Deposito del 01/08/2008 (dalla 322 alla 333) |
S.322/2008 del 30/07/2008 Udienza Pubblica del 08/07/2008, Presidente BILE, Redattore CASSESE Norme impugnate: Artt. 6, c. 1°, 7, c. 2° e 3°, 8, 22, 24, 29, 32 e 43, c. 1° e 2°, della legge della Regione Veneto 20/07/2007, n. 17. Oggetto: Appalti pubblici - Norme della Regione Veneto - Lavori pubblici di interesse regionale - Affidamento dei servizi relativi all'architettura e all'ingegneria e degli altri servizi tecnici connessi alla progettazione e alla esecuzione di opere pubbliche - Soggetti qualificati a termini di legge; Affidamento dei servizi relativi all'architettura e all'ingegneria e degli altri servizi tecnici connessi alla progettazio ne e alla esecuzione di opere pubbliche - Procedimento, criteri, pubblicità preventiva e successiva; Progettazione - Verifica e validazione del progetto - Criteri di affidamento e condizioni di pubblicità; Offerte anomale - Verifica di congruità in contraddittorio con l'interessato su richiesta della stazione appaltante - Facoltatività della verifica di congruità e delle giustificazioni del prezzo; Affidamento a trattativa privata dei contratti pubblici - Mancata distinzione tra procedura negoziata previa e senza previa pubblicazione del bando, mancato recepimento della normativa comunitaria, introduzione di nuove e diverse ipotesi; Subappalto - Sospensione dei pagamenti in favore dell'affidatario allorquando questi non trasmette le fatture concernenti le lavorazioni eseguite dal subappaltatore debitamente quietanziate; Leasing immobiliare ovvero locazione finanziaria; Verifica preventiva dell'interesse archeologico - Procedimento, criteri, pubblici tà. Dispositivo: illegittimità costituzionale - inammissibilità Atti decisi: ric. 40/2007 |
S.323/2008 del 30/07/2008 Camera di Consiglio del 09/07/2008, Presidente BILE, Redattore SAULLE Norme impugnate: Art. 169 del decreto del Presidente della Repubblica 29/12/1973, n. 1092. Oggetto: Previdenza - Pensione privilegiata ordinaria - Termine di decadenza quinquennale per la proposizione della domanda - Decorrenza del termine dalla data di cessazione dal servizio anziché dal momento della manifestazione della malattia. Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale A tti decisi: ord. 64/2008 |
S.324/2008 del 30/07/2008 Udienza Pubblica del 01/04/2008, Presidente BILE, Redattore NAPOLITANO Norme impugnate: Artt. 6, c. 1°, 2°, 4° e 5° e 10, c. 3°, della legge 05/12/2005, n. 251. Art. 157, c. 2°, del codice penale, sostituito dall'art. 6 della legge 05/12/2005, n. 251. Oggetto: Reati e pene - Prescrizione - Modifiche normative - Determinazione del tempo necessario a prescrivere - Mancata considerazione della diminuzione minima prevista per le circostanze attenuanti per le quali la legge stabilisce una pena diversa da quella ordinaria e per quelle ad effetto speciale - Effetti della interruzione - Decorrenza del termine della prescrizione - Disciplina transitoria. Previsto collegamento dei differenti aumenti dei termini di prescrizione, per interruzione, allo status soggettivo dell'imputato e non alla gravità oggettiva del fatto - Abrogazione dell'art. 158 cod. pen. nella parte in cui stabiliva la decorrenza dei termini di prescrizione, in caso di reato continuato, dalla cessazione della continuazione; Disciplina transitoria - Inapplicabilità delle nuove norme ai processi già pendenti in primo grado ove, alla data di entrata in vigore della novella, vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento. Dispositivo: non fondatezza - inammissibilità Atti decisi: ordd. 115 e 192/2006 e 1/2007 |
S.325/2008 del 30/07/200 8 Udienza Pubblica del 24/06/2008, Presidente BILE, Redattore NAPOLITANO Norme impugnate: Art. 6, c. 1° bis, del decreto legge 09/10/2006, n. 263, aggiunto dalla legge 06/12/2006, n. 290. Oggetto: Calamità pubbliche e protezione civile - Provvidenze adottate a seguito degli eventi sismici nella Regione Molise tra i mesi di ottobre e novembre 1992 - Sospensione del versamento dei contributi previdenziali - Limitazione, con norma autoqualificata interpretativa, del beneficio ai soli datori di lavoro privati - Conseguente esclusione del beneficio per i lavoratori dipendenti. Dispositivo: non fondatezza - inammissibilità - manifesta inammissibilità Atti decisi: ordd. 687, 688, 689, 690 e 691/2007 e 54/2008 |
S.326/2008 del 30/07/2008 Udienza Pubblica del 24/06/2008, Presidente BILE, Redattore CASSESE Norme impugnate: Decreto legge 04/07/2006 n. 223, convertito con modificazioni in legge 04/08/2006 n. 248; discussione limitata all'art. 13 Oggetto: Partecipazioni pubbliche - Società a capitale pubblico o misto costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali o locali per la produzione di beni e servizi strumentali - Obbligo di operare esclusivamente con gli enti pubblici costituenti o partecipanti e correlativo divieto di operare nel libero mercato, obbligo di oggetto sociale esclusivo, nullità dei contratti conclusi dopo l'entrata in vigore della nuova disciplina; Obbligo di cessazione delle attività non consentite, anche attraverso cessione o scorporo, e perdita di efficacia dei rel ativi contratti - Termini; Nullità dei contratti stipulati dalle società che conservino partecipazioni in altre società o enti. Dispositivo: non fondatezza - inammissibilità Atti decisi: ric. 96, 103, 104, 105 e 107/2006 |
S.327/2008 del 30/07/2008 Camera di Consiglio del 25/06/2008, Presidente BILE, Redattore FLICK Norme impugnate: Art. 434 del codice penale. Oggetto: Reati e pene - Crollo di costruzioni o altri disastri dolosi - Indeterminatezza della norma incriminatrice - Violazione del principio di tassatività della fattispecie penale. Dispositivo: non fondatezza Atti decisi: ord. 453 e 658/2007 |
S.328/2008 del 30/07/2008 Udienza Pubblica del 08/07/2008, Presidente BILE, Redattore AMIRANTE Norme impugnate: Art. 16, c. 2°, del decreto legislativo 24/04/2006, n. 166. Oggetto: Professioni - Notaio - Concorso per notaio - Valutazione di non idoneità alle prove scritte - Obbligo di motivazione - Previsione per i bandi di concorsi emanati successivamente alla data di entrata in vigore della norma censurata e non anche per i concorsi in espletamento alla stessa data. Dispositivo: inammissibilità Atti decisi: ord. 121 e 122/2008 |
S.329/2008 del 30/07/2008 Udienza Pubblica del 08/07/2008, Presidente BILE, Redattore MADDALENA Norme impugnate: Artt. da 1 a 7 e relativi allegati del decreto del Ministro dell'ambiente 17/10/2007, n. 184, Oggetto: Ambiente - Conservazione degli habitat naturali - Direttive comunitarie 79/409/CEE e 92/43/CEE - Adeguamento alle direttive comunitarie - Disciplina statale (già censurata con ricorso in via principale 13/2007) e successiva attuazione con decreto del Ministro dell'ambiente 17 ottobre 2007, n. 184, entrambe espressamente rivolte anche alle Province autonome. Dispositivo: accoglie il ricorso Atti decisi: confl. enti 11/2007 |
S.330/2008 del 30/07/2008 Udienza Pubblica del 08/07/2008, Presidente BILE, Redattore SAULLE Conflitto: Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione del Senato della Repubblica 30/01/2007. Oggetto: Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento penale a carico del senatore Raffaele Iannuzzi per il reato di diffamazione aggravata a mezzo stampa nei confronti di Giancarlo Caselli, già Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, e di altri magistrati anche essi, all'epoca dei fatti, assegnati alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Palermo - Deliberazione di insindacabilità del Senato della Repubblica. Atti decisi: confl. pot. mer. 11/2007 |
S.331/2008 del 30/07/2008 Camera di Consiglio del 09/07/2008, Presidente BILE, Redattore AMIRANTE Norme impugnate: Art. 268, c. 1°, del codice di procedura civile. Oggetto: Procedimento civile - Intervento volontario del terzo - Prevista facoltà del terzo di intervenire nel processo sino a quando non vengano precisate le conclusioni - Intervento principale o litisconsortile spiegato successivamente all'udienza fissata per la prima comparizione delle parti e la trattazione, in pendenza del termine concesso dal giudice ai sensi dell'art. 183, comma sesto, n. 2, cod. proc. civ. - Omessa previsione che l'intervento principale o litisconsortile di cui all'art. 105, primo comma, cod. proc. civ., possa avvenire fino all'udienza di trattazione prevista dall'art. 183 cod. proc. civ., anziché sino a quando vengano precisate le conclusioni In subordine: Omessa attribuzione al giudice, in caso di intervento principale o litisconsortile, del potere-dovere di fissare, alla prima udienza successiva all'intervento del terzo, una nuova udienza di trattazione nel corso della quale le parti possano esercitare tutti i poteri previsti dall'art. 183 cod. proc. civ. Dispositivo: inammissibilità Atti decisi: ord. 57/2008 |
O.332/2008 del 30/07/2008 Camera di Consiglio del 25/06/2 008, Presidente BILE, Redattore FLICK Norme impugnate: Art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20/02/2006, n. 46; art. 36, c. 1°, del decreto legislativo 28/08/2000, n. 274, come modificato dall'art. 9, c. 2°, della legge 20/02/2006, n. 46; art. 10 della legge 20/02/2006, n. 46. Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento emesse dal giudice di pace - Preclusione. Dispositivo: manifesta infondatezza Atti decisi: ord. 667/2006 |
O.333/2008 del 30/0 7/2008 Camera di Consiglio del 09/07/2008, Presidente BILE, Redattore NAPOLITANO Norme impugnate: Artt. 2, 3, 5 del decreto del Presidente della Repubblica 05/02/1953, n. 39, nonché la tariffa A ad esso allegata e l'art. 1 del decreto ministeriale del 27/12/1997. Oggetto: Imposte e tasse - Tassa sugli autoveicoli - Determinazione della tassa - Omessa previsione legislativa di un meccanismo atto a determinare la progressività in diminuzione dell'imposta in coerenza con l'asserita riduzione di valore del bene nel tempo. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 70/2008 |
ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 6, comma 1, 7, commi 2 e 3, 8, 22, 24, 29, 32, 43, comma 1, della legge della Regione Veneto del 20 luglio 2007, n. 17 (Modifiche alla legge regionale 7 novembre 2003, n. 27, «Disposizioni generali in materia di lavori pubblici di interesse regionale e per le costruzioni in zone classificate sismiche»), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri notificato il 21 settembre 2007, depositato in cancelleria il 26 settembre 2007 ed iscritto al n. 40 del registro ricorsi 2007. Visto l'atto di costituzione della Regione Veneto; udito nell'udienza pubblica dell'8 luglio 2008 il Giudice relatore Sabino Cassese; uditi l'avvocato dello Stato Maurizio Borgo per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Vittorio Domenichelli e Luigi Manzi per la Regione Veneto. Ritenuto in fatto
1. - Il
Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso
dall'Avvocatura generale dello Stato, ha proposto questioni di
legittimità costituzionale in via principale nei confronti degli
articoli 6, comma 1, 7, commi 2 e 3, 8, 22, 24, 29, 32, 43, comma 1,
della legge della Regione Veneto del 20 luglio 2007, n. 17 (Modifiche
alla legge regionale 7 novembre 2003, n. 27, «Disposizioni generali in
materia di lavori pubblici di interesse regionale e per le costruzioni
in zone classificate sismiche»), con riferimento all'art. 117, secondo
comma, lettere e), l), m) e s) della
Costituzione. Ritiene l'Avvocatura generale dello Stato che il settore degli appalti pubblici «non appartiene per residualità alla competenza legislativa delle Regioni» e che tutto ciò che attiene alla fase dell'affidamento dell'appalto rientri nel generale concetto di regolazione della concorrenza e del mercato, appartenente in quanto tale alla competenza legislativa dello Stato in via esclusiva. A parere del ricorrente, in tale ambito, viene in considerazione non soltanto la «tutela della concorrenza» sancita dall'art. 117, secondo comma, lettera e), ma anche la materia dell'«ordinamento civile» e quella della «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili (fra le quali può annoverarsi l'attività imprenditoriale a cui è dedicato il libro V del codice civile)», previste dall'art. 117, comma secondo, lettere l) e m), anch'esse rientranti nella potestà legislativa dello Stato. 1.1. - Il Governo, in primo luogo, censura l'art. 6, comma 1, della legge n. 17 del 2007, che modifica l'art. 8, comma 1, della legge n. 27 del 2003 (in tema di affidamento dei servizi relativi all'architettura e all'ingegneria) e l'art. 7, commi 2 e 3, che modifica l'art. 9, commi 1 e 2, della stessa legge regionale (in tema di criteri di affidamento, forme di pubblicità e bandi tipo), per violazione dell'art. 117, secondo comma, lettere e), l) e m), Cost. ed in particolare l'art. 6, comma 1, «nella parte in cui richiama l'art. 9, commi 1 e 2, della stessa legge». Secondo la difesa erariale entrambe le norme impugnate incidono sulle procedure e sui criteri di affidamento dei servizi relativi all'architettura e all'ingegneria e sugli incarichi di progettazione, nonché sulle forme di pubblicità, preventiva e successiva, dei medesimi, la cui disciplina, secondo l'art. 4, comma 3, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), appartiene alla competenza esclusiva dello Stato. In particolare, le norme censurate prevedono: a) una soglia diversa per l'affidamento dei servizi di architettura e ingegneria (da 40 mila a 100 mila euro e sotto la soglia dei 40 mila euro) rispetto alla soglia comunitaria prevista dall'art. 91 del codice dei contratti pubblici; b) criteri - individuati con provvedimento della Giunta regionale - per l'affidamento di tali servizi, che prevedono un'ampia libertà di scelta della Regione in ordine all'affidamento dell'incarico; c) un sistema di pubblicità peculiare (esposizione del provvedimento di incarico all'albo della stazione appaltante e successiva trasmissione all'osservatorio regionale) in difformità da quanto previsto dagli artt. 91 e 124 del d. lgs. n. 163 del 2006 [d'ora in poi: codice dei contrat ti pubblici]. Ad avviso dell'Avvocatura generale, le norme censurate si discosterebbero dalla disciplina statale in particolare con riferimento alla individuazione di una diversa soglia per l'affidamento di servizi di architettura ed ingegneria comportanti un compenso tra 40 mila euro e 100 mila [cosiddetta soglia comunitaria] (art. 91, comma 2, del codice dei contratti pubblici), alla regolamentazione dei principi di non discriminazione, parità di trattamento, proporzionalità e trasparenza e dei criteri, individuati con provvedimento della Giunta (art. 90 del codice dei contratti pubblici), alla disciplina dell'affidamento dei servizi remunerati meno di 40 mila euro e, infine, prevedendo un peculiare sistema di pubblicità (art. 124 del codice dei contratti pubblici). Sottolinea il Governo, in particolare, che la disciplina della pubblicità degli incarichi aventi ad oggetto i servizi in esame non possa rientrare nelle misure organizzative, atteso che la pubblicizzazione dell'incarico in vista della sua attribuzione costituisce l'atto che apre la sequenza procedimentale con cui la singola amministrazione avvia la procedura di affidamento ed «è indubbio che esso viene a tutti gli effetti a costituire parte di essa» e che le predette forme di pubblicità garantiscono un «pieno ed effettivo confronto concorrenziale». 1.2. - In secondo luogo, il Governo impugna l'art. 8 della legge regionale n. 17 del 2007, che modifica l'art. 10 della legge regionale n. 27 del 2003 (in tema di verifica e validazione del progetto), con riferimento all'art. 117, secondo comma, lettere e), l) e m), Cost., «nella parte in cui prevede che tali operazioni debbano essere attribuite nel rispetto dei criteri di affidamento e delle condizioni di pubblicità previsti dall'art. 9, commi 1 e 2, della stessa legge». La norma prevede che la verifica e la validazione dei progetti per lavori di importo inferiore alla soglia comunitaria possono essere attribuite dalla stazione appaltante a soggetti individuati «nel rispetto dei criteri di affidamento e delle condizioni di pubblicità previsti dall'articolo 9, commi 1 e 2». Lo Stato sottolinea come la disciplina regionale in tema di verifica e validazione del progetto si differenzia «nettamente» da quella stabilita dal legislatore nazionale (art. 112, comma 1, del codice dei contratti pubblici). Ad avviso del Governo, la competenza a legiferare in materia di progettazione è riservata allo Stato, tenuto conto della delicatezza della fase del procedimento consistente nella verifica e nella validazione dei progetti attraverso cui le amministrazioni debbono provvedere alla realizzazione delle opere pubbliche. 1.3. - In terzo luogo, il Governo impugna l'art. 22 della legge regionale n. 17 del 2007, che modifica l'art. 31-bis, commi 1 e 2, della legge regionale n. 27 del 2003 (in tema di affidamento e criteri di aggiudicazione dei lavori) con riferimento all'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., «nella parte in cui rende facoltativa la verifica della congruità dell'offerta che presenta una percentuale inferiore alla soglia di anomalia e nella parte in cui prescrive la facoltatività e non l'obbligatorietà delle giustificazioni del prezzo». La norma regionale prevede: a) la facoltatività della verifica di congruità per i contratti sotto soglia; b) che le giustificazioni siano fornite esclusivamente su richiesta della stazione appaltante. A parere della difesa erariale, tale disciplina in tema di offerte anomale si differenzia significativamente da quella stabilita dal legislatore nazionale (art. 86 del codice dei contratti pubblici). Pertanto, tale disposizione violerebbe l'ambito della tutela della concorrenza, competenza legislativa esclusiva dello Stato prevista dall'art. 117, comma secondo, lettera e), Cost. 1.4. - In quarto luogo, lo Stato impugna l'art. 24 della legge regionale n. 17 del 2007, che modifica l'art. 33 della legge regionale n. 27 del 2003 (in tema di procedura negoziata), con riferimento all'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., nella parte in cui «non distingue tra procedura negoziata previa e senza previa pubblicazione del bando e nella parte in cui non rispetta le condizioni tassative di ricorso a detta procedura in recepimento della direttiva 2004/18/CE e nella parte in cui sono introdotte nuove disposizioni e diverse ipotesi (interventi inferiori a 500 mila euro, lavori complementari e, interventi imposti dal pericolo per la pubblica incolumità e per la salute pubblica) previste dalla menzionata direttiv a in cui le amministrazioni aggiudicatrici possono fare ricorso alla predetta procedura». A parere dell'Avvocatura, pertanto, la Regione avrebbe sconfinato dall'ambito ad essa riservato atteso che le disposizioni in esame non concernono aspetti di carattere organizzativo, ma «stravolgono la fisionomia della procedura cui le stazioni appaltanti possono far ricorso con maggior libertà» e la differenziano rispetto alla disciplina statale dettata in materia (artt. 56 e 57 del codice dei contratti pubblici), incidendo sulle modalità attraverso cui si svolge il confronto concorrenziale e limitandolo «pesantemente». 1.5. - In quinto luogo, il Governo impugna l'art. 29 della legge regionale n. 17 del 2007, che modifica l'art. 38, comma 3, della legge regionale n. 27 del 2003 (in tema di subappalti), con riferimento all'art. 117, secondo comma, lettere e), l) e m), Cost., nella parte in cui «stabilisce la sospensione del pagamento del corrispettivo solo limitatamente alla somma non corrisposta dal subappaltatore nel caso di mancata trasmissione delle fatture quietanzate». La norma impugnata prevede, tra l'altro, che: «Nel caso di mancata trasmissione delle fatture quietanziate, la stazione appaltante sospende il successivo pagamento a favore dell'appaltatore, limitatamente alla somma non corrisposta al subappaltatore risultante dalla fattura non quietanzata». La difesa erariale osserva che la norma censurata si discosta dalla disciplina statale (art. 118, comma 3, del codice dei contratti pubblici) e ritiene tale intervento non consentito atteso che l'art. 4, comma 3, del codice dei contratti pubblici riserva alla competenza statale esclusiva l'istituto del subappalto, trattandosi di una disciplina che va ad incidere sulla materia dell'ordinamento civile. 1.6. - Il Governo impugna, in sesto luogo, l'art. 32 della legge n. 27 del 2007, che inserisce un Capo VII-bis (leasing immobiliare) all'interno della legge n. 17 del 2003, costituito da un unico art. 46-bis (procedure di realizzazione), in relazione all'art. 117, secondo comma, lettere e), m) e l), Cost. L'art. 46-bis stabilisce, tra l'altro, che: «Qualora i soggetti di cui all'articolo 2 della presente legge intendano acquisire immobili da costruire o ristrutturare con il ricorso a contratti di locazione finanziaria, si osservano le disposizioni di cui al presente capo, particolarmente con riguardo alla realizzazione dei lavori necessari alla fruizione degli immobili da parte del committente» (1 comma). Il Governo osserva che la norma censurata si discosta dalla disciplina statale (art. 160-bis del codice dei contratti pubblici) prevista in materia di leasing finanziario e ritiene che la Regione abbia disciplinato un settore riservato a norma dell'art. 117, secondo comma, lettere e), l) e m), Cost. e dell'art. 4, comma 3, del codice dei contratti pubblici, alla competenza esclusiva dello Stato. 1.7. - Infine, la difesa erariale censura l'art. 43 della legge n. 27 del 2007, che ha inserito l'art. 70-bis nella legge regionale n. 17 del 2003 (in tema di verifica preventiva dell'interesse archeologico per i lavori pubblici di competenza regionale), con riferimento all'art. 117, secondo comma, lettere e), l), m), s), Cost., nella parte in cui «prevede che per i lavori di competenza regionale le indagini geologiche e archeologiche preliminari siano eseguite da soggetti individuati con i criteri di affidamento e le modalità di pubblicità previsti d agli artt. 8, comma 1, e 9, commi 1 e 2, della stessa legge e nella parte in cui prevede delle deroghe rispetto alle procedure di verifica dell'interesse archeologico disciplinate dagli artt. 95 e 96 del codice dei contratti pubblici». Rammenta il Governo che le norme regionali, oggetto di rinvio interno nella disposizione in esame, oggetto di separate censure, sono affette «dall'evidente sconfinamento del legislatore regionale in ambito riservato alla potestà legislativa del legislatore statale» e che, per le medesime ragioni per le quali sono state censurate le norme oggetto di rinvio, è costituzionalmente illegittima la norma regionale in esame. Inoltre, la difesa erariale osserva che il secondo comma della disposizione impugnata contrasta anche con quanto disposto dall'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., poiché incide sui contratti relativi alla materia della tutela dei beni culturali riservata alla potestà legislativa esclusiva dello Stato. 2. - Nel giudizio si è costituita la Regione Veneto, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o infondato. 2.1. - In prossimità della data fissata per l'udienza pubblica, la Regione Veneto ha depositato una memoria, osservando, innanzitutto, che l'iter di approvazione della legge regionale impugnata, di modifica della precedente legge n. 27 del 2003, «ha avuto motivo soprattutto dalla esigenza di rendere la disciplina regionale maggiormente conforme alla normativa comunitaria». Segnala, altresì, che, con deliberazione della Giunta regionale n. 547 dell'11 marzo 2008, sono stati dettati «Indirizzi operativi per l'applicazione della legge regionale n. 27/2003 a séguito della sentenza della Corte costituzionale n. 401/2007», in attesa di una ulterio re modifica della stessa legge regionale. 2.2. - In via preliminare, la difesa regionale eccepisce l'inammissibilità delle censure sollevate con riferimento al parametro costituzionale previsto dall'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., relativo alla competenza esclusiva statale in ordine alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che debbono essere garantiti su tutto il territorio nazionale, parametro neppure evocato dalla relazione del Dipartimento degli Affari regionali, allegata alla deliberazione del Consiglio dei ministri. 2.3. - In relazione alle prime due questioni prospettate nel ricorso dello Stato, la Regione ritiene, da un lato, inammissibile la questione formulata con riferimento alla materia dell'ordinamento civile e, dall'altro, sottolinea che le disposizioni regionali in esame non sono «in contrasto con i vincoli derivanti dall'esercizio, da parte dello Stato, della propria competenza esclusiva in materia di tutela della concorrenza», atteso che sarebbe «irragionevole» contestare una disciplina normativa regionale che, nel settore degli affidamenti, prevede norme più severe per gli incarichi che vanno da un importo di 40 mila euro sino alla soglia comunitaria nonché delle forme di pubblicità da stab ilirsi con provvedimento della Giunta regionale. A parere della Regione Veneto, ciò sarebbe consentito atteso che la Regione può disciplinare la fase amministrativa che conduce al contratto nelle materie residuali riservate all'organizzazione della Regione e degli enti da essa dipendenti nonché all'organizzazione degli enti territoriali per gli aspetti diversi da quelli previsti dall'art. 117, secondo comma, lettera p), Cost. Ciò si evincerebbe, secondo la Regione, dallo stesso carattere finalistico della tutela della concorrenza e da quanto previsto dall'art. 2, comma 3, del codice dei contratti pubblici secondo cui «per qu anto non espressamente previsto nel presente codice, le procedure di affidamento si esplicano secondo la legge n. 241 del 1990». Quanto alla distinzione tra servizi di rilevanza comunitaria e servizi sotto soglia, la Regione osserva che il fondamento delle peculiarità dettate dalla disciplina regionale rispetto alla normativa statale sarebbero da rintracciare in una «scelta semplificatrice» della Regione che consente di calibrare gli adempimenti in argomento tenendo conto della varietà di condizioni e circostanze con riferimento sia al numero degli incarichi da attribuire sia alle dimensioni dell'ente appaltatore. Pertanto, le norme regionali assumerebbero, anche nell'ambito della competenza esclusiva dello Stato in tema di concorrenza, la natura di regole di adattamento in sede locale. 2.4. - In ordine alla terza questione prospettata dal ricorso governativo, la Regione Veneto si rimette a quanto argomentato, sia in punto di inammissibilità sia in punto di infondatezza, a proposito delle prime due questioni e rileva «l'inconferenza» della normativa statale posta a confronto con quella regionale, atteso che l'art. 112 del codice dei contratti pubblici concerne le modalità di verifica dei progetti e i requisiti di qualificazione dei verificatori (rinviate alla predisposizione di un regolamento ancora non emanato dall'esecutivo), mentre la disposizione della legge regionale ha un oggetto diverso relativo «ai criteri di affidamento degli incarichi». 2.5. - In ordine alla quarta questione, la Regione osserva che l'unica innovazione regionale consiste nel non richiedere necessariamente le (prime) giustificazioni all'atto stesso della presentazione dell'offerta, regola rientrante nell'organizzazione interna della stazione appaltante e dettata per esigenze di semplificazione. 2.6. - In ordine alla quinta questione sollevata in tema di procedura negoziata, la Regione premette che la norma censurata consente l'affidamento con procedura negoziata dei lavori complementari nelle stesse ipotesi contemplate nell'art. 163 del codice dei contratti pubblici, «salve alcune varianti lessicali». Sottolinea inoltre che per le ipotesi di ricorso alla procedura negoziata nei casi di urgenza le censure dello Stato non sarebbero adeguatamente argomentate. Sostiene infine che, a differenza di quanto ritiene la difesa statale, la novella restringe il ricorso alla procedura negoziata regionale e trova corrispondenza con quanto statuito nell'art. 57, comma 2, lettera c), del codice dei contratti pubblici . 2.7. - In ordine alla sesta questione sollevata in tema di subappalto, la Regione osserva che, a differenza della norma statale, quella regionale prevede la sospensione a favore dell'appaltatore «limitatamente alla somma non corrisposta al subappaltatore risultante dalla fattura non quietanzata». Eccepisce l'inammissibilità degli invocati parametri della tutela della concorrenza e dei livelli essenziali delle prestazioni perché non motivati. Quanto invece, al parametro concernente la materia dell'ordinamento civile, rileva in primo luogo la contraddittorietà della censura statale, ponendo a confronto quanto sostenuto nella motivazione del ricorso e quanto nel petitum, e, in secondo luogo, l'infondatezza della censura stessa, atteso che la norma impugnata disciplina legittimamente l'attività interna della stazione appaltante. 2.8. - In relazione alla settima questione sollevata in tema di leasing immobiliare, la Regione Veneto ribadisce l'eccezione di inammissibilità della censura relativa all'invocato parametro costituzionale costituito dall'art. 117, secondo comma, lettera m), perché immotivata. Nel merito, ritiene la censura infondata, atteso che la norma regionale non ha contraddetto la normativa nazionale, ma si è limitata a porre una regolamentazione di dettaglio consentita dalla stessa disciplina statale. 2.9. - In relazione all'ottava questione sollevata in tema di verifica preventiva dell'interesse archeologico per i lavori pubblici di competenza regionale, la Regione Veneto ritiene la censura infondata atteso che, da un lato, le norme previste dagli articoli 95 e 96 del codice dei contratti pubblici non sarebbero inderogabili e, dall'altro, la norma censurata non derogherebbe affatto alla legislazione dello Stato, ma rappresenterebbe un ragionevole svolgimento dei criteri da essa posti. Considerato in diritto 1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha proposto questioni di legittimità costituzionale in via principale nei confronti degli articoli 6, comma 1, 7, commi 2 e 3, 8, 22, 24, 29, 32, 43, comma 1, della legge della Regione Veneto del 20 luglio 2007, n. 17 (Modifiche alla legge regionale 7 novembre 2003, n. 27, «Disposizioni generali in materia di lavori pubblici di interesse regionale e per le costruzioni in zone classificate sismiche»), con riferimento all'art. 117, secondo comma, lettere e), l), m) e s), della Costituzione.< /o:p> Il Governo ricorrente impugna le richiamate disposizioni della legge regionale n. 17 del 2007 - concernenti sia gli appalti dei servizi relativi all'architettura e all'ingegneria, gli incarichi di progettazione e la verifica e la validazione dei medesimi, sia la verifica di congruità delle offerte sotto soglia, le procedure negoziate e le verifiche preventive dell'interesse archeologico per i lavori pubblici di competenza regionale, sia, infine, l'attività contrattuale della Regione in tema di subappalto e di locazione finanziaria - in quanto ritenute lesive della competenza statale esclusiva in materia di «tutela della concorrenza», in materia di «ordinamento civile» e in materia di «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili (fra le quali può annoverarsi l'attività imprenditoriale a cui è dedicato il libro V del codice civile)», nonché, con specifico riferimento ai lavori pubblici di interesse archeologico, perché lesive, inoltre, della competenza statale esclusiva in materia di «tutela dei beni culturali». In particolare, ad avviso del ricorrente, le norme che disciplinano gli appalti dei servizi relativi all'architettura e gli incarichi di progettazione (art. 6, comma 1, e art. 7, commi 2 e 3), la verifica e la validazione dei progetti (art. 8) e le verifiche preventive dell'interesse archeologico per i lavori pubblici di competenza regionale (art. 43, comma 1), sarebbero costituzionalmente illegittime in quanto riferibili, da un lato, alla tutela della concorrenza sancita dall'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. e, dall'altro, alla materia dell'ordinamento civile e a quella della «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili (fra le quali può annoverarsi l'attività imprendi toriale a cui è dedicato il libro V del codice civile)», previste dall'art. 117, secondo comma, lettere l) e m), Cost., anch'esse rientranti nella potestà legislativa esclusiva dello Stato. Inoltre, secondo il ricorrente, la norma sulle verifiche preventive dei lavori pubblici regionali di interesse archeologico (art. 43, comma 1), sarebbe costituzionalmente illegittima anche perché riferibile alla tutela dei beni culturali prevista dall'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. e rientrante nella competenza legislativa esclusiva dello Stato. Le ulteriori norme regionali inerenti alle offerte anomale (art. 22) e alla procedura negoziata (art. 24), sarebbero, ad avviso del Governo, costituzionalmente illegittime in quanto riferibili alla tutela della concorrenza sancita dall'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. e quelle concernenti il subappalto (art. 29) e il leasing immobiliare (art. 32), sarebbero illegittime in quanto riferibili alla materia dell'ordinamento civile, competenze, entrambe, attribuite all'esclusiva potestà legislativa statale. 2. - Va ricordato preliminarmente che la legge regionale oggetto di censura è stata approvata il 20 luglio ed è entrata in vigore l'8 agosto 2007. Intervenuta la sentenza 23 novembre 2007, n. 401, di questa Corte, la Regione Veneto, in data 11 marzo 2008, ha adottato un documento contenente «Indirizzi operativi per l'applicazione della L.R. 27/2003 a sèguito della sentenza della Corte costituzionale n. 401/2007», nel quale riconosceva «non applicabili» la maggior parte delle norme oggetto dell'impugnazione da parte dello Stato. 3. - Le questioni aventi ad oggetto gli artt. 6, comma 1, 7, commi 2 e 3, 8, 29, 32, e 43, comma 1, della legge della Regione Veneto n. 17 del 2007, con riferimento all'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., come osservato dalla Regione Veneto, non sono ammissibili perché non sorrette da specifiche argomentazioni. Il ricorrente si limita ad invocare in modo generico la «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili (fra le quali può annoverarsi l'attività imprenditoriale a cui è dedicato il libro V del codice civile)». 4. - Le questioni aventi ad oggetto gli artt. 6, comma 1, 7, commi 2 e 3, 8, 22, 24, 29, 32 e 43, comma 1, della legge della Regione Veneto n. 17 del 2007, con riferimento all'art. 117, secondo comma, lettere e) e l), Cost., sono fondate. Questa Corte ha già osservato che, nel settore degli appalti pubblici, l'eventuale «interferenza» della disciplina statale con competenze regionali «si atteggia in modo peculiare, non realizzandosi normalmente in un intreccio in senso stretto con ambiti materiali di pertinenza regionale, bensì [mediante] la prevalenza della disciplina statale su ogni altra fonte normativa» (sentenza n. 401 del 2007). Va premesso che è stata dichiarata non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 3, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), secondo cui «le Regioni non possono prevedere una disciplina diversa da quella del presente codice» in relazione agli ambiti di legislazione sui contratti della pubblica amministrazione riconducibili alla competenza esclusiva dello Stato in base all'art. 117, secondo comma, Cost. (sent. n. 401 del 2007). Ora, la normativa regionale censurata dallo Stato contiene una disciplina diversa da quella del codice citato per quanto attiene ai seguenti oggetti: affidamento dei servizi tecnici relativi all'architettura e all'ingegneria (artt. 6, comma 1, e 7, commi 2 e 3) riferibile all'ambito della legislazione sulle «procedure di affidamento»; verifica e validazione del progetto (art. 8), inerente all'ambito della «progettazione»; offerte anomale (art. 22) e procedura negoziata (art. 24), relative all'ambito delle procedure di affidamento; subappalti (art. 29), relativi ad analoga materia disciplinata dal codice dei contratti pubblici; leasing immobiliare (art. 32), relativo in parte all'ambito del la «progettazione», in parte alla «esecuzione dei contratti» e comunque rientrante, insieme all'istituto del subappalto, nella materia «ordinamento civile»; verifica preventiva dell'interesse archeologico (art. 43), inerente a «contratti relativi alla tutela dei beni culturali». Per tutti questi oggetti, la disciplina dettata dalla Regione produce una erosione dell'area coperta da obblighi di gara. Essa, infatti, lascia le stazioni appaltanti libere di scegliere le modalità di affidamento degli incarichi di ingegneria e architettura comportanti un compenso inferiore a 40 mila euro, così riducendo il confronto concorrenziale nell'affidamento di tali servizi; consente che una deliberazione della Giunta regionale detti i criteri e le modalità di affidamento degli incarichi di ingegneria e architettura comportanti un compenso compreso tra 40 mila euro e la soglia comunitaria, nonché sulle forme di pubblicità dei medesimi e sui criteri di verifica e validazione dei progetti, i ncidendo in tal modo sulle regole di mercato; restringe l'ambito entro cui la stazione appaltante deve verificare la congruità delle offerte anomale; consente il ricorso alla trattativa privata senza necessità di previa pubblicazione di un bando di gara, limitando così il confronto concorrenziale; riduce la sospensione del pagamento alla sola somma non corrisposta al subappaltatore; restringe il numero di soggetti che possono aspirare a vedersi affidare l'esecuzione dei lavori aventi ad oggetto la costruzione degli immobili mediante l'introduzione dell'istituto del leasing immobiliare; lascia le stazioni appaltanti libere per quanto concerne l'affidamento degli incarichi aventi ad oggetto le indagini archeologiche, attribuite senza confronto concorrenziale. La normativa regionale, dunque, detta una disciplina difforme da quella nazionale in materie riservate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in base all'art. 117, secondo comma, Cost., riducendo, da un lato, l'area alla quale si applicano le regole concorrenziali dirette a consentire la piena esplicazione del mercato nel settore degli appalti pubblici a tutti gli operatori economici («tutela della concorrenza») e alterando, dall'altro, le regole contrattuali che disciplinano i rapporti privati («ordinamento civile») (sentenze nn. 431 e 401 del 2007 e n. 282 del 2004). 5. - Le residue censure, riferite agli altri parametri evocati, restano assorbite. LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara la illegittimità costituzionale degli articoli 6, comma 1, 7, commi 2 e 3, 8, 22, 24, 29, 32, 43, comma 1, della legge della Regione Veneto 20 luglio 2007, n. 17 (Modifiche alla legge regionale 7 novembre 2003, n. 27, «Disposizioni generali in materia di lavori pubblici di interesse regionale e per le costruzioni in zone classificate sismiche»); 2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto gli articoli 6, comma 1, 7, commi 2 e 3, 8, 29, 32, e 43, comma 1, della legge della Regione Veneto n. 17 del 2007, promosse con riferimento all'art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, in relazione alla «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili (fra le quali può annoverarsi l'attività imprenditoriale a cui è dedicato il libro V del codice civile)», dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe. Cosi deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Sabino CASSESE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'1 agosto 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 169 del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), promosso con ordinanza del 5 aprile 2007 dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria, sul ricorso proposto da S. E. nei confronti del Ministero della difesa, iscritta al n. 64 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell'anno 2008. Udito nella camera di consiglio del 9 luglio 2008 il Giudice relatore Maria Rita Saulle. Ritenuto in fatto 1. - La Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria, con ordinanza del 5 aprile 2007, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 169 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), «nella parte in cui fa dec orrere il termine di decadenza per l'inoltro della domanda di pensione privilegiata dalla data di cessazione dal servizio, anziché dal momento della manifestazione della malattia», per violazione dell'art. 3, primo comma, e dell'art. 38, secondo comma, della Costituzione. 2. - Il giudice rimettente riferisce che il giudizio a quo ha ad oggetto il ricorso della vedova del capitano di corvetta G. L., cessato dal servizio per collocamento in ausiliaria in data 10 giugno 1992 e deceduto il 28 aprile 1999, avverso il decreto 11 gennaio 2001, n. 1/M, con il quale il Ministero della difesa - in applicazione dell'art. 169 del d.P.R. n. 1092 del 1973 - ha respinto la domanda di pensione privilegiata di reversibilità, avanzata dalla ricorrente il 10 settembre 1999. L'ordinanza di rimessione precisa che il provvedimento di diniego impugnato si fonda sul fatto che sono trascorsi più di cinque anni tra la presentazione della suddetta domanda e la cessazione dal servizio del militare e ciò, nonostante la Commissione medica, investita del caso, abbia accertato che l'infermità (Mesotelioma pleurico) che ha causato la morte del dipendente, diagnosticatagli nel maggio del 1998, sia dipesa dalla prolungata esposizione all'amianto subita nel corso del servizio prestato alle dipendenze della Marina militare dal 1951 fino al collocamento a riposo.
3. -
Ricostruiti così i fatti di causa, il giudice a quo ritiene
rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità
costituzionale dell'art. 169 del d.P.R. n. 1092 del 1973, il quale
stabilisce, al primo comma, che «la domanda di trattamento privilegiato
non è ammessa se il dipendente abbia lasciato decorrere cinque anni
dalla cessazione dal servizio senza chiedere l'accertamento della
dipendenza delle infermità o delle lesioni contratte» e, al
secondo comma, che detto «termine è elevato a dieci anni qualora
l'invalidità sia derivata da parkinsonismo». 3.1. - Ad avviso del rimettente, la ratio legis di tale disposizione si fonda sulle «conoscenze mediche e scientifiche dell'epoca in cui entrò in vigore il T.U. delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato», approvato con d.P.R. n. 1092 del 1973, quando - fatta eccezione per il morbo di Parkinson - non erano ancora note «patologie che fossero del tutto prive di qualunque manifestazione sintomatica per un arco di tempo superiore ai cinque anni». Il successivo progresso scientifico in materia, osserva sempre il rimettente, «ha messo in luce l'esistenza di altre patologie a decorso lento e latente, il cui periodo di totale assenza di manifestazioni morbose va ben oltre il quinquennio», così come accade, in particolare, per le patologie provocate dall'esposizione all'amianto, «tutte caratterizzate da un lungo intervallo di tempo fra l'inizio dell'esposizione e la comparsa della malattia». 3.2. - Alla luce di tali considerazioni, la Corte rimettente ritiene che l'art. 169 del d.P.R. n. 1092 del 1973, facendo «decorrere il termine di decadenza per l'inoltro della domanda di pensione privilegiata dalla data di cessazione dal servizio, anziché dal momento della manifestazione della malattia», determinerebbe una «ingiustificata disparità di trattamento tra lavoratori dipendenti che hanno contratto malattie a normale decorso e lavoratori dipendenti con patologia a lunga latenza», in violazione dell'art. 3 della Costituzione. La lesione del principio di eguaglianza, afferma ancora il giudice a quo, si manifesterebbe, altresì, «con riferimento al regime previsto per l'assicurazione infortuni e malattie professionali dei lavoratori dell'industria, ove il termine dell'azione per conseguire le prestazioni assicurative decorre "dal giorno dell'infortunio o da quello della manifestazione della malattia professionale"», secondo quanto disposto dall'art. 112 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 (Testo unico delle disposizioni per l'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali). 3.3. - Sotto altro profilo, sempre ad avviso della Corte rimettente, la disposizione censurata contrasterebbe anche con l'art. 38, secondo comma, della Costituzione, che stabilisce il diritto dei lavoratori a che «siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita» in caso di malattia. Il giudice rimettente osserva, al riguardo, che «i termini decadenziali hanno la funzione di sanzionare un comportamento omissivo o inerte facendo venire meno il diritto di chi, pur avendone avuto la possibilità, non si è attivato tempestivamente», cosicché far decorrere il termine di decadenza dalla data di cessazione dal servizio, anziché da quella della manifestazione morbosa, «in tutti i casi in cui il tempo di latenza della malattia abbia superato il periodo decadenziale, equivale ad impedire in modo del tutto irragionevole l'esercizio del diritto riconosciuto dall'ordinamento, come quello alla pensione privilegiata». 3.4. - La Corte rimettente precisa, inoltre, che le odierne censure di legittimità costituzionale muovono da presupposti differenti rispetto a quelli posti a fondamento delle questioni aventi ad oggetto l'art. 169 del d.P.R. n. 1092 del 1973, già decise da questa Corte, nel senso della manifesta inammissibilità, con le ordinanze n. 300 del 2001 e n. 246 del 2003. Nei relativi atti di rimessione, infatti, premessa «l'esistenza di un parallelismo tra il morbo di Parkinson e la sclerosi multipla», si chiedeva - pur sempre in base al principio di uguaglianza - «l'estensione del termine decennale previsto per il parkinsonismo anche all'altra infermità»; scelta che questa Corte ha affermato essere riservata «alla discrezionalità del legislatore». 4. - Quanto alla rilevanza della questione, il rimettente evidenzia, in primo luogo, che la Commissione medica ospedaliera interessata del caso ha riconosciuto che la prolungata esposizione all'amianto cui è stato soggetto il dante causa della ricorrente durante il servizio rappresenta la «causa unica nel determinismo della patologia neoplastica che ha condotto a morte l'interessato, per cui il decesso deve considerarsi avvenuto per causa di servizio»; in secondo luogo, che il diniego dell'Amministrazione in ordine alla concessione della pensione privilegiata & egrave; «motivato esclusivamente con riferimento al disposto di cui all'art. 169 del d.P.R. n. 1092 del 1973». Conseguentemente, conclude la Corte rimettente, dalla «soluzione della sollevata questione di legittimità costituzionale dipende [.] l'esito del giudizio» a quo. Considerato in diritto 1. - La Corte dei Conti, sezione giurisdizionale per la Regione Liguria, dubita della legittimità costituzionale dell'art. 169 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), «nella parte in cui fa decorrere il termine di decadenza per l'inoltro della domanda di pe nsione privilegiata dalla data di cessazione dal servizio, anziché dal momento della manifestazione della malattia», in riferimento agli artt. 3, primo comma, e 38, secondo comma, della Costituzione. 1.1. - Ad avviso del giudice rimettente, infatti, la norma censurata, stabilendo l'inammissibilità della domanda di trattamento privilegiato qualora «il dipendente abbia lasciato decorrere cinque anni dalla cessazione del servizio senza chiedere l'accertamento della dipendenza delle infermità o delle lesioni contratte», determinerebbe una «ingiustificata disparità di trattamento tra lavoratori dipendenti che hanno contratto malattie a normale decorso e lavoratori dipendenti con patologia a lunga latenza» (in violazione dell'art. 3 Cost.), nonché una irragionevole compressione del diritto alla pensione privilegiata (in contrasto con l'art. 38 Cost.), in tutte le ipotesi in cui l'infermità, pur riconosciuta come dipendente da causa di servizio, si sia manifestata successivam ente al decorso di detto termine. 2. - La questione è fondata. 2.1. - Come ricordato dal giudice rimettente, questa Corte si è già occupata della legittimità costituzionale dell'art. 169 del d.P.R. n. 1092 del 1973, sotto un profilo diverso, e precisamente in relazione alla pretesa irragionevolezza della norma per il fatto che il termine quinquennale dalla cessazione del servizio per la richiesta della pensione privilegiata risulta elevato a dieci anni nel solo caso del morbo di Parkinson, pur non potendosi escludere l'esistenza di altre malattie - come la sclerosi multipla - che, al pari di quello, risultano di difficile diagnosi e caratterizzate da esordi e decorsi mutevoli. Con le ordinanze n. 300 del 2001 e n. 246 del 2003, tale questione fu dichiarata manifestamente inammissibile, sul rilievo che «la scelta di prorogare i termini della domanda per l'una o per l'altra malattia, sulla base di sicuri dati scientifici, appartiene indubbiamente alla discrezionalità del legislatore». Tuttavia, questa Corte osservò, al contempo, che non era stata invece censurata «la scelta del legislatore di far decorrere il termine per la domanda di pensione privilegiata dalla data di cessazione del servizio indipendentemente dalle modalità di manifestazione della malattia» (così ordinanza n. 246 del 2003). 2.2. - L'odierno dubbio di costituzionalità muove proprio dalla considerazione che l'art. 169 del d.P.R. n. 1092 del 1973, fissando il dies a quo del termine quinquennale di decadenza al momento della cessazione dal servizio, a prescindere dalle modalità concrete di manifestazione della malattia, comprime del tutto ingiustificatamente il diritto alla pensione privilegiata dei lavoratori per i quali l'insorgenza della manifestazione morbosa, della quale sia accertata la dipendenza dal servizio, sia successiva al decorso di detto termine. Le attuali conoscenze mediche, infatti, hanno messo in luce l'esistenza di malattie in cui, fra la causa della patologia e la relativa manifestazione, intercorre un lungo e non preventivabile periodo di latenza in assenza di alcuna specifica sintomatologia, come ad esempio in quelle provocate dall'esposizione all'amianto. Risulta, pertanto, evidente che quando l'infermità si manifesta successivamente al decorso del termine quinquennale dalla cessazione del servizio, la norma censurata esige irragionevolmente che la domanda di accertamento della dipendenza della infermità dal servizio svolto sia inoltrata entro un termine in cui ancora difetta il presupposto oggettivo (l'infermità) della richiesta medesima. Ne consegue che, in tali casi, in palese violazione sia dell'art. 38, secondo comma, sia dell'art. 3 Cost., l'esercizio del diritto alla pensione privilegiata risulta pregiudicato ancor prima che venga ad esistenza, determinando quella ingiustificata disparità di trattamento tra lavoratori dipendenti che hanno contratto malattie a normale decorso e lavoratori dipendenti con patologia a lunga lat enza denunciata dal giudice rimettente. 2.3. - Pertanto, con riferimento ai casi nei quali la malattia insorga allorché siano già decorsi cinque anni dalla cessazione dal servizio - ferma restando la disciplina attuale per le altre ipotesi -, occorre che la norma impugnata sia dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui non prevede che, in tale ipotesi, il termine quinquennale di decadenza per l'inoltro della domanda di accertamento della dipendenza delle infermità o delle lesioni contratte - ai fini dell'ammissibilità della domanda di trattamento privilegiato - decorra dalla manifestazione della malattia stessa. Giova rimarcare, al riguardo, che, per ottenere il riconoscimento del diritto alla pensione privilegiata, l'infermità deve in ogni caso trarre evidenti origini dal servizio, sulla base di una rigorosa verifica della dipendenza dal medesimo. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 169 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), nella parte in cui non prevede che, allorché la malattia insorga dopo i cinque anni dalla cessazione dal servizio, il termine quinquennale di decadenza per l'inoltro della domanda di accertamento della dipendenza delle infermità o delle lesioni contratte, ai fini dell'ammissibilità della domanda di trattamento privilegiato, decorra dalla manifestazione della malattia stessa. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Maria Rita SAULLE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'1 agosto 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 6, commi 1, 2, 4 e 5, dell'art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione) e dell'art. 157, secondo comma, del codice penale, come novellato dall'art. 6, comma 1, della legge n. 251 del 2005, promossi, nell'ambito di diversi procedimenti penali, con ordinanze del 31 gennaio 2006 dal Tribunale di Roma, del 24 gennaio 2006 dal Tribunale di Salerno sezione distaccata di Cava de' Tirreni e del 18 luglio 2006 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Padova, rispettivamente iscritte ai nn. 115 e 192 del registro ordinanze 2006 ed al n. 1 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 17 e 26, prima serie speciale, dell'anno 2006 e n. 7 prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di costituzione della Prima Idep S.p.r.l., della Société Générale de Sucreries, S.G.S., s.a. in liquidazione, del Patronato Piccoli Azionisti Industria Zuccheri, P.A.I.Z. e della Investissements Dynamiques et Prudents, I.D.E.P. s.a., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 1° aprile 2008 e nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Gaetano Silvestri, sostituito per la redazione della sentenza dal Giudice Paolo Maria Napolitano; uditi gli avvocati Bruno Rossini e Vittorio Poli per la Société générale de Sucreries, S.G.S., s.a. in liquidazione, Vittorio Fasce, Salvatore Greco e Vittorio Poli per la Investissements Dynamiques et Prudents, I.D.E.P. s.a., Vittorio Fasce, Salvatore Greco, Vittorio Poli e Bruno Rossini per la Prima Idep S.p.r.l., Vittor io Fasce e Salvatore Greco per il Patronato Piccoli Azionisti Industria Zuccheri, P.A.I.Z. Ritenuto in fatto 1. - Con ordinanza del 31 gennaio 2006 (r.o. n. 115 del 2006), il Tribunale di Roma, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, secondo comma, del codice penale, come novellato dall'art. 6, comma 1, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui non prevede che, per determinare il tempo necessario a p rescrivere, debba tenersi conto anche della minima diminuzione di pena derivante dall'applicazione delle circostanze attenuanti per le quali la legge stabilisca una pena di specie diversa da quella ordinaria e di quelle a effetto speciale. Il rimettente precisa che il giudizio a quo ha ad oggetto un'imputazione per il delitto di ricettazione, nell'ipotesi attenuata di cui al secondo comma dell'art. 648 cod. pen., commesso in epoca anteriore e prossima al novembre del 1997 e che, essendo il processo nella fase antecedente alla dichiarazione di apertura del dibattimento, al delitto per cui si procede, secondo il disposto del comma 3 dell'art. 10 della legge n. 251 del 2005, dovrebbero applicarsi i termini di prescrizione introdotti dall'art. 6 della stessa, in quanto più favorevoli. Il Giudice del Tribunale di Roma premette di aderire all'interpretazione della giurisprudenza di legittimità secondo la quale l'ipotesi di cui al secondo comma dell'art. 648 cod. pen., introdotta dal legislatore con la legge 22 maggio 1975, n. 152 (Disposizioni a tutela dell'ordine pubblico), non integra un'autonoma fattispecie delittuosa, bensì una circostanza attenuante ad effetto speciale che determina la riduzione della pena base da otto a sei anni di reclusione. Il rimettente rileva di non poter applicare la riduzione di pena prevista dalla circostanza attenuante ai fini del calcolo del termine di prescrizione, in quanto, a seguito della novella dell'art. 157 cod. pen., introdotta dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, per determinare il tempo necessario a prescrivere, si deve aver riguardo unicamente alla pena stabilita per il reato commesso, senza tener conto dell'aumento o della diminuzione della pena determinata dall'eventuale concorso di circostanze, ad eccezione delle circostanze aggravanti speciali o ad effetto speciale. Di qui la rilevanza della questione, perché, qualora si potesse far riferimento, ai fini del calcolo del termine di prescrizione, alla pena prevista per l'ipotesi attenuata di ricettazione in luogo di quella ordinaria di cui al primo comma dell'art. 648 cod. pen., il reato risulterebbe prescritto. Il giudice a quo ritiene che la modifica introdotta dall'art. 6, comma 1, della legge n. 251 del 2005 contrasti con l'art. 3 Cost. sia sotto il profilo del principio di ragionevolezza che di quello di uguaglianza. Quanto alla mancanza di ragionevolezza della norma censurata, il rimettente evidenzia che il legislatore ha ritenuto di individuare nella gravità del reato e - con un significativo aspetto di novità riguardo al sistema normativo precedente - nella pericolosità sociale dell'imputato i criteri che consentono di diversificare ragionevolmente i termini di prescrizione del reato. Egli ritiene che «l'aver escluso dal calcolo le circostanze ordinarie, ha, praticamente, privato il Giudice di ogni discrezionalità nella quantificazione della pena ai fini della prescrizione e ha reso il processo di determinazione del tempo necessario a prescrivere quanto più rigido e rigoroso possibile, introducendo nell'ordinamento una sorta di presunzione iuris et de iure di gravità del reato» Questa scelta, rientrante nella discrezionalità del legislatore, tuttavia, verrebbe ad essere contraddetta dalla stessa norma allorché prevede che l'aumento di pena previsto dalle circostanze aggravanti ad effetto speciale debba essere calcolato nella determinazione del termine di prescrizione. Secondo il rimettente, dal momento che il legislatore ha ritenuto di ricorrere ai massimi edittali per determinare la gravità del reato cui, a sua volta, agganciare i termini differenziati di prescrizione, escludendo dal calcolo le circostanze ordinarie (attenuanti o aggravanti che siano) e impedendo, comunque, qualsivoglia possibilità di ricorrere al bilanciamento delle stesse, la successiva scelta di utilizzare contra reum le circostanze aggravanti speciali e ad effetto speciale senza tener conto delle analoghe circostanze attenuanti, non trova alcuna valida spiegazione, atteso che queste ultime concorrono a determinare, al pari delle prime, la gravità dell'illecito penale. Se, dunque, il legislatore ha voluto irrigidire il riferimento alla gravità del reato, escludendo le circostanze ordinarie e valorizzando solo le aggravanti speciali o ad effetto speciale che incidono più significativamente sulla pena, una volta operata tale scelta, ragionevolmente, doveva attribuire la medesima rilevanza anche alle circostanze attenuanti speciali o ad effetto speciale che, al pari delle prime, quantunque in senso opposto, incidono astrattamente sulla gravità dell'evento criminoso. A parere del Tribunale, la disciplina censurata provocherebbe anche «ingiustificate disparità di trattamento» laddove, come nel caso di specie, ogni reato attenuato da circostanze ad effetto speciale verrebbe a prescriversi in un termine di gran lunga superiore a quello stabilito per tutti gli altri delitti puniti in via principale con la medesima pena stabilita per l'ipotesi delittuosa attenuata. Disparità ancora più accentuata allorché si consideri l'ipotesi di chi debba rispondere di un delitto variamente aggravato da circostanze ordinarie (di cui non si può tenere conto ai fini del calcolo del termine di prescrizione) ma punito, nella figura base, con pena uguale a quella prevista per un'ipote si di altra fattispecie criminosa attenuata da circostanze speciali o ad effetto speciale. La citata evidente disparità di trattamento, secondo il rimettente, trasmoda, in concreto, in un regolamento irrazionale di identiche situazioni sostanziali, con la conseguenza, in termini di ragionevolezza che, nel caso di specie, l'imputato non potrebbe in alcun caso riportare una pena superiore a sei anni di reclusione, mentre nei suoi confronti il tempo necessario a prescrivere andrebbe calcolato su una pena massima diversa (quella di anni otto prevista al primo comma) e, soprattutto, sostanzialmente estranea e, comunque, inapplicabile alla fattispecie. 1.2. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata manifestamente infondata in quanto il rimettente potrebbe fare comunque applicazione della circostanza di cui al secondo comma dell'art. 648 cod. pen., posto che - a norma dell'art. 10, comma 2, della legge n. 251 del 2005 - è previsto che la nuova disciplina della prescrizione non si applichi nei procedimenti in corso «se i nuovi termini di prescrizione risultano più lunghi di quelli previgenti». 2. - Il Tribunale di Salerno, sezione distaccata di Cava de' Tirreni, con ordinanza del 24 gennaio 2006 (r.o. n. 192 del 2006), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 25, comma secondo, 27 e 79 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, commi 1 e 4, della legge n. 251 del 2005 nella parte in cui prevede un sistema di computo dei termini prescrizionali collegato non già alla gravità oggettiva del fatto, bensì allo status soggettivo dell'imputato; ha sollevato, inoltre, in riferimento all'art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 2, della l egge n. 251 del 2005 nella parte in cui non prevede che il termine prescrizionale, nel caso di reato continuato, decorra dalla data di cessazione della continuazione e, sempre in riferimento all'art. 3 Cost., ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005 nella parte in cui prevede l'applicazione della nuova più favorevole normativa nei procedimenti relativi a fatti antecedenti, «ad esclusione dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento». Il rimettente premette in fatto di essere chiamato a giudicare su di un'imputazione relativa a due fatti astrattamente costituenti il delitto di calunnia, commessi rispettivamente in data 19 dicembre 1994 e 22 ottobre 1998, ed avvinti, alla stregua dell'imputazione elevata dalla pubblica accusa, dal vincolo della continuazione. Egli precisa di dover valutare la richiesta della difesa dell'imputato di applicazione della nuova disciplina dei termini di prescrizione introdotta dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005 non essendo stato ancora aperto il dibattimento, momento processuale cui è collegata, ai sensi dell'art. 10, comma 3, della stessa legge, l'efficacia retroattiva della nuova disciplina più favorevole. In punto di rilevanza, il rimettente evidenzia che, con la riforma della disciplina della prescrizione introdotta dalla legge n. 251 del 2005 e, in particolare, facendosi applicazione degli artt. 6, commi 1 e 4, che rispettivamente modificano i termini di prescrizione e l'efficacia degli atti interruttivi, dell'art. 6, comma 2, che non lascia più decorrere il termine di prescrizione dal giorno in cui è cessata la continuazione, e dell'art. 10, comma 3, che fa coincidere la non applicabilità della nuova normativa con la dichiarazione di apertura del dibattimento, quantomeno il primo delitto di calunnia, commesso secondo l'imputazione in data 19 dicembre 1994, dovrebbe ritenersi estinto per intervenuta prescrizione. 2.1. - Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente prende in considerazione innanzitutto l'art. 6, commi 1 e 4, della legge n. 251 del 2005 che, modificando gli artt. 157 e 161 cod. pen., oltre a determinare una generale riduzione dei termini di prescrizione, disciplina gli effetti dell'interruzione del corso della prescrizione con un prolungamento del tempo necessario a prescrivere nel seguente modo: «un aumento frazionario di un quarto in caso di soggetti incensurati, della metà in caso di imputati cui sia applicabile (o contestata) la recidiva infraquinquennale o specifica (art. 99 comma 2, c.p.), di due terzi in caso di imputati cui sia applicabile la recidiva plurima (art. 99 comma 4 c.p.), del doppio nel caso di imputati dichiarati delinquenti abituali (artt. 102 e 103 c.p.) o professionali (art. 105 c.p.)». Alla stregua della nuova normativa, dunque, sarebbe la personalità criminale del reo, desunta dalla recidiva o dallo stato di delinquente abituale o professionale, a determinare un allungamento, anche consistente, dei termini di prescrizione. A parere del giudice a quo, il legislatore, nell'adottare quale criterio distintivo degli effetti della proroga connessa al compimento di atti interruttivi, non già la gravità oggettiva del fatto, come avveniva precedentemente, bensì lo status soggettivo dell'imputato, avrebbe riesumato la logica del «diritto penale d'autore», in violazione degli artt. 13, 25 e 27 della Costituzione che impongono «un ordinamento improntato ai tratti di un "diritto penale del fatto"». Tale disciplina, inoltre, sarebbe irragionevole laddove viene a collegare l'allungamento dei termini di prescrizione ad una situazione di recidiva che può maturare anche a distanza di anni dal fatto a causa della lunghezza dei tempi processuali. Il rimettente ritiene, inoltre, che la riforma dettata dalla legge n. 251 del 2005, determinando l'estinzione generalizzata di una molteplicità di ipotesi di reato a causa della riduzione dei termini di prescrizione, produce, per ciò che concerne la sua applicazione retroattiva, l'effetto tipico di una amnistia, con un aggiramento dell'art. 79 Cost., che, come è noto, richiede una legge approvata da una maggioranza parlamentare dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera. Infine, secondo il Giudice a quo, la riduzione consistente dei termini di prescrizione, poiché «impedisce, di fatto, il perseguimento e la punizione di molteplici fatti di reato, con una obliterazione della sicurezza collettiva, atteso che i consueti tempi processuali, dilatati all'estremo da improvvide elargizioni di "pseudogaranzie" prive di reali contenuti difensivi e dalla asfitticità dell'organizzazione giudiziaria», violerebbe il principio costituzionale di difesa sociale, immanente all'intero sistema costituzionale, e tale da giustificare la pretesa punitiva dello Stato. 2.2. - Il rimettente censura anche l'art. 6, comma 2, della legge n. 251 del 2005 che ha abrogato l'art. 158 cod. pen. nella parte in cui stabiliva la decorrenza dei termini di prescrizione del reato continuato dalla cessazione della continuazione per violazione del principio di ragionevolezza. Secondo la prospettazione del Tribunale, sarebbe irragionevole, in presenza di una pluralità di condotte avvinte dal medesimo disegno criminoso, prevedere un trattamento unitario, allorquando si versi nell'ambito del regime sanzionatorio, ed un trattamento distinto, allorquando si versi in tema di estinzione del reato per prescrizione, in quanto la figura del reato continuato non è frutto di una finzione, ma coglie, al contrario, l'essenza di un fatto criminoso unico, sebbene costituito da una pluralità di condotte. 2.3. - Infine il rimettente ritiene che la disciplina transitoria di applicazione della legge n. 251 del 2005, dettata dall'art. 10, comma 3, sia irragionevole e in contrasto con l'art. 3 della Costituzione. A suo parere, la dichiarazione di apertura del dibattimento è un momento processuale privo di qualsivoglia connotato in grado di giustificare una dismissione della pretesa punitiva non essendo assimilabile né all'esercizio dell'azione penale, né, tantomeno, alla pronuncia di una sentenza di condanna in primo grado, atto autoritativo che esprime l'accertamento dell'ipotizzata responsabilità. 2.4. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto che siano dichiarate inammissibili, e comunque infondate, le questioni sollevate dal rimettente. Preliminarmente, l'Avvocatura generale eccepisce l'inammissibilità per difetto di rilevanza della questione di costituzionalità sollevata dal rimettente in riferimento all'art. 6, commi 1 e 4, della legge n. 251 del 2005 in quanto, dalla pur breve descrizione della fattispecie, emerge che l'imputato è incensurato e che, quindi, dovrebbe beneficiare del termine di prescrizione più breve, pertanto, «venendo in considerazione un'applicazione favorevole delle nuove disposizioni, è del tutto incongruo sollevare una censura costituzionale in ragione di una disparità formale di trattamento che, comunque, nel caso concreto, recherebbe sicuro vantaggio al soggetto "de quo"». Nel merito le restanti questioni sarebbero, invece, infondate. Con riferimento alla decorrenza del termine in caso di continuazione tra reati, il legislatore avrebbe inteso adottare critéri di calcolo il più possibile oggettivi e, d'altra parte, non vi sarebbe contraddizione tra disciplina della prescrizione e trattamento sanzionatorio, perché gli episodi confluenti nella continuazione, se prescritti, non vengono considerati nel computo della pena per il reato continuato. Quanto infine alla censura riguardante la disciplina transitoria, il rimettente avrebbe trascurato come detta disciplina presenti per la sua stessa funzione una natura «temporanea», sottraendosi pertanto alla disciplina della successione tra leggi ed essendo riconducibile, piuttosto, alla previsione del quarto (recte: quinto) comma dell'art. 2 cod. pen.: «la transitorietà, che connota quelle disposizioni destinate ad esplicare la propria efficacia per un periodo di tempo determinato, ragionevolmente sottrae le stesse all'applicazione del principio del "favor rei", e, altrettanto ragionevolmente, riduce l'alea della dispersione processuale». 3. - Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Padova, con ordinanza del 18 luglio 2006 (r.o. n. 1 del 2007), ha sollevato: questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 1, della legge n. 251 del 2005, in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., nella parte in cui non prevede che, per determinare il tempo necessario a prescrivere, si tenga conto anche delle circostanze aggravanti comuni e delle circostanze attenuanti; questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, n. 2 (recte: dell'art. 6, comma 2), della legge n. 251 del 2005, in riferimento all'art. 3 Cost., nella parte in cui esclude che, nel caso di reato continuato, il termine prescrizionale decorra dal momento della cessata continuazione; questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 5, della legge n. 251 del 2005, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Cost., nella parte in cui prevede che la maggior durata dei termini prescrizionali, in caso di atti interruttivi, sia determinata con riguardo alle ipotesi di recidiva, abitualità e professionalità nel reato - dunque in base a «criteri meramente soggettivi» - e nella parte in cui esclude che gli atti interruttivi del corso della prescrizione riguardanti un dato reato dispieghino i loro effetti anche con riferimento ai reati connessi; questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, n. 3 (recte: dell'art. 10, comma 3), della legge n. 251 del 2005, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Cost., nella parte in cui prevede che le nuove disposizioni sulla prescrizione siano applicabili ai reati perseguiti in procedimenti nei quali, al momento di entrata in vigore della legge, non sia stata ancora dichiarata l'apertura del dibattimento; questione di legittimità costituzionale dell'applicazione retroattiva della nuova disciplina in materia di prescrizione, in riferimento all'art. 79 Cost., in quanto si verrebbe a determinare un'amnistia mascherata. 3.1. - Il rimettente precisa di essere chiamato a valutare una richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero per una complessa serie di reati, di cui riporta dettagliatamente il capo d'imputazione, riguardanti più delitti di falsità ideologica del pubblico ufficiale in atti pubblici aggravati dal cosiddetto nesso teleologico e dall'aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità (artt. 479, 476, comma secondo, 61, numeri 2 e 7, cod. pen.), il delitto di peculato aggravato dall'aver cagionato un danno patrimoniale di ri levante gravità (artt. 314 e 61, numero 7, cod. pen.), e, infine, il delitto di interesse privato del curatore negli atti del fallimento aggravato dal cosiddetto nesso teleologico e dall'aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità (art. 228 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 recante «Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa», art. 61, numeri 2 e 7, cod. pen.). Tali delitti sarebbero stati commessi, secondo l'ipotesi accusatoria, tra il febbraio del 1986 e il maggio del 1989. Il giudice, in punto di rilevanza, osserva che per effetto delle modifiche al regime della prescrizione introdotte dalla legge n. 251 del 2005, tutti i reati risulterebbero prescritti, essendo effettivamente maturati, secondo i criteri riformati di computo, i relativi termini temporali, mentre, applicando correttamente la disciplina della prescrizione vigente prima della riforma del 2005, nonostante si proceda a distanza di circa 20 anni dai fatti, risulterebbero intervenuti diversi atti interruttivi che impedirebbero di ritenere, per tutti i reati in contestazione, decorso il termine ultimo di prescrizione. Innanzitutto, troverebbe applicazione il disposto di cui al primo comma dell'art. 161 cod. pen., secondo il quale gli atti interruttivi si estendono a tutti i concorrenti nel medesimo reato, ancorché processati separatamente ed ancorché perseguiti, in ipotesi, dopo il proscioglimento dell'imputato nei cui confronti era diretto l'atto interruttivo. In tal senso il rimettente richiama, senza indicarne gli estremi, quella giurisprudenza della Corte di cassazione secondo la quale «gli atti interrutivi della prescrizione compiuti contro un imputato, anche se assolto, hanno effetto per il loro carattere oggettivo anche nei confronti di colui che sia stato successivamente imputato dello stesso reato». Il Giudice precisa che, nel caso di specie, per il medesimo delitto di interesse privato in atti di ufficio, di cui all'art. 228 della legge fallimentare, contestato ad alcuni degli imputati, si era già tenuto un procedimento penale a carico di un presunto concorrente poi prosciolto. Gli atti di quel processo, analiticamente indicati dal rimettente, avrebbero prodotto l'effetto di interrompere la prescrizione anche nei confronti di coloro ai quali è contestato quello stesso reato nel procedimento al suo esame. In secondo luogo, il rimettente ritiene che, qualora si potesse fare applicazione del secondo comma dell'art. 161 cod. pen. nel testo antecedente la riforma, l'effetto interruttivo derivante dall'applicazione del primo comma si estenderebbe anche a tutti gli altri reati ad esso connessi, ricorrendo connessione tanto in senso soggettivo, quanto in senso oggettivo e «procedimentale». Pertanto, l'accoglimento delle censure implicherebbe l'attuale perseguibilità dei reati medesimi che, in applicazione della disciplina precedente, non sarebbero prescritti, non essendo ancora trascorso il termine ultimo di ventidue anni e mezzo. 3.2. - Il rimettente, prima di enucleare le ragioni della non manifesta infondatezza delle singole censure, premette che l'evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale sul principio di ragionevolezza e di eguaglianza ha portato ad un progressivo superamento dello schema trilaterale cui fa riferimento la regola del tertium comparationis, consentendo anche un sindacato sulla ragionevolezza intrinseca delle scelte legislative. In tale ottica, la ragionevolezza è diventata «parametro di non contraddittorietà interna del sistema giuridico», con la conseguenza che rientra ormai «nel controllo di costituzionalità sia l'esame sulla contraddittorietà della norma rispetto ai principi dell'ordinamento giuridico, sia l'incompatibilità da norma a norma, sia l'incongruità dei mezzi rispetto ai fini, sia l'inesistenza di qualunque giustificazione dell'eccezione rispetto alla regola». A parere del rimettente, tale giudizio di ragionevolezza, con riferimento alla disciplina della prescrizione, deve essere fatto tenendo presente i valori costituzionali che sottendono al permanere della pretesa punitiva da parte dello Stato. Infatti, l'interesse dello Stato a reprimere le condotte criminose non è costante, ma varia in relazione alla gravità del fatto-reato e all'intensità e alla natura della lesione causata al bene giuridico tutelato, e, per tale ragione, le regole del processo penale devono essere idonee, in astratto, ad evidenziare tali differenze per poter adeguatamente stabilire i criteri atti a determinare il permanere della pretesa punitiva dell'ordinamento. La stessa Corte costituzionale, secondo il giudice a quo, ha affermato l'esigenza di ancorare il permanere della pretesa punitiva a criteri oggettivi, che non possono essere disgiunti dalla gravità del fatto-reato, al fine di calibrare l'interesse generale dello Stato a perseguire fatti che, per la modalità di esecuzione e per la gravità della lesione inferta al bene tutelato, esigono differenti termini prescrizionali. 3.3. - Sulla base di queste premesse, il rimettente ritiene che, per determinare il termine di prescrizione, debba necessariamente farsi riferimento alla gravità del fatto-reato e che, quindi, debbano essere obbligatoriamente considerate tutte le circostanze e, per questo motivo, ritiene che l'art. 6, comma 1, della legge n. 251 del 2005, violi il principio di ragionevolezza laddove esclude dal calcolo l'aumento o la diminuzione di pena determinato dalle aggravanti comuni e dalle attenuanti. Tale norma «collocat[a] in un modello astratto ed oggettivo quale quello relativo all'individuazione dei criteri atti a stabilire il permanere in vita della pretesa punitiva dello Stato», costituirebbe di per sé una violazione del principio di eguaglianza, trascendendo dalle potestà riservate in via esclusiva al legislatore. A questo si aggiungerebbe l'assoluta abnormità ed irragionevolezza di operare un sindacato ex ante tra le circostanze aggravanti, ritenendo solo quelle speciali o ad effetto speciale idonee ad influire sulla determinazione del permanere della pretesa punitiva dello Stato. L'incoerenza intrinseca della disciplina sarebbe evidenziata, secondo il rimettente, dall'attuale equiparazione dei termini prescrizionali per situazioni dalla capacità lesiva ben diversa come il peculato di una somma insignificante (reato attenuato), quello di una somma significativa (reato non circostanziato) ed infine quello di una somma di particolare entità (reato aggravato). Con riferimento al caso di peculato aggravato sarebbe «ragionevole ipotizzare una maggiore difficoltà e o complicatezza del processo (nonché della fase delle indagini preliminari) tale da giustificare un tempo più lungo a prescrivere, collegata alla maggior gravità del fatto-reato per cui si procede». 3.4. - Il rimettente ritiene contrario al principio di ragionevolezza anche l'art. 6, comma 5, della legge n. 251 del 2005, che disciplina i termini massimi di prescrizione nel caso di atti interruttivi. Il legislatore, sostituendo il criterio oggettivo da sempre previsto nel nostro ordinamento con un criterio meramente soggettivo, quale quello della recidiva, avrebbe ideato un meccanismo del tutto irrazionale, con una diversificazione del tutto arbitraria di situazioni identiche, non esistendo «principi costituzionali che giustifichino una scelta operata sulla base di meri criteri soggettivi senza essere ancorata a criteri di ordine oggettivo». Tanto pi&ug rave; dal momento che si potrebbe determinare una grave situazione di incertezza nel caso in cui la recidiva - nella maggior parte dei casi a contestazione facoltativa - non venga effettivamente contestata. Inoltre, l'eliminazione dell'estensione dell'effetto interruttivo del corso della prescrizione riguardante un dato reato a tutti i reati connessi sarebbe «irrazionale nonché irragionevole perché i criteri in base ai quali determinare il permanere dell'interesse al perseguimento dei reati non possono non far riferimento al fatto inteso come costellazione di condotte di cui spesso il medesimo fatto-reato in esame ne rappresenta solo una parte». 3.5. - Un'ulteriore censura di incostituzionalità è rivolta all'art. 6, comma 2, della legge n. 251 del 2005 nella parte in cui esclude che, nel caso di reato continuato, il termine prescrizionale decorra dal momento della cessata continuazione. Ad avviso del giudice a quo, la natura stessa del reato continuato, così come previsto dal secondo comma dell'art. 81 cod. pen., impone di considerare come facenti parte di un unico reato più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso che, anche in tempi differenti, violino la stessa o diverse disposizioni di legge. Pertanto, non sembra logico, né tanto meno coerente, che la disciplina che regola la decorrenza dei termini prescrizionali possa dettare regole che ignorino l'esistenza del reato continuato. Con la paradossale conseguenza «che, ai fini della consumazione, il reato continuato farebbe riferimento al momento della consumazione dell'ultimo reato; per contro, per la prescrizione si applicherebbe la disciplina prevista per il concorso formale di reati». Il rimettente richiama anche la giurisprudenza costituzionale secondo la quale il reato continuato non è un istituto ispirato al favor rei, volto a mitigare l'eccessiva severità del concorso materiale di reati, bensì una autonoma figura di reato che trova la sua ratio nell'unicità del disegno criminoso (sentenze n. 108 del 1973 e n. 217 del 1972). Se il vincolo che rende unite le differenti condotte è l'unicità del disegno criminoso, come ha precisato la Corte costituzionale (sentenza n. 254 del 1985), e, per tale ragione, il legislatore ha deciso di punire non ogni singolo fatto-reato commesso ma il solo reato continuato nella sua unità, appare necessario ricollegare la decorrenza della prescrizione al cessare della continuazione, in quanto la più recente manifestazione dell'unicità del disegno criminoso mantiene fermo o addirittura acuisce l'allarme sociale su cui si basa la pretesa punitiva dello Stato. Da tali argomentazioni emergerebbe l'irragionevolezza della scelta del legislatore di non indicare la cessazione della continuazione come dies a quo per il decorrere del termine di prescrizione del reato continuato. 3.6. - Il rimettente riprende la censura dell'art. 6, comma 1, osservando, anche mediante una tabella comparativa dei tempi di prescrizione di alcuni reati, che, in linea generale, il legislatore avrebbe variato i termini senza assicurare congruenza rispetto alla gravità dei vari fatti criminosi, elevando arbitrariamente gli stessi termini solo per i reati di cui agli artt. 449 e 589 cod. pen., e riducendoli in modo altrettanto arbitrario per condotte di gravità assimilabile. 3.7. - Il giudice a quo evidenzia che la disciplina transitoria dettata dall'art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005 non pone alcun rimedio ai vizi di incostituzionalità da lui evidenziati e, anzi, che è essa stessa incostituzionale «in quanto correlata a tutti gli altri profili di incostituzionalità». 3.8. - Infine, il rimettente, pur dichiarando di condividere la giurisprudenza costituzionale e di legittimità secondo la quale la prescrizione è un istituto di carattere sostanziale e non processuale, ritiene che vi siano dei casi in cui la Corte costituzionale possa pronunciare sentenze che producano indirettamente effetti in malam partem. Egli afferma che «occorre, nell'ambito degli istituti di diritto sostanziale, scindere le norme incriminatici dagli altri istituti che, pur rientrando sempre nell'ambito del diritto sostanziale, se ne differenziano tuttavia in maniera essenziale, non prevedendo un particolare tipo di sanzione. In tale ottica, nel mentre non è certamente possibile pronunciare una sentenza in malam partem con riferimento alle norme incriminatrici, a una diversa conclusione si deve pervenire relativamente alle altre norme di diritto sostanziale contenute nel codice penale. In tal caso infatti ove la Corte Costituzionale dovesse accogliere le questioni sollevate, con il ritorno in vita delle norme previgenti, non si attuerebbe certamente un danno nei confronti degli indagati, posto che gli stessi si troverebbero a dover rispondere sempre delle medesime norme incriminatici contestate, che non sarebbero certamente state nel frattempo per nulla modificate». 3.9. - Con atti depositati il 23 febbraio 2007 si sono costituite in giudizio, a mezzo di procuratori speciali, rispettivamente la S.p.r.l. Prima Idep (già Prima s.r.l.), la S.a. Investissements Dynamiques et prudents (IDEP), la S.a. Société Générale de Sucreries, in liquidazione; il Patronato Piccoli Azionisti Industria Zuccheri (PAIZ). Le parti dichiarano di avere interesse a costituirsi nel giudizio costituzionale perché, in caso di rigetto delle questioni sollevate, sarebbe preclusa la costituzione di parte civile nel procedimento penale divenendo automatica l'archiviazione del medesimo e sarebbe, altresì, preclusa l'azione civile in ossequio ai principi giurisprudenziali di legittimità elaborati in materia di prescrizione dell'azione civile nel giudizio civile ex art. 2947 codice civile. Nel merito, tutti gli atti di costituzione ripercorrono analiticamente le motivazioni dell'ordinanza del GIP del Tribunale di Padova con espressa condivisione delle stesse, sia con riferimento alle ragioni della rilevanza che a quelle della non manifesta infondatezza. 3.10. - In data 6 marzo 2008 è stata depositata memoria nell'interesse di tutte le parti private costituite. In tale atto, da una parte viene presa in esame la giurisprudenza della Corte costituzionale successiva all'ordinanza di rimessione e in particolare la sentenza n. 393 del 2006, con la quale è stata dichiarata la parziale illegittimità costituzionale del comma 3 dell'art. 10 della legge n. 251 del 2005, e, dall'altra, si affronta il problema del limite al sindacato di costituzionalità in malam partem. Secondo le parti private, la sentenza della Corte n. 393 del 2006, che ha esteso l'applicazione delle nuove norme in materia di prescrizione, ove più favorevoli, a tutti i reati antecedenti l'entrata in vigore della legge per i quali, a tale momento, il processo non sia pervenuto al grado di appello od a quello di cassazione, ha anche precisato che la retroattività della lex mitior non è imposta dal dettato costituzionale, e che, in tale materia, il legislatore è vincolato solo dall'art. 3 Cost., dovendo discriminare con ragionevolezza tra le situazioni assoggettate alla nuova disciplina e quelle regolate dalla legge precedente. Inoltre, nella memoria si evidenzia che l'odierna questione ha ad oggetto l'illegittimità costituzionale «di tutto l'impianto normativo» e, dunque, è ben «possibile che una legge, la cui applicazione venga estesa attraverso la dichiarazione di incostituzionalità di una norma transitoria, venga poi caducata in radice da una declaratoria di incostituzionalità della totalità della stessa ovvero di gran parte della medesima». Le parti proseguono affermando che i limiti al sindacato di costituzionalità connessi al principio di irretroattività delle norme penali riguarderebbero le sole norme incriminatici e non opererebbero nel caso di specie. Sostengono, infatti, che la Corte costituzionale non può «emettere sentenze additive in malam partem, creando tout court nuove fattispecie di reato non previste dal legislatore, ovvero estendendo quelle esistenti a casi non previsti», mentre la normativa avente ad oggetto le cause di estinzione del reato o della pena sarebbe «ontologicamente distinta da quella relativa all'antigiuridicità», con la conseguenza che una verifica del dettato costituzionale sar ebbe consentita, entro limiti «decisamente più ampi». A tal proposito gli esponenti richiamano la sentenza n. 394 del 2006 secondo la quale il sindacato di legittimità costituzionale sulle norme penali di favore è ammesso quando sussiste la specialità cosiddetta «sincronica» ovvero quando sono poste in comparazione due o più norme contemporaneamente presenti nell'ordinamento giuridico. In tal caso, l'accoglimento della richiesta di incostituzionalità non introdurrebbe norme penali di sfavore, limitandosi ad eliminare dall'ordinamento la disposizione illegittima, ancorché più favorevole al reo, e determinando di conseguenza la riespansione della norma generale in parte derogata. Un rapporto del genere sussisterebbe tra l'art. 6, comma 2, della legge n. 251 del 2006 che, ai fini del calcolo del termine di prescrizione, ha escluso la rilevanza del rapporto di continuazione tra reati, e l'art. 81 cod. pen., norma di carattere generale, che, secondo gli esponenti, «determina la data del commissi delicti nell'ultima azione delittuosa contestata». Un ragionamento sostanzialmente analogo dovrebbe condursi quanto al rapporto tra la disciplina processuale della connessione e l'art. 6, comma 5, che esclude la rilevanza della connessione nel computo dei termini prescrizionali. Infine, secondo gli esponenti, il sindacato di legittimità dovrebbe essere ammissibile anche nei casi che vengono definiti di specialità «diacronica». Sarebbe precluso, infatti, un raffronto diretto tra norma abrogata e norma abrogativa, ma ciò non escluderebbe il ripristino della prima quando la seconda risultasse incoerente coi principi costituzionali: infatti «non può accadere che per via di una rigida interpretazione del concetto di specialità cosiddetta "diacronica" si impedisca di esaminare la norma alla luce del principio di ragionevolezza». Considerato in diritto 1. - Il Tribunale di Roma, in composizione monocratica, dubita della legittimità costituzionale dell'art. 157, secondo comma, del codice penale, come novellato dall'art. 6, comma 1, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui non prevede che, per determinare il termine di prescrizione del reato, debba tenersi conto anche della minima diminuzione di pena derivante dall'applicazione delle circostanz e attenuanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e di quelle ad effetto speciale. Ad avviso del Giudice rimettente, la norma censurata risulterebbe incompatibile con l'art. 3 della Costituzione, essendo irragionevole che il legislatore, per determinare la gravità del reato al fine di differenziare i termini di prescrizione, abbia ritenuto di ricorrere ai massimi edittali escludendo dal computo della pena l'aumento connesso alle circostanze ordinarie (attenuanti o aggravanti che siano) impedendo, comunque, qualsivoglia possibilità di ricorrere al bilanciamento delle stesse, ed abbia poi operato la successiva scelta di utilizzare contra reum le circostanze aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e quelle ad effetto speciale senza tener conto delle anal oghe circostanze attenuanti che concorrono a determinare, al pari delle prime, la gravità dell'illecito penale. La disciplina censurata provocherebbe anche «ingiustificate disparità di trattamento» laddove ogni reato attenuato da circostanze ad effetto speciale verrebbe a prescriversi in un termine di gran lunga superiore a quello stabilito per tutti gli altri delitti puniti in via principale con la medesima pena stabilita per l'ipotesi delittuosa attenuata. 2. - Il Tribunale di Salerno, sezione distaccata di Cava de' Tirreni, dubita della legittimità costituzionale dell'art. 6, commi 1 e 4, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui, modificando gli artt. 157 e 160 cod. pen., prevede un sistema di computo dei termini prescrizionali collegato non già alla gravità oggettiva del fatto, bensì allo status soggettivo dell'imputato. Il rimettente ritiene che la norma censurata, nell'adottare, in caso di atti interruttivi, come criterio per determinare il tempo di prescrizione dei reati, la personalità criminale del reo, desunta dalla recidiva o dallo stato di delinquente abituale o professionale e non la gravità oggettiva del reato, contrasti con gli artt. 13, 25 e 27 della Costituzione, i quali impongono un ordinamento improntato a un «diritto penale del fatto». La norma, inoltre, sarebbe irragionevole, in violazione dell'art. 3 Cost., anche perchè collega l'allungamento dei termini di prescrizione, in presenza di atti interruttivi, ad una situazione di recidiva che può maturare anche a distanza di anni dal fatto a causa della lunghezza dei tempi processuali. Infine, la norma censurata violerebbe il «principio costituzionale di difesa sociale» immanente all'intero sistema costituzionale e l'applicazione ai fatti pregressi produrrebbe l'effetto tipico di una amnistia conseguito in violazione dell'art. 79 Cost. 2.1. - Il rimettente censura anche l'art. 6, comma 2, della legge n. 251 del 2005, che ha abrogato l'art. 158 cod. pen. nella parte in cui stabiliva che i termini di prescrizione del reato continuato decorressero dalla cessazione della continuazione, per violazione del principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. Secondo la prospettazione del Tribunale, sarebbe irragionevole, in presenza di una pluralità di condotte avvinte dal medesimo disegno criminoso, prevedere un trattamento unitario, allorquando si versi nell'ambito del regime sanzionatorio, ed un trattamento distinto, allorquando si versi in tema di estinzione del reato per prescrizione, perchè la figura del reato continuato non è frutto di una finzione, ma coglie, al contrario, l'essenza di un fatto criminoso unico, sebbene costituito da una pluralità di condotte. 2.2. - Infine, il Giudice del Tribunale di Salerno ritiene che la disciplina transitoria di applicazione della legge n. 251 del 2005, dettata dall'art. 10, comma 3, sia irragionevole e in contrasto con l'art. 3 della Costituzione. A suo parere, la dichiarazione di apertura del dibattimento è un momento processuale privo di qualsivoglia connotato in grado di giustificare una dismissione della pretesa punitiva dello Stato, non essendo assimilabile né all'esercizio dell'azione penale, né, tantomeno, alla pronuncia di una sentenza di condanna in primo grado, atto autoritativo che esprime l'accertamento della responsabilità ipotizzata. 3. - Anche il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Padova dubita della legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 1, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui, modificando l'art. 157 cod. pen., non prevede che, per determinare il tempo necessario a prescrivere, si tenga conto anche delle circostanze aggravanti comuni e delle circostanze attenuanti. Secondo il rimettente, il principio di ragionevolezza e il principio del giusto processo, di cui agli artt. 3 e 111 Cost, impongono che sia assicurata la miglior corrispondenza tra il termine massimo di prescrizione e le caratteristiche oggettive di gravità del fatto-reato mediante la valutazione di tutti gli elementi che incidono sulla quantificazione edittale della pena, ivi comprese tutte le circostanze, attenuanti e aggravanti. 3.1. - Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Padova, inoltre, censura, in relazione all'art. 3 Cost., l'art. 6, comma 2, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui modificando l'art. 158 cod. pen., esclude che, nel caso di reato continuato, il termine prescrizionale decorra dal momento della cessata continuazione. Tale scelta sarebbe in contraddizione con la natura stessa del reato continuato, così come prevista dall'art 81, secondo comma, cod. pen., che impone di considerare come facenti parte di un unico reato più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso che, anche in tempi differenti, violino la stessa o diverse disposizioni di legge . Inoltre, facendo riferimento alle ragioni che giustificano la conservazione della pretesa punitiva dello Stato, la più recente manifestazione dell'unicità del disegno criminoso manterrebbe fermo o addirittura acuirebbe l'allarme sociale su cui essa si basa. 3.2 - Un'ulteriore censura sempre in relazione all'art. 3 Cost. investe l'art. 6, comma 5, della legge n. 251 del 2005, che ha modificato l'art.161 cod. pen., nella parte in cui prevede che la maggior durata dei termini prescrizionali, in caso di atti interruttivi, sia determinata con riguardo alle ipotesi di recidiva, abitualità e professionalità nel reato - dunque in base a «criteri meramente soggettivi» - e nella parte in cui esclude che gli atti interruttivi del corso della prescrizione riguardanti un dato reato dispieghino i loro effetti anche con riferimento ai reati connessi. Sarebbe contrario al principio di ragionevolezza l'aver adottato un criterio meramente soggettivo, quale quello della recidiva, che di versifica situazioni identiche in maniera del tutto arbitraria, non esistendo «principi costituzionali che giustifichino una scelta operata sulla base di meri criteri soggettivi senza essere ancorata a criteri di ordine oggettivo». Inoltre, l'eliminazione del principio dell'estensione dell'effetto interruttivo del corso della prescrizione riguardante un dato reato a tutti i reati connessi sarebbe «irrazionale nonché irragionevole perché i criteri in base ai quali determinare il permanere dell'interesse al perseguimento dei reati non possono non far riferimento al fatto inteso come costellazione di condotte di cui spesso il medesimo fatto-reato in esame ne rappresenta solo una parte». 3.3. - Infine un'ultima censura è rivolta all'art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede che le nuove disposizioni sulla prescrizione siano applicabili ai reati perseguiti in procedimenti nei quali, al momento di entrata in vigore della legge, non sia stata ancora dichiarata l'apertura del dibattimento. Tale disposizione transitoria, comportando l'applicazione di norme illegittime anche con riguardo a reati commessi in precedenza e producendo un vulnus per gli interessi delle persone offese, violerebbe gli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost. Infine, l'applicazione retroattiva della nuova disciplina in materia di prescrizione determinerebbe un'amnistia mascherata, adottata in violazione delle moda lità previste dall'art. 79 Cost. 4. - Essendo le questioni sollevate di analogo contenuto, deve essere disposta la riunione dei relativi giudizi ai fini di una trattazione unitaria e di un'unica decisione. 5 - Le censure prospettate sia dal giudice del Tribunale di Salerno che dal GIP del Tribunale di Padova in merito all'art. 6, comma 2, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui non prevede che il termine prescrizionale, nel caso di reato continuato, decorra dalla data di cessazione della continuazione, sono inammissibili. Il rimettente padovano, a differenza del Giudice del Tribunale di Salerno, che non fornisce motivazioni in ordine alla sindacabilità in malam partem delle norme penali, ritiene che il limite al sindacato di costituzionalità cui è sottoposta questa Corte nel caso in cui si invochi una pronuncia additiva in malam partem in materia penale non operi con riferimento alla disciplina della prescrizione. Secondo la ricostruzione del GIP del Tribunale di Padova occorrerebbe «scindere le norme incriminatici dagli altri istituti che, pur rientrando sempre nell'ambito del diritto sostanziale, se ne differenziano tuttavia in maniera essenziale, non prevedendo un particolare tipo di sanzione. In tale ottica, ove la Corte costituzionale dovesse accogliere le questioni sollevate, con il ritorno in vita delle norme previgenti, non si attuerebbe un danno nei confronti degli indagati, posto che gli stessi si troverebbero a dover rispondere sempre delle medesime norme incriminatici contestate, che non sarebbero state per nulla modificate». Il rimettente trascura di considerare, anche al solo fine di confutarla, la costante giurisprudenza di questa Corte che, in più occasioni, ha ribadito che il principio della riserva di legge sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost. rende inammissibili pronunce il cui effetto possa essere quello di introdurre nuove fattispecie criminose, di estendere quelle esistenti a casi non previsti, o, comunque, «di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti alla punibilità, aspetti fra i quali, indubbiamente, rientrano quelli inerenti la disciplina della prescrizione e dei relativi atti interruttivi o sospensivi» (sentenza n. 394 del 2006 e ordinanza n. 65 del 2008). Pertanto la pronuncia che il rimettente sollecita, mirando a introdurre nuovamente quale dies a quo per il decorso del termine di prescrizione, in caso di reato continuato, il momento della cessazione della continuazione, esorbita dai poteri spettanti a questa Corte, a ciò ostando il principio della riserva di legge sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost., in base al quale «nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso»: principio che demanda in via esclusiva al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena, delle sanzioni loro applicabili e del complessivo trattamento sanzionatorio (ex plurimis, tra le ultim e, sentenze n. 161 del 2004, n. 49 del 2002 e n. 508 del 2000; ordinanze n. 164 del 2007, n. 187 del 2005, n. 580 del 2000 e n. 392 del 1998). Al riguardo, non può essere condivisa la tesi prospettata dalla difesa delle parti private secondo cui, nel caso di specie, troverebbero applicazione i principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 394 del 2006 che ha ritenuto suscettibili di sindacato di costituzionalità le cosiddette norme penali di favore, ossia le norme «che stabiliscono, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall'applicazione di norme generali o comuni». Il presupposto necessario per l'ammissibilità di un tale sindacato è che tra le norme poste a raffronto sussista un rapporto di specialità e che le stesse siano contemporaneamente presenti nell'ordinamento giuridico. In tali casi, questa Corte ha affermato che l'eventuale effetto in malam partem non deriva dall'accoglimento della richiesta di incostituzionalità della norma più favorevole al reo, ma dall'automatica «riespansione» della norma generale derogata (fermo restando il divieto di applicazione del regime penale più severo ai fatti commessi sotto il vigore della norma di favore). Secondo le parti private, potrebbe individuarsi un rapporto di specialità e di contemporanea presenza nell'ordinamento giuridico tra l'art. 6, comma 2, della legge n. 251 del 2005, che ha escluso la rilevanza del rapporto di continuazione tra reati ai fini del calcolo del dies a quo del decorso del termine di prescrizione e l'art. 81, secondo comma, cod. pen. che «determina la data commissi delicti nell'ultima azione delittuosa contestata». Tale ricostruzione non è fondata, essendo evidente che la norma censurata non ha natura di norma di favore e non contiene alcuna limitazione dell'efficacia dell'art. 81, secondo comma, cod. pen., né di altre norme contemporaneamente presenti nell'ordinamento giuridico. L'art. 6, comma 2, infatti, nel modificare l'art. 158 cod. pen., che individua i termini di decorrenza della prescrizione dei reati consumati o tentati, si limita a sopprimere le parole «o continuato» e «o continuazione» dal testo precedente, mentre, diversamente da quanto affermato nella memoria di parte, l'art. 81, secondo comma, cod. pen. non fa alcun riferimento al momento di consumazione del reato contin uato, limitandosi a stabilire che tale fattispecie è integrata anche nel caso di violazioni commesse in tempi diversi, né prevede alcunché circa la prescrizione dei reati. Pertanto, non sussistendo alcun rapporto di specialità tra l'art. 6, comma 2, della legge n. 251 del 2005 e l'art. 81, secondo comma, cod. pen., è erroneo ritenere che, al venir meno del primo, si riespanderebbe, come effetto automatico, il secondo. Si tratta, in sostanza, di previsioni che disciplinano aspetti diversi della fattispecie del reato continuato. D'altra parte questa Corte, nella sentenza n. 394 del 2006, ha espressamente escluso che la qualificazione di norma penale di favore «possa esser fatta discendere dal raffronto tra una norma vigente ed una norma anteriore, sostituita dalla prima con effetti di restringimento dell'area di rilevanza penale o di mitigazione della risposta punitiva. In tal caso, difatti, la richiesta di sindacato in malam partem mirerebbe non già a far riespandere la portata di una norma tuttora presente nell'ordinamento, quanto piuttosto a ripristinare la norma abrogata, espressiva di scelte di criminalizzazione non più attuali: operazione, questa, senz'altro preclus a alla Corte, in quanto chiaramente invasiva del monopolio del legislatore su dette scelte (sentenze n. 330 del 1996 e n. 108 del 1981; ordinanza n. 175 del 2001)». Nella specie, peraltro, non soltanto manca il requisito della contemporanea presenza delle due norme poste a raffronto, ma la disposizione speciale è quella abrogata, e non già quella di nuovo conio. Il previgente articolo 158 cod. pen. recava, infatti - a fianco della regola generale per cui il termine della prescrizione decorre dal giorno della consumazione del reato (o, nel caso di reato tentato, dal giorno della cessazione dell'attività del colpevole) - una regola specifica, e meno favorevole per il reo, concernente il reato continuato (vale a dire che il termine decorre dalla cessazione della continuazione: con l'effetto di allineare il dies a quo, per tutti i reati legati da tale vincolo, a quello valevole per l'ultimo di essi). La riforma ha soppresso tale previsione specifica rendendo applicabile la regola generale anche nell'ipotesi della continuazione, onde è del tutto evidente come - contrariamente a quanto assumono le parti private - il petitum del giudice rimettente non sia affatto finalizzato alla «riespansione» di una norma generale derogata (non rinvenibile, come detto, nel disposto dell'art. 81 secondo comma, cod. pen., peraltro neppure a questi fini evocato dal giudice a quo); ma miri direttamente al ripristino di una norma speciale sfavorevole ormai abrogata. 5.1. - Le stesse argomentazioni valgono in relazione alla censura mossa dal GIP del Tribunale di Padova all'art. 6, comma 5, della legge n. 251 del 2005 nella parte in cui, modificando il testo del secondo comma dell'art. 161 cod. pen., esclude che gli atti interruttivi del corso della prescrizione riguardanti un determinato reato dispieghino i loro effetti anche con riferimento ai reati connessi. Anche in questo caso, la questione è inammissibile perché si chiede una pronuncia in malam partem non consentita alla Corte per il principio della riserva di legge sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost. 6. - Del pari inammissibili sono le questioni sollevate, rispettivamente, dal Tribunale di Salerno (sezione distaccata di Cava de' Tirreni) in merito all'art. 6, commi 1 e 4, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui assegna importanza prevalente allo status soggettivo del reo e non alla gravità oggettiva del fatto, prevedendo un prolungamento dei termini più cospicuo in caso di atti interruttivi riguardanti delinquenti recidivi, abituali o per tendenza, e dal GIP del Tribunale di Padova in ordine all'art. 6, comma 5, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede che la maggior durata dei termini prescrizionali, in caso di atti interruttivi, sia determinata con riguardo alle ipotesi di recidiva, abitualità e professionalità nel reato, dunque in base a «criteri meramente soggettivi». Entrambe le questioni presentano un petitum oscuro, ancipite e di difficile determinazione, che già di per sé è causa di inammissibilità delle stesse. Non è chiaro, infatti, se i rimettenti vogliano censurare la norma nella parte in cui determina, per i soli recidivi, un allungamento dei termini di prescrizione o se, al contrario, ritengano che l'allungamento previsto per i recidivi, in caso di atti interruttivi, debba essere esteso a tutti. La giurisprudenza di questa Corte è costante nell'affermare che «il carattere oscuro, ancipite e indeterminato del petitum rende la questione manifestamente inammissibile» (ex plurimis, ordinanze n. 187 del 2004 e n. 210 del 2002; con riguardo alle questioni prospettate in forma ancipite, ordinanze n. 363 del 2005 e n. 382 del 2004). Vi sono comunque ulteriori, specifici motivi di inammissibilità, qualsiasi interpretazione si voglia dare alla censura dei rimettenti. Nel primo caso, infatti, la questione prospettata non rileverebbe nei giudizi a quibus, in quanto a nessuno degli imputati è stata contestata la recidiva, sicché i rimettenti non sono chiamati a dare applicazione alla norma nella parte dagli stessi ritenuta irragionevole. Nella seconda ipotesi, invece, avendo la censura di irragionevolezza lo scopo di estendere ai non recidivi gli effetti di allungamento dei termini di prescrizione dei reati prevista per i recidivi in caso di atti interruttivi, troverebbe nuovamente applicazione il limite al sindacato di costituzionalità in malam partem delle norme penali. 7. - La questione di costituzionalità dell'art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005 nella parte in cui prevede l'applicazione delle norme contenute nell'art. 6 della medesima legge ai soli procedimenti penali in cui non sia stata dichiarata l'apertura del dibattimento, sollevata sia dal Giudice del Tribunale di Salerno che dal GIP del Tribunale di Padova, è inammissibile sotto molteplici profili. Il primo motivo di inammissibilità in ordine logico è che in entrambi i casi il petitum è oscuro, ancipite e di difficile determinazione. Sotto altro aspetto, poi, le motivazioni, sia in ordine alla rilevanza che alla non manifesta infondatezza, sono del tutto generiche. Va premesso che la norma censurata costituisce una deroga alla regola generale della applicazione retroattiva della nuova disciplina della prescrizione, in quanto più favorevole al reo. È pacifico, infatti, che la prescrizione, quale istituto di diritto sostanziale, è soggetta alla disciplina di cui all'art. 2, quarto comma, cod. pen. che prevede la regola generale della retroattività della norma più favorevole, in quanto «il decorso del tempo non si limita ad estinguere l'azione penale, ma elimina la punibilità in sé e per sé, nel senso che costituisce una causa di rinuncia totale dello Stato alla potestà punitiva» (sentenza n. 393 del 2006) . D'altra parte, questa Corte ha già dichiarato parzialmente illegittima la norma de qua ritenendo che essa limitasse in modo non ragionevole il principio della retroattività della legge penale più mite in violazione dell'art. 3 della Costituzione. In tale occasione si è ribadito che «per le leggi in esame l'applicazione retroattiva è la regola e tale regola è derogabile solo in presenza di esigenze tali da prevalere su un principio il cui rilievo, si è già osservato, non si fonda soltanto su una norma, sia pure generale e di principio, del codice penale» ma che assume carattere di «principio generale dell'ordinamento comunitario, desunto dal complesso degli ordinamenti giuridici nazionali e dei trattati internazionali dei quali gli Stati membri sono parti contraenti» (sentenza n. 393 del 2006 che espressamente cita la sentenza della Corte di Giustizia, 3 maggio 2005, C-387/02, C-391/02 e C-403/02). Dalla motivazione dei rimettenti, come si è detto del tutto generica e contraddittoria, non è possibile comprendere perchè gli stessi ritengano irragionevole la norma transitoria, non nel senso di costituire un'illegittima eccezione a un principio generale dell'ordinamento, come sottolineato da questa Corte con la sentenza n. 393 del 2006, ma, nel senso opposto, di costituire una deroga eccessivamente limitata a tale principio. In definitiva, i giudici a quibus, lungi dal lamentare una violazione del principio dell'applicazione retroattiva della lex mitior, sembrano voler estendere la deroga al favor rei anche a casi non contemplati dal legislatore e, tuttavia, si limitano a chiedere la declaratoria di incostituzionalità dell'art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, non argomentando in alcun modo in ordine a una soluzione «costituzionalmente obbligata» che imporrebbe di estendere la deroga al principio della efficacia retroattiva della legge penale più mite, prevista dalla disciplina transitoria, a tutti i procedimenti pendenti prima dell'entrata in vig ore della legge di riforma. A questo motivo di inammissibilità si aggiunge, anch'esso preliminarmente alla valutazione sulla non fondatezza e sulla sussistenza del limite alle pronunce additive in malam partem, quello derivante dalla considerazione che la richiesta declaratoria di incostituzionalità dell'art. 10, comma 3, così come posta, determina un'insanabile contraddizione tra le argomentazioni che vengono sviluppate nelle ordinanze e gli effetti che si determinerebbero a seguito della mancata prospettazione di un petitum che possa soddisfare le formulate censure. Dato, infatti, il valore di eccezione alla previsione contenuta nel quarto comma dell'art. 2 cod. pen. della disposizione transitori a impugnata, la caducazione di quest'ultima determinerebbe l'effetto (paradossale per i rimettenti) di estendere l'applicazione della nuova disciplina contenuta nell'art. 6 della legge n. 251 del 2005 a tutti i fatti per i quali non sia intervenuta pronuncia passata in giudicato. Deve, del pari, respingersi l'argomentazione delle parti private volta a sostenere che la Corte, nella ricordata decisione n. 393 del 2006, si sarebbe pronunciata solo in merito alla ragionevolezza della soglia specifica individuata dal legislatore per la limitazione degli effetti retroattivi della nuova legge e che la valutazione circa la costituzionalità del suo impianto generale sarebbe, quindi, impregiudicata. In realtà, questa Corte non si è limitata, con tale sentenza, a sindacare la scelta del legislatore circa il momento processuale da cui applicare o meno retroattivamente la nuova normativa, ma ha affermato, in via di principio, che la regola generale dell'applicazione della lex mitior è derogabile solo in funzione della tutela di interessi di non minore rilevanza, tutela che non ha ritenuto esservi laddove il limite alla retroattività era stato fissato nell'apertura del dibattimento, ma che ha invece ravvisato nell'avvenuto passaggio all'ulteriore grado di giudizio (sentenza n. 72 del 2008). 8. - Il Tribunale di Salerno censura anche il combinato disposto degli artt. 6, commi 1 e 4, e 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, perché la generalizzata diminuzione dei termini di prescrizione, per effetto dell'applicazione ai fatti pregressi ai sensi della norma transitoria, costituirebbe una forma dissimulata di amnistia in violazione dell'art. 79 Cost. Allo stesso modo il GIP del Tribunale di Padova ritiene che gli effetti complessivi della riforma, che non vengono attribuiti a specifiche disposizioni legislative, costituiscano una amnistia in forma mascherata. Le censure non sono fondate. Questa Corte in più occasioni ha ribadito che l'amnistia (al pari dell'indulto) è una particolarissima causa d'estinzione dei reati (misura di clemenza generalizzata) che incide «soltanto sulla punibilità, principale ed "accessoria", sull'applicabilità delle misure di sicurezza, e sulle obbligazioni civili per l'ammenda relative ai fatti tipici, commessi in un circoscritto periodo di tempo, anteriore alla proposta di delegazione» mentre gli «effetti penali ("e non") determinati dalla legge incriminatrice permangono, invece, tutti, intatti, in relazione a tutti i fatti, precedenti e successivi, non rientranti nel periodo beneficiato» (sentenza n. 369 del 1988). È del tutto evidente che la norma che abroga o riformula una norma incriminatrice o una ipotesi di estinzione del reato, quale la prescrizione, non presenta alcuna delle caratteristiche proprie dei provvedimenti di amnistia, prima fra tutte l'efficacia limitata nel tempo, essendo invece destinata a disciplinare in via stabile tutti i fatti successivi alla sua entrata in vigore, salvo gli effetti retroattivi più favorevoli al reo derivanti, peraltro, dall'operatività della regola generale. Risulta del tutto inconferente, pertanto, il richiamo all'istituto dell'amnistia. 9. - La questione di costituzionalità dell'art. 157, secondo comma, del codice penale, come novellato dall'art. 6, comma 1, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui non prevede che per determinare il tempo necessario a prescrivere si tenga conto anche delle circostanze attenuanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria e di quelle ad effetto speciale, sollevata dal Giudice del Tribunale di Roma, non è fondata. La scelta di considerare, ai fini del calcolo del termine di prescrizione dei reati, solo l'aumento di pena derivante dall'applicazione delle circostanze aggravanti con previsione speciale di pena o ad effetto speciale e non la corrispondente diminuzione derivante dall'applicazione delle circostanze attenuanti della stessa natura è espressione del legittimo esercizio della discrezionalità legislativa e non trasmoda in una violazione del principio di ragionevolezza. La legge n. 251 del 2005, nel riformare la disciplina della prescrizione, ha confermato la tendenziale correlazione, già accolta nel codice del 1930, tra il tempo necessario a prescrivere e la gravità del reato, ancorando il criterio per la determinazione del termine di prescrizione del reato alla sanzione per esso prevista, indice del suo maggiore o minore disvalore. Il primo comma dell'art. 157 cod. pen. novellato collega, infatti, il termine di prescrizione alla misura della pena massima edittale. Nel dettare tali regole, il legislatore può, peraltro, nell'esercizio della propria discrezionalità, ponderare i vari interessi coinvolti dalla complessa disciplina della prescrizione e, ciò facendo, può anche escludere la considerazione di alcuni fattori, pure suscettibili di incidere sull'entità della pena, con il solo limite costituito dalla non irragionevolezza di tale scelta. In siffatta prospettiva, non può considerarsi irragionevole che il legislatore abbia ritenuto che la rinuncia a perseguire i fatti criminosi debba essere rapportata alla gravità del reato nella sua massima ipotizzabile esplicazione sanzionatoria prevista per la fattispecie base e sul massimo aumento di pena previsto per quelle circostanze aggravanti - quelle a effetto speciale e quelle che comportano un mutamento qualitativo della pena - che, cogliendo elementi del fatto connotati da una maggiore idoneità a incidere sull'ordinaria fisionomia dell'illecito, comportano una eccezionale variazione del trattamento sanzionatorio. L'esclusione della considerazione delle attenuanti è conseguente alla scelta del legislatore in favore di un criterio di misurazione del tempo necessario a prescrivere in grado di evitare che solo successivamente all'accertamento del fatto, in sede di decisione di merito, si pervenga, per effetto del riconoscimento e dell'eventuale giudizio di comparazione tra circostanze di segno opposto, ad una pronuncia di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, con conseguente inutilità dell'attività processuale svolta; nonché in grado di evitare che la determinazione del termine prescrizionale venga a dipendere da valutazioni giudiziali ad alto tasso di discrezionalità quale, in particolare, quella che presiede al bilanciamento tra circostan ze eterogenee. Infatti, secondo un principio di elaborazione giurisprudenziale, assurto al rango di vero e proprio «diritto vivente», per effettuare il giudizio di comparazione tra circostanze di segno opposto e, ancor prima, per la stessa valutazione sulla sussistenza delle circostanze attenuanti, era necessario svolgere interamente il processo, non essendo possibile riconoscere la sussistenza delle circostanze attenuanti ed effettuare il cosiddetto «bilanciamento» previsto dall'articolo 69 del codice penale, se non alla fine dell'istruttoria dibattimentale (Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 4 novembre 1997 n. 4319; sezione quinta penale, sentenza 13 luglio 1993 n. 2710; sezione prima penale, ordinanza 15 aprile 1998 n. 2110) . É, quindi, non irragionevole la scelta del legislatore di adottare un criterio predeterminato e astratto chiamato ad operare anche prima del giudizio, e comunque indipendentemente dall'accertamento in fatto, il quale è, invece, necessario per il riconoscimento della sussistenza delle circostanze attenuanti. Le considerazioni sopra svolte escludono che possano ritenersi in contrasto con il principio di uguaglianza le differenziazioni di trattamento prospettate nell'ordinanza di rimessione. 9.1. - Per gli stessi motivi sopra evidenziati non è fondata l'analoga questione di costituzionalità dell'art. 6, comma 1, della legge n. 251 del 2005, sollevata dal GIP del Tribunale di Padova, nella parte in cui non prevede che, per determinare il tempo necessario a prescrivere, si tenga conto anche delle circostanze aggravanti comuni e delle circostanze attenuanti. A prescindere da ogni altro possibile rilievo circa i limiti dei poteri di questa Corte allorché si discuta di interventi in peius sulla disciplina della prescrizione, come si determinerebbero dal riconoscimento della possibilità di calcolare anche l'incidenza che sulla pena ha l'applicazione delle circostanze ordinarie del reato, va ribadito, per le ragioni sopra esposte, che la norma censurata non è irragionevole, in quanto volta a stabilire tempi certi e predeterminati di prescrizione dei reati. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 2, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Padova e dal Tribunale di Salerno, sezione distaccata di Cava de' Tirreni, con le ordinanze indicate in epigrafe; dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 5, della legge n. 251 del 2005 sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preli minari del Tribunale di Padova, con l'ordinanza indicata in epigrafe; dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, commi 1 e 4, della legge n. 251 del 2005 sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13, 25, secondo comma, e 27, della Costituzion e, dal Tribunale di Salerno, sezione distaccata di Cava de' Tirreni, con l'ordinanza indicata in epigrafe; dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005 sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 , secondo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Padova con l'ordinanza indicata in epigrafe e, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Salerno, sezione distaccata di Cava de' Tirreni, con l'ordinanza indicata in epigrafe; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 6, commi 1 e 4, e 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005 sollevata, in riferimento all'art. 79 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Padova e dal Tribunale di Salerno, sezione distaccata di Cava de' Tirreni, con le ordinanze indicate in epigrafe; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, secondo comma, del codice penale, come novellato dall'art. 6, comma 1, della legge n. 251 del 2005, sollevata, in riferimento al l'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Roma, in composizione monocratica, con l'ordinanza indicata in epigrafe; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 1, della legge n. 251 del 2005 sollevata, in riferimento agli art. 3 e 111, secondo comma, della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Padova, con l'ordinanza indicata in epigrafe; Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'1 agosto 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 1-bis, del decreto- legge 9 ottobre 2006, n. 263 (Misure straordinarie per fronteggiare l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania - Misure per la raccolta differenziata), comma aggiunto dalla legge di conversione 6 dicembre 2006, n. 290, promosso con ordinanze del 22 febbraio 2006 (n. 5 ordinanze) e del 12 dicembre 2007 dal Tribunale amministrativo regionale del Molise, rispettivamente iscritte ai nn. 687, 688, 689, 690 e 691 del registro ordinanze 2007 e al n. 54 del registro ordinanze 2008, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 2007, e n. 12, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visti gli atti di costituzione di Falcione Giovanni ed altri, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 24 giugno 2008 e nella camera di consiglio del 25 giugno 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano; uditi gli avvocati Massimo Luciani e Salvatore di Pardo per Giovanni Falcione ed altri e l'avvocato dello Stato Luca Ventrella per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. - Con cinque ordinanze di analogo tenore (r.o. nn. 687, 688, 689, 690 e 691 del 2007), il Tribunale amministrativo regionale del Molise ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, dell'art. 6, comma 1-bis, del decreto-legge del 9 ottobre 2006, n. 263 (Misure straordinarie per fronteggiare l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania - Misure per la raccolta differenziata), comma aggiunto dalla legge di conversione 6 dicembre 2006, n. 290, «sia ove interpretato nel senso di conferire solo ai datori di lavoro e ai lavoratori privati il diritto di beneficiare della sospensione dei contributi, sia ove inteso nel senso che ai soli datori di lavoro privati è concesso il beneficio di non versare la propria quota di contribuzione ai competenti Istituti previdenziali». Il TAR del Molise ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della citata disposizione nel corso di giudizi aventi ad oggetto l'accertamento del diritto di taluni magistrati, in servizio presso il Tribunale di Campobasso, alla percezione della retribuzione mensile al lordo delle ritenute e trattenute previdenziali, a far data dal novembre 2002. L'art. 7 dell'ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri (in seguito o.P.C.m.) del 29 novembre 2002, n. 3253 (Primi interventi urgenti diretti a fronteggiare i danni conseguenti ai gravi eventi sismici verificatisi nel territorio delle province di Campobasso e di Foggia ed altre misure di protezione civile), e successive proroghe, aveva previsto che - a seguito degli eventi sismici che avevano investito la Regione Molise tra i mesi di ottobre e novembre del 2002 - fosse sospeso l'obbligo del versamento dei contributi previdenzali e assistenziali per i soggetti residenti, aventi sede legale o operativa, alla data dei predetti eventi calamitosi, nel le province di Campobasso e Foggia, disponendo che la sospensione dovesse essere comprensiva anche della quota a carico dei lavoratori dipendenti, nonché di coloro che avessero contratti di collaborazione coordinata e continuativa. Da qui i ricorsi degli interessati, secondo i quali il quadro normativo, come sopra delineato, «evidenzierebbe la sussistenza dell'obbligo, in capo ai datori di lavoro, di sospendere le trattenute previdenziali e assistenziali relative ai propri dipendenti, che prestano servizio nel territorio della provincia di Campobasso». 1.2. - Il legislatore, dopo che si erano determinate diverse interpretazioni della norma stessa - tra cui una del medesimo TAR del Molise (sentenza del 29 aprile 2006, n. 400) - è intervenuto con la legge 16 dicembre 2006, n. 290, che ha convertito in legge il d.l. n. 263 del 2006, introducendo all'art. 6 il comma 1-bis che recita testualmente: «La legge 24 febbraio 1992, n. 225, si interpreta nel senso che le disposizioni delle ordinanze di protezione civile che prevedono il beneficio della sospensione dei versamenti dei contributi prev idenziali ed assistenziali e dei premi assicurativi si applicano esclusivamente ai datori di lavoro privati aventi sede legale ed operativa nei comuni individuati da ordinanze di protezione civile». Il giudice a quo, ritenuta la natura interpretativa di questo intervento, solleva questione di legittimità costituzionale del citato 1-bis «sia ove interpretato nel senso di conferire solo ai datori di lavoro e ai lavoratori privati il diritto di beneficiare della sospensione dei contributi, sia ove inteso nel senso che ai soli datori di lavoro privati è concesso il beneficio di non versare la propria quota di contribuzione ai competenti Istituti previdenziali». Secondo il rimettente, la prima lettura violerebbe l'art. 3 Cost. per l'irragionevole disparità di trattamento che si verrebbe a determinare tra i dipendenti del settore privato e quelli del settore pubblico; la seconda lettura sarebbe in contrasto sia con l'art. 2 Cost., «per ingiustificata esclusione dal godimento dei benefici emergenziali dei lavoratori dipendenti, anch'essi pregiudicati dalle conseguenze del sisma ed anch'essi destinatari su un piano generale degli interventi in parola», sia con l'art. 3 Cost., «per irragionevole disparità di trattamento tra datori di lavoro e lavoratori», in quanto la calamità naturale avrebbe «inciso in ugual misura su entrambe le categorie di soggetti», ma soltanto i primi «beneficerebbero della sospen sione del versamento della propria quota di contribuzione». Sotto il profilo della rilevanza, il rimettente osserva come la stessa sussista poichè «solo attraverso l'eliminazione della norma sospettata di incostituzionalità, i ricorrenti, lavoratori dipendenti del settore pubblico e residenti «in un Comune molisano individuato da ordinanza della protezione civile, potrebbe[ro] continuare a percepire la propria retribuzione al lordo della quota di contribuzione». 2. - E' intervenuto nei giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sollevata sia dichiarata inammissibile o, comunque, manifestamente infondata. 2.1. - L'Avvocatura dello Stato ritiene, anzitutto, che sussistano gli estremi per la declaratoria di inammissibilità, in quanto la questione di legittimità costituzionale della norma censurata è avanzata «sotto due diverse chiavi di lettura della medesima», non consentendo, pertanto, l'identificazione del thema decidendum. Infatti, l'ordinanza del TAR del Molise si fonda su interpretazioni contrapposte della norma applicabile e non opera una scelta tra contenuti normativi che pur risultando diversi sono prospettati contestualmente, senza alcuna subordinazione dell'uno rispetto all'altro. La difesa erariale ritiene, altresì, che sussista un altro motivo di inammissibilità, perché si propone alla Corte una mera questione interpretativa che, per pacifica giurisprudenza, non è ammissibile in sede di giudizio incidentale di legittimità costituzionale. 2.2. - Nel merito, osserva, poi, l'Avvocatura che la norma sospettata di incostituzionalità è rivolta, inequivocabilmente, «direttamente ed in primo luogo ai datori di lavoro e non ai lavoratori», datori di lavoro i quali «non possono che essere quelli privati». La ratio dell'intervento, infatti, è quella di tutelare la produzione di beni e servizi e l'intermediazione economica; in altri termini, il legislatore guarda «al settore economico privato, non certo all'attività della P.A.». Per rilanciare il sistema produttivo, secondo la prospettazione dell'Avvocatura, si utilizza lo strumento nella sospensione di un obbligo contributivo particolarmente gravoso per i datori di lavoro, al fine di consentire a questi ultimi di «investire in misura maggiore» in una situazione di emergenza determinata dal sisma. Se questa è la ratio posta alla base della scelta legislativa, osserva ancora l'Avvocatura, ha rilievo marginale l'effetto che la stessa determina anche in favore dei soli lavoratori privati, considerato tra l'altro che la quota di contribuzione dagli stessi dovuta (e normalmente prelevata dal datore di lavoro nella sua qualità di sostituto) è modesta e la maggior retribuzione è comunque fiscalizzata. D'altro canto, che non sia questo ultimo effetto quello voluto dal legislatore (ma solo una conseguenza della ratio della norma che è di incentivare la produzione economica), lo confermerebbe il rilievo che se il rilancio di un territorio, gravemente colpito da una calamità naturale, fosse affidato ad un'azione finalizzata «a garantire maggior liquidit&ag rave; ai lavoratori della zona terremotata», questa sarebbe «una misura dalla portata economicamente debole e soprattutto poco lungimirante». In relazione a quanto sopra, la difesa erariale conclude per la manifesta infondatezza della questione con riferimento agli artt. 2 e 3 Cost. 2.3. - Ugualmente manifestamente infondata sarebbe la denunciata disparità di trattamento tra lavoratori pubblici e privati, in quanto il confronto sarebbe condotto rispetto a situazioni del tutto disomogenee. In proposito l'Avvocatura osserva che è sufficiente considerare che la pubblica amministrazione non ha fini lucrativi e la prestazione di lavoro si svolge secondo regole e parametri sui quali sono ininfluenti i fenomeni naturali e le condizioni ambientali eccezionali. Tutto al contrario, il datore di lavoro privato, che opera in un determinato territorio, è significativamente esposto a tutti quegli accadimenti che incidono sulla dimensione organizzativa dell'impresa e sulla possibilità di un suo esercizio caratterizzato da rigoros i parametri economici. Ne discende, quindi, oltre alla disomogeneità delle posizioni poste a confronto, l'assoluta ragionevolezza di una scelta legislativa che limiti il beneficio ai soli datori di lavoro privati i quali, a differenza della pubblica amministrazione, non sempre dispongono di una capacità organizzativa e di risorse idonee a fronteggiare in modo adeguato le situazioni di emergenza originate da un evento sismico. Infine, per l'Avvocatura, l'ordinanza di rimessione cerca di ottenere dalla Corte un vero e proprio intervento manipolativo o additivo, finalizzato a creare una norma che non è presente nell'ordinamento. 3. - Nel procedimento r.o. n. 687 del 2007 si è costituito il ricorrente nel giudizio a quo, il quale, riservandosi ulteriori argomentazioni e deduzioni, ha concluso per l'accoglimento della questione. 3.1. - In prossimità della data di udienza, la costituita parte privata, sciogliendo la riserva precedentemente formulata, ha depositato memoria illustrativa. In essa, ricostruita brevemente la vicenda normativa che ha portato all'adozione della disposizione censurata, afferma che, contrariamente a quanto ritenuto dal rimettente, la stessa non avrebbe natura «propriamente» interpretativa, ma innovativa con effetto retroattivo. Al riguardo osserva che la giurisprudenza costituzionale, anche recentemente (sentenza n. 170 del 2008), riconosce al legislatore la possibilità di emanare norme che precisino il significato di preesistenti disposizioni anche nel caso che non siano insorti contrasti giurisprudenzial i, «ma sussista comunque una situazione di incertezza nella loro applicazione». Nel caso di specie, però, non sarebbero esistiti contrasti interpretativi da dirimere; così come, parimenti, non vi sarebbero incertezze interpretative quanto alla disciplina preesistente, essendo la stessa così lineare da potersi prestare ad un'unica lettura. Inoltre, sempre secondo la parte privata, la cosiddetta norma di interpretazione autentica non svolgerebbe tale funzione con riferimento ad una legge (specificamente la legge 24 febbraio 1992, n. 225, recante «Istituzione del servizio nazionale della protezione civile»), ma soltanto con riguardo ad ordinanze del Presidente del Consiglio dei ministri, dal momento che la legge sopra richiamata, all'art. 5, si limiterebbe a prevedere il potere di ordinanza di questo ultimo in caso di calamità naturali. Comunque, prosegue la difesa di parte privata, anche volendo ritenere interpretativa la norma censurata, va segnalato che le norme di interpretazione autentica, avendo come tali efficacia retroattiva, dovrebbero essere sottoposte ad un rigoroso scrutinio di ragionevolezza. Peraltro, la norma in questione «non potrebbe passare indenne neppure da uno scrutinio di ragionevolezza che eventualmente fosse a maglie larghe», in quanto sarebbe priva di giustificazioni la differenza di trattamento fra dipendenti privati e pubblici. Viene, inoltre, sottolineato che tutta la popolazione del Molise avrebbe subito i disagi del sisma, non essendo gli stessi riferibili ai soli lavoratori privati. 3.2. - Sostiene, infine, la parte privata, l'infondatezza dell'eccezione avanzata dalla difesa erariale, là dove la stessa afferma l'inammissibilità della questione poiché proposta in modo alternativo o ancipite: in realtà, l'ordinanza di rimessione avrebbe solo voluto prospettare tutti i profili di irragionevolezza della disposizione censurata, risultando chiaro che la censura investe solo l'irragionevole discriminazione di cui sono oggetto i dipendenti pubblici. 4. - Con successiva ordinanza del 12 dicembre 2007 (r.o. n. 54 del 2008), analoga questione di legittimità costituzionale della medesima norma di interpretazione, in riferimento agli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione, è stata sollevata dallo stesso TAR del Molise, investito del ricorso proposto da due docenti dell'Università di Campobasso volto ad accertare il loro diritto a percepire la retribuzione al lordo delle ritenute e trattenute previdenziali, in base a quanto disposto dall'art. 7 dell'ordinanza del Presidente del Consiglio dei ministri n. 3253 del 2002 e successive proroghe. 4.1. - Diversamente da quanto argomentato nelle precedenti ordinanze, il TAR prospetta ora una sola lettura della norma, in base alla quale sarebbero esclusi dal beneficio della sospensione tutti i lavoratori, pubblici e privati. Si denuncia anche l'irragionevole disparità di trattamento nei confronti dei lavoratori autonomi e degli «imprenditori artigiani». La disposizione censurata violerebbe, con le identiche motivazioni di cui sopra, gli artt. 2 e 3 Cost., nonchè l'art. 24 Cost. Secondo il rimettente, difatti, relativamente a questa ultima censura, la norma interpretativa avrebbe vulnerato le prerogative del potere giurisdizionale, essendo stata emanata «nell'intento specifico di eludere e paralizzare gli effetti delle decisioni giurisprudenziali», che avevano riconosciuto ai lavoratori dipendenti, anche privati, il diritto a fruire della sospensione del versamento della contribuzione. 4.2. - Il giudice a quo ritiene rilevante, ai fini della definizione del giudizio principale, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 1-bis, del d.l. n. 263 del 2006, in quanto il dettato del citato comma osta all'accoglimento delle pretese dei ricorrenti. 4.3. - In ordine, quindi, alla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente afferma che la norma denunciata, violando l'art. 3, primo comma, Cost., determinerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra datori di lavoro e lavoratori sia pubblici che privati, oltre che autonomi ed «imprenditori artigiani», risultando tutti, tranne i primi, esclusi dal beneficio. Tale disparità di trattamento non troverebbe alcuna giustificazione, secondo il rimettente, «in una diversità di situazioni di partenza, in quanto entrambi i soggetti - datore di lavoro/lavoratore - sono stat i colpiti allo stesso modo dall'evento calamitoso». Inoltre, tale scelta del legislatore si dimostrerebbe vieppiù irrazionale, tenendo conto dell'esclusione dal beneficio anche dei lavoratori autonomi e degli artigiani, i quali «pur essendo datori di lavoro di se stessi, non possono nondimeno beneficiare della sospensione dei contributi previdenziali gravanti a loro carico, in evidente contraddizione con la ratio legis volta a favorire nel suo complesso il rilancio economico - produttivo delle zone interessate dall'evento sismico». Quindi, la norma impugnata verrebbe a ledere anche gli artt. 2 e 3, primo e secondo comma, Cost., in quanto essa - pur collocandosi in un contesto di benefici alle popolazioni colpite dal sisma del 2002 - escluderebbe, ingiustificatamente, dalla possibilità di godere «delle misure emergenziali» i lavoratori dipendenti, colpiti, anch'essi, al pari dei datori di lavoro, dalla calamità e «anch'essi destinatari su un piano generale degli interventi in questione». 4.4. - Il TAR del Molise ravvisa, poi, anche una lesione dell'art. 24 Cost., in quanto la norma sospettata di incostituzionalità - a fronte di un consolidato orientamento sia della giurisprudenza amministrativa che di quella ordinaria, che aveva riconosciuto ai lavoratori dipendenti il diritto a fruire della sospensione del versamento della contribuzione - sarebbe stata emanata con l'intento di «paralizzare ed eludere gli effetti [di tali] decisioni giurisprudenziali, con vulnerazione conseguente delle prerogative del potere giurisdizionale». 5. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sollevata sia dichiarata inammissibile o, comunque, manifestamente infondata. La difesa erariale, in particolare, afferma che la denunciata violazione dell'art. 3 Cost. non sussiste, in quanto le posizioni dei lavoratori dipendenti e dei datori di lavoro privati, «ai fini della prospettata ingiustificata disparità di trattamento, non sono omogenee», poiché i primi, pur colpiti dal sisma, non sopportano le conseguenze economiche inerenti al rischio d'impresa. La difesa pubblica sottolinea, poi, l'inammissibilità, stante la sua irrilevanza, della questione relativa alla disparità di trattamento, là dove la stessa viene prospettata con riferimento alla categoria dei lavoratori autonomi ed artigiani, essendo pacifico che i ricorrenti nel giudizio a quo sono dipendenti dell'Università degli studi del Molise. Infine, sempre con riferimento alla violazione del parametro rappresentato dall'art. 3 Cost., l'Avvocatura dello Stato evidenzia come la scelta del legislatore non possa comunque definirsi arbitraria. Quanto, ancora, alla violazione dell'art. 2 Cost., la questione viene ritenuta inammissibile per carenza di supporti argomentativi. Infine, inammissibile e, comunque, infondata è, per l'Avvocatura, la questione in riferimento all'art. 24 Cost., perché il parametro evocato è «assolutamente inconferente». 6. - Si sono costituiti in giudizio i ricorrenti nel giudizio a quo, i quali, riservandosi ulteriori argomentazioni e deduzioni, hanno concluso per la richiesta di declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione censurata. 6.1. - In prossimità dell'udienza pubblica, la difesa di parte privata ha presentato una memoria illustrativa nella quale svolge considerazioni pressoché identiche a quelle già proposte relativamente alla precedente questione (r.o. n. 687 del 2007), sia in riferimento alla natura della disposizione interpretata, sia con riguardo alla fondatezza della questione. Inoltre, per quanto attiene alla violazione dell'art. 24 Cost., la parte privata contesta l'opinione della difesa erariale che ritiene la evocazione di tale parametro inconferente, in quanto la disposizione impugnata atterrebbe «al piano sostanziale della disciplina e dei rapporti e non a quello processuale della tutela dei diritti», affermando che risulta evidente dalla giurisprudenza della Corte come sia illegittima ogni disposizione normativa che intenda eludere o paralizzare, come nel caso in questione, gli effetti delle decisioni giurisprudenziali. Considerato in diritto. 1. - Il Tribunale regionale del Molise, con cinque distinte ordinanze di identico contenuto (r.o. nn. 687, 688, 689, 690 e 691 del 2007), ha sollevato, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 1-bis, del decreto-legge 9 ottobre 2006, n. 263 (Misure straordinarie per fronteggiare l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania - Misure per la raccolta differenziata), comma aggiunto dalla legge di conversione 6 dicembre 2006, n. 290. Il TAR rimettente solleva la questione di legittimità costituzionale del citato comma, «sia ove interpretato nel senso di conferire solo ai datori di lavoro e ai lavoratori privati il diritto di beneficiare della sospensione dei contributi» previdenziali e assistenziali e dei premi assicurativi, «sia ove inteso nel senso che ai soli datori di lavoro privati è concesso il beneficio di non versare la propria quota di contribuzione ai competenti Istituti previdenziali». Secondo la prima interpretazione, la disposizione sarebbe in contrasto con l'art. 3 Cost., poiché verrebbe ad escludere irragionevolmente i dipendenti pubblici dal godimento di tale beneficio. In base alla seconda, essa contrasterebbe con l'art. 2 Cost. «per ingiustificata esclusione dal godimento dei benefici emergenziali dei lavoratori dipendenti, anch'essi pregiudicati dalle conseguenze del sisma ed anch'essi destinatari su un piano generale degli interventi in parola», e con l'art. 3 Cost., «per irragionevole disparità di trattamento tra datori di lavoro e lavoratori» perché la calamità naturale avrebbe «inciso in ugual misura su entrambe le categorie di soggetti», mentre soltanto i primi verrebbero a godere del benefico in questione. Successivamente, con altra ordinanza (r.o. n. 54 del 2008), lo stesso TAR del Molise ha nuovamente sollevato analoga questione di legittimità costituzionale della citata norma di interpretazione autentica, in riferimento agli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione. Il TAR rimettente, in questa ordinanza, prospetta, rispetto alle precedenti ordinanze di rimessione, una sola lettura della norma censurata, e, pertanto, lamenta la sola irragionevole disparità di trattamento tra datori di lavoro privati e lavoratori, siano essi pubblici o privati, nonché nei riguardi dei lavoratori autonomi e «imprenditori artigiani». La disposizione censurata violerebbe, con le identiche motivazioni di cui alle già citate precedenti ordinanze, gli artt. 2 e 3 Cost., nonché l'art. 24 Cost., poichè, secondo il rimettente, la norma interpretativa avrebbe vulnerato le prerogative del potere giurisdizionale, essendo stata emanata «nell'intento specifico di eludere e paralizzare gli effetti delle decisioni giurisprudenziali» che avevano riconosciuto ai lavoratori dipendenti, anche privati, il diritto a fruire della sospensione del versamento della contribuzione. I giudizi, in quanto concernenti la stessa disposizione e relativi a questioni analoghe o connesse, devono essere riuniti e decisi con unica pronuncia. 2. - Preliminarmente, deve essere dichiarata la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con le ordinanze r.o. nn. 687, 688, 689, 690 e 691 del 2007. Deve, infatti, essere accolta l'eccezione, sollevata dall'Avvocatura dello Stato, relativa alla loro prospettazione «sotto due diverse chiavi di lettura», che non consentirebbe, pertanto, a questa Corte l'esatta identificazione del thema decidendum. Le questioni risultano formulate in termini di alternativa irrisolta e, dunque, in forma ancipite, non avendo operato il rimettente una scelta tra contenuti normativi che, pur risultando diversi, sono prospettati contestualmente, senza alcuna subordinazione dell'uno rispetto all'altro. La proposizione di questioni di legittimità costituzionale formulate in via alternativa, secondo giurisprudenza costituzionale costante, le rende manifestamente inammissibili (ex plurimis ordinanze n. 449 e n. 122 del 2007; ordinanza n. 362 del 2005). Inoltre, le questioni risultano manifestamente inammissibili anche per l'indeterminatezza di ciò che viene richiesto a questa Corte. La dedotta violazione dell'art. 3 Cost. o, in alternativa, degli artt. 2 e 3 Cost., è argomentata sulla base dell'asserita disparità di trattamento, evocata ora tra lavoratori dipendenti privati e pubblici, ora tra datori di lavoro e lavoratori privati e pubblici, senza che le ordinanze di rimessione tengano conto delle sostanziali differenze tra i soggetti rispetto ai quali viene lamentata una disparità di regime normativo. Poiché il giudice a quo, onde porre rimedio alla denunciata violazione dei parametri costituzionali, non ha concentrato il quesito sull'una o sull'altra delle disparità di trattamento prospettate, anche le questioni sottoposte a questa Corte (oltre all'interpretazione della disposizione legislativa che ne determinerebbe l'incostituzionalità) risultano formulate in modo ancipite e ne deve essere, anche per questo concorrente motivo, dichiarata la manifesta inammissibilità. 3. - Con l'ordinanza r.o. n. 54 del 2008, il rimettente propone, come si è già detto, una sola lettura della disposizione che sospetta di incostituzionalità. E', al riguardo, innanzitutto, necessario precisare, con riferimento alla più ampia prospettazione formulata dalle parti costituite, che il thema decidendum è fissato dall'ordinanza di rimessione, potendo la parte privata addurre suoi argomenti nei confronti dei parametri e dei profili sollevati, senza però poterne modificare l'impianto strutturale, e, con riferimento a quanto viene dedotto nell'ordinanza, che il giudizio, dato il suo carattere incidentale, non può riguardare fattispecie non rilevanti nel processo a quo (le quali, del resto, nelle precedenti ordinanze nn. 687, 688, 689, 690 e 691 del 2007, erano state riportate con la precisa indicazione che esse erano evocate «ad colorandum»). 3.1. - Passando all'esame delle censure formulate dal rimettente, debbono essere dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento agli artt. 2 e 24 della Costituzione. 3.2. - Con riguardo alla violazione dell'art. 2 Cost., è, infatti, da accogliere l'eccezione di inammissibilità avanzata dall'Avvocatura dello Stato per carenza di supporti argomentativi. Invero il TAR rimettente denuncia la violazione di questo parametro costituzionale, lamentando l'ingiustificata esclusione dei lavoratori dipendenti dal godimento del beneficio della sospensione dell'obbligo contributivo, sulla base del solo richiamo alla circostanza che anch'essi risultano pregiudicati dalle conseguenze del sisma. In proposito, l'ordinanza di rimessione non illustra in che modo si concretizzi questo pregiudizio in relazione alla disciplina dell'adempimento contributivo che è a carico del datore di lavoro, il quale opera anche come sostituto del lavoratore nell'adempimento dell'obbligazione nei confronti dell'Ente previdenziale. Manca, altresì, qualsivoglia argomentazione in ordine alla ragionevolezza o meno della distribuzione degli oneri connessi al principio di solidarietà economica e sociale di cui è espressione il parametro evocato. Nulla dice il rimettente anche in ordine alle ragioni per cui il legislatore avrebbe, nell'ambito della sua ampia discrezionalità in materia, irragionevolmente distribuito gli oneri della contribuzione previdenziale nel caso in esame. Sotto tale profilo, oltre che per carenza nella motivazione, l'ordinanza di rimessione risulta inammissibile anche perché chiede a questa Corte - a fronte di una fattispecie normativa che realizza un non irragionevole bilanciamento di interessi fra i valori costituzionali in gioco - «l'adozione di un altro, diverso, criterio di bilanciamento» sulla «base di una [.] personale sensibilità alla tematica in questione», la «cui individuazione, nella molteplicità delle soluzioni possibili è, però, rimessa alla prudente discrezionalità del legislatore» (ordinanza n. 393 del 2007). In termini ancora più generali, non viene chiarito se la censura ipotizza una violazione della parte della disposizione costituzionale che «riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo» o della parte in cui «richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale». 3.3. - Ugualmente inammissibile - come del resto eccepito anche dalla difesa erariale - è la censura relativa alla violazione dell'art. 24 Cost., in quanto il parametro costituzionale invocato risulta inconferente. Il TAR del Molise, infatti, non chiarisce sotto quale profilo venga prospettata tale violazione, stante il carattere sostanziale della norma denunciata, che si limita ad interpretare autenticamente l'ambito di applicazione della temporanea sospensione dell'obbligo contributivo. E', tra l'altro, da osservare che il rimettente non contesta la natura interpretativa della disposizione in questione. L'inconferenza del parametro evocato è, del resto, confermata dalla circostanza che, secondo l'ordinanza di rimessione, la sua violazione si concretizzerebbe nel fatto che la legge d'interpretazione autentica avrebbe prospettato una lettura diversa rispetto a quella operata dal TAR rimettente e da altri giudici di merito in precedenti decisioni. Al riguardo, anche prescindendo dalla considerazione che il tipo di censura sollevata (nell'ordinanza si lamenta una «vulnerazione [.] delle prerogative del potere giurisdizionale») sembrerebbe postulare una violazione degli artt. 101 e 113 Cost. più che dell'art. 24 Cost., occorre sottolineare che la costante giurisprudenza di questa Corte ha sempre affermato che la legge di interpretazione autentica non può considerarsi lesiva dei canoni costituzionali di ragionevolezza, e dei principi generali di tutela del legittimo affidamento e di certezza delle situazioni giuridiche, quando «essa si limita ad assegnare alla disposizione interpretata un significato riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario» (ex multis, sentenze n. 74 del 2008; n. 234 del 2007; n. 274 del 2006). 3.4. - Non fondata è, invece, la questione di legittimità costituzionale prospettata dal TAR del Molise per violazione del principio di uguaglianza, di cui all'art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento - relativamente al godimento del beneficio della sospensione dei versamenti contributivi - tra datori di lavoro e lavoratori sia pubblici che privati, oltre che nei confronti dei lavoratori autonomi ed «imprenditori artigiani». In proposito, come afferma l'Avvocatura dello Stato, la limitazione del beneficio ai soli datori di lavoro non è incoerente con la disciplina in materia assistenziale e previdenziale che pone a carico del datore di lavoro l'onere del versamento contributivo anche per la quota a carico del lavoratore. Per altro verso, corrisponde ad un principio di non irragionevole esercizio della discrezionalità del legislatore la scelta di limitare il beneficio della sospensione del versamento contributivo ai soli datori di lavoro del settore privato. Questi ultimi, infatti, a differenza delle amministrazioni pubbliche, spesso non dispongono di sufficienti risorse e di idonea capacità organizzativa per fronteggiare in modo adeguato emergenze come quelle originate dall'evento sismico. Sempre con riferimento alla sollevata censura di disparità di trattamento, è opportuno sottolineare che nell'ordinanza si sostiene la tesi che la norma sospettata di incostituzionalità verrebbe a determinare una «violazione del principio di uguaglianza» non in quanto discriminerebbe i lavoratori privati rispetto a quelli pubblici, come invece si sosteneva in una delle due letture della disposizione impugnata nel gruppo di ordinanze di cui al precedente punto 2, ma in quanto la discriminazione si verificherebbe tra i datori di lavoro ed i lavoratori dipendenti. Anche tralasciando la circostanza che è improprio ravvisare (né l'ordinanza fornisce adeguati argomenti) una disparità di trattamento in materia previdenziale tra datori di lavoro e lavoratori dipendenti, qualunque sia la natura dei primi, perché la disciplina riferisce ai soli datori di lavoro le obbligazioni relative ai versamenti contributivi, cosicché il lavoratore ne è destinatario soltanto di riflesso, è tuttavia evidente che la trasparente disomogeneità delle situazioni poste a confronto determina l'infondatezza della questione. I termini di raffronto non presentano, infatti, aspetti di tale conformità che impongano al legislatore, pena la violazione dell'art. 3 della Costituzione, di adottare identica disciplina. Ne consegue che l'asserita ingiustificata disparità di trattamento non sussiste, perché eventuali agevolazioni previste per i datori di lavoro privati ben possono, non irragionevolmente, non essere estese anche ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni, stante la non omogeneità dei due termini che vengono presi a paragone. Va, infine, affermata la carenza di rilevanza quanto all'evocata disparità di trattamento con i lavoratori autonomi (nei confronti dei quali il Tribunale amministrativo regionale non avrebbe avuto giurisdizione), in quanto, nella fattispecie oggetto del giudizio a quo, i ricorrenti nel processo principale sono dipendenti di una pubblica amministrazione. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 1-bis, del decreto-legge 9 ottobre 2006, n. 263 (Misure straordinarie per fronteggiare l'emergenza nel settore dei rifiuti nella regione Campania - Misure per la raccolta differenziata), comma aggiunto dalla legge di conversione 6 dicembre 2006, n. 290, sollevata, in riferimento agli artt. 2 e 3 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Molise, con le ordinanze r.o. nn. 687, 688, 689, 690 e 691 del 2007;< /SPAN> dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 1-bis, del decreto-legge n. 263 del 2006, sollevate, in riferimento agli artt. 2 e 24 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Molise, con l'ordinanza r.o. n. 54 del 2008; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 1-bis, del decreto-legge n. 263 del 2006, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Molise, con l'ordinanza r.o. n. 54 del 2008. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'1 agosto 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 13 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, recante «Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale», convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, recante «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, recante disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale», promossi con ricorsi della Regione Veneto (nn. 2 ricorsi), della Regione siciliana, della Regione Friuli-V enezia Giulia e della Regione Valle d'Aosta, notificati il 31 agosto, il 5, il 9 e il 10 ottobre 2006, depositati in cancelleria l'11 settembre, l'11, il 12, il 14 e il 19 ottobre 2006 ed iscritti ai nn. 96, 103, 104, 105 e 107 del registro ricorsi 2006. Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 24 giugno 2008 il Giudice relatore Sabino Cassese; uditi gli avvocati Mario Bertolissi e Andrea Manzi per la Regione Veneto, Giovanni Pitruzzella per la Regione siciliana, Giandomenico Falcon per la Regione Friuli-Venezia Giulia, Francesco Saverio Marini per la Regione Valle d'Aosta e l'avvocato dello Stato Danilo Del Gaizo per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. - La Regione Veneto ha sollevato, con un primo ricorso (n. 96 del 2006), questione di legittimità costituzionale, oltre che di altre norme dello stesso decreto-legge, dell'art. 13 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, recante «Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale», per violazione degli artt. 3, 97, 114, 117, 118, 119 e 120 della Costi tuzione. L'articolo impugnato (che reca la rubrica «Norme per la riduzione dei costi degli apparati pubblici regionali e locali e a tutela della concorrenza») impone alcuni limiti alle società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all'attività di tali enti, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza. È stabilito, in particolare, che esse operino esclusivamente con gli enti costituenti ed affidanti, non svolgano prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, non partecipino ad altre società o enti e abbiano oggetto sociale esc lusivo. L'articolo contiene anche una disciplina transitoria, che definisce i termini e le modalità della cessazione delle attività non consentite, e commina la nullità ai contratti conclusi in violazione delle nuove norme. Ad avviso della Regione, il legislatore statale ha inteso, con le norme impugnate, evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e assicurare la parità degli operatori, impedendo che soggetti destinatari dei cosiddetti «obblighi di servizio pubblico», solo formalmente privatizzati ma soggetti a un'influenza dominante dei pubblici poteri, possano operare, avvantaggiandosi del regime speciale di cui godono, anche sul libero mercato. Date queste finalità della disciplina statale, reputa peraltro la Regione che la norma impugnata violi la sfera di autonomia regionale poiché, facendo valere ragioni di tutela della concorrenza, comprime irragionevolmente l'autonomia legislativa e amministrativa della Regione. Con le disposizioni impugnate, secondo la ricorrente, «si è posta in essere una disciplina puntuale che non lascia alcuno spazio alla Regione per dettare una normativa che tenga conto delle necessità locali e nemmeno dei tempi di attuazione dei principi statali secondo criteri di adeguatezza e proporzionalità». 2. - Con un secondo ricorso (n. 103 del 2006), la Regione Veneto ha sollevato questione di legittimità costituzionale, oltre che di altre norme dello stesso decreto-legge, dell'art. 13 del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, recante «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, recante disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fi scale», per violazione degli artt. 3, 97, 114, 117, 118, 119 e 120 della Costituzione. Questione di legittimità costituzionale dello stesso articolo, oltre che di altre norme dello stesso decreto-legge, è stata sollevata anche dalla Regione siciliana (r. ric. n. 104 del 2006), dalla Regione Friuli-Venezia Giulia (r. ric. n. 105 del 2006) e dalla Regione Valle d'Aosta (r. ric. n. 107 del 2006). L'articolo impugnato (che, anche a seguito della conversione, reca la rubrica «Norme per la riduzione dei costi degli apparati pubblici regionali e locali e a tutela della concorrenza») impone alcuni limiti alle società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all'attività di tali enti, in funzione della loro attività, con esclusione dei servizi pubblici locali, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministra tive di loro competenza. È stabilito, in particolare, che esse operino esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti, non svolgano prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, non partecipino - con esclusione delle società che svolgono l'attività di intermediazione finanziaria prevista dal testo unico di cui al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 - ad altre società o enti e abbiano oggetto sociale esclusivo. L'articolo contiene anche una disciplina transitoria, che definisce i termini e le modalità della cessazione delle attività non consentite, e commina la nullità ai contratti conclusi in violazione delle nuove norme. 3. - Il ricorso della Regione Veneto lamenta la violazione degli artt. 3, 97, 114, 117, 118, 119 e 120 della Costituzione. Secondo la Regione, la legge di conversione del decreto, lungi dall'eliminare le norme lesive dell'autonomia regionale, ne ha introdotto di nuove, viziate di illegittimità costituzionale sotto i medesimi profili. Permangono, pertanto, nell'art. 13 del decreto-legge, quale risulta dopo la conversione, le stesse violazioni dell'autonomia legislativa e amministrativa della Regione e degli enti locali, fatte valere con il precedente ricorso n. 96 del 2006. 4. - Il ricorso della Regione siciliana lamenta la violazione degli artt. 41, primo e terzo comma, e 3 Cost., sotto il duplice profilo della violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, nonché degli artt. 14, lettera p), e 17, lettera i), del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello Statuto regionale della Regione siciliana). Premette la Regione che la disposizione censurata si riferisce esclusivamente alle cosiddette «società strumentali», costituite o partecipate dalle R egioni e dagli altri enti locali per la produzione di beni e servizi a favore di tali enti e che, a norma del suddetto articolo, esse debbono operare esclusivamente con gli enti costituenti e affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici e privati, neppure a seguito di gara pubblica, e non possono partecipare ad altre società o enti.
Secondo la
Regione, la norma impone alle società strumentali limitazioni
territoriali che non appaiono coerenti con l'art. 41 Cost., il quale,
nell'affermare il principio della libera iniziativa economica privata
(primo comma), «circoscrive l'intervento dello Stato alla funzione di
indirizzo e coordinamento dell'attività economica pubblica e privata a
fini sociali (terzo comma)». Aggiunge la Regione che il legislatore
statale, ponendo il divieto in questione per le sole società a capitale
interamente pubblico o misto (pubblico-privato), costituite o
partecipate dalle amministrazioni regionali e locali , le ha penalizzate
rispetto alle società costituite o partecipate dallo Stato o
concessionarie di pubblici servizi, e ciò in violazione, oltre che del
suindicato parametro costituzionale, anche del principio di uguaglianza
sancito dall'art. 3 Cost. e senza attenersi ad alcun criterio di
proporzionalità e adeguatezza (sentenza n. 14 del 2004), essenziale a
definire l'ambito di operatività della competenza legislativa statale in
materia di «tutela della concorrenza». Osserva ancora la Regione
che la norma statale in esame, disciplinando l'attività di enti
strumentali della Regione, appare lesiva della competenza legislativa
esclusiva in materia di «ordinamento degli uffici e degli enti
regionali», prevista dall'art. 14, lettera p), dello statuto
siciliano, e, in ogni caso, di quella prevista dall'art. 17, lettera
i 5. - Il ricorso della Regione Friuli-Venezia Giulia lamenta la violazione degli artt. 3, 41, 117 e 119 Cost., nonché dell'art. 4, comma unico, nn. 1, 1-bis, e n. 6, dell'art. 8 e art. 48 della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia). Osserva preliminarmente la Regione che la legge di conversione ha aggiunto nell'art. 1 del decreto-legge il comma 1-bis, recante una «clausola di salvaguardia» in virtù della quale «le disposizioni di cui al presente decreto si applicano alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano in conformità agli statuti speciali e alle relative norme di attuazione». Pertanto, ove si dovesse ritenere che, per effetto di tale clausola, le norme impugnate non si applichino nella Regione Friuli-Venezia Giulia, verrebbero meno le doglianze da essa avanzate. Il ricorso della Regione è articolato in sei motivi. 5.1. - Con il primo motivo, la Regione eccepisce che i commi 1, 2 e 4, dell'art. 13 del decreto-legge, come convertito, sono lesivi dell'autonomia organizzativa e finanziaria della Regione, in quanto sottopongono ad un regime giuridico restrittivo e discriminatorio le società pubbliche o miste, costituite o partecipate dalle amministrazioni regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali, «senza collegare le limitazioni al godimento di una condizione di esonero dalla concorrenza grazie ad un regime di affidamento diretto». Ricorda innanzitutto la Regione che essa è legittimata anche a far valere l'autonomia finanziaria degli enti locali, atteso che la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto sussistente in via generale una tale legittimazione in capo alle Regioni, dal momento che «la stretta connessione, in particolare [...] in tema di finanza regionale e locale, tra le attribuzioni regionali e quelle delle autonomie locali consente di ritenere che la lesione delle competenze locali sia potenzialmente idonea a determinare una vulnerazione delle competenze regionali» (sentenza n. 417 del 2005). La Regione osserva poi che le severe restrizioni imposte alle società contemplate si collegano «non a particolari condizioni di favore nelle quali le società in argomento svolgano la loro attività, ma alla stessa struttura soggettiva ed all'oggetto di tali società». Ad avviso della Regione, se per «società costituite o partecipate per la produzione di beni e servizi strumentali» si dovessero intendere le «società che svolgono tali servizi in regime di affidamento diretto», le restrizioni si collegherebbero alla condizione di affidamento privilegiato in cui es se si trovano: «ed è ovvio che, se così fosse, basterebbe uscire da tale condizione per ritornare al regime generale delle società, senza restrizione alcuna». Questa interpretazione, prosegue la Regione, sarebbe senz'altro coerente con la finalità dichiarata della norma di «evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori». Tale interpretazione non è consentita, tuttavia, dalla formulazione letterale della norma, la quale, nel restringere la capacità contrattuale anche di società che non godono di alcun privilegio di affidamento diretto, viola in modo diretto le competenze statutarie della Regione, in quanto incide su materie regionali (cioè sull'organizzazione della Regione e degli enti locali e sull'industria e commercio: art. 4, nn. 1, 1-bis e 6, dello statuto; art. 117, quarto comma, Cost ., in relazione all'art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, dato che l'organizzazione regionale e l'industria e commercio ricadono nella competenza piena delle Regioni ordinarie) e interferisce con l'autonomia amministrativa (cui è funzionale quella organizzativa) e finanziaria della Regione e degli enti locali (artt. 8 e 48 e seguenti dello statuto). Le norme impugnate, secondo la ricorrente, violano inoltre: il principio di uguaglianza di cui all'art. 3, primo comma, Cost., dato che vengono trattate in modo diseguale situazioni uguali, nonché i principi di ragionevolezza e proporzionalità; l'art. 41 Cost., in quanto esse precludono l'esercizio del diritto di libera iniziativa economica, il quale, a condizione che non si alteri la concorrenza, vale ugualmente per i soggetti pubblici e privati (e comunque sarebbe leso il diritto di iniziativa dei privati nelle società miste); «il principio di ragionevolezza e di proporzionalità», in quanto le norme impugnate «pongono drastiche limitazioni di capacità dove basterebbe un limite connesso all'eventuale affidamento dir etto dei compiti strumentali». 5.2. - Con un secondo motivo di ricorso, la Regione prospetta l'illegittimità costituzionale dell'art. 13, commi 1, 2 e 4, del decreto-legge n. 223 del 2006, come convertito, in quanto lesivo dell'autonomia organizzativa e finanziaria della Regione, laddove sottopone le società pubbliche o miste, costituite o partecipate dalle amministrazioni regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali, «ad un regime giuridico restrittivo e discriminatorio, rispetto alle altre società ed alle stesse società pubbliche o miste partecipate dallo Stato o da amministrazioni nazionali». Si tratta, secondo la Re gione, di una ragione di illegittimità che, al contrario della precedente, non può essere superata da un'interpretazione adeguatrice. Invero, le disposizioni impugnate discriminano, rendendola deteriore, la condizione giuridica delle società partecipate dalle Regioni e dagli enti locali rispetto alle società che, per scopi del tutto simili, sono costituite o partecipate dallo Stato o da altri enti pubblici nazionali. Argomenta la ricorrente che non solo le Regioni e gli enti locali, ma anche lo Stato ed enti pubblici nazionali hanno costituito società pubbliche o miste per l'esercizio di funzioni strumentali. Se pure nel merito fosse giustificata una disciplina restrittiva della capacità contrattuale di determinati tipi di società a partecipazione pubblica, non lo sarebbe una restrizione della capacità contrattuale ed operativa delle sole società costituite o partecipate dalle Regioni e dagli enti locali, «che vengono poste in una condizione di vera e propria minorità giuridica». Onde è evidente, prosegue la Regione, che la discriminazione cos& igrave; posta «contraddice il principio di uguaglianza e costituisce un abuso della stessa potestà legislativa statale in materia di ordinamento civilistico delle società: potestà che viene [.] esercitata non per porre una disciplina generale del fenomeno delle società a partecipazione pubblica, ma esclusivamente in danno delle società regionali e locali». 5.3. - Un terzo motivo di ricorso è incentrato sull'illegittimità costituzionale dell'art. 13, commi 1, 2 e 4, del decreto-legge n. 223 del 2006, come convertito, in quanto lesivo dell'autonomia organizzativa e finanziaria della Regione nella parte in cui vieta «indiscriminatamente alle società pubbliche o miste, costituite o partecipate dalle amministrazioni regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali, di "operare" per soggetti diversi dagli enti costituenti, partecipanti o affidanti, di svolgere "prestazioni" a favore di altri soggetti pubblici o privati, nonché di partecipare ad altre società o enti». Con riguardo al divieto di partecipare ad altre società o enti, la Regione fa rilevare che le società regionali, al pari delle società statali, operano talora attraverso altre società, il cui capitale sociale è posseduto dalle prime al cento per cento, quindi le misure contestate priverebbero irragionevolmente le società in questione di ogni flessibilità operativa e, per quanto riguarda la partecipazione ad enti, di ogni capacità di collegamento con la stessa realtà di cui debbono occuparsi. Un discorso analogo riguarda, secondo la Regione, il limite relativo all'«operare» solo con gli enti costituenti, partecipanti o affidanti e alle «prestazioni», escluse in relazione ad «altri soggetti pubblici o privati», che si risolverebbe nella violazione, oltre che dei principi di ragionevolezza e di proporzionalità, del principio di certezza del diritto. 5.4. - Uno specifico motivo riguarda l'illegittimità costituzionale dell'art. 13, comma 3, del decreto-legge n. 223 del 2006, come convertito, che impone termini per cessare le attività non consentite e sanzioni per il mancato rispetto dei divieti. Secondo la Regione, tali disposizioni sarebbero costituzionalmente illegittime, in primo luogo, in quanto presuppongono e completano l'illegittima disciplina sopra censurata. In secondo luogo, il terzo periodo, che stabilisce l'inefficacia dei contratti relativi ad attività non cedute o scorporate, sarebbe illegittimo sotto il profilo della contraddittorietà e della irragionevolezza, in relazione a quanto disposto dai due periodi precedenti. Osserva la ricorrente che le società in questione possono «transitoriamente» - per dodici mesi - continuare a svolgere le loro attività; che a tali dodici mesi seguono, in base al secondo periodo, altri diciotto mesi, durante i quali le «attività non consentite» possono essere cedute a terzi o scorporate in una diversa società da cedere sul mercato. Senonché, prosegue la difesa della Region e, quel che dispone il terzo periodo - cioè la cessazione degli effetti dei contratti relativi alle attività non cedute o scorporate nel «termine indicato nel primo periodo» (cioè alla scadenza dei primi dodici mesi) - è del tutto assurdo, poiché le attività cedute o scorporate e, corrispondentemente, quelle non cedute o scorporate, risulteranno soltanto alla fine del periodo di diciotto mesi che le Regioni e gli enti locali hanno a disposizione per provvedere alla cessione o allo scorporo. La norma, dunque, sarebbe, prima ancora che costituzionalmente illegittima, di impossibile applicazione, se non «retroattivamente». 5.5. - Un altro profilo di illegittimità costituzionale investirebbe il secondo periodo del comma 3, ove «la facoltà data alle società strumentali di cedere le attività a terzi o di scorporarle costituendo una società da collocare sul mercato dovesse intendersi come preclusiva della possibilità di cedere o scorporare tali attività in favore di altra società regionale o locale, da costituire o esistente, che operi esclusivamente sul mercato, e non rientri nel campo di applicazione dell'art. 13». In e ffetti, osserva la Regione, «l'obbligo di cedere a terzi, o sul mercato (che è composto anch'esso, ovviamente, di «terzi») beni e patrimoni che, attraverso la società, costituiscono risorse economiche e nel caso imprenditoriali delle comunità locali ne viola l'autonomia finanziaria, in contraddizione aperta con l'art. 119 Cost. e con l'art. 48 e seguenti dello statuto regionale e realizza una sorta di esproprio di attività economiche, del tutto privo di fondamento costituzionale e del tutto privo di connessioni con l'obbiettivo di tutelare la concorrenza». 5.6. - Un ulteriore, autonomo profilo di irragionevolezza dell'art. 13, comma 4, del decreto-legge n. 223 del 2006, come convertito, per le stesse ragioni di cui al punto precedente, emerge, secondo la Regione, in quanto si ritenga che la nullità dei contratti stipulati in violazione delle prescrizioni dei commi 1 e 2 colpisce tutti i contratti stipulati dalle società di cui al comma 1 che, al momento del contratto, conservino partecipazioni in altre società o enti. Osserva al riguardo la Regione che le partecipazioni non costituiscono «attività» e non rientrano, dunque, nel campo di applicazio ne del comma 3 e delle scadenze temporali ivi previste. Le partecipazioni sono, infatti, in primo luogo elementi patrimoniali, la cui cessione potrebbe essere facile o difficile, o anche giuridicamente impossibile ove non si trovasse alcun soggetto disposto ad acquistarle. D'altronde, una cosa è la nullità di contratti che direttamente si riferiscano ad attività vietate (ferme restando le censure sopra esposte su tali divieti e sulla loro formulazione); tutt'altra cosa sarebbe la nullità di contratti che si riferiscono ad attività consentite, e che nessun rapporto hanno con le ipotizzate partecipazioni in società o enti. 6. - Il ricorso della Regione Valle d'Aosta lamenta la violazione degli artt. 3 e 117 Cost., nonché dell'art. 2, comma 1, lettere a) e b), dello statuto della Regione Valle d'Aosta di cui alla legge costituzionale 26 gennaio 1948, n. 4 (Statuto regionale per la Valle d'Aosta). Osserva preliminarmente la Regione che, in virtù della «clausola di salvaguardia», contenuta nell'art. 1, comma 1-bis del decreto-legge n. 223 del 2006, come convertito, questo si applica alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e Bolzano «in conformità agli statuti speciali e alle relative norme di attuazione». Tuttavia, il tenore letterale delle disposizioni impugnate non consente di escludere con certezza la loro efficacia nei riguardi delle Regioni ad autonomia speciale, trattandosi di prescrizioni che, se riferite anche alla Regione Valle d'Aosta, presentano molteplici profili di illegittimità costituzionale. Pertanto, la possib ilità che esse vadano interpretate in senso lesivo delle attribuzioni della Regione induce a farle oggetto di impugnazione, sulla scorta della giurisprudenza della Corte, per cui il giudizio in via principale può concernere questioni sollevate sulla base di interpretazioni non implausibili prospettate dal ricorrente (sentenza n. 412 del 2004). 6.1. - Con il primo motivo di ricorso, la Regione eccepisce la violazione del principio costituzionale di ragionevolezza, sub specie di vizio di irrazionalità, nonché dell'art. 117, secondo e quarto comma, Cost., e dell'art. 2, comma 1, lettere a) e b), dello statuto speciale per la Valle d'Aosta. Secondo la Regione, «per quanto l'intervento normativo dichiari di voler perseguire la tutela della concorrenza, in realtà esso, lungi dal rimuovere elementi distorsivi del mercato o dal promuovere un ampliamento delle possibilità di accesso degli attori che vi operano, determina il ben diverso effetto di escludere dal mercato stesso una categoria di soggetti», vale a dire proprio «le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali», con i requisiti dianzi riferiti. L'effetto di limitazione della concorrenza sarebbe fatto palese, in particolare, dalla previsione in base alla quale le società di c ui s'è detto non possono svolgere prestazioni a favore di soggetti diversi dagli enti costituenti, partecipanti o affidanti, neppure a seguito dell'espletamento di una gara. Sostiene la Regione che, «poiché sono proprio le procedure di gara ad assicurare per eccellenza, e anzi ad esaltare la concorrenza tra i diversi operatori economici presenti sul mercato, l'esclusione della possibilità di competere a danno di taluno di essi - per giunta, per il mero fatto di essere costituiti o partecipati non da qualsivoglia ente pubblico, ma soltanto da enti regionali e locali - determina esattamente una forma di quella alterazione e distorsione della concorrenza e del mercato che la norma impugnata manifesta di voler evitare». Del resto, prosegue la Regione, a smentire qualunque relazione fra le disposizioni impugnate e presunte attuazioni di obblighi comunitari, è sufficiente rilevare come neppure la giurisprudenza comunitaria in tema di in house providing, particolarmente solerte nella garanzia della concorrenza, abbia mai richiesto che società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni regionali e locali «per la produzione di beni e servizi strumentali all'attività di tali enti» o «per lo svolgimento di funzioni amministrative di loro competenza», operino esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti. Né si comprende, secondo la Regione, come possa ragionevolmente perseguirsi la tutela della concorrenza imponendo i riferiti divieti esclusivamente alle società costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali, senza estendere le medesime proibizioni alle analoghe socie tà costituite o partecipate dalle amministrazioni statali. Data, dunque, la palese contraddittorietà tra il fine che l'art. 13 del decreto legge n. 223 del 2006 si propone di perseguire (la tutela della concorrenza) ed i risultati cui esso approda, la norma impugnata viene ad incidere sine titulo in un ambito di competenza normativa che risulta assegnato alla Regione Valle d'Aosta sia dalle previsioni di cui all'art. 2, comma 1, lettera a) e b), dello statuto speciale (che rimettono alla potestà legislativa regionale, rispettivamente, le materie «ordinamento degli uffici e degli enti dipendenti dalla Regione e stato giuridico ed economico del personale» e «ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni»), sia dal combinato disposto dei commi secondo e quarto dell'art. 117 Cost., a norma dei quali spetta alla potestà legislativa statale soltanto la disciplina dell'«ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato». 6.2. - Un secondo motivo di ricorso assume che le norme recate dall'art. 13 del decreto-legge n. 223 del 2006, come convertito, violino i principi di proporzionalità e di leale collaborazione e, ancora, l'art. 117, secondo e quarto comma, Cost. e l'art. 2, comma 1, lettere a) e b), dello statuto speciale della Regione Valle d'Aosta. Osserva la Regione che la legislazione statale, che invada gli ambiti di materia di pertinenza delle Regioni fondando il suo intervento sull'esigenza di porre norme in una delle materie - quale la tutela della concorrenza - finalistiche o trasversali, deve comunque rispettare requisiti ineludibili, ulteriori rispetto a quello della sua razionalità. Essa, per potersi dire legittima, deve essere «giustificata» e «proporzionata» rispetto all'obiettivo perseguito (sentenze n. 214 del 2006, n. 175 del 2005 e nn. 272 e 14 del 2004). Inoltre, la Corte ha precisato (a partire dalla sentenza n. 407 del 2002) che l'esercizio d ella potestà legislativa statale in una materia «finalistica» è subordinato all'esigenza di curare un interesse «unitario e infrazionabile». Secondo la ricorrente, l'invasione operata dalle norme contestate risulta del tutto sproporzionata rispetto alle modalità attraverso cui viene perseguita la finalità di tutela della concorrenza. La normativa statale censurata, infatti, sacrifica integralmente la competenza regionale a legiferare sulle società costituite o partecipate dalla Regione o dagli enti locali, non lasciando alcuno spazio per l'intervento regolativo della Regione. La violazione del principio di proporzionalità deriverebbe anche da quella del principio di leale collaborazione: a fronte della compressione della competenza normativa in ambiti di loro spettanza, l'intervento legislativo statale non è stato preceduto da meccanismi e procedimenti ch e mettessero le Regioni in condizione di svolgere qualche forma di partecipazione e di offrire il loro contributo all'elaborazione della disciplina statale. Ciò vale tanto più, secondo la ricorrente, con riferimento alle Regioni ad autonomia speciale. La Regione osserva poi che, a fronte del sacrificio integrale della competenza regionale, tanto poco era pressante l'«interesse unitario e infrazionabile» che il legislatore statale ha omesso di estendere i divieti previsti nell'art. 13 alle società costituite o partecipate dalle amministrazioni statali. Se davvero si fosse inteso perseguire un interesse unitario, secondo la ricorrente, i rigidi criteri di esclusione avrebbero dovuto trovare applicazione innanzitutto nei confronti delle società in cui sono coinvolte le amministrazioni dello Stato, dal momento che è proprio lo Stato l'ente territoriale che rappresenta la massima istanza unitaria. 7. - In tutti i giudizi si è costituita, per il Presidente del Consiglio dei ministri, l'Avvocatura generale dello Stato. Essa rileva, preliminarmente, che la legge di conversione n. 248 del 2006 del d.l. n. 223 del 2006 ha introdotto una serie di modifiche ad alcune disposizioni del decreto impugnate con il primo ricorso della Regione Veneto (retro, sub 1). Donde, con riguardo a tali disposizioni, la configurabilità di un'ipotesi di inammissibilità sopravvenuta o di cessazione della materia del contendere. Nel merito di tutti i ricorsi, l'Avvocatura generale dello Stato osserva che le disposizioni impugnate dalle Regioni sono finalizzate a garantire l'esercizio della libera concorrenza, talché esse rientrano nella competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela della concorrenza» (art. 117, comma secondo, lettera e, Cost.). Inoltre, la natura «trasversale» di tale competenza comporta la legittimità dell'intervento del legislatore statale anche su ambiti materiali astrattamente rientranti nella competenza legislativa regionale, sia concorrente sia residuale. Quanto alla censura delle Regioni circa il carattere puntuale e di dettaglio della disciplina contenuta nell'art. 13, l'Avvocatura generale dello Stato rileva che la disciplina contenuta nella norma impugnata attiene essenzialmente alla materia dell'ordinamento civile, pur essa rientrante nella competenza esclusiva del legislatore statale (art. 117, comma secondo, lettera l, Cost.), «siccome attinente all'attività negoziale di società operanti in regime privatistico». Per la stessa ragione, sarebbero infondate, secondo l'Avvocatura generale dello Stato, le censure delle Regioni in ordine alla disposizione che prevede la nullità dei contratti conclusi in violazione della disciplina recata dall'art. 13. Quanto al ricorso della Regione siciliana, l'Avvocatura generale dello Stato eccepisce: la genericità e, quindi, l'inammissibilità della censura circa il mancato rispetto dei criteri di proporzionalità e adeguatezza; la conformità delle disposizioni impugnate ai principi comunitari in materia di appalti in house e di aiuti di Stato; l'insussistenza della violazione della competenza legislativa esclusiva della Regione in materia di «ordinamento degli uffici e degli enti regionali», nonché di «servizi di prevalente interesse regionale» (artt. 14, lettera p, e 17, lettera i, dello statuto sici liano); l'inammissibilità delle censure attinenti alla pretesa violazione dell'art. 3, sotto il profilo del principio di uguaglianza, e dell'art. 41 Cost., attesa la costante giurisprudenza della Corte, sia anteriore alla legge costituzionale n. 3 del 2001 (sentenze nn. 373 e 126 del 1997 e n. 29 del 1995), sia posteriore (sentenza n. 274 del 2003), per cui «le Regioni sono legittimate a denunciare la violazione di norme costituzionali, non relative al riparto di competenze con lo Stato, solo quando tale violazione comporti un'incisione, diretta o indiretta, delle competenze attribuite dalla Costituzione alle Regioni stesse»; incisione che, all'evidenza, nel caso di specie non ricorrerebbe affatto. Quanto al ricorso della Regione Friuli-Venezia Giulia, l'Avvocatura generale dello Stato eccepisce: l'infondatezza delle censure fondate sulla supposta violazione della competenza legislativa regionale, esclusiva o concorrente, in materia di organizzazione della Regione e degli enti locali, di industria e di commercio; l'infondatezza o l'inammissibilità delle censure che la Regione muove alla norma statale con riferimento agli artt. 3, primo comma, e 41 Cost., nonché ai principi di ragionevolezza, proporzionalità, tutela dell'affidamento e buona fede; l'inammissibilità della censura relativa all'art. 13, comma 3, secondo periodo, del decreto-legge convertito, poiché la ricorrente, nel ritenere illegittima la facoltà delle società strumentali di cedere o scorporare le attività, fonda la censura sulla mera ipotesi interpretativa che tale previsione sia preclusiva della possibilità di cedere o scorporare tali attività in favore di altra società regionale o locale, operante esclusivamente sul mercato, senza prendere posizione sulla esattezza o meno di tale interpretazione. 8. - In prossimità dell'udienza, le Regioni ricorrenti hanno depositato memorie insistendo sui motivi del ricorso. L'Avvocatura generale dello Stato ha, a sua volta, depositato una memoria unica, ribadendo le precedenti argomentazioni. Considerato in diritto 1. - La Regione Veneto ha promosso numerose questioni di legittimità costituzionale in via principale del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale) e, tra queste, dell'art. 13 del testo originario del decreto, per violazione degli artt. 3, 97, 114, 117, 118, 119 e 120 della Costituzione. Le Regioni Veneto, siciliana, Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta, con quattro distinti ricorsi, hanno promosso numerose questioni di legittimità costituzionale in via principale del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, recante disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), e, tra queste, dell'art. 13, per violazione dei seguenti parametri costituzionali: art. 3 (tutte le ricorrenti), art. 41 (Regione siciliana e Regione Friuli-Venezia Giulia), art. 97 (Regione Veneto), art. 114 (Regione Veneto), art. 117 (Regione Veneto, Regione Friuli-Venezia Giulia, Regione Valle d'Aosta), art. 118 (Regione Veneto), art. 119 (Regione Veneto e Regione Friuli-Venezia Giulia) e art. 120 (Regione Veneto) della Costituzione, artt. 14, lettera p), e 17, lettera i), del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello Statuto regionale della Regione siciliana) (Regione siciliana), artt. 4, n. 1, n. 1-bis e n. 6, 8 e 48 e seguenti della legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1 (Statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia) (Regione Friuli-Venezia Giulia), art. 2, primo comma, lettere a) e b), della legge costituzionale 26 gennaio 1948, n. 4 (Statuto regionale per la Valle d'Aosta) (Valle d'Aosta). L'articolo censurato impone alcune limitazioni alle società partecipate da Regioni ed enti locali per lo svolgimento di funzioni amministrative o attività strumentali alle stesse. A norma del comma 1, al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori, le società a capitale interamente pubblico o misto - costituite dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all'attività di tali enti, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza - devono operare esclusivamente con gli enti costituenti ed affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti.</ P> A norma del comma 2, le predette società sono ad oggetto sociale esclusivo e non possono agire in violazione delle regole di cui al comma 1. Il comma 3 detta una disciplina transitoria, per la cessazione delle attività non consentite. Il comma 4 dispone per i contratti conclusi dopo l'entrata in vigore del decreto-legge, prevedendo la nullità dei contratti conclusi in violazione dei commi 1 e 2. 2. - Riservata a separate pronunce la decisione sulle altre disposizioni contenute nel decreto-legge n. 223 del 2006, sia nel testo originario sia in quello risultante dalle modifiche apportate in sede di conversione dalla legge n. 246 del 2006, vengono all'esame della presente pronuncia le questioni relative all'art. 13. 3. - I ricorsi pongono questioni analoghe; deve, quindi, essere disposta la riunione dei relativi giudizi ai fini di una trattazione unitaria e di un'unica decisione. 4. - Non sono ammissibili le questioni sollevate con riferimento agli artt. 114, 118, 119 e 120 Cost., perché non autonomamente argomentate, quindi generiche. 5. - Non sono ammissibili neanche le questioni sollevate con riferimento ai soli artt. 3 e 41 Cost. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, anche successiva alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), non sono ammissibili le censure prospettate dalle Regioni rispetto a parametri costituzionali diversi dalle norme che operano il riparto di competenze con lo Stato, qualora queste non si risolvano in lesioni delle competenze regionali stabilite dalla Costituzione (sentenze n. 190 del 2008 e, con particolare riferimento all'art. 41 Cost., n. 272 del 2005). 6. - Le censure sollevate dalla Regione Veneto con il ricorso n. 96 del 2006, proposto prima della conversione del decreto-legge, devono intendersi assorbite in quelle, di identico tenore, sollevate con il ricorso n. 103 del 2006. 7. - Successivamente alla proposizione dei ricorsi, i commi 3 e 4 dell'articolo impugnato sono stati modificati dall'art. 1, comma 720, della legge 27 dicembre 2006, n. 296. Le relative modifiche, pur incidendo sui termini di alcune delle censure formulate dalle ricorrenti, non sono tali da determinare la cessazione della materia del contendere. 8. - Le ulteriori questioni, sollevate dalle Regioni in ordine ad altri parametri costituzionali, non sono fondate. 8.1. - Dette questioni riguardano la lesione, da parte delle disposizioni impugnate, della potestà legislativa regionale in materia di organizzazione degli uffici regionali e degli enti locali, fondata sull'art. 117 Cost. e, per quanto riguarda le Regioni siciliana, Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta, sulle norme degli statuti speciali (artt. 14, lettera p) e 17, lettera i), del regio decreto legislativo n. 455 del 1946; artt. 4, n. 1, n. 1-bis e n. 6, 8 e 48 e seguenti, della legge costituzionale n. 1 del 1963; art. 2, comma 1, lettere a) e b), della legge costituzionale n. 4 del 1948). Il parametro costituzionale e le norme statutarie comprendono l'organizzazione dei servizi regionali e i rapporti tra le Regioni e le società, attraverso le quali le Regioni stesse svolgono le loro funzioni. A norma dell'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, le disposizioni della stessa legge costituzionale, che prevedono forme di autonomia più ampie rispetto a quelle già attribuite, si applicano anche alle Regioni a statuto speciale. Ora, mentre la potestà legislativa regionale disciplinata dall'art. 117, quarto comma, è sottoposta solo ai limiti dettati dal primo comma dello stesso articolo, la potestà legislativa delle Regioni a statuto speciale in materia di organizzazione delle società dipendenti, esercenti l'i ndustria o i servizi, deve sottostare agli ulteriori e più severi limiti derivanti dagli artt. 14 e 17 dello statuto della Regione siciliana (rispettivamente, riforme agrarie e industriali deliberate dalla Costituente e principi e interessi generali cui si informa la legislazione dello Stato), dall'art. 4 dello statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia (principi generali dell'ordinamento giuridico della Repubblica, norme fondamentali delle riforme economico-sociali, interessi nazionali e delle altre regioni) e dall'art. 2 dello statuto della Regione Valle d'Aosta (principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica, interessi nazionali, norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica). Di conseguenza, si può fare esclusivo riferimento all'art. 117 Cost., in quanto la potestà legislativa da esso conferita assicura una autonomia più ampia di quella prevista dagli statuti speciali. La questione può dunque essere affrontata in termini unitari. 8.2. - Va premesso che non è idonea a escludere un'eventuale lesione della potestà legislativa regionale la previsione contenuta nell'art. 1, comma 1-bis, del decreto-legge n. 223, in base alla quale «le disposizioni di cui al presente decreto si applicano alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano in conformità agli statuti speciali e alle relative norme di attuazione». Secondo la giurisprudenza di questa Corte, simili clausole, formulate in termini generici, non hanno l'effetto di escludere una lesione della potestà legislativa regionale (sentenze nn. 165 e 1 62 del 2007 e nn. 234, 118 e 88 del 2006). 8.3. - Le disposizioni impugnate definiscono il proprio ambito di applicazione non secondo il titolo giuridico in base al quale le società operano, ma in relazione all'oggetto sociale di queste ultime. Tali disposizioni sono fondate sulla distinzione tra attività amministrativa in forma privatistica e attività d'impresa di enti pubblici. L'una e l'altra possono essere svolte attraverso società di capitali, ma le condizioni di svolgimento sono diverse. Nel primo caso vi è attività amministrativa, di natura finale o strumentale, posta in essere da società di capitali che operano per conto di una pubblica amministrazione. Nel secondo caso, vi è erogazione di servizi rivolta al pubblico (consumatori o utenti), in regime di concorrenza. Le disposizioni impugnate mirano a separare le due sfere di attività per evitare che un soggetto, che svolge attività amministrativa, eserciti allo stesso tempo attività d'impresa, beneficiando dei privilegi dei quali esso può godere in quanto pubblica amministrazione. Non è negata né limitata la libertà di iniziativa economica degli enti territoriali, ma è imposto loro di esercitarla distintamente dalle proprie funzioni amministrative, rimediando a una frequente commistione, che il legislatore statale ha reputato distorsiva della concorrenza. Ciò premesso, occorre valutare sia l'oggetto della disciplina, sia la sua finalità. 8.4. - Dal primo punto di vista, le disposizioni in esame riguardano l'attività di società partecipate dalle Regioni e dagli enti locali. Si tratta di un oggetto che può rientrare nella materia dell'organizzazione amministrativa, di competenza legislativa regionale, o, al pari delle previsioni in materia di contratti, pure contenute nell'articolo impugnato, nella materia dell'«ordinamento civile», di competenza legislativa esclusiva dello Stato. L'ambito di tale ultima materia è stato precisato da questa Corte. Essa ha affermato che la potestà legislativa dello Stato comprende gli aspetti che ineriscono a rapporti di natura privatistica, per i quali sussista un'esigenza di uniformità a livello nazionale; che essa non è esclusa dalla presenza di aspetti di specialità rispetto alle previsioni codicistiche; che essa comprende la disciplina delle persone giuridiche di diritto privato; che in essa sono inclusi istituti caratterizzati da elementi di matrice pubblicistica, ma che conservano natura privatistica (sentenze nn. 159 e 51 del 2008, nn. 438 e 401 del 2007 e n. 29 del 2006). La disciplina censurata non rientra nella materia dell'organizzazione amministrativa perché non è rivolta a regolare una forma di svolgimento dell'attività amministrativa. Essa rientra, invece, nella materia - definita prevalentemente in base all'oggetto - «ordinamento civile», perché mira a definire il regime giuridico di soggetti di diritto privato e a tracciare il confine tra attività amministrativa e attività di persone giuridiche private. 8.5. - Dal secondo punto di vista, le disposizioni impugnate hanno il dichiarato scopo di tutelare la concorrenza. Questa Corte ha così delimitato la «tutela della concorrenza»: la titolarità della relativa potestà legislativa consente allo Stato di adottare misure di garanzia del mantenimento di mercati già concorrenziali e misure di liberalizzazione dei mercati stessi; queste misure possono anche essere volte a evitare che un operatore estenda la propria posizione dominante in altri mercati; l'intervento statale può consistere nell'emanazione di una disciplina analitica, la quale può influire su materie attribuite alla competenza legislativa delle Regioni; spetta alla Corte effettuare un rigoroso scrutinio delle relative norme statali, volto ad accertare se l'intervento normativo sia coerente con i principi della concorr enza, e se esso sia proporzionato rispetto a questo fine (sentenze nn. 63 e 51 del 2008 e nn. 421, 401, 303 e 38 del 2007). L'obiettivo delle disposizioni impugnate è quello di evitare che soggetti dotati di privilegi operino in mercati concorrenziali. Dunque, la disciplina delle società con partecipazione pubblica dettata dalla norma statale è rivolta ad impedire che dette società costituiscano fattori di distorsione della concorrenza. Essa rientra, quindi, nella materia - definita prevalentemente in base al fine - della «tutela della concorrenza». 8.6. - Si può riassuntivamente affermare che le disposizioni impugnate sono riconducibili alla competenza legislativa esclusiva in materia di ordinamento civile, in quanto volte a definire i confini tra l'attività amministrativa e l'attività d'impresa, soggetta alle regole del mercato, e alla competenza legislativa esclusiva in materia di tutela della concorrenza, in quanto volte a eliminare distorsioni della concorrenza stessa. 8.7. - Ai fini della riconducibilità della disciplina contestata alla tutela della concorrenza, resta da valutare, indipendentemente da valutazioni di merito sul suo contenuto, la proporzionalità di tale disciplina e, quindi, la sua idoneità a perseguire finalità inerenti alla tutela della concorrenza (sentenze nn. 452 e 401 del 2007). Questo scrutinio va operato distintamente per le varie previsioni dell'articolo impugnato. Vengono in considerazione, in primo luogo, quelle che impediscono alle società in questione di operare per soggetti diversi dagli enti territoriali soci o affidanti, imponendo di fatto una separazione societaria, e obbligandole ad avere un oggetto sociale esclusivo. Esse mirano ad assicurare la parità nella competizione, che potrebbe essere alterata dall'accesso di soggetti con posizioni di privilegio in determinati mercati. Da questo punto di vista, esse non appaiono irragionevoli, né sproporzionate rispetto alle esigenze indicate. Va valutato, in secondo luogo, il divieto di detenere partecipazioni in altre società o enti. Esso è complementare rispetto alle altre disposizioni considerate. É volto, infatti, a evitare che le società in questione svolgano indirettamente, attraverso proprie partecipazioni o articolazioni, le attività loro precluse. La disposizione impugnata vieta loro non di detenere qualsiasi partecipazione o di aderire a qualsiasi ente, ma solo di detenere partecipazioni in società o enti che operino in settori preclusi alle società stesse. Intesa in questi termini, la norma appare proporzionata rispetto al fine di tutela della concorrenza. Infine, le ulteriori disposizioni, che dettano una disciplina transitoria e dispongono in ordine ai contratti conclusi successivamente all'entrata in vigore del decreto-legge, costituiscono sanzione e complemento delle disposizioni finora considerate e, a loro volta, regolano non irragionevolmente la fase di adeguamento alla nuova disciplina da parte delle società destinatarie di essa. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, 1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, recante «Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale», convertito, con modif icazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, sollevata dalle Regioni Veneto, siciliana, Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta in riferimento all'art. 3 della Costituzione, con i ricorsi in epigrafe; 2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale della stessa norma sollevata dalle Regioni siciliana e Friuli-Venezia Giulia, in riferimento all'art. 41 Cost., con i ricorsi in epigrafe; 3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale della stessa norma sollevata dalle Regioni Veneto e Friuli-Venezia Giulia, in riferimento all'art. 119 Cost., con i ricorsi in epigrafe; 4) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale della stessa norma sollevata dalla Regione Veneto, in riferimento agli artt. 114, 118 e 120 Cost., con i ricorsi in epigrafe; 5) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 13 del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, recante «Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223, sollevata dalle Regioni Veneto, siciliana, Friuli-Venezia Giulia e Valle d'Aosta, con i ricorsi in epigrafe, con riferimento all'art. 117 Cost.; agli artt. 14, let tera p), e 17, lettera i), dello statuto della Regione siciliana; agli artt. 4, n. 1, n. 1-bis e n. 6, 8 e 48 e seguenti dello statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia; e all'art. 2, comma 1, lettere a) e b), dello statuto della Regione Valle d'Aosta. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Sabino CASSESE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'1 agosto 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 434 del codice penale, promossi con n. 2 ordinanze del 12 dicembre 2006 dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere nei procedimenti penali a carico di R. E. e C. F. ed altri, iscritte ai nn. 453 e 658 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 24 e 38, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 25 giugno 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick. Ritenuto in fatto 1.1. - Con le due ordinanze indicate in epigrafe, di analogo tenore, il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha sollevato, in riferimento agli artt. 25, secondo comma, 24 e 27 della Costituzione - parametri, gli ultimi due, evocati solo in motivazione - questione di legittimità costituzionale dell'art. 434 del codice penale, nella parte in cui punisce chiunque, «fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti, commette un fatto diretto a cagionare [.] un altro disastro, [.] se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità». Il giudice a quo premette di essere investito del processo penale nei confronti di persone imputate, tra l'altro, del reato previsto dalla norma censurata, per avere causato dolosamente un «disastro ambientale» in un'ampia zona territoriale, utilizzando - nella gestione di un traffico illecito di rifiuti - numerosi terreni agricoli come discariche abusive di un'imponente massa di rifiuti pericolosi, «estremamente inquinanti il terreno e l'ecosistema». Ad avviso del rimettente, l'art. 434 cod. pen., nella parte in cui contempla la figura delittuosa del cosiddetto disastro innominato, violerebbe il principio di tassatività della fattispecie incriminatrice, ricompreso nella riserva assoluta di legge, sancita dall'art. 25, secondo comma, Cost., in materia penale. Al riguardo, il giudice a quo rileva preliminarmente come, alla luce della giurisprudenza di questa Corte, il principio di tassatività soddisfi plurime e connesse istanze: quella di circoscrivere «il ruolo creativo dell'interprete», in omaggio al principio della divisione dei poteri, scongiurando la transizione dallo «Stato delle leggi» allo «Stato dei giudici»; quella di presidiare la libertà e la sicurezza del cittadino, il quale può conoscere, in ogni momento, cosa gli è lecito e cosa gli è vietato soltanto alla stregua di leggi precise e chiare, contenenti direttive riconoscibili di comportamento. In tale prospettiva, l'inosservanza, da parte del legislatore, dell'onere di chiarezza nella formulazione del precetto penale verrebbe a ripercuotersi anche su ulteriori principi costituzionali: in particolare, sul principio di colpevolezza, insito nella previsione dell'art. 27, primo comma, Cost., rendendo scusabile l'ignoranza del cittadino e precludendo quel «rimprovero» in cui tale principio consiste; sul diritto di difesa, consacrato dall'art. 24 Cost.; e, ancora, sulla finalità di prevenzione generale, di cui la pena partecipa nella fase della comminatoria astratta: giacché un precetto oscuro, non consentendo al destinatario la comprensione del comportamento vietato, non potrebbe «funzionare» né in senso dissuasivo, né in senso ripristinatori o del valore presidiato. Nella specie, l'analisi testuale e l'esame della giurisprudenza e della dottrina formatesi sulla disposizione impugnata farebbero ritenere quest'ultima non rispettosa del principio di «tassatività-precisione», dianzi ricostruito, e dunque lesiva degli artt. 25, secondo comma, 24 e 27 Cost. L'art. 434 cod. pen. punisce, infatti, con la reclusione da uno a cinque anni «chiunque, fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti, commette un fatto diretto a cagionare il crollo di una costruzione o di una parte di essa ovvero un altro disastro [.], se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità»; prevedendo, altresì, una maggiore pena - la reclusione da tre a dodici anni - «se il crollo o il disastro avviene». Tale precetto penale - che ricalca lo schema delle fattispecie cosiddette «causalmente orientate» - non porrebbe, secondo il rimettente, «particolari problemi di comprensione» nella parte relativa al «crollo»: trattandosi di nozione corrispondente a dati naturalistici di esperienza comune, agevolmente identificabili nei fenomeni di disintegrazione delle strutture essenziali di una costruzione. Il medesimo precetto rivelerebbe, al contrario, una «insufficiente [.] capacità informativa» nella parte in cui incrimina chi compia atti diretti a cagionare, o effettivamente cagioni, un «altro disastro»: giacché, per tale parte, la norma incriminatrice - oltre a non descrivere la condotta - non determinerebbe in modo adeguato né l'«evento intermedio» che la condot ta stessa deve essere obiettivamente diretta a cagionare (il «disastro»); né gli ulteriori eventi di pericolo (il «pericolo per la pubblica incolumità») o di danno (la verificazione del «disastro») che perfezionano il delitto o lo aggravano. 1.2. - In proposito, non gioverebbe obiettare che tanto la nozione di «disastro», quanto quella di «pericolo per la pubblica incolumità» hanno trovato «concretizzazione» negli indirizzi interpretativi formatisi con riguardo a norme incriminatrici che utilizzano formule identiche o similari (quali, in specie, quelle degli articoli da 427 a 433 del codice penale). Nei delitti previsti da tali norme, difatti, le formule in questione identificherebbero una particolare dimensione e gravità degli effetti prodotti da una condotta umana adeguatamente descritta, ovvero gli esiti di una «situazione tipica» che evoca nozion i di comune esperienza (rottura di dighe, valanga, frana; naufragio o caduta di aeromobile; attentati ad impianti di energia elettrica, del gas o delle pubbliche comunicazioni, e così via dicendo). Ben diversa risulterebbe, invece, la valenza delle formule in questione nella cornice della fattispecie incriminatrice del «disastro innominato»: fattispecie in rapporto alla quale difetterebbe qualsiasi delimitazione della condotta, dell'evento primario e del settore della vita sociale in cui si colloca il fatto incriminato. È ben vero - prosegue il giudice a quo - che la verifica della determinatezza non va compiuta con una analisi «atomistica» dei singoli elementi della fattispecie; e che gli elementi descrittivi a carattere «elastico» - impiegati dal legislatore nella descrizione del fatto incriminato - vanno raccordati con gli altri elementi costitutivi del reato e con l'ambito di disciplina in cui la fattispecie si inserisce. Nella specie, tuttavia, le formule elastiche censurate esaurirebbero l'intera descrizione del fatto tipico; nessun ausilio interpretativo potrebbe venire dalle figure criminose comprese nello stesso titolo del codice penale: figure delle quali, anzi, il delitto di «disastro innominato» - con la clausola di sussidiariet&a grave; che lo introduce («fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti») - presuppone l'inapplicabilità. D'altra parte, la stessa fattispecie del crollo di costruzioni, anch'essa prevista dall'art. 434 cod. pen., verrebbe costantemente - e, secondo il rimettente, condivisibilmente - interpretata come ipotesi eterogenea rispetto al «disastro innominato». Un contributo alla intelligibilità del precetto da parte del cittadino e alla limitazione della discrezionalità del giudice non verrebbe neppure dal riferimento alla voluntas legis, quale risulta dalle indicazioni contenute nella relazione ministeriale al progetto del codice penale: indicazioni alla stregua delle quali la disposizione denunciata, nella parte concernente gli «altri disastri», sarebbe diretta a colmare ogni eventuale lacuna che, in conseguenza della continua evoluzione tecnica, possa presentarsi nel sistema dei delitti contro la pubblica incolumità. Tale voluntas dimostrerebbe, difatti, unicamente che il legislato re del 1930 - nel conflitto fra le esigenze di integrale penalizzazione e le istanze della certezza del diritto e del contenimento dell'arbitrio giudiziale - ha riconosciuto come prevalenti le prime. Il dubbio di costituzionalità non potrebbe essere superato neanche facendo leva sul «diritto vivente»: giacché le pronunce della giurisprudenza di legittimità sulla figura delittuosa de qua risulterebbero esigue, risalenti nel tempo, e talora riferite a fattispecie che avrebbero potuto essere più opportunamente inquadrate - secondo il rimettente - sotto diverse e più specifiche previsioni punitive. Non sarebbe possibile, pertanto, far ricorso ad argomenti analoghi a quelli che hanno consentito a questa Corte di escludere la carenza di tassatività dei reati di «attività sediziosa» e di «manifestazioni e grida sediziose», delineati dagli artt. 182 e 183 del codice penale militare di pace : fattispecie rispetto alle quali una giurisprudenza consolidata aveva identificato le condizioni necessarie per qualificare come «sediziose» le condotte incriminate (sentenza n. 519 del 2000). L'ipotesi in esame risulterebbe assimilabile, piuttosto, al delitto di «plagio», relativamente al quale questa Corte ha considerato indice del difetto di tassatività la circostanza che la norma incriminatrice avesse trovato, in cinquanta anni di vigenza del codice penale, un'unica e assai controversa applicazione (sentenza n. 96 del 1981). 2. - In entrambi i giudizi di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata. Ad avviso della difesa erariale, l'art. 434 cod. pen. sarebbe suscettibile di differenti interpretazioni, «costituzionalmente orientate», idonee ad assicurare il rispetto del principio di tassatività della fattispecie incriminatrice. In particolare, la locuzione «altro disastro» postulerebbe un fatto omogeneo alle altre condotte riconducibili alla fattispecie del disastro: lettura, questa, che consentirebbe di assegnare alla norma censurata, sulla base di una interpretazione sistematica, significati compatibili con il predetto principio. Considera to in diritto 1. - Il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere dubita della legittimità costituzionale dell'art. 434 del codice penale, nella parte in cui punisce chiunque, «fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti, commette un fatto diretto a cagionare [.] un altro disastro, [.] se dal fatto deriva pericolo per la pubblica incolumità»: ossia nella parte in cui punisce il cosiddetto disastro innominato. A parere del rimettente, la norma censurata violerebbe il principio di tassatività della fattispecie penale - insito nella riserva di legge sancita dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione - e, di riflesso, anche il diritto di difesa (art. 24 Cost.), il principio di colpevolezza e la finalità di prevenzione generale, propria della pena nella fase della comminatoria astratta (art. 27 Cost.). La norma in questione, difatti - oltre a non descrivere la condotta incriminata, stante la configurazione del reato de quo come fattispecie «causalmente orientata» - non determinerebbe in modo adeguato né l'«evento intermedio» che la condotta stessa deve essere obiettivamente diretta a cagionare (il «disastro»); n&eacut e; gli ulteriori eventi di pericolo (il «pericolo per la pubblica incolumità») o di danno (la verificazione del «disastro») che perfezionano il delitto o che, ai sensi del secondo comma dell'art. 434 cod. pen., lo aggravano. La rilevata carenza di determinatezza non potrebbe essere colmata, d'altro canto, facendo riferimento alle altre norme, comprese nel capo I del titolo VI del libro II del codice penale, in cui compaiono le medesime formule («disastro» e «pericolo per la pubblica incolumità»): trattandosi di disposizioni delle quali la norma impugnata - con la clausola di sussidiarietà che la introduce («fuori dei casi preveduti dagli articoli precedenti») - presuppone l'inapplicabilità. Analogamente, non gioverebbe far leva sull'ipotesi del crollo di costruzioni - congiuntamente punita dallo stesso art. 434 cod. pen. - trattandosi di fattispecie che, per costante interpretazione, deve ritenersi eterogenea rispetto al disastro innominato. Nessun ausilio potrebbe provenire, ancora, dalla finalità dell'incriminazione: quella, cioè, di colmare le eventuali lacune che si manifestassero, in conseguenza del progresso tecnico, nell'ambito dei delitti contro la pubblica incolumità. Tale finalità dimostrerebbe soltanto che il legislatore ha ritenuto prevalenti le esigenze di integrale penalizzazione, rispetto a quelle di certezza del diritto e di contenimento dell'arbitrio giudiziale. Né, infine, un ausilio potrebbe provenire da un eventuale «diritto vivente»: avendo la previsione punitiva conosciuto - secondo il rimettente - solo sporadiche, remote e discutibili applicazioni giurisprudenziali. 2. - Le due ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione. 3. - La questione non è fondata. 4. - Per costante giurisprudenza di questa Corte, la verifica del rispetto del principio di determinatezza della norma penale va condotta non già valutando isolatamente il singolo elemento descrittivo dell'illecito, ma raccordandolo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa si inserisce. In particolare, «l'inclusione nella formula descrittiva dell'illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero [.] di clausole generali o concetti "elastici", non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice - avuto riguardo alle finalità perseguite dall'incriminazione ed al pi&ugrav e; ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca - di stabilire il significato di tale elemento mediante un'operazione interpretativa non esorbitante dall'ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo» (sentenza n. 5 del 2004; in senso analogo, ex plurimis, sentenze n. 34 del 1995, n. 122 del 1993, n. 247 del 1989; ordinanze n. 395 del 2005, n. 302 e n. 80 del 2004). In tal modo, risultano soddisfatti i due obiettivi fondamentali sottesi al principio di determinatezza: obiettivi consistenti - come lo stesso rimettente ricorda - per un verso, nell'evitare che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri e con la riserva assoluta di legge in materia penale, il giudice assuma un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e l'illecito; e, per un altro verso, nel garantire la libera autodeterminazione individuale, permettendo al destinatario della norma penale di apprezzare a priori le conseguenze giuridico-penali della propria condotta (a quest'ultimo riguardo, si vedano le sentenze n. 185 del 1992 e n. 364 del 1988). 5. - Nell'ipotesi oggetto dell'odierno scrutinio, è ben vero che il concetto di «disastro» - su cui gravita, nella cornice di una fattispecie a forma libera o causalmente orientata, la descrizione del fatto represso dall'art. 434 cod. pen. - si presenta, di per sé, scarsamente definito: traducendosi in una espressione sommaria capace di assumere, nel linguaggio comune, una gamma di significati ampiamente diversificati. Contrariamente a quanto assume il rimettente, tuttavia, a precisare la valenza del vocabolo - riconducendo la previsione punitiva nei limiti di compatibilità con il precetto costituzionale evocato - concorrono la finalità dell'incriminazione e la sua collocazione nel sistema dei delitti contro la pubblica incolumità. L'art. 434 cod. pen., nella parte in cui punisce il disastro innominato, assolve difatti - pacificamente - ad una funzione di "chiusura" del predetto sistema. La norma mira «a colmare ogni eventuale lacuna, che di fronte alla multiforme varietà dei fatti possa presentarsi nelle norme [.] concernenti la tutela della pubblica incolumità»; e ciò anche e soprattutto in correlazione all'incessante progresso tecnologico, che fa continuamente affiorare nuove fonti di rischio e, con esse, ulteriori e non preventivabili modalità di aggressione del bene protetto (in questo senso, la relazione del Ministro guardasigilli al progetto definitivo del codice penale). D'altra parte, alla stregua di un criterio interpretativo la cui validità appare di immediata evidenza, allorché il legislatore - nel descrivere una certa fattispecie criminosa - fa seguire alla elencazione di una serie di casi specifici una formula di chiusura, recante un concetto di genere qualificato dall'aggettivo «altro» (nella specie: «altro disastro»), deve presumersi che il senso di detto concetto - spesso in sé alquanto indeterminato - sia destinato a ricevere luce dalle species preliminarmente enumerate, le cui connotazioni di fondo debbono potersi rinvenire anche come tratti distintivi del genus. Entrambi i criteri ora indicati convergono, dunque, nel senso che l'«altro disastro», cui fa riferimento l'art. 434 cod. pen., è un accadimento sì diverso, ma comunque omogeneo, sul piano delle caratteristiche strutturali, rispetto ai «disastri» contemplati negli altri articoli compresi nel capo relativo ai «delitti di comune pericolo mediante violenza»: conclusione, questa, confortata anch'essa dai lavori preparatori del codice. 6. - La conclusione ora prospettata (necessaria omogeneità tra disastro innominato e disastri tipici) non basterebbe peraltro ancora a consentire il superamento del dubbio di costituzionalità. Rimane infatti da acclarare se, dal complesso delle norme che incriminano i «disastri» tipici, sia concretamente possibile ricavare dei tratti distintivi comuni che illuminino e circoscrivano la valenza del concetto di genere «disastro» (con riferimento alla similare esigenza posta, in via generale, dalle fattispecie criminose cosiddette ad analogia esplicita - quelle, cioè, che, dopo aver indicato una serie di casi specifici, recano espressioni del tipo «e altri simili», «e altri analoghi» - si veda la sentenza n. 120 del 1963). Al riguardo, si è evidenziato in dottrina come - al di là delle caratteristiche particolari delle singole figure (inondazione, frana, valanga, disastro aviatorio, disastro ferroviario, ecc.) - l'analisi d'insieme dei delitti compresi nel capo I del titolo VI consenta, in effetti, di delineare una nozione unitaria di «disastro», i cui tratti qualificanti si apprezzano sotto un duplice e concorrente profilo. Da un lato, sul piano dimensionale, si deve essere al cospetto di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi. Dall'altro lato, sul piano della proiezione offensiva, l'evento deve provocare - in accordo con l'oggettività giuridica delle fattispecie cr iminose in questione (la «pubblica incolumità») - un pericolo per la vita o per l'integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta anche l'effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti. Tale nozione - avvalorata una volta ancora dai lavori preparatori del codice (e, segnatamente, dalla relazione ministeriale al progetto definitivo, nella parte illustrativa del «disastro ferroviario», di cui all'attuale art. 430 cod. pen.) - corrisponde sostanzialmente alla nozione di disastro accolta dalla giurisprudenza di legittimità, con un indirizzo che - contrariamente a quanto sostiene il rimettente - appare apprezzabile, ai presenti fini, in termini di «diritto vivente». Pronunciandosi, infatti, non soltanto sul delitto di disastro innominato doloso, di cui all'art. 434 cod. pen., e sulla corrispondente ipotesi colposa, di cui all'art. 449 cod. pen. (figure in ordine alle quali si registrano plurime recenti pronunce della Corte di cassazione), ma anche sugli al tri delitti del capo I del titolo VI rispetto ai quali viene in rilievo il sostantivo in questione, la giurisprudenza ha da tempo enucleato - senza oscillazioni significative rispetto a quanto qui rileva - un concetto di «disastro» che fa perno, per l'appunto, sui due tratti distintivi (dimensionale e offensivo) in precedenza indicati. Al riguardo, è opportuno rilevare come l'esistenza di interpretazioni giurisprudenziali costanti non valga, di per sé, a colmare l'eventuale originaria carenza di precisione del precetto penale. Sostenere il contrario significherebbe, difatti, "tradire" entrambe le funzioni del principio di determinatezza. La prima funzione - cioè quella di garantire la concentrazione nel potere legislativo della produzione della regula iuris - verrebbe meno giacché, nell'ipotesi considerata, la regula verrebbe creata, in misura più o meno ampia, dai giudici. La seconda funzione - cioè quella di assicurare al destinatario del precetto penale la conoscenza preventiva di ciò che è lecito e di ciò che è vietato - non sarebbe rispettata perché tale garanzia deve sussistere sin dalla prima fase di applicazione della norma, e non già solo nel momento (che può essere anche di molto successivo) in cui si è consolidata in giurisprudenza una certa interpretazione, peraltro sempre suscettibile di mutamenti. Ciò non esclude, tuttavia, che l'esistenza di un indirizzo giurisprudenziale costante possa assurgere ad elemento di conferma della possibilità di identificare, sulla scorta d'un ordinario percorso ermeneutico, la più puntuale valenza di un'espressione normativa in sé ambigua, generica o polisensa. Ed è in questa prospettiva che va letto, per l'appunto, il precedente richiamo alla corrente nozione giurisprudenziale di «disastro». 7. - Con riguardo, poi, all'ulteriore concetto sul quale si appuntano i dubbi di costituzionalità del giudice a quo, si deve rilevare come, nell'ipotesi descritta dall'art. 434 cod. pen., il «pericolo per la pubblica incolumità» - implicito, per quanto osservato dianzi, rispetto alla fattispecie di evento contemplata dal secondo comma (verificazione del «disastro») - risulti espressamente richiesto anche in rapporto al delitto di attentato previsto dal primo comma (compimento di fatti diretti a cagionare un disastro). Diversamente da quanto assume il rimettente, peraltro, la predetta espressione - nella quale si compendia il momento dell'offesa all'interesse protetto - non può ritenersi priva di un senso sufficientemente definito (salvi, naturalmente, i problemi interpretativi connessi alla verifica dell'elemento in questione nella concretezza delle singole fattispecie). Per opinione praticamente unanime, e conformemente alle indicazioni della relazione ministeriale, il concetto di «incolumità» deve essere difatti inteso - agli effetti del titolo VI del libro II del codice penale - «nel suo preciso significato filologico, ossia come un bene, che riguarda la vita e l'integrità fisica delle persone» (da ritenere naturalmente comprensiva anche della salute). Il «pericolo per la pubblica incolumità» viene cioè a designare - come già anticipato - la messa a repentaglio di un numero non preventivamente individuabile di persone, in correlazione alla capacità diffusiva propria degli effetti dannosi dell'evento qualificabile come «disastro». 8. - L'accertata insussistenza del denunciato vulnus al principio di determinatezza travolge automaticamente le ulteriori censure relative al diritto di difesa (art. 24 Cost.), al principio di colpevolezza e alla finalità di prevenzione speciale della pena (art. 27 Cost.): trattandosi di censure che il rimettente prospetta come meramente conseguenziali alla lesione dell'art. 25, secondo comma, Cost., e dunque prive di autonomia. 9. - Ferma restando la conclusione raggiunta, è tuttavia auspicabile che talune delle fattispecie attualmente ricondotte, con soluzioni interpretative non sempre scevre da profili problematici, al paradigma punitivo del disastro innominato - e tra esse, segnatamente, l'ipotesi del cosiddetto disastro ambientale, che viene in discussione nei giudizi a quibus - formino oggetto di autonoma considerazione da parte del legislatore penale, anche nell'ottica dell'accresciuta attenzione alla tutela ambientale ed a quella dell'integrità fisica e della salute, nella cornice di più specifiche figure criminose. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 434 del codice penale, sollevate, in riferimento agli artt. 24, 25, secondo comma, e 27 della Costituzione, dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giovanni Maria FLICK, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'1 agosto 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 16, comma 2, del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 166 (Norme in materia di concorso notarile, pratica e tirocinio professionale, nonché in materia di coadiutori notarili in attuazione dell'articolo 7, comma 1, della legge 28 novembre 2005, n. 246), promossi dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sui ricorsi proposti da A. B. e da M. D. B. contro il Ministero della giustizia ed altri, con n. 2 ordinanze del 21 febbraio 2008 iscritte ai nn. 121 e 122 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visti gli atti di costituzione di A. B. e di M. D. B. nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica dell'8 luglio 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante; uditi gli avvocati Mario Sanino per A. B., Mario Sanino e Federico Sorrentino per M. D. B. e l'avvocato dello Stato Maria Gabriella Mangia per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.- Nel corso di un giudizio amministrativo promosso da un aspirante notaio contro il provvedimento che lo aveva escluso dalla partecipazione alle prove orali del relativo concorso, il Tribunale amministrativo regionale del Lazio - con ordinanza del 21 febbraio 2008 - ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 16, comma 2, del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 166 (Norme in materia di concorso notarile, pratica e tirocinio professionale, nonché in materia di coadiutori notarili in attuazione dell'articolo 7, comma 1, della legge 28 novembre 2005, n. 246), nella parte in cui prevede che le disposizioni dell'art. 11 dello stesso decreto «si applicano con decorrenza dalla data di emanazione del prossimo bando di concor so per la nomina a notaio». Espone il giudice a quo, per quanto interessa in questa sede, che il ricorrente, candidato nel concorso a duecento posti di notaio bandito con decreto del 1° settembre 2004, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 7 settembre 2004, ammesso a sostenere le prove scritte, è stato escluso da quelle orali, avendo riportato un punteggio complessivo pari a 96, di cui 30 nella prima prova e 33 nella seconda e nella terza. Con l'entrata in vigore del d.lgs. n. 166 del 2006, il legislatore ha stabilito una profonda innovazione nel sistema di valutazione dei candidati al concorso notarile, fra l'altro, introducendo espressamente l'obbligo di motivazione in caso di mancata ammissione agli orali. In proposito, il TAR precisa che la previgente legislazione - e, più specificamente, l'art. 24 del r.d. 14 novembre 1926, n. 1953 - prevedeva che il candidato, per essere ammesso agli orali, dovesse ottenere una votazione complessiva pari a non meno di 105, con non meno di 30 in ciascuna prova. Tale sistema dava corpo alla figura dei cosiddetti novantisti, ossia quei candidati che - come il ricorrente - pur avendo ottenuto il punteggio minimo di trenta in ciascuna prova, si vedevano ugualmente esclusi dalla partecipazione alle prove orali in conseguenza del mancato raggiungimento della votazione complessiva m inima di 105. Con riguardo alla suddetta normativa, la giurisprudenza amministrativa - dalla quale il giudice a quo dichiara espressamente di non volersi discostare - è ferma nel ritenere che la commissione esaminatrice non sia tenuta ad alcun obbligo di motivazione, neppure in relazione ai candidati novantisti. La situazione, però, prosegue il remittente, è radicalmente cambiata con il menzionato d.lgs. n. 166 del 2006, il quale - all'art. 11, comma 3, - dispone che la commissione possa attribuire soltanto un giudizio di idoneità o di non idoneità: nel primo caso, ciò comporta l'attribuzione automatica della votazione minima di 35 in ciascuna prova (senza alcun obbligo ulteriore di motivazione) mentre nel secondo la commissione è tenuta a motivare la valutazione di non idoneità. In merito a tale innovazione legislativa, il giudice a quo rileva che, ai sensi del censurato art. 16, comma 2, del d.lgs. n. 166 del 2006, le disposizioni del menzionato art. 11 - e, quindi, i nuovi criteri di valutazione dei candidati - si applicano «con decorrenza dalla data di emanazione del prossimo bando di concorso per la nomina a notaio». Conseguentemente, anche nel caso in cui - come nella specie è avvenuto - la correzione delle prove scritte si sia svolta dopo l'emanazione del bando di concorso successivo all'entrata in vigore del menzionato decreto n. 166, la nuova disciplina non può essere applicata al concorso precedentemente bandito, oggetto della presente controversia. Appare chiaro al remittente, infatti, che le disposizioni indicate « trovino applicazione a partire dal primo concorso successivo all'entrata in vigore del decreto legislativo». Ciò comporta, ad avviso del TAR, che l'impugnata disposizione sia in contrasto con i richiamati parametri costituzionali. Un primo contrasto viene individuato con l'art. 3 Cost. - inteso come principio di uguaglianza che «viene ad evolversi in principio di ragionevolezza delle leggi» - il quale, oltre a vietare discipline differenziate, esige che le disposizioni di legge siano adeguate al fine pubblico perseguito dal legislatore. Nel caso di specie, l'art. 11 citato ha equiparato il giudizio di sufficienza a quello di idoneità ed ha imposto l'obbligo di motivazione per il giudizio di non idoneità, con ciò palesando l'obiettivo del legislatore di rendere chiare per tutti, attraverso la motivazione, le ragioni della mancata ammissione alle prove orali. Ora, se è vero che l'introduzione dell'obbligo di motivazione rientra nella sfera di discrezionalità insindacabile del legislatore, è alt rettanto vero - ad avviso del remittente - che non vi è alcuna ragione per cui detto obbligo non trovi immediata applicazione, trattandosi di disposizione «volta al perseguimento di un fine di utilità generale». Di qui la prospettazione del dubbio di legittimità costituzionale della censurata disposizione, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione. In punto di rilevanza, il TAR osserva che l'eventuale accoglimento della presente questione renderebbe immediatamente applicabile l'art. 11 del d.lgs. n. 166 del 2006, con conseguente fondatezza della censura di difetto di motivazione dedotta dal ricorrente in sede di giudizio amministrativo. 2.- Si è costituito in giudizio A.B., ricorrente nel giudizio a quo, sollecitando, in primis, una diversa interpretazione della norma impugnata e chiedendo, in via subordinata, l'accoglimento della prospettata questione. In ordine al profilo interpretativo, la parte privata rileva che la testuale dizione dell'art. 16, comma 2, impone di ritenere applicabile la nuova normativa - e, quindi, l'onere per la commissione di motivare il provvedimento di mancata ammissione agli orali - anche al concorso in fase di espletamento alla data di emanazione del bando di concorso successivo all'entrata in vigore della disposizione, tanto più che, in realtà, l'onere di motivazione degli atti amministrativi è già sancito dall'art. 3 della legge n. 241 del 1990, sicché il decreto n. 166 del 2006 non ha fatto altro che esplicitare un'esigenza da tempo esistente in riferimento all'attività amministrativa. La commissione esaminatrice, pertanto, in ossequio ai principi di chiarezza e trasparenza - ribadit i proprio dalla normativa sopravvenuta - avrebbe dovuto procedere alla motivazione del provvedimento di esclusione, e ciò a prescindere dal momento di concreta entrata in vigore dell'art. 11 del citato decreto. Ove questa Corte non concordasse con simile ricostruzione, la parte privata fa proprie, integralmente condividendole, le osservazioni del TAR in ordine all'illegittimità costituzionale del censurato art. 16, comma 2, del d.lgs. n. 166 del 2006. 3.- In un giudizio amministrativo del tutto analogo al precedente, il TAR del Lazio, in diversa composizione ma con motivazione pressoché identica, ha sollevato la medesima questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli stessi parametri. In questo caso, a differenza di quello precedente, il candidato aveva riportato, nelle prove scritte, la votazione complessiva di 93, comunque inferiore alla soglia di 105 fissata per l'ammissione agli orali. 4.- Nel giudizio si è costituito M.D.B., ricorrente nel giudizio a quo, chiedendo alla Corte che - ove non ritenga di poter interpretare la normativa del d.lgs. n. 166 del 2006 come applicabile già alla procedura concorsuale in fase di svolgimento - la questione venga dichiarata fondata. Premette la parte costituita che la normativa contenuta nel menzionato decreto ha eliminato la cosiddetta "zona grigia" costituita dai candidati che, pur avendo ottenuto una votazione di sufficienza nelle tre prove scritte, non venivano poi ammessi a quelle orali senza alcuna motivazione. Ne consegue che, nel sistema oggi vigente, sono possibili solo due alternative: la valutazione di idoneità - che comporta il punteggio minimo di 105 - e quella di non idoneità, che deve essere obbligatoriamente motivata. Il dettato legislativo, peraltro, non è in contrasto con la previgente normativa, della quale fornisce una sorta di interpretazione autentica. In questo contesto, la disposizione transitoria oggetto della presente questione lega l'applicazione della nuova disciplina alla «data di emanazione del prossimo bando di concorso», con ciò lasciando intendere che - una volta emanato tale bando - la nuova disciplina deve applicarsi a tutte le fattispecie pendenti; e poiché il successivo concorso è stato bandito con decreto del 10 luglio 2006, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 18 luglio 2006, almeno a far tempo da quest'ultima data la disposizione dell'art. 11 del d.lgs. n. 166 del 2006 avrebbe dovuto, secondo la parte, trovare applicazione. La commissione esaminatrice, invece, ha continuato ad operare con il vecchio sistema, da ritenere non più vigente. Da simile ricostruzione deriva come corollario che l'interpretazione della normativa censurata fatta propria dal TAR, dal medesimo assunta come presupposto per l'odierna questione, dovrebbe essere considerata errata. Se così non fosse - osserva la parte privata - la norma transitoria in esame sarebbe, in pratica, del tutto inutile, «essendo pacifico che la nuova legge si applica certamente ai concorsi banditi successivamente alla sua entrata in vigore». Anche la giurisprudenza, del resto, privilegia sempre, in caso di dubbio, l'interpretazione più conforme al dettato costituzionale. Ciò posto in punto di interpretazione, si rileva che, in caso di mancato recepimento di simile tesi, la disposizione censurata sarebbe certamente incostituzionale. A questo proposito la parte, oltre a fare proprie le censure avanzate dal giudice a quo in ordine alla violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza, ipotizza anche una possibile violazione dell'art. 76 Cost., per eccesso di delega. Poiché, infatti, gli obiettivi della legge delega - e, in particolare, dell'art. 7 della legge 28 novembre 2005, n. 246 - erano quelli di snellire ed aggiornare la procedura concorsuale, anche tramite l'eliminazione della figura dei novantisti, sarebbe evidente che l'art. 16, comma 2, del d.lgs. n. 166 del 200 6, limitando l'applicazione della nuova disciplina ai soli concorsi banditi successivamente alla sua entrata in vigore, violerebbe la ratio della legge delega. 5.- In una memoria depositata in prossimità dell'udienza M.D.B. ribadisce le suddette osservazioni ed aggiunge che la mancata applicazione dell'obbligo di motivazione al concorso in fase di svolgimento avrebbe, a suo avviso, la grave conseguenza di determinare il protrarsi di una situazione di violazione degli artt. 24, 111, 113 e 117, primo comma, Cost., perché in contrasto con la tutela del diritto di difesa, il principio del giusto processo, il diritto alla tutela giurisdizionale contro gli atti della pubblica amministrazione e «i vincoli che l'ordinamento comunitario pone nei confronti del legislatore nazionale» in ordine al rispetto delle disposizioni della CEDU. 6.- In entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo, con due memorie di identico contenuto, che la questione venga dichiarata inammissibile o, comunque, infondata. A giudizio dell'Avvocatura, la scelta di far decorrere l'entrata in vigore della nuova normativa a partire dalla data di emanazione del primo bando di concorso successivo appare «logica e coerente», anche perché la procedura concorsuale che interessa gli odierni ricorrenti è stata bandita nel 2004, mentre la norma sull'obbligo di motivazione è di oltre due anni e mezzo successiva. È ovvio, del resto, che la disciplina regolatrice di un concorso pubblico non può che essere stabilita prima che il medesimo si espleti, perché altrimenti ne risulterebbe irrimediabilmente leso il principio dell'affidamento. Considerato in diritto 1.-- Il TAR del Lazio, con due ordinanze di contenuto uguale per quanto qui interessa, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'articolo 16, comma 2, del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 166 (Norme in materia di concorso notarile, pratica e tirocinio professionale, nonché in materia di coadiutori notarili in attuazione dell'art. 7, comma 1, della legge 28 novembre 2005, n. 246), nella parte in cui prevede che le disposizioni dell'art. 11 dello stesso decreto «si applicano con decorrenza dalla data di emanazione del prossimo bando di concorso per la nomina a notaio». Le ordinanze risultano emesse in giudizi aventi ad oggetto i ricorsi di candidati al concorso notarile bandito il 1° settembre 2004 - esclusi dalle prove orali per aver ottenuto votazioni complessive nelle tre prove scritte inferiori a centocinque, pur avendo riportato, in ciascuna di queste, punteggi non inferiori a trenta - per ottenere l'annullamento dei suddetti provvedimenti di esclusione, deliberati quando, per essere stato pubblicato il bando di altro concorso, era già entrata in vigore la disposizione censurata. A tal proposito, i remittenti espongono che il concorso de quo era stato bandito nella vigenza della disciplina del r.d. 14 novembre 1926, n. 1953 (Disposizioni sul conferimento dei posti da notaro), e successive modificazioni, la quale stabiliva che per l'ammissione agli orali era necessario aver conseguito nelle tre prove scritte un punteggio non inferiore a centocinque e in ciascuna di esse non inferiore a trenta; che solo per l'esclusione a causa dell'attribuzione di un punteggio inferiore a trenta in una delle prove la Commissione aveva ritenuto necessaria un'espressa motivazione, mentre non soltanto per l'ammis sione agli orali, ma anche per la non ammissione a causa del mancato conseguimento del suddetto punteggio complessivo, aveva invece ritenuto che l'attribuzione del punteggio numerico esaurisse l'obbligo di motivazione. In diritto, i remittenti premettono che, durante l'esame delle prove scritte, relative al concorso cui inerivano gli atti impugnati, era entrato in vigore il d.lgs n. 166 del 2006, che aveva mutato le regole della valutazione e gli obblighi di motivazione stabilendo, ai fini dell'ammissione agli orali, che il giudizio positivo consegua automaticamente all'attribuzione del punteggio complessivo non inferiore a centocinque e che quello di non ammissione debba essere sorretto da espressa motivazione. La disposizione qui censurata stabilisce che le nuove norme si applichino «dalla data di emanazione del prossimo bando di concorso per la nomina a notaio». I remittenti - sul presupposto implicito, ma non contestato, che era stato nel frattempo bandito altro concorso - sostengono l'inapplicabilità della nuo va normativa agli atti del concorso per il quale era in svolgimento la valutazione delle prove scritte, ma negano che siffatto differimento sia conforme ai parametri costituzionali evocati. In proposito, ritenuta, sulla base degli elementi di fatto esposti e sull'accertata impossibilità di accogliere altri motivi dei ricorsi, la rilevanza della questione, ne argomentano la non manifesta infondatezza sostenendo l'irragionevolezza del differimento dell'applicazione della nuova normativa. Essa, infatti, equiparando, ai fini della necessità di motivazione, ogni ipotesi di esclusione dalle prove orali, ha eliminato l'incongruenza della originaria disciplina consistente nel non richiedere la motivazione qualora l'esclusione fosse motivata dalla attribuzione di un punteggio complessivo inferiore a quello prescritto di centocinque, mentre era richiesta per l'insufficienza in una delle prove. La disciplina ora vigente assicura maggiore correttezza e trasparenza e contrasta, quin di, con il principio di uguaglianza negarne l'applicazione agli atti di una procedura concorsuale in via di svolgimento, con violazione anche del canone di buon andamento della pubblica amministrazione. 2.-- Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto in entrambi i giudizi, ha concluso per l'infondatezza della questione, appellandosi alla libertà del legislatore nella regolamentazione del passaggio da una normativa ad un'altra e alla ragionevolezza della disposizione che stabilisce che una disciplina entrata in vigore nel 2006 non può applicarsi agli atti di un concorso bandito due anni prima, ancorché in via di svolgimento. 3.-- Le parti ricorrenti nei giudizi di merito, costituitesi, hanno entrambe contestato, in via principale, l'assunto dei remittenti sull'inapplicabilità della nuova disciplina agli atti del concorso cui hanno partecipato e sulla inesistenza dell'obbligo di motivazione, quantomeno in ogni caso di esclusione dalle prove orali. Siffatto obbligo - sostengono - già scaturiva dall'art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 ed è stato ribadito dalla disposizione dell'art. 16, comma 2, del d.lgs. n. 166 del 2006, censurata dai remittenti, alla quale, secondo una delle parti private, va attribuita una valenza interpretativa se non se ne vuole affermare l'inutilità perché altrimenti priva di effetti. In subordine, le parti ricorrenti nei giudizi di merito fanno proprie le argomentazioni dei remittenti, ma la parte costituitasi nel giudizio instaurato con l'ordinanza n. 122 del 2008 evoca anche l'art. 76 Cost. e sostiene che la disposizione censurata sarebbe viziata per essersi il legislatore delegato discostato dalla delega, differendo l'entrata in vigore della nuova disciplina e consentendo così il protrarsi dell'efficacia di una normativa contrastante con gli artt. 24, 111, 113 e 117, primo comma, della Costituzione. 4.-- Deve essere disposta la riunione dei due giudizi, aventi ad oggetto la medesima questione. In via preliminare, deve essere ribadito il principio che, nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale, i termini della questione sono quelli fissati dal remittente, non essendo consentito alle parti mutarli o allargarli (vedi, per tutte, ordinanze n. 273 del 2005 e n. 194 del 2008). 5.-- Ciò premesso, la questione non è ammissibile, per diverse, concorrenti ragioni. Si osserva anzitutto che sull'inapplicabilità della nuova disciplina alle procedure in corso e, soprattutto, sulla inesistenza di un già vigente, generale obbligo di motivazione, l'argomentare delle ordinanze di remissione è carente, risolvendosi in un generico richiamo alla giurisprudenza della quale, però, non vengono neppure sommariamente indicate le ragioni a sostegno. La genericità di tale riferimento sarebbe stata superata ove i remittenti avessero adempiuto all'obbligo di motivare congruamente in proposito, tenendo conto di tutti i criteri interpretativi (letterale, storico, sistematico) e senza incorrere in contraddizioni. Al contrario, si riscontra l'incongruità logica della motivazione rispetto al risultato che si vuole conseguire (applicazione della nuova normativa al concorso in via di svolgimento) sospettando di illegittimità costituzionale la disposizione suddetta. La questione, infatti, è letteralmente formulata in termini tali da far ritenere che, secondo l'assunto dei remittenti, una volta eliminato il riferimento «alla data di emanazione del prossimo bando di concorso per la nomina a notaio», la nuova disciplina - con gli obblighi di motivazione dei provvedimenti degli atti concorsuali che essa stabilisce - sarebbe senz'altro applicabile alle fattispecie oggetto dei giudizi di merito. Ma le ordinanze non spiegano le ragioni per le quali, una volta caducata la disposizione censurata, il d.lgs. n. 166 del 2006 sarebbe applicabile agli atti del concorso in via di svolgimento. La questione, pur formulata nei termini suddetti, finisce, quindi, per risolversi nella richiesta di un intervento interpretativo di competenza dei remittenti e, quindi, non ammissibile in questa sede. LA CORTE COSTIUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 16, comma 2, del decreto legislativo 24 aprile 2006, n. 166 (Norme in materia di concorso notarile, pratica e tirocinio professionale, nonché in materia di coadiutori notarili in attuazione dell'articolo 7, comma 1, della legge 28 novembre 2005, n. 246), sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'1 agosto 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio per conflitto di attribuzione tra enti sorto a seguito degli articoli da 1 a 7 e relativi allegati del decreto del Ministro dell'Ambiente e della Tutela del territorio e del mare 17 ottobre 2007 recante «Criteri minimi uniformi per la definizione di misure di conservazione relative a Zone speciali di conservazione (ZSC) e a Zone di protezione speciale (ZPS)», promosso con ricorso della Provincia autonoma di Trento, notificato il 21 dicembre 2007, depositato in cancelleria il 28 dicembre 2007 ed iscritto al n. 11 del registro conflitti tra enti 2007. Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica dell'8 luglio 2008 il Giudice relatore Paolo Maddalena; uditi gli avvocati Giandomenico Falcon e Luigi Manzi per la Provincia autonoma di Trento e l'avvocato dello Stato Michele Dipace per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. ¾ Con ricorso iscritto al numero 11 del registro conflitti dell'anno 2007, la Provincia autonoma di Trento chiede l'annullamento degli articoli da 1 a 7 e relativi allegati del decreto del Ministro dell'Ambiente e della Tutela del territorio e del mare 17 ottobre 2007, «n. 184» (ma tale numero non risulta dalla Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana del 6 novembre 2007, n. 258), recante «Criteri minimi uniformi per la definizione di misure di conservazione relative a Zone speciali di conservazione (ZSC) e a Zone di protezione speciale (ZPS)». 1.1. ¾ Le disposizioni impugnate recano una articolata ed estremamente dettagliata disciplina per la conservazione o la gestione di tali aree di interesse naturalistico, prevedendo un obbligo di adeguamento da parte delle Regioni e delle Province autonome, anche ad eventuale integrazione di previsioni già esistenti (artt. 2, comma 2, e 3, comma 1).</ o:p> 1.2. ¾ La ricorrente Provincia autonoma sostiene che tali disposizioni ledono la propria sfera di attribuzione costituzionale, in quanto violano: l'art. 8, nn. 1, 5, 6, 7, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 20 e 21, l'art. 9, nn. 9 e 10, e l'art. 16 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige); l'art. 117, sesto comma, della Costituzione e l'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione); il decreto del Presidente della Repubblica 22 marzo 1974, n. 279 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la regione Trentino-Alto Adige in materia di minime proprietà colturali, caccia e pesca, agricoltura e foreste); il decreto del Presidente della Repubblica 19 novembre 1987, n. 527 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di comunicazioni e trasporti di interesse provinciale); il decreto del Presidente della Repubblica 20 gennaio 1973, n. 115 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di trasferimento alle province autonome di Trento e di Bolzano dei beni demaniali e patrimoniali dello Stato e della Regione); il decreto del Presidente della Repubblica 22 marzo 1974, n. 381 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la regione Trentino-Alto Adige in materia di urbanistica ed opere pubbliche); il decreto legislativo 11 novembre 1999, n. 463 (Norme di attuazione dello statuto speciale della regione Trentino-Alto Adige in materia di demanio idrico, di opere idrauliche e di concessioni di grandi derivazioni a scopo idroelettrico, produzione e distribuzione di energia elettrica); il decreto del Presidente della Repubblica 28 marzo 1975, n. 474 (Norme di attuazione dello statuto per la regione Trentino-Alto Adige in materia di igiene e sanità); il decreto del Presidente della Repubblica 26 gennaio 1980, n. 197 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti integrazioni alle norme di attuazione in materia di igiene e sanità approvate con D.P.R. 28 marzo 1975, n. 474); gli artt. 7 ed 8 del decreto del Presidente della Repubblica 19 novembre 1987, n. 526 (Estensione alla Regione Trentino-Alto Adige ed alle province autonome di Trento e Bolzano delle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616), e gli artt. 2, 3 e 4 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento); nonché il principio di leale collaborazione ed il principio di legalità. 2. ¾ La ricorrente Provincia autonoma di Trento evidenzia, anzitutto, di avere competenza (primaria o concorrente) «in praticamente tutte le materie di riferimento della tutela dell'ambiente» in base a diverse norme statutarie (art. 8, nn. 1, 5, 6, 7, 13, 14, 15, 16, 17, 18, 20 e 21, art. 9, nn. 9 e 10, e art. 16). Ricorda, poi, come la propria competenza in materia di ambiente sia stata confermata dalla Corte costituzionale con varie pronunce e, in particolare, con le sentenze n. 425 del 1999 e n. 265 del 2003, «concernenti proprio la materia oggetto del presente conflitto, cioè i siti di importanza comunitaria». Richiama, inoltre, la sentenza n. 378 del 2007, con la quale la Corte costituzionale ha riconosciuto la competenza provinciale primaria in tale specifica materia, in base all'art. 8, n. 16 dello Statuto speciale («parchi per la protezione della flora e della fauna»). 2.1. ¾ La difesa provinciale ricostruisce il quadro normativo del conflitto, specificando che: a) l'impugnato decreto ministeriale 17 ottobre 2007 è stato emanato in base all'art. 1, comma 1226, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), per il quale «Al fine di prevenire ulteriori procedure di infrazione, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano devono provvedere agli adempimenti previsti dagli articoli 4 e 6 del regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357, e successive modificazioni, o al loro completamento, entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sulla base di criteri minimi uniformi definiti con apposito decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare»; b) il decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357, è il regolamento attuativo della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche, ed i suoi richiamati articoli 4 e 6 prevedono la necessaria adozione da parte delle Regioni e delle Province autonome di speciali misure di conservazione per le ZSC e per le ZPS. Così ricostruito il quadro normativo, la Provincia autonoma di Trento afferma: 1) che, al presente, le ZSC non esistono, non essendo ancora avvenuta la loro designazione, ed essendo stati, per adesso, solo individuati i siti di importanza comunitaria (SIC), destinati all'eventuale successiva designazione quali ZSC; 2) che la procedura di infrazione comunitaria, menzionata tanto dall'impugnato decreto ministeriale 17 ottobre 2007 quanto dal citato comma 1226 dell'articolo 1 della legge n. 296 del 2006, riguarda solo la direttiva 79/409/CEE, relativa alle ZPS; 3) di avere, nell'esercizio delle proprie competenze in materia di ambiente, già dato attuazione agli obblighi derivanti dalle direttive 93/43/CEE e 74/409/CEE con gli articoli 9 e 10 della legge provinciale 15 ottobre (recte: dicembre) 2004, n. 10 (Disposizioni in materia di urbanistica, tutela dell'ambiente, acque pubbliche, trasporti, servizio antincendi, lavori pubblici e caccia), modificati dall'articolo 55 della legge provinciale 29 dicembre 2006, n. 11 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale 2007 e pluriennale 2007-2009 della Provincia autonoma di Trento - legge finanziaria 2007), e di avere adottato misure di salvaguardia per i Siti di Importanza Comunitaria (SIC) e «le misure prima di salvaguardia ed ora di conservazione per le Zone di Protezione Speciale» (ZPS) individuate nel proprio territorio, rispettivamente con deliberazione n. 655 dell'8 aprile 2005 (SIC) e con deliberazioni n. 2956 del 30 dicembre 2005 e n. 2279 del 27 ottobre 2006 (ZPS). La difesa provinciale rileva che la previsione del comma 1226 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006 non tiene, tuttavia, in considerazione la avvenuta attuazione provinciale delle direttive in questione e sostiene che tanto il comma 1226, quanto il decreto ministeriale oggetto del presente conflitto, rivolgendosi anche alla Provincia autonoma di Trento ed imponendo anche ad essa di prestare osservanza ai «criteri minimi uniformi» individuati con il regolamento ministeriale, lederebbero le delineate competenze primarie provinciali in materia. In punto di fatto, la ricorrente Provincia chiarisce, inoltre, di avere impugnato in via principale la previsione di tale comma 1226, con il ricorso n. 13 del 2007. E di avere inutilmente contestato l'adozione del decreto ministeriale 17 ottobre 2007 in sede di Conferenza Stato-Regioni. Dopo avere escluso la possibilità di una interpretazione adeguatrice di tale decreto ministeriale, a fronte del chiaro riferimento di varie disposizioni di questo anche alle Province autonome, la difesa provinciale sostiene che il decreto impugnato sia viziato in via derivata dai medesimi vizi della legge di cui esso è applicazione e, inoltre, da vizi ulteriori ed autonomi. 2.2. ¾ La difesa provinciale riproduce, pertanto, gli argomenti sviluppati nel ricorso n. 13 del 2007 avverso il comma 1226 dell'articolo 1 della legge n. 296 del 2006, specificando che le medesime censure devono intendesi come riferite pure avverso il decreto ministeriale 17 ottobre 2007. In quest'ottica la difesa provinciale richiama, anzitutto, la sentenza della Corte costituzionale n. 425 del 1999, per la quale il d.P.R. n. 357 del 1997, seppure incidente su materie di competenza regionale, è costituzionalmente legittimo, dato che ha natura suppletiva e cedevole rispetto alla successiva legislazione provinciale di attuazione della direttiva comunitaria 92/43/CEE, mentre, dopo tale attuazione, trova applicazione l'art. 7 del d.P.R. n. 526 del 1987, in base al quale le Province autonome sono vincolate solo da leggi statali che concretano limiti statutari, non da atti sublegislativi. La disposizione del comma 1226, rivolgendosi anche alla Provincia autonoma di Trento ed imponendole di provvedere agli adempimenti di cui agli artt. 4 e 6 del d.P.R. n. 357 del 1997, sulla base di criteri minimi uniformi definiti con apposito decreto ministeriale, non terrebbe tuttavia conto ed anzi si sovrapporrebbe alla già intervenuta attuazione legislativa ed amministrativa della direttiva comunitaria da parte della Provincia autonoma e così violerebbe, secondo la ricorrente, le indicate competenze statutarie, nonché la richiamata norma di attuazione statutaria dell'articolo 7 del d.P.R. n. 526 del 1987. 2.3. ¾ Il comma 1226, per altro verso, violerebbe, pure, l'art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992, sia perché un decreto ministeriale non potrebbe comunque vincolare l'attuazione delle direttive da parte della Provincia, neppure laddove mancasse una legislazione provinciale di recepimento, richiedendosi in tale ipotesi, comunque, un regolamento governativo, da adottarsi nel rispetto del principio di legalità sostanziale e con il coinvolgimento delle Regioni, sia perché il previsto decreto, avendo natura sostanzialmente normativa, non potrebbe intervenire in una materia di competenza legislativa provinciale. Né legittima risulterebbe la previsione ove il decreto ministeriale in questione potesse essere considerato un atto di indirizzo e coordinamento, risultando, in questa prospettiva, violato l'art. 3 del d.lgs. n. 266 del 1992 sotto vari profili: non essendo tale ipotetico atto di indirizzo e coordinamento adottato dal Consiglio dei ministri, non essendo previsto un parere delle Province per la sua adozione, non potendo un atto di indirizzo e coordinamento comunque vincolare la Provincia ad uno specifico contenuto, ma solo al conseguimento di determinati obiettivi e risultati. Né, d'altra parte, il comma 1226 potrebbe ritenersi legittimo riconoscendo al previsto decreto ministeriale natura amministrativa e non normativa, risultando, in tale prospettiva, comunque violato l'art. 4 del d.lgs. n. 266 del 1992, che non consente di attribuire ad organi dello Stato funzioni amministrative in materia di competenza provinciale. 2.4. ¾ La difesa provinciale chiarisce, infine, che la previsione del comma 1226 non sarebbe lesiva solo là dove si potesse ritenere che essa non si applichi alle Regioni o alle Province autonome che già abbiano data attuazione alle direttive comunitarie. Sennonché essa esclude una tale interpretazione alla luce del dato letterale della disposizione, espressamente riferita anche alla Provincia di Trento, e sostenendo che la previsione di «standard minimi uniformi» lascerebbe pensare che si tratti di standard ai quali tutte le Regioni si debbano adeguare. 2.5. ¾ Oltre a richiamare, nel senso descritto, ed ad estendere in riferimento al decreto ministeriale di attuazione gli argomenti sviluppati avverso la legge attuata, la ricorrente Provincia autonoma individua quattro specifici profili di «autonoma ed ulteriore» illegittimità del decreto impugnato. 2.6. ¾ Un primo profilo (asseritamente) autonomo (ma invero alquanto affine ai precedenti argomenti) di illegittimità del decreto ministeriale 17 ottobre 2007 deriverebbe dal fatto che questo, avendo natura sostanzialmente normativa, non potrebbe intervenire in una materia di competenza legislativa provinciale (art. 8, n. 16, dello Statuto speciale). Oltretutto il decreto impugnato non conterrebbe affatto criteri di orientamento della futura attività regolativa provinciale (quali quelli che erano anteriormente contenuti nel decreto ministeriale 3 settembre 2002, recante Linee guida per la gestione dei siti Natura 2000), bensì detterebbe vere e proprie norme dettagliate. Lo stesso Ministero riconoscerebbe tale realtà, là dove nella memoria depositata in sede di Conferenza permanente Stato-Regioni (che è allegata al ricorso) assimila il decreto in questione ad un regolamento di delegificazione e dà atto che le sue norme debbono semplicemente essere recepite dagli enti territoriali. Sarebbero allora «violati [anche] gli art. 2 e 3 del d.lgs. n. 266/1992, che consentono allo Stato di recare limiti alle competenze provinciali solo attraverso un atto legislativo o un atto di indirizzo e coordinamento assunto con la dovuta procedura». Il divieto di disciplina statale mediante regolamenti nelle materie regionali e provinciali sarebbe «ben noto» e «risalente nel tempo, anche a prescindere dalla sua "codificazione" nell'art. 117, co. 6, Cost., applicabile - se del caso - alle autonomie speciali in virtù dell'art. 10 l.cost. n. 3/2001». Ancora, per la ricorrente Provincia, sarebbe violato il principio di leale collaborazione, dato che il Ministro, in assenza di una norma sul punto nel comma 1226, si sarebbe limitato a chiedere il parere e non avrebbe acquisito l'intesa della Conferenza Stato-Regioni. Sarebbero, inoltre, violati anche l'art. 117, quinto comma, della Costituzione ed i principi di legalità sostanziale, di leale collaborazione e di competenza governativa collegiale, in relazione all'art. 11, comma 8, della legge 4 febbraio 2005, n. 11 (Norme generali sulla partecipazione dell'Italia al processo normativo dell'Unione europea e sulle procedure di esecuzione degli obblighi comunitari), che consente per l'attuazione del diritto comunitario l'intervento di un regolamento governativo (e non di un regolamento ministeriale), e, peraltro, solo in via suppletiva, in caso di inerzia regionale, con espressa indicazione del carattere cedevole delle norme e nel rispetto del principio di legalità sostanziale. Tutte condizioni nel caso di specie mancanti. In questo senso, per la ricorrente, il decreto 17 ottobre 2007 sarebbe allora illegittimo persino in assenza di attuazione delle direttive da parte della Provincia. D'altra parte, secondo la difesa provinciale, il decreto impugnato sarebbe illegittimo anche ove si volesse ipotizzare (secondo la tesi proposta dal Ministero dell'Ambiente nella memoria per la Conferenza Stato-Regioni, allegata al ricorso) la riconducibilità dell'intervento normativo statale alla competenza di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione. Anche in tale prospettiva i criteri e le direttive statali non potrebbero che essere contenute in fonti primarie o in regolamenti governativi, da adottarsi previa intesa in sede di conferenza Stato-Regioni (art. 16, comma 4, della legge n. 11 del 2005), e dovrebbe quindi escludersi la legittimità di una loro adozione mediante regolamento ministeriale. 2.7. ¾ Un secondo profilo di autonoma illegittimità del decreto ministeriale 17 ottobre 2007 emergerebbe, per la Provincia ricorrente, per le stesse ragioni appena indicate, anche se si ritenesse, alla luce della clausola di salvaguardia dettata dal suo art. 8, che il decreto vincoli la Provincia autonoma «solo in relazione alle proprie finalità».< o:p> Anche in tale ipotesi, per la difesa provinciale, il decreto difetterebbe dei requisiti procedurali e sostanziali richiesti dall'art. 3 del decreto legislativo n. 266 del 1992 e dall'art. 8 della legge n. 59 del 1997 per gli atti di indirizzo. 2.8. ¾ Un terzo profilo di autonoma illegittimità del decreto impugnato sussisterebbe, per la difesa provinciale, in quanto numerose disposizioni dell'impugnato decreto ministeriale 17 ottobre 2007 sarebbero estranee al conferimento normativo di cui al comma 1226 dell'articolo 1 della legge n. 296 del 2006. In particolare eccederebbero dall'attribuzione tutte le previsioni diverse dall'art. 2, comma 4, dall'art. 5, commi 1, 2 e 3, e dall'art. 6 del decreto. La mancanza della base legislativa sarebbe deducibile, per la difesa provinciale, quale parametro del giudizio sul conflitto di attribuzione, posto che si tradurrebbe in una lesione delle competenze costituzionali della Provincia autonoma, che viene ad essere assoggettata ad una disciplina che il Ministro non aveva il potere di adottare. La difesa provinciale invoca, sul punto, i precedenti costituiti dalle sentenze n. 328 del 2006, n. 266 del 2001 e n. 425 del 1999 e sostiene che, alla luce dell'art. 11, comma 6, della legge n. 11 del 2005, che sottopone il potere regolamentare statale di attuazione della direttive comunitarie al principio di legalità sostanziale, a maggior ragione dovrebbero ritenersi lesive norme che, come quelle censurate, violino anche il principio di legalità formale. 2.9. ¾ Un ultimo motivo di autonoma illegittimità del decreto ministeriale 17 ottobre 2007 viene individuato dalla difesa provinciale nella diretta applicabilità nel territorio provinciale delle norme impugnate (ad esclusione dell'art. 3, comma 3, e dell'art. 4, comma 1). Il che sarebbe in contrasto con il disposto dell'art. 2 del decreto legislati vo n. 266 del 1992. 2.10. ¾ La difesa provinciale conclude chiedendo l'annullamento delle disposizioni impugnate nella parte in cui si rivolgono alle Province autonome. 3. ¾ Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha eccepito la inammissibilità e l'infondatezza del ricorso. 3.1. ¾ Il ricorso sarebbe inammissibile in quanto, per la difesa erariale, l'eventuale già intervenuta attuazione provinciale delle direttive comunitarie 92/43/CEE e 79/409/CEE escluderebbe l'applicazione del decreto ministeriale 17 ottobre 2007 alla Provincia ricorrente. 3.2. ¾ Nel merito, l'Avvocatura dello Stato sostiene che il decreto ministeriale impugnato, avente la «apprezzante finalità» di assicurare la conservazione degli habitat naturali, sarebbe comunque legittimo, dato che, fino ad una sua eventuale pronuncia di incostituzionalità, l'art. 1, comma 1226, della legge n. 296 del 2006 impone al Ministro dell 'Ambiente l'adozione del decreto stesso. La previsione del comma 1226 sarebbe, a sua volta, perfettamente legittima, essendo riconducibile alla competenza esclusiva statale in materia di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema (art. 117, secondo comma, lettera s, della Costituzione). Il ricorso ad un decreto ministeriale, quale parametro cui rapportare le modalità di adempimento degli obblighi introdotti dalla direttiva 92/43/CEE, non potrebbe, poi, ritenersi lesivo, dato che esso è già operante nell'ordinamento, avendo trovato applicazione con il d.P.R. n. 357 del 1999. Inoltre, andrebbe comunque esclusa qualsiasi idoneità lesiva del decreto 17 ottobre 2007, alla luce della clausola di salvaguardia contenuta nell'articolo 10 (recte: 8) del decreto stesso. La difesa erariale, infine, contesta che le disposizioni del decreto 17 ottobre 2007 rechino norme di dettaglio, sostenendo che esse sono effettivamente criteri minimi uniformi, ma che, tenuto conto della delicatezza della materia da regolamentare e della rilevanza della tutela degli habitat, questi «non possono non essere dettati con puntualità e precisione senza che ciò venga ad inficiare il loro carattere di regole generali». 4. ¾ In prossimità dell'udienza pubblica la Provincia autonoma di Trento ha depositato una memoria, in cui richiama la sopravvenuta sentenza n. 104 del 2008, con la quale la Corte costituzionale: - ha confermato la sua precedente giurisprudenza (sentenze n. 425 del 1999 e n. 378 del 2007), riconoscendo che, ai sensi dell'art. 8, numero 16, dello statuto speciale per il Trentino Alto Adige, il quale attribuisce alle Province autonome di Trento e di Bolzano una potestà legislativa primaria in materia di «parchi per la protezione della flora e della fauna», spetta a dette Province dare concreta attuazione per il loro territorio alla direttiva 92/43/CEE (Direttiva del Consiglio relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatica), la quale impone misure di salvaguardia sui siti di importanza comunitaria (SIC) e misure di conservazione sulle zone speciali di conservazione (ZSC) e sulle zone di protezione speciale ( ZPS), a seguito della «definizione» di queste ultime di intesa con lo Stato; - ha ritenuto che, in virtù di questa prescrizione statutaria «e di quanto espressamente stabilito dall'art. 7 del d.P.R. n. 526 del 1987 e dell'art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992, deve inoltre affermarsi che lo Stato, diversamente da quanto si evince dal rinvio da parte del comma 1226 agli artt. 4 e 6 del d.P.R. n. 357 del 1997, non può imporre alle Province autonome di conformarsi, nell'adozione delle misure di salvaguardia e delle misure di conservazione, "ai criteri minimi uniformi" di un emanando decreto ministeriale»; - ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 1226, della legge n. 296 del 2006 (proprio) nella parte in cui obbliga le Province autonome di Trento e di Bolzano ad uniformarsi ai criteri minimi uniformi definiti dal decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare. 4.1. ¾ La difesa provinciale rileva che, a seguito di tale pronuncia, è venuta meno la base legislativa dell'impugnato decreto ministeriale, con conseguente violazione del principio di legalità formale, e rinvia alle argomentazioni svolte nel ricorso in ordine alla legittimazione della Provincia autonoma a far valere la violazione di tale principio da parte del decreto impugnato. 4.2. ¾ La difesa provinciale sostiene, poi, che tale pronuncia, da un lato, supera l'argomento difensivo della Avvocatura generale dello Stato, per la quale la emanazione del decreto non poteva dirsi illegittima, in quanto doverosa attuazione del (tuttavia incostituzionale) art. 1, comma 1226, della legge n. 296 del 2006, dall'altro, palesa l'erroneità de lla tesi erariale di una competenza statale in materia, fondata sull'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione. 4.3. ¾ La difesa provinciale rileva, infine, come la stessa difesa erariale abbia dato atto, nella sua memoria di costituzione, che l'impugnato decreto ministeriale 17 ottobre 2007 contiene regole dettagliate e non criteri minimi uniformi. Considerato in diritto 1. ¾ La Provincia autonoma di Trento chiede l'annullamento degli articoli da 1 a 7 e relativi allegati del decreto del Ministro dell'Ambiente e della Tutela del territorio e del mare 17 ottobre 2007 recante «Criter i minimi uniformi per la definizione di misure di conservazione relative a Zone speciali di conservazione (ZSC) e a Zone di protezione speciale (ZPS)». La ricorrente sostiene che tali disposizioni del decreto impugnato, le quali recano una articolata ed estremamente dettagliata disciplina per la conservazione o la gestione di tali aree di interesse naturalistico, prevedendo un obbligo di adeguamento da parte delle Regioni e delle Province autonome, anche ad eventuale integrazione di previsioni già esistenti (artt. 2, comma 2, e 3, comma 1), sono lesive della sua sfera di attribuzione costituzionale sotto due diversi profili: a) in via derivata per l'illegittimità dell'art. 1, comma 1226, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), di cui tale decreto è applicazione (a sua volta impugnato, in via principale, con il ricorso n. 13 del 2007); b) in ragione di propri vizi, ulteriori ed autonomi rispetto al primo. Sotto il primo profilo, la Provincia autonoma di Trento censura il decreto 17 ottobre 2007 lamentando che non rientrerebbe nella competenza statale l'attuazione delle direttive comunitarie in materia di ZSC e ZPS, dovendo queste ultime essere attuate direttamente dalle Province, competenti in materia, cosa che le stesse avrebbero peraltro già fatto. La ricorrente lamenta, poi, che, in ogni caso, lo Stato non potrebbe vincolare le Province autonome in una materia di loro competenza mediante un atto sublegislativo. Sotto il secondo profilo la ricorrente sostiene che numerose disposizioni (in particolare tutte le previsioni diverse dall'art. 2, comma 4, dall'art. 5, commi 1, 2 e 3, e dall'art. 6) dell'impugnato decreto ministeriale sarebbero estranee al conferimento normativo di cui al comma 1226 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006 e ciò si tradurrebbe in una lesione delle competenze costituzionali della Provincia autonoma, che verrebbe ad essere assoggettata ad una disciplina che il Ministro non aveva il potere di adottare. E lamenta, altresì, la violazione del principio di leale collaborazione, in quanto il Ministro, in assenza di una norma sul punto nel comma 1226, ma a fronte della obiettiva incidenza del decreto minister iale su competenze regionali e provinciali, si sarebbe limitato a chiedere il parere e non avrebbe acquisito l'intesa della Conferenza Stato-Regioni. 2. ¾ Deve, anzitutto, rilevarsi l'inammissibilità delle censure proposte dalla Provincia autonoma di Trento in riferimento al decreto del Presidente della Repubblica 22 marzo 1974, n. 279 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige in m ateria di minime proprietà colturali, caccia e pesca, agricoltura e foreste); al decreto del Presidente della Repubblica 19 novembre 1987, n. 527 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di comunicazioni e trasporti di interesse provinciale); al decreto del Presidente della Repubblica 20 gennaio 1973, n. 115 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di trasferimento alle province autonome di Trento e di Bolzano dei beni demaniali e patrimoniali dello Stato e della Regione); al decreto del Presidente della Repubblica 22 marzo 1974, n. 381 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la regione Trentino-Alto Adige in materia di urbanistica ed opere pubbliche); al decreto legislativo 11 novembre 1999, n. 463 (Norme di attuazione dello statuto speciale della regione Trentino-Alto Adige in materia di demanio idrico , di opere idrauliche e di concessioni di grandi derivazioni a scopo idroelettrico, produzione e distribuzione di energia elettrica); al decreto del Presidente della Repubblica 28 marzo 1975, n. 474 (Norme di attuazione dello statuto per la regione Trentino-Alto Adige in materia di igiene e sanità), al decreto del Presidente della Repubblica 26 gennaio 1980, n. 197 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti integrazioni alle norme di attuazione in materia di igiene e sanità approvate con D.P.R. 28 marzo 1975, n. 474), ed all'art. 8 del decreto del Presidente della Repubblica 19 novembre 1987, n. 526 (Estensione alla Regione Trentino-Alto Adige ed alle Province autonome di Trento e Bolzano delle disposizioni del decreto del presidente della repubblica 24 luglio 1977, n. 616). Tali parametri sono, infatti, soltanto indicati nel ricorso, ma la loro violazione risulta del tutto priva di argomentazione. 3. ¾ Nel merito il ricorso è fondato. 3.1. ¾ Si deve innanzitutto ricordare che la questione di cui si discute si inquadra nel procedimento di attuazione della direttiva 92/43/CEE, diretta a costituire la cosiddetta rete ecologica "Natura 2000" e relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e de lla fauna selvatiche, nonché nel procedimento di attuazione della direttiva 79/409/CEE, concernente la conservazione degli uccelli selvatici, la quale è stata inserita nella rete "Natura 2000" dal decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357, di recepimento della citata direttiva 92/43/CEE. Il procedimento relativo all'attuazione delle predette direttive prevede: una «individuazione» dei siti da considerare come «siti di importanza comunitaria» (SIC), effettuata dalle Regioni e dalle Province autonome; la trasmissione di detta individuazione, da parte dello Stato membro, alla Commissione europea; l'approvazione da parte di quest'ultima dell'elenco dei siti; la scelta, sempre da parte della Commissione, di quelli che essa ritiene di importanza naturalistica tale da essere considerati come "zone speciali di conservazione" (ZSC) o come "zone di protezione speciale" (ZPS); ed infine la "designazione" (equivalente alla tradizionale "istituzione" dei parchi e delle riserve) di detti siti come ZSC o come ZPS da parte dello stesso Stato membro, il quale nel frattempo ha dovuto classificare detti siti medesimi in una delle tipologie di "aree protette". È, infine, da precisare che nel caso delle Province di Trento e Bolzano la "designazione" delle ZSC e delle ZPS avviene d'intesa con lo Stato, ai sensi dell'art. 5 della legge 8 luglio 1986, n. 349 (Istituzione del Ministero dell'ambiente e norme in materia di danno ambientale), integrato dall'art. 8, comma 3, della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette), norme che costituiscono principi generali dell'ordinamento (sentenza n. 378 del 2006). 3.2. ¾ Il caso di specie all'esame della Corte concerne un momento essenziale di detto procedimento, e cioè l'adozione da parte della Provincia autonoma di Trento delle "misure di conservazione", e cioè delle norme che costituiscono lo statuto vincolistico dell'area protetta denominata "zona speciale di conservazione" (ZSC), o "zona di protezione s peciale" (ZPS). Questa Corte, inoltre, con sentenza n. 104 del 2008, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del predetto art. 1, comma 1226, della legge n. 296 del 2006, proprio nella parte in cui obbliga le Province autonome di Trento e di Bolzano a rispettare i criteri minimi uniformi definiti dal decreto ministeriale oggetto del presente ricorso. Detta sentenza ha in particolare posto in evidenza che, ai sensi dell'art. 8, numero 16, dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, le Province autonome hanno una potestà legislativa primaria in materia di «parchi per la protezione della flora e della fauna» e che pertanto spetta a dette province dare concreta attuazione per il loro territorio alla direttiva 92/43/CEE ed alla direttiva 79/409/CEE. Ed ha ritenuto che, in virtù di questa prescrizione statutaria, il legislatore statale non può imporre alle province autonome di conformarsi, nell'adozione delle misure di conservazione, «ai "criteri minimi uniformi" di un emanando decreto ministeriale». Non può negarsi, dunque, che il decreto ministeriale oggetto della presente controversia sia in patente contrasto con la citata sentenza n. 104 del 2008 e che, con la sopravvenuta caducazione per illegittimità costituzionale della norma legislativa di base, sia venuta meno anche la legittimità del decreto ministeriale che quella norma prevedeva. 3.3. ¾ Deve conseguentemente dichiararsi l'illegittimità dell'impugnato decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, in quanto lesivo delle attribuzioni costituzionali della Provincia autonoma di Trento. 3.4. ¾ Gli effetti della pronuncia, fondandosi su motivi comuni ad entrambe le Province autonome, devono essere estesi anche alla Provincia autonoma di Bolzano. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara che non spettava allo Stato imporre alle Province autonome di Trento e di Bolzano di conformarsi al decreto del Ministro dell'Ambiente e della Tutela del territorio e del mare 17 ottobre 2007, recante «Criteri minimi uniformi per la definizione di misure di conservazione relative a Zone speciali di conservazione (ZSC) e a Zone di protezione speciale (ZPS)», e, per l'effetto, annulla gli articoli da 1 a 7 e relativi allegati del predetto decreto, nella parte in cui si riferiscono a nche alle Province autonome di Trento e di Bolzano. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Paolo MADDALENA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'1 agosto 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Paolo MADDALENA " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione del Senato della Repubblica del 30 gennaio 2007 (Doc IV-ter, n. 2-A), relativa all'insindacabilità delle opinioni espresse dal senatore Raffaele Iannuzzi, nei confronti di Giancarlo Caselli, già Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo, e di altri magistrati, promosso con ricorso del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, notificato il 5 marzo 2008, depositato in cancelleria il successivo 20 marzo, iscritto al n. 11 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2007, fase di merito. Visto l'atto di costituzione del Senato della Repubblica; udito nell'udienza pubblica dell'8 luglio 2008 il Giudice relatore Maria Rita Saulle; udito l'avvocato Stefano Grassi per il Senato della Repubblica. Ritenuto in fatto 1. - Con ricorso dell'8 maggio 2007 il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano ha promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica, in relazione alla delibera adottata il 30 gennaio 2007 (Doc. IV-ter, </ SPAN>n. 2-A), con la quale - in conformità alla proposta della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari - è stato dichiarato che i fatti p er i quali il senatore Raffaele Iannuzzi è sottoposto a procedimento penale per il delitto di diffamazione a mezzo stampa riguardano opinioni espresse da quest'ultimo nell'esercizio delle sue funzioni parlamentari e sono, quindi, insindacabili ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione. 1.2 - Riferisce il giudice ricorrente che il procedimento pendente davanti a sé vede il senatore Iannuzzi imputato del reato sopra cennato commesso ai danni di Giancarlo Caselli, Guido Lo Forte, Roberto Scarpinato e di Gioacchino Natoli, i quali, nelle rispettive qualità di Procuratore della Repubblica, Procuratori della Repubblica Aggiunti e Sostituto Procuratore presso il Tribunale di Palermo, hanno ritenuto che la loro reputazione fosse stat a offesa da un articolo pubblicato il 23 ottobre 2003 dal quotidiano "Il Giornale". Il ricorrente illustra la condotta delittuosa sottoposta al suo giudizio riportando il testo dell'articolo sopra indicato intitolato «Travolto dai veleni di Palermo e dalle profezie sulla mafia: ma anche i DS isolano Violante», con il quale l'imputato avrebbe denunciato presunti interessamenti da parte dell'on. Violante sulla Procura di Palermo onde orientarne, a fini politici, l'attività investigativa antimafia per mezzo dei magistrati sopra citati. Il GIP, nel rilevare che, nel caso di specie, ricorrono sia l'elemento soggettivo che oggettivo richiesti dalla Corte costituzionale quali presupposti per l'ammissibilità del conflitto, osserva che dalla relazione della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari non sarebbe emerso alcun atto tipico della funzione parlamentare cui ricollegare le frasi per le quali il senatore è imputato, ma solo un generico riferimento all'impegno politico dallo stesso svolto sui temi della criminalità mafiosa e del suo contrasto. In ragione di ciò, il ricorrente chiede l'annullamento della delibera impugnata, in quanto sulla base della giurisprudenza costituzionale la garanzia di cui all'art. 68, primo comma, della Costituzione opera nei soli casi in cui sussiste un «nesso funzionale» tra attività divulgativa esterna e attività parlamentare, rientrando in tale ultima nozione tutti quegli atti che risultano estrinsecazione delle funzioni proprie dei membri delle Camere. 2. - Il conflitto è stato dichiarato ammissibile con ordinanza n. 37 del 21 febbraio 2008. 2.1 - Il ricorso, unitamente alla suddetta ordinanza, è stato notificato al Senato della Repubblica il 5 marzo 2008 e depositato il successivo 20 marzo. 3. - Si è costituito in giudizio il Senato della Repubblica chiedendo che la Corte dichiari la non fondatezza del ricorso. La difesa del Senato della Repubblica riporta quanto affermato dalla Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari e, in particolare, la circostanza che le dichiarazioni oggetto del procedimento penale a carico del senatore Iannuzzi rientrano nella garanzia di cui all'art. 68 della Costituzione, in quanto, avendo ad oggetto la lotta alla criminalità mafiosa, riguardano un tema sul quale l'imputato ha profuso il proprio impegno politico e, pertanto, si sostanziano in una riproduzione dell'attività politica da egli svolta. Sulla base di tali premesse la difesa ritiene che si debba superare la giurisprudenza costituzionale che ritiene coperte dal principio di insindacabilità le sole dichiarazioni rese fuori dalla attività parlamentare che siano riproduttive di quest'ultima e che siano rispetto ad essa sostanzialmente contestuali. 4. - In prossimità dell'udienza pubblica il Senato della Repubblica ha depositato memoria con la quale, oltre a ribadire quanto dedotto nell'atto di costituzione, ha chiesto che il ricorso sia dichiarato inammissibile. In particolare, la difesa del Senato della Repubblica ritiene che il ricorso introduttivo del giudizio sia privo del requisito dell'autosufficienza, in quanto il ricorrente si è limitato a riportare l'articolo a firma del senatore Iannuzzi asseritamente diffamatorio, impedendo, così, alla Corte di «acquisire gli elementi necessari a verificare la sussistenza del nesso funzionale fra le dichiarazioni che sono contenute in tale articolo e l'attività parlamentare svolta intra moenia dallo stesso senatore». Considerato in diritto 1. - Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano, con ricorso dell' 8 maggio 2007, ha proposto conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica in relazione alla deliberazione del 30 gennaio 2007 (Doc. IV-ter, n. 2-A) con la quale, in conformità alla proposta formulata dalla Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, è stato dichiarato che i fatti per i quali è in corso un procedimento penale a carico del senatore Raffaele Iannuzzi costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni e sono, pertanto, insindacabili ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione. Il ricorrente espone che il senatore è imputato del reato di diffamazione a mezzo stampa in relazione al contenuto dell'articolo a sua firma apparso sul quotidiano "Il Giornale" del 23 ottobre 2003, intitolato «Travolto dai veleni di Palermo e dalle profezie sulla mafia: ma anche i DS isolano Violante», ritenuto offensivo della reputazione di alcuni magistrati della Procura di Palermo. Il GIP nel proprio ricorso riporta il capo di imputazione nel quale vengono contestate al parlamentare le affermazioni da questo rese e contenute nel cennato articolo con le quali egli avrebbe denunciato presunte manovre politiche che avrebbero coinvolto la Procura di Palermo onde orientarne l'attività investigativa antimafia. Il ricorrente, diversamente da quanto ritenuto nella delibera di insindacabilità, ritiene che nel caso di specie non possa operare la garanzia di cui all'art. 68 della Costituzione, in quanto non vi è alcun atto parlamentare tipico cui poter collegare le dichiarazioni sottoposte al suo giudizio. 2. - Preliminarmente, deve essere ribadita l'ammissibilità del conflitto, sussistendone i presupposti soggettivi e oggettivi, come già ritenuto da questa Corte con l'ordinanza n. 37 del 2008. 2.1. - Non è fondata, al riguardo, l'eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa del Senato della Repubblica e volta ad affermare che il giudice ricorrente non avrebbe riportato nell'atto introduttivo del giudizio le espressioni del senatore sulle quali verte il conflitto.
Tale circostanza fa sì che non ricorra la denunciata carenza del requisito dell'autosufficienza dell'atto introduttivo del giudizio e, quindi, lo stesso risulta inidoneo a consentire l'esatta identificazione delle dichiarazioni rese dal parlamentare extra moenia. 3. - Nel merito, il ricorso è fondato. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, per l'esistenza di un nesso funzionale tra le dichiarazioni rese extra moenia da un parlamentare e l'espletamento delle sue funzioni di membro del Parlamento - alla quale è subordinata la prerogativa dell'insindacabilità di cui all'art. 68, primo comma, della Costituzione - è necessario che tali dichiarazioni possano essere identificate come espressione dell'esercizio di attività parlamentare (sentenze n. 10 e n. 11 del 2000). Nel caso in esame risulta l'assoluta mancanza di qualsivoglia atto parlamentare cui poter ricondurre le dichiarazioni rese extra moenia dal parlamentare; e la stessa difesa del Senato della Repubblica si è limitata a rilevare che esse riguardano i temi della lotta alla criminalità sui quali l'imputato ha profuso il proprio impegno politico. Sul punto è sufficiente richiamare la giurisprudenza di questa Corte secondo la quale il mero riferimento all'attività parlamentare o comunque all'inerenza a temi di rilievo generale (pur anche dibattuti in Parlamento), entro cui le dichiarazioni si possano collocare, non vale in sé a connotarle quali espressive della funzione, ove esse, non costituendo la sostanziale riproduzione di specifiche opinioni manifestate dal parlamentare nell'esercizio delle proprie attribuzioni, siano non già il riflesso del peculiare contributo che ciascun deputato e ciascun senatore apporta alla vita parlamentare mediante le proprie opinioni e i propri voti (come tale coperto dall'insindacabilità, a garanzia delle prerogative delle Camere e non di un «privilegio personale [...] conseguente alla mera "qualità" di parlamentare»: sentenza n. 120 del 2004), ma un'ulteriore e diversa articolazione di siffatto contributo, elaborata ed offerta alla pubblica opinione nell'esercizio della libera manifestazione del pensiero assicurata a tutti dall'art. 21 della Costituzione (sentenze n. 302, n. 166 e n. 152 del 2007). 4. - In conclusione, le dichiarazioni del senatore non riguardano l'esercizio della funzione parlamentare. L'impugnata deliberazione del Senato della Repubblica di insindacabilità delle stesse non rientra, quindi, nell'ambito di applicazione dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, ledendo le attribuzioni dell'autorità giudiziaria ricorrente e deve, conseguentemente, essere annullata. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara che non spettava al Senato della Repubblica affermare che i fatti per i quali è in corso davanti al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano il procedimento penale a carico del senatore Raffaele lannuzzi, di cui al ricorso in epigrafe, costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione; annulla, per l'effetto, la deliberazione di insindacabilità adottata dal Senato della Repubblica nella seduta del 30 gennaio 2007 (Doc. IV-ter, n. 2-A). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Maria Rita SAULLE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'1 agosto 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 268, primo comma, del codice di procedura civile, promosso dal Tribunale di Pordenone, nel procedimento civile vertente tra la Baratto Spedizioni s.r.l. e la Apigi International s.a.s., con ordinanza del 27 novembre 2007 iscritta al n. 57 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 9 luglio 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante. Ritenuto in fatto 1.- Nel corso di un giudizio in cui, tenutasi l'udienza di trattazione, nella pendenza del termine concesso per il deposito delle memorie ai sensi dell'art. 183, sesto comma, n. 2, del codice di procedura civile, una parte aveva spiegato intervento volontario, proponendo domande risarcitorie nei confronti delle altre parti e successivamente avanzando richieste istruttorie, il Tribunale di Pordenone ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 111, secondo comma, ultimo periodo, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 268, primo comma, cod. proc. civ., nella parte in cui ammette l'intervento principale o litisconsortile previsto dell'art. 105, primo comma, cod. proc. civ. fino al momento di precisazione delle conclusioni, anziché fino all'udienza di trattazione p revista dal medesimo art. 183. In subordine, il remittente ha sollevato questione di legittimità costituzionale della medesima disposizione, per violazione degli artt. 24 e 111, secondo comma, primo periodo, Cost., nella parte in cui non attribuisce al giudice, in caso di intervento volontario o litisconsortile, il potere-dovere di fissare, alla prima udienza successiva all'intervento del terzo, una nuova udienza di trattazione nel corso della quale le parti possano esercitare tutti i poteri previsti dell'art. 183 cod. proc. civ.. Nelle premesse in fatto il Tribunale chiarisce che, tenutasi l'udienza di trattazione, alle parti é stato concesso, su loro richiesta, termine per le memorie previste dall'art. 183, sesto comma, n. 1, cod. proc. civ. nelle quali sono state ribadite «le domande, le eccezioni e le conclusioni già proposte», ed infine che esse hanno ricevuto comunicazione dell'intervento, dalla cancelleria, nel giorno precedente a quello di scadenza delle memorie di cui all'art. 183, sesto comma, n. 2, citato. Il giudice a quo motiva la rilevanza della questione osservando che le parti, avverso entrambe le quali gli intervenuti hanno proposto autonome domande, hanno chiesto (utilizzando le memorie previste dall'art. 183, sesto comma, n. 3, cod. proc. civ.) la dichiarazione di inammissibilità dell'intervento, nonché delle istanze istruttorie, per tardività; egli assume, pertanto, di essere tenuto a decidere sull'ammissibilità dell'intervento stesso e delle domande con esso proposte, nonché «sull'ammissibilità o meno dei mezzi istruttori richiesti dagli intervenuti, con memoria apposita depositata l'ultimo giorno utile». Ulteriore profilo di rilevanza è poi legato alla subordinata r ichiesta di rimessione in termini avanzata dalle parti originarie per il caso di ritenuta ammissibilità dell'intervento. Quanto alla non manifesta infondatezza, il Tribunale richiama il costante orientamento della Corte di cassazione, che ammette l'intervento fino all'udienza di precisazione delle conclusioni, in quanto la formulazione della domanda costituisce l'essenza stessa dell'intervento principale e litisconsortile, sicché la preclusione sancita dall'art. 268, secondo comma, cod. proc. civ. non si estende all'attività assertiva del volontario interveniente nei cui confronti non è operante il divieto di proporre domande nuove ed autonome fino all'udienza di precisazione delle conclusioni, configurandosi solo l'obbligo, per l'interventore stesso ed avuto riguardo al momento della sua costituzione, di accettare lo stato del processo in relazione alle preclusioni istruttorie già verificatesi per le parti originarie. Su tale giurisprudenza - condivisa dal giudice a quo - si sottolinea come le preclusioni cui si riferisce l'art. 268, secondo comma, non possano essere estese anche alla proposizione della domanda. Ne consegue l'impraticabilità di ogni diversa interpretazione dell'art. 268 cod. proc. civ. volta a limitare a fasi processuali iniziali gli interventi con cui si propongono domande nuove e ad ammettere fino all'udienza di precisazione delle conclusioni il solo intervento adesivo dipendente con cui non si fanno valere nuove domande, ma solo si sostengono le ragioni dell'una o dell'altra parte. Ammettere l'intervento principale e litisconsortile fino alla fine del processo, però, comporta un notevole ampliamento del thema decidendum (rispetto a quello originariamente introdotto dalle parti) ed anche dei fatti su cui occorre decidere e della conseguente istruttoria da svo lgere. In particolare, nel giudizio a quo, gli intervenuti hanno depositato una memoria istruttoria in cui hanno chiesto l'ammissione di prova per interpello e testi, di consulenza tecnica d'ufficio e l'esibizione di documentazione ai sensi dell'art. 210 cod. proc. civ. Oltre al conseguente aggravamento dei tempi processuali, il remittente vede compromesso il diritto al contraddittorio delle parti originarie (che, nella specie, hanno richiesto la rimessione in termini), per tutelare il quale il giudice, ove richiesto, si trova costretto a far regredire il processo ad una fase anteriore, fissando nuova udienza di trattazione e concedendo altri termini ai sensi del menzionato art. 183, s esto comma. Verrebbe così ad alterarsi quel sistema scandito da rigide preclusioni e da un numero «chiuso» di udienze, voluto per attuare concretamente il principio della ragionevole durata del processo. La norma impugnata avrebbe potuto essere giustificata nell'ambito di un processo privo di scadenze e preclusioni per le parti, quale era quello ante riforma del 1990, ma costituisce una grave disarmonia nell'attuale processo, ove quelle scadenze e preclusioni si sono fatte via via sempre più stringenti per le parti, e ove l'interveniente ha tuttavia la possibilità di introdurre un processo più ampio rispetto a quello voluto dalle parti inizialmente costituite, così costringendole a subire la conseguente dilatazione dei tempi processuali. Ed è in tale prospettiva che, ad avviso del remittente (il quale richiama anche il principio di effettività della tutela), si configurano, da un lato, l'irragionevolezza di una disposizione di legge che snatura totalmente il nuovo processo civile consentendo, senza valida giustificazione, inutili e rilevanti complicazioni; dall'altro, la violazione del diritto delle parti originarie - e in special modo dell'attore - a vedere definita la sua domanda entro tempi ragionevoli e comunque non più ampi di quelli che richiedono le relative prospettazioni. La soluzione sembra al giudice a quo da individuare nello spostamento del termine preclusivo per l'intervento principale e litisconsortile ad un momento anteriore, e cioè l'udienza di trattazio ne, quando il thema decidendum non è cristallizzato ed è ancora prevista per le parti la possibilità di proporre ulteriori domande ed eccezioni, posto che chi intende intervenire potrà sempre far valere le sue ragioni in un separato giudizio. Il Tribunale, richiamando l'ordinanza n. 215 del 2005 di questa Corte, osserva che la legittimità costituzionale dell'art. 268 cod. proc. civ., in quella sede riconosciuta, non può far superare le discrasie di un sistema che ammette domande nuove da parte del terzo, ma non gli consente di provarle. Dopo aver ritenuto illogico estromettere il terzo, disponendo la separazione dei giudizi allorché la causa sia matura per la decisione o comunque quando l'intervento ritarderebbe o renderebbe più gravoso il processo, il giudice a quo si sofferma sulla funzione (definita di saracinesca) dell'udienza di trattazione. Ciò posto in ordine alla prima questione, il remittente precisa, in punto di rilevanza della questione subordinata, che, mentre una delle parti non ha motivato la richiesta di rimessione in termini, l'attrice ha viceversa proposto domande ed avanzato richieste istruttorie. Il Tribunale osserva che, avendo l'intervento alterato l'impostazione originaria data alla causa dall'attrice, essa non ha avuto la possibilità, perché preclusa dalla fase processuale, di proporre le domande e le eccezioni conseguenti alle domande svolte dal terzo, né ha potuto precisare o modificare le domande, le eccezioni e le conclusioni già proposte. A parere del Tribunale, se l'intervento è ammissibile fino al momento della precisazione delle conclusioni, ciò non deve trasformarsi per il terzo in un vero e proprio vantaggio processuale che va a danno del diritto di difesa delle parti originarie del processo. Dopo aver richiamato il decisum della sentenza n. 193 del 1983 di questa Corte - dichiarativa dell'illegittimità costituzionale dell'art. 419 cod. proc. civ., nella parte in cui, ove un terzo spieghi intervento volontario, non attribuiva al giudice il potere-dovere di fissare, con il rispetto del termine di cui all'art. 415, quinto comma, cod. proc. civ., una nuova udienza, sia pure nel particolare ambito del processo del lavoro - il remittente auspica un'applicazione di quella ratio decidendi e individua nell'udienza di trattazione il momento processuale corrispondentemente idoneo a garantire il contraddittorio delle parti originarie nei confronti del terzo intervenuto. Il Tribunale esclude, peraltro, di poter fissare una nuova udienza senza l'invocata addizione normativa e di poter dare all'istituto della rimessione in termini un'applicazione estensiva come strumento utilizzabile per rimediare non solo a decadenze derivanti da impedimenti di natura strettamente materiale o comunque obiettiva, ma anche per ammettere i nova giustificati da eventi o da esigenze difensive realmente sopravvenute. 2.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la declaratoria di inammissibilità o di infondatezza delle questioni, richiamandosi sia all'ordinanza di questa Corte n. 215 del 2005, sia all'obbligo del terzo interventore di accettare il processo nello stato in cui esso si trova, ai sensi dell'art. 268, secondo comma, cod. proc. civ., sia, infine, al potere di estromissione di cui il giudice è titolare (e che implica la potestà di non ammettere affatto l'intervento, quando esso contrasti con la concreta attuazione del principio costituzionale della ragionevole durata del processo). Inoltre la tesi del giudice rimettente, secondo cui la garanzia di celerità del processo imporrebbe un diverso e più rigido sistema di preclusioni, si traduce in una inammissibile richiesta di un intervento creativo da parte del Giudice delle leggi, allo scopo di modificare l'equilibrio che i1 legislatore ha inteso istituire tra le contrapposte esigenze di concentrare in un solo processo la definizione di tutte 1e problematiche derivanti da una vicenda complessa e di definire il giudizio già pendente entro termini ragionevoli. La questione proposta in via subordinata sarebbe poi stata già risolta dalla citata ordinanza n. 215 che l'avrebbe qualificata come richiesta di una pronuncia «fortemente creativa e di sistema», poiché la pretesa di far retrocedere il processo all'udienza di trattazione, allo scopo di consentire la riapertura della fase istruttoria, incide profondamente sulla struttura del giudizio civile e comporta un intervento sostanzialmente additivo, che sembra eccedere i limiti del giudizio di costituzionalità. La contraddittorietà della questione proposta in via subordinata rispetto a quella principale impedisce, secondo l'Avvocatura, di comprendere quali siano - ad avviso del remittente - i principi costituzionali ai quali dovrebbe ispirarsi la norma censurata. Nel merito, sarebbe problem atico consentire la riespansione dei poteri processuali delle parti originarie mediante la retrocessione del processo alla udienza di trattazione, in presenza di una disposizione - come quella dell'art. 268, secondo comma, cod. proc. civ. - che impone al terzo di accettare il processo nello stato in cui esso si trova. Diversamente, ritenendo che la retrocessione del processo all'udienza di trattazione vale anche per il terzo interventore, si giungerebbe ad una sostanziale abrogazione del secondo comma dell'art. 268 citato. Inoltre, l'invocata retrocessione eccede di gran lunga l'esigenza delle parti di formulare ogni opportuna eccezione e difesa avverso la nuova domanda proposta dal terzo nei loro confronti, né il Tribunale avrebbe verificato, con la dovuta analiticità, se le norme vigenti consentono di conseguire questo più limitato risultato. In particolare, ferma la peculiarità del rito del lavoro e quindi la non pertinenza del richiamo alla sentenza n. 193 del 1983, l'Avvocatura rileva che il rito ordinario conserva un assetto più elastico rispetto al rito del lavoro. Considerato in diritt o 1.-- Questa Corte è chiamata dal Tribunale di Pordenone a scrutinare, con riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, ultimo periodo, della Costituzione, la legittimità costituzionale dell'art. 268, primo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui ammette che l'intervento principale o litisconsortile possa avere luogo fino a che non vengano precisate le conclusioni, anziché fino all'udienza di trattazione prevista dall'articolo 183 del medesimo codice; in subordine, il remittente censura la suddetta disposizione per violazione degli artt. 24 e 111, secondo comma, primo periodo, Cost., nella parte in cui non prevede, in caso di intervento volontario (recte: autonomo o principale) o litisconsortile, il dovere del giudice di fiss are una nuova udienza di trattazione. Il remittente espone che davanti a lui pende una causa civile instaurata da una società che assume di essere committente di un contratto di trasporto nei confronti di altra indicata come vettrice, per la risoluzione del contratto non adempiuto, a causa del ribaltamento del veicolo adoperato, e per il risarcimento del danno per perdita o avaria della merce; che, dopo lo svolgimento dell'udienza di trattazione e in pendenza del termine concesso alle parti ai sensi dell'art. 183, sesto comma, n. 2, cod. proc. civ., hanno spiegato intervento, ai sensi dell'articolo 105, primo comma, del medesimo codice, tre persone le quali, dichiarando di essere le proprietarie della merce trasportata, hanno proposto domande risarcitorie nei confronti di entrambe le parti ori ginarie, formulando anche istanze istruttorie. Il Tribunale di Pordenone premette che la disposizione censurata non può essere interpretata, tenuto conto della sua chiara formulazione letterale, se non nel senso, ritenuto anche dalla Corte di cassazione, che essa si riferisce a tutti i tipi di intervento e quindi anche a quello principale o autonomo, comportante di per sé la proposizione di domande nuove rispetto a quelle delle parti originarie, in relazione alle quali non opera la preclusione di cui all'art. 268, secondo comma, cod. proc. civ., che concerne l'attività istruttoria e non quella assertiva. Ma anche la mera attività assertiva amplia i termini del processo, pur prescindendo dalla circostanza - fa rilevare il remittente - che nel processo a quo l'intervento era avvenuto q uando non era ancora consumata la facoltà delle parti di proporre istanze istruttorie, sicché anche quelle degli intervenienti dovrebbero essere esaminate. Ne consegue l'intrinseca irragionevolezza di un sistema che, mentre consente al terzo interveniente di proporre le sue domande nel giudizio pendente tra altri, non gli permette però di provare i fatti costitutivi dei diritti fatti valere e, nel contempo prolunga la durata del processo, ampliandone l'oggetto, in violazione del principio costituzionale che ad esso deve essere assicurata una durata ragionevole. Queste discrasie potrebbero essere risolte da una sentenza della Corte che sostituisca al termine ora previsto per l'intervento quello della udienza di trattazione, con l'attribuzione anche agli intervenienti delle facoltà che in essa possono essere esercitate. In subordine, con riferimento agli artt. 111, secondo comma, prima parte, e 24 Cost., il remittente - premesso in fatto che, a seguito dell'intervento, le parti originarie hanno chiesto di essere rimesse in termini al fine di contrastare le pretese degli intervenienti, una di esse anche in via istruttoria - sostiene che non sussistono gli estremi della remissione in termini e che la questione non può essere risolta enucleando dall'ordinamento un generale obbligo del giudice di fissare una nuova udienza, e quindi in via interpretativa, ogniqualvolta l'oggetto del processo venga ad essere allargato. A tal proposito, il remittente richiama la sentenza di questa Corte n. 193 del 1983, dichiarativa dell'illegittimità costituzionale dell'art. 419 cod. proc. civ., nella parte in cui non prevedeva l'o bbligo del giudice del lavoro di fissare una nuova udienza in caso d'intervento in causa, principale o dipendente. Motivata in tal modo la rilevanza della questione, sul presupposto di dover provvedere sulle istanze anche istruttorie degli intervenienti, il remittente sostiene che soltanto la fissazione di una nuova udienza può evitare la violazione del diritto di difesa delle parti originarie e, quindi, quello della parità tra le parti processuali, che costituisce uno dei principi fondamentali del giusto processo. 2.-- Le questioni sono inammissibili per diverse, concorrenti ragioni. Nella esposizione dei fatti e nello svolgimento delle argomentazioni il remittente manifesta perplessità ed incorre in contraddizioni. Nell'ordinanza di rimessione si afferma che, secondo la costante giurisprudenza della Corte di cassazione - cui si aderisce - a chi abbia proposto l'intervento successivamente all'udienza di trattazione non è consentito lo svolgimento di attività istruttoria ma soltanto assertiva, e si argomenta che anche quest'ultima, ampliando i termini del dibattito processuale, può ritardare la conclusione del processo, in violazione del principio secondo cui ad esso deve essere assicurata ragionevole durata. Nella stessa ordinanza, però, si mette in rilievo la circostanza che l'intervento era avvenuto durante la pendenza del termine concesso alle parti originarie ai sensi dell'art. 183, sesto comma, n. 2, cod. proc. civ. e si profila la necessità di dover provvedere anche sulle istanze istruttorie degli intervenienti. Il remittente non affronta neppure il problema dell'individuazione dei soggetti che della concessione del suddetto termine avrebbero potuto giovarsi e se tra costoro rientrassero anche gli intervenienti che non avevano partecipato all'udienza di trattazione, al cui svolgimento era correlata la concessione del termine. Sembra che egli propenda per la soluzione positiva, che comporterebbe uno squilibrio della situazione processuale a danno delle parti originarie, ma non viene evocata l a violazione del diritto di difesa di queste (art. 24 Cost.), né del principio di parità delle parti, cardine della disciplina del giusto processo (art. 111, secondo comma, prima parte, della Costituzione). La questione, dichiaratamente proposta in via subordinata, si fonda sulla tesi, non più espressa in forma ipotetica o perplessa, ma pur sempre non argomentata, che il remittente, per le circostanze in cui è avvenuto l'intervento, debba provvedere sulle istanze istruttorie degli intervenienti; donde l'evocazione dei suddetti parametri. Ora, anche a voler trascurare il rilievo che il nesso di subordinazione non può essere riconosciuto per il solo fatto che sia enunciato da chi solleva le questioni, qualora esso non si riscontri anche nella struttura logica delle medesime, nel proporre la questione subordinata il remittente considera indiscutibile l'interpretazione dell'art. 268, secondo comma, cod. proc. civ. secondo cui a coloro che sono intervenuti nella pendenza del suddetto termine, concesso ai sensi dell'art. 183, sesto comma, cod. proc. civ., spetta la facoltà di avanzare istanze istruttorie; tesi questa che avrebbe viceversa richiesto una motivazione. Inoltre, l'invocato incremento dei poteri del giudice, consistente nella possibilità di fissare una nuova udienza in caso d'intervento, nel quale si sostanzia il petitum di quest'ultima questione, si pone in antitesi con le limitazioni temporali richieste con la prima prospettazione e postula una decisione modificativa del sistema della trattazione della causa, tale da incidere ben oltre la norma impugnata (e non necessariamente su di essa: vedi ordinanza n. 215 del 2005). LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 268, primo comma, del codice di procedura civile, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111, secondo comma, primo e ultimo periodo, della Costituzione, dal Tribunale di Pordenone con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'1 agosto 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità della sentenza di proscioglimento), promosso con ordinanza del 20 aprile 2006 del Tribunale di Perugia nel procedimento penale a carico di A. G., iscritta al n. 667 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell'anno 2007. Udito nella camera di consiglio del 25 giugno 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick. Ritenuto che, con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Perugia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui prevede che sia dichiarato inammissibile l'appello proposto dal pubblico ministero, prima dell'entrata in vigore della medesima legge, avverso la sentenza di proscioglimento d el giudice di pace, anche «nel caso in cui, a seguito della rinnovazione del dibattimento disposta prima di tale entrata in vigore, sia stata acquisita o comunque scoperta, così da poter essere acquisita, una prova nuova e decisiva»; che il giudice a quo premette di essere investito degli appelli, proposti dal pubblico ministero e dalla parte civile, avverso la sentenza di assoluzione pronunciata dal Giudice di pace di Perugia, nei confronti di una persona imputata del reato di diffamazione; che, in accoglimento della richiesta della parte civile appellante, era stata disposta la parziale rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, nel corso della quale si era proceduto al nuovo esame di due testi già escussi in primo grado; esame al cui esito era stata ordinata l'acquisizione di un documento e la citazione di un ulteriore testimone, mai sentito in precedenza, indicato da uno testi suddetti come persona «presumibilmente» presente in occasione del fatto oggetto di giudizio; che, nelle more del giudizio e prima dell'escussione del nuovo teste, era entrata in vigore la legge n. 46 del 2006, il cui art. 1 ha sostituito l'art. 593 del codice di procedura penale, precludendo l'appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento, con la sola eccezione prevista dal comma 2 dello stesso art. 593: quella, cioè, della sopravvenienza o della scoperta di nuove prove decisive dopo il giudizio di primo grado; che, inoltre, con specifico riferimento al procedimento davanti al giudice di pace, l'art. 9 della legge n. 46 del 2006 ha modificato l'art. 36 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), sopprimendo la facoltà, già accordata al pubblico ministero, di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento per reati puniti con pena alternativa; che l'art. 10 della legge di riforma ha stabilito, altresì, che la nuova disciplina si applichi anche ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore; ed ha previsto, nel comma 2, che gli appelli anteriormente proposti dal pubblico ministero o dall'imputato siano dichiarati inammissibili con ordinanza non impugnabile, salva la facoltà della parte appellante di proporre ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado, nel termine di quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento di inammissibilità; che, ad avviso del rimettente - stando al «tenore letterale» della norma ora ricordata - la dichiarazione di inammissibilità degli appelli pendenti dovrebbe aver luogo in tutti i casi, senza alcuna eccezione; e, tuttavia, detta declaratoria sarebbe palesemente irrazionale con riferimento a quegli appelli che risultassero ammissibili in base alla normativa "a regime"; che si imporrebbe, pertanto, una interpretazione «adeguatrice» - già prospettata, del resto, in dottrina e nella giurisprudenza di merito - la quale faccia salvi gli appelli, anteriormente proposti, con i quali sia stata dedotta una prova nuova e decisiva; che, ove si acceda a tale interpretazione, non vi sarebbe ragione per trattare diversamente il caso in cui, nella fase del giudizio di appello svoltasi prima dell'entrata in vigore della nuova legge, sia stata già raccolta o comunque individuata, a seguito di rinnovazione del dibattimento, una prova nuova che appaia altresì decisiva; che, ad avviso del giudice a quo, l'ipotesi da ultimo indicata non potrebbe tuttavia trovare soluzione sul piano interpretativo, poiché «il parametro non è costituito in questo caso dal profilo strutturale dell'appello in precedenza proposto, profilo strutturale che [.] non potrebbe giustificare un trattamento diverso e deteriore»; che, a fronte di ciò, la norma transitoria di cui all'art. 10, comma 2, della legge n. 46 del 2006 - nella parte cui stabilisce che l'appello sia dichiarato inammissibile anche nell'ipotesi considerata - si porrebbe in contrasto con l'art. 3 Cost., essendosi al cospetto di una situazione identica, nella sostanza, a quella dell'appello con il quale si deduca direttamente una prova nuova e decisiva; che, anche in relazione al principio della ragionevole durata del processo, sancito dall'art. 111, secondo comma, Cost., risulterebbe dunque irrazionale che nella predetta situazione l'appello non debba seguire il suo corso: e ciò tanto più ove si consideri che, stando al disposto dell'art. 10 della legge n. 46 del 2006, il pubblico ministero non potrebbe neppure proporre un nuovo appello, con il quale far valere la nuova prova conosciuta o acquisita, essendogli consentito solo il ricorso per cassazione; donde la perdita, da parte dell'organo dell'accusa, di una facoltà che pure gli compete nella disciplina "a regime"; che, d'altro canto - anche a prescindere dal confronto con la normativa "a regime" - nell'ipotesi de qua la rinnovazione del dibattimento, seguita dalla concreta assunzione di prove o comunque dalla verifica dell'esistenza di nuove prove da raccogliere, risulterebbe inutilmente effettuata: con conseguente irrazionale dispersione di materiale probatorio legittimamente assunto o acquisibile, sulla base di un atto di appello a sua volta legittimamente proposto; che le disarmonie dianzi evidenziate assumerebbero, peraltro, una particolare connotazione allorché si discuta - come nel giudizio a quo - dell'appello contro una sentenza del giudice di pace: e ciò avuto riguardo al ricordato disposto dell'art. 9 della legge n. 46 del 2006, che, modificando l'art. 36 del d.lgs. n. 274 del 2000, ha privato il pubblico ministero della facoltà - di cui precedentemente fruiva - di appellare le sentenze di proscioglimento per reati puniti con pena alternativa; che - costituendo il citato art. 36 «lex specialis», prevalente, come tale, sulla disciplina generale di cui all'art. 593 cod. proc. pen. - non sarebbe possibile, difatti, «recuperare automaticamente sul piano interpretativo» la previsione di cui al comma 2 dello stesso art. 593, che ammette l'appello allorché venga dedotta una prova nuova e decisiva; che la scelta legislativa di «modulare diversamente» i poteri di appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento del giudice di pace sarebbe comprensibile, in effetti, con riguardo alla disciplina "a regime"; ma, in rapporto alla disciplina transitoria, apparirebbe irragionevole che, a fronte di un appello originariamente ammissibile, si escluda la possibilità di valorizzare i risultati probatori già acquisiti prima dell'entrata in vigore della riforma nell'ambito della rinnovazione del dibattimento: e ciò anche quando, per tale via, sia stata raccolta o individuata una nuova prova decisiva; che, su tale versante, la norma transitoria impugnata risulterebbe dunque «censurabile ex se», e non solo «nei limiti del suo confronto» con l'art. 593 cod. proc. pen., norma non applicabile alle sentenze di proscioglimento del giudice di pace; che con riguardo, infine, alla rilevanza della questione, il giudice a quo osserva che l'ulteriore testimone - del quale, nel caso di specie, è stata disposta l'escussione in sede di rinnovazione del dibattimento, prima dell'entrata in vigore della novella - costituisce una nuova fonte di prova, la cui scoperta è sopravvenuta alla conclusione del giudizio di primo grado; e che tale fonte di prova è, al tempo stesso, idonea a fornire un contributo decisivo ai fini dell'accertamento della sussistenza o meno del reato per cui si procede. Considerato che il Tribunale di Perugia dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, della Costituzione, dell'art. 10, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui prevede che l'appello proposto dal pubblico ministero, prima dell'entrata in vigore della medesima legge, contro una sentenza di proscioglimento del giudice di pace, venga dichiarato inammissibile anche «nel caso in cui, a s eguito della rinnovazione del dibattimento disposta prima di tale entrata in vigore, sia stata acquisita o comunque scoperta, così da poter essere acquisita, una prova nuova e decisiva»; che, nel formulare il quesito di costituzionalità, il rimettente muove dal presupposto interpretativo per cui, nel procedimento davanti al giudice di pace, non sarebbe applicabile la previsione di cui all'art. 593, comma 2, codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge n. 46 del 2006, che consente al pubblico ministero di appellare le sentenze di proscioglimento nel caso di sopravvenienza o di scoperta di nuove prove decisive dopo il giudizio di primo grado: e ciò in quanto, nel procedimento in questione, l'appello del pubblico ministero risulta autonomamente regolato dalla norma speciale - e, come tale, prevalente - di cui all'art. 36 del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274; norma che, nel testo novellato dall'a rt. 9 della legge di riforma, esclude in assoluto la proponibilità del gravame; che, alla stregua di tale non implausibile presupposto interpretativo - che implicherebbe un assetto normativo considerato dallo stesso giudice a quo non irragionevole, quanto alla disciplina "a regime" - il dubbio di costituzionalità, prospettato in riferimento alla disciplina transitoria, si palesa peraltro privo di consistenza; che, per costante orientamento di questa Corte, difatti, il legislatore gode di ampia discrezionalità nel regolare gli effetti, nei processi in corso, di nuovi istituti o delle modificazioni apportate ad istituti già esistenti: discrezionalità il cui esercizio non è suscettibile di sindacato sul piano della legittimità costituzionale, col solo limite della manifesta irragionevolezza delle soluzioni adottate (ex plurimis, sentenze n. 219 del 2004 e n. 381 del 2001; ordinanza n. 455 del 2006); che, nella specie, la scelta legislativa sottesa alla norma transitoria censurata, nella parte sottoposta a scrutinio - la scelta, cioè, di impedire la prosecuzione degli appelli (contro sentenze di proscioglimento emesse dal giudice di pace) introdotti prima dell'entrata in vigore della riforma, anche quando fosse già stata acquisita o «individuata» una nuova prova decisiva, a seguito di rinnovazione del dibattimento - non può reputarsi manifestamente irragionevole: essa trova giustificazione, infatti, nell'intento di evitare che, nei processi in corso, l'imputato, già prosciolto in primo grado, possa essere condannato a seguito di un appello che - alla luce della premessa interpretativa dello stesso Tribunale rim ettente - risulterebbe comunque inammissibile in base alla disciplina "a regime"; che del tutto insussistente appare, per altro verso, il denunciato vulnus al principio di ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.): a prescindere, infatti, da ogni altra possibile considerazione, riguardo al necessario contemperamento di tale principio con il complesso delle altre garanzie costituzionali (ex plurimis, con riferimento ad altre questioni di costituzionalità concernenti la legge n. 46 del 2006, sentenze n. 26 e n. 320 del 2007), deve escludersi che la norma transitoria censurata - con l'imporre la declaratoria di inammissibilità degli appelli in corso, indipendentemente dall'attività già esple tata - determini, in via generale, un allungamento dei tempi necessari per la definizione del procedimento; che la questione va dichiarata, pertanto, manifestamente infondata. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), sollevata, in riferimento agli artt. 3, e 111, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Perugia, con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giovanni Maria FLICK, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'1 agosto 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 2, 3 e 5 del decreto del Presidente della Repubblica 5 febbraio 1953, n. 39 (Testo unico delle leggi sulle tasse automobilistiche), nonché della tariffa A ad esso allegata e dell'art. 1 del decreto ministeriale 27 dicembre 1997 (Tariffe delle tasse automobilistiche), promosso con ordinanza dell'8 giugno 2007 dalla Commissione tributaria provinciale di Roma sul ricorso proposto da Carotenuto Mario contro la Regione La zio, iscritta al n. 70 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 9 luglio 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano. Ritenuto che la Commissione tributaria provinciale di Roma, con ordinanza dell'8 giugno 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 42, terzo comma, e 53, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 2, 3 e 5 del decreto del Presidente della Repubbl ica 5 febbraio 1953, n. 39 (Testo unico delle leggi sulle tasse automobilistiche), nonché della tariffa A ad esso allegata e dell'art. 1 del decreto ministeriale 27 dicembre 1997 (Tariffe delle tasse automobilistiche), nella parte in cui non prevede la progressiva diminuzione della tassa sugli autoveicoli in corrispondenza della perdita di valore del bene conseguente al trascorrere del tempo; che il rimettente, quanto al fatto, premette di essere chiamato a giudicare di un ricorso contro la Regione Lazio per l'annullamento dell'avviso di accertamento con il quale la Regione ha contestato ad un contribuente l'omesso versamento della tassa automobilistica per l'anno 2003; che la Commissione rimettente - constatato che l'Ufficio, regolarmente citato, non si è costituito in giudizio - ritiene pregiudiziale pronunciarsi sulla eccezione di illegittimità costituzionale, sollevata dal ricorrente;
che, nella
parte in diritto, il giudice a quo compie una breve ricostruzione
storica delle leggi che si sono succedute nella regolamentazione
dell'imposta sugli autoveicoli e motoveicoli, evidenziando come tale
imposta, prima dell'entrata in vigore del decreto-legge del 30 ottobre
1982, n. 953 (Misure in materia tributaria), convertito, con
modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1983, n. 53, fosse una tassa di
circolazione di tipo risarcitorio che serviva a contribuire alle spese
di mantenimento delle opere pubbliche viarie e che veniva calcolata in
ragione della grandezza degli autoveicoli e del conseguente maggior
consumo che quelli più grandi e potenti causavano alla rete viaria
pubblica; che, infatti, l'ammontare dell'imposta era calcolato in base ad un rapporto tra la potenza del motore, la sua cilindrata e la grandezza fisica del veicolo, e, inoltre, l'imposta era dovuta solo in caso di utilizzo effettivo del mezzo, con il correlativo obbligo di esporre sul parabrezza dell'auto la ricevuta del pagamento; che, prosegue il rimettente, con la citata riforma del 1982 l'imposta ha cambiato radicalmente natura, trasformandosi in una tassa sulla proprietà, non più legata all'uso che l'utente fa del veicolo, ma dovuta per il solo ed esclusivo fatto dell'intestazione del veicolo stesso, e, pertanto, da porsi necessariamente in relazione all'incremento di valore che il bene apporta al patrimonio del proprietario; che ciò sarebbe ulteriormente confermato dall'introduzione di un'esenzione dal pagamento della tassa per i possessori di veicoli con trenta anni di vita o venti, se di particolare interesse storico (art. 63 della legge 21 novembre 2000, n. 342, recante «Misure in materia fiscale»); che, secondo il rimettente, il legislatore avrebbe previsto tale esenzione trattandosi di beni il cui valore, come quello immobiliare, nel tempo viene scemando fino a diventare nullo dopo il trentesimo anno di vita e, quindi, «senza più interesse per il fisco in quanto [...] inidoneo a creare ulteriore ricchezza»; che, in tal modo, avendo il legislatore implicitamente riconosciuto che il valore del bene gradualmente diminuisce, ne deriverebbe «un vuoto normativo di collegamento» fra quanto prevede l'art. 63, comma 1, della legge n. 342 del 2000 e quanto disposto dagli artt. 2, 3 e 5 del d.P.R. n. 39 del 1953, dalla tariffa A ad esso allegata e dall'art. 1 del d.m. del 27 dicembre 1997, nella parte in cui tali disposizioni non stabiliscono un meccanismo atto a determinare la progressività in diminuzione dell'imposta per la perdita di valore del bene oggetto dell'imposizione in relazione al trascorrere del tempo, e ciò determinerebbe la violazione degli artt. 53, 42 e 3 della Costituzione;</ o:p> che, in particolare, secondo il rimettente, «una volta provato che un veicolo fa parte del patrimonio di un soggetto e che tale patrimonio è il fondamento per il prelievo fiscale coattivo, è agevole trarre la conclusione che ogni modifica, in aumento o in diminuzione, del valore di ogni singolo bene facente parte di tale patrimonio, andando ad incidere sulla capacità contributiva complessiva del soggetto, ove non fosse prevista la necessaria correzione del relativo tributo, andrebbe ad incidere negativamente e illegittimamente sulla capacità contributiva del soggetto» in violazione dell'art. 53 della Costituzione; che risulterebbe violato anche l'art. 42, terzo comma, della Costituzione, mancando tra i criteri per il calcolo dell'ammontare dell'imposta quello relativo al valore venale del bene secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale (sentenze n. 216 del 1990, n. 1165 del 1988 e n. 5 del 1980); che, infine, un ulteriore profilo di incostituzionalità, per il rimettente, consisterebbe nella disparità di trattamento tra coloro che posseggono nel loro patrimonio beni diversi dagli autoveicoli (immobili, cespiti, ecc.), a cui è data, in determinate ipotesi, l'opportunità di pagare le relative imposte in modo proporzionale alla consistenza economica dei beni stessi (ad esempio la possibilità di revisione delle rendite catastali), rispetto a quei soggetti che sono obbligati a versare un'imposta costante per il possesso di un veicolo nonostante la diminuzione di valore del bene; che, infine, la Commissione rimettente, dopo aver ricordato che analoga questione di legittimità costituzionale è stata già da essa sollevata, con ordinanza del 6 aprile 2006, dinnanzi a questa Corte, afferma come la risoluzione di tale dubbio di costituzionalità sia indispensabile per la definizione del giudizio a quo, in quanto, se la questione fosse ritenuta fondata, il ricorso andrebbe accolto; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto a questa Corte di dichiarare la questione inammissibile; che la difesa erariale eccepisce l'omessa o insufficiente descrizione della fattispecie in quanto il giudice a quo riferisce in modo estremamente omissivo sulle questioni sollevate nel ricorso senza fare alcun cenno al perché, nel caso concreto, il valore dell'imposizione sarebbe in contrasto con i principi costituzionali, tralasciando di riportare finanche il dato relativo all'anno di immatricolazione dell'auto che avrebbe permesso una valutazione in concreto del rapporto tra l'imposta e il valore venale del bene; che l'Avvocatura eccepisce altri due profili di inammissibilità, il primo relativo alla disposizione censurata, in quanto il rimettente dubita di un provvedimento dell'allora Ministero delle finanze che, privo di forza di legge, non può essere oggetto di un giudizio di costituzionalità, il secondo, relativo alla richiesta di una pronuncia additiva su materia rimessa alla discrezionalità del legislatore. Considerato che la Commissione tributaria provinciale di Roma, con ordinanza dell'8 giugno 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 42, terzo comma, e 53, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 2, 3 e 5 del decreto del Presidente della Repubblica 5 febbraio 1953, n. 39 (Testo unico d elle leggi sulle tasse automobilistiche), nonché della tariffa A ad esso allegata, e dell'art. 1 del decreto ministeriale 27 dicembre 1997 (Tariffe delle tasse automobilistiche), nella parte in cui non prevede la progressiva diminuzione della tassa automobilistica in corrispondenza della perdita di valore del bene conseguente al trascorrere del tempo; che questione identica è stata già sollevata dall'attuale rimettente - come da esso stesso ricordato - e sottoposta al vaglio di questa Corte, la quale la ha dichiarata, con ordinanza n. 333 del 2007, manifestamente inammissibile sotto due diversi e concorrenti profili; che, in particolare, nella citata ordinanza, la Corte ha osservato che «in primo luogo, il rimettente omette del tutto la descrizione del caso concreto sottoposto al suo esame e, addirittura, non specifica il tipo di veicolo cui si riferiva la cartella impugnata, (autoveicolo, motoveicolo, motoscafo) e non indica la data di immatricolazione dello stesso, rendendo in tal modo impossibile ogni valutazione circa la rilevanza della questione»; che, «in secondo luogo, il rimettente esplicitamente chiede un intervento additivo senza indicare una soluzione costituzionalmente obbligata in una materia rimessa alla discrezionalità del legislatore, come si evince dalla stessa parte conclusiva dell'ordinanza, nella quale afferma [che]: "tale completamento normativo può essere demandato solo al giudice delle leggi non rientrando nelle competenze del giudice dei tributi sostituirsi al legislatore per individuare la formula più idonea alla graduazione dell'imposta"»; che tale orientamento - data l'identità della motivazione delle due ordinanze di rimessione - deve essere, nella specie, confermato, con conseguente dichiarazione di manifesta inammissibilità della proposta questione di legittimità costituzionale. che, infine, come nel precedente caso, «resta assorbito l'ulteriore profilo di inammissibilità sollevato dall'Avvocatura dello Stato», concernente l'ammissibilità dello scrutinio di legittimità costituzionale del combinato disposto di norme, una delle quali non avente forza di legge. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 2, 3 e 5 del decreto del Presidente della Repubblica 5 febbraio 1953, n. 39 (Testo unico delle leggi sulle tasse automobilistiche), nonché della tariffa A ad esso allegata, e dell'art. 1 del decreto ministeriale 27 dicembre 1997 (Tariffe delle tasse automobilistiche), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 42, terzo comma, e 53, secondo comma, della Costituzione, dalla Commissione trib utaria provinciale di Roma con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'1 agosto 2008. 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