti dalla predetta legge regionale». Ciò in applicazione delle seguenti censurate disposizioni della legge regionale n. 6 del 2006: l'art. 1, «nella parte in cui riporta la materia oggetto di trattazione alla leg islazione residuale regionale sul commercio»; l'art. 4, «che introduce un sistema generalizzato di autorizzazione comunale per l'esercizio dell'attività»; l'art. 8, «nella parte (comma 1, lettere e, f, h ed i, e comma 2) in cui introduce - con immediata modifica dei regolamenti comunali vigenti - numerosi nuovi requisiti igienico-sanitari e di sicurezza dei locali; gli artt. 9, primo comma, lettera c) e secondo comma, e 12, che prevedono che i centri di telefonia già funzionanti si debbano adeguare alle nuove prescrizioni entro un anno, andando altrimenti incontro alla revoca dell'autorizzazione. 3. - In punto di rilevanza, il rimettente riferisce che i provvedimenti impugnati hanno intimato ai ricorrenti «la cessazione immediata dell'attività per mancato tempestivo adeguamento ai nuovi requisiti di cui sopra» e che la legge regionale non ha lasciato o consentito «alcuna mediazione discrezionale in capo alla procedente autorità amministrativa la quale . ha dovuto emettere il provvedimento (in tutto vincolato nel contenuto) di cessazione immediata dell'attività alla scadenza del perentorio termine annuale fissato». Il rimettente riferisce altresì di aver adottato un'ordinanza cautelare di sospensione del provvedimento di cessazione dell'attività di centri di telefonia con efficacia limitata al periodo di tempo necessario a che la Corte costituzionale si pronunci. 4. -Il TAR rimettente individua le disposizioni costituzionali di cui si sospetta la violazione nell'art. 117, «in relazione ai vincoli dell'ordinamento comunitario ed al sistema di riparto delle competenze legislative Stato-Regione»; negli artt. 3 e 41, «in relazione, in particolare, ai rilevanti ostacoli che le restrittive prescrizioni in materia igienico-sanitaria introdotte dalla legge regionale di che trattasi, da applicare anche retroattivamente alle preesistenti gestioni di centri di telefonia, determinano sulla libertà di iniziativa economica di questi ultimi»; nell'art. 15 sulla libertà di comunicazione. 4.1. - L'asserita violazione dell'art. 117 della Costituzione sarebbe, innanzitutto, suffragata dall'errato inquadramento materiale delle disposizioni censurate. L'art. 1, infatti, riconduce la relativa normativa al commercio. Diversamente, il giudice a quo esclude che la erogazione di servizi di telefonia in sede fissa, in locali aperti al pubblico, rientri nelle previsioni legislative relative all'attività commerciale. Ciò sarebbe confermato dal divieto, contenuto nella legge censurata, di affiancare - come in passato - attività commerciali "di supporto", salvo la sola vendita di schede telefonich e e l'installazione di distributori automatici di bevande ed alimenti. Per il Tribunale rimettente, invece, l'attività presa in considerazione dalla legge regionale sarebbe riconducibile alla materia di competenza concorrente dell'ordinamento delle comunicazioni e, più specificamente, al «servizio di comunicazione elettronica» di cui all'art. 2, paragrafo 1, lettera c) della direttiva 7 marzo 2002, n. 2002/21/CE, recepito dal decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche). 4.2. - Il diverso inquadramento materiale determinerebbe una serie di limiti e vincoli sul legislatore regionale. Innanzitutto, la rilevata matrice europea di tale normativa comporta l'applicabilità, ex art. 117, primo comma, della Costituzione, del principio di proporzionalità. In secondo luogo, trattandosi di materia concorrente, il legislatore regionale non può disattendere i limiti della legislazione statale di principio. Infine, occorrerebbe anche considerare alcuni «profili trasversali di legislazione esclusiva statale» ex art. 117, secondo comma, della Costituzione, con specifico riguardo alla tutela della concorrenza (lettera e) nonché alla salvaguardia dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territ orio nazionale (lettera m). Il rimettente ricorda che l'art. 3, comma 1, del surrichiamato codice delle comunicazioni garantisce i «diritti inderogabili di libertà delle persone nell'uso dei mezzi di comunicazione elettronica», con espresso riferimento al regime di libera concorrenza. Inoltre, i principi di derivazione comunitaria e costituzionale risultano espressamente ribaditi dall'art. 4 del medesimo codice, il quale prevede al comma 1 che la disciplina delle reti e dei servizi sia volta a salvaguardare i diritti costituzionalmente garantiti di «libertà di comunicazione», nonché di «libertà di iniziativa economica e suo esercizio in regime di concorrenza, garantendo un accesso al mercato delle reti e servizi di comunicazione elettronica secondo criteri di obiettività, trasparenza, non discrim inazione e proporzionalità». Al tempo stesso, il comma 3 dello stesso art. 4 dispone che la suddetta disciplina è diretta anche a «promuovere la semplificazione dei procedimenti amministrativi e la partecipazione ad essi dei soggetti interessati, attraverso l'adozione di procedure tempestive, non discriminatorie e trasparenti nei confronti delle imprese che forniscono reti e servizi di comunicazione elettronica». 4.3. - Per il rimettente, il legislatore lombardo - regolando l'intero settore dei centri di telefonia in sede fissa - ha introdotto «un regime autorizzativo ulteriore e duplicativo rispetto al sistema delineato in sede comunitaria e recepito con il decreto legislativo n. 259/2003». Ciò mentre il comma 2 dell'art. 3 del codice configura la fornitura di reti e servizi di comunicazione elettronica come di preminente interesse generale e libera, salve solo «le limitazioni derivanti da esigenze della difesa e della sicurezza dello Stato, della protezione civile, della salute pubblica e della tutela dell'ambiente e della riservatezza e protezione dei dati personali, poste da specifiche disposizioni di legge o da disposizioni regolamentari di attuazione». Lo stesso codice prevede che l'espletamento di tali servizi venga subordinato ad una sola «autorizzazione generale», in armonia con la normativa europea. In particolare, tale autorizzazione consegue alla presentazione di una dichiarazione dell'interessato (a seguito della quale è possibile iniziare l'attività) conte nente l'intenzione di procedere alla fornitura (art. 25, comma 3), mentre il potere del Ministero competente di vietare il prosieguo dell'attività medesima può essere esercitato «entro e non oltre» sessanta giorni secondo il modulo procedimentale della dichiarazione di inizio attività ex art. 19, legge 7 agosto 1990, n. 241 (art. 25, comma 4). Il giudice rimettente sostiene che la previsione di un ulteriore titolo abilitativo comunque abbia alterato «il regime di sostanziale libertà di fornitura dei servizi de quibus così come delineato in via primaria dall'ordinamento comunitario, ed in via attuativa dalla norma statale di recepimento, con conseguenti aggravamenti procedimentali vietati dai citati artt. 3 e 4 del decreto n. 259/2003». Peraltro - prosegue il rimettente - molte delle limitazioni previste dalla legge censurata sembrano afferire a materie comunque estranee a quella potestà legislativa residuale che la Regione Lombardia ha, invece, inteso nella specie esercitare: questo con particolare riferimento alle esigenze della difesa e della sicurezza dello Stato ed alla tutela dell'ambiente, di competenza esclusiva del legislatore statale, nonché alle esigenze di protezione civile e di salute pubblica, di competenza concorrente. 4.4. - In relazione ai requisiti igienico-sanitari e di sicurezza dei locali, per il giudice a quo la contestata legge regionale reca «contenuti di dettaglio che integrano in modo automatico e simultaneo tutti i regolamenti di igiene delle autorità sanitarie e dei comuni in territorio lombardo [.], e ciò senza che la legislazione statale di riferimento consenta, all'interno di tale regolamentazione locale, l'inserimento eteronomo di contenuti dispositivi e di dettaglio direttamente prestabiliti da leggi regionali». Né sussisterebbero nella legislazione vigente prescrizioni così restrittive neanche per i locali ove vi è maggiore concentrazione di persone per un tempo di permanenza maggiore, come teatri, cinema o nei locali ove viene svolta attività di somministrazione di alimenti e bevande. Da tutto ciò discende la necessità che la potestà legislativa regionale concorrente venga esercitata nel rispetto dei principi fondamentali di cui agli articoli 3 e 41 della Costituzione, nonché del principio di proporzionalità. 4.5. - Il giudice rimettente ritiene che la questione presenti profili di non manifesta infondatezza anche nella parte in cui è sancita l'applicazione retroattiva delle nuove disposizioni, senza neppure delineare la possibilità di proroghe per consentire agli esercizi preesistenti di continuare l'attività. Secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, la possibilità del legislatore di incidere con norme retroattive su situazioni sostanziali ormai radicate da leggi precedenti, sarebbe subordinata al rigoroso vaglio di razionalità del nuovo regolamento di interessi. Per il giudice a quo nella specie non sussiste una sicura rispondenza dello ius superveniens a criteri di ragionevolezza, in relazione alle modalità con cui la nuova normativa incide sui legittimi affidamenti dei titolari dei preesistenti centri di telefonia e sulle loro disponibilità finanziarie. Ne discenderebbe una lesione della libertà di iniziativa economica privata presidiata dall'art. 41 della Costituzione, anche in relazione alla tutela della concorrenza garantita dall'ordinamento europeo. 5. - Con atto depositato il 26 febbraio 2008, è intervenuta nel presente giudizio (in relazione alle questioni sollevate con l'ordinanza r.o. n. 2 del 2008) la Regione Lombardia che, con riserva di successive allegazioni e argomentazioni, ha eccepito, in via preliminare, l'inammissibilità delle sollevate questioni di legittimità costituzionale sostenendo, comunque, la loro infondatezza nel merito. 6. - Con memoria depositata il 24 luglio 2008 la Regione Lombardia ha presentato una ampia memoria ad integrazione del suo precedente atto di intervento. 6.1. - La difesa regionale reputa le questioni in oggetto inammissibili per evidente difetto di motivazione sulla rilevanza, avendo il rimettente omesso di descrivere alcuni elementi decisivi della fattispecie che ha originato il giudizio principale (le osservazioni si riferirebbero anche alle altre ordinanze «che hanno, in maniera sostanzialmente identica, censurato le norme»). In particolare, nell'ordinanza di rinvio non sarebbero rinvenibili informazioni sulle autorizzazioni eventualmente ottenute, né sulle motivazioni sottese all'impugnato provvedimento di cessazione dell'attività di centri di te lefonia. Inoltre, altro motivo di inammissibilità sarebbe il mancato riferimento ad una autorizzazione negata, mentre nell'ordinanza di rimessione ci si riferisce solo ad una ordinanza di chiusura del centro di telefonia. Sarebbero del pari inammissibili le censure sollevate in riferimento all'art. 15 Cost. per la loro mancata motivazione. Generiche sarebbero altresì le censure formulate in riferimento all'art. 8 della legge regionale, dal momento che non si chiarirebbero analiticamente gli asseriti motivi di incostituzionalità delle quattro distinte prescrizioni legislative. 7. - Nel merito, la difesa regionale sostiene che la disciplina dei centri di telefonia rientrerebbe pacificamente nella materia commercio, risultando così esclusa una competenza statale in materia, dal momento che «la nozione di "servizi di comunicazione elettronica" non sembra applicabile all'attività dei centri di telefonia». Comunque «l'autorizzazione prevista dalla legge della regione Lombardia non interferisce in alcun modo con gli scopi» della legislazione comunitaria e statale ed anzi troverebbe «il suo fondamento proprio nella previsione degli articoli 3 e 25 del Codice delle comunicazioni che consentono la possibilità di limitare la fornitura di reti o se rvizi per motivi di salute e sanità pubblica». La legge regionale censurata, pertanto, «ai fini di tutela della salute pubblica e delle condizioni igieniche in cui si svolge il lavoro subordina l'inizio (o la prosecuzione) di tale attività alla sussistenza di un'autorizzazione comunale». Non vi sarebbero principi legislativi violati dal legislatore regionale e neppure potrebbe sostenersi che la legge regionale non possa modificare il regolamento di igiene locale. Considerato in diritto1. - Il Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, Sezione IV di Milano, con le ordinanze r.o. nn. 2, 15, 65, 66, 67, 100, 101, 102, 103 e 127 del 2008, adottate nel corso di altrettanti giudizi, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli articoli 1; 4; 8, comma 1, lettere e), f), h) ed i), e comma 2; 9, comma 1, lettera c), e comma 2; e 12 della legge della Regione Lombardia 3 marzo 2006, n. 6 (Norme per l'insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa), in riferimento agli articoli 3, 15, 41 e 117 della Costituzione. 2. - In tutti i giudizi a quibus i ricorrenti, titolari di centri di telefonia già attivi alla data di entrata in vigore della legge regionale n. 6 del 2006, hanno impugnato i provvedimenti delle rispettive amministrazioni comunali mediante i quali è stata disposta la cessazione dell'attività da loro svolta «per mancata conformazione ai nuovi requisiti (in prevalenza igienico-sanitari e di sicurezza dei locali) disposti dalla predetta legge regionale». Nell'ambito di tali giudizi il rimettente ha eccepito l'illegittimità costituzionale delle disposizioni regionali in attuazione delle quali sono stati adottati i provvedimenti impugnati. In particolare, il TAR censura l'art. 1, «nella parte in cui riporta la materia oggetto di trattazione alla legislazione residuale regionale sul commercio»; l'art. 4, «che introduce un sistema generalizzato di autorizzazione civica per l'esercizio dell'attività»; l'art. 8, nella parte in cui introduce - con immediata modifica dei regolamenti vigenti (comma 2) - i nuovi requisiti igienico-sanitari e di sicurezza dei locali, e, specificamente, la previsione: di un servizio igienico in uso esclusivo del personale dipendente (lettera e); di un servizio igienico riservato al pubblico, anche prossimo al locale nel caso di esercizi già attivi all'entrata in vigore della presente legge, ma ad uso esclusivo dello stesso per il locale con superficie fino a 60 metri quadrati; di un ulteriore servizio igienico per il locale di dimensioni superiori (lettera f); «uno spazio di attesa all'interno del locale di almeno 9 metri quadrati, fino a 4 postazioni telefoniche, provvisto di idonei sedili posizionati in modo da non ostruire le vie di esodo» (lettera h); la superficie minima (pari a 1 metro quadrato) per ogni postazione e la sua collocazione in modo da garantire un percorso di esodo, libero da qualsiasi ingombro, nonché la larghezza minima di 1,20 metri (lettera i). Sono censurati, altresì, gli artt. 9, comma 1, lettera c), e comma 2, e 12, che regolano il regime transitorio per i vecchi esercizi, nel senso che la prescritta autorizzazione è revocata, senza possibilità di proroga, «quando il titolare non abbia adempiuto all'obbligo di porsi in regola con le vigenti norme, prescrizioni e autorizzazioni in materia edilizia, urbanistica ed igienico-sanitaria, nonché con le disposizioni sulla destinazione d'uso dei locali e degli edifici, prevenzione incendi e sicurezza, preventivamente all'avvio dell'attività come previsto dall'articolo 4, ovvero entro un anno dall'entrata in vigore della presente legge ai sensi dell'articolo 12».
Tali
disposizioni, ad avviso del rimettente, vìolerebbero l'art. 117 della
Costituzione, in quanto, incidendo sulla materia (concorrente)
dell'ordinamento delle comunicazioni, sarebbero incompatibili con il
principio di proporzionalità, di derivazione comunitaria (art. 117,
primo comma). Sarebbero, inoltre, lesive delle competenze esclusive del
legislatore statale in ordine alla «tutela della concorrenza» di cui
all'art. 117, secondo comma, lettera e) Cost., ed alla
«determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i
diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il
territorio nazionale» (art. 117, secondo comma, lettera m,
Cost.). Le disposizioni regionali violerebbero altresì l'art. 117, terzo comma, Cost. ponendosi in contrasto con i princìpi fondamentali dettati dal legislatore statale in ordine al regime autorizzatorio: princìpi desumibili dagli artt. 2, 3, 4 e 25 del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche). Esse contrasterebbero, inoltre, con gli artt. 3 e 41 della Costituzione, dal momento che l'introduzione, con efficacia retroattiva, di nuovi e più rigorosi requisiti strutturali e igienico-sanitari determinerebbe una illegittima disparità di trattamento tra i centri di telefonia già attivi (chiamati, in tempi brevi e con costi elevati, ad effettuare le necessarie opere di adeguamento) e quelli aperti successivamente all'entrata in vigore delle censurate disposizioni, con ripercussioni negative sulla libertà di iniziativa economica privata e sull'assetto concorrenziale del mercato. Infine, ad avviso del TAR, le disposizioni in oggetto sarebbero incompatibili con l'art. 15 della Costituzione, introducendo misure idonee a nuocere alla libertà di comunicazione. 3. - Le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione. 4. - Le questioni sollevate in otto delle suddette ordinanze (r.o. nn. 2, 15, 65, 66, 101, 102, 103 e 127 del 2008) sono manifestamente inammissibili per carente descrizione delle fattispecie concrete. Non è infatti sufficiente il pur ampio andamento argomentativo in tema di rilevanza sviluppato in termini identici nei diversi atti di rimessione. Il giudice a quo ha fornito solo generiche indicazioni in ordine agli effetti delle disposizioni impugnate sulle situazioni giuridiche vantate dalle parti ricorrenti, omettendo tuttavia la doverosa descrizione delle specifiche violazioni asseritamente riscontrate dalle amministrazioni comunali. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l'insufficiente descrizione della fattispecie, giacché impedisce di vagliare l'effettiva applicabilità delle censurate disposizioni ai casi dedotti, si risolve in carente motivazione sulla rilevanza della questione, determinandone, conseguentemente, la manifesta inammissibilità, risultando peraltro preclusa, in virtù del principio di autosufficienza dell'ordinanza di rimessione, l'acquisizione di elementi di conoscenza attingendo direttamente al fascicolo di causa (fra le decisioni più recenti: ordinanze n. 224, n. 223, n. 217, n. 210 e n. 174 del 2008; n. 251 del 2007, n. 303 e n. 164 del 2006). 5. - Diversamente, nelle ordinanze r.o. nn. 67 e 100 del 2008, il TAR riferisce espressamente che i provvedimenti comunali di interruzione della attività dei centri di telefonia sono stati adottati in ragione del mancato conseguimento dell'autorizzazione prevista e disciplinata dalla legge regionale n. 6 del 2006. In particolare, nell'ordinanza r.o. n. 67, il rimettente non solo espressamente richiama l'ordinanza comunale di cessazione dell'attività «emessa ai sensi e per gli effetti della l.r. 6/2006», ma aggiunge che tale provvedimento specifica «che l'attività medesima potrà essere eventualmente ripresa solo dopo aver regolarizzato le violazioni riscontrate durante il sopralluogo citato in premessa ed ottenuto regolare autorizzazione ai sensi dell'art. 4 della citata legge regionale n. 6/2006». Quanto alla ordinanza r.o. n. 100 del 2008, il rimettente riferisce che la chiusura del centro di telefonia gestito dal ricorrente è stata disposta in quanto «esercitato in assenza della prescritta autorizzazione di cui alla legge regionale 3 marzo 1996 (recte: 2006), n. 6». Dal momento che tutta la disciplina della legge regionale n. 6 del 2006 (e tanto più i fondamentali artt. 4 e 9, entrambi impugnati) è caratterizzata da questa speciale e nuova autorizzazione comunale «per l'insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa», lo specifico riferimento operato in queste due ordinanze al nuovo istituto è sufficiente a giustificare la rilevanza delle censure prospettate in relazione all'art. 4, nonché agli artt. 9 e 12, i quali estendono la nuova disciplina ai centri di telefonia preesistenti all'entrata in vigore della legge regionale. Inammissibili sono, invece, le questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione all'art. 8, non avend o il rimettente specificato se e quali fossero i requisiti igienico-sanitari accertati in concreto come mancanti, se, cioè, fossero proprio quelli censurati. Tale omessa specificazione si risolve, ancora una volta, in un difetto di motivazione sulla rilevanza delle questioni. 6. - Quanto al merito delle dedotte questioni di legittimità costituzionale, il rimettente lamenta l'avvenuta configurazione, ad opera del legislatore lombardo, di «un regime autorizzativo ulteriore e duplicativo» rispetto al sistema delineato in sede comunitaria e recepito con il decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche). Al fine di appurare la fondatezza delle censure prospettate, appare necessario soffermare l'attenzione sull'inquadramento della disciplina legislativa regionale in oggetto nelle materie di cui all'art. 117 Cost. L'art. 1 della legge regionale n. 6 del 2006 ascrive la disciplina dei centri in questione alla materia del commercio, come ribadito dal successivo art. 2, comma 2, lettera a), a mente del quale per "centro di telefonia in sede fissa" s'intende «qualsiasi struttura ove è svolta l'attività commerciale in via esclusiva di cessione al pubblico di servizi telefonici». Inoltre, la successiva lettera b) dello stesso art. 2, comma 2, considera quale "cessione al pubblico di servizi telefonici" «ogni attività commerciale che importi una connessione telefonica o telematica allo scopo di fornire servizi di telefonia vocale indipendentemente dalle tecnologie di commutazio ne utilizzate, da realizzarsi nei locali o sulle superfici aperti al pubblico e a tale scopo attrezzati, nonchè l'attività di vendita di schede telefoniche». La difesa regionale, dal canto suo, ribadisce che «il nucleo essenziale dell'intervento legislativo regionale è da identificarsi nelle modalità di esercizio dell'attività commerciale». Questa collocazione materiale è contestata dall'autorità rimettente che, al contrario, riconduce i centri di telefonia tra i "servizi di comunicazione elettronica" di cui all'art. 2, paragrafo 1, lettera c), della Direttiva n. 2002/21/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio istitutiva di un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica), ai sensi del quale sono tali «i servizi forniti di norma a pagamento consistenti esclusivamente o prevalentemente nella trasmissione di segnali su reti di comunicazioni elettroniche, compresi i servizi di telecomunicazioni e i servizi di trasmissione nelle reti utilizzate per la diffusione circolare radiotelevisiva, ma ad esclusione dei servizi che forniscono contenuti trasmessi utilizzando reti e servizi di comunicazione elettronica o che esercitano un controllo editoriale su tali contenuti». È opportuno premettere che la pluralità degli interessi incisi dalla legge può determinare, sul piano del riparto della funzione legislativa tra Stato e Regioni, una convergenza di titoli competenziali su determinate aree materiali o su singoli oggetti. In situazioni del genere, questa Corte ha più volte chiarito che «occorre fare riferimento all'oggetto ed alla disciplina stabilita delle norme scrutinate, per ciò che esse dispongono (sentenze n. 450 e n. 411 del 2006), alla luce della ratio dell'intervento legislativo nel suo complesso e nei suoi punti fondamentali, tralasciando gli aspetti marginali e gli effetti riflessi delle norme medesime (sentenze n. 319 e n. 30 del 2005), cos&igrav e; da identificare correttamente e compiutamente anche l'interesse tutelato (sentenze n. 449 del 2006 e n. 285 del 2005)» (sentenza n. 165 del 2007; analogamente sentenza n. 430 del 2007). Nel presente giudizio, questa Corte osserva che la legge regionale scrutinata ha come oggetto assolutamente caratterizzante la determinazione, per una particolare categoria di esercizi qualificati come "commerciali", di speciali requisiti necessari perché i Comuni possano rilasciare un'apposita autorizzazione ai nuovi, così come ai preesistenti, centri di telefonia. In assenza di questa autorizzazione, o in caso di revoca della medesima, è vietato «l'esercizio dell'attività di cessione al pubblico del servizio di telefonia in sede fissa». Pacifica conferma di questa lettura della legge si trova nella prassi amministrativa, ad iniziare dalle circolari esplicative della legge censurata inviate dalla Regione ai Sindaci dei Comuni della Lomba rdia. Ora, anche prescindendosi dalla integrale sovrapposizione della analitica disciplina legislativa alla potestà regolamentare ed amministrativa propria dei Comuni (profilo che, pur presentando aspetti problematici, non può essere scrutinato in questa sede, in quanto non oggetto di specifica e motivata doglianza), appare evidente che la legge regionale si riferisce ad una particolare attività prevista e disciplinata dal succitato Codice delle comunicazioni elettroniche come «servizio di comunicazione elettronica», il cui art. 1, comma 1, lettera gg), riproduce testualmente il già riportato art. 2, paragrafo 1, lettera c) della suddetta Direttiva comunitaria del 2002. Al riguardo non è fondata la tesi difensiva regionale secondo cui non sarebbe applicabile la nozione di "servizi di comunicazione elettronica" in quanto i centri di telefonia «si limitano, svolgendo una funzione di "intermediari", a mettere a disposizione del pubblico personal computer o telefoni e usufruiscono a loro volta dei servizi di fornitura delle reti emanati dalle varie aziende». In realtà, tale attività rientra specificamente nella nozione di servizio di comunicazione elettronica come definito dal Codice, in quanto, appunto, consistente nell'erogazione del servizio di trasmissione di segnali su reti di comunicazione elettronica, ovvero del servizio di telecomunicazione. Peraltro, la ratio e la lettera di tutto il Codice sono nel senso di disciplinare l'intero arco delle comunicazioni elettroniche fino ai diritti di accesso ai mezzi da parte degli utenti. L'art. 25 del predetto Codice, che contempla - come si vedrà meglio successivamente - un'autorizzazione generale ed il relativo allegato n. 9 sono espliciti nel riferirsi anche ai fornitori al pubblico di «servizi di comunicazione elettronica». In tal senso, d'altra parte, risulta orientata la pacifica prassi amministrativa in atto anche nella Regione Lombardia: i gestori dei centri di telefonia, infatti, per mezzo del modello di cui al succitato allegato n. 9, denunciano l'inizio attività all'ispettorato territoriale del Ministero delle Comunicazioni, ai sensi e con le modalità di cui all'art. 25, comma 2, del predetto Codice. Certamente, nell'attività posta in essere dai centri di telefonia sono rinvenibili alcuni degli elementi tipici degli esercizi commerciali, tant'è vero, ad esempio, che l'art. 6 della legge regionale in questione si occupa proprio degli orari e delle modalità di esercizio di tale attività (profili ascrivibili alla materia del "commercio": si vedano le sentenze n. 243 del 2005 e n. 76 del 1972). Tuttavia, trattasi di elementi accessori e strumentali rispetto all'oggetto qualificante l'attività svolta dai centri di telefonia in sede fissa, consistente nella erogazione di un servizio di comunicazione elettronica. Nei centri di telefonia, invero, lo scambio di un servizio verso la corresponsione di un prezzo afferisce a beni ed esigenze fondamentali della persona e, nel contempo, della comunità, coinvolgendo interessi individuali (correlati alla comunicazione con altre persone) e generali (difesa e sicurezza dello Stato; protezione civile; salute pubblica; tutela dell'ambiente; riservatezza e protezione dei dati personali), diversamente da quanto accade nelle ordinarie attività commerciali di cui all'art. 4 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell'articolo 4, comma 4, della L. 15 marzo 1997, n. 59). 7. - Questa Corte, nella sentenza n. 336 del 2005, ha già riconosciuto come il Codice delle comunicazioni elettroniche, al fine di adeguarsi alla normativa comunitaria, in generale ha inteso perseguire «l'obiettivo della liberalizzazione e semplificazione delle procedure anche al fine di garantire l'attuazione delle regole della concorrenza». Nella medesima sentenza si è anche affermato che le disposizioni del suddetto Codice intervengono in molteplici ambiti materiali, diversamente tra loro caratterizzati in relazione al riparto della competenza legislativa fra Stato e Regioni: sono, infatti, rinvenibili in questo settore titoli di competenza esclusiva statale («ordinamento civile», «coordinamento informativo statistico ed informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale», «tutela della concorrenza»), e titoli di competenza legislativa ripartita («tutela della salute», «ordinamento della comunicazione», «governo del territorio»). Vengono, infine, in rilievo anche materie di competenza legislativa residuale delle Regioni, quali, in particolare, l'«industria» ed il «commercio» (alle quali la pronuncia del 2005 non dava particolare rilievo, in quanto estranee agli ambiti allora presi in considerazione). Non è invece pertinente, in questa sede, l'evocazione dell'art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, in quanto la disciplina regionale dei centri di telefonia non incide sulla «determinazione degli standard strutturali e qualitativi di prestazioni che, concernendo il soddisfacimento di diritti civili e sociali, devono essere garantiti, con carattere di generalità, a tutti gli aventi diritto» (sentenza n. 168 del 2008; si vedano altresì le sentenze n. 50 del 2008; n. 387 del 2007 e n. 248 del 2006). Nel presente giudizio, per le ragioni illustrate sopra, viene in rilievo la disciplina dettata dal Codice delle comunicazioni elettroniche, e in particolare, dall'art. 3, il quale espressamente fissa i principi generali del settore delle comunicazioni elettroniche. In questa sede, di particolare rilievo appaiono le disposizioni del comma 1, che garantisce «i diritti inderogabili di libertà delle persone nell'uso dei mezzi di comunicazione elettronica, nonché il diritto di iniziativa economica ed il suo esercizio in regime di concorrenza, nel settore delle comunicazioni elettroniche», nonché del comma 2, secondo cui «la fornitura di reti e servizi di comunicazione elettronica, che è di preminente interesse generale, è libera». È evidente che disposizioni del genere sono espressione della competenza esclusiva dello Stato in tema di «tutela della concorrenza» e di «ordinamento civile», prima ancora di costituire principi fondamentali in tema di «ordinamento della comunicazione». Ciò non toglie che lo stesso Codice, al comma 3 del medesimo art. 3, preveda anche la possibilità di porre «limitazioni derivanti da esigenze della difesa e della sicurezza dello Stato, della protezione civile, della salute pubblica e della tutela dell'ambiente e della riservatezza e protezione dei dati personali». Limitazioni, tuttavia, che devono essere «poste da specifiche disposizioni di legge o da disposizioni regolamentari di attuazione». Dal canto suo, il successivo art. 4 pone fra gli «obiettivi generali della disciplina di reti e servizi di comunicazione elettronica» la garanzia di un «accesso al mercato delle reti e servizi di comunicazione elettronica secondo criteri di obiettività, trasparenza, non discriminazione e proporzionalit&ag rave;», nonché la promozione della «semplificazione dei procedimenti amministrativi e la partecipazione ad essi dei soggetti interessati, attraverso l'adozione di procedure tempestive, non discriminatorie e trasparenti nei confronti delle imprese che forniscono reti e servizi di comunicazione elettronica». 8. - I principi generali del Codice trovano concretizzazione nella previsione di una «autorizzazione generale» che l'art. 25 del Codice richiede per lo svolgimento dell'attività di fornitura di servizi di comunicazione elettronica. Tale autorizzazione «consegue alla presentazione» al Ministero per le comunicazioni da parte degli interessati di una apposita dichiarazione «contenente l'intenzione di iniziare la fornitura di reti o servizi di comunicazione elettronica, unitamente alle informazioni strettamente necessarie per consentire al Ministero di tenere un elenco aggiornato dei fornitori di reti e di servizi di comunicazione elettronica» ed integrata da quanto appositamente richiesto dall'allegato n. 9 del Codice. Coerente rispetto al principio di libertà nell'attività di fornitura ed all'obiettivo della massima semplificazione dei procedimenti è la circostanza che la dichiarazione costituisca denuncia di inizio attività, di modo che «l'impresa è abilitata ad iniziare la propria attività a decorrere dall'avvenuta presentazione della dichiarazione»; il Ministero può solo disporre, entro il termine di sessanta giorni, «se del caso, con provvedimento motivato da notificare agli interessati entro il medesimo termine, il divieto di prosecuzione dell'attività» laddove verifichi d'ufficio la mancanza dei requisiti richiesti (art. 25, comma 4). Rispetto a questo «quadro normativo istituito dallo Stato membro» (si tratta della definizione di «autorizzazione generale» secondo l'art. 2, comma 2, lettera a, della Direttiva 7 marzo 2002, n.2002/20/CE), si pone in palese contrasto la censurata legge regionale. Essa, infatti, in nome della propria competenza legislativa in materia di commercio, pretende di disciplinare organicamente «l'insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa», prevedendo, all'art. 4, la necessità di uno speciale provvedimento autorizzatorio, diverso ed ulteriore rispetto a quello previsto dall'art. 25 del Codice che il Comune è chiamato a concedere o negare entro novanta giorni dalla presentazione della domanda, e al cui rilascio è subordinato l'esercizio dell'attività. Inoltre, il conseguimento del provvedimento autorizzatorio è subordinato dal citato art. 4 alla sussistenza di requisiti alquanto eterogenei ("morali" per i titolari ed i gestori - art. 3; di disponibilità dei locali - art. 4; di caratteristiche igienico-sanitarie, di presenza di sufficienti misure di sicurezza dei luoghi di lavoro e di prevenzione degli incendi- art. 8; di natura urbanistica - art. 7; ecc.), i quali si sovrappongono, largamente ed in diversi ambiti, ai requisiti previsti dal Codice e dalle leggi a cui questo rinvia e, soprattutto, contraddicono palesemente l'unicità del procedimento autorizzativo e le collegate esigenze di semplificazione e tempestività dei procedimenti. Non vi è dubbio che il comma 1 dell'art. 25 del Codice (riproducendo quanto in generale determinato dal comma 3 dell'art. 3 del medesimo testo) prevede che la libertà nella fornitura di servizi di comunicazione elettronica possa essere limitata anche «da specifiche disposizioni» che siano «giustificate da esigenze della difesa e della sicurezza dello Stato e della sanità pubblica, compatibilmente con le esigenze della tutela dell'ambiente e della protezione civile». Tuttavia, queste disposizioni possono solo integrare la procedura autorizzativa prevista dall'art. 25 (d'altra parte, lo stesso allegato 9 al Codice prevede che il dichiarante, al momento della richiesta di autorizzazione, debba garantire anche il rispetto «delle condizioni che posso no essere imposte alle imprese in virtù di altre normative non di settore») o temporaneamente ad essa sommarsi in casi di emergenza (si veda il primo comma dell'art. 7 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144, recante «Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale», convertito, con modificazioni, nella legge 31 luglio 2005, n. 155, che fino al 31 dicembre 2008 prevede la necessità anche di una licenza del Questore). Confligge, dunque, con le scelte operate dal legislatore statale in tema di liberalizzazione dei servizi di comunicazione elettronica e di semplificazione procedimentale la introduzione, ad opera del legislatore regionale, di un vero e proprio autonomo procedimento autorizzatorio per lo svolgimento dell'attività dei centri di telefonia; ferma restando la possibilità per i Comuni, tramite la loro potestà regolamentare, e le Regioni, tramite la loro potestà legislativa, di disciplinare specifici profili incidenti anche su questo settore. Deve pertanto essere dichiarata l'illegittimità costituzionale, per violazione dei criteri di riparto delle competenze di cui all'art. 117 della Costituzione, degli artt. 1, 4, 9, comma 1, lettera c), e comma 2, e 12, della legge regionale n. 6 del 2006. 9. - Pur restando escluse dall'oggetto del giudizio le altre norme della legge della Regione Lombardia, non validamente impugnate, questa Corte rileva che la riscontrata illegittimità costituzionale degli artt. 1, 4, 9, comma 1, lettera c), e comma 2, e 12, non può che estendersi all'intera legge regionale n. 6 del 2006. Invero, l'assetto normativo concepito dal legislatore lombardo s'irradia dalle suddette disposizioni che configurano l'autorizzazione ivi prevista quale nucleo essenziale del prescelto regime amministrativo. Tutti gli altri articoli della legge regionale censurata risultano avvinti da un inscindibile rapporto strumentale alle disposizioni dichiarate incostituzionali. E, pertanto, il vizio d'incostituzionalità si proietta sull'intera disciplina dei centri di telefonia, determinandone la complessiva caducazione ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87. 10. - Le residue censure, riferite agli altri parametri evocati, restano assorbite. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi; a) dichiara la illegittimità costituzionale degli artt. 1, 4, 9, comma 1, lettera c), e comma 2, e 12, della legge della Regione Lombardia 3 marzo 2006, n. 6 (Norme per l'insediamento e la gestione di centri di telefonia in sede fissa); b) dichiara, ai sensi dell'articolo 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale delle restanti disposizioni della legge della Regione Lombardia n. 6 del 2006; c) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate, in riferimento agli articoli 3, 15, 41 e 117 della Costituzione, con le ordinanze r.o. nn. 67 e 100 del 2008 dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia nei confronti dell'art. 8, comma 1, lettere e), f), h) ed i), e comma 2, della legge della Regione Lombardia n. 6 del 2006; d) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia con le ordinanze r.o. nn. 2, 15, 65, 66, 101, 102, 103 e 127 del 2008. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Ugo DE SIERVO, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 24 ottobre 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA SENTENZA N. 351 ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 1 e 2, della legge della Regione Lazio 13 giugno 2007, n. 8 (Disposizioni concernenti cariche di organi di amministrazione di enti pubblici dipendenti decaduti ai sensi di norme legislative regionali dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale), promosso con ordinanza del 16 ottobre 2007 dal Consiglio di Stato sul ricorso proposto da Franco Condò contro la Regione Lazio ed altri, iscritta al n. 88 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visti gli atti di costituzione di Franco Condò e Pietro Grasso; udito nell'udienza pubblica del 21 ottobre 2008 il Giudice relatore Sabino Cassese; uditi gli avvocati Francesco Castiello e Guido De Santis per Franco Condò e Rosaria Russo Valentini per Pietro Grasso. Ritenuto in fatto 1. - Il Consiglio di Stato ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 1 e 2, della legge della Regione Lazio 13 giugno 2007, n. 8 (Disposizioni concernenti cariche di organi di amministrazione di enti pubblici dipendenti decaduti ai sensi di norme legislative regionali dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale), per violazione degli articoli 3, 24, 97, 101, 103, 113 e 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione. 1.1. - Le disposizioni impugnate stabiliscono che: «1. La Giunta regionale, nei confronti dei componenti di organi istituzionali degli enti pubblici dipendenti, i quali siano decaduti dalla carica ai sensi di norme legislative regionali dichiarate illegittime a seguito di sentenze della Corte costituzionale, con conseguente risoluzione dei contratti di diritto privato disciplinanti i relativi rapporti di lavoro, è autorizzata a deliberare in via alternativa: a) il reintegro nelle cariche e il ripristino dei relativi rapporti di lavoro; b) un'offerta di equo indennizzo. 2. La soluzione di cui al comma 1, lettera b), è comunque adottata qualora il rapporto di lavoro sia stato interrotto, di fatto, per oltre sei mesi». 1.2. - Il collegio rimettente ricostruisce le vicende del giudizio principale nei termini che seguono. Il ricorrente, in applicazione della disciplina normativa regionale in base alla quale i vertici degli organi istituzionali vengono meno con l'insediamento del nuovo Consiglio regionale (cosiddetto spoils system), è stato dichiarato decaduto dall'incarico di direttore generale della Azienda USL Rm/E. Avverso tale decisione egli ha presentato ricorso al Tribunale amministrativo regionale del Lazio, proponendo in via incidentale domanda cautelare, che è stata rigettata dal giudice di primo grado. Il ricorrente ha successivamente proposto appello cautelare per l'annullamento e la riforma dell'ordinanza di reiezione del Tar Lazio. Chiamato a pronunciarsi su tale appello cautelare, il Consiglio di Stato ha sollevato questione di le gittimità costituzionale delle disposizioni legislative regionali istitutive del predetto sistema di spoils system. Tale disciplina legislativa (art. 71, commi 1, 3 e 4, lettera a), della legge della Regione Lazio 17 febbraio 2005, n. 9, recante «Legge finanziaria regionale per l'esercizio 2005»; art. 55, comma 4, della legge della Regione Lazio 11 novembre 2004, n. 1, recante «Nuovo Statuto della Regione Lazio») è stata dichiarata costituzionalmente illegittima da questa Corte con la sentenza n. 104 del 2007. Prima della prosecuzione dell'appello cautelare, tuttavia, sono entrate in vigore le disposizioni legislative regionali impugnate, in applicazione delle quali la Regione Lazio, non essendo possibile disporre la reintegrazione a causa del decorso del periodo di sei mesi di interruzione di fatto del rapporto (art. 1 , comma 1, lettera b, della legge n. 8 del 2007), ha "convenuto" un indennizzo pari a 15 mensilità, benché nessun accordo - chiarisce il collegio rimettente - sia stato formalizzato con il ricorrente, il quale ha invece insistito per l'adozione di ogni opportuna misura cautelare che valga a rendere effettiva la sentenza n. 104 del 2007 della Corte costituzionale. Nella camera di consiglio fissata per la ripresa dell'incidente cautelare, il Consiglio di Stato ha quindi nuovamente sospeso il giudizio, rimettendo alla Corte la questione di legittimità costituzionale delle nuove disposizioni legislative regionali, introdotte, nelle more del giudizio, per disciplinare la posizione dei soggetti decaduti dall'incarico sulla base della disciplina già dichiarata illegittima con la citata sentenza n. 104 del 2007. 1.3. - In punto di rilevanza, il giudice a quo osserva che la disciplina impugnata risulta preclusiva dell'adozione di misure di tutela cautelare in forma specifica, le quali, in mancanza di tale disciplina, sarebbero invece accordate al ricorrente, come del resto sono state accordate a favore di altri direttori generali decaduti in base alla disciplina dichiarata illegittima con la medesima sentenza n. 104 del 2007. Per un verso, infatti, il venir meno ex tunc della base legislativa dei provvedimenti impugnati renderebbe scontato il giudizio prognostico sull'esito del ricorso, di cui all'art. 21 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei Tribunali amministrativi regionali). Per altro verso, la natura del pregiudizio subìto dal ricorrente, che ne mette in discussione la stessa identità professionale, giustificherebbe l'applicazione della tutela cautelare in forma specifica. Quest'ultima, tuttavia, risulta appunto preclusa dalla norma impugnata, la quale, in caso di interruzione di fatto del rapporto per oltre sei mesi, impone la soluzione dell'offerta di equo indennizzo, escludendo quella, che rappresenterebbe peraltro una solo apparente alternativa, del reintegro nella carica. 1.4. - In punto di non manifesta infondatezza, il collegio rimettente ritiene che la disciplina legislativa regionale impugnata contrasti con una pluralità di parametri costituzionali. In primo luogo, prevedendo la possibilità (e in certe condizioni la necessità) dell'indennizzo in luogo della reintegrazione, essa reintrodurrebbe, sebbene in una «forma onerosa», lo stesso meccanismo di spoils system che la Corte costituzionale ha già ritenuto non conforme a Costituzione, incorrendo, pertanto, nella stessa violazione dell'art. 97 Cost. rilevata dalla sentenza n. 104 del 2007. In secondo luogo, le disposizioni legislative regionali impugnate contrasterebbero con gli artt. 3, 24, 103 e 113 Cost. sotto un duplice profilo. Per un verso, esse risulterebbero lesive del principio di effettività della tutela giurisdizionale contro gli atti della pubblica amministrazione, limitando tale tutela al solo profilo risarcitorio. Per altro verso, tale limitazione sarebbe irragionevolmente disposta soltanto a carico dei dirigenti decaduti in base a norme regionali dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale e non anche a carico di dirigenti revocati dall'incarico con provvedimenti giudicati illegittimi nelle competenti sedi. Ciò rappresenterebbe una violazione dell'art. 3 Cost., «in termini di ragionevolezza della classificazione legislativa». In terzo luogo, secondo il Collegio rimettente, le modalità e i tempi di approvazione della normativa impugnata (in pendenza dei giudizi che avevano dato luogo alla pronuncia della Corte costituzionale n. 104 del 2007 e immediatamente dopo che il Consiglio di Stato aveva accordato la tutela cautelare in forma specifica in uno di tali giudizi) farebbero supporre che essa sia stata introdotta non per regolare in astratto la materia, ma per incidere sulle sorti del procedimento giurisdizionale in corso, con eccesso di potere legislativo e conseguente violazione dell'art. 101 Cost. Infine, la disciplina regionale, della cui costituzionalità il Consiglio di Stato dubita, riguarderebbe oggetti «(limiti agli effetti delle sentenze della Corte costituzionale e alla gamma delle misure cautelari nel processo amministrativo)» che rientrano nelle materie riservate dall'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. alla competenza esclusiva dello Stato: «giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa». 2. - Si è costituito in giudizio il ricorrente nel giudizio principale, che, aderendo pienamente agli argomenti sviluppati nell'ordinanza di rimessione del Consiglio di Stato, insiste per la fondatezza della questione di legittimità costituzionale nei termini prospettati dal Collegio rimettente. 3. - Si è costituito in giudizio il controinteressato nel giudizio principale, chiedendo il rigetto della sollevata questione di legittimità costituzionale. 4. - In prossimità dell'udienza pubblica, lo stesso controinteressato ha presentato istanza di rinvio dell'udienza, motivata come segue: «La Regione Lazio ha presentato una proposta di legge (n. 408 del 7.10.2008), messa all'ordine del giorno per l'approvazione del plenum del Consiglio del giorno 20 p.v. e che tale legge sostituirà la l. r. n. 8/07 sottoposta al vostro giudizio la cui udienza è fissata per il 21 ottobre p.v». 5. - Nel corso dell'udienza, la difesa del controinteressato ha insistito per il rinvio dell'udienza e prodotto copia della citata proposta di legge, approvata in data 20 ottobre 2008 dal Consiglio della Regione Lazio, chiedendo che siano rimessi gli atti al giudice a quo affinchè rivaluti la rilevanza della questione alla luce del mutato quadro normativo di riferimento. Considerato in diritto 1. - Il Consiglio di Stato ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 1 e 2, della legge della Regione Lazio 13 giugno 2007, n. 8 (Disposizioni concernenti cariche di organi di amministrazione di enti pubblici dipendenti decaduti ai sensi di norme legislative regionali dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale), per violazione degli articoli 3, 24, 97, 101, 103, 113 e 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione. In particolare, secondo il Collegio rimettente, la violazione dell'art. 97 della Costituzione deriverebbe dalla circostanza che le disposizioni impugnate escludono la obbligatoria reintegrazione del dirigente che sia automaticamente decaduto dall'incarico in base ad una disposizione dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale. Tali disposizioni, nel prevedere la facoltà della Giunta regionale di offrire al dirigente un indennizzo in luogo della reintegrazione e, soprattutto, nel disporre l'obbligo della Giunta stessa di offrire l'indennizzo nel caso di interruzione di fatto del rapporto per un periodo superiore a sei mesi, avrebbero l'effetto - secondo il rimettente - di «reintrodurre la possibilità di far luogo a quel meccanismo di spoils system che la Corte costituzionale ha già rilevato non conforme a Costituzio ne», dal momento che, «a ben vedere, la l. r. n. 8 del 2007 non è altro che una forma onerosa di spoils system». 1.2. - In via preliminare, va rilevato che risulta ininfluente, ai fini di questa decisione, la proposta di legge regionale di modifica delle disposizioni censurate, già approvata e non ancora pubblicata, cui ha fatto riferimento la difesa della parte privata costituita (controinteressata nel giudizio a quo), nella sua richiesta, non accolta, di rinvio dell'udienza di discussione. La Corte, infatti, ritiene che il contenuto di tale proposta - che riguarda la sostituzione della originaria previsione alternativa dell'offerta di equo indennizzo (di cui alla lettera b, dell'articolo 1, comma 1, della legge regionale Lazio n. 8 del 2007) con il risarcimento del danno, nonché la ridefinizione dell'ambito temporale di operatività della possibilità della deliberazione alternativa da parte della Giunta regionale (di cui al l'art. 1, comma 2) - lascerebbe inalterato, per quanto rileva ai fini della presente questione, l'assetto normativo denunciato come costituzionalmente illegittimo dal giudice a quo e non inciderebbe, in considerazione dei profili di legittimità costituzionale prospettati, sulla decisione che il giudice rimettente è chiamato ad adottare. 1.3. - Vanno inoltre disattese le eccezioni di inammissibilità sollevate, nel corso dell'udienza, dalla difesa del controinteressato nel giudizio principale, secondo la quale la questione posta dal rimettente sarebbe priva di rilevanza, da un lato, in ragione dell'intervenuto decorso, nelle more del giudizio, dell'originario termine di durata dell'incarico, e, dall'altro lato, in virtù dell'intervenuta approvazione dell'art. 1, comma 79, della legge regionale 11 agosto 2008, n. 14 (Assestamento del bilancio annuale e pluriennale 2008-2010 della Regione Lazio), per cui «sono prorogati sino al 30 giugno 2010 i contratti dei direttori generali delle aziende unità sanitarie locali e delle aziende ospedaliere attualmente in carica». Con riferimento alla prima eccezione di inammissibilità, il giudice rimettente, argomentando in modo non irragionevole, ha ritenuto che il suo potere di concedere la tutela cautelare resti insensibile rispetto alla circostanza di fatto del decorso del termine originariamente fissato per l'incarico, dal momento che «il lasso di tempo occorrente ad ottenere tutela giurisdizionale [...] non può mai risolversi in pregiudizio per la parte che la richiede». In relazione alla seconda eccezione di inammissibilità, va osservato che una legge che proroghi la durata degli incarichi dei direttori generali in carica non può avere l'effetto di sanare l'eventuale illegittimità degli atti con cui essi sono stati conferiti. 2. - La questione è fondata con riferimento all'art. 97 Cost.. A differenza di quanto accade nel settore privato, nel quale il potere di licenziamento del datore di lavoro è limitato allo scopo di tutelare il dipendente, nel settore pubblico il potere dell'amministrazione di esonerare un dirigente dall'incarico e di risolvere il relativo rapporto di lavoro, è circondato da garanzie e limiti che sono posti non solo e non tanto nell'interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi. Si tratta di interessi che trovano riconoscimento nelle norme costituzionali, come questa Corte ha di recente chiarito con la sentenza n. 103 del 2007 e, con specifico riferimento alla posizione dei direttori generali di aziende sanitarie locali, con la sentenza n. 104 del 2007. In tale ultima pronuncia, in particolare, la Corte ha affermato che «l'imparzialità e il buon andamento esigono che la posizione del direttore generale sia circondata da garanzie». Le garanzie non mirano soltanto a proteggere il direttore generale come dipendente, ma discendono anche da principi costituzionali posti a protezione di interessi pubblici: l'imparzialità amministrativa, con cui, secondo quanto affermato da questa Corte, contrasta un regime di automatica cessazione dell'incarico che non rispetti il giusto procedimento; il buon andamento, che risulta pregiudicato, sempre in base alla giurisprudenza di questa Corte, da un sistema di automatica sostituzione dei dirigenti che prescinda dall'accertamento dei risultati conseguiti. Da tutto ciò deriva, sul piano degli strumenti di tutela, che forme di riparazione economica, quali, ad esempio, il risarcimento del danno o le indennità riconosciute dalla disciplina privatistica in favore del lavoratore ingiustificatamente licenziato, non possono rappresentare, nel settore pubblico, strumenti efficaci di tutela degli interessi collettivi lesi da atti illegittimi di rimozione di dirigenti amministrativi. In particolare, la circostanza che il direttore generale di azienda sanitaria locale, rimosso automaticamente e senza contraddittorio, riceva, in applicazione della disposizione legislativa regionale impugnata, un ristoro economico, non attenua in alcun modo il pregiudizio da quella rimozione arrecato all'interesse collettivo all'imparzialità e al buon andamento della pubblica amministrazione. Tale preg iudizio, anzi, appare in certa misura aggravato, dal momento che, come correttamente rileva il Collegio rimettente alludendo ad una «forma onerosa di spoils system», la collettività subisce anche un aggiuntivo costo finanziario: all'obbligo di corrispondere la retribuzione dei nuovi dirigenti sanitari, nominati in sostituzione di quelli automaticamente decaduti, si aggiunge, infatti, quello di corrispondere a questi ultimi un ristoro economico. Gli altri profili di censura restano assorbiti. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, commi 1 e 2, della legge della Regione Lazio 13 giugno 2007, n. 8 (Disposizioni concernenti cariche di organi di amministrazione di enti pubblici dipendenti decaduti ai sensi di norme legislative regionali dichiarate illegittime dalla Corte costituzionale). Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Sabino CASSESE, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 24 ottobre 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA SENTENZA N. 352 ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio per conflitto di attribuzione tra enti sorto a seguito del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 29 gennaio 2008, con il quale a decorrere dal 18 gennaio 2008 è stata accertata la sospensione del sig. Salvatore Cuffaro dalla carica di deputato dell'Assemblea regionale siciliana e di Presidente della Regione siciliana, ai sensi dell'art. 15, comma 4-bis, della legge 19 marzo 1990, n. 55, promosso dalla Regione siciliana, notificato il 31 marzo 2008, depositato in cancelleria il 4 aprile 2008 ed iscritto al n. 6 del registro conflitti tra enti 2008. Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 7 ottobre .2008 il Giudice relatore Ugo De Siervo; uditi l'avvocato Guido Corso per la Regione siciliana e l'avvocato dello Stato Antonio Palatiello per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. - Con ricorso notificato il 31 marzo 2008 e depositato il successivo 4 aprile, la Regione Siciliana ha sollevato - in riferimento agli articoli 8, 9 e 10 del R.d.lgs. 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana) - conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato, in relazione al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 29 gennaio 2008, notificato il giorno successivo, con il quale «a decorrere dal 18 gennaio 2008 è accertata la sospensione del sig. Salvatore Cuffaro dalla carica di deputato dell'Assemblea regionale siciliana e di Presidente della Regione siciliana ai sensi dell'art. 15, comma 4-bis, della legge 19 marzo 1990, n. 55». 1.1. - La ricorrente riferisce che il Presidente della Regione siciliana, on. Salvatore Cuffaro, a seguito di sentenza del Tribunale di Palermo, III sez. penale, che in data 18 gennaio 2008 lo ha dichiarato colpevole dei delitti di cui all'art. 326 (rivelazione di segreti d'ufficio) e all'art. 378 (favoreggiamento personale) del codice penale, si è dimesso irrevocabilmente dalla carica di Presidente della Regione, dandone comunicazione all'Assemblea regionale il 26 gennaio 2008. Con il censurato provvedimento, il Presidente del Consiglio dei ministri, sentiti il Ministro per gli affari regionali e le autonomie locali e il Ministro dell'interno, ha sospeso l'on. Cuffaro dalla carica di deputato regionale e di Presidente della Regione con effetto dal 18 gennaio 2008, ai sensi dell'art. 15, comma 4-bis, della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazioni di pericolosità sociale). Ricorda la ricorrente che la disposizione in questione prevede la sospensione sino a diciotto mesi da una serie di cariche, inclusa quella di presidente della giunta regionale e di consigliere regionale in caso di condanna non definitiva per taluni delitti (art. 15, comma 4-bis in relazione al comma 1, lett. a). La Regione siciliana «non intende [.] contestare la legittimità costituzionale di tale previsione, consapevole che una censura del genere non è proponibile in sede di conflitto di attribuzioni»: essa, invero, si duole «della sua applicazione ad una fattispecie che esula dall'ambito di operatività della norma stessa per più di una ragione». Lo status del Presidente della Regione siciliana - osserva la difesa regionale - sarebbe pressoché integralmente regolato dallo statuto speciale, come modificato dalla legge costituzionale 31 gennaio 2001, n. 2 (Disposizioni concernenti l'elezione diretta dei presidenti delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano), per ciò che concerne i poteri, la durata nella carica (art. 9), la mozione di sfiducia (art. 10), la rimozione dalla carica (art. 8). Dal canto suo, l'art. 15 della legge n. 55 del 1990 - nella parte in cui stabilisce le conseguenze della sentenza di condanna, definitiva e non definitiva, pronunciata nei confronti del Presidente della Regione siciliana per i reati indicati ai commi 1 e 4-bis dello stesso art. 15 - sarebbe «norma di stretta interpretazione»: sicché, «una sua applicazione al di fuori dei casi espressamente previsti comporta l'invasione di un ambito materiale (lo status di Presidente della Regione Siciliana) coperto da norme di rango costituzionale». All'epoca dell'approvazione della legge n. 55 del 1990, e altresì in occasione delle successive modifiche alla stessa apportate, l'elezione dell'Assemblea regionale siciliana era disciplinata dalla legge regionale 20 marzo 1951, n. 29 (Elezione dei Deputati all'Assemblea regionale siciliana), e dall'art. 9 dello Statuto speciale nella sua formulazione originaria. Il Presidente regionale era eletto, come gli assessori, dall'Assemblea regionale nella sua prima seduta e nel suo seno. La sospensione dalla carica, prevista dall'art. 15, comma 4-bis, comportava la sostituzione del Presidente con il vice Presidente (l'assessore da lui designato, ai sensi dell'art. 10 dello statuto): si trattava di una sostituzione - sottolinea la ricorrente - con un soggetto che, per essere stato eletto deputato con il presidente e per essere entrato a far parte della giunta come lui e insieme a lui, «godeva di pari legittimazione, in ragione della identità della investitura». La modifica dello statuto, avvenuta nel 2001 con la legge costituzionale n. 2, avrebbe «radicalmente» mutato il quadro normativo di riferimento. Attualmente, il Presidente della Regione siciliana è eletto a suffragio universale e diretto contestualmente all'elezione dell'Assemblea regionale e nell'ambito di un collegio elettorale che coincide con l'intero territorio regionale. Lo stesso Presidente, poi, nomina e revoca gli assessori, tra cui un vice presidente, «senza essere neppure tenuto ad attingere i nominativi dall'Assemblea regionale». Secondo la ricorrente, la sospensione in oggetto finirebbe con il trasferire la funzioni di Presidente ad una persona (il vice Presidente) che, pur riscuotendo la fiducia del Presidente, nell'ipotesi in cui sia stato scelto al di fuori dell'assemblea, non ha ricevuto alcuna investitura popolare: ne conseguirebbe «una seria frattura fra una forma di governo spiccatamente democratica, qual è quella in cui il capo dell'esecutivo è eletto a suffragio universale e diretto, ed un assetto dell'esecutivo, che può durare sino a diciotto mesi, in cui al vertice c'è un soggetto che nessuno ha eletto». Anche quando il vice Presidente è un deputato regionale, «la sua sarebbe comunque una legittimazione debole», dal momento che egli è stato eletto in un collegio provinciale, mentre il presidente sospeso è stato eletto da un collegio elettorale che coincide con l'intera regione (è citato l'art. 1, comma 3, legge reg. n. 29 del 1951, come sostituito dall'art. 1 della legge reg. 3 giugno 2005, n. 7, recante «Norme per l'elezione del Presidente della Regione siciliana a suffragio universale e diretto. Nuove norme per l'elezione dell'Assemblea regionale siciliana. Disposizioni concernenti l'elezione dei consigli comunali e provinciali»). La trasformazione della forma di governo regionale da parlamentare in (semi) presidenziale operata dalla legge cost. n. 2 del 2001, avrebbe prodotto notevoli conseguenze, peraltro messe in luce dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 12 del 2006. Dal momento che la nuova forma di governo è caratterizzata dall'attribuzione al Presidente eletto a suffragio universale e diretto «di forti e tipici poteri per la gestione unitaria dell'indirizzo politico e amministrativo della regione (nomina e revoca dei componenti della giunta, potere di dimettersi facendo automaticamente sciogliere sia la giunta che il consiglio regionale)» (è citata la sentenza n. 2 del 2004), e tale forma di governo accomuna la Regione siciliana (art. 9 statuto Regione siciliana) alle Regioni ordinarie (art. 122, quinto comma, Cost.), per la ricorrente «contrasterebbe col nuovo assetto costituzionale la possibilità che per diciotto mesi tale gestione unitaria venga affidata ad un soggetto diverso dal presidente eletto a suffragi o universale e diretto. Soggetto al quale non potrebbe essere riconosciuto il potere di nominare e revocare gli assessori (art. 9 st. sic.) o di dimettersi provocando lo scioglimento dell'assemblea regionale (art. 10)». Pertanto, ne deriverebbero «la sopravvenuta inapplicabilità dell'art. 15, comma 4-bis della legge n. 55/1990 (abrogazione parziale per incompatibilità) nella parte in cui prevede la sospensione della carica del presidente della regione; e di conseguenza l'illegittimità del provvedimento impugnato». 1.2. - Analoghe considerazioni varrebbero, a detta della difesa regionale, anche per la sospensione dalla carica di deputato regionale. Ai sensi dell'art. 41-ter, comma 3, dello statuto speciale «è proclamato eletto Presidente della regione il candidato capolista che ha conseguito il maggior numero di voti validi in ambito regionale. Il Presidente fa parte dell'Assemblea regionale». La legge costituzionale n. 2 del 2001, che ha introdotto la testé richiamata disposizione statutaria, ha invertito la sequenza temporale (e logico-giuridica) che caratterizzava il sistema precedente. Mentre in questo il Presidente della regione era eletto nella prima seduta («e nel suo seno») dall'Assemblea regionale - così che lo status di deputato regionale precedeva e condizionava quello di Presidente della regione - oggi è il Presidente ad entrare nell'Assemblea regionale. Il titolo giuridico per far parte dell'organo legislativo è lo status di Presidente della regione, acquisito con l'elezione diretta. Questa relazione sarebbe ancora più chiaramente esplicitata nella legge regionale sull'elezione del Presidente de lla regione (legge reg. n. 7 del 2005), la quale dispone: il Presidente della Regione siciliana è eletto a suffragio universale, con voto diretto, libero e segreto, contestualmente all'elezione dell'Assemblea regionale siciliana (art. 1, comma 1); la votazione avviene su un'unica scheda (comma 2); il collegio elettorale per l'elezione del Presidente della regione coincide con il territorio regionale (comma 3); il Presidente della regione fa parte dell'Assemblea regionale siciliana (art. 4). Il Presidente della regione è eletto in un collegio diverso (unico regionale) dai nove collegi provinciali nei quali sono eletti i deputati regionali; egli diviene deputato regionale in quanto eletto presidente. Ne dovrebbe conseguire, ad avviso della ricorrente, che se la sospensione non può essere disposta in relazione alla carica di Presidente della regione, essa non può nemmeno colpire l'ufficio (derivato) di deputato regionale che il Presidente ricopre. 1.3. - La Regione Sicilia, infine, sottolinea come il 26 gennaio 2008, e dunque prima che intervenisse l'impugnato provvedimento del Presidente del Consiglio, l'on. Cuffaro si fosse irrevocabilmente dimesso dalla carica: «sicché è venuto meno da parte sua l'esercizio delle funzioni dalle quali il decreto impugnato mira a sospenderlo». La ricorrente chiede, pertanto, alla Corte di valutare se tale «circostanza non determini la nullità per mancanza di oggetto del provvedimento impugnato (artt. 21-septies, legge n. 241 del 1990 e 1418 c.c.)»; ricorrerebbe, infatti, un'ipotesi di «invalidità radica le che si risolve in una menomazione della sfera di competenza regionale garantita dagli artt. 8 e seguenti dello statuto speciale». 2. - Con atto depositato il 16 aprile 2008, si è costituito nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale chiede che il ricorso sia dichiarato inammissibile o, comunque, infondato. 2.1. - Innanzitutto, la difesa erariale confuta le argomentazioni svolte dalla ricorrente - e sorrette dalla circostanza che il Presidente Cuffaro si sia dimesso volontariamente in epoca precedente rispetto al censurato provvedimento - alla stregua delle quali per il Presidente della Regione siciliana non opererebbero le ipotesi di cessazione previste per la generalità delle cariche elettive. Secondo l'Avvocatura dello Stato, «la tesi avversaria prova troppo, perché si risolve nella negazione di efficacia di qualsiasi vicenda volontaria di sospensione o cessazione sopravvenuta all'elezione». D'altronde - continua il resistente - la sospensione in oggetto opera di diritto «e dunque è stato necessario adottare il provvedimento statale con effetto dal 18 gennaio 2008, perché soltanto il successivo 26 gennaio il Cuffaro aveva sentito il dovere di dimettersi». 2.2. - La parte resistente, poi, non condivide l'assunto secondo cui la disposizione in oggetto, attributiva del potere statale di sospensione, «sarebbe inoperante quando non vi sia un sistema di sostituzione adeguata del soggetto sospeso». Questa tesi è rigettata in quanto, in primo luogo, non attiene alla negazione del potere in astratto; inoltre, essa non trova riscontro positivo nella realtà, dal momento che l'assenza del Presidente è colmata dal subingresso del vice presidente; infine, «nel sistema costituzionale nessuno è intoccabile, neppure quando fosse incompleto il sistema delle sostituzioni». D'altro canto - conclude la difesa dello Stato - tutti gli amministratori regionali sono contemplati dall'art. 15, comma 4-bis, della legge n. 55 del 1990, come si evincerebbe dall'art. 274, comma 1, lettera p), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali). Considerato in diritto 1. - La Regione siciliana ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato in relazione al decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 29 gennaio 2008 con il quale, a decorrere dal 18 gennaio 2008, è stata accertata la sospensione del sig. Salvatore Cuffaro dalla carica di deputato dell'Assemblea regionale e di Presidente della Regione siciliana ai sensi dell'art. 15, comma 4-bis, della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazioni di pericolosità sociale). La Regione ricorrente sostiene che l'impugnato provvedimento violerebbe gli articoli 8, 9 e 10 del r.d.lgs. 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana), come modificato dalla legge costituzionale 31 gennaio 2001, n. 2 (Disposizioni concernenti l'elezione diretta dei presidenti delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano), dal momento che la pretesa trasformazione della forma di governo regionale in "(semi) presidenziale", operata dalla riforma del 2001, avrebbe determinato la sopravvenuta inapplicabilità alla Regione Sicilia dell'art. 15, comma 4-bis, della legge n. 55 del 1990, nella parte in cui prevede la sospensione del Presidente della regione dalla propria carica. Conseguentemente, il d.P.C.m. del 29 gennaio 2008 avrebbe invaso un ambito «coperto da norme di rango costituzionale» e avrebbe menomato la sfera di competenza riservata alla regione dallo statuto in materia di status del Presidente. Analoga menomazione sarebbe stata perpetrata dallo stesso provvedimento là dove dispone la sospensione dell'interessato dalla carica di deputato dell'Assemblea regionale. Poiché, ai sensi dell'art. 43-bis dello statuto, il Presidente assume tale ufficio proprio in forza del suo status, non potendo la sospensione colpire tale carica, essa non potrebbe riguardare neppure l'ufficio derivato di deputato regionale. Infine, la ricorrente sostiene che il d.P.C.m. impugnato sarebbe nullo per mancanza di oggetto, essendo intervenuto quando ormai l'interessato si era già irrevocabilmente dimesso dalla propria carica. 2. - Il ricorso non è fondato. Il fulcro delle argomentazioni su cui esso poggia risiede nella asserita inapplicabilità sopravvenuta dell'art. 15 della legge n. 55 del 1990 alla Regione Sicilia per effetto della legge cost. n. 2 del 2001 che ha diversamente disciplinato l'elezione del Presidente della regione. Indubbiamente, tale legge costituzionale, nel prevedere l'elezione a suffragio universale e diretto del Presidente, ha introdotto una forma di governo caratterizzata dall'attribuzione a tale organo «di forti e tipici poteri per la gestione unitaria dell'indirizzo politico e amministrativo della Regione» (art. 9 dello statuto siciliano), allo scopo di «eliminare in tal modo la instabilità nella gestione politica delle Regioni e quindi di rafforzare il peso delle istituzioni regionali» (sentenza n. 2 del 2004). È, altresì, incontestabile che una simile opzione sia «indice della maggiore forza politica del Presidente» (sentenza n. 372 del 2004; si veda pure la sentenza n. 12 del 2006). Tale scelta operata dal legislatore costituzionale non incide, tuttavia, sulla perdurante applicabilità dell'art. 15 della legge n. 55 del 1990 al Presidente della Regione Sicilia. Le misure previste da tale disposizione - incandidabilità ad una serie di cariche elettive, decadenza di diritto dalle medesime a seguito di sentenza di condanna, passata in giudicato, per determinati reati, nonché sospensione automatica in caso di condanna non definitiva per gli stessi - sono dirette «ad assicurare la salvaguardia dell'ordine e della sicurezza pubblica, la tutela della libera determinazione degli organi elettivi, il buon andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche allo scopo di fronteggiare una situazione di grave emergenza nazionale coinvolgente gli interessi dell'intera collettività» (sentenza n. 288 del 1993). Con questa disciplina, il legislatore «ha inteso essenzialmente contrastare il fenomeno dell'infiltrazione della criminalità organizzata nel tessuto istituzionale locale e, in generale, persegu ire l'esclusione dalle amministrazioni locali di coloro che per gravi motivi non possono ritenersi degni della fiducia popolare» (sentenza n. 407 del 1992; dello stesso tenore le sentenze n. 141 del 1996; n. 184 e n. 118 del 1994; n. 218 del 1993). Questa Corte ha già riconosciuto come i delitti contemplati dall'art. 15 fanno «sorgere immediatamente il sospetto di un inquinamento dell'apparato pubblico da parte di quelle organizzazioni criminali, la cui pericolosità sociale va al di là della gravità dei singoli delitti che vengono commessi o contestati»: le misure repressive così configurate operano, dunque, «in relazione alla specificità di siffatti rischi di inquinamento degli apparati amministrativi, e alla necessità di troncare anche visibilmente ogni legame che possa far apparire l'amministrazione, agli occhi del pubblico, come non immune da tali infiltrazioni criminali» (sentenza n. 206 del 1999). Con specifico riferimento alla misura della sospensione obbligatoria dalla carica prevista dal comma 4-bis dell'art. 15, questa Corte ha ritenuto che il bilanciamento dei valori coinvolti effettuato dal legislatore «non si appalesa irragionevole, essendo esso fondato essenzialmente sul sospetto di inquinamento o, quanto meno, di perdita dell'immagine degli apparati pubblici che può derivare dalla permanenza in carica del consigliere eletto che abbia riportato una condanna, anche se non definitiva, per i delitti indicati e sulla constatazione del venir meno di un requisito soggettivo essenziale per la permanenza dell'eletto nell'organo elettivo» (sentenza n. 25 del 2002; si veda pure la sentenza n. 288 del 1993). Se, dunque, questa è la finalità della disposizione su cui si fonda il provvedimento censurato dalla ricorrente, non è ravvisabile alcun rapporto di incompatibilità tra l'art. 15 della legge n. 55 del 1990 e la nuova forma di governo introdotta nella Regione Sicilia. Benché la riforma del 2001 abbia sicuramente rafforzato la figura del Presidente, la sua condanna, ancorché non definitiva, per determinati reati, compromette il legame fiduciario tra l'organo politico regionale e la relativa comunità, in quanto mina la credibilità e l'affidabilità che gli amministratori debbono necessariamente dimostrare in vista di una compiuta e corretta tutela degli interessi generali di riferimento. Né si può desumere tale incompatibilità dal diverso grado di legittimazione che il vicepresidente, chiamato a sostituire il Presidente sospeso, avrebbe rispetto a quest'ultimo. L'intervento di tale organo, infatti, lungi dal risultare incompatibile con l'attuale forma di governo regionale, è, anzi, specificamente contemplato dallo statuto siciliano. L'art. 9, come sostituito dalla legge cost. n. 2 del 2001, dopo aver disposto che il Presidente della regione «è eletto a suffragio universale e diretto contestualmente all'elezione dell'Assemblea regionale», prevede espressamente che, in caso di impedimento del Presidente della regione, questi è sostituito dal vicepresidente, mentre solo «in caso di dimissioni, di rimozione, di impedimento permanente o di morte del Presidente della Regione, si procede alla nuova e contestuale elezione dell'Assemblea regionale e del Presidente della Regione entro i successivi tre mesi» (art. 10 dello statuto). È indubbio che la sospensione obbligatoria e di diritto prevista dall'art. 15, comma 4-bis, integra gli estremi di un vero e proprio impedimento del Presidente, che gli preclude l'esercizio delle attribuzioni connesse alla carica. Stabilisce, infatti, la richiamata disposizione che «i soggetti sospesi non sono computati al fine della verifica del numero legale, né per la determinazione di qualsivoglia quorum». Si tratta, peraltro, di impedimento temporaneo, dal momento che detta sospensione «cessa di diritto di produrre effetti decorsi diciotto mesi» (comma 4-bis, penultimo periodo), ovvero nel caso in cui venga emessa sentenza, anche non definitiva, di non luogo a procedere, di proscioglimento o di assoluzione o provvedim ento di revoca della misura di prevenzione o sentenza di annullamento, anche con rinvio (comma 4-quater). Inconferente risulta, pertanto, l'evocazione, da parte della ricorrente, dell'art. 8 dello statuto, il quale disciplina l'ipotesi, affatto diversa, della rimozione dalla carica del Presidente che abbia compiuto atti contrari alla Costituzione o reiterate e gravi violazioni di legge, ovvero per ragioni di sicurezza nazionale. Diversamente da tale fattispecie, la sospensione prevista dall'art. 15, comma 4-bis, della legge n. 55 del 1990 si verifica per effetto della pronuncia di una sentenza di condanna per determinati reati la quale, ove divenga definitiva, determina la decadenza di diritto dalla carica (comma 4-quinquies). Del resto, la stessa legislazione siciliana successiva al 2001 prevede l'applicabilità della legge n. 55 del 1990 sia ai deputati regionali, sia al Presidente. Riguardo ai primi, l'art. 60, comma 6, della legge regionale 20 marzo 1951, n. 29 (Elezione dei Deputati all'Assemblea regionale siciliana), come modificata dalla legge regionale 3 giugno 2005, n. 7 (Norme per l'elezione del Presidente della Regione siciliana a suffragio universale e diretto. Nuove norme per l'elezione dell'Assemblea regionale siciliana. Disposizioni concernenti l'elezione dei consigli comunali e provinciali), disciplina il meccanismo di surrogazione dei deputati anche con specifico riguardo all'ipotesi in cui «occorra procedere alla tempor anea sostituzione di un deputato sospeso dalla carica ai sensi dell'articolo 15, comma 4-bis», della legge n. 55 del 1990. Quanto al Presidente della Regione, l'art. 1-quater della legge reg. n. 29 del 1951, come modificato dalla legge reg. n. 7 del 2005, stabilisce che questi, all'atto della accettazione della candidatura, deve rendere la dichiarazione di non trovarsi in una delle condizioni previste dal comma 1 dell'art. 15 della legge n. 55 del 1990, e che determina la cancellazione dalla lista dei candidati l'accertamento della sussistenza di taluna di tali condizioni (art. 17-ter). Ma, soprattutto, il citato art. 1-quater equipara espressamente il Presidente ai deputati quanto ai requisiti di eleggibilità. Tra questi rientra anche l'assenza di una delle cause di incandidabilità previste dalla legge n. 55 del 1990 il cui accertamento, con sentenza non definitiva, nel corso del mandato determina, ai sensi dell'art. 15, comma 4-bis, la sospensione della carica. 3. - Le conclusioni appena raggiunte rilevano anche con riguardo alla sospensione dalla carica di deputato dell'Assemblea regionale. La ricorrente sostiene che se la sospensione non può essere disposta in relazione alla carica di Presidente della regione, essa non può nemmeno colpire l'ufficio derivato di deputato regionale che il Presidente ricopre. Infatti, la norma transitoria, posta dalla legge cost. n. 2 del 2001, secondo cui il Presidente della Regione fa parte dell'assemblea regionale, è stata confermata dallo stesso legislatore siciliano con la legge reg. n. 7 del 2005. Nell'attuale sistema, dunque, la carica di Presidente precede e condiziona l'acquisizione dello status di deputato regionale. Anche tale censura non è fondata. Se, per le ragioni sopra esposte, la sospensione ai sensi dell'art. 15, comma 4-bis, legge n. 55 del 1990, può e deve essere disposta in relazione alla carica di Presidente della regione, per la medesima ragione tale misura trova applicazione anche per la carica di deputato regionale. E ciò tanto più in quanto per i deputati regionali la sospensione è espressamente prevista dall'art. 60, comma 6, legge reg. n. 29 del 1951. 4. - Neppure fondata è la censura con cui la ricorrente denuncia l'illegittimità del provvedimento impugnato per mancanza di oggetto. Sostiene la regione che tale vizio discenderebbe dalla circostanza che l'interessato si sarebbe dimesso irrevocabilmente dall'ufficio di Presidente della regione prima che intervenisse il decreto del Presidente del Consiglio. In realtà, la sospensione contemplata dall'art. 15, comma 4-bis, opera obbligatoriamente (sentenza n. 25 del 2002) e di diritto, così che il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, previsto dal comma 4-ter dello stesso art. 15, assolve ad una funzione di mero accertamento, e non costitutiva dell'effetto sospensivo («accerta la sospensione» dispone, appunto, la norma da ultimo citata). Nel caso di specie, la sentenza di condanna pronunciata dal Tribunale di Palermo nei confronti dell'interessato è del 18 gennaio 2008, laddove le dimissioni del medesimo sono state comunicate all'Assemblea regionale siciliana il successivo 26 gennaio. Ne deriva che l'impugnato decreto presidenziale del 29 gennaio 2008 (nel quale si afferma che la condanna è stata comminata anche per il «delitto di cui all'art. 378, comma 1 e 2 c.p., che punisce il favoreggiamento personale "quando il delitto commesso è quello previsto dall'art 416-bis"») non ha fatto altro che accertare l'intervenuta, automatica sospensione a partire da una data anteriore rispetto a quella delle dimissioni del Presidente della regione.</ SPAN> Ciò, inoltre, assume rilevanza per le diverse conseguenze che determinano i due atti. La sospensione di cui all'art. 15, prodromica rispetto all'eventuale decadenza nel caso in cui sopravvenga una condanna definitiva (comma 4-quinquies), determina l'impossibilità per il sospeso di essere computato per la verifica del numero legale o per la «determinazione di qualsivoglia quorum» (comma 4-bis). Essa, dunque, produce l'effetto dell'immediato allontanamento dalla carica, con conseguente impossibilità di compiere qualunque atto. Diversamente, le dimissioni del Presidente, determinando, ai sensi dell'art. 10, comma 2, dello statuto, la nuova elezione dell'Assemblea e del Presidente, rendono applicabile nella specie l'art. 8-bis, comma 3, dello statuto e dunque consentono lo svolgimento dell'ordinaria amministrazione. 5. - Alla luce delle considerazioni che precedono, dunque, deve riconoscersi la spettanza allo Stato della competenza ad adottare il decreto impugnato. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara che spettava allo Stato e, per esso, al Presidente del Consiglio dei ministri, adottare il decreto del 29 gennaio 2008 con il quale è accertata, a decorrere dal 18 gennaio 2008, la sospensione del sig. Salvatore Cuffaro dalla carica di deputato dell'Assemblea regionale siciliana e di Presidente della Regione siciliana ai sensi dell'art. 15, comma 4-bis, della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazioni di pericolosità sociale). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Ugo DE SIERVO, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 24 ottobre 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA ORDINANZA N. 353 ANNO 2008REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 2, della legge della Regione Emilia-Romagna del 27 luglio 2007, n. 19 (Partecipazione della Regione Emilia-Romagna all'Associazione dell'Emilia-Romagna delle rievocazioni storiche - AERRS), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 26 settembre 2007, depositato in cancelleria il 4 ottobre 2007 ed iscritto al n. 41 del registro ricorsi 2007. Visto l'atto di costituzione della Regione Emilia-Romagna; udito nell'udienza pubblica del 23 settembre 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante; udito l'avvocato dello Stato Enrico Arena per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato il 26 settembre 2007, ha impugnato - in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera s), e 118, terzo comma, della Costituzione, nonché agli artt. 3, 4 e 5 del Codice dei beni culturali e del paesaggio di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 - l'art. 1, comma 2, della legge della Regione Emilia-Romagna 27 luglio 2007, n. 19 (Partecipazione della Regione Emilia-Romagna all'Associazione dell'Emilia-Roma gna delle rievocazioni storiche - AERRS), il quale dispone: «Al fine di tutelare e valorizzare il proprio patrimonio culturale, la Regione Emilia-Romagna è autorizzata a partecipare, ai sensi dell'art. 64 della Statuto, all'Associazione Emilia-Romagna delle rievocazioni storiche (AERRS)»; che, a parere del ricorrente, la norma censurata si pone in contrasto con l'evocato art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., nella parte in cui si propone la finalità della «tutela» dei valori ambientali e culturali, riservata in via esclusiva allo Stato; che, inoltre, la disposizione stessa, nell'attribuire alla Regione Emilia-Romagna facoltà in tema di tutela, non richiama espressamente i procedimenti in tale materia previsti dall'art. 5, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 42 del 2004, ai fini dell'esercizio indiretto delle funzioni conferite alle Regioni dal Ministero per i beni e le attività culturali; che, in tal modo, risulta violato anche il principio - di cui all'art. 118, terzo comma, Cost. - secondo il quale spetta alla legge statale prevedere «forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela dei beni culturali», disciplina dettata dai richiamati commi del suddetto art. 5 del d.lgs. n. 42 del 2004, attribuitivi allo Stato (titolare dell'esercizio unitario delle funzioni di tutela) della potestà di valutare, sulla base dei principi di differenziazione e adeguatezza, la praticabilità di accordi per l'individuazione di forme di coordinamento con le Regioni; che un potere regionale in materia, previsto al di fuori dei limiti sopra richiamati, rischia di entrare in conflitto con le statuizioni del citato art. 5 del Codice e, di riflesso, anche con l'art. 118, terzo comma, della Costituzione; che, in conclusione, la disposizione regionale in esame appare al ricorrente invasiva delle prerogative statali in materia e, ponendosi in contrasto con gli artt. 3, 4 e 5 del Codice di beni culturali, lesiva degli artt. 117, secondo comma, lettera s), e 118, terzo comma, Cost.; che si è costituita la Regione Emilia-Romagna, evidenziando anzitutto come la disposizione censurata preveda l'adesione della Regione, ai sensi dell'art. 64 del proprio Statuto, all'AERRS, della quale fanno parte anche quindici comuni della Regione, e specificando come dette rievocazioni siano manifestazioni attraverso le quali le città ed i paesi ricordano il proprio passato, mediante sfilate in costume, rappresentazioni di eventi storici particolarmente significativi ed altre forme di celebrazione coreografica, musicale o di ogni altra natura, rivolte a suscitare il ricordo del passato, per rafforzare il senso di identità della comunità locale; che, inoltre, la norma censurata sarebbe estranea alla materia "tutela dei beni culturali", considerati sia sotto il profilo della tutela che sotto quello della valorizzazione, i quali sono definiti dal testo unico n. 42 del 2004 come cose materiali e cioè oggetti fisicamente individuati; che, nel merito, la censura non sarebbe fondata, in quanto la disposizione impugnata non "disciplina" affatto le rievocazioni storiche, né prevede alcun potere al riguardo, ma si limita a consentire l'adesione della Regione ad una preesistente associazione, nell'esercizio di facoltà o poteri di diritto comune; che, infine, nell'imminenza dell'udienza la Regione ha depositato ulteriore memoria in cui ribadisce le proprie conclusioni e sottolinea l'intervenuta modifica della norma impugnata, ad opera della legge regionale 21 dicembre 2007, n. 24, la quale all'art. 46, ha sostituito le parole «Al fine di tutelare e valorizzare .» con le parole «Al fine di valorizzare.», specificando come l'adesione all'AERRS non sia ancora in concreto avvenuta, essendo condizionata (in base all'art. 2, comma 1, lettera b, della legge regionale n. 19 del 2007) al conseguimento della personalità giuridica da parte di q uest'ultima (non ancora verificatosi). Considerato che, con atto notificato alla Regione Emilia-Romagna il 5 settembre 2008 e depositato presso la cancelleria di questa Corte il successivo 16 settembre, il Presidente del Consiglio dei ministri ha dichiarato di rinunciare al ricorso, in quanto, successivamente alla sua proposizione, la Regione Emilia-Romagna ha emanato la legge regionale 21 dicembre 2007, n. 24 (legge finanziaria regionale adottata a norma dell'articolo 40 della legge regionale 15 novembre 2001, n. 40 in coincidenza con l'approvazione del bilancio di previsione per l'esercizio finanziario 2008 e del bilancio pluriennale 2008-2010) , con la quale, all'art. 46, è stata eliminata dalla disposizione precedentemente impugnata la parola "tutelare", lasciando come fine unico perseguito la valorizzazione del patrimonio storico culturale e facendo così venir meno le motivazioni del ricorso stesso; che tale rinuncia è stata formalmente accettata dal legale rappresentante della Regione, con atto depositato presso la cancelleria di questa Corte in data 22 settembre 2008; che, ai sensi dell'art. 25 delle norme integrative per i giudizi dinanzi alla Corte costituzionale, la rinuncia al ricorso, seguita dall'accettazione della controparte, comporta l'estinzione del processo. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara estinto il processo. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 24 ottobre 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA |