Deposito del 06/06/2008 (dalla 190 alla 199) |
S.190/2008 del 21/05/2008 Udienza Pubblica del 11/03/2008, Presidente BILE, Relatore TESAURO Norme impugnate: Legge 27/12/2006, n. 296 (legge finanziaria 2007); discussione limitata all'art. 1, c. da 587° a 591° e 1221°. Oggetto: Amministrazione pubblica - Norme della legge finanziaria 2007 - Società partecipate dalle Regioni e Province autonome - Amministratori - Compensi, numero massimo dei componenti il consiglio di amministrazione, incompatibilità, pubblicità - Qualificazione delle norme come principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica. Amministrazione pubblica - Norme della legge finanziaria 2007 - Partecipazioni pubb liche - Partecipazioni delle amministrazioni regionali e locali in società e consorzi - Obbligo di comunicazione annuale dei dati relativi al Dipartimento della funzione pubblica - Sanzioni per la mancata o incompleta comunicazione - Qualificazione delle norme come principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, ai fini del rispetto dei parametri stabiliti dal patto di stabilità e crescita dell'Unione europea. Bilancio e contabilità pubblica - Norme della legge finanziaria 2007 - Violazioni di obblighi comunitari comportanti procedure di infrazione - Rivalsa dello Stato per gli oneri finanziari sui soggetti responsabili, previa intesa - Prevista adozione di provvedimento del Presidente del Consiglio in caso di mancato raggiungimento dell'intesa. Dispositivo: illegittimità costituzionale - non fondatezza - inammissibilità Atti decisi: ric. 12 e 13/2007 |
S.191/2008 del 21/05/2008 Udienza Pubblica del 15/04/2008, Presidente BILE, Relatore CASSESE Norme impugnate: Art. 103, c. 3°, del decreto del Presidente della Repubblica 11/07/1980, n. 382, come modificato dall'art. 23 della legge 23/12/1999, n. 488. Oggetto: Università - Ricercatori universitari - Immissione nella fascia dei ricercatori confermati - Riconoscimento, per intero ai fini del tattamento di quiescenza e di previdenza e per i due terzi ai fini della carriera, dell'attività effettivamente prestata nell'Università in qualità di tecnici laureati - Mancata previsione secondo il più recente orientamento giurisprudenziale del Consiglio di Stato. Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale |
S.192/2008 del 21/05/2008 Udienza Pubblica del 01/04/2008, Presidente BILE, Relatore CASSESE Norme impugnate: Art. 152, c. 1°, 2° e 3°, 162, c. 2° e 3°, e 165, c. 2° e 3°, del decreto legislativo 13/10/2005, n. 217. Oggetto: Impiego pubblico - Dipendenti del Corpo nazionale dei vigili del fuoco privi di laurea, già inquadrati nell'area C come direttori amministrativi e coordinatori - Inquadramento nelle nuove qualifiche di "funzionario amministrativo-contabile direttore" e di "funzionario amministrativo - contabile direttore-vicedirigente", o comunque in un ruolo direttivo speciale - Mancata previsione. Impiego pubblico - Dipendent i del Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco provenienti dal profilo professionale di collaboratore tecnico antincendi della VII qualifica funzionale, non muniti del diploma di laurea e già inquadrati nell'area "C" - Inquadramento nel nuovo ruolo direttivo dei Direttori e Direttori-vice dirigenti o in un istituendo nuovo ruolo speciale - Mancata previsione. Dispositivo: non fondatezza Atti decisi: ord. 365 e 840/2007 |
O.193/2008 del 21/05/2008 Camera di Consiglio del 16/04/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK Norme impugnate: Artt. 69, c. 4° (come modificato dall'art. 3 della legge 05/12/2005, n. 251), e 81, c. 4° (aggiunto dall'art. 5 della legge 05/12/2005, n. 251), del codice penale. Oggetto: Reati e pene - Circostanze del reato - Concorso di circostanze aggravanti e attenuanti - Divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulle circostanze inerenti alla persona del colpevole nel caso previsto dall'art. 99, quarto comma, cod. pen. (recidiva reiterata); Reati in continuazione con quelli più gravi commessi da soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall'art. 99, quarto comma, cod. pen. (recidiva reiterata) - Previsione che l'aumento della quantità di pena non possa essere comunque inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 487/2007 |
O.19 4/2008 del 21/05/2008 Udienza Pubblica del 06/05/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK Norme impugnate: Art. 5, c. 3°, del decreto legislativo 26/05/1997, n. 153. Oggetto: Reati e pene - Riciclaggio dei capitali di provenienza illecita - Esercizio delle attività individuate dai decreti legislativi emanati ai sensi dell'art. 15, comma 1, lett. c), della legge n. 52/1996 senza essere iscritto nell'elenco degli operatori abilitati - Configurazione delle fattispecie quale delitto - Previsione di pene superiori ai limiti edittali indicati nella legge delega n. 52/1996 - Eccesso di delega. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 600, 718 e 785/2007 |
O.195/2008 del
21/05/2008 Camera di Consiglio del 07/05/2008, Presidente BILE, Relatore QUARANTA Norme impugnate: Art. 213, c. 2° sexies, del codice della strada (d.lgs. 30.4.1992, n. 285), introdotto dall'art. 5 bis, c. 1°, lett. c), n. 2, del decreto legge 30/06/2005, n. 115, convertito con modificazioni in legge 17/08/2005, n. 168. Oggetto: Circolazione stradale - Sanzioni accessorie per violazioni del codice della strada - Confisca obbligatoria del ciclomotore o motoveicolo adoperato per commettere una delle violazioni amministrative di cui agli artt. 169, commi 2 e 7, 170 e 171 cod. strada o per commettere un reato. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 758/2007 |
O.196/2008 del 21/05/2008 Camera di Consiglio del 07/05/2008, Presidente BILE, Relatore QUARANTA Norme impugnate: Art. 213, c. 2° sexies, del codice della strada (d.lgs. 30.4.1992, n. 285), introdotto dall'art. 5 bis, c. 1°, lett. c), n. 2, del decreto legge 30/06/2005, n. 115, convertito con modificazioni in legge 17/08/2005, n. 168. Oggetto: Circolazione stradale - Sanzioni accessorie per violazioni del codice della strada - Confisca obbligatoria del ciclomotore o motoveicolo adoperato per commettere una delle violazioni amministrative di cui agli artt. 169, commi 2 e 7, 170 e 171 cod. strada o per commettere un reato. Dispositivo: manifesta infondatezza Atti decisi: ord. 799, 800 e 801/2007 |
O.197/2008 del 21/05/2008 Camera di Consiglio del 07/05/2008, Presidente BILE, Relatore SAULLE Norme impugnate: Art. 3, c. 3°, ultimo periodo, del decreto del Presidente della Repubblica 31/08/1999, n. 394. Oggetto: Straniero - Espulsione amministrativa - Traduzione del decreto di espulsione in una lingua conoscibile dallo straniero - Sintesi del provvedimento in lingua francese nell'ipotesi di non disponibilità di interprete di lingua nota allo straniero Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 832 e 833/2007 |
O.198/2008 del 21/05/2008 Camera di Consiglio del 07/05/2008, Presidente BILE, Relatore NAPOLITANO Norme impugnate: Artt. 1, 2, 3, 4, 5, 6 e 7 della legge della Regione Toscana 19/02/2007, n. 9. Oggetto: Tutela della salute - Norme della Regione Toscana - Disciplina delle medicine complementari - Agopuntura, fitoterapia, omeopatia - Istituzione di appositi elenchi dei medici, odontoiatri, veterinari e farmacisti esercenti le medicine complementari - Istituzione di una Commissione per la definizione delle modalità di tenuta degli elenchi, dei criteri di iscrizione, dei criteri per l'accreditamento di strutture extrauniversitarie e per la collaborazione con le Università ai fini della formazione - Istituzione dell'elenco degli istituti di formazione accreditati dalla Regione; Previsioni normative inscindibilmente connesse con quelle specif icamente censurate - Ritenuta illegittimità costituzionale in via consequenziale Dispositivo: estinzione del processo Atti decisi: ric. 22/2007 |
O.199/2008 del 21/05/2008 Camera di Consiglio del 21/05/2008, Presidente BILE, Relatore GALLO Norme impugnate: Art. 53, c. 2°, del decreto legislativo 31/12/1992, n. 546, come modificato dall'art. 3 bis, c. 7°, del decreto legge 30/09/2005, n. 203, convertito con modificazioni in legge 02/12/2005, n. 248. Oggetto: Contenzioso tributario - Proposizione del ricorso in appello - Notificazione dell'appello mediante consegna diretta alla parte appellata (nella specie, l'amministrazione finanz iaria) - Previsione della sanzione di inammissibilità dell'appello nel caso in cui, non essendo stato notificato il ricorso a mezzo di ufficiale giudiziario, l'appellante abbia omesso di depositare copia dell'appello presso l'ufficio di segreteria della commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata. Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens Atti decisi: ord. 793/2007 |
ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi da 587 a 591 e 1221 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), promossi con ricorsi delle Province autonome di Bolzano e Trento notificati il 23 e il 26 febbraio 2007, depositati in cancelleria il 5 e il 6 marzo 2007 ed iscritti ai nn. 12 e 13 del registro ricorsi 2007. Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza dell'11 marzo 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro; uditi gli avvocati Giuseppe Franco Ferrari e Roland Riz per la Provincia autonoma di Bolzano, Giandomenico Falcon per la Provincia autonoma di Trento e gli avvocati dello Stato Giuseppe Fiengo e Michele Dipace per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.- La Provincia autonoma di Bolzano, con ricorso notificato il 23 febbraio 2007 e depositato il successivo 5 marzo, ha promosso questioni di legittimità costituzionale, in via principale, di numerose disposizioni della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), fra le quali anche quelle concernenti l'art. 1, commi da 587 a 591, in riferimento agli artt. 3, 81, 97, 116, 117 e 119 della Costituzione, all'art. 10 della legge cost ituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione), all'art. 8, n. 1, del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670, ed alle norme del Titolo VI del predetto d.P.R. n. 670 del 1972 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), come modificate dalla legge 30 novembre 1989, n. 386 (Norme per il coordinamento della finanza della Regione Trentino-Alto Adige e delle Province autonome di Trento e di Bolzano con la riforma tributaria), nonché alle norme di attuazione dello statuto di cui al d.P.R. 15 luglio 1988, n. 305 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige per l'istituzione delle sezioni di controllo della Corte dei conti di Trento e di Bolzano e per il personale ad esse addetto), al decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), ed al decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 268 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di finanza regionale e provinciale). La ricorrente impugna le suddette disposizioni nella parte in cui stabiliscono che: le amministrazioni pubbliche statali, regionali e locali devono comunicare annualmente al Dipartimento della funzione pubblica alcuni dati e, segnatamente, l'elenco dei consorzi di cui fanno parte e delle società a totale o parziale partecipazione da parte delle amministrazioni medesime, indicando la ragione sociale, la misura della partecipazione, la durata dell'impegno, l'onere complessivo a qualsiasi titolo gravante per l'anno sul bilancio dell'amministrazione, il numero dei rappresentanti dell'amministrazione negli organi di governo, il trattamento economico complessivo a ciascuno di essi spettante (comma 587); nel caso di inosservanza del predetto obbligo (mancata o incompleta comunicazione dei dati), è vietata l'erogaz ione di somme a qualsivoglia titolo da parte dell'amministrazione interessata a favore del consorzio o della società, o a favore dei propri rappresentanti negli organi di governo degli stessi (comma 588); nel caso di mancata o incompleta comunicazione dei dati ed inosservanza del divieto di erogazione di cui al comma 588, viene detratta dai fondi, trasferiti a qualsiasi titolo dallo Stato a quella amministrazione nel medesimo anno, una cifra pari alle spese da ciascuna amministrazione sostenute nell'anno (comma 589); le disposizioni di cui ai commi 587, 588 e 589 costituiscono per le Regioni principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, ai fini del rispetto dei parametri fissati dal patto di stabilità e crescita dell'Unione europea (comma 590); i dati raccolti ai sensi del comma 587 sono pubblici, e sono esposti nel sito web del Dipartimento della funzione pubblica. Il Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione riferisce annualmente alle Camere (comma 591). Le suddette norme sono - secondo la Provincia autonoma di Bolzano - costituzionalmente illegittime sotto molteplici profili. In primo luogo esse introdurrebbero anomali strumenti di controllo sulla gestione finanziaria provinciale, non consentiti dal potere di coordinamento della finanza regionale o provinciale. Esse, inoltre, non conterrebbero principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, bensì disposizioni di dettaglio, direttamente applicabili ai destinatari e non cedevoli, incidenti peraltro sulla materia dell'ordinamento degli uffici provinciali e del personale ad essi addetto, attribuita alla potestà legislativa primaria della Provincia dall'art. 8, n. 1, dello statuto speciale. Esse arrecherebbero, altresì, una lesione alla competenza provinciale in tema di finanza locale nonché alla stessa autonomia finanziaria provinciale, limitando la spesa delle amministrazioni provinciali e locali relativa alla loro partecipazione in consorzi e società attraverso il meccanismo sanzionatorio della riduzione dei trasferimenti erariali. La previsione del meccanismo di ridimensionamento delle entrate provinciali, in caso di esercizio da parte della Provincia della propria autonomia di spesa non accompagnata dalla comunicazione dei dati di cui al comma 587, sarebbe poi irrazionale e tale da determinare una palese disparità di trattamento fra enti territoriali. Sarebbe, infine, violato l'art. 104 dello statuto, non essendo stata rispettata la particolare procedura rinforzata ivi prevista per la modifica del quadro statutario concernente l'autonomia finanziaria provinciale ad opera del legislatore statale. Con particolare riferimento al comma 589, poi, la Provincia ricorrente deduce che, nella parte in cui dispone una riduzione dei trasferimenti statali a qualsiasi titolo spettanti alla Provincia di Bolzano, ove quest'ultima ometta di comunicare o comunichi in maniera incompleta i dati relativi alla partecipazione a consorzi o società e continui ad erogare somme a favore di tali enti partecipati o dei suoi rappresentanti negli organi di governo degli stessi, sarebbero violate le norme del Titolo VI dello statuto e le relative norme di attuazione le quali garantiscono alle Province una compartecipazione al gettito dei tributi erariali. 2.- La Provincia autonoma di Trento, con ricorso notificato in data 26 febbraio 2007, depositato il successivo 6 marzo, ha impugnato, insieme ad altre disposizioni della stessa legge, i commi 588, 589 e 590 dell'art. 1 della legge finanziaria per il 2007, nonché il comma 1221 del medesimo art. 1. In particolare, la Provincia di Trento ha censurato i citati commi 588, 589 e 590, sostenendo che essi violano la competenza legislativa primaria provinciale di cui all'art. 8. n. 1, dello statuto, in materia di organizzazione provinciale, l'autonomia finanziaria della Provincia e le sue competenze in materia di finanza locale quali risultano dal Titolo VI dello statuto (in specie dall'art. 80) e dal d.lgs. n. 268 del 1992 e, «nella misura in cui siano considerati più favorevoli, dagli artt. 117, terzo comma (in relazione al coordinamento della finanza pubblica), e 119, primo comma, Cost., là dove garantisce autonomia di spesa», non introducendo princípi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, bensì disposizioni di dettaglio, direttamente applicabili ai destinatari e non cedevoli. I richiamati commi sarebbero altresì lesivi: dell'art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992, in quanto immediatamente applicabili nel territorio provinciale in una materia di competenza provinciale; dell'autonomia finanziaria degli enti locali; del principio di ragionevolezza e proporzionalità, nella parte in cui pongono un vincolo (il divieto di spesa) irragionevole, non proporzionato e non pertinente al fine perseguito che è quello del «rispetto dei parametri stabiliti dal patto di stabilità e crescita dell'Unione europea», ed introducono un meccanismo sanzionatorio privo di una specifica ragione finanziaria, non connesso ad alcuna violazione delle regole del patto di stabilità o di altra regola relativa alle spese e del tutto estraneo al sistema dei rapporti finanziari tra lo Stato e la Provincia autonoma in tal modo ledendo le prerogative provinciali e degli enti locali. La Provincia autonoma di Trento impugna, altresì, il comma 1221 del medesimo art. 1 della legge n. 296 del 2006, nella parte in cui stabilisce che, in relazione alla disciplina delle modalità di esercizio del diritto di rivalsa da parte dello Stato nei confronti degli enti territoriali che abbiano causato una violazione per la quale lo Stato sia chiamato a rispondere sul piano comunitario, ove non sia stata raggiunta l'intesa - prescritta dal comma 1220 - per l'adozione del decreto del Ministro dell'economia e delle finanze recante la determinazione dell'entità del credito dello Stato nonché l'indicazione delle modalità e dei termini del pagamento, all'adozione del predetto decreto «provvede il Presidente del Consiglio dei Ministri, nei successivi quattro mesi, sentita la Conferenza unificata di cui all'art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281». Tale norma - ad avviso della ricorrente - violerebbe in primo luogo «l'autonomia finanziaria garantita dallo statuto speciale e, qualora più favorevole, dall'art. 119 della Costituzione, in virtù della quale delle risorse delle regioni e province autonome non si può disporre con atto amministrativo statale». Essa lederebbe altresì: il principio di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione di cui all'art. 97, comma primo, della Costituzione, «che [.] vieta di affidare la soluzione della controversia tra amministrazioni ad una delle due confliggenti»; l'art. 24 della Costituzione, in quanto la procedura in esso delineata porterebbe alla creazione di un titolo esecutivo contro una Regione o Provincia autonoma formato direttamente dall'asserito creditore, al di fuori di ogni garanzia giurisdizionale; l 'art. 113 della Costituzione, in quanto non prevede, «avverso il decreto del Presidente del Consiglio, alcuna via di sindacato giurisdizionale, lasciando così pensare che in assoluto non ne esista alcuna»; infine, il principio di certezza del diritto, «sia per il dubbio recato sull'esistenza di un qualunque rimedio, sia - ammesso che il rimedio esista, come deve esistere - per l'incertezza su quale esso sia, se la giurisdizione ordinaria [.] o quello della giurisdizione amministrativa, trattandosi di contestare un provvedimento dell'amministrazione». In subordine, la ricorrente osserva che la norma sarebbe illegittima anche sotto altro profilo, nella parte in cui assegna la competenza decisoria statale all'organo monocratico Presidente anziché all'organo collegiale Governo, sede, quest'ultima, sempre considerata, nell'ambito dell'organizzazione amministrativa, quella in grado di garantire il bilanciamento delle esigenze contrapposte, all'interno della quale lo statuto speciale assicura alla Provincia la facoltà di far sentire la propria voce, attraverso la partecipazione - sia pure senza diritto di voto - del proprio Presidente. 3.- In entrambi i giudizi si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo il rigetto dei ricorsi. Secondo la difesa erariale, la misura prevista dal comma 587 dell'art.1 della legge finanziaria per il 2007 non sarebbe lesiva delle competenze legislative delle ricorrenti, avendo la funzione di consentire la raccolta di dati statistici sulla cui base rendere trasparente la spesa pubblica nazionale, al fine di definire misure di razionalizzazione unitarie, di competenza statale, mentre le sanzioni stabilite per il caso di mancata comunicazione dei dati configurerebbero disposizioni generali di coordinamento della finanza pubblica. In riferimento al comma 1221 dell'art. 1 della medesima legge n. 296 del 2006, la difesa erariale premette che la nuova disciplina introdotta dalla legge finanziaria 2007 configura il diritto dello Stato di rivalersi nei confronti delle amministrazioni che abbiano causato la violazione di cui questi deve rispondere sul piano comunitario. Pertanto, se può essere ragionevole far precedere l'accertamento di tale diritto da una congrua fase di trattative, altrettanto conforme all'ordinamento è che, in mancanza di intesa, si proceda unilateralmente secondo il metodo tradizionale dell'ingiunzione fiscale e/o dell'accertamento in tema di entrate patrimoniali dello Stato. Nella specie sarebbero rispettate tutte le garanzie procedimentali; è assicurata la partecipazione della componente delle autonomie al processo valutativo della pretesa (il parere obbligatorio della Conferenza unificata); infine sussiste la possibilità del ricorso alle sedi giurisdizionali. L'esecutività del titolo è - secondo la resistente - nel sistema, ma non sono esclusi né la sospensione dell'esecuzione né tanto meno l'annullamento giurisdizionale della pretesa statale.< /o:p> Quanto alla dedotta preclusione per la Provincia autonoma di prendere parte alla deliberazione di un Consiglio dei ministri che dovrebbe essere chiamato ad attivare la pretesa statale, la difesa erariale osserva che la pretesa vantata dalla ricorrente appare del tutto inopportuna, stante il voluto carattere unilaterale dell'ingiunzione, oggetto di decisione da parte del Presidente del Consiglio dei ministri. 4.- All'udienza pubblica le parti hanno insistito per l'accoglimento delle conclusioni formulate nelle difese scritte. Considerato in diritto 1.- La Provincia autonoma di Bolzano e la Provincia autonoma di Trento, con due distinti ricorsi, hanno promosso questioni di legittimità costituzionale di numerose norme della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007). 1.1.- Le impugnazioni aventi ad oggetto l'art. 1, commi da 587 a 591 e comma 1221, della legge n. 296 del 2006, sono qui trattate separatamente rispetto alle altre questioni promosse nei suddetti ricorsi e, in quanto formulate in riferimento a profili e con argomenti in parte coincidenti, vanno riunite per essere decise con la medesima sentenza. 2.- Le norme di cui ai commi da 587 a 591 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006 sono censurate nella parte in cui pongono in capo anche alle amministrazioni pubbliche regionali e locali l'obbligo di comunicare annualmente al Dipartimento della funzione pubblica una serie di dati inerenti alla partecipazione delle medesime amministrazioni a consorzi ed a società (comma 587, censurato dalla sola Provincia autonoma di Bolzano), dati che devono essere resi pubblici ed esposti nel sito web del Dipartimento della funzione pubblica, in relazione ai quali il Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione riferisce annualmente a lle Camere (comma 591, censurato anch'esso dalla sola Provincia autonoma di Bolzano). Esse stabiliscono altresì che, in caso di mancata o incompleta comunicazione dei predetti dati, è vietata l'erogazione di somme a qualsivoglia titolo da parte dell'amministrazione interessata a favore del consorzio o della società, o a favore dei propri rappresentanti negli organi di governo degli stessi (comma 588); infine, nell'ulteriore ipotesi in cui alla mancata o incompleta comunicazione dei dati segua l'inosservanza del divieto di erogazione di cui al comma 588, viene detratta dai fondi, trasferiti a qualsiasi titolo dallo Stato a quella amministrazione nel medesimo anno, una cifra pari alle spese da ciascuna amministrazione sostenute nell'anno (comma 589). Secondo le ricorrenti tali previsioni - in contrasto con quanto statuito dal comma 590 del medesimo art. 1 - non introducono principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, bensì disposizioni di dettaglio, direttamente applicabili ai destinatari e non cedevoli. Esse sarebbero, pertanto, costituzionalmente illegittime, in quanto lesive della competenza legislativa primaria assegnata alla Provincia dall'art. 8, n. 1, dello statuto, in materia di ordinamento degli uffici provinciali, dell'autonomia finanziaria ed in specie dell'autonomia di spesa della Provincia e delle sue competenze in materia di finanza locale, nonché dell'autonomia finanziaria degli enti locali, come riconosciute dallo statuto speciale e dalle relative norme di attuazione. Le predette norme sarebbero, inoltre, costituzionalmente illegittime, in quanto il meccanismo di ridimensionamento delle entrate provinciali, previsto in caso di esercizio da parte della Provincia della propria autonomia di spesa non accompagnata dalla comunicazione dei dati di cui al comma 587, sarebbe irrazionale e determinerebbe una palese disparità di trattamento fra enti territoriali, in violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione. La Provincia autonoma di Trento impugna anche il comma 1221 del medesimo art. 1, nella parte in cui stabilisce che, in relazione alla disciplina delle modalità di esercizio del diritto di rivalsa da parte dello Stato nei confronti degli enti territoriali che abbiano causato una violazione per la quale lo Stato sia chiamato a rispondere sul piano comunitario, ove non sia stata raggiunta l'intesa per l'adozione del decreto del Ministro dell'economia e delle finanze recante la determinazione dell'entità del credito dello Stato, nonché l'indicazione delle modalità e dei termini del pagamento, all'adozione del predetto decreto «provvede il Presidente del Consiglio dei Ministri, nei successivi quattro mesi, sentita la Conferenza unificata di cui all'art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281». Tale norma violerebbe l'autonomia finanziaria provinciale, il principio di imparzialità e buon andamento dell'amministrazione, il diritto di agire e difendersi in giudizio della Provincia, il diritto alla tutela giurisdizionale di diritti ed interessi legittimi contro gli atti della pubblica amministrazione nonché il principio di certezza del diritto. 3.- Le questioni prospettate dalla Provincia autonoma di Bolzano in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione sono inammissibili. Questa Corte ha più volte affermato che le Regioni e le Province autonome possono far valere il contrasto con norme costituzionali diverse da quelle attributive di competenza solo ove esso si risolva in una lesione di sfere di competenza regionali o provinciali (così, fra le tante, sentenze n. 401 del 2007, n. 116 del 2006, n. 383 del 2005). Nella specie, le censure sono proposte in relazione a parametri non attinenti al riparto di competenze, senza che sia desunta la compressione di sfere di attribuzione provinciale (fra le tante, sentenze n. 401 del 2007 e n. 116 del 2006). 4.- Inammissibili sono anche le censure sollevate dalla Provincia autonoma di Trento, in relazione al comma 1221 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006. Alcune censure sono state dedotte, infatti, in riferimento a parametri costituzionali - gli artt. 24, 97 e 113 della Costituzione nonché in relazione al principio di certezza del diritto - estranei al riparto di competenze, senza che la loro asserita lesione comporti una violazione dell'autonomia finanziaria provinciale. La censura relativa alla pretesa lesione dell'autonomia finanziaria provinciale è priva di ogni motivazione e deve, dunque, essere dichiarata inammissibile. 4.- Ancora in via preliminare, deve osservarsi che le censure inerenti alla violazione dell'autonomia finanziaria provinciale e degli enti locali, promosse nei confronti dei commi 587, 588, 589 e 590 del medesimo art. 1, devono essere valutate alla stregua delle norme dello statuto (e relative norme di attuazione). Tuttavia, come affermato da questa Corte, il vincolo del rispetto dei princípi statali di coordinamento della finanza pubblica connessi ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari, che grava sulle Regioni ad autonomia ordinaria in base all'art. 119 della Costituzione - pure invocato dalle ricorrenti - si impone anche alle Province autonome nell'esercizio dell'autonomia finanziaria di cui allo statuto speciale (così fra le altre, sentenze n. 82 del 2007, n. 88 del 2006): v i è, pertanto, sotto questo aspetto, una sostanziale coincidenza tra limiti posti alla autonomia finanziaria delle Regioni ad autonomia ordinaria dall'art. 119 della Costituzione e limiti posti all'autonomia finanziaria delle Province autonome dallo statuto speciale. 5.- Nel merito, le questioni proposte dalla Provincia autonoma di Bolzano (reg. ric. n. 12 del 2007) nei confronti dei commi 587 e 591 dell'art. 1 della medesima legge n. 296 del 2006 non sono fondate. L'obbligo posto dal comma 587 in capo alle amministrazioni pubbliche regionali e locali di comunicare annualmente al Dipartimento della funzione pubblica una serie di dati inerenti alla partecipazione delle medesime amministrazioni a consorzi ed a società - così come la previsione che tali dati siano resi pubblici ed esposti nel sito web del Dipartimento della funzione pubblica, ed in relazione ad essi il Ministro per le riforme e le innovazioni nella pubblica amministrazione riferisce annualmente alle Camere (comma 591) - mira a garantire all'amministrazione centrale una adeguata conoscenza della spesa pubblica complessiva in vista dell'adozione di misure di finanza pubblica nazionale idonee ad assicurare il rispetto dei parametri fiss ati nel patto di stabilità e crescita dell'Unione europea. Tali disposizioni sono, infatti, volte a consentire l'acquisizione e l'elaborazione a livello centrale (il coordinamento) dei predetti dati telematici, in possesso delle amministrazioni regionali e locali, allo scopo di soddisfare esigenze di razionalizzazione e contenimento della spesa pubblica (sentenza n. 240 del 2007). Esse, pertanto, costituiscono legittimo esercizio della competenza statale di coordinamento della finanza pubblica che è limite all'autonomia finanziaria delle medesime Province autonome (sentenza n. 82 del 2007). 6.- Le questioni proposte in relazione ai commi 588, 589 e 590 del citato art. 1 sono invece fondate. La previsione del divieto di erogazione di somme in favore di consorzi e società partecipate dalle amministrazioni territoriali, nel caso di inadempimento da parte di queste ultime dell'obbligo di comunicazione dei dati stabilito dal comma 587, contenuta al comma 588, costituisce un illegittimo vincolo all'autonomia di spesa della Provincia di Bolzano, nonché all'autonomia finanziaria degli enti locali, garantite dal Titolo VI dello statuto speciale e, con disposizioni non unilateralmente derogabili dal legislatore statale, dalle relative norme di attuazione introdotte dai decreti legislativi nn. 266 del 16 marzo 1992 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indiri zzo e coordinamento) e 268 del 16 marzo 1992 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di finanza regionale e provinciale) e dal d.P.R. 15 luglio 1988, n. 305 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige per l'istituzione delle sezioni di controllo della Corte dei conti di Trento e di Bolzano e per il personale ad esse addetto) nonché dalla legge 30 novembre 1989, n. 386 (Norme per il coordinamento della finanza della Regione Trentino-Alto Adige e delle Province autonome di Trento e di Bolzano con la riforma tributaria). Questa Corte ha più volte affermato che costituiscono principi di coordinamento della finanza pubblica, vincolanti per le Regioni e le Province autonome, le previsioni di sanzioni volte ad assicurare il rispetto di limiti complessivi di spesa imposti a Regioni ed enti locali, le quali operano nei confronti degli enti che abbiano superato i predetti limiti (in questo senso v. sent. n. 169 del 2007; sent. n. 412 del 2007), Nella specie, la violazione del suddetto obbligo di comunicazione non incide sul complessivo limite di spesa da parte della Regione o dell'ente locale. Pertanto, non può ritenersi che la previsione sanzionatoria di cui al comma 588 a carico delle amministrazioni regionali e locali che non abbiano comunicato i dati prescritti dal comma 587 costituisca - come affermato dal comma 590 - principio di coordinamento della spesa pubblica, vincolante anche per le Regioni e le Province autonome. Sulla base dei medesimi argomenti devono ritenersi fondate anche le censure sollevate nei confronti del comma 589 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006 in riferimento agli artt. 69-71, 75 e 78 dello statuto speciale e, in particolare, all'art. 5 della legge n. 386 del 1989 e all'art. 13, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 268 del 1992. Il predetto comma 589 sanziona la violazione del divieto di erogazione delle somme in favore delle società e dei consorzi partecipati dalle amministrazioni regionali o locali, - stabilito dal comma 588 e conseguente alla violazione dell'obbligo di comunicazione dei dati cui al comma 587 - con la detrazione dai fondi erariali a qualsiasi titolo trasferiti alle medesime Regioni ed enti locali di una somma pari alla spesa sostenuta nell'anno dagli stessi, anche in tal caso senza alcuna connessione con la violazione di un limite complessivo di spesa imposto a Regioni ed enti locali. Anche la previsione di tale sanzione non costituisce dunque principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica - in contrasto con quanto affermato dal comma 590 - ed è quindi lesiva dell'autonomia di spesa e, più in gene rale, dell'autonomia finanziaria regionale e provinciale. Deve pertanto dichiararsi l'illegittimità costituzionale dei commi 588, 589 e 590 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006. 7.- E', infine, non fondata la questione sollevata, in via subordinata, dalla Provincia autonoma di Trento, nei confronti del comma 1221 dello stesso art. 1 della legge n. 296 del 2006 in riferimento all'art. 52, comma 4, dello statuto speciale, il quale stabilisce che il Presidente della Provincia autonoma interviene alle sedute del Consiglio dei ministri, quando si trattano questioni che riguardano la Provincia. Tale norma è impugnata nella parte in cui assegna la competenza ad adottare il provvedimento esecutivo di cui al comma 1220 (il decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, il quale costituisce titolo esecutivo nei confronti degli obbligati e rec a la determinazione dell'entità del credito dello Stato nonché l'indicazione delle modalità e i termini del pagamento), nell'ipotesi di mancato raggiungimento dell'intesa con gli enti territoriali obbligati, all'organo monocratico Presidente del Consiglio dei ministri anziché all'organo collegiale Governo. Appare, infatti, priva di fondamento la pretesa della Provincia autonoma di prendere parte alla deliberazione di un Consiglio dei ministri volta a determinare l'entità del credito dello Stato e le modalità ed i termini di pagamento dello stesso da parte degli enti territoriali obbligati, stante l'esclusiva spettanza del provvedimento al Presidente del Consiglio dei ministri, non essendo stata raggiunta l'intesa prescritta dal citato comma 1220. LA CORTE COSTITUZIONALE riservata a separate pronunce la decisione delle restanti questioni di legittimità costituzionale sollevate con i ricorsi indicati in epigrafe; riuniti i giudizi, 1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dei commi 587, 588, 589, 590 e 591 dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), promosse, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dalla Provincia autonoma di Bolzano, con il ricorso indicato in epigrafe; 2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale del comma 1221 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, promosse, in riferimento agli artt. 24, 97 e 113 della Costituzione nonché al principio di certezza del diritto ed all'autonomia finanziaria delle Regioni, di cui alle norme del Titolo VI del d.P.R. 31 agosto del 1972 n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), dalla Provincia autonoma di Trento, con il ricorso indicato in epigrafe; 3) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, commi 588, 589 e 590, della legge n. 296 del 2006; 4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dei commi 587 e 591 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, promosse, in riferimento agli artt. 8, n.1, e 104 del d.P.R. n. 670 del 1972, alle norme del Titolo VI del d.P.R. n. 670 del 1972, come modificate dalla legge del 1989 n. 386 (Norme per il coordinamento della finanza della Regione Trentino-Alto Adige e delle Province autonome di Trento e di Bolzano con la riforma tributaria) nonché alle norme di attuazione dello statuto di cui al d.P.R. 15 luglio 1988 n. 305 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige per l'istituzione delle sezioni di controllo della Corte dei conti di Trento e di Bolzano e per il personale ad esse addetto), al decreto legislativo del 16 marzo 1992 n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), al decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 268 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di finanza regionale e provinciale) dalla Provincia autonoma di Bolzano e dalla Provincia autonoma di Trento con i ricorsi indicati in epigrafe; 5) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del comma 1221 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, promossa, in riferimento all'art. 52 del d.P.R. n. 670 del 1972, dalla Provincia autonoma di Trento con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giuseppe TESAURO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 giugno 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 103, terzo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382 (Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica), modificato dall'art. 23 della legge 23 dicembre 1999, n. 488, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge finanziaria 2000)», promosso con ordinanza del 13 aprile 2007 dal Tribunale amministrativo regionale del Veneto sul ricorso proposto da Sartori Leonardo ed altri nei confronti dell'Università degli Studi di Padova ed altro, iscritta al n. 739 del registro ordinanze del 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti l'atto di costituzione di Sartori Leonardo ed altri nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 15 aprile 2008 il Giudice relatore Sabino Cassese; udito l'avvocato dello Stato Gianna Maria De Socio per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. - Il Tribunale amministrativo regionale del Veneto ha sollevato, con riferimento agli articoli 3, 33, 36, 76 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 103, terzo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382 (Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica), modificato dall'art. 23 della legge 23 dicembre 1999, n. 488, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge finanziaria 2000)», nella parte in cui non consente ai ricercatori universitari, all'atto della loro immissione nella fascia dei ricercatori confermati, il riconoscimento, per intero ai fini del trattamento di quiescenza e previdenza e per i due terzi ai fini della carriera, dell'attività effettivamente prestata nelle università in qualità di tecnici laureati. La disposizione impugnata stabilisce che ai ricercatori universitari, all'atto della loro immissione nella fascia dei ricercatori confermati, è riconosciuta per intero, ai fini del trattamento di quiescenza e previdenza, e per i due terzi, ai fini della carriera, l'attività effettivamente prestata nelle università in una delle figure previste dall'art. 7 della legge 21 febbraio 1980, n. 28 (Delega al Governo per il riordinamento della docenza universitaria e relativa fascia di formazione, e per la sperimentazione organizzativa e didattica), nonché, a domanda, il periodo corrispondente alla frequenza dei corsi di dottorato di ricerca, ai soli fini del trattamento di quiescenza e previdenza con onere a carico del richiedente. Il Collegio rimettente riferisce che dinanzi a esso pende il giudizio per l'accertamento del diritto di alcuni ricercatori universitari al riconoscimento del servizio prestato presso l'Università di Padova, in qualità di tecnici laureati, ai fini della ricostruzione della carriera. In ordine alla non manifesta infondatezza della questione, il Tribunale, innanzitutto, dubita della legittimità costituzionale della scelta del legislatore di attribuire rilievo al servizio pregresso nella qualifica di tecnico laureato per i professori ordinari e associati e non per i ricercatori, ritenendo che, nella disciplina della ricostruzione delle carriere, debbano essere comunque rispettati criteri di individuazione coerentemente unitari dei servizi pregressi, stante la sostanziale appartenenza delle tre figure indicate a un unico sviluppo della medesima carriera. Richiamata la giurisprudenza costituzionale che, ai fini del riconoscimento dei servizi prestati, richiede un collegamento tra la posizione precedente e la nuova (sentenza n. 305 del 1995), il rimettente osserva che la mancata previsione, per i ricercatori, del riconoscimento del servizio prestato come tecnico laureato, prima della legge 14 gennaio 1999, n. 4 (Disposizioni riguardanti il settore universitario e della ricerca scientifica, nonché il servizio di mensa nelle scuole), era originariamente giustificata perché la disciplina del 1980 non consentiva il transito tra tali due figure, essendo previsto solo il passaggio dalla figura di tecnico laureato a quella di professore associato. La legge n. 4 del 1999, tuttavia, prevedendo la possibilità per i tecnici laureati di ac cedere al ruolo dei ricercatori attraverso concorsi riservati, avrebbe mutato l'assetto ordinamentale, facendo sì che quella mancata previsione determinasse una disparità di trattamento, con conseguente violazione degli artt. 3 e 97 Cost. In secondo luogo, ad avviso del rimettente, dopo la sopravvenienza della legge n. 4 del 1999, la norma censurata violerebbe anche l'art. 76 Cost., in quanto tra i criteri di delega indicati dalla legge n. 28 del 1980 per il riordino della docenza universitaria, vi era il riconoscimento dei periodi di servizio effettivamente prestato presso le università «ai sensi delle leggi vigenti»: quest'ultimo riferimento avrebbe una «valenza dinamicamente finalizzata ad impedire situazioni di disparità». Il rimettente denuncia, in terzo luogo, la violazione dell'art. 36, primo comma, Cost., sotto il profilo della proporzionalità della retribuzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato. Sarebbe violato, infine, l'art. 33 Cost., in quanto sarebbero inficiate la peculiarità dell'autonomia universitaria e la correlativa libertà della funzione docente, anche considerando che l'art. 3, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche) prefigura, per le categorie di personale pubblico non contrattualizzato da esso menzionate, un assetto di carriera sostanzialmente unitario, non diversificabile nei suoi presupposti se non per coerenti e giustificate scelte del legislatore, che nel caso di specie non sarebbe dato rinvenire. In ordine alla rilevanza della questione, il Collegio rimettente riferisce che nel giudizio a quo è impugnato l'atto con cui l'amministrazione universitaria ha negato ai ricorrenti il riconoscimento del servizio prestato in qualità di tecnici laureati e rileva che l'accoglimento del ricorso è precluso dall'attuale formulazione della disposizione impugnata. 2. - È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato. La difesa statale afferma l'infondatezza della censura relativa agli artt. 3 e 97 Cost., in quanto basata sul presupposto della sostanziale appartenenza delle figure del professore ordinario, del professore associato e del ricercatore ad un unico sviluppo della stessa carriera. Al riguardo, si indicano i diversi compiti e responsabilità che la legge riserva alle rispettive figure e si osserva che la giurisprudenza costituzionale si è più volte espressa nel senso di una precisa distinzione di ruoli tra le figure indicate (si citano le sentenze n. 94 del 2002 e n. 990 del 1988). Né, secondo l'Avvocatura generale dello Stato, la violazione dell'art. 3 Cost. può derivare dalla novella del 1999, che ha consentito il transito dei tecnici laureati nel ruolo dei ricercatori, invece che in quello degli associati, come previsto dalla disciplina del 1980. Entrambe le norme, infatti, sarebbero di carattere congiunturale, finalizzate alla sistemazione del personale tecnico delle università in modi diversi: mentre in base alla disciplina del 1980 il passaggio dalla figura di tecnico laureato a quella di professore associato poteva avvenire attraverso un giudizio idoneativo, che implica una certa continuità con l'attività precedentemente svolta, quella del 1999 richiedeva, per il passaggio alla figura di ricercatore, la partecipazione a un concorso, che implica u na netta cesura rispetto al servizio pregresso. Con la diversità di questi meccanismi è coerente, secondo la difesa statale, la diversità di trattamento in ordine alla ricostruzione della carriera. Per quanto riguarda la lamentata violazione dell'art. 97 Cost., la difesa statale ricorda la giurisprudenza costituzionale che esclude che il principio di buon andamento dell'amministrazione possa essere richiamato per conseguire automaticamente miglioramenti economici e retributivi di categoria (sentenze n. 273 del 1997, n. 15 del 1995, n. 146 del 1994 e ordinanza n. 94 del 2002). In ordine alla prospettata violazione dell'art. 76 Cost., rilevata la peculiarità della relativa censura, che sembra profilare un eccesso di delega sopravvenuto, l'Avvocatura generale dello Stato osserva che il riferimento alle leggi vigenti allude solo alle leggi relative ai trattamenti pensionistici, come osservato dalla Corte costituzionale, la quale avrebbe anche implicitamente affermato che il richiamo alle leggi vigenti non è pertinente con riferimento al riconoscimento del servizio ai fini della carriera, la cui regolamentazione, in base al disposto della legge delega, doveva essere operato in analogia con le norme generali sul pubblico impiego (sentenza n. 305 del 1995). Per quanto riguarda la censura relativa all'art. 36 Cost., la difesa statale osserva che il principio generale della proporzionalità della retribuzione alla quantità e qualità del lavoro prestato è rispettato, in quanto il pregresso servizio di tecnico laureato è stato a suo tempo regolarmente retribuito. Infine, l'Avvocatura generale dello Stato deduce l'inammissibilità della censura relativa all'art. 33 Cost., in quanto il parametro sarebbe inconferente rispetto alla relativa motivazione, volta piuttosto a denunciare una ulteriore violazione dell'art. 3 Cost. 3. - Si sono costituiti anche i ricorrenti nel giudizio a quo, i quali hanno concluso per l'accoglimento della questione di legittimità costituzionale, richiamando le argomentazioni svolte nel ricorso introduttivo dinanzi al giudice rimettente e aderendo a quelle esposte nell'ordinanza di rimessione. Considerato in diritto 1. - Il Tribunale amministrativo regionale del Veneto ha sollevato, con riferimento agli articoli 3, 33, 36, 76 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 103, terzo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382 (Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica), modificato dall'art. 23 della legge 23 dicembre 1999, n. 488, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge finanziaria 2000)», nella parte in cui non consente ai ricercatori universitari, all'atto della loro immissione nella fascia dei ricercatori confermati, il riconoscimento, per intero ai fini del trattamento di quiescenza e previdenza e per i due terzi ai fini della carriera, dell'attività effettivamente prestata nelle università in qualità di tecnici laureati. Secondo il Collegio rimettente, la disposizione impugnata viola: gli artt. 3 e 97 Cost., operando una disparità di trattamento tra situazioni di identica professionalità maturata nella pregressa carriera; l'art. 76 Cost., derogando al criterio, indicato dalla legge 21 febbraio 1980, n. 28 (Delega al Governo per il riordinamento della docenza universitaria e relativa fascia di formazione, e per la sperimentazione organizzativa e didattica), relativo al riconoscimento dei periodi di servizio effettivamente prestato presso le università ai sensi delle leggi vigenti; l'art. 36, primo comma, Cost., sotto il profilo della proporzionalità della retribuzione alla quantità e alla qualità del lavoro prestato; l'art. 33 Cost., in quanto sarebbero inficiate la peculiarità dell'autonomia universitaria e la correlativa libertà della funzione docente. 2. - La questione è fondata con riferimento agli articoli 3 e 97 Cost. Questa Corte ha già riconosciuto la possibilità che il legislatore preveda, a favore dei dipendenti pubblici all'atto dell'assunzione, il riconoscimento dei servizi già prestati in pubbliche amministrazioni, limitandolo «ai casi di passaggi di carriera tra diverse amministrazioni, in presenza però di un'identità ordinamentale che consenta di ravvisare una corrispondenza di qualifiche, ovvero addirittura all'ipotesi di omogeneità di carriera per il servizio prestato anteriormente alla nomina» (sentenza n. 305 del 1995). In presenza di un simile presupposto, peraltro, il riconoscimento deve essere operato in modo da evitare irragionevoli disparità di trattamento. Il presupposto dell'identità ordinamentale sussiste per i tecnici laureati che, in base alle previsioni della legge 14 gennaio 1999, n. 4 (Disposizioni riguardanti il settore universitario e della ricerca scientifica, nonché il servizio di mensa nelle scuole), siano stati inquadrati nel ruolo dei ricercatori confermati a seguito di concorsi riservati. Questa Corte è consapevole del fatto che le funzioni dei tecnici laureati - di ausilio ai docenti e di gestione dei laboratori - sono diverse da quelle dei ricercatori e ha più volte affermato, anche in epoca recente, che, nonostante una certa assimilazione dei rispettivi compiti, rimane l'«essenziale differenziazione» tra le due categorie (ordinanze n. 160 del 2003 e nn. 262 e 94 del 2002). La Corte è consapevole anche del fatto che la previsione di un meccanismo di transito agevolato da un ruolo all'altro, come il concorso riservato, non è di per sé sufficiente a colmare queste differenze. Occorre tuttavia osservare che di questo meccanismo, previsto dalla citata legge n. 4 del 1999, i tecnici laureati potevano beneficiare solo se, alla data di entrata in vigore della legge stessa, avessero svolto almeno tre anni di attività di ricerca. Ciò dimostra che - pur non rendendo omogenee le due categorie - il legislatore del 1999 ha voluto dare riconoscimento a una situazione di fatto, data dall'utilizzazione della figura del tecnico laureato come canale di accesso alla carriera universitaria e dal conseguente svolgimento di attività di ricerca da parte dei tecnici laureati. In questo quadro, la differenza tra il trattamento che la disposizione impugnata riserva ai tecnici laureati che diventino ricercatori, rispetto a quello riservato ai tecnici laureati che diventino professori, è manifestamente irragionevole. Non si può fare a meno di notare, al riguardo, che, per il transito dei tecnici laureati al ruolo dei professori associati, l'art. 50 del decreto del Presidente della Repubblica n. 382 del 1980 prevedeva un meccanismo molto simile a quello previsto nel 1999 per il transito al ruolo dei ricercatori confermati, con un giudizio di idoneità al quale potevano accedere i tecnici laureati che avessero svolto tre anni di attività didattica e scientifica. Deve quindi essere dichiarata l'illegittimità costituzionale, per contrasto con gli articoli 3 e 97 Cost., della disposizione impugnata, nella parte in cui non riconosce ai ricercatori il servizio prestato come tecnici laureati con almeno tre anni di attività di ricerca. 3. - Restano assorbite le censure relative agli altri parametri costituzionali evocati. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 103, terzo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382 (Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica), modificato dall'art. 23 della legge 23 dicembre 1999, n. 488, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge finanziaria 2000)», nella parte in cui non riconosce ai ricercatori universitari, all'atto della loro immissione nella fascia dei ricercatori confe rmati, per intero ai fini del trattamento di quiescenza e previdenza e per i due terzi ai fini della carriera, l'attività effettivamente prestata nelle università in qualità di tecnici laureati con almeno tre anni di attività di ricerca. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Sabino CASSESE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 giugno 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 152, comma 1, 2 e 3, 162, comma 2 e 3, e 165 comma 2 e 3, del decreto legislativo 13 ottobre 2005, n. 217 (Ordinamento del personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco a norma dell'articolo 2 della L. 30 settembre 2004, n. 252), promossi con ordinanze del 16 gennaio 2007 dal Tribunale amministrativo regionale del Veneto sul ricorso proposto da Benigni Paolo ed altri contro il Ministero dell'Interno e del 7 maggio 2007 dal Tribunale amministrativo regionale della Calabria - sezione staccata di Reggio Calabria sul ricorso proposto da Puntorieri Massimo ed altri contro il Ministero dell'Interno, iscritte ai nn. 365 e 840 del registro ordinanze del 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell'anno 2007 e n. 4, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visti gli atti di costituzione di Facciolo Antonio, di Puntorieri Massimo ed altri nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 1° aprile 2008 il Giudice relatore Sabino Cassese; uditi gli avvocati Francesco Caputo per Facciolo Antonio, Raffaele Silipo per Puntorieri Massimo ed altri e l'avvocato dello Stato Paola Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. - Il Tribunale amministrativo regionale del Veneto ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 76 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 162, commi 2 e 3, e 165, commi 2 e 3, del decreto legislativo 13 ottobre 2005, n. 217 (Ordinamento del personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco a norma dell'articolo 2 della L. 30 settembre 2004, n. 252), nella parte in cui non prevedono l'inquadramento nelle nuove qualifiche di «funzionario amministrativo - contabile direttore» e di «funzionario amministrativo contabile direttore - vicedirigente», o comunque in un ruolo direttivo speciale, dei direttori amministrativi e dei coordinatori amministrativi privi di laurea. Il Collegio rimettente riferisce che dinanzi a esso pende il giudizio di annullamento del provvedimento con il quale i ricorrenti, dipendenti del Corpo nazionale dei vigili del fuoco già inquadrati come direttori amministrativi e coordinatori amministrativi, sono stati inquadrati nella qualifica di «sostituto direttore amministrativo - contabile capo». Le disposizioni impugnate prevedono, in sede di riordino della disciplina del rapporto di impiego del personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, un nuovo inquadramento del personale, stabilendo per i direttori amministrativi e per i coordinatori amministrativi, già inquadrati nell'area C, diversi regimi, secondo che essi siano laureati o meno: se laureati, i direttori amministrativi e i coordinatori amministrativi vengono inquadrati, rispettivamente, nelle qualifiche di «funzionario amministrativo - contabile direttore» e di «funzionario amministrativo - contabile direttore-vicedirigente» (art. 165); se non laureati, gli uni e gli altri vengono inquadrati nella qualifica, gerarchicamente e funzionalmente subordinata, di «sostituto direttore amministrativo-contabile c apo», con l'attribuzione ai coordinatori amministrativi dello scatto convenzionale di cui all'articolo 105 e della denominazione aggiuntiva di «esperto» (art. 162). In ordine alla rilevanza della questione, il Collegio rimettente riferisce che il ricorso a esso proposto è esclusivamente affidato a censure di illegittimità costituzionale delle disposizioni impugnate, delle quali il provvedimento impugnato costituisce applicazione. In ordine alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale delle disposizioni in questione con riferimento a diversi parametri. In primo luogo, esse violerebbero l'articolo 76 della Costituzione, in quanto contrastanti con l'art. 2, comma 1, lettera b, punto 2, della legge delega sulla base della quale il decreto legislativo n. 217 del 2005 è stato emanato (legge 30 settembre 2004, n. 252). La legge delega, infatti, stabiliva che il riassetto dei ruoli prevedesse avanzamenti fondati su «adeguate modalità di sviluppo verticale e orizzontale basate principalmente su qualificate esperienze professionali, sui titoli di studio e sui percorsi di formazione e qualificazione professionali». Secondo il rimettente, le qualificate esperienze professionali sono state trascurate, per valorizzare esclusivamente il titolo di studio. In secondo luogo, sarebbero violati gli articoli 3 e 97 della Costituzione e, in particolare, il principio di eguaglianza, per il diverso trattamento del personale sprovvisto di laurea operato dalle disposizioni impugnate e da quelle relative ad altre categorie di personale non contrattualizzato (Polizia di Stato, Corpo forestale dello Stato, Corpo della polizia penitenziaria). La violazione del principio di eguaglianza, poi, determinerebbe una lesione del canone di buon andamento dell'amministrazione, di cui all'articolo 97, perché le disposizioni sarebbero idonee a creare situazioni di malcontento e, quindi, a demotivare i dipendenti non laureati. In terzo luogo, sarebbe violato l'art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto «l'eccessiva valorizzazione della laurea, rispetto all'anzianità di servizio e alla connessa professionalità acquisita sul campo», consentirebbe a giovani laureati di sopravanzare in qualifica dipendenti di (precedente) pari qualifica con maggiore anzianità ed esperienza. Osserva il giudice a quo che la pur ampia discrezionalità di cui gode il legislatore in tema di inquadramento è censurabile quando emergano profili di manifesta irragionevolezza (sentenze n. 4 del 1994, nn. 448 e 324 del 1993 e n. 332 del 1992): ciò che - prosegue - avviene in questo caso, in quanto il legislatore ha assunto come unico criterio discriminante quello del titolo di studio, che non è rivelatore dell'esperienza e della preparazione professionale indispensabili per il riconoscimento di una qualifica superiore. 2. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato. La difesa statale nega, innanzitutto, che le disposizioni impugnate siano viziate per eccesso di delega. Osserva che, tra i principi e criteri direttivi enunciati dalla legge n. 252 del 2004, compare la possibilità di istituire «apposite aree di vicedirigenza per l'accesso alle quali è richiesto il possesso di lauree specialistiche e di eventuali titoli abilitativi» (art. 2, lett. b, n. 2): era la stessa legge delega, dunque, a subordinare l'accesso alla vicedirigenza al possesso della laurea, e il legislatore delegato ha correttamente previsto ruoli separati per il personale diplomato e il personale laureato. Né, d'altra parte, prosegue l'Avvocatura generale dello Stato, si può ritenere che la legge delega, ai fini del riassetto e dei previsti avanzamenti, abbia inteso dare prevalenza all'esperienza professionale rispetto al titolo di studio. In ordine alla disparità di trattamento rispetto ad altre categorie di personale non contrattualizzato, l'Avvocatura generale dello Stato osserva in via preliminare che le discipline relative alla Polizia di Stato, al Corpo forestale dello Stato e al Corpo della polizia penitenziaria, menzionate nell'ordinanza di rimessione, sono discipline di natura eccezionale, non idonee a essere assunte come tertia comparationis. Per ciascuna di esse, infatti, è istituito un ruolo direttivo speciale, che presenta modalità di accesso del tutto particolari, che consentono al personale interno di accedervi, in deroga alla regola generale vigente per l'accesso per concorso, senza il possesso della laurea. Le discipline in questione non potrebbero ess ere validamente assunte a termine di paragone anche per via del difetto di omogeneità con la disciplina censurata (sentenza n. 10 del 1983), dato che esse si riferiscono al personale operativo e non a quello amministrativo-contabile: e, se per il personale operativo l'esperienza sul campo e l'anzianità di servizio possono assumere, in ordinamenti particolari, un peculiare rilievo, ciò non può dirsi per il personale amministrativo, per il quale non esistono analoghi ruoli speciali in nessun ordinamento. Né, ad avviso dell'Avvocatura generale dello Stato, si potrebbe dedurre l'irragionevolezza della disciplina dall'identità di qualifiche che caratterizzava laureati e diplomati nel vecchio inquadramento, che era il risultato di esigenze contingenti e transitorie. Per dimostrare quest'ultimo assunto, l'Avvocatura generale dello Stato ripercorre l'evoluzione della disciplina dei vigili del fuoco, con particolare riguardo all'inquadramento, mettendo in rilievo la situazione eccezionale che aveva condotto all'inquadramento di personale diplomato in area C, comprendente qualifiche normalmente riservate a quello laureato. L'Avvocatura generale dello Stato insiste poi sulla coerenza del nuovo ordinamento, che richiede il diploma per l'accesso a determinate qualifiche e la laurea per l'accesso ad altre; sulla sua coerenza con l'ordinamento previgente, che pure prevedeva la laurea come normale requisito per l'accesso alle seconde e del quale il nuovo costituisce la naturale evoluzione; e sul fatto che i compiti attribuiti al personale diplomato non sono peggiorativi rispetto all'inquadramento precedente. Infine, l'Avvocatura generale dello Stato nega la violazione del principio del buon andamento, che è invece correttamente applicato prevedendo un titolo di studio superiore per qualifiche superiori. 3. - Si è costituito uno dei ricorrenti dinanzi al Tribunale amministrativo regionale, sostenendo la fondatezza della questione di legittimità costituzionale. 4. - In prossimità della data fissata per l'udienza, sia il ricorrente nel giudizio principale sia l'Avvocatura generale dello Stato hanno depositato memorie per ribadire gli argomenti posti a sostegno delle rispettive prospettazioni. 5. - Il Tribunale amministrativo regionale della Calabria ha sollevato, con riferimento agli articoli 3, 76 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'articolo 153, commi 1, 2 e 3, del decreto legislativo n. 217 del 2005, nella parte in cui non prevede l'inquadramento nel nuovo ruolo direttivo con la qualifica di direttori e direttori-vicedirigenti, ovvero in un istituendo ruolo direttivo speciale, dei collaboratori tecnici antincendi della VII qualifica funzionale privi di laurea. Il Collegio rimettente riferisce che dinanzi a esso pende il giudizio di annullamento del provvedimento con il quale i ricorrenti, dipendenti del Corpo nazionale dei vigili del fuoco già inquadrati nell'area C come collaboratori tecnici antincendi, sono stati inquadrati, nell'ambito del nuovo ruolo degli ispettori e dei sostituti direttori antincendi, previsto dalla norma impugnata, in un ruolo inferiore rispetto a quello dei colleghi laureati, aventi precedentemente le stesse qualifiche. Il Collegio rimettente richiama e fa proprie le argomentazioni poste alla base della questione di legittimità costituzionale, già sollevata dal Tribunale amministrativo regionale del Veneto con riferimento all'articolo 153 (recte 152), commi 1, 2 e 3, e sottolinea in particolare che, nonostante, da un lato, la norma riguardi personale per il quale in passato il diploma di laurea non era stato ritenuto espressione di una superiore professionalità, e, dall'altro, la legge delega recasse tra i criteri direttivi per il riassetto dei ruoli anche le esperienze professionali e i percorsi di formazione e qualificazione, il legislatore delegato ha insistito esclusivamente sui titoli di studio. 6. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato. La difesa statale ripercorre l'evoluzione della disciplina dei vigili del fuoco, con particolare riguardo all'inquadramento, per osservare che: la previsione di ruoli distinti per il personale laureato e per quello diplomato vi è sempre stata; nel precedente ordinamento, l'inquadramento nell'area C non comportava l'attribuzione a tutto il relativo personale di funzioni direttive, data la diversità di profili previsti all'interno di detta area; in detto inquadramento vi erano comunque profili riservati ai laureati; nel nuovo ordinamento, le funzioni del personale diplomato non sono state diminuite, ma ampliate. Per quanto riguarda la lamentata disparità di trattamento rispetto ad altre categorie di personale non contrattualizzato, l'Avvocatura generale dello Stato rileva l'impossibilità di assumere le relative discipline come termini di comparazione per la loro diversità rispetto al Corpo dei vigili del fuoco, trattandosi di categorie di personale formalmente appartenenti alle forze di polizia. D'altra parte, prosegue l'Avvocatura generale dello Stato, l'accesso ai ruoli direttivi speciali previsti per quelle categorie è riservato al personale laureato e, comunque, si tratta di ruoli istituiti in virtù di presupposti normativi specifici relativi ai singoli ordinamenti, e non sulla base di presupposti di carattere generale. In particolare, il ruolo direttivo speciale del Corpo di pol izia penitenziaria è stato previsto in base a una disposizione della relativa legge delega, avendosi quindi una situazione diversa da quella in esame; quello del Corpo forestale dello Stato è stato previsto a scopo di omogeneizzazione con i ruoli della Polizia di Stato; e, per quanto riguarda quest'ultima, le relative previsioni non sono ancora state attuate. In ordine alla lamentata lesione del principio di eguaglianza, la difesa statale osserva che, se il legislatore avesse disposto l'inquadramento di personale diplomato nel ruolo direttivo, avrebbe violato la legge delega e operato una palese disparità di trattamento. In ordine alla censura relativa all'eccesso di delega, l'Avvocatura generale dello Stato osserva che la legge delega indicava, come elemento caratterizzante del nuovo ordinamento del personale, la distinzione tra il personale inquadrato nelle qualifiche dirigenziali e nei profili richiedenti la laurea, da un lato, e il restante personale, dall'altro. E rileva che al legislatore delegato era riconosciuto un potere di valutazione discrezionale, come dimostrato anche dai lavori parlamentari. In ordine alla censura relativa al principio del buon andamento, infine, l'Avvocatura generale dello Stato osserva che la Corte costituzionale ha escluso che la demotivazione del personale possa costituire un limite all'attività del legislatore in materia di organizzazione del personale (sentenza n. 335 del 1992). 7. - Si sono costituiti anche i ricorrenti dinanzi al Tribunale amministrativo regionale, sostenendo la fondatezza della questione di legittimità costituzionale. 8. - In prossimità della data fissata per l'udienza, sia i ricorrenti nel giudizio principale sia l'Avvocatura generale dello Stato hanno depositato memorie per ribadire gli argomenti posti a fondamento delle rispettive prospettazioni. Considerato in diritto 1. - Il Tribunale amministrativo regionale del Veneto ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli articoli 162, commi 2 e 3, e 165, commi 2 e 3, del decreto legislativo 13 ottobre 2005, n. 217 (Ordinamento del personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco a norma dell'articolo 2 della L. 30 settembre 2004, n. 252), nella parte in cui non prevedono l'inquadramento dei direttori amministrativi e dei coordinatori amministrativi privi di laurea nelle nuove qualifiche di «funzionario amministrativo - contabile direttore» e di «funzionario amministrativo contabile direttore - vicedirigente», o comunque in un ruolo direttivo speciale. 2. - Il Tribunale amministrativo regionale della Calabria ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'articolo 153, commi 1, 2 e 3, dello stesso decreto legislativo, nella parte in cui non prevede l'inquadramento dei collaboratori tecnici antincendi della VII qualifica funzionale privi di laurea nel nuovo ruolo direttivo con la qualifica di direttori e direttori-vicedirigenti, ovvero in un istituendo ruolo direttivo speciale. I due collegi rimettenti dubitano della legittimità costituzionale delle norme impugnate con riferimento agli stessi parametri costituzionali: l'articolo 3 della Costituzione, sia sotto il profilo del diverso trattamento del personale sprovvisto di laurea, operato dalle disposizioni impugnate, rispetto a quelle relative ad altre categorie di personale non contrattualizzato, sia sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto «l'eccessiva valorizzazione della laurea, rispetto all'anzianità di servizio e alla connessa professionalità acquisita sul campo», consentirebbe a giovani laureati di sopravanzare in qualifica dipendenti di (precedente) pari qualifica con maggiore anzianità ed esperienza; l'articolo 97 della Costituzione, sotto il profilo del principio di buon andamento, in quanto le disposizioni impugnate potrebbero creare situazioni di malcontento e, quindi, demotivare i dipendenti non laureati; e l'articolo 76 della Costituzione, in quanto le disposizioni impugnate contrasterebbero con l'art. 2, comma 1, lettera b, punto 2, della legge delega (legge 30 settembre 2004, n. 252), secondo cui il riassetto dei ruoli avrebbe dovuto prevedere avanzamenti fondati su «adeguate modalità di sviluppo verticale e orizzontale basate principalmente su qualificate esperienze professionali, sui titoli di studio e sui percorsi di formazione e qualificazione professionali». 3. - In considerazione dell'identità della materia, nonché dei profili di censura parzialmente coincidenti, i giudizi vanno riuniti per essere definiti con un'unica pronuncia. Prescindendo dalla genericità con cui entrambi i rimettenti formulano le questioni, in termini quasi alternativi, esse possono essere esaminate nel merito. 4. - Le questioni sollevate con riferimento all'articolo 76 della Costituzione non sono fondate. I collegi rimettenti ritengono che le disposizioni impugnate abbiano attribuito rilievo al titolo di studio e non anche all'esperienza professionale ed abbiano così violato le previsioni della legge delega, che richiedeva di disciplinare i criteri di avanzamento in carriera prevedendo modalità di sviluppo verticale e orizzontale che tenessero conto delle esperienze professionali, oltre che dei titoli di studio. In realtà, dell'esperienza professionale del personale in servizio il legislatore delegato ha tenuto conto, in quanto ha proceduto ai nuovi inquadramenti muovendo dai profili professionali, nei quali i dipendenti interessati erano precedentemente inquadrati. Ed è evidente che l'inquadramento in un profilo professionale implica la valutazione dell'esperienza già acquisi ta dal lavoratore. È vero che il legislatore delegato, nel definire il nuovo ordinamento, ha riconosciuto un particolare rilievo al diploma di laurea, inquadrando i dipendenti in qualifiche diverse in base al suo possesso o alla sua mancanza, ma una simile scelta non era certo preclusa dalla legge delega, la quale non imponeva di attribuire lo stesso rilievo ai titoli di studio e agli altri titoli, ma solo di tener conto «principalmente» degli uni e degli altri, cosa che il legislatore delegato ha fatto. 5. - Anche le questioni sollevate con riferimento all'articolo 97 della Costituzione non sono fondate. Questa Corte ha già affermato che l'esigenza di non demotivare il pubblico dipendente non può essere invocata come limite alle scelte del legislatore e che il principio del buon andamento dell'amministrazione può, al contrario, richiedere interventi legislativi che impongano sacrifici al personale (sentenza n. 335 del 1992). 6. - Non sono fondate, infine, neppure le questioni sollevate con riferimento all'articolo 3 della Costituzione. In ordine all'articolazione delle carriere e dei passaggi di qualifica, questa Corte ha riconosciuto un ampio margine di apprezzamento al legislatore, le cui scelte possono essere sindacate solo se arbitrarie o manifestamente irragionevoli (sentenze n. 234 del 2007, n. 4 del 1994 e n. 448 del 1993). Nel caso in esame, non emergono profili di arbitrarietà o irragionevolezza, in quanto le disposizioni impugnate richiedono requisiti più rigorosi per lo svolgimento di mansioni superiori. Si può aggiungere che il diverso inquadramento del personale laureato e di quello diplomato è del tutto normale nel settore pubblico, come è ora dimostrato dalla previsione dell'articolo 17-bis del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, che - a regim e - richiede il diploma di laurea per l'accesso alla vicedirigenza. Né hanno pregio le censure basate sulla differenza tra il trattamento riservato al personale non laureato dalle disposizioni impugnate e da altre discipline relative a categorie di dipendenti pubblici sottratti alla contrattualizzazione del rapporto di lavoro. In primo luogo, il paragone è fatto con le intere categorie e non con le figure professionali similari. In secondo luogo, i ruoli direttivi speciali, previsti per quelle categorie, sono stati introdotti da discipline derogatorie, che non possono essere assunte come termini di paragone. In terzo luogo, il confronto è escluso anche dal fatto che i tertia comparationis invocati sono rappresentati da norme che disciplinano personale appartenente, a differenza di quello del Corpo na zionale dei vigili del fuoco, a forze di polizia. In quarto luogo, per quanto riguarda la questione sollevata dal Tribunale amministrativo regionale del Veneto, quelle invocate come termini di paragone sono norme relative a qualifiche del personale operativo, mentre le disposizioni impugnate riguardano personale amministrativo-contabile. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate, rispettivamente, dal Tribunale amministrativo regionale del Veneto in ordine agli articoli 162, commi 2 e 3, e 165, commi 2 e 3, del decreto legislativo 13 ottobre 2005, n. 217 (Ordinamento del personale del Corpo nazionale dei vigili del fuoco a norma dell'articolo 2 della L. 30 settembre 2004, n. 252), e dal Tribunale amministrativo regionale della Calabria in ordine all'articolo 153, commi 1, 2 e 3, dello stesso decreto legislativo, in riferimento agli articoli 3, 76 e 97 della Co stituzione, con le ordinanze in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Sabino CASSESE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 giugno 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 69, quarto comma, e 81, quarto comma, del codice penale, come modificati dagli artt. 3 e 5, comma 1, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promosso con ordinanza del 7 febbraio 2007 dal Tribunale di Cagliari nel procedimento penale a carico di L. R., iscritta al n. 487 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick. Ritenuto che, con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Cagliari ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale: a) dell'art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall'art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui, nel disciplinare il concorso di circostanze eterogenee, vieta al giudice di ritenere le circostanze attenuanti prevalenti sull'aggravante della recidiva r eiterata, di cui all'art. 99, quarto comma, cod. pen.; b) dell'art. 81, quarto comma, cod. pen., aggiunto dall'art. 5, comma 1, della medesima legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede che, rispetto ai recidivi reiterati, l'aumento di pena per la continuazione non può essere inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave; che il rimettente riferisce di essere chiamato a giudicare, nelle forme del rito abbreviato, una persona imputata dei reati di rapina cosiddetta impropria (art. 628, secondo comma, cod. pen.) e di lesioni personali aggravate (artt. 61, numero 2, 582 e 585 cod. pen.), con l'aggravante della recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale; che dagli atti processuali emergeva, in particolare, che l'imputato - dopo essersi impossessato di un paio di occhiali, sottraendoli da un esercizio commerciale - al fine di evitare di essere fermato dalla persona offesa, e di procurarsi quindi l'impunità, aveva inferto a detta persona una spinta e le aveva stretto con forza le mani, procurandole un'abrasione giudicata guaribile in tre giorni; che, ad avviso del giudice a quo, tenuto conto delle particolarità del fatto e delle condizioni di vita dell'imputato, sarebbero ravvisabili le circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, numero 4), e 62-bis cod. pen.: attenuanti che, peraltro, a fronte del divieto posto dall'art. 69, quarto comma, cod. pen., come novellato dall'art. 3 della legge n. 251 del 2001, potrebbero essere dichiarate tutt'al più equivalenti all'aggravante della recidiva reiterata e non anche prevalenti su di essa, come invece richiederebbero le caratteristiche del caso concreto; che, ciò premesso, il rimettente ritiene che la previsione del citato art. 69, quarto comma, cod. pen. si ponga in contrasto con i principi di ragionevolezza e di eguaglianza: giacché, per un verso, imporrebbe di punire allo stesso modo fatti di diversa gravità concreta; e, per un altro verso, farebbe sì che vengano puniti in modo diverso fatti oggettivamente identici, a fronte del solo elemento differenziale rappresentato dalla qualità di recidivo reiterato dell'autore; che, con la norma censurata, il legislatore avrebbe introdotto, in sostanza, un «automatismo sanzionatorio» atto a determinare, in violazione dell'art. 3 Cost., una «omologazione» dei recidivi reiterati sulla base di una presunzione assoluta di pericolosità: presunzione che - prescindendo dalla natura dei delitti cui si riferiscono le precedenti condanne, dall'epoca della loro commissione e dalla identità della loro indole rispetto a quella del nuovo reato - non troverebbe fondamento nell'id quod plerumque accidit; che il suddetto «automatismo sanzionatorio», ancorato alla mera contestazione della recidiva reiterata ed alla presunzione di pericolosità ad essa collegata, violerebbe, altresì, l'art. 25, secondo comma, Cost., il quale sancisce un legame indissolubile tra la sanzione penale e la commissione di un «fatto»: impedendo, quindi, che si punisca la mera pericolosità sociale o l'«atteggiamento interiore» del reo; che, da ultimo, apparirebbero compromessi, per effetto del divieto denunciato, i principi posti dall'art. 27, primo e terzo comma, Cost.: principi che esigono l'individualizzazione della pena, giacché solo mediante l'adeguamento della risposta punitiva alle caratteristiche del singolo caso - adeguamento cui è preordinato il giudizio di comparazione tra le circostanze - sarebbe possibile assicurare un'effettiva eguaglianza di fronte alle pene, rendendo realmente «personale» la responsabilità penale e facendo sì che la pena assolva ad una funzione rieducativa; che, per contro, il novellato art. 69, quarto comma, cod. pen. - con l'escludere il giudizio di prevalenza delle attenuanti rispetto alla recidiva reiterata - impedirebbe il suddetto adeguamento, imponendo l'irrogazione di pene sproporzionate rispetto all'effettiva entità dei fatti e, conseguentemente, incapaci di assolvere una funzione rieducativa e di prevenzione, generale e speciale; che «analoghe considerazioni» potrebbero svolgersi - a parere del rimettente - anche in relazione al vincolo imposto dall'art. 81, quarto comma, cod. pen., in forza del quale, per i recidivi reiterati, l'aumento della pena, nel caso di continuazione, non può essere inferiore ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave; che, a fronte di tale previsione, nel caso di specie - anche determinando la pena base per il reato più grave (la rapina) nel minimo edittale - l'anzidetto aumento non potrebbe essere inferiore, quanto alla pena detentiva, ad otto mesi di reclusione: e ciò ad onta della limitata gravità dell'altro reato (lesioni personali, seppure aggravate, consistenti in un'abrasione giudicata guaribile in tre giorni); che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate infondate. Considerato che il Tribunale di Cagliari dubita, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale di due disposizioni introdotte dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251, nel quadro di un disegno di irrigidimento complessivo del trattamento sanzionatorio della recidiva, e della recidiva reiterata in specie; che il rimettente censura, in primo luogo, il divieto di prevalenza delle circostanze attenuanti sulla recidiva reiterata, stabilito dall'art. 69, quarto comma, del codice penale, come sostituito dall'art. 3 della citata legge, perché - tramite la norma impugnata - il legislatore avrebbe prefigurato un «automatismo sanzionatorio» basato su una irrazionale presunzione iuris et de iure di pericolosità sociale del recidivo reiterato; che, conseguentemente, si restringerebbe indebitamente il potere-dovere del giudice di adeguare la pena al caso concreto, pur trattandosi di un potere-dovere funzionale alla realizzazione dei principi di eguaglianza, di necessaria offensività del reato, di personalità della responsabilità penale e della funzione rieducativa della pena; che ad avviso del rimettente, cioè, la mera contestazione della recidiva reiterata farebbe inevitabilmente scattare il meccanismo limitativo degli esiti del giudizio di bilanciamento tra circostanze, delineato dall'art. 69, quarto comma, cod. pen.: con l'effetto di neutralizzare - anche quando si sia in presenza di precedenti penali remoti, non gravi e scarsamente significativi in rapporto alla natura del nuovo delitto - la diminuzione di pena connessa alle circostanze attenuanti concorrenti, indipendentemente dalla natura e dalle caratteristiche del fatto concreto; che, scrutinando analoghe questioni di costituzionalità, questa Corte ha già avuto modo di rilevare, tuttavia, come l'interpretazione dianzi ricordata - prospettata dal rimettente in termini assiomatici - non costituisca affatto l'unica lettura possibile del vigente quadro normativo (sentenza n. 192 del 2007; ordinanze n. 409 del 2007 e n. 33 del 2008); che da un lato, infatti, è possibile ritenere che la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria unicamente nei casi previsti dall'art. 99, quinto comma, cod. pen., rispetto ai quali soltanto tale regime è espressamente contemplato: e cioè ove essa si riferisca ad uno dei delitti indicati dall'art. 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale, il quale reca un elenco di reati ritenuti dal legislatore, a vari fini, di particolare gravità e allarme sociale; che resta, poi, fermo l'ulteriore problema interpretativo di stabilire quale delitto debba rientrare in tale catalogo, affinché scatti l'obbligatorietà: se il delitto oggetto della precedente condanna; ovvero il nuovo delitto che vale a costituire lo status di recidivo; indifferentemente l'uno o l'altro; o addirittura entrambi; che, d'altro lato, nei limiti in cui si escluda che la recidiva reiterata sia divenuta obbligatoria, è possibile sostenere la necessità del giudizio di bilanciamento - soggetto al regime limitativo di cui all'art. 69, quarto comma, cod. pen. - unicamente quando il giudice ritenga la recidiva reiterata effettivamente idonea a determinare, di per sé, un aumento di pena per il fatto per cui si procede: e cioè - alla stregua dei criteri di corrente adozione in tema di recidiva facoltativa - solo quando il nuovo episodio delittuoso appaia concretamente significativo, in rapporto alla natura ed al tempo di commissione dei precedenti, sotto il profilo della più accentuata colpevolezza e della maggiore pericolosità del reo;</ P> che la stessa Corte di cassazione - la quale in un primo tempo si era espressa sul tema in modo contrastante - risulta aver adottato, nelle più recenti decisioni, la linea interpretativa dianzi indicata; che, nella specie, l'odierno rimettente procede per delitti non compresi nell'elenco dell'art. 407, comma 2, lettera a), cod. proc. pen. (il delitto di rapina vi rientra solo in presenza delle aggravanti speciali di cui al terzo comma dell'art. 628 cod. pen., che non risultano essere state contestate); lo stesso rimettente, inoltre, non specifica a quali delitti si riferiscano le precedenti condanne riportate dall'imputato; che, nell'ottica della soluzione interpretativa dianzi indicata, pertanto, il giudice rimettente - all'esito di un apprezzamento basato sulle caratteristiche del caso concreto - potrebbe non applicare affatto l'aumento di pena per la recidiva reiterata; e, conseguentemente, non procedere ad alcun giudizio di bilanciamento fra detta aggravante e le attenuanti concorrenti; che considerazioni similari possono essere svolte anche in rapporto all'ulteriore questione di costituzionalità avente ad oggetto l'art. 81, quarto comma, cod. pen., aggiunto dall'art. 5, comma 1, della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede, rispetto ai recidivi reiterati, un aumento minimo di pena per la continuazione pari ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave; che, nel sollevare la questione, il rimettente muove dall'implicito, e in sé non implausibile, presupposto interpretativo di riferire la norma impugnata - ad onta dell'indicazione, apparentemente contraria, ricavabile dalla consecutio temporum delle voci verbali impiegate («reati . commessi da soggetti ai quali sia stata applicata la recidiva prevista dall'articolo 99, quarto comma») - al caso in cui l'imputato venga dichiarato recidivo reiterato in rapporto agli stessi reati uniti dal vincolo della continuazione, del cui trattamento sanzionatorio si discute; e non, invece, al caso in cui l'imputato sia stato ritenuto recidivo reiterato con una precedente sentenza definitiva (nell'ordinanza di rimess ione non vi è, infatti, alcun riferimento al fatto che l'evenienza da ultimo indicata si sia verificata nel caso di specie); che - a prescindere da ogni rilievo circa la correttezza della qualificazione della fattispecie oggetto del giudizio principale quale ipotesi di reato continuato, anziché quale concorso formale di reati (istituto che, comunque, la norma censurata assoggetta al medesimo regime) - va tuttavia osservato come, alla stregua della soluzione ermeneutica dianzi prospettata, anche l'operatività dell'art. 81, quarto comma, cod. pen. presupponga che il giudice abbia ritenuto la recidiva reiterata concretamente idonea ad aggravare la pena per i reati in continuazione (o in concorso formale): e ciò in pieno accordo, peraltro, con lo stesso tenore letterale della norma de qua («soggetti ai quali sia stata applicat a la recidiva»); che risulterebbe, del resto, affatto illogico che una circostanza, priva di effetti ai fini della determinazione della pena per i singoli reati contestati all'imputato (ove non indicativa, in tesi, di maggiore colpevolezza o pericolosità del reo), possa produrre un sostanziale aggravamento della risposta punitiva in sede di applicazione di istituti - quali il concorso formale di reati e la continuazione - volti all'opposto fine di mitigare la pena rispetto alle regole generali sul cumulo materiale; che la mancata sperimentazione, da parte del giudice a quo, della praticabilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base dei dubbi di costituzionalità ipotizzati - e tale da determinare il possibile superamento di detti dubbi, o da renderli comunque non rilevanti nei casi di specie - rende dunque le questioni sollevate manifestamente inammissibili. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 69, quarto comma, e 81, quarto comma, del codice penale, come modificati dagli artt. 3 e 5, comma 1, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 25, secondo comma, e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Cagliari con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giovanni Maria FLICK, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 giugno 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 5, comma 3, del d.lgs. 26 maggio 1997, n. 153 (Integrazione dell'attuazione della direttiva 91/308/CEE in materia di riciclaggio dei capitali di provenienza illecita), promossi con ordinanze del 30 marzo 2007 dal Tribunale di Cagliari, del 17 maggio 2007 dal Tribunale di Novara e dal 10 luglio 2007 dal Tribunale di Mondovì, rispettivamente iscritte ai nn. 600, 718 e 785 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 35, 41 e 48, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di costituzione di F.G. e di B.G. nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 6 maggio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick; uditi gli avvocati Oreste Dominioni e Stefano Guadalupi per F. G., Stefano Guadalupi per B. G. e l'avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto che, con le tre ordinanze indicate in epigrafe, di analogo tenore, il Tribunale di Cagliari, il Tribunale di Novara e il Tribunale di Mondovì hanno sollevato, in riferimento agli artt. 76 e 77 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 5, comma 3, del d.lgs. 26 maggio 1997, n. 153 (Integrazione dell'attuazione della direttiva 91/308/CEE in materia di riciclaggio dei capitali di provenienza illecita), nelle parti in cui configura come delitto la fattispecie criminosa ivi descritta e commina pene superiori ai «limiti edittali» indicati nella legge delega 6 febbraio 1996, n. 52 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee - legge comunitaria 1994); che i giudici a quibus - investiti di processi nei confronti di persone imputate del delitto previsto dalla norma denunciata, per avere eseguito operazioni di incasso e trasferimento di fondi, per conto di intermediari finanziari, senza la prescritta iscrizione nell'elenco degli agenti in attività finanziaria; ovvero imputate di concorso nel medesimo delitto - riferiscono che i difensori degli imputati avevano eccepito l'illegittimità costituzionale di detta norma, per contrasto con gli artt. 25, 76 e 77 Cost.; che, al riguardo, i rimettenti muovono da una ricostruzione preliminare del quadro normativo, rilevando, in specie, come la disposizione denunciata sia stata emanata sulla base della delega legislativa conferita al Governo dalla legge n. 52 del 1996 ai fini dell'integrazione dell'attuazione della direttiva n. 91/308/CEE, relativa alla prevenzione dell'uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite; che - in correlazione alle statuizioni dell'art. 12 della direttiva - l'art. 15, comma 1, lettera c), della legge delega prevedeva, tra i principi e criteri direttivi, quello di «estendere [.], in tutto od in parte, l'applicazione delle disposizioni di cui al decreto-legge 3 maggio 1991, n. 143» (Provvedimenti urgenti per limitare l'uso del contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenire l'uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio), convertito, con modificazioni, nella legge 5 luglio 1991, n. 197, «a quelle attività particolarmente suscettibili di utilizzazione a fini di riciclaggio per il fatto di realizzare l'accumulazione o il trasferimento di ingenti disponibilità econom iche o finanziarie o risultare comunque esposte ad infiltrazioni da parte della criminalità organizzata»; che la medesima norma di delega demandava, altresì, «la formazione o l'integrazione dell'elenco di tali attività o categorie di imprese» a uno o più decreti legislativi, da emanare entro due anni dalla data di entrata in vigore del decreto attuativo della delega stessa; che, dando attuazione alla delega, l'art. 5 del d.lgs. n. 153 del 1997 ha esteso le previsioni del d.l. n. 143 del 1991 ai soggetti che svolgono le attività individuate nei decreti legislativi emanati ai sensi del citato art. 15, comma 1, lettera c), della legge n. 52 del 1996 (comma 1); ed ha stabilito che, ai fini di tali attività, «è istituito un elenco di operatori, suddiviso per categorie, tenuto dal Ministro del tesoro, che si avvale dell'Ufficio italiano dei cambi» (comma 2); che il comma 3 dello stesso art. 5 - recante la norma incriminatrice impugnata - punisce, quindi, con la reclusione da sei mesi a quattro anni e con la multa da euro 2.065 a euro 10.329 chiunque esercita le attività in questione senza essere iscritto nell'elenco; che l'individuazione delle attività rilevanti è stata operata dall'art. 1 del d.lgs. 25 settembre 1999, n. 374 (Estensione delle disposizioni in materia di riciclaggio dei capitali di provenienza illecita ed attività finanziarie particolarmente suscettibili di utilizzazione a fini di riciclaggio, a norma dell'articolo 15 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), il quale ha stabilito che le disposizioni del d.l. n. 143 del 1991 si applichino, tra le altre, all'«agenzia in attività finanziaria prevista dall'articolo 106 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia»; attività che a sua volta abbraccia - in virtù dell'art. 4, comma 1, lettera a), del d.m. 6 luglio 1994 (che specifica, ai sensi del comma 4 del citato art. 106, il contenuto delle attività indicate nel comma 1 dello stesso articolo) - anche quella di intermediazione finanziaria esercitata mediante «incasso e trasferimento di fondi»: ossia l'attività oggetto dell'imputazione; che - ravvisata, di conseguenza, la rilevanza della questione - i giudici a quibus reputano manifestamente infondate le deduzioni delle difese relative tanto al supposto vizio di eccesso di delega, in cui il legislatore sarebbe incorso nella individuazione della condotta incriminata, stante l'assenza di un'omologa fattispecie di abusivismo nella normativa di riferimento (quella del d.l. n. 143 del 1991); quanto alla pretesa violazione del principio della riserva in legge in materia penale, avuto riguardo al fatto che - secondo i difensori - la scelta di configurare come reato l'esercizio abusivo dell'attività di incasso e trasferimento di fondi sarebbe stata operata da una fonte regolamentare (il d.m . 6 luglio 1994); che, al contrario, i rimettenti condividono l'ulteriore dubbio di costituzionalità prospettato dalle difese, sul piano dell'eccesso di delega, relativamente alla scelta del legislatore delegato di configurare la fattispecie criminosa de qua come delitto e all'entità della pena per essa comminata; che ad avviso dei rimettenti, difatti, il legislatore delegato doveva ritenersi abilitato ad introdurre unicamente fattispecie criminose di tipo contravvenzionale, sanzionate con pene non eccedenti i limiti edittali che connotano le ipotesi di reato previste dal d.l. n. 143 del 1991; che a tale conclusione indurrebbe non soltanto il riferimento di ordine generale, contenuto nella norma di delega, all'applicazione, in tutto o in parte, del decreto-legge ora citato; ma anche la specifica previsione del comma 2 dell'art. 15 della legge n. 52 del 1996, in forza della quale, «in sede di riordinamento normativo, ai sensi dell'art. 8, delle materie concernenti il trasferimento di denaro contante e di titoli al portatore, nonché il riciclaggio dei capitali di provenienza illecita, potrà procedersi al riordino delle sanzioni amministrative e penali previste nelle leggi richiamate al comma 1, nei limiti massimi ivi contemplati»: leggi tra le quali figura prop rio il d.l. n. 143 del 1991; che alla data di entrata in vigore della legge delega - osservano ancora i rimettenti - il decreto-legge in questione contemplava, tra gli illeciti penali (art. 5, commi 4 e 6), unicamente fattispecie di tipo contravvenzionale punite con pene inferiori a quella comminata dalla norma impugnata (in specie: arresto da sei mesi ad un anno, congiunto ovvero alternativo all'ammenda); che la figura delittuosa originariamente prevista dall'art. 6, comma 9, del d.l. n. 143 del 1991 - che puniva l'esercizio delle attività di cui al comma 1 dello stesso articolo da parte di soggetti non iscritti nell'apposito elenco, o per i quali non sussistessero le condizioni di iscrizione, colpendola con pena uguale a quella stabilita dalla norma contestata - era stata, infatti, abrogata dall'art. 161 del d.lgs. n. 385 del 1993: onde dovrebbe escludersi che la norma di delega intendesse riferirsi anche a tale previsione punitiva; che, secondo i Tribunali di Cagliari e di Novara, inoltre, il criterio direttivo risulterebbe egualmente violato, almeno in rapporto al livello della pena, ove pure si ritenesse che il legislatore delegante - nel richiamare, all'art. 15, comma 2, della legge n. 52 del 1996, i limiti massimi delle sanzioni contemplate dalle leggi indicate nel comma 1 - avesse inteso evocare, oltre al d.l. n. 143 del 1991, anche il decreto-legge 28 giugno 1990, n. 167 (Rilevazione a fini fiscali di taluni trasferimenti da e per l'estero di denaro, titoli e valori), convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 1990, n. 227, richiamato nel comma 1 dell'art. 15 della legge delega; l'art. 5 del citato d.l. n. 167 del 199 0 prevede, difatti, una figura delittuosa di false indicazioni agli intermediari, ma punita con pena comunque inferiore a quella comminata dalla norma denunciata (reclusione da sei mesi ad un anno e multa da lire un milione a lire dieci milioni); che nei giudizi di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata, per essere i giudici a quibus incorsi in errore nell'individuazione della «norma interposta», la quale andrebbe identificata, non nell'art. 15 della legge n. 52 del 1996, ma nell'art. 3, comma 1, lettera c), della legge stessa, alla cui stregua la disposizione denunciata dovrebbe ritenersi pienamente rispettosa della delega; che si sono altresì costituiti G. F. (nel giudizio relativo all'ordinanza r.o. n. 600 del 2007 e nel giudizio relativo all'ordinanza r.o. n. 718 del 2007) e G. B. (nel giudizio relativo all'ordinanza r.o. n. 785 del 2007), imputati nei processi a quibus, i quali hanno chiesto, sulla base di identiche considerazioni, l'accoglimento della questione; che la parte privata G. F. ha depositato, altresì, memoria, volta segnatamente a contrastare le deduzioni dell'Avvocatura generale dello Stato. Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione; che i giudici a quibus dubitano della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 76 e 77 della Costituzione, dell'art. 5, comma 3, del d.lgs. 26 maggio 1997, n. 153 (Integrazione dell'attuazione della direttiva 91/308/CEE in materia di riciclaggio dei capitali di provenienza illecita), nelle parti in cui configura come delitto la fattispecie criminosa ivi descritta e commina pene superiori ai «limiti edittali» indicati nella legge delega 6 febbraio 1996, n. 52; che, ad avviso dei rimettenti, il legislatore delegato doveva ritenersi abilitato ad introdurre unicamente fattispecie criminose di tipo contravvenzionale, punite con pene non superiori a quelle previste per i reati contemplati dal d.l. 3 maggio 1991, n. 143, convertito, con modificazioni, nella legge 5 luglio 1991, n. 197; ovvero, in subordine - secondo i Tribunali di Cagliari e di Novara - anche dal d.l. 28 giugno 1990, n. 167, convertito, con modificazioni, nella legge 4 agosto 1990, n. 227: nel qual caso il criterio di delega risulterebbe violato almeno per quanto concerne la misura della pena; che i rimettenti valutano, tuttavia, la sussistenza del dedotto vizio di eccesso di delega esclusivamente alla luce dei criteri di delega specifici dettati dall'art. 15 della legge n. 52 del 1996 ai fini dell'integrazione dell'attuazione della direttiva 91/308/CEE, senza tenere conto dei criteri generali stabiliti dalla medesima legge in tema di disciplina delle sanzioni: criteri - questi ultimi - la cui applicabilità non è affatto esclusa dai primi; che, secondo un approccio tipico delle «leggi comunitarie», la legge n. 52 del 1996 ha delegato, difatti, il Governo ad emanare i decreti legislativi recanti le norme necessarie per dare attuazione ad un complesso di direttive comunitarie, indicate nell'allegato A alla medesima legge (art. 1): direttive fra le quali è compresa la direttiva 91/308/CEE, in tema di prevenzione dell'uso del sistema finanziario a scopo di riciclaggio dei proventi di attività illecite; che la medesima legge n. 52 del 1996 reca, altresì, all'art. 3, un insieme di criteri e principi direttivi «generali»: valevoli, cioè, per tutti i decreti legislativi da emanare, salvi i principi specifici dettati dai successivi articoli in relazione alle singole materie e in aggiunta a quelli contenuti nelle direttive da attuare; che, con particolare riguardo all'assetto sanzionatorio, la lettera c) del citato art. 3 - ripetendo una formula ricorrente nelle «leggi comunitarie» - stabiliva che il legislatore delegato potesse introdurre sanzioni amministrative e penali per le infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi, ove necessario al fine di assicurarne l'osservanza: entro il limite - quanto alle sanzioni penali - dell'ammenda fino a lire duecento milioni e dell'arresto fino a tre anni, e sempre che le infrazioni ledessero o esponessero a pericolo «interessi generali dell'ordinamento interno del tipo di quelli tutelati dagli artt. 34 e 35 della legge 24 novembre 1981, n. 689»; che la medesima disposizione soggiungeva, tuttavia, che, «in ogni caso, in deroga ai limiti sopra indicati, per le infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi saranno previste sanzioni penali o amministrative identiche a quelle eventualmente già comminate dalle leggi vigenti per le violazioni che siano omogenee e di pari offensività rispetto alle infrazioni medesime»; che - come emerge chiaramente dalla relazione integrativa allo schema del d.lgs. n. 153 del 1997 - è proprio sulla base del criterio generale di delega da ultimo indicato, e non già di quelli specifici di cui all'art. 15 della medesima legge, che il legislatore delegato ha inteso emanare la norma incriminatrice di cui si discute: e ciò sul rilievo che la fattispecie di abusivismo contemplata da tale norma risulterebbe omogenea e di pari offensività rispetto al delitto di abusiva attività finanziaria, previsto dall'art. 132 del d.lgs. 1° settembre 1993, n. 385, nonché al delitto di abusivo esercizio dell'attività di mediazione creditizia, previsto dall'art. 16, comma 7, della legge 7 marzo 1996, n. 108 (Disposizioni in materia di usura); delit ti al cui trattamento sanzionatorio è stato quindi allineato quello della figura di reato di cui si discute; che - conformemente a quanto eccepito dall'Avvocatura dello Stato - i ricorrenti hanno individuato, dunque, in modo errato la norma di delega alla cui stregua va apprezzata la sussistenza del dedotto vizio di eccesso di delega, svolgendo, di conseguenza, argomentazioni inconferenti ai fini di tale valutazione: il che rende le questioni sollevate manifestamente inammissibili (sentenza n. 382 del 2004; ordinanza n. 72 del 2003);
che, per
altro verso - secondo la costante giurisprudenza di questa Corte - nel
giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, non possono
essere presi in considerazione, oltre i limiti del thema decidendum
fissato dall'ordinanza di rimessione, ulteriori questioni o profili di
costituzionalità dedotti dalle parti, tanto ove siano stati già
eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo; quanto ove
risultino comunque diretti ad ampliare o modificare successivamente il
contenuto della predetta ordinanza (ex plurimis, sentenze n. 134
del 2003, n. 49 e n. 330 del 1999; ordinanze n. 44 e n. 219 del 2001); che non può essere presa dunque in esame, nella specie, la censura prospettata da tutte le parti private costituite, secondo la quale il legislatore avrebbe ecceduto dalla delega anche nell'individuare la fattispecie sanzionata penalmente: trattandosi di deduzione rispetto alla quale opera, in questa sede, la preclusione derivante dalla valutazione di manifesta infondatezza formulata dai giudici a quibus; che altrettanto deve dirsi anche per l'ulteriore censura, svolta dalla parte privata G. F., stando alla quale la norma impugnata non sarebbe rispettosa neppure del criterio direttivo di cui all'art. 3, comma 1, lettera c), della legge n. 52 del 1996, in quanto l'infrazione punita dall'art. 5, comma 3, del d.lgs. n. 153 del 1997 non potrebbe ritenersi omogenea e di pari offensività rispetto a violazioni previste da «leggi vigenti», e segnatamente rispetto a quella contemplata dall'art. 132 del d.lgs. n. 385 del 1993: trattandosi di censura del tutto distinta rispetto a quelle svolte nelle ordinanze di rimessione. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 5, comma 3, del d.lgs. 26 maggio 1997, n. 153 (Integrazione dell'attuazione della direttiva 91/308/CEE in materia di riciclaggio dei capitali di provenienza illecita), sollevate, in riferimento agli artt. 76 e 77 della Costituzione, dal Tribunale di Cagliari, dal Tribunale di Novara e dal Tribunale di Mondovì con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giovanni Maria FLICK, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 giugno 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo originario risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), promosso con ordinanza del 12 luglio 2006 dal Giudice di pace di Minturno nel procedimento civile vertente tra L.T. e la Prefettura di Latina ed altro iscritta al n. 758 del registro or dinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Alfonso Quaranta. Ritenuto che il Giudice di pace di Minturno, con l'ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato - in riferimento agli articoli 3, 24, 27 e 113 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale dell'articolo 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzi onalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada); che la disposizione è censurata nella parte in cui prevede che è «sempre disposta la confisca in tutti i casi in cui un ciclomotore o un motoveicolo sia stato adoperato per commettere una delle violazioni amministrative di cui agli articoli 169, commi 2 e 7, 170 e 171, o per commettere un reato»; che, secondo il rimettente, «la confisca obbligatoria» prevista da tale norma contrasterebbe con gli evocati parametri costituzionali, i quali sanciscono: «il principio di eguaglianza; la inviolabilità della difesa; la personalità della responsabilità penale; la tutela giurisdizionale contro gli atti della P.A.»; che, a suo dire, l'applicazione di tale sanzione accessoria, «anche nei confronti del responsabile in solido» per il pagamento della sanzione pecuniaria (che non sia l'autore dell'infrazione stradale), configurerebbe «un caso di responsabilità oggettiva», giacché tale soggetto sarebbe chiamato a rispondere «per fatto altrui senza essere ammesso alla minima difesa»; che, inoltre, tale modello di responsabilità - secondo il giudice a quo - sarebbe «irragionevole», poiché «il proprietario del veicolo viene punito per un fatto che non ha commesso o che non ha concorso a realizzare», in violazione del principio sancito dall'art. 3 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), e - assume sempre il rimettente - dall'art. 210, comma 4, del medesimo codice della strada; che è ipotizzata, poi, la violazione degli artt. 24 e 113 Cost., giacché «l'applicazione della sanzione accessoria della confisca in capo al semplice proprietario oblitera completamente il diritto alla difesa», prevedendo, come rilevato, «una responsabilità di natura oggettiva»; che, infine, il contrasto con l'art. 3 Cost. deriverebbe dal fatto che la norma censurata, «in violazione del principio di ragionevolezza e proporzionalità della sanzione», darebbe vita «ad una sanzione assolutamente sui generis, in quanto la stessa non appare riconducibile ad un contegno posto in essere dal proprietario del veicolo e consistente nella trasgressione di una specifica norma relativa alla circolazione stradale» (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 27 del 2005); che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, sottolineando, in via preliminare, la necessità della restituzione degli atti al giudice rimettente, affinché esso valuti la perdurante rilevanza e non manifesta infondatezza della questione, alla luce delle modiche apportate al testo dell'art. 213, comma 2-sexies, del codice della strada - e consistite nel limitare l'applicazione della confisca esclusivamente «in tutti i casi in cui un ciclomotore o un motoveicolo sia stato adoperato per commettere un reato» - dal comma 169 dell'art. 2 del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), comma aggiunto dalla relativa legge di conversione, 24 novembre 2006, n. 286; che, in subordine, l'Avvocatura generale dello Stato ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile (risultando l'ordinanza di rimessione priva di motivazione sulla rilevanza e non manifesta infondatezza della stessa), ovvero non fondata. Considerato che il Giudice di pace di Minturno, con l'ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato - in riferimento agli articoli 3, 24, 27 e 113 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale dell'articolo 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la fu nzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui prevede che è «sempre disposta la confisca in tutti i casi in cui un ciclomotore o un motoveicolo sia stato adoperato per commettere una delle violazioni amministrative di cui agli articoli 169, commi 2 e 7, 170 e 171, o per commettere un reato»; che la questione è manifestamente inammissibile per insufficiente descrizione della fattispecie oggetto del giudizio principale; che, per un verso, nell'ordinanza di rimessione non si precisa neanche se il ricorrente riunisca in sé le qualità di proprietario del veicolo confiscato e di responsabile dell'accertata infrazione stradale, circostanza alla quale il giudice a quo attribuisce, invece, preminente rilievo nel sollevare la presente questione, ipotizzando, difatti, che l'applicazione della sanzione accessoria della confisca, «anche nei confronti del responsabile in solido» per il pagamento della sanzione pecuniaria, configuri «un caso di responsabilità oggettiva», giacché tale soggetto sarebbe chiamato a rispondere «per fatto altrui senza essere ammesso alla minima difesa»; che, per altro verso, non si chiarisce neppure la natura (illecito penale oppure amministrativo) dell'infrazione in relazione alla quale la confisca è stata disposta; che in relazione, pertanto, a tali carenze descrittive, ed in conformità a numerosi precedenti di questa Corte, anche specifici (si vedano, da ultimo, le ordinanze n. 126 del 2008 e n. 243 del 2007), deve essere dichiarata l'inammissibilità della questione sollevata. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'articolo 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativ o 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), sollevata - in riferimento agli articoli 3, 24, 27 e 113 della Costituzione - dal Giudice di pace di Minturno, con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Alfonso QUARANTA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 giugno 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo originario risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), promossi con tre ordinanze del 19 giugno 2007 dal Giudice di pace di Agrigento, rispettivamente iscritte ai numeri da 799 a 801 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Alfonso Quaranta. Ritenuto che il Giudice di pace di Agrigento, con le ordinanze indicate in epigrafe, ha sollevato - in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 27, 42 e 111 della Costituzione - questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo originario risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada); che il rimettente premette di essere investito, in tutti i casi al suo esame, del ricorso proposto dal proprietario di un ciclomotore, sanzionato per essere stato sorpreso alla guida del mezzo - sottoposto a sequestro in vista della successiva confisca - senza indossare il casco protettivo; che il giudice a quo, preliminarmente, sottolinea che analoghe questione di legittimità costituzionale risultano essere già state sollevate da altri Giudici di pace e definite dalla Corte costituzionale con l'ordinanza n. 453 del 2006, con la quale sono stati restituiti gli atti ai singoli rimettenti, affinché i medesimi valutassero la perdurante rilevanza e non manifesta infondatezza delle questioni sollevate, alla luce delle modifiche apportate al testo della norma censurata dall'art. 2, comma 169, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), comma aggiunto dalla relativa legge di conversione 24 novembre 2006, n. 286;< /P> che, tuttavia, secondo il rimettente, la questione sollevata - nonostante l'avvenuta modificazione, nelle more dei giudizi principali, della norma censurata - sarebbe egualmente rilevante, oltre che non manifestamente infondata, attesa l'applicabilità, alle fattispecie sottoposte al suo vaglio, della previsione originaria dell'art. 213, comma 2-sexies, del codice della strada, giacché, ai sensi di quanto previsto dall'art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), le «leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati»; che, ciò premesso, il giudice a quo deduce l'esistenza di una «aperta violazione del principio di ragionevolezza e proporzionalità della sanzione», perché «il contenuto afflittivo della disposizione» risiederebbe «più nella sanzione accessoria disposta che in quella principale»; che, sempre in riferimento all'art. 3 Cost., il rimettente censura anche «la disparità di trattamento» che la norma denunciata introdurrebbe tra violazioni del codice della strada, secondo che le stesse siano commesse con ciclomotori o autoveicoli, pur essendo identica, per le une come per le altre, la ratio «di salvaguardia dell'integrità fisica del cittadino»; che il rimettente, in particolare, pur premettendo che le scelte sanzionatorie del legislatore sono di regola sottratte al sindacato di costituzionalità, sottolinea come la giurisprudenza costituzionale abbia riconosciuto, invece, l'ammissibilità di tale sindacato allorché, come sarebbe avvenuto nel caso di specie, l'opzione normativa contrasti in modo manifesto con il canone della ragionevolezza, vale a dire «si appalesi, in concreto, come espressione di un uso distorto della discrezionalità» (cita, in proposito, la sentenza n. 313 del 1995, nonché le ordinanze n. 144 del 2001, n. 58 del 1999, n. 297 del 1988); che pertanto, su tali basi non solo è stata già riconosciuta l'illegittimità costituzionale di talune ipotesi di confisca (è citata la sentenza n. 110 del 1996), ma è stato espresso più volte l'auspicio - sono citate le sentenze n. 349 e n. 435 del 1997 - che il legislatore provveda a «rimodellare il sistema della confisca, stabilendo alcuni canoni essenziali al fine di evitare che l'applicazione giudiziale della sanzione amministrativa produca disparità di trattamento»; che la norma censurata, viceversa, contravverrebbe a tali indicazioni, dando luogo ad una inammissibile «disparità di trattamento tra chi conduce una moto o un ciclomotore e chi guida un autoveicolo», cioè tra soggetti egualmente responsabili di infrazioni stradali (e particolarmente «tra chi non indossa il casco protettivo alla guida della moto e chi non indossa la cintura di sicurezza alla guida dell'autovettura»), in base esclusivamente alle caratteristiche del veicolo, derogando, così, al principio che vieta di riservare trattamenti diversi «ai cittadini che si trovano in situazione eguale» (è citata la sentenza n. 200 del 1972); che, infine, viene ipotizzato sia il contrasto con l'art. 42 Cost., atteso che con la sanzione della confisca obbligatoria si sottrarrebbe la proprietà del bene «al legittimo proprietario e/o possessore (che non coincide col trasgressore), gravandolo inoltre delle spese di custodia senza limite di tempo», sia la violazione degli artt. 24 e 111 della Carta fondamentale, giacché la disciplina impugnata «sottrae a qualsivoglia giudice terzo la comminatoria di una sanzione» di una tale «gravità economica» da superare, in alcune ipotesi, persino «l'entità di sanzioni pecuniarie previste dalle leggi penali»; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili ovvero non fondate; che la confisca - sottolinea la difesa statale - sarebbe rivolta a sottrarre la disponibilità di ciclomotori e motoveicoli a coloro i quali, mostrandosi indifferenti all'obbligo di indossare il casco protettivo, realizzano, con il proprio contegno, «una causa di incremento del pericolo di lesioni craniche da circolazione di motocicli», sicché anche «il proprietario che autorizzi o tolleri l'uso del motociclo da parte di soggetti che non rispettano l'obbligo in questione» sarebbe ragionevolmente sottoposto, dal censurato art. 213, comma 2-sexies, a tale sanzione; che, pertanto, l'applicazione della sanzione anche nei riguardi di tale soggetto troverebbe la sua ragion d'essere nella circostanza che egli «ha accettato di concorrere all'incremento complessivo del rischio da circolazione e, contemporaneamente, ha rinunciato ad esercitare un controllo personale e diretto sul comportamento del conducente», di talché quella prevista nei suoi confronti non sarebbe un'ipotesi di responsabilità per fatto altrui; che nessuna violazione del principio di eguaglianza, poi, potrebbe essere ravvisata nel caso di specie; che priva di fondamento sarebbe la censura basata sul fatto che la confisca obbligatoria «non sia prevista per violazioni stradali che il giudice rimettente considera più gravi sotto il profilo degli interessi protetti», atteso che la legittimità costituzionale di una sanzione va riconosciuta «qualora sussista una ragionevole coerenza tra la sua misura ed entità e gli interessi protetti dal precetto di cui la sanzione è presidio»; che, nella specie, prosegue la difesa statale, «la prevenzione del rischio individuale e sociale da trauma cranico, specifico e peculiare della circolazione motociclistica, rende ragione sufficiente di una misura intesa a togliere la disponibilità del mezzo specifico della creazione di tale rischio»; che, infine, è negata anche l'esistenza di un contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost. conseguente al «carattere rigido» della sanzione della confisca, essendo la stessa una «sanzione ampiamente nota all'ordinamento penale e sanzionatorio amministrativo», giustificata dalla «necessità di eliminare le cause materiali di potenziali, ulteriori, lesioni dell'interesse protetto». Considerato che il Giudice di pace di Agrigento, con le ordinanze indicate in epigrafe, ha sollevato - in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 27, 42 e 111 della Costituzione - questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicur are la funzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo originario risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada); che in tutti i casi il rimettente censura la norma suddetta nel testo anteriore a quello modificato dall'art. 2, comma 169, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), comma aggiunto dalla relativa legge di conversione 24 novembre 2006, n. 286, e cioè nella parte in cui prevede (o meglio, prevedeva) la confisca di ciclomotori e motoveicoli quale sanzione accessoria che colpisce anche le infrazioni amministrative di cui agli artt. 169, commi 2 e 7, 170 e 171 del codice della strada; che, preliminarmente, deve essere disposta la riunione dei giudizi, atteso che la identità dei rispettivi oggetti ne giustifica l'unitaria trattazione ai fini di un'unica decisione; che le questioni sono rilevanti, atteso che il giudice a quo muove dal corretto (ed adeguatamente motivato) presupposto di dover decidere la controversia devoluta al suo esame facendo applicazione della norma suddetta nel suo testo originario; che nessuna delle questioni sollevate risulta meritevole di accoglimento, dovendo questa Corte ribadire quanto già affermato nell'ordinanza n. 125 del 2008; che, come evidenziato nella pronuncia testé menzionata, risulta, prima facie, non fondata la dedotta violazione dell'art. 27 Cost., «essendo la giurisprudenza costituzionale costante nell'affermare - in forza di un indirizzo reiteratamente ribadito, sino alla recente ordinanza n. 434 del 2007 (concernente, tra l'altro, proprio la disciplina della circolazione stradale) - che il parametro costituzionale suddetto si riferisce esclusivamente alle sanzioni penali e non pure a quelle amministrative» (così l'ordinanza n. 125 del 2008); che, inoltre, in quella stessa ordinanza è stato affermato che appare sorretta «da una adeguata ragione giustificativa» la scelta del legislatore di «reprimere più intensamente, mediante l'irrogazione anche della sanzione accessoria della confisca del mezzo, oltre che di quella pecuniaria», sia «l'infrazione consistente nell'inosservanza dell'obbligo di indossare il casco protettivo (posta in essere dal conducente di un veicolo a due ruote o da eventuali passeggeri trasportati a bordo dello stesso)», sia quelle altre infrazioni che condividono, con la prima, «la medesima funzione di prevenire i rischi specifici derivanti da quegli incidenti nei quali risultino coinvolti veicoli a due ruote»; che, difatti, si è «ritenuto di identificare la ratio legis della più accentuata risposta punitiva» - stabilita per le infrazioni de quibus «attraverso la previsione della sanzione accessoria della confisca» del mezzo - «nella necessità di prevenire i rischi specifici conseguenti alla utilizzazione dei veicoli a due ruote», precisandosi, così, che le «misure dirette ad attenuare le conseguenze che possano derivare dai traumi prodotti da incidenti, nei quali siano coinvolti motoveicoli» risultano dettate da esigenze tali da non far reputare irragionevolmente limitatrici della «estrinsecazione della personalità» il più severo trattamento sanzionatorio, previsto dal testo originario dell'art. 213, comma 2-sexies, del codice della strada, per le violazioni amministrative di cui agli artt. 169, commi 2 e 7, 170 e 171 del medesimo codice (ordinanza n. 125 del 2008); che, del pari, si è esclusa l'irragionevolezza della scelta legislativa di far gravare la sanzione della confisca «anche sul proprietario del mezzo che non sia il responsabile dell'infrazione stradale», ribadendo quella consolidata affermazione della giurisprudenza costituzionale secondo cui «la responsabilità del proprietario di un veicolo per le violazioni commesse da chi si trovi alla guida costituisce, nel sistema delle sanzioni amministrative previste per le violazioni delle norme relative alla circolazione stradale, un principio di ordine generale», principio destinato ad operare in riferimento tanto alla sanzione pecuniaria principale quanto a quelle accessorie, salvo che queste ultime non presentino contenuto «afflittivo personale», t ale non essendo, però, il caso della confisca «giacché essa mantiene i suoi effetti in un ambito puramente "patrimoniale"» (ordinanza n. 125 del 2008); che quanto, poi, alle asserite disuguaglianze, che deriverebbero dalla prevista irrogazione della sanzione suddetta soltanto in caso di infrazioni commesse attraverso l'uso di ciclomotori o motoveicoli, questa Corte ha ribadito come ogni iniziativa volta a superarle «non potrebbe che spettare al legislatore», stante, comunque, l'ampia discrezionalità che caratterizza la scelta di «rimodellare il sistema della confisca, stabilendo alcuni canoni essenziali al fine di evitare che l'applicazione giudiziale della sanzione amministrativa produca disparità di trattamento» (così, nuovamente, l'ordinanza n. 125 del 2008); che, infine, non è fondata neppure la censura - rimasta estranea al decisum della citata ordinanza n. 125 del 2008 - sollevata in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost. e basata sul rilievo che la norma censurata «sottrae a qualsivoglia giudice terzo la comminatoria di una sanzione» di una tale «gravità economica» da superare, in alcune ipotesi, persino «l'entità di sanzioni pecuniarie previste dalle leggi penali»; che il rimettente, in definitiva, pare dolersi del fatto che la sanzione de qua sia prevista in misura "fissa", senza la possibilità che l'autorità giudiziaria incida su di essa; che, in proposito, è sufficiente osservare che «la determinazione delle condotte punibili e delle relative sanzioni, siano esse penali o amministrative, rientra nella più ampia discrezionalità legislativa», non spettando a questa Corte «rimodulare le scelte punitive del legislatore né stabilire la quantificazione delle sanzioni», ben potendo, dunque, le medesime «essere stabilite anche in misura fissa» (così, proprio con riferimento alla disciplina della circolazione stradale, l'ordinanza n. 172 del 2003; nello stesso senso, ex multis, ordinanze n. 1 del 2003, n. 323 e n. 136 del 2002); che le questioni sollevate sono, pertanto, manifestamente infondate in relazione a tutti i parametri evocati. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo originario risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), sollevate - in riferimento, nel complesso, agl i artt. 2, 3, 24, 27, 42 e 111 della Costituzione - dal Giudice di pace di Agrigento, con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Alfonso QUARANTA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 giugno 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 3, ultimo periodo, del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell'articolo 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), come sostituito dal decreto del Presidente della Repubblica 18 ottobre 2004, n. 334 (Regolamento recante modifiche ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, in materia di immigrazion e), promossi con due ordinanze del 23 ottobre 2006 dal Giudice di pace di Palermo, sui ricorsi proposti da A. A. e da C. D. J. nei confronti del Prefetto di Palermo, iscritte ai nn. 832 e 833 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Maria Rita Saulle. Ritenuto che il Giudice di pace di Palermo, con due ordinanze di identico contenuto depositate il 23 ottobre 2006, nel corso di giudizi di impugnazione di decreti di espulsione emessi, rispettivamente, nei confronti di A. A., cittadino tunisino, e di C. D. J., cittadino rumeno, ha sollevato, in riferimento all'art. 24, secondo e terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 3, del d.P.R. 3 1 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell'articolo 1, comma 6, del Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), come sostituito dal d.P.R. 18 ottobre 2004, n. 334 (Regolamento recante modifiche ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, in materia di immigrazione); che, in punto di fatto, il rimettente rileva che i provvedimenti impugnati sono stati redatti senza l'assistenza di un interprete della lingua conosciuta dai predetti cittadini, assistenza prevista dal rinvio contenuto nell'art. 13, comma 5-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), al comma 8 del medesimo articolo; che, in particolare, la disposizione censurata prevede che, nel caso in cui il destinatario del decreto di espulsione non comprenda la lingua italiana questo sia «accompagnato da una sintesi del suo contenuto, anche mediante appositi formulari sufficientemente dettagliati, nella lingua a lui comprensibile o, se ciò non è possibile per indisponibilità di personale idoneo alla traduzione del provvedimento in tale lingua, in una delle lingue inglese, francese o spagnola, secondo la preferenza indicata dall'interessato»; che nel caso di specie, a parere del rimettente, il Prefetto, nel giustificare la traduzione del proprio provvedimento in lingua francese con il mancato immediato reperimento dell'interprete, avrebbe eluso la ratio delle norme citate, le quali non fanno alcun riferimento alla possibilità o meno di reperire immediatamente personale tecnico idoneo alla traduzione, con la conseguenza che i decreti di espulsione impugnati sarebbero in contrasto con l'art. 24, secondo e terzo comma, della Costituzione; che in entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dell'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata; che, preliminarmente, l'Avvocatura rileva che la norma censurata ha natura regolamentare e, pertanto, non può essere oggetto di giudizio da parte della Corte costituzionale, avendo, comunque, il rimettente omesso qualsiasi motivazione in ordine alla rilevanza e non manifesta infondatezza della questione sollevata la quale, peraltro, si fonda su vizi formali degli atti impugnati nei giudizi principali; che, quanto al merito, l'Avvocatura ritiene che la norma censurata non solo non lede il diritto di difesa dello straniero destinatario del provvedimento di espulsione ma, anzi, si pone a tutela di tale diritto, prevedendo la redazione dell'atto in una lingua comprensibile allo straniero. Considerato che il Giudice di pace di Palermo, con due ordinanze di identico contenuto, dubita, in riferimento all'art. 24, secondo e terzo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 3, del d.P.R. 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell'articolo 1, comma 6, del Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), come sostituito dal d.P.R. 18 ottobre 2004, n. 334 (Regolamento recante modifiche ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, in materia di immigrazione); che le ordinanze di rimessione propongono identica questione, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con un'unica decisione; che la questione è manifestamente inammissibile, in quanto diretta contro una disposizione regolamentare e, pertanto, sottratta al giudizio di legittimità costituzionale. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394 (Regolamento recante norme di attuazione del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, a norma dell'articolo 1, comma 6, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286), così come sostituito dall'art. 3, comma 1, lettera a), del d.P.R. 18 ottobre 2004, n. 334 (Regolamento recante modifiche ed in tegrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1999, n. 394, in materia di immigrazione), sollevata, in riferimento all'art. 24, secondo e terzo comma, della Costituzione, dal Giudice di pace di Palermo con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Maria Rita SAULLE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 giugno 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3, 5 e 6 della legge della Regione Toscana 19 febbraio 2007, n. 9 (Modalità di esercizio delle medicine complementari da parte dei medici e odontoiatri, dei medici veterinari e dei farmacisti), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri notificato il 20 aprile 2007, depositato in cancelleria il 4 maggio 2007 ed iscritto al n. 22 del registro ricorsi 2007. Visto l'atto di costituzione della Regione Toscana; udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano. Ritenuto che, con ricorso tempestivamente notificato in data 20 aprile 2007, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, con riferimento all'art. 117, commi secondo, lettera g), e terzo, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, 5 e 6 della legge della Regione Toscana 19 febbraio 2007, n. 9 (Modalità di esercizio delle medicine complementari da parte dei medici e odontoiatri, dei medici veterinari e dei farmacisti), pubbli cata nel Bollettino Ufficiale della Regione n. 3 del 22 febbraio 2007, chiedendo altresì che, stante l'inscindibile connessione con le disposizione specificamente censurate, la pronunzia di incostituzionalità fosse estesa anche alle altre disposizione della medesima legge regionale; che la Avvocatura dello Stato - sottolineato che le disposizioni legislative regionali oggetto di impugnazione vanno ricondotte all'ambito materiale delle professioni e della tutela della salute, affidato, ai sensi dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione, alla competenza legislativa regionale concorrente, con la conseguenza che spetta allo Stato dettare i principi generali ed alle Regioni adottare la disciplina di dettaglio - osserva che la normativa impugnata - nella parte in cui: all'art. 3, prevede la istituzione di appositi elenchi in cui possono iscriversi i medici chirurghi, odontoiatri, veterinari e farmacisti per esercitare l'agopuntura, la fitoterapia e l'omeopatia; all'art. 5, demanda ad un'apposita Commissione la individuazi one dei criteri per l'accertamento di strutture extrauniversitarie per la formazione nelle dette discipline nonché delle modalità della tenuta dei citati elenchi e per la definizione e verifica dei criteri per l'iscrizione negli stessi; all'art. 6, prevede che determinati istituti possano svolgere attività formativa dei professionisti di cui sopra - viola l'art. 117, comma terzo, della Costituzione; che, in particolare, la difesa dello Stato osserva che le disposizioni impugnate sarebbero in contrasto col principio fissato dal decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 30 (Ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell'articolo 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131), il quale, all'art. 1, comma 3, prevede che la potestà legislativa regionale si esercita nell'ambito delle professioni già individuate dalla legislazione statale e, all'art. 4, comma 2, assegna alla legge dello Stato la fissazione dei requisiti e dei titoli tecnico-professionali necessari per lo svolgimento di attività che richiedono, a tutela di interessi pubblici, quale quello alla salute, una specifica preparazione; che, d'altro canto, aggiunge parte ricorrente, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha esteso la riserva legislativa statuale in materia di principi fondamentali delle professioni, originariamente applicabile alle sole professioni sanitarie, a tutte le professioni, rilevando come essa si ponga quale vincolo di carattere generale al dispiegarsi della legislazione regionale; che, sussistendo la riserva statale quanto alla individuazione delle figure professionali e dei relativi profili e ordinamenti didattici, nonché rispetto alla disciplina dei titoli necessari per l'esercizio della professione e riguardo alla istituzione di nuovi albi, contrasterebbe, secondo la costante giurisprudenza della Corte costituzionale, con tale riserva legislativa la istituzione da parte della Regione di un registro che individui i requisiti per l'iscrizione ad esso e preveda corsi al medesimo fine; che un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale viene rinvenuto dal ricorrente nel fatto che l'art. 3 della legge regionale n. 9 del 2007, imponendo agli ordini professionali dei medici la istituzione degli elenchi di chi opera nelle medicine complementari, attribuisce un compito ad enti pubblici statali, così violando la competenza legislativa esclusiva dello Stato, fissata dall'art. 117, comma secondo, lettera g), della Costituzione in tema di ordinamento e organizzazione dello Stato e degli enti pubblici nazionali; che, stante l'inscindibile connessione con le predette disposizioni, il ricorrente conclude chiedendo che la pronunzia di illegittimità costituzionale si estenda anche alle restanti disposizione della legge regionale della Toscana n. 9 del 2007; che si è costituita in giudizio la Regione Toscana, in persona del Presidente della Giunta regionale, contestando la fondatezza del ricorso, affermando, in particolare, che con la impugnata normativa si era inteso disciplinare l'esercizio delle medicine complementari, nei limiti della competenza legislativa regionale e nel rispetto dei principi stabiliti dalle disposizioni statali; che, con successivo atto, notificato alla Regione Toscana in data 13 luglio 2007 e depositato presso la cancelleria della Corte costituzionale il 21 luglio successivo, il Presidente del Consiglio dei ministri ha dichiarato, stanti le modifiche apportate alla legge impugnata con legge regionale 25 maggio 2007, n. 31, recante «Modifiche alla legge regionale 19 febbraio 2007, n. 9 (Modalità di esercizio delle medicine complementari da parte dei medici e odontoiatri, dei medici veterinari e dei farmacisti)», di rinunziare al ricorso; che tale rinunzia è stata formalmente accettata dal legale rappresentante della Regione Toscana, con atto depositato presso la cancelleria della Corte costituzionale in data 22 aprile 2008. Considerato che, ai sensi dell'art. 25 delle norme integrative per i giudizi dinanzi a questa Corte, la rinuncia al ricorso, seguita dall'accettazione della controporte, comporta l'estinzione del processo. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara estinto il processo. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 giugno 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Alfio FINOCCHIARO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 53, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), periodo introdotto dal comma 7 dell'art. 3-bis del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dal comma 1 dell'art. 1 della legge 2 dicembre 2005, n. 248, promosso con ordinanza depositata il 9 luglio 2007 dalla Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione staccata di Caltanissetta, nel giudizio vertente tra la s.n.c. "Laguna Blu di Mammana e Giannino" e l'Agenzia delle entrate, ufficio di Enna, iscritta al n. 7 93 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 21 maggio 2008 il Giudice relatore Franco Gallo. Ritenuto che, nel corso di un giudizio di appello, la Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione staccata di Caltanissetta, con ordinanza depositata il 9 luglio 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione, questioni di legittimità del secondo periodo del comma 2 dell'art. 53 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), p eriodo introdotto dal comma 7 dell'art. 3-bis del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dal comma 1 dell'art. 1 della legge 2 dicembre 2005, n. 248; che il giudice rimettente premette che l'appello è stato instaurato da una società di persone ed ha ad oggetto la sentenza con cui la Commissione tributaria provinciale di Enna ha parzialmente accolto l'impugnazione proposta in data 5 dicembre 2003 dalla stessa società avverso l'atto, notificato in data 18 ottobre 2003, mediante il quale l'Agenzia delle entrate, ufficio di Enna, aveva irrogato le sanzioni amministrative previste per le violazioni delle norme in materia di lavoro irregolare dall'art. 3, comma 3, del decreto-legge 22 febbraio 2002, n. 12, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2002, n. 73 (nel testo anteriore alle modificazioni apportate dall'art. 36-bis, comma 7, lettera b, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, in vigore dal 12 agosto 2006, che ha trasferito dall'Agenzia delle entrate alla Direzione provinciale del lavoro il potere di irrogare le predette sanzioni); che lo stesso rimettente premette, altresí, che: 1) la disposizione denunciata - introdotta dal comma 7 dell'art. 3-bis del decreto-legge n. 203 del 2005, convertito, con modificazioni, dal comma 1 dell'art. 1 della legge del 2005 - stabilisce che «Ove il ricorso non sia notificato a mezzo di ufficiale giudiziario, l'appellante deve, a pena di inammissibilità, depositare copia dell'appello presso l'ufficio di segreteria della commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata»; 2) l'appellante, nella specie, non ha adempiuto al suddetto prescritto deposito di copia dell'appello nella segreteria del giudice di primo grado; che, poste tali premesse, il giudice a quo ritiene che la suddetta disposizione non sia conforme a Costituzione, in riferimento agli evocati parametri, perché: a) l'esigenza di informare la segreteria del giudice di primo grado dell'intervenuto appello (e, quindi, dell'esistenza di un ostacolo al passaggio in giudicato della sentenza pronunciata da tale giudice) è già soddisfatta dalla previsione dell'obbligo, posto a carico della segreteria del giudice di appello dal comma 3 dell'art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992, di richiedere alla segreteria del giudice di primo grado, subito dopo il deposito del ricorso in appello, la trasmissione del fascicolo processuale con la copia autentica della sentenza impugnata; b) irragionevolmente collega un radicale ed insanabile effetto preclusivo dell'impugnazione (cioè l'inammissibilità dell'appello) ad un'attività avente «funzione di notizia [.] estranea alla struttura del giudizio di gravame»; c) nel caso di notificazione a mezzo posta, fa gravare sull'agente postale (secondo la lettura qualificata come «costituzionalmente orientata» dallo stesso rimettente) l'obbligo di depositare copia dell'appello presso l'ufficio di segreteria della Commissione tributaria provinciale e, pertanto, irragionevolmente sanziona con l'inammissibilità dell'appello l'inadempimento di tale obbligo da parte dell'agente postale, cioè di un soggetto diverso dall'appellante; d) comporta un'ingiustificata disparità di trattamento tra l'ipotesi di notificazione dell'appello tramite ufficiale giudiziario (il quale, ai sensi dell'art. 123 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura civile, deve dare immediato avviso scritto della notificazione dell'impugnazione al cancelliere del giudice che ha emesso la sentenza impugna ta, senza che l'inadempimento di tale obbligo sia sanzionato con l'inammissibilità dell'impugnazione) e quella di notificazione mediante il servizio postale (in cui l'agente postale - secondo la lettura della disposizione impugnata data dal rimettente - deve depositare l'appello nella segreteria del giudice di primo grado, a pena di inammissibilità dell'impugnazione); e) irragionevolmente non indica alcun termine perentorio per il deposito di copia dell'appello nella segreteria della Commissione tributaria provinciale, pur facendo conseguire al mancato deposito l'inammissibilità dell'impugnazione; che, quanto alla rilevanza delle sollevate questioni, la Commissione tributaria regionale osserva che la disposizione censurata è entrata in vigore il 3 dicembre 2005 (cioè il giorno successivo alla data di pubblicazione della legge n. 248 del 2005 sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica) ed è perciò applicabile, in virtú del principio tempus regit actum, all'appello oggetto del giudizio principale, proposto dalla società mediante notifica «per consegna diretta il 15 dicembre 2005»; che, conseguentemente, l'applicazione di tale disposizione, ove non dichiarata costituzionalmente illegittima, comporterebbe la pronuncia di inammissibilità dell'appello medesimo, perché l'appellante non ha adempiuto al prescritto deposito di copia dell'appello nella segreteria del giudice di primo grado; che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in giudizio, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili; che, quanto alle questioni sollevate in riferimento agli evocati artt. 2 e 24 Cost., l'inammissibilità deriverebbe - secondo la difesa erariale - dal difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza; che, quanto alla questione sollevata in riferimento all'art. 3 Cost., l'inammissibilità deriverebbe dal mancato tentativo esperito dal rimettente di fornire un'interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione denunciata, la quale, proprio perché priva dell'indicazione del termine entro cui effettuare il deposito dell'appello nella segreteria del giudice di primo grado, dovrebbe essere interpretata - ad avviso della difesa erariale - nel senso che sanziona con l'improcedibilità (e non con l'inammissibilità) dell'appello l'inadempimento del suddetto obbligo di deposito, con la conseguenza che tale deposito sarebbe consentito nelle more del giudizio di appello, «fino al momento in cui la causa viene chiamata in decisione». Considerato che la Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione staccata di Caltanissetta, dubita, in riferimento agli artt. 2, 3 e 24 della Costituzione, della legittimità del secondo periodo del comma 2 dell'art. 53 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), il quale, nel disciplinare la proposizione dell'appello innanzi agli organi della giurisdizione tributaria, prevede che «Ove il ricorso non sia notificato a mezzo di ufficiale giudiziario, l'appellante deve, a pena di inammissibilità, depositare c opia dell'appello presso l'ufficio di segreteria della commissione tributaria che ha pronunciato la sentenza impugnata»; che, come risulta dalla ordinanza di rimessione, il giudizio principale riguarda una controversia sulle sanzioni amministrative inflitte alla ricorrente dall'Agenzia delle entrate per le violazioni delle norme in materia di lavoro irregolare, ai sensi dall'art. 3, comma 3, del decreto-legge 22 febbraio 2002, n. 12, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2002, n. 73 (nel testo anteriore alle modificazioni apportate dall'art. 36-bis, comma 7, lettera b, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, in vigore dal 12 agosto 2006, che ha trasferito dall'Agenzia delle entrate alla Direzione provinciale del lavoro il potere di irrogare le predette sanzioni); che, successivamente al deposito della suddetta ordinanza di rimessione, questa Corte, con la sentenza n. 130 del 2008, ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 2 del d.lgs. n. 546 del 1992, nella parte in cui attribuiva, secondo la lettura datane dal diritto vivente, alla giurisdizione tributaria la cognizione delle controversie sulle sanzioni amministrative di natura non tributaria comunque irrogate da uffici finanziari; che, per effetto di detta sentenza, si è modificato il quadro normativo di riferimento, perché, in relazione al giudizio principale, è venuta meno la giurisdizione del rimettente; che, pertanto, è necessario restituire gli atti al giudice a quo, perché prenda atto di tale mutamento del quadro normativo e delle sue conseguenze in ordine alla rilevanza delle questioni. La Corte costituzionale ordina la restituzione degli atti alla Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione staccata di Caltanissetta, con riguardo alle questioni da essa sollevate con l'ordinanza indicata in epigrafe. Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 maggio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Franco GALLO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 giugno 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA |