Deposito del 13/06/2008 (dalla 200 alla 212) |
S.200/2008 del 09/06/2008 Udienza Pubblica del 15/04/2008, Presidente BILE, Relatore SILVESTRI Norme impugnate: Artt. 3, c. 1°, 6, 7 e 8, della legge della Regione Calabria 05/01/2007, n. 2. Oggetto: Regioni - Norme della Regione Calabria - Istituzione e disciplina della Consulta statutaria - Componenti della Consulta - Responsabilità penale, civile e contabile per le opinioni espresse e per i voti dati nello stretto esercizio delle funzioni; Configurazione quale organo munito di potestà decisoria vincolante nei riguardi di tutti gli organi ed enti della Regione. Dispositivo: illegittimità costituzionale - illegittimità costituzionale parziale - non fondatezza - inammissibilità Atti decisi: ric. 16/2007 |
S.201/2008 del 09/06/2008 Udienza Pubblica del 06/05/2008, Presidente BILE, Relatore DE SIERVO Norme impugnate: Legge della Regione Molise 23/02/2007, n. 4. Oggetto: Regioni - Norme della Regione Molise - Istituzione del Sottosegretario alla Presidenza della Regione - Partecipazione, senza diritto di voto, alle sedute della Giunta. Dispositivo: illegittimità costituzionale Atti decisi: ric. 24/2007 |
Udienza Pubblica del 01/04/2008, Presidente BILE, Relatore AMIRANTE Norme impugnate: Art. 12, c. 7°, del decreto del Presidente della Repubblica 31/12/1971, n. 1420, come sostituito dall'art. 1, c. 10°, del decreto legislativo 30/04/1997, n. 182. Oggetto: Previdenza e assistenza - Pensioni erogate dall'Ente nazionale di previdenza e assistenza per i lavoratori dello spettacolo (ENPALS) - Calcolo della retribuzione giornaliera pensionabile - Esclusione dal computo, per la parte eccedente, delle retribuzioni giornaliere superiori a lire 315.000. Dispositivo: non fondatezza - inammissibilità Atti decisi: ord. 293 e 344/2007 |
S.203/2008 del 09/06/2008 Udienza Pubblica del 20/05/2008, Presidente BILE, Relatore SILVESTRI Norme impugnate: - Legge 27/12/2006, n. 296 (legge finanziaria 2007); discussione limitata all'art. 1, c. 796°, lett. p); - art. 6 quater del decreto legge 28/12/2006, n. 300, convertito, con modificazioni dall'art. 1, c. 1°, della legge 26/02/2007, n. 17; - decreto legge 20/03/2007, n. 23, convertito con modificazioni dall'art. 1, c. 1°, della legge 17/05/2007, n. 64; discussione limitata all'art. 1 bis. Oggetto: - Sanità pubblica - Norme della legge finanziaria 2007 - Servizio sanitario nazionale - Prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale - Pagamento di una quota fissa sulla ricetta pari a 10 euro - Abolizione fino al 31 dicembre 2007 - Fissazione di un termine f inale per il ticket e correlata introduzione di misure alternative di partecipazione equivalenti sotto il profilo del mantenimento dell'equilibrio economico-finanziario. Dispositivo: non fondatezza Atti decisi: ric. 10, 21 e 32/2007 |
O.204/2008 del 09/06/2008 Camera di Consiglio del 30/01/2008, Presidente BILE, Relatore FINOCCHIARO Norme impugnate: Artt. 126 bis (aggiunto dall'art. 7 del decreto legislativo 15/01/2002, n. 9, e modificato dall'art. 7, c. 3°, del decreto legge 27/06/2003, n. 151, convertito con modificazioni in legge 01/08/2003, n. 214) e art. 172, c. 1° e 8° (come modificati dall'art. 3, c. 12°, del decreto legge 27/06/2003, n. 151, converti to con modificazioni in legge 01/08/2003, n. 214) e c. 10°, del codice della strada (d.lgs. 30.4.1992, n. 285). Oggetto: Circolazione stradale - Obbligo di indossare la cintura di sicurezza - Sanzioni per l'inosservanza - Decurtazione di cinque punti dalla patente. Dispositivo: manifesta infondatezza - manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 458 e 717/2007 |
O.205/2008 del 09/06/2008 Camera di Consiglio del 27/02/2008, Presidente BILE, Relatore FINOCCHIARO Norme impugnate: Artt. 141, 143, 144, 148, 149 e 150 del decreto legislativo 07/09/2005, n. 209; art. 9 del decreto del Presidente della Repubblica 18/07/2006, n. 254. Oggetto: Responsabilità civile - Risarcimento del danno derivante da sinistro stradale - Azione proposta dal soggetto terzo trasportato nei confronti del conducente e del proprietario del veicolo ritenuto responsabile del sinistro, anziché nei confronti dell'impresa di assicurazione del veicolo sul quale il terzo medesimo era a bordo al momento del sinistro (come prescritto dal Codice delle assicurazioni private) - Omessa previsione della facoltà in capo al terzo trasportato danneggiato dal sinistro di agire direttamente nei confronti del proprio danneggiante ai sensi degli articoli 2043 e 2054 cod. civ., nonché di avvalersi della difesa tecnica nella fase stragiudiziale del procedimento di risarcimento. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 633 e 670/2007 |
O.206/2008 del 09/06/2008 Udienza Pubblica del 01/04/2008, Presidente BILE, Relatore FINOCCHIARO Norme impugnate: Art. 775, c. 2°, del codice civile Oggetto: Donazione - Azione di annullamento per incapacità di intendere o di volere del donante al momento in cui la donazione è stata fatta - Eccezione di prescrizione dell'azione, in quanto esercitata da soggetto erede del donante successivamente al compimento del termine quinquennale di prescrizione decorrente dal giorno in cui la donazione è stata fatta - Omessa previsione della possibilità per coloro che diventano eredi del donante, successivamente all'avvenuto decorso del termine quinquennale di prescrizione, di chiedere l'annullamento della donazione. Dispositivo: inammissibilità - manifesta infondatezza - manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 632/2007 |
O.207/2008 del 09/06/2008 Camera di Consiglio del 07/05/2008, Presidente BILE, Relatore AMIRANTE Norme impugnate: Art. 12 della legge 03/10/2001, n. 366; artt. da 2 a 17 del decreto legislativo 17/01/2003, n. 5. Oggetto: Società - Controversie in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria - Procedimento di primo grado dinanzi al tribunale in composizione collegiale - Disciplina introdotta dal legislatore delegante. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 765 e 798/2007 |
O.208/2008 del 09/06/2008 Camera di Consiglio del 07/05/2008, Presidente BILE, Relatore AMIRANTE Norme impugnate: Art. 12 della legge 03/10/2001, n. 366; artt. da 2 a 17 del decreto legislativo 17/01/2003, n. 5. Oggetto: Società - Controversie in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria - Procedimento di primo grado dinanzi al tribunale in composizione collegiale - Disciplina introdotta dal legislatore delegante. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 806/2007 |
O.209/2008 del 09/06/2008 Camera di Consiglio del 07/05/2008, Presidente BILE, Relatore SAULLE Norme impugnate: Art. 131, c. 4°, lett. c), del decreto del Presidente della Repubblica 30/05/2002, n. 115. Oggetto: Patrocinio a spese dello Stato - Azione di disconoscimento della paternità proposta dalla madre ammessa al gratuito patrocinio - Nomina del consulente tecnico d'ufficio - Previsione legislativa dell'anticipazione a carico dell'erario delle spese sostenute dagli ausiliari del magistrato per l'adempimento dell'incarico (nella specie, esecuzione di esami di laboratorio) - Omesso pagamento dell'importo - Impossibilità di porre le dette spese a carico del convenuto - Irragionevolezza di un'eventuale anticipazione a carico del c.t.u. Dispositivo: manifesta infondatezza Atti decisi: ord. 844/2007 |
O.210/2008 del 09/06/2008 Camera di Consiglio del 07/05/2008, Presidente BILE, Relatore NAPOLITANO Norme impugnate: Artt. 1 e 2 della legge 25/11/2003, n. 339. Oggetto: Impiego pubblico - Dipendenti di pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazioni lavorative non superiori al 50 per cento di quello a tempo pieno - Divieto di iscrizione all'albo professionale degli avvocati - Non applicabilità a coloro che risultino già iscritti alla data di entrata in vigore della legge n. 339/2003 - Mancata previsione; Termine di trentasei mesi dalla data di entrata in vigore della legge per l'esercizio dell'opzione. Dispositivo: manifesta inammissibili tà Atti decisi: ord. 792/2007 |
O.211/2008 del 09/06/2008 Udienza Pubblica del 20/05/2008, Presidente BILE, Relatore GALLO Norme impugnate: Art. 6, c. 2°, del decreto legislativo 15/11/1993, n. 507. Oggetto: Imposte e tasse - Imposta comunale sulla pubblicità - Ricorso avverso avviso di accertamento proposto dal soggetto fornitore dei servizi oggetto della pubblicità (nella specie, una banca) - Obbligazione solidale al pagamento dell'imposta a carico di colui che produce o vende la merce o fornisce i servizi oggetto della pubblicità - Omessa previsione dell'estinzione dell'obbligazione tributaria del responsabile d'imposta nel caso in cui risulti accertato che eg li si sia diligentemente adoperato presso il soggetto passivo per far cessare il presupposto dell'imposizione e che sia venuto meno ogni collegamento con il presupposto d'imposta (nella specie, per cessazione del rapporto giuridico sorto da contratto annuale di pubblicità); Omessa previsione che destinatario esclusivo delle sanzioni di tipo afflittivo sia il soggetto passivo d'imposta, e non anche il soggetto pubblicizzato incolpevolmente ignaro della persistente, ma non voluta, realizzazione del presupposto d'imposta. Dispositivo: manifesta infondatezza - manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 835/2007 |
O.212/2008 del 09/06/2008 Camera di Consiglio del 21/05/2008, Presidente BILE, Relatore QUARANTA Norme impugnate: Art. 1, c. 218°, della legge 23/12/2005, n. 266. Oggetto: Impiego pubblico - Personale degli enti locali trasferito nei ruoli del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario statale (A.T.A.) - Trattamento economico - Previsione, con norma di interpretazione autentica, dell'attribuzione del trattamento economico annuo in godimento al 31 dicembre 1999. Dispositivo: manifesta infondatezza Atti decisi: ord. 842/2007 |
ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, 6, 7 e 8 della legge della Regione Calabria 5 gennaio 2007, n. 2 (Istituzione e disciplina della Consulta Statutaria), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 12 marzo 2007, depositato in cancelleria il 20 marzo 2007 ed iscritto al n. 16 del registro ricorsi 2007. Visto l'atto di costituzione della Regione Calabria; udito nell'udienza pubblica del 15 aprile 2008 il Giudice relatore Gaetano Silvestri; uditi l'avvocato dello Stato Gianna Maria De Socio per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Raffaele Silipo per la Regione Calabria. Ritenuto in fatto 1. - Con ricorso notificato il 12 marzo 2007 e depositato il successivo 20 marzo, il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, 6, 7 e 8 della legge della Regione Calabria 5 gennaio 2007, n. 2 (Istituzione e disciplina della Consulta Statutaria), per violazione degli artt. 102, 103, 117, secondo comma, lettera l), e 123, quarto comma, della Costituzione. 1.1. - In particolare, il ricorrente ritiene che l'art. 3, comma 1, della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, nella parte in cui prevede che «Nei sei anni dello svolgimento del loro mandato, i componenti della Consulta non possono essere perseguiti, per responsabilità penale, civile o contabile, esclusivamente, per le opinioni espresse (dissenzienti o consenzienti) e per i voti dati nello stretto esercizio delle loro funzioni», violi l'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., «non essendo consentito alle Regioni di stabilire autonomamente delle scriminanti, in ogni caso, delle cause di esenzione dalla responsabilità penale, civile e amministrativa che non siano già previste dalla normativa statale». 1.2. - In merito alle censure mosse agli artt. 6, 7 e 8 della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, il Presidente del Consiglio osserva come queste disposizioni attribuiscano alla Consulta statutaria «poteri ulteriori» rispetto all'emanazione di pareri semplicemente consultivi, «configurando l'adozione da parte della stessa di decisioni e pareri di carattere vincolante per i soggetti interessati e per tutti gli enti ed organi della Regione, istituto quest'ultimo tipico delle decisioni a contenuto giurisdizionale». Secondo la difesa erariale, ciò determinerebbe un contrasto con l'art. 123 Cost., nella parte in cui prevede che «in ogni Regione, lo statuto disciplina il Consiglio delle autonomie locali, quale organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali». Inoltre, sarebbero stati superati i limiti posti dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 378 del 2004 e la Consulta statutaria calabrese avrebbe assunto «il carattere ibrido» di organo consultivo e, al tempo stesso, «munito di potestà decisoria vincolante nei riguardi di tutti gli organi ed enti della Regione». Il ricorrente ritiene, pertanto, che le norme contenute negli artt. 6, 7 e 8, violino gli artt. 102, 103 e 117, secondo comma, lettera l), Cost., in quanto attribuirebbero alla Consulta statutaria «la decisione in ordine all'interpretazione delle norme che individuino la competenza delle amministrazioni pubbliche, riservata ex artt. 102 e 103 della Costituzione, alla giustizia amministrativa ed ordinaria». La Regione Calabria, dunque, con le disposizioni impugnate avrebbe superato i limiti della competenza regionale, previsti dall'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. nella materia «giurisdizione e nor me processuali» e dagli artt. 102, 103 e 123 Cost. 2. − Con atto depositato il 10 aprile 2007, la Regione Calabria si è costituita in giudizio, chiedendo che il ricorso sia rigettato. 2.1. - In merito alla questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la norma di cui all'art. 3, comma 1, della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, la resistente ritiene che si tratti di una «semplice "estensione" ai componenti della Consulta della nota insindacabilità già prevista per i consiglieri di tutte le Regioni dall'art. 122, quarto comma, Cost., con l'aggiunta di un avverbio (esclusivamente) e di un aggettivo (stretto) che appunto mirano a restringere ulteriormente l'insindacabilità prevista». La difesa regionale sostiene che la ratio della norma impugnata sia quella di «mettere i componenti della Consulta nella condizione di non dover subire alcun condizionamento di sorta durante l'esercizio del loro mandato di custodi della legalità statutaria», al fine di assicurare «l'autonomia della Consulta» secondo quanto previsto dall'art. 57, comma 6, della legge della Regione Calabria 19 ottobre 2004, n. 25 (Statuto della Regione Calabria). In proposito, la resistente, dopo aver ricordato che fra le attribuzioni della Consulta rientra la valutazione della compatibilità con lo statuto degli atti (legislativi e regolamentari) del Consiglio regionale, sottolinea che l'estensione dell'insindacabilità ai membri della C onsulta risponde all'esigenza di garantire «una qualche "parità delle armi"» fra quest'ultima e il Consiglio regionale. Pertanto, la norma di cui all'art. 3, comma 1, della legge reg. Calabria n. 2 del 2007 non costituirebbe alcuna «posizione di privilegio» a favore dei componenti della Consulta, né determinerebbe «alcuna illegittima interferenza nella sfera dei poteri esclusivamente riservati alla potestà statuale». La medesima ratio sarebbe rinvenibile nell'art. 6, comma 2, della legge reg. Calabria n. 2 del 2007; infatti, anche la previsione della possibilità per i membri della Consulta di depositare «motivazioni aggiuntive firmate, diverse (opinioni concorrenti) o contrarie (opinioni dissenzienti)» rispetto a quella assunta collegialmente, sarebbe volta a salvaguardare l'«autonomia valutativa della Consulta». 2.1.1. - Secondo la difesa regionale, inoltre, «se da un lato parrebbe che l'orientamento della Corte sulla materia sia stabile nel negare competenza alle Regioni quanto alle fattispecie incriminatrici, comprese le esimenti, è pur vero che, dall'altro, la questione resta in dottrina, per molti versi, ancora controversa». Al riguardo, la resistente ricorda come non manchino «tentativi di attenuare la rigidità della riserva statale» in materia penale, dopo la riforma del titolo V della parte seconda della Costituzione. Per le ragioni anzidette, la Regione Calabria ritiene che, nel caso di specie, sia «eccessivo» invocare «il generale principio del monopolio statale della giurisdizione e dell'organizzazione giudiziaria», evidenziando come sia «nota la debolezza logico-teorica della preclusione di un qualche potere regionale in materia». Si chiede, pertanto, che la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la norma di cui all'art. 3, comma 1, della legge reg. Calabria n. 2 del 2007 sia dichiarata infondata. 2.2. - In merito alle altre censure, la resistente rileva l'erroneità dell'indicazione, tra i parametri costituzionali che sarebbero violati, dell'art. 123 Cost., nella parte in cui si occupa del Consiglio delle autonomie locali, sottolineandone la diversità della natura e delle funzioni rispetto alla Consulta statutaria. In subordine, la difesa regionale ritiene che l'Avvocatura dello Stato, con l'invocazione del parametro suddetto, abbia voluto dimostrare l'impossibilità di una coesistenza dei due organi in seno all'ente regionale, in quanto la presenza del Consiglio delle autonomie locali renderebbe «inutile o illegittima una competenza della Consulta a dirimere i conflitti fra Regione e minori enti locali». Così inteso il richiamo all'art. 123 Cost., la Regione Calabria evidenzia il contrasto esistente tra tale ricostruzione, «il diritto positivo e la realtà della gran parte degli Statuti regionali», i quali, tra l'altro, spesso configurano il Consiglio delle autonomie locali come «organo di impulso» della valutazione compiuta dall'organo di garanzia statutaria. 2.2.1. - Sempre in relazione alle questioni di legittimità costituzionale aventi ad oggetto gli artt. 6, 7 e 8 della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, la difesa regionale contesta il «rigido approccio» seguito dall'Avvocatura generale dello Stato ed osserva che la Corte costituzionale ha «legittimato esplicitamente le Consulte statutarie che accertano la conformità statutaria di atti pubblici regionali, attestando così che la loro esistenza - ove non comporti l'annullamento di leggi, esclusiva spettanza della Corte stessa [.] - non viola il principio di unicità della giurisdizione costituzionale [.], principio per altro in parte già mitigato nel nostro ordinamento attraverso meccanismi di giustizia co stituzionale di tipo "diffuso"». 2.2.2. - La resistente rileva, inoltre, che il Governo, a suo tempo, non ha impugnato gli statuti regionali che prevedono siffatti organi di garanzia statutaria e sottolinea come siano stati gli stessi statuti a fare delle Consulte statutarie, «del tutto legittimamente, degli organi "ibridi", svolgenti non solo funzioni consultive, ma in grado di prendere anche decisioni, la cui forza vincolante è poi determinata dai diversi Statuti». D'altra parte - aggiunge la Regione - sarebbe «del tutto riduttivo [.] sostenere che le Consulte svolgano solamente mere funzioni ausiliarie-consultive (per es., di "consiglio del legislatore") e non anche funzioni di controllo di superlegalità (di "custodia della rigidità dello Statuto")». La difesa regionale ritiene, in proposito, che le censure mosse dal Presidente del Consiglio dei ministri agli artt. 6, 7 e 8 della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, investano «superficialmente e indiscriminatamente, sia il regime delle decisioni che quello dei pareri, regime pur chiaramente "distinto" nella legge in esame». In particolare, la differenza tra decisioni e pareri troverebbe la sua ragion d'essere «nel differente tenore dello status dei soggetti ricorrenti» e rientrerebbe «nell'alveo delle competenze riconosciute al legislatore regionale in attuazione/integrazione delle norme statutarie», con «l'unico limite costituzionale (e statutario)» dell'impossibilità di «annullare/invalidare (presunti) atti legittimi». Per la ragione anzidetta - aggiunge la resistente - l'art. 8, commi 3 e 4, della legge reg. Calabria n. 2 del 2007 prevede che «le decisioni "non" sono vincolanti quando attengono a proposte di legge/regolamento (ricorso preventivo) o leggi/regolamenti del Consiglio (ricorso successivo), proprio perché la Consulta regionale si guarda bene anche solo di dare la sensazione di "annullare" atti regionali, in ogni caso essa limitandosi solo ad esprimere pareri/decisioni, di cui gli organi interessati dovranno tener conto, quanto meno sotto forma di "corretta ed esplicita menzio ne nell'adozione dei relativi atti"». 2.2.3. - La Regione Calabria ritiene, inoltre, assolutamente infondata la censura statale secondo cui le decisioni della Consulta statutaria avrebbero «contenuto giurisdizionale»; in particolare, il rilievo mosso dal ricorrente non avrebbe fondamento quanto alla forma prevista («decisione»), poiché in altri statuti regionali, non impugnati dal Governo, si parlerebbe di «pronunce» e di «giudizi» in riferimento agli organi di garanzia statutaria. Quanto alla sostanza delle decisioni della Consulta statutaria, la resistente rileva come una «parte motivazionale» sarebbe presente anche nelle decisioni amministrative, oltre che nelle pronunce giudiziarie. La difesa regionale, pertanto, ritiene che il ricorrente equipari «automaticamente e in modo grossolano l'assunzione, nei limitati casi previsti, di decisioni [.] parzialmente vincolanti (ma non di annullamento/invalidazione!) all'essenza "tipica" degli atti a contenuto "giurisdizionale", mentre tale carattere è proprio di tutti gli atti di esercizio di potere, dunque: anche normativo e amministrativo». 2.2.4. - Altrettanto infondato è, secondo la resistente, l'argomento prospettato dall'Avvocatura generale dello Stato in merito alla presunta violazione degli artt. 102 e 103 Cost. Innanzitutto, la Regione rileva che la previsione contenuta nella legge impugnata di un obbligo di ri-deliberazione a maggioranza assoluta da parte del Consiglio regionale, a seguito di un parere o di una decisione di non conformità allo Statuto, sarebbe già previsto dall'art. 57 della legge reg. Calabria n. 25 del 2004. In secondo luogo, «nulla e nessuno» impedirebbe «all'organo o all'ente che si ritenesse leso da un parere/decisione della Consulta di ricorrere comunque all'autorità giudizia ria che presume competente». 2.2.5. - La difesa regionale contesta, poi, il richiamo, operato nel ricorso governativo, alla sentenza della Corte costituzionale n. 378 del 2004, a proposito dell'impossibilità di prevedere maggioranze qualificate per la nuova deliberazione del Consiglio regionale a seguito di parere negativo dell'organo di garanzia statutaria. In particolare, la resistente ricorda che, con la sentenza n. 12 del 2006, la Corte costituzionale ha esplicitamente riconosciuto che «la materia del procedimento legislativo è interamente di competenza statutaria ex art. 123 Cost.». Da quanto detto deriverebbe la conformità a Costituzione delle norme di alcuni statuti regionali [sono richiamati l'art. 57, comma 7, della legge reg. Calabria n. 25 del 2004, l'art. 68, comma 8, della legge della Regione Lazio 11 novembre 2004, n. 1 (Nuovo Statuto della Regione Lazio) e l'art. 80, comma 2, dello Statuto 28 dicembre 2006 (Statuto della Regione Abruzzo)] che «"aggravano" il procedimento di formazione della legge regionale (dopo il parere negativo delle Consulte)». 2.2.6. - In conclusione, la Regione Calabria ritiene che le censure mosse dalla difesa erariale non tengano conto della ratio della previsione degli organi di garanzia statutaria, consistente nell'esigenza di assicurare che questi ultimi «siano effettivamente in grado di funzionare come una garanzia/protezione per lo Statuto di fronte alle ipotesi di violazione/elusione che avvengano all'interno della Regione, magari con atti che sfuggono ai controlli ordinari o addirittura non facilmente sanzionabili». Considerato in diritto 1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, 6, 7 e 8 della legge della Regione Calabria 5 gennaio 2007, n. 2 (Istituzione e disciplina della Consulta Statutaria), per violazione degli artt. 102, 103, 117, secondo comma, lettera l), e 123, quarto comma, della Costituzione. 2. - Preliminarmente deve essere dichiarata l'inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 6, 7 e 8 della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, promosse in riferimento all'art. 123, quarto comma, Cost. Tale norma costituzionale prevede l'istituzione in ogni Regione del «Consiglio delle autonomie locali, quale organo di consultazione fra la Regione e gli enti locali». La Consulta statutaria istituita e disciplinata dalla legge della Regione Calabria oggetto del presente giudizio è organo ben diverso da quello previsto dal citato art. 123 Cost., in quanto non svolge funzioni di raccordo e consultazione tra la Regione e gli enti locali, ma, in Calabria come in altre Regioni, esercita funzioni di garanzia e consulenza sull'applicazion e e l'interpretazione delle norme statutarie. Il parametro evocato dal ricorrente riguarda pertanto un organo diverso da quello oggetto della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, rendendo, di conseguenza, inammissibile la relativa censura di legittimità costituzionale. 3. - La questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, della legge reg. Calabria n. 2 del 2007 è fondata. La speciale guarentigia, di cui all'art. 122, quarto comma, Cost., collegata a quella prevista dall'art. 68, primo comma, Cost., assicura ai consiglieri regionali l'insindacabilità per i voti dati e le opinioni espresse nell'esercizio delle loro funzioni. La ratio di tale garanzia costituzionale è stata individuata da questa Corte nel «parallelismo con le guarentigie dei membri del Parlamento [.] in relazione al nucleo essenziale comune e caratterizzante delle funzioni degli organi "rappresentativi" dello Stato e delle Regioni», per finalità di «tutela delle più elevate funzioni di rappresentanza politica, in primis la funzione legislativa, volendosi garantire da qualsiasi interferenza di altri poteri il libero processo di formazione della volontà politica» (sentenza n. 69 del 1985). L'esigenza di rango costituzionale sottesa alla guarentigia in questione giustifica «deroghe eccezionali all'attuazione della funzione giurisdizionale». Con riferimento alle Regioni, l'estensione di tale tipo di immunità a soggetti diversi dai consiglieri regionali «contrasta sia con l'interpretazione letterale dell'art. 122 Cost., sia con la ratio dell'istituto» (sentenza n. 81 del 1975: nella specie, si trattava dell'estensione ai componenti della Giunta regionale della garanzia dell'insindacabilità). La norma costituzionale derogatoria, rimasta invariata dopo la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, è quindi di stretta interpretazione. Ogni sua dilatazione al di là dei limiti precisi voluti dalla Costituzione costituisce una violazione dell'int egrità della funzione giurisdizionale, posta a presidio dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Esorbiterebbe, altresì, in modo palese dalla sfera di competenze legislative costituzionalmente attribuite alle Regioni la possibilità di introdurre nuove cause di esenzione dalla responsabilità penale, civile o amministrativa, trattandosi di materia riservata alla competenza esclusiva del legislatore statale, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. 4. - La questione di legittimità costituzionale dell'art. 6 della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, sollevata in riferimento agli artt. 102, 103 e 117, secondo comma, lettera l), Cost., non è fondata. Il ricorrente adduce a sostegno della tesi dell'illegittimità costituzionale della norma censurata la considerazione che la possibilità accordata dalla stessa ai componenti della Consulta statutaria della Regione Calabria di depositare, in relazione alle sole decisioni e non ai pareri, «motivazioni aggiuntive firmate, diverse (opinioni concorrenti) o contrarie (opinioni dissenzienti) a quella assunta collegialmente dalla Consulta a sostegno del dispositivo adottato» (comma 2), sia segno rivelatore della pretesa natura giurisdizionale dell'organo, con la conseguenza dell'illegittimità della sua istituzione con legge regionale. A prescindere da quanto sarà precisato più avanti circa la natura giuridica della Consulta statutaria de qua, in relazione alle funzioni alla stessa attribuite dalla legge reg. Calabria n. 2 del 2007, si deve osservare che la semplice previsione della possibilità di far risultare in modo ufficiale, da parte dei componenti, i motivi del proprio consenso o dissenso rispetto alla deliberazione assunta, non caratterizza in senso giurisdizionale l'organo in questione, giacché in tutti i collegi amministrativi tale facoltà è riconosciuta ai relativi membri, con modalità diverse di manifestazione e di registrazione. Nel caso di specie, trattandosi di organo della Regione, la disciplina delle modalità di esercizio di questa facoltà rientra nel potere di autoorganizzazione di cui la stessa Regione dispone ai sensi del quarto comma dell'art. 117 Cost. Risulta inoltre contraddittorio ritenere la natura giurisdizionale di un organo sulla base di una facoltà riconosciuta dalla legge in via generale ai componenti dei collegi amministrativi e riconosciuta invece soltanto in casi limitati e per specifiche finalità ai membri di collegi giurisdizionali. 5. - Le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 7 e 8 della legge reg. Calabria n. 2 del 2007 sono fondate nei limiti di seguito indicati. 5.1. - Questa Corte ha già chiarito che «l'introduzione di un organo di garanzia nell'ordinamento statutario regionale non è, come tale, in contrasto con la Costituzione, ferma restando la necessità di valutare, nei singoli specifici profili, la compatibilità delle norme attributive allo stesso di competenze determinate» (sentenza n. 12 del 2006). Nessun dubbio che sia ammissibile attribuire a tali organi di garanzia un potere consultivo, ancorché il contenuto negativo del parere reso determini l'obbligo di riesame dell'atto (sentenza n. 378 del 2004). Si tratta, nel caso oggetto del presente giudizio, di stabilire se la previsione, contenuta nelle disposizioni censurate, di «decisioni» su oggetti dalla stessa determinati possa ritenersi compatibile con la natura amministrativa dell'organo o se, invece, il carattere vincolante di tali atti li qualifichi come sostanzialmente giurisdizionali e pertanto estranei alla sfera di competenza del legislatore regionale. Alla luce dei comuni principi che reggono la qualificazione degli atti dei poteri pubblici, si deve ritenere che la competenza ad emanare atti decisori non è riservata agli organi giurisdizionali, giacché l'ordinamento giuridico italiano conosce da lungo tempo molteplici tipi di atti riconducibili alla categoria delle decisioni amministrative. Queste ultime si caratterizzano per essere atti amministrativi di accertamento, volti a risolvere conflitti, decidendo, in un caso concreto, sull'applicabilità di una norma o sulle modalità di applicazione della stessa. Se si esaminano in modo specifico le competenze decisorie della Consulta statutaria enumerate dall'art. 7, comma 2, della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, si vede che esse riguardano: a) i conflitti tra organi della Regione; b) i conflitti tra gli organi della Regione e gli enti locali; c) la compatibilità di proposte di legge o di regolamento con lo statuto; d) la regolarità e l'ammissibilità delle richieste di referendum. Come precisato dal successivo art. 8, comma 1, le «decisioni» hanno efficacia vincolante per gli organi regionali e per «gli altri soggetti istituzionali interessati». Si tratta pertanto di decisioni amministrative che tendono ad eliminare dubbi e controversie sull'interpretazione delle disposizioni statutarie e delle leggi regionali riguardanti i rapporti tra la Regione e gli altri enti che operano nell'ambito del suo territorio. È appena il caso di precisare che tali decisioni non possono né precludere né, in alcun modo, limitare la competenza degli organi giurisdizionali, ordinari o amministrativi, eventualmente richiesti, nei modi rituali, di pronunciarsi sui medesimi atti già oggetto di valutazioni da parte della Consulta statutaria. Le stesse «decisioni» della suddetta Consulta possono ovviamente diventare oggetto di un giudizio di legittimità dei competenti organi giudiziari. Si deve aggiungere che l'elencazione delle competenze della Consulta statutaria ricalca quella contenuta nell'art. 57, comma 5, dello statuto della Regione Calabria, così come il carattere vincolante delle determinazioni dell'organo di garanzia risulta conforme al comma 7 del medesimo art. 57, che dispone: «Gli organi regionali si attengono alle valutazioni della Consulta. Il Consiglio regionale può comunque deliberare in senso contrario a singole valutazioni, con motivata decisione adottata a maggioranza assoluta». In linea con la norma statutaria da ultima citata, l'art. 8, comma 3, della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, dispone infatti: «Ove la Consulta ritenga leso lo Statuto da una semplice proposta di legge o regolamento del Consigli o regionale, quest'ultimo può comunque deliberare in senso contrario alle decisioni della Consulta, con motivata decisione adottata a maggioranza assoluta». Da quanto osservato si deve concludere che le suindicate competenze della Consulta statutaria, quali previste dalle norme censurate, non hanno natura giurisdizionale e risultano conformi, nei termini appena indicati, alle previsioni statutarie. Se si interpretano le norme censurate in modo conforme allo statuto, si deve ritenere che il carattere vincolante delle «decisioni» della Consulta statutaria debba mantenersi nell'ambito dell'organizzazione regionale, che comprende «tutti gli enti ed organi della Regione», con la conseguenza che tra gli altri «soggetti interessati», menzionati dal comma 2 dell'art. 8, non possano essere inclusi gli enti locali, la cui autonomia è costituzionalmente garantita dall'art. 114, primo e secondo comma, Cost. 5.2. - Si deve, al contrario, rilevare l'illegittimità costituzionale del comma 4 dell'art. 8 della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, giacché ogni valutazione sulle leggi regionali promulgate o sui regolamenti emanati appartiene alla competenza esclusiva rispettivamente della Corte costituzionale e dei giudici comuni, ordinari e amministrativi. Le competenze della Consulta statutaria, per non invadere la sfera di attribuzioni del giudice delle leggi e degli organi giudiziari, devono avere soltanto carattere preventivo ed essere perciò esercitate nel corso dei procedimenti di formazione degli atti. Ogni valutazione sulla legittimità di atti, legislativi o amministrativi, successiva alla loro promulgazione o emanazione è estranea alla sfera delle attribuzioni regionali. 5.3. - Assieme al comma 4 dell'art. 8, deve essere dichiarata l'illegittimità costituzionale del comma 3 dell'art. 7, limitatamente alle parole «Ad eccezione del caso di conflitti fra organi della Regione o fra Regione ed Enti locali originati da una legge o da un regolamento, nel quale i soggetti legittimati devono ricorrere alla Consulta entro 30 giorni dalla promulgazione della legge,». I motivi della declaratoria di illegittimità costituzionale di tale norma sono analoghi a quelli enunciati a proposito del comma 4 dell'art. 8, in quanto la Consulta statutaria non può essere investita di valutazioni di legittimità concernenti leggi regionali promulgate o regolamenti emanati. Nessun ricorso a tale organo è pertanto ammissibile dopo la promulgazione della legge o l'emanazione del regolamento, poiché ogni valutazione di legittimità è riservata, nei termini, nei limiti e con le modalità previsti dalla Costituzione e dalle leggi vigenti, alla Corte costituzionale ed ai giudici ordinari e amministrativi. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, della legge della Regione Calabria 5 gennaio 2007, n. 2 (Istituzione e disciplina della Consulta Statutaria); dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 7, comma 3, della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, limitatamente alle seguenti parole: «Ad eccezione del caso di conflitti fra organi della Regione o fra Regione ed Enti locali originati da una legge o da un regolamento, nel quale i soggetti legittimati devono ricorrere alla Consulta entro 30 giorni dalla promulgazione della legge,»; dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 8, comma 4, della legge reg. Calabria n. 2 del 2007; dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 6, 7 e 8 della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, promosse, in riferimento all'art. 123, quarto comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6 della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, promossa, in riferimento agli artt. 102, 103 e 117, secondo comma, lettera l), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe; dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 7, commi 1, 2, 4, 5, 6, 7 e 8, della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, promosse, in riferimento agli artt. 102, 103 e 117, secondo comma, lettera l), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe; dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 8, commi 1, 2 e 3, della legge reg. Calabria n. 2 del 2007, promosse, in riferimento agli artt. 102, 103 e 117, secondo comma, lettera l), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Gaetano SILVESTRI, Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 giugno 2008. Il Cancelliere F.to: MELATTI ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Molise 23 febbraio 2007, n. 4 (Istituzione del Sottosegretario alla Presidenza della Regione), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri notificato il 30 aprile 2007, depositato in cancelleria l'8 maggio 2007 ed iscritto al n. 24 del registro ricorsi 2007. Visto l'atto di costituzione della Regione Molise; udito nell'udienza pubblica del 6 maggio 2008 il Giudice relatore Ugo De Siervo; uditi l'avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Vincenzo Colalillo per la Regione Molise. Ritenuto in fatto 1. - Con ricorso notificato il 30 aprile 2007 il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Molise 23 febbraio 2007, n. 4 (Istituzione del Sottosegretario alla Presidenza della Regione), pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione Molise n. 6 del 1° marzo 2007, in riferimento all'art. 123 della Costituzione, nonché agli artt. 20 e 23 dello statuto della Regione Molise, approvato con la legge 22 maggio 1971, n. 347. 1.1. - Il ricorrente sostiene che con l'istituzione della figura del Sottosegretario alla Presidenza della Regione (al quale, tra l'altro, viene consentita la partecipazione alle sedute della Giunta, seppure senza diritto di voto), l'impugnata legge regionale avrebbe violato gli artt. 20 e 23 dello statuto regionale, che individuano come partecipanti alle sedute dell'organo solo i componenti della Giunta ed escludono la pubblicità delle relative sedute. Più in generale, il legislatore regionale avrebbe creato «un organo cui vengono assegnate funzioni di ampia portata e non precisamente definite nei propri limiti». L'art. 123 della Costituzione, dal canto suo, dispone che i princípi fondamentali di organizzazione e funzionamento siano determinati dalle singole Regioni nello statuto regionale, in armonia con la Costituzione, e prevede, altresì, che lo statuto sia approvato e modificato dal Consiglio regionale con una particolare procedura legislativa "rinforzata". Dopo l'innovazione introdotta dalla legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, la Regione Molise non ha proceduto a sostituire o modificare il testo adottato nel 1971 e potrà farlo solo attraverso lo speciale procedimento previsto dal nuovo art. 123 della Costituzione. Pertanto, l'istituzione del Sottosegretario alla Presidenza, «che sicuramente attiene all'organizzazione e funzionamento della Regione», posta in essere con legge regionale "ordinaria", risulterebbe in contrasto con l'art. 123 della Costituzione, «che dispone un intervento sulle norme dello Statuto con un peculiare procedimento (cosiddetta procedura rinforzata)». 2. - Con atto depositato il 17 maggio 2007, la Regione Molise si è costituita in giudizio, sostenendo l'infondatezza delle censure formulate nel ricorso. 2.1. - La resistente, pur riconoscendo l'attuale vigenza dello statuto regionale, approvato con la legge 22 maggio 1971, n. 347, e non ancora modificato, respinge i prospettati dubbi d'incostituzionalità. Quanto alla partecipazione del Sottosegretario in oggetto alle sedute della Giunta, la resistente osserva che gli invocati artt. 20 e 23 dello Statuto si riferiscono ai soli membri partecipativi di diritto, vale a dire gli assessori. Lo Statuto non esclude, come reso evidente dalla «normativa di settore», la presenza alle riunioni della Giunta «di altri soggetti "tecnici"», quali i dirigenti dei singoli rami dell'amministrazione regionale. Al pari di questi, il Sottosegretario alla Presidenza partecipa alle sedute dell'esecutivo regionale pur non essendone membro. Per quanto riguarda, poi, l'asserita violazione dell'art. 123 della Costituzione, la resistente esclude la denunciata alterazione della forma di governo regionale e nega, altresì, che la censurata disciplina comporti una modifica organizzativa o di funzionamento dell'apparato regionale in contrasto con il vigente statuto. Invero, a detta della difesa regionale, «tale corpus normativo non inibisce il potere legislativo regionale alla individuazione di compiti da assegnare a singoli consiglieri o a istituire aree di funzionamento e compiti a specifiche figure consiliari». Al contrario, la legge regionale n. 4 del 2007 si limita ad assegnare ad un consigliere «compiti di "snellimento" della attività del Presidente, ad impedire a questi di dover presenziare a "manifestazioni, att ività propedeutiche di studi ed istruttorie ecc."». Si tratterebbe, per la resistente, di compiti che ben potrebbero essere attribuiti persino con decreto dello stesso Presidente della Giunta regionale. Lungi dall'essere destinatario di «una generale e ampia attribuzione di compiti istituzionali», il Sottosegretario in parola sarebbe pertanto preposto allo svolgimento di una attività di mera esecuzione di direttive presidenziali, con riferimento a specifiche necessità ed esigenze. 3. - In prossimità dell'udienza pubblica, la Regione Molise, con memoria depositata il 15 aprile 2008, ha ribadito l'inammissibilità e, comunque, l'infondatezza della questione. 3.1. - In via preliminare, la difesa regionale lamenta l'insufficienza dei motivi di censura, soprattutto in ordine all'interesse del ricorrente alla caducazione dell'impugnata disciplina legislativa regionale, per asserita violazione dell'articolo 123 della Costituzione. Attesa l'assegnazione al Sottosegretario di compiti tesi al miglioramento dell'apparato istituzionale e amministrativo della Regione, il ricorrente avrebbe dovuto motivare in ordine alla eliminazione di tale figura per contrasto con la funzionalità dell'ente stesso. Il mero riferimento alla normativa statutaria, specie a séguito delle recenti riforme costituzionali, a detta della resistente non appare sufficiente, imponendosi una interpretazione dinamica dello stesso dettato statutario alla luce della nuova realtà costituzionale della Regione. 3.2. - Nel merito, la difesa regionale insiste nel rimarcare che la figura del Sottosegretario è stata istituita al fine di consentire al Presidente della Giunta regionale una forma di rappresentanza e di raccordo istituzionale in vista dello snellimento, della semplificazione e della accelerazione delle attività che coinvolgono lo stesso Presidente. A sostegno della conformità della legge impugnata con i parametri invocati, la difesa regionale osserva che la funzione di rappresentanza è conferita di volta in volta, sulla base di uno specifico mandato, e senza l'attribuzione di poteri decisori. Quanto, in particolare, alla asserita violazione degli articoli 20 e 23 dello statuto, la resistente sostiene che, per un verso, il Sottosegretario alla Presidenza della Regione non è un nuovo membro della Giunta e che, d'altro canto, il divieto di pubblicità delle sedute dell'organo esecutivo regionale permane, dal momento che la presenza di tale figura è prevista solo per il compimento di attività preparatorie o istruttorie e non per i momenti decisionali veri e propri. Considerato in diritto 1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Molise 23 febbraio 2007, n. 4 (Istituzione del Sottosegretario alla Presidenza della Regione), in riferimento all'art. 123 della Costituzione, nonché agli artt. 20 e 23 dello statuto della Regione Molise (tuttora vigente è il testo approvato con la legge 22 maggio 1971, n. 347). Secondo il ricorrente, la legge impugnata, disciplinando la nuova figura del Sottosegretario alla Presidenza ed assegnando allo stesso una serie di eterogenee funzioni, ne prevede anche la partecipazione alle riunioni della Giunta, seppur senza diritto di voto: ciò contrasterebbe anzitutto con gli artt. 20 e 23 dello statuto regionale, che disciplinano la composizione ed il funzionamento della Giunta. Inoltre, l'art. 123 Cost. dispone che spetta allo statuto regionale determinare i princípi fondamentali di organizzazione e funzionamento della Regione attraverso una speciale procedura legislativa. Dal momento che la figura del Sottosegretario alla Presidenza «sicuramente attiene all'organizzazione e funzionamento della Regione», non può essere prevista e disciplinata con legge regionale ordinaria. 2. - In via preliminare, va riconosciuta l'ammissibilità della presente questione, benché la stessa abbia per oggetto l'intera legge regionale. La legge impugnata, infatti, è composta di soli tre articoli, il secondo ed il terzo dei quali con funzioni meramente accessorie, essendo relativi alla copertura finanziaria ed alla entrata in vigore di tale disciplina. Questa Corte ha più volte chiarito che è inammissibile l'impugnativa di una intera legge ove ciò comporti la genericità delle censure che non consenta la individuazione della questione oggetto dello scrutinio di costituzionalità, mentre ammissibili sono le impugnative contro intere leggi caratterizzate da normative omogenee e tutte coinvolte dalle censure (da ultimo, si vedano le sentenze n. 238 e n. 22 del 2006; n. 359 del 2003). 3. - Nel merito la questione è fondata in riferimento all'art. 123 Cost. 3.1. - L'art. 1 della legge impugnata configura il Sottosegretario alla Presidenza della Regione come una rilevante ed impegnativa carica di tipo politico-istituzionale, come del resto comprovato dalla stessa denominazione ivi accolta (si vedano, le sentenze n. 306 e n. 106 del 2002). Il Sottosegretario è scelto fra i consiglieri regionali in carica; è sostituito nella Commissione consiliare di cui fa parte «da un consigliere dello stesso gruppo politico o di altro gruppo di maggioranza»; partecipa alle sedute della Giunta regionale, seppur senza diritto di voto; dispone di un proprio apparato di collaboratori analogo a quello degli assessori; è titolare di una indennità pari a quella spettante al vicepresidente del Consiglio region ale. Sul piano delle funzioni appare particolarmente significativo che egli, nelle sue attività di rappresentanza del Presidente della Regione, mantenga «i rapporti con il Consiglio, con gli assessori, con i direttori generali, con la struttura regionale, con tutte le istituzioni e con organismi pubblici e privati», avvalendosi «delle strutture, delle collaborazioni e del personale che sono nella disponibilità della Presidenza della Regione». Tutto ciò rende palese che la legge censurata incide sulle aree materiali riservate alla fonte statutaria regionale, quali configurate nel primo comma dell'art. 123 Cost., sia prima («organizzazione interna della Regione»: si veda, al riguardo, la sentenza n. 407 del 1989) che dopo («la forma di governo e i principi fondamentali di organizzazione e funzionamento») la riforma operata dall'art. 3 della legge costituzionale 22 novembre 1999 n. 1 (Disposizioni concernenti l'elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l'autonomia statutaria delle Regioni). La Costituzione riserva allo statuto la disciplina dei rapporti tra gli organi fondamentali della Regione (si vedano, le sentenze n. 12 del 2006 e n. 313 del 2003), anche in relazione alla loro conformazione (sentenza n. 3 del 2006). Con la sentenza n. 188 del 2007, questa Corte ha precisato che «le scelte fondamentali in ordine al riparto delle funzioni tra gli organi regionali, ed in particolare tra il Consiglio e la Giunta, alla loro organizzazione e al loro funzionamento sono riservate dall'art. 123 Cost. alla fonte statutaria. Tale riserva impedisce al legislatore regionale ordinario, in assenza di disposizioni statutarie, di d isciplinare la materia». Le disposizioni relative alla nomina del Sottosegretario ed alla sua sostituzione in seno alla Commissione consiliare di appartenenza (peraltro con una specifica scelta in ordine al sostituto) incidono sui rapporti tra l'esecutivo regionale e l'assemblea legislativa così invadendo un àmbito materiale proprio della fonte statutaria. Similmente, la riserva di statuto risulta disattesa anche dalle disposizioni afferenti alla partecipazione alle sedute della Giunta. In particolare, l'art. 1, comma 2, pur non alterando formalmente la composizione della Giunta di cui all'art. 20 del vigente statuto, ha per oggetto il funzionamento dell'esecutivo regionale, la cui disciplina spetta alla fonte statutaria. Inoltre, nel silenzio della disciplina impugnata, la presenza del Sottosegretario deve essere intesa come permanente e non meramente occasionale. A parte il potere presidenziale di nomina e di revoca (come si è visto, rilevante anche sul piano dei rapporti con il Consiglio regionale), la previsione di cui all'art. 1, comma 3, secondo cui il Sottosegretario «può rappresentare il Presidente della Regione su disposizione dello stesso», afferisce alla rappresentanza regionale, che la stessa Costituzione, all'art. 121, ultimo comma, attribuisce in via esclusiva al Presidente della Regione. A fronte del principio enunciato dalla Carta fondamentale, il suo compiuto svolgimento non può che spettare allo statuto, sempre in ordine alla determinazione dei princìpi fondamentali di organizzazione e funzionamento. 3.2. - In considerazione della diversa natura e procedura di adozione della fonte statutaria rispetto a quelle delle ordinarie leggi regionali, questa Corte ha più volte affermato la illegittimità costituzionale, per violazione dell'art. 123 Cost., di leggi regionali che adottino discipline difformi dal dettato statutario o comunque regolino materie riservate alla fonte statutaria (fra le molte si vedano le sentenze n. 188 del 2007; n. 119 del 2006; n. 379, n. 378, n. 372 e n. 2 del 2004; n. 313 e n. 196 del 2003; n. 304 del 2002), allorché sarebbe possibile procedere a innovazioni anche solo parziali dello statuto regionale vigente, tramite la procedura di cui al secondo comma dell'art. 123 Cost. (sentenza n. 304 del 2002). Il ritardo nella adozione dei nuovi statuti non può legittimare l'assunzione, da parte del legislatore regionale "ordinario", di determinazioni normative riservate alla fonte statutaria. Con la sentenza n. 188 del 2007 questa Corte ha affermato che «le Regioni avrebbero dovuto sviluppare, attraverso apposite e complete disposizioni statutarie, le rilevanti innovazioni costituzionali ed istituzionali originate dalle nuove scelte operate a livello nazionale, in tal modo anche riducendo il rischio dell'assenza di normative adeguate alle novità comunque prodottesi, a tutela della necessaria trasparenza e legalità dell'azione regionale». Sicché, «l'adeguamento alle modifiche costituzionali e legislative intervenute non può essere rinviato sin e die [...], a meno del manifestarsi di rischi particolarmente gravi sul piano della funzionalità e legalità sostanziale di molteplici attività delle Regioni ad autonomia ordinaria». 3.3. - Resta assorbito ogni altro profilo di censura. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimità costituzionale della legge della Regione Molise 23 febbraio 2007, n. 4 (Istituzione del Sottosegretario alla Presidenza della Regione). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Ugo DE SIERVO, Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 giugno 2008. Il Cancelliere F.to: MELATTI ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 12, settimo comma, del d.P.R. 31 dicembre 1971, n. 1420 (Norme in materia di assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti gestita dall'Ente nazionale di previdenza e di assistenza per i lavoratori dello spettacolo), come sostituito dall'art. 1, comma 10, del decreto legislativo 30 aprile 1997, n. 182, promossi, dal Tribunale di Torino nel procedimento civile vertente tra M. P. ed altro e l'ENPALS e dal Tribunale di Sanremo nel procedimento civile vertente tra M. B. e l'ENPALS, con ordinanze del 26 agosto 2006 e del 27 novembre 2006 rispettivamente iscritte ai nn. 293 e 344 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 17 e 20, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di costituzione di M. P. ed altro, dell'ENPALS, di C. M. vedova di M. B., nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 1° aprile 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante; uditi gli avvocati Roberto Carapelle, Mario Mangino, Vincenzo Martino e Mario Menghini per M. P. ed altro, Angelo Pandolfo e Rossana Cardano per l'ENPALS, Federico Sorrentino per C. M. vedova di M. B. e l'avvocato dello Stato Francesco Lettera per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.- Nel corso di una controversia previdenziale - promossa nei confronti dell'Ente nazionale di previdenza e di assistenza per i lavoratori dello spettacolo per ottenere il ricalcolo della pensione sulla base della retribuzione giornaliera effettivamente percepita - il Tribunale di Sanremo, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, settimo comma, del d.P.R. 31 dicembre 1971, n. 1420 (Norme in materia di assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti gestita dall'Ente nazionale di previdenza e di assistenza per i lavoratori dello spettacolo), sia nel testo attualmente vigente - formulato dall'art. 1, comma 10, del decreto legislativo 30 aprile 1997, n. 182 - sia in quel lo precedente, la cui vigenza è stata confermata in via transitoria dall'art. 13 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503. Rileva preliminarmente il giudice a quo che la medesima questione è stata già sollevata nello stesso giudizio e che questa Corte l'ha dichiarata inammissibile - con la sentenza n. 120 del 2006 - per mancanza di adeguata considerazione del quadro normativo complessivo e, più specificamente, dell'art. 5 del decreto-legge 18 gennaio 1993, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 19 marzo 1993, n. 70; ciò premesso, il Tribunale ritiene che tali vizi siano emendabili e che la questione possa essere quindi riproposta. L'ordinanza di remissione precisa perciò che il ricorrente, già dipendente a tempo indeterminato del Casinò municipale di Sanremo con la qualifica di impiegato, è stato collocato a riposo in data 31 dicembre 1998 all'età di sessantaquattro anni, avendo maturato trentaquattro anni di anzianità di servizio, pari a complessive 10.620 giornate di contribuzione. La pensione erogata in suo favore dall'ENPALS a decorrere dal 1° gennaio 1999 è stata calcolata - sia per la quota a) sia per la quota b) - assumendo come massimale di retribuzione giornaliera pensionabile una somma inferiore a quella realmente percepita, con la conseguenza che il trattamento pensionistico globale è risultato inferiore rispetto a quello che il ricorrente avrebbe ottenuto ove il criterio di calcolo fosse stato quello della r etribuzione effettiva. La norma censurata prevedeva, nel testo previgente confermato in via transitoria dall'art. 13 del d.lgs. n. 503 del 1992, che il limite massimo della retribuzione giornaliera pensionabile fosse quello di cui alla penultima classe della tabella "F" allegata al d.P.R. 27 aprile 1968, n. 488, aumentata del 5 per cento, ossia pari in concreto a lire 315.000 (euro 162,68); mentre nella formulazione vigente detto limite è stato esplicitamente fissato in lire 315.000, sia pure col meccanismo correttivo della rivalutazione annuale a decorrere dal 1° gennaio 1998. Ai fini della rilevanza, il Tribunale osserva che la domanda formulata dal ricorrente non sarebbe, allo stato, accoglibile, ma che la decisione della presente questione assume carattere pregiudiziale, perché il giudizio in corso non può essere deciso a pre scindere dalla soluzione della medesima. Nel merito, la questione pare al giudice a quo non manifestamente infondata. Per i lavoratori assicurati col regime generale gestito dall'Istituto nazionale della previdenza sociale, infatti, l'art. 21, comma 6, della legge 11 marzo 1988, n. 67, prevede che la retribuzione eccedente quella fissata nel tetto pensionabile venga computata, con aliquota decrescente, ai fini della determinazione di una quota aggiuntiva di pensione che va a costituire parte integrante di quella già erogata. L'art. 5 del d.l. n. 11 del 1993, dettando una norma di interpretazione autentica, estende anche ai lavoratori assicurati presso l'ENPALS l'applicazione del citato art. 21, comma 6; senonché - a parere del giudice a quo - mentre per i lavoratori assicurati presso l'INPS quest'u ltima disposizione riceve «applicazione piena, senza limitazioni di sorta», per i dipendenti in regime ENPALS il medesimo effetto è impedito dalla disposizione censurata, la quale consente che le quote aggiuntive di pensione vengano riconosciute «soltanto fino al raggiungimento del massimale di retribuzione pensionabile giornaliera rivalutato in base all'indice ISTAT». E ciò costituisce violazione del principio di eguaglianza in quanto l'art. 2, terzo comma, del d.P.R. n. 1420 del 1971 stabilisce che le retribuzioni fino alla soglia di un milione di lire siano soggette a prelievo contributivo in favore del Fondo pensioni gestito dall'ENPALS, creando un'evidente ingiustificata discriminazione tra retribuzione sottoposta a contribuzione piena e retribuzione utile ai fini del calcolo della pensione. Il prelievo contributivo eccedente la soglia della retribuzione pensionabile, secondo il remittente, «si traduce integralmente in contributo di sol idarietà». Da tanto consegue una violazione dell'art. 3 Cost. per la disparità di trattamento tra le due categorie di lavoratori dipendenti sopra confrontate, tanto più evidente in relazione al profilo professionale cui appartiene il ricorrente (dipendente di una casa da gioco), disparità che si è andata ancora più accentuando con l'entrata in vigore della disposizione (art. 11 della legge 30 dicembre 1991, n. 412) che ha elevato la soglia di retribuzione soggetta a prelievo contributivo; da ciò conseguirebbe un secondo profilo di illegittimità costituzionale, «relativo all'irragionevolezza di una disciplina che rende pensionabile soltanto meno di un terzo della retribuzione assoggettata a contribuzione piena». 2.- Si è costituita in giudizio la vedova del lavoratore ricorrente, nella qualità di unica erede, sollecitando l'accoglimento della prospettata questione. Dopo aver precisato che la medesima, ancorché già proposta per due volte nello stesso giudizio, è certamente riproponibile, poiché questa Corte ne ha dichiarato in entrambi i casi l'inammissibilità (ordinanza n. 385 del 2002 e sentenza n. 120 del 2006), la parte osserva che la questione è pure rilevante, poiché dal suo accoglimento deriva anche l'accoglimento del ricorso. La ricorrente rammenta che la pensione dei dipendenti dell'ENPALS viene calcolata, in base all'art. 13 del d. lgs. n. 503 del 1992, in due diverse quote, riferibili l'una al periodo contributivo anteriore al 1° gennaio 1993 e l'altra al periodo successivo a tale data, il che spiega la ragione per cui ai fini della presente questione rileva anche il testo della disposizione censurata precedente a quello oggi in vigore. Il Tribunale di Sanremo ha ravvisato nelle disposizioni censurate due possibili ragioni di illegittimità costituzionale, l'una relativa alla disparità di trattamento tra pensionati assicurati presso enti previdenziali diversi e l'altra interna al regime ENPALS, conseguente alla sproporzione tra contributi, retribuzione e pensione. Quanto al primo profilo di incostituzionalità, pare alla parte privata evidente la disparità di trattamento conseguente al fatto che il meccanismo correttivo rappresentato dalle quote aggiuntive di pensione è limitato, per i dipendenti ENPALS, dal tetto fissato dal contestato art. 12, settimo comma, del d.P.R. n. 1420 del 1971; in altre parole, la norma estensiva di cui all'art. 5 del d.l. n. 11 del 1993 non potrebbe in concreto operare in considerazione della soglia legislativa f issata a lire 315.000. D'altra parte, la giurisprudenza di questa Corte ha sempre affermato che non è possibile fare raffronti tra sistemi previdenziali diversi, purché rimanga fermo il limite della «evidente irragionevolezza» (sentenza n. 83 del 2006); limite che sarebbe violato nella fattispecie in esame. Il defunto coniuge dell'odierna ricorrente, infatti, inquadrato al n. 21) dell'art. 3 del d.lgs. C.p.S. 16 luglio 1947, n. 708, ossia nella categoria degli impiegati ed operai dipendenti dalle case da gioco - e non in una di quelle di cui ai numeri da 1) a 14) del citato articolo, che comprendono categorie di lavoratori "particolari" quali cantanti, artisti, attori, ballerini etc. - non fruisce del minor numero di contributi versati (rispetto ai normali 312 annui) per ottenere il requisito dell'annualità della contribuzione e neppure di quello della minore età pensionabile, con la conseguenza che l'inserimento nell'ambito del regime speciale ENPALS comporta un'ingiusta disparità d i trattamento rispetto ad un lavoratore iscritto all'INPS, «in virtù della sostanziale omogeneità che contraddistingue le due posizioni». Quanto al secondo profilo di illegittimità costituzionale ravvisato dal giudice a quo, poi, la parte costituita conferma l'inaccettabilità di un sistema che consente un simile divario tra retribuzione assoggettata a prelievo contributivo e retribuzione pensionabile, aggiungendo che sarebbe improprio il richiamo al principio della solidarietà in una situazione come quella in esame, perché tale principio «non può essere sospinto ad un livello di intensità e di incidenza redistributiva così alta», tale da vanificare il rispetto di quello di uguaglianza. 3.- Nell'ambito di una controversia promossa nei confronti dell'ENPALS da due ex impiegati del Casinò di Saint Vincent, con qualifica di croupier, per il ricalcolo delle rispettive pensioni, il Tribunale di Torino, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, settimo comma, del d.P.R. n. 1420 del 1971 nel testo attualmente vigente, formulato dall'art. 1, comma 10, del d.lgs. n. 182 del 1997. Il Tribunale precisa che i due ricorrenti sono stati dipendenti a tempo indeterminato rispettivamente fino alle date del 31 agosto 2001 e del 30 giugno 2003, maturando una pensione inferiore a quella spettante se l'ente previdenziale avesse tenuto conto delle retribuzioni effettive da loro percepite e soggette a prelievo contributivo. Ciò premesso, il giudice torinese dichiara di essere a conoscenza delle due precedenti questioni sollevate dal Tribunale di Sanremo e dal Tribunale di Bologna oggetto della sentenza costituzionale n. 120 del 2006; e ribadisce, inoltre, che la disposizione censurata è di ostacolo all'accoglimento dei ricorsi presentati, il che dà conto della rilevanza della presente questione. Sulla base di tali premesse, il giudice a quo specifica che fino alla data di entrata in vigore dell'art. 11, comma 2, della legge n. 412 del 1991 vi era coincidenza tra retribuzione pensionabile e retribuzione soggetta a contribuzione, in virtù della previsione di cui all'art. 2, comma 3, del d.P.R. n. 1420 del 1971, sicché non è possibile, fino a tale momento, evidenziare alcuna irragionevol ezza della normativa. La situazione muta, invece, a decorrere dal 1° gennaio 1992, momento in cui la retribuzione pensionabile resta ferma a lire 315.000, mentre quella soggetta a contribuzione viene innalzata fino alla soglia di un milione di lire. Le considerazioni svolte dal Tribunale di Torino circa una presunta violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza sono, a questo punto, assai simili a quelle compiute dal Tribunale di Sanremo; quanto all'effettiva valenza dell'art. 5 del d.l. n. 11 del 1993, il giudice rileva che l'estensione disposta da tale norma «non sembra possa aver portato ad eliminare la irragionevole discrasia» esposta in precedenza. Rimarrebbe sempre, infatti, «un evidente, elevatissimo squilibrio» tra le due soglie più volte riportate, destinato ad aumentare col trascorrere del tempo.</ FONT> 4.- Si sono costituiti nel giudizio davanti a questa Corte i due ricorrenti, chiedendo l'accoglimento della prospettata questione. Osservano le due parti private che, in conseguenza della censurata disposizione, essi hanno ricevuto un trattamento pensionistico inferiore a quello che sarebbe spettato loro tenendo conto dell'effettiva retribuzione giornaliera percepita. Quanto al merito della questione, i due ricorrenti notano che il principio vigente è quello per cui tutta la retribuzione imponibile è valida ai fini del computo del rateo di pensione, «sia pure con le correzioni rese necessarie (in punto rendimento) per coniugare il principio di proporzionalità con quello di solidarietà»; alla luce di simili criteri, appare del tutto irragionevole un sistema che impone il prelievo contributivo fino alla soglia retributiva di un milione di lire ed eroga la pensione su di una retribuzione massima giornaliera di lire 315.000. 5.- Si è costituito in entrambi i giudizi anche l'ENPALS, con due diverse memorie di analogo contenuto - depositando fuori termine quella relativa al giudizio promosso dal Tribunale di Sanremo - chiedendo che la questione venga respinta, in quanto inammissibile ovvero non fondata. Osserva l'ente previdenziale che il decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 16 luglio 1947, n. 708, istituì l'ENPALS rendendolo sostitutivo dell'INPS per una serie di categorie di lavoratori, con una normativa per molti versi più favorevole rispetto a quella degli altri lavoratori dipendenti. Questa Corte, già con l'importante sentenza n. 173 del 1986, si pronunciò favorevolmente in ordine ai cosiddetti "tetti pensionistici", evidenziando come il passaggio da un sistema di tipo mutualistico ad un sistema di tipo solidaristico dia ragione del fatto che le prestazioni versate dal singolo lavoratore non vanno a vantaggio automatico del singolo contribuente, bensì dell'intera categoria, con particolare attenzione verso i soggetti più deboli. In riferimento alle questioni prospettate dai giudici a quibus, la difesa dell'ente rileva, innanzitutto, la mancanza di chiarezza in ordine al petitum, poiché non sarebbe evidente se si intenda perseguire l'obiettivo della completa eliminazione del tetto pensionabile o, viceversa, della parificazione tra retribuzione soggetta a contribuzione e retribuzione pensionabile; il tutto tenendo presente che la fissazione di un simile tetto spetta alla discrezionalità del legislatore. D'altra parte, i lavoratori ricorrenti hanno versato contributi con aliquote assai basse e non va dimenticato che l'ENPALS assicura anche molte categorie di lavoratori strutturalmente esposte - in considerazione del tipo di attività - alla discontinu ità lavorativa. Rammenta inoltre l'ente costituito che le prestazioni previdenziali rispondono all'interesse pubblico e la loro funzione si attenua, se non si esaurisce del tutto, una volta raggiunto un livello adeguato ai sensi dell'art. 38, secondo comma, della Costituzione. L'ENPALS, infine, evidenzia anche il carattere «dirompente» che avrebbe, dal punto di vista finanziario, l'accoglimento della presente questione. 6.- In entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con due memorie di contenuto pressoché identico, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata. Rileva l'interveniente che entrambe le ordinanze di remissione si fonderebbero su presupposti non dimostrati, ossia quello della parità tra retribuzione soggetta a contribuzione e retribuzione pensionabile e quello della ragionevole proporzionalità tra retribuzione soggetta a prelievo contributivo e pensione. Il legislatore, in realtà, con il sistema oggi contestato «ha inteso salvaguardare l'equilibrio finanziario della gestione», creando un sistema di calcolo delle pensioni nel quale il trattamento meno favorevole delle retribuzioni più elevate «risponde ad un criterio di perequazione tra il sistema a capitalizzazione dei contributi, da porre a base della rendita pensionistica, ed il sistema di trarre la base pensionistica dall'ultima, o dalle ultime retribuzioni». D'altra parte - come più volte questa Co rte ha ribadito - l'obiettivo indicato dall'art. 38 Cost. di consentire la conduzione di un'esistenza libera e dignitosa «non vincola il legislatore a garantire una coincidenza tra la pensione e l'ultima retribuzione». Richiamando anche la sentenza costituzionale n. 402 del 1999, l'interveniente evidenzia che l'apporto maggiore che i lavoratori dello spettacolo sono tenuti a versare in favore del Fondo pensionistico gestito dall'ENPALS trova una logica corrispondenza nel fatto che tali lavoratori godono di requisiti ridotti (rispetto a quelli della generalità dei lavoratori dipendenti) per l'accesso ad una serie di prestazioni previdenziali, sicché la presenza di tali requisiti si bilancia col maggiore apporto contributivo da parte dei titolari di retribuzioni più elevate. D'altra parte, con l'entrata in vigore della riforma di cui al d. lgs. n. 182 del 1997 il massimale contributivo è ormai il medesimo fissato per gli altri lavoratori dipendenti, e sull'eccedenza deve essere versato il solo contributo di solidarietà nella misura del cinque per cento. Non sussisterebbe, perciò, alcuna violazione del principio di eguaglianza, stante la diversa organizzazione dei due sistemi previdenziali posti a confronto. Considerato in diritto 1.- Il Tribunale di Sanremo, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, settimo comma, del d.P.R. 31 dicembre 1971, n. 1420 (Norme in materia di assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i superstiti gestita dall'Ente nazionale di previdenza e di assistenza per i lavoratori dello spettacolo), sia nel testo attualmente vigente - formulato dall'art. 1, comma 10, del decreto legislativo 30 aprile 1997, n. 182 - sia in quello precedente, la cui vigenza è stata confermata in via transitoria dall'art. 13 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503. Il Tribunale di Torino, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, settimo comma, del d.P.R. n. 1420 del 1971 nel testo attualmente vigente, formulato dall'art. 1, comma 10, del d.lgs. n. 182 del 1997. I giudizi, concernenti la stessa disposizione e questioni analoghe o connesse, devono essere riuniti e decisi con unico provvedimento. 2.- Le questioni sollevate dal Tribunale di Sanremo, sotto il profilo dell'intrinseca irragionevolezza della disposizione censurata, e dal Tribunale di Torino, con accentuazioni diverse, ma con argomentazioni sostanzialmente analoghe, sono inammissibili. Entrambi i remittenti, infatti, non contestano la legittimità costituzionale della disciplina del cosiddetto "tetto pensionabile" - cioè della determinazione di una misura della retribuzione, inferiore a quella effettiva percepita dal lavoratore, da porre a base del calcolo della pensione - della quale più volte questa Corte ha avuto modo di occuparsi (ex plurimis, sentenze n. 173 del 1986, n. 72 del 1990 e n. 296 del 1995). Neppure è in discussione, in linea di principio generale, la legittimità di una normativa che comporti un divario tra misura della retribuzione su cui vengono versati i contributi e tetto pensionabile, purché una certa proporzionalità venga assicurata e, soprattutto, non sia compromessa la realizzazione delle finalità di cui all'art. 38 della C ostituzione. Evenienza, quest'ultima, sulla quale la Corte ha anche affermato che la stessa struttura di tipo solidaristico cui sono informati i sistemi previdenziali non comporta la necessaria corrispondenza tra i contributi versati e le prestazioni erogate (sentenza n. 390 del 1995). Le censure concernono, piuttosto, lo squilibrio di notevole entità che esisterebbe tra la misura del tetto pensionabile e quella, all'incirca tripla, della retribuzione assoggettata a contribuzione. La correzione di siffatto squilibrio esigerebbe da parte della Corte una pronuncia manipolativa incidente sull'uno o sull'altro dei termini del rapporto, oppure su entrambi, mentre resterebbe comunque opinabile la misura dell'intervento. La razionalizzazione dei sistemi previdenziali esige, come la Corte ha più volte ribadito, valutazioni e bilanciamenti di interessi comportanti scelte politiche che, nei limiti del rispetto dei diritti fondamentali, competono al legislatore (v., ex plurimis, la già citata s entenza n. 173 del 1986). In riferimento all'art. 38 Cost., si è affermato che «il precetto costituzionale esige che il trattamento previdenziale sia sufficiente ad assicurare le esigenze di vita del lavoratore pensionato; ma nell'attuazione di tale principio al legislatore deve riconoscersi un margine di discrezionalità, anche in relazione alle risorse disponibili, almeno quando non sia in gioco la garanzia delle esigenze minime di protezione della persona» (sentenza n. 180 del 2001, nonché, fra le altre, sentenza n. 457 del 1998). Evenienza quest'ultima estranea ai termini delle presenti questioni. 3.- Infondata è, invece, l'altra questione, prospettata dal solo Tribunale di Sanremo per violazione dell'art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento rispetto agli assicurati presso l'INPS riguardo al rapporto tra retribuzione pensionabile e retribuzione soggetta a prelievo contributivo. L'incomparabilità dei sistemi previdenziali è principio cui la Corte si è costantemente attenuta; incomparabilità che deriva dalla loro complessità inerente alla varietà delle prestazioni e delle condizioni per ottenerle - conseguenza della varietà delle attività lavorative - e alle collegate diversità delle fonti di finanziamento; principio di cui la Corte ha fatto applicazione proprio riguardo all'assicurazione presso l'ENPALS nei confronti dell'assicurazione generale presso l'INPS (ordinanza n. 325 del 1993). Né può essere trascurato, ai fini di una valutazione complessiva della prospettata questione, che il sistema previdenziale dei lavoratori dello spettacolo - anche in consid erazione della particolarità di talune professioni e delle modalità di svolgimento delle medesime - è, per certi versi, un sistema ampiamente favorevole per gli iscritti, quanto all'entità delle prestazioni ed alle condizioni di accesso, rispetto a quello della generalità dei lavoratori assicurati presso l'INPS; di talché non è possibile lamentare il semplice dato della diversità esistente tra retribuzione soggetta a prelievo contributivo e retribuzione pensionabile senza tenere presente l'intero sistema previdenziale in cui detta previsione si inserisce. Il remittente assume che, in considerazione della qualità di impiegato a tempo indeterminato ricoperta dal ricorrente, questi non si sarebbe trovato nelle condizioni di fruire dei benefici del regime previdenziale dei lavoratori dello spettacolo, subendo in tal modo, con riguardo alla disciplina della retribuzione pensionabile, un trattamento deteriore rispetto a quello della generalità dei lavoratori. Tali argomentazioni, tuttavia, per un verso si risolvono nell'addurre inconvenienti di fatto - i quali, di per sé, non possono giustificare una pronuncia di illegittimità costituzionale - mentre per altro verso sembrano accennare alla illogicità dell'iscrizione all'ENPALS di chi svolge a tempo indeterminato funzioni impiegatizie, aspetto quest'ultimo certamente estraneo alla presente questione di legittimità costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi,
dichiara
inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 12,
settimo comma, del d.P.R. 31 dicembre 1971, n. 1420 (Norme in materia di
assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia ed i
superstiti gestita dall'Ente nazionale di previdenza e di assistenza per
i lavoratori dello spettacolo), nel testo originario e in quello
sostituito dall'art. 1, comma 10, del decreto legislativo 30 aprile
1997, n. 182, sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., sotto il
profilo della ragionevolezza, e all'art. 38 Cost., dal Tribunale di
Sanremo, in funzione di giudice del lavoro con l'ordinanza indicata in
epigrafe; dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, settimo comma, del d.P.R. n. 1420 del 1971, nel testo attualmente vigente, sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., dal Tribunale di Torino, in funzione di giudice del lavoro, con l'ordinanza indicata in epigrafe; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, settimo comma, del d.P.R. n. 1420 del 1971, nel testo originario e in quello sostituito dall'art. 1, comma 10, del d.lgs. n. 182 del 1997, sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., sotto il profilo della disparità di trattamento, dal Tribunale di Sanremo, in funzione di giudice del lavoro, con la suddetta ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 giugno 2008. Il Cancelliere F.to: MELATTI ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 796, lettera p), della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007); dell'art. 6-quater del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni diverse), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 26 febbraio 2007, n. 17; dell'art. 1-bis del decreto-legge 20 marzo 2007, n. 23 (D isposizioni urgenti per il ripiano selettivo dei disavanzi pregressi nel settore sanitario, nonché in materia di quota fissa sulla ricetta per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 17 maggio 2007, n. 64, promossi con ricorsi della Regione Veneto, notificati il 23 febbraio 2007, il 23 aprile 2007 ed il 13 luglio 2007, depositati in cancelleria il 1° marzo 2007, il 30 aprile 2007 ed il 19 luglio 2007, ed iscritti, rispettivamente, ai nn. 10, 21 e 32 del registro ricorsi 2007. Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 20 maggio 2008 il Giudice relatore Gaetano Silvestri; uditi gli avvocati Mario Bertolissi, Luigi Manzi e Ezio Zanon per la Regione Veneto e l'avvocato dello Stato Raffaele Tamiozzo per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. - La Regione Veneto ha promosso, con ricorso notificato il 23 febbraio 2007 e depositato il successivo 1° marzo, questioni di legittimità costituzionale di numerose disposizioni dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), e, tra queste, del comma 796, lettera p), in riferimento agli artt. 117 e 119 della Costituzione (reg. ric. n. 10 del 2007).
1.1. - Preliminarmente, la
ricorrente sottolinea come il legislatore, con le norme di cui al
censurato comma 796, abbia dato attuazione al Protocollo di intesa tra
il Governo, le Regioni e le Province autonome sul Patto per la salute.
Tale patto è richiamato nell'alinea del comma 796, in cui si legge: «Per
garantire il rispetto degli obblighi comunitari e la realizzazione degli
obiettivi di finanza pubblica per il triennio 2007-2009, in attuazione
del protocollo di intesa tra il Governo, le regioni e le province
autonome di Trento e di Bolzano per un patto nazionale per la salute sul
quale La lettera p) del comma 796 stabilisce che, «a decorrere dal 1° gennaio 2007, per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale gli assistiti non esentati dalla quota di partecipazione al costo sono tenuti al pagamento di una quota fissa sulla ricetta pari a 10 euro. Per le prestazioni erogate in regime di pronto soccorso ospedaliero non seguite da ricovero, la cui condizione è stata codificata come codice bianco, ad eccezione di quelli afferenti al pronto soccorso a seguito di traumatismi ed avvelenamenti acuti, gli assistiti non esenti sono tenuti al pagamento di una quota fissa pari a 25 euro. La quota fissa per le prestazioni erogate in regime di pronto soccorso non è, comunque, dovuta dagli assistiti non esenti di età inferiore a 14 anni. Sono fatte salve le disposizioni eventualmente assunte dalle regioni che, per l'accesso al pronto soccorso ospedaliero, pongono a carico degli assistiti oneri più elevati». 1.2. - La Regione Veneto censura la suddetta norma nella parte in cui impone, per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale, una quota fissa sulla ricetta pari a 10 euro, in quanto sarebbe in contrasto con il sistema di riparto delle competenze legislative disegnato dall'art. 117 Cost. In particolare, secondo la ricorrente il legislatore statale avrebbe introdotto una disciplina di dettaglio nella materia «tutela della salute», rientrante nella competenza legislativa concorrente delle Regioni. La difesa regionale osserva, inoltre, che la norma impugnata «mal si concilia con l'art. 119 Cost., che ovviamente riguarda il reperimento delle risorse regionali». Infine, la Regione Veneto riferisce che sarebbe stato approvato dal Senato della Repubblica un emendamento soppressivo del ticket di 10 euro, in sede di conversione del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni diverse), e sottolinea come permanga il suo interesse all'odierna impugnazione «quanto meno fino all'entrata in vigore di tale modifica e fatta salva ogni ulteriore valutazione sul punto». 2. − Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, si è costituito in giudizio, chiedendo che il ricorso sia rigettato. La difesa erariale ritiene, infatti, che la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 796, lettera p), della legge n. 296 del 2006, sia inammissibile per carenza di interesse, «vista la limitazione temporale della disciplina censurata» che, secondo quanto stabilito dall'art. 6-quater del decreto-legge n. 300 del 2006, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 26 febbraio 2007, n. 17, trova applicazione «fino al 31 marzo 2007 e comunque fino all'entrata in vigore delle misure o alla stipulazione dell'accordo di cui al comma 2 del presente articolo». 3. - In data 29 gennaio 2008 la Regione Veneto ha depositato una memoria integrativa, con la quale insiste nelle conclusioni già formulate nel ricorso. 3.1. - In particolare, la difesa regionale osserva che la limitazione dell'efficacia temporale della norma impugnata, ad opera dell'art. 6-quater del decreto-legge n. 300 del 2006, introdotto in sede di conversione, «non priva la Regione ricorrente dell'interesse a veder dichiarata l'illegittimità costituzionale della previsione contenuta nella legge finanziaria per il 2007». Infatti, nei mesi precedenti la conversione del decreto-legge n. 300 del 2006 e «fino all'avverarsi delle condizioni cui l'art. 6-quater subordina la disapplicazione del ticket, [.] quest'ultima misura si è imposta alla Regione ricorrente, la quale non ha potuto far altro che renderla i mmediatamente operativa». Inoltre, secondo la ricorrente «i termini finali per la disapplicazione del ticket [.] sono stati congegnati in modo tale da perpetuare per un tempo indeterminabile - ma certamente consistente - gli effetti dannosi dell'imposizione di cui sopra e risultano, comunque, per molti profili contrastanti con la Costituzione». 3.2. - Nel merito, la difesa regionale, «premessa l'insostenibilità [.] della tesi che riconduce le previsioni legislative in esame alle materie, di potestà statale esclusiva, dei "rapporti con l'Unione europea" e della "perequazione delle risorse finanziarie"», ritiene di dover riaffermare l'afferenza della disciplina impugnata alla materia «tutela della salute». Di conseguenza, il «carattere dettagliato ed autoapplicativo» della normativa censurata determinerebbe l'illegittimità costituzionale della stessa per violazione dell'art. 117, terzo comma, Cost. La Regione Veneto aggiunge che «tale risultato non cambierebbe, qualora si facesse rientrare la disciplina normativa impugnata nell'ambito del "coordinamento della finanza pubblica", valorizzando, però, non una vuota ed estemporanea qualificazione del legislatore statale, ma l'effettiva capacità del ticket di rispondere "ad un'esigenza di finanziamento della spesa sanitaria"» (è richiamata in proposito la sentenza n. 184 del 1993 della Corte costituzionale). Anche in questo ambito, infatti, la potestà legislativa è ripartita tra Stato e Regioni. La ricorrente conclude evidenziando che, tramite la previsione di un ticket fisso, la Regione Veneto «ha visto gravemente incisa la propria autonomia finanziaria relativamente al reperimento di risorse da destinare alla gestione di un settore, quello della tutela della salute, nel quale sono molto ampie le competenze legislative e amministrative dell'Ente ricorrente». 4. - La Regione Veneto ha promosso, con ricorso notificato il 23 aprile 2007 e depositato il successivo 30 aprile, questione di legittimità costituzionale dell'art. 6-quater del menzionato decreto-legge n. 300 del 2006, aggiunto dalla relativa legge di conversione n. 17 del 2007, in riferimento agli artt. 117 e 119 Cost. ed al principio di leale collaborazione (reg. ric. n. 21 del 2007). 4.1. - La norma impugnata, nella sua versione originaria, stabiliva: «1. Le disposizioni relative alla quota fissa di cui all'articolo 1, comma 796, lettera p), della legge 27 dicembre 2006, n. 296, si applicano fino al 31 marzo 2007 e comunque fino all'entrata in vigore delle misure o alla stipulazione dell'accordo di cui al comma 2 del presente articolo. 2. All'articolo 1, comma 796, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, dopo la lettera p), è inserita la seguente: "p-bis) per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale, di cui al primo periodo della lettera p), fermo restando l'importo di manovra pari a 811 milioni di euro per l'anno 2007, 834 milioni di euro per l'anno 2008 e 834 milioni di euro per l'anno 2009, le regioni, sulla base della stima degli effetti della complessiva manovra nelle singole regioni, definita dal Ministero della salute di concerto con il Ministero dell'economia e delle finanze, anziché applicare la quota fissa sulla ricetta pari a 10 euro, possono alternativamente: 1) adottare altre misure di partecipazione al costo delle prestazioni sanitarie, la cui entrata in vigore nella regione interessata è subordinata alla certificazione del loro effetto di equivalenza per il mantenimento dell'equilibrio economico-finanziario e per il controllo dell'appropriatezza, da parte del Tavolo tecnico per la verifica degli adempimenti di cui all'articolo 12 dell'intesa Stato-Regioni del 23 marzo 2005; 2) stipulare con il Ministero della salute e il Ministero dell'economia e delle finanze un accordo per la definizione di altre misure di partecipazione al costo delle prestazioni sanitarie, equivalenti sotto il profilo del mantenimento dell'equilibrio economico-finanziario e del controllo dell'appropriatezza. Le misure individuate dall'accordo si applicano, nella regione interessata, a decorrere dal giorno successivo alla data di sottoscrizione dell'accordo medesimo"». 4.2. - Preliminarmente, la Regione Veneto ricorda come il censurato art. 6-quater sia stato introdotto in sede di conversione del decreto-legge n. 300 del 2006 ed abbia inciso sulla previsione dell'art. 1, comma 796, lettera p), della legge n. 296 del 2006, già oggetto di impugnazione da parte della medesima Regione (reg. ric. n. 10 del 2007). In relazione a quest'ultimo ricorso, la ricorrente osserva come, nell'odierno giudizio avente ad oggetto l'art. 6-quater, permangano «i medesimi profili di illegittimità costituzionale ed, anzi, la violazione del dettato costituzionale (appaia) perfino aggravata dalla recente novella legislativa». Al riguardo, la Regione Veneto sottolinea che l'imposizione, agli assistiti non esentati dalla quota di partecipazione, del pagamento di un ticket fisso di 10 euro sulla ricetta per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale «rappresenta una palese violazione del riparto delle competenze legislative disegnato dall'art. 117 Cost.». In particolare, secondo la ricorrente il legislatore statale avrebbe introdotto, nella materia «tutela della salute», rientrante nella competenza legislativa concorrente delle Regioni, una disciplina di dettaglio, autoapplicativa e direttamente operativa nei confronti dei privati interessati. Pur ribadendo l'afferenza del censurato art. 6-quater alla materia della «tutela della salute», la difesa regionale ritiene che la norma impugnata violi l'art. 117, terzo comma, Cost. «anche nella denegata e non creduta ipotesi in cui la si volesse ritenere afferente alla materia "coordinamento della finanza pubblica"», rientrante nella competenza legislativa concorrente. A sostegno della riconduzione della disciplina censurata a quest'ultimo ambito materiale vi sarebbe sia l'alinea del comma 796 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, sia la natura stessa del ticket, il quale, «oltre alla funzione di dissuasione dalla richiesta eccessiva ed inutile di prestazioni sanitarie, risponde ad un'esigenza di finanziamento della spesa sanitaria» (è richiamata in proposito la sentenza n. 184 del 1993 di questa Corte). Qualora si dovesse accogliere l'impostazione da ultimo prospettata, la Regione Veneto osserva che «in un ordinamento decentrato - quale quello disegnato, almeno sulla carta, per l'Italia, dalla riforma del Titolo V della Costituzione - il coordinamento centrale della finanza pubblica, per quanto irrinunciabile, deve tradursi nel solo potere di indicare ai diversi livelli di governo obiettivi generali di stabilità finanziaria, affinché questi li perseguano mediante scelte autonome, non solo sul versante della spesa [.] ma anche su quello del reperimento delle risorse». Aggiunge la ricorrente: «così certo non è avvenuto nel caso di specie, dal momento che qui il legislatore è intervenuto con una disciplina di dettaglio autoapplicativa - come dimostra la stessa necessità di una normativa transitoria quale quella di cui all'art. 6-quater oggetto di impugnazione - che in nessun caso sembra potersi definire "principio fondamentale"». La difesa regionale esclude, inoltre, che tale normativa di dettaglio possa ritenersi conforme a Costituzione «in virtù di una sua ipotetica "cedevolezza"», essendo illegittime norme statali di dettaglio cedevoli, salvo che in presenza di determinate condizioni. Infine, secondo la ricorrente «l'invocazione di astratte finalità di rispetto degli obblighi comunitari» (contenuta nell'alinea del comma 796 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006) non basterebbe «ad esimere il legislatore dal rispettare il riparto di competenze disegnato dall'art. 117 Cost., dal momento che l'attuazione degli impegni comunitari è riservata alle Regioni, nelle materie di loro competenza, salvo il potere sostitutivo (non preventivo) dello Stato». 4.3. - In merito all'asserita violazione dell'art. 119 Cost., la Regione Veneto ritiene che la normativa statale di imposizione di un ticket fisso sulle prestazioni ambulatoriali determini una significativa compressione dell'autonomia finanziaria regionale, in relazione al reperimento di risorse da destinare alla gestione del settore sanitario. Siffatta lesione dell'autonomia finanziaria sarebbe irragionevole, in quanto «non consente alle Regioni di graduare la partecipazione alla spesa pubblica sanitaria con i costi effettivamente sostenuti per ciascuna delle suddette prestazioni a detrimento anche, di conseguenza, del diritto fondamentale di cui all'art. 32 Cost.». Inoltre, la compressione dell'autonomia finanziaria regionale non sarebbe «attenuata dalla novella di cui all'art. 6-quater della legge 26 febbraio 2007, n. 17»; infatti, sebbene il legislatore statale abbia inteso limitare l'efficacia temporale dell'imposizione del ticket fisso sulle prestazioni ambulatoriali, i termini finali previsti «sono viziati sotto numerosi profili da violazioni del dettato costituzionale e sono, comunque, congegnati in modo tale da perpetuare per un tempo attualmente indeterminabile, ma piuttosto consistente, gli effetti dannosi dell'imposizione di cui sopra». Quanto al termine del 31 marzo 2007, secondo la difesa regionale esso sarebbe «manifestamente incongruo: è irragionevole, infatti, chiedere ad un ente articolato e complesso come quello regionale che, nello stretto termine di tre mesi, adotti misure alternative per la partecipazione alla spesa sanitaria (e per queste ottenga, entro gli stessi termini, una valutazione positiva ai due controlli previsti al numero 1 della nuova lettera p-bis del comma 796 dell'art. 1 della legge finanziaria per il 2007) o stipuli un accordo con il Ministero, in grado di garantire un importo complessivo inderogabilmente imposto di manovra di oltre 800 milioni di euro». Quanto alle previsioni di cui alla nuova lettera p-bis) dell'art. 1, comma 796, della legge n. 296 del 2006, esse rappresentano, a parere della ricorrente, «una macroscopica violazione dell'art. 119 Cost.», in quanto il legislatore statale, «anziché limitarsi, finalmente, a stabilire l'obiettivo finanziario, fissando l'importo di manovra, per lasciare poi all'autonomia regionale il compito di attuare il fine prefissato, continua ad imporre alla Regione i mezzi con i quali realizzarlo». In particolare, alla Regione Veneto «sembra evidente» che le norme contenute nella nuova lettera p-bis) non facciano altro che «ribadire, certo con una formulazione più articolata e per questo potenzialmente ingannevole, che le Regioni devono realizzare l'importo di manovra per il triennio 2007-2009 mediante "misure di partecipazione al costo delle prestazioni sanitarie"». Pertanto, posto che tra le misure da ultimo menzionate rientra il ticket, la difesa regionale ritiene che, con la norma impugnata, lo Stato abbia continuato «ad obbligare le Regioni a realizzare gli obiettivi di finanza con strumenti della stessa natura di quelli - per non dire con i medesimi strumenti - già imposti con la legge finanziaria per il 2007». Infine, la Regione Veneto contesta la previsione della necessità di un accordo previsto al numero 2) della lettera p-bis), in quanto l'autonomia finanziaria regionale, sotto il profilo del reperimento delle risorse, e la competenza legislativa concorrente in materia di «tutela della salute» consentono alla Regione «di scegliere liberamente quali strumenti prevedere per realizzare l'obiettivo di bilancio, unico punto sul quale lo Stato conserva integra la sua competenza». 4.4. - La ricorrente conclude rilevando che le norme di cui al comma 2 dell'art. 6-quater violano anche il principio di leale collaborazione. In primo luogo, l'asserita violazione consisterebbe nel contrasto esistente tra le norme impugnate ed il contenuto del Patto nazionale per la salute del 28 settembre 2006, che è stato attuato dal comma 796 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, la cui disciplina è stata, a sua volta, modificata dall'art. 6-quater del decreto-legge n. 300 del 2006, oggetto dell'odierna impugnativa. In altre parole, il censurato art. 6-quater, che pure incide sull'oggetto del richiamato Patto per la salute, non ne rispetterebbe il contenuto quanto al rafforzamento della capacità programmatoria e organizzativa delle Regioni. In secondo luogo, il principio di leale collaborazione sarebbe violato dalla previsione di «una forma di accordo» fra alcuni Ministeri e le Regioni, «solo successiva all'imposizione del ticket fisso sulle prestazioni ambulatoriali». Pertanto, «una norma di transizione della disciplina del ticket così congegnata» si risolverebbe «in un aggravamento della lesione dell'autonomia, in particolar modo finanziaria, delle Regioni». 4.5. - In definitiva, secondo la ricorrente, «lo Stato, sul quale ricade la responsabilità finanziaria della tutela della salute in nome dell'eguaglianza, sottostima le spese e, con ciò, altro non fa che riversarle sulla Regione, cui finisce per attribuire la responsabilità politico-istituzionale delle decisioni finali, in particolare quando impone l'attuazione di misure puntuali, oggi escluse, salvo l'obiettivo finale, dalle disposizioni costituzionali regolatrici della materia». 5. − Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, si è costituito anche in questo giudizio, chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata. 5.1. − Preliminarmente, la difesa erariale ricorda che il censurato art. 6-quater del decreto-legge n. 300 del 2006 incide sulla previsione dell'art. 1, comma 796, lettera p), della legge n. 296 del 2006, e che quest'ultima norma è già stata impugnata dalla medesima Regione Veneto (reg. ric. n. 10 del 2007). Da quanto appena detto scaturirebbe, secondo il resistente, la «manifesta inammissibilità dell'odierno, secondo ricorso della Regione Veneto in quanto, ove deciso, potrebbe porsi in evidente, stridente contrasto con la decisione relativa alla precedente, citata iniziativa della Regione». L'Avvocatura generale ricorda, inoltre, che attualmente è all'esame del Senato della Repubblica un disegno di legge (A.C. 2534), già approvato dalla Camera dei deputati, il quale prevede all'art. 1-bis una riduzione del ticket sulle prestazioni specialistiche ambulatoriali da 10 a 3,5 euro. 5.2. − Nel merito, il resistente rileva che «la determinazione di una quota fissa su prescrizioni di prestazioni specialistiche ambulatoriali non costituisce affatto "norma di dettaglio attinente alla materia di legislazione concorrente della tutela della salute", bensì disposizione strettamente inerente alla definizione dei Livelli essenziali di assistenza». In particolare, secondo la difesa erariale, la norma impugnata, stabilendo «una condizione di accesso alle prestazioni sanitarie comprese nei livelli», individuerebbe «puntualmente le condizioni per l'esercizio del diritto all'assistenza sanitaria». Pertanto, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., andrebbe riconosciuta la competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia regolata dalla normativa impugnata. L'Avvocatura generale rileva, inoltre, che le previsioni di cui al comma 2 dell'art. 6-quater costituiscono, in virtù del richiamo contenuto nell'art. 1, comma 796, della legge n. 296 del 2006, «attuazione del protocollo di intesa tra il Governo, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano per un patto nazionale per la salute sul quale la Conferenza delle regioni e delle province autonome, nella riunione del 28 settembre 2006, ha espresso la propria condivisione». Infine, il resistente ricorda che il richiamato protocollo «riconosce [.] la necessità di "combinare" la politica di promozione e coordinamento propria del Governo con il rafforzamento dell'autonomia organizzativa e della responsabilità finanziaria delle Regioni». 6. - In data 7 maggio 2008 la Regione Veneto ha depositato una memoria integrativa, con la quale insiste nelle conclusioni già formulate nel ricorso. 7. - La Regione Veneto ha promosso, con ricorso notificato il 13 luglio 2007 e depositato il successivo 19 luglio, questioni di legittimità costituzionale di tutte le disposizioni del decreto-legge 20 marzo 2007, n. 23 (Disposizioni urgenti per il ripiano selettivo dei disavanzi pregressi nel settore sanitario, nonché in materia di quota fissa sulla ricetta per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 17 maggio 2007, n. 64, e tra queste dell'art. 1-bis, in riferimento agli artt. 117 e 119 Cost. ed al principio di lea le collaborazione di cui agli artt. 5 e 120, secondo comma, Cost. e 11 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) (reg. ric. n. 32 del 2007). 7.1. - La norma impugnata stabilisce: «1. L'importo della manovra derivante dalle disposizioni di cui all'articolo 1, comma 796, lettera p), primo periodo, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, è rideterminato per il solo anno 2007 da 811 milioni di euro a 300 milioni di euro, anche per le finalità di cui alla lettera p-bis) del medesimo comma. A tal fine il livello del finanziamento del Servizio sanitario nazionale, cui concorre ordinariamente lo Stato, è incrementato per l'anno 2007 di 511 milioni di euro. Il predetto incremento è ripartito tra le regioni con i medesimi criteri adottati per lo stesso anno. Conseguentemente la quota fissa sulla ricetta è abolita con effetto dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto e fino al 31 dicembre 2007. Il comma 1 dell'articolo 6-quater del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2007, n. 17, è abrogato. 2. All'onere derivante dall'attuazione del comma 1, pari a 511 milioni di euro per l'anno 2007, si provvede: a) quanto a 100 milioni di euro mediante riduzione dell'autorizzazione di spesa di cui all'articolo 1, comma 50, della legge 23 dicembre 2005, n. 266; b) quanto a 411 milioni di euro mediante utilizzo delle disponibilità del fondo di rotazione per l'attuazione delle politiche comunitarie di cui all'articolo 5 della legge 16 aprile 1987, n. 183, che, a tal fine, sono versate nello stesso anno 2007 all'entrata del bilancio dello Stato, per essere riassegnate, in deroga all'articolo 1, comma 46, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, al Fondo sanitario nazionale. 3. Il Ministro dell'economia e delle finanze è autorizzato ad apportare, con propri decreti, le occorrenti variazioni di bilancio». 7.2. - Preliminarmente, la Regione Veneto sottolinea come le disposizioni contenute nel censurato decreto-legge n. 23 del 2007 incidano sul «settore sanità». La ricorrente evidenzia, altresì, che la materia della «tutela della salute» ed in particolare il sistema di responsabilità e di finanziamento del servizio sanitario sono stati oggetto negli ultimi anni di numerosi interventi normativi, fra i quali quelli oggi all'esame della Corte costituzionale. La difesa regionale individua le cause delle frequenti modifiche legislative in due esigenze distinte ma strettamente legate tra loro: da una parte, il controllo sulla spesa pubblica e, dall'altra, l'«attuazione del disegno costituzionale di stampo federale inequivocabilmente tracciato per il nostro ordinamento dalla riforma del Titolo V della Costituzione». Pertanto, «l'obiettivo da raggiungere [.] in materia di sanità come in altre parimenti sostanzialmente devolute, è quello di un equilibrio tra interesse nazionale e autonomie regionali che consenta un adeguato reperimento delle risorse finanziarie necessarie ed una successiva efficiente gestione delle stesse». 7.3. - Passando ai singoli motivi di censura, la Regione Veneto rileva che, per effetto della norma impugnata, l'imposizione della quota fissa di dieci euro, prevista dall'art. 1, comma 796, lettera p), della legge n. 296 del 2006, è stata «congelata» dal 20 maggio 2007 (giorno di entrata in vigore della legge n. 64 del 2007 con la quale è stato convertito il decreto-legge n. 23 del 2007) al 31 dicembre 2007. Da quanto appena detto discenderebbe la permanenza dell'interesse a ricorrere della Regione Veneto, la quale precisa di essersi «attivata in modo da rendere possibile il puntuale adempimento delle disposizioni normative sta tali». Al contempo, la ricorrente «teme anche le conseguenze derivanti dalla "rediviva" operatività della disciplina incostituzionale del ticket fisso sulle prestazioni mediche specialistiche a partire dal 1° gennaio del prossimo anno». La difesa regionale, pertanto, ribadisce quanto già affermato nei ricorsi promossi avverso l'art. 1, comma 796, lettera p), della legge n. 296 del 2006 (reg. ric. n. 10 del 2007) e l'art. 6-quater del decreto-legge n. 300 del 2006, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge n. 17 del 2007 (reg. ric. n. 21 del 2007). 7.3.1. - In particolare, la Regione Veneto sottolinea come la previsione del ticket sulle prestazioni ambulatoriali specialistiche sia palesemente in contrasto con il sistema di riparto delle competenze legislative disegnato dall'art. 117 Cost. La difesa regionale, dopo aver ricordato che le materie della «tutela della salute» e del «coordinamento della finanza pubblica» ricadono nella competenza legislativa concorrente, rileva che «l'aver determinato e, per di più in una quota fissa (di 10 euro), il corrispettivo dovuto dai cittadini assistiti non esenti per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale, non può certo dirsi principio fondamentale, bensì disci plina di dettaglio e, per questo, incostituzionale». 7.3.2. - Inoltre, sarebbe stato violato l'art. 119 Cost., in quanto «con l'imposizione di un ticket fisso sulle prestazioni ambulatoriali, le Regioni hanno visto compressa significativamente la loro autonomia finanziaria relativamente al reperimento delle risorse da destinare alla gestione di un settore, quello della tutela della salute, nel quale amplissime sono le competenze legislative e amministrative dell'ente regionale». Secondo la ricorrente, il legislatore statale avrebbe dovuto limitarsi ad indicare alle Regioni l'obiettivo finanziario da raggiungere, fissando l'importo di manovra, «per lasciare poi all'autonomia regionale il compito di attuare il fine prefissato». Al contrario, lo Stato avrebbe imposto alle Regioni i mezzi con cui realizzare l'obiettivo stabilito «e per di più mezzi irragionevoli, visto che l'imposizione di un ticket di dieci euro su tutte le prestazioni ambulatoriali specialistiche non consente alle Regioni di graduare la partecipazione alla spesa pubblica sanitaria con i costi effettivamente sostenuti per ciascuna delle suddette prestazioni, con conseguente lesione del diritto fondamentale di cui all'art. 32 Cost.». 7.3.3. - Infine, sarebbe stato leso il principio di leale collaborazione, innanzitutto perché la norma impugnata non è stata adottata in attuazione del protocollo di intesa tra il Governo, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano per un patto nazionale per la salute approvato in sede di Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, nella riunione del 28 settembre 2006. In secondo luogo, in relazione alla norma censurata «nessun accordo si è cercato con le Regioni, né è stato, d'altra parte, ottenuto», pur vertendosi «in ambiti di competenza legislativa concorrente delle Regioni e di piena autonomia finanziaria delle stesse». 8. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, si è costituito anche in questo giudizio, chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata. In particolare, il resistente svolge una serie di argomentazioni che concernono il problema del ripiano selettivo dei disavanzi pregressi nel settore sanitario, rilevando che il decreto-legge impugnato «appare pienamente riconducibile ai profili di competenza delineati dall'articolo 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, che riserva alla potestà legislativa esclusiva dello Stato le materie concernenti il "sistema tributario e contabile dello Stato" e la "perequazione delle risorse finanziarie"». Inoltre, il decreto-legge n. 23 del 2007, «intervenendo sul livello di finanziamento del servizio sanitario regionale utile per l'erogazione dei livelli essenziali delle prestazioni sanitarie», conterrebbe norme destinate ad investire l'ambito materiale di cui all'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., che attribuisce alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. 9. - In data 7 maggio 2008 la Regione Veneto ha depositato una memoria integrativa, con la quale insiste nelle conclusioni già formulate nel ricorso. Considerato in diritto 1. - La Regione Veneto ha promosso questioni di legittimità costituzionale di numerose disposizioni della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007). Riservata a separate pronunce la decisione sull'impugnazione delle altre disposizioni contenute nella legge n. 296 del 2006, viene in esame in questa sede la questione relativa all'art. 1, comma 796, lettera p), promossa per violazione degli artt. 117 e 119 della Costituzione (reg. ric. n. 10 del 2007). 2. - La Regione Veneto ha inoltre impugnato l'art. 6-quater del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni diverse), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 26 febbraio 2007, n. 17, per violazione degli artt. 117 e 119 Cost. e del principio di leale collaborazione (reg. ric. n. 21 del 2007). 3. - Infine, la Regione Veneto ha promosso questioni di legittimità costituzionale di tutte le disposizioni del decreto-legge 20 marzo 2007, n. 23 (Disposizioni urgenti per il ripiano selettivo dei disavanzi pregressi nel settore sanitario, nonché in materia di quota fissa sulla ricetta per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 17 maggio 2007, n. 64. Riservata a separate pronunce la decisione sull'impugnazione delle altre disposizioni contenute nel decreto-legge n. 23 del 2007, viene in esame in questa sede la questione relativa all'art. 1-bis, promossa per violazione degli artt. 117 e 119 Cost. e del principio di leale collaborazione (reg. ric. n. 32 del 2007). 4. - Poiché tutte le norme impugnate attengono alla quota fissa di partecipazione al costo delle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale, introdotta dall'art. 1, comma 796, lettera p), della legge n. 296 del 2006, e le censure mosse sono sostanzialmente coincidenti, può essere disposta la riunione dei relativi giudizi. 5. - In via preliminare, è opportuno chiarire il quadro normativo entro cui si collocano le norme censurate. L'art. 1, comma 796, lettera p), della legge n. 296 del 2006 ha introdotto, a decorrere dal 1° gennaio 2007 e fino a tempo indeterminato, una quota fissa di 10 euro sulla ricetta, in relazione alle prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale. La norma oggetto di impugnazione da parte della Regione è solo quella relativa al ticket di 10 euro, con esclusione quindi delle altre norme contenute nella stessa lettera p) del comma 796. La disposizione di cui sopra è stata ripetutamente modificata dal legislatore. La prima modifica è stata apportata dall'art. 6-quater del decreto-legge n. 300 del 2006, introdotto in sede di conversione in legge. Il comma 1 di tale articolo ha limitato l'applicazione della norma di cui alla lettera p) del comma 796 dell'art. 1 della legge finanziaria 2007, «fino al 31 marzo 2007 e comunque fino all'entrata in vigore delle misure o alla stipulazione dell'accordo di cui al comma 2 del presente articolo». Il comma 2 dello stesso art. 6-quater ha inoltre aggiunto al comma 796 di cui sopra una nuova lettera p-bis). La seconda modifica è stata operata dall'art. 1-bis del decreto-legge n. 23 del 2007, anch'esso introdotto in sede di conversione in legge. Il detto art. 1-bis ha abrogato il comma 1 dell'art. 6-quater del decreto-legge n. 300 del 2006. Di conseguenza, a partire dal 20 maggio 2007 (data di entrata in vigore della legge n. 64 del 2007, con la quale è stato convertito il decreto-legge n. 23 del 2007) e fino al 31 dicembre 2007, è stata abolita la quota fissa sulla ricetta. Infine, l'art. 2, comma 376, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008) ha abolito la quota fissa per l'anno 2008. 6. - La Regione ricorrente ritiene che l'art. 1, comma 796, lettera p), della legge n. 296 del 2006, violi l'art. 117, terzo comma, Cost., in quanto avrebbe introdotto una disciplina di dettaglio nella materia «tutela della salute», rientrante nella competenza legislativa concorrente, e l'art. 119 Cost., in quanto avrebbe inciso negativamente sull'autonomia finanziaria della Regione, con riguardo al reperimento di risorse da destinare alla gestione del settore sanitario. Con riferimento all'art. 6-quater del decreto-legge n. 300 del 2006, la ricorrente lamenta la violazione dell'art. 117, terzo comma, Cost., in quanto avrebbe inserito una disciplina di dettaglio nella materia «tutela della salute», rientrante nella competenza legislativa concorrente, o, in subordine, in quella del «coordinamento della finanza pubblica», anch'essa rientrante nella competenza legislativa concorrente; dell'art. 119 Cost., in quanto, pur limitando l'efficacia temporale della norma prima citata al 31 marzo 2007 e comunque sino all'entrata in vigore delle misure o alla stipulazione dell'accordo di cui al comma 2 del medesimo articolo, avrebbe comunque inciso negativamente, per il periodo di vigenza, sull'autonomia finanziaria della Regione, con riguardo al reperimento di risorse da destinare alla gestione del settore sanitario. Inoltre, siffatta lesione dell'autonomia finanziaria sarebbe irragionevole, in quanto «non consente alle Regioni di graduare la partecipazione alla spesa pubblica sanitaria con i costi effettivamente sostenuti per ciascuna delle suddette prestazioni, a detrimento anche, di conseguenza, del diritto fondamentale di cui all'art. 32 Cost.»; del principio di leale collaborazione, in quanto il censurato art. 6-quater, che pure incide sull'oggetto del Patto nazionale per la salute del 28 settembre 2006, non ne rispetterebbe il contenuto quanto al rafforzamento della capacità programmatoria e organizzativa delle Regioni ed in quanto sarebbe prevista una forma di raccordo fra alcuni Ministeri e le Regioni «solo successiva all'imposizione del ticket fisso sulle prestazioni ambulatoriali».
Infine, viene impugnato
l'art. 1-bis del decreto-legge n. 23 del 2007, per violazione
dell'art. 117, terzo comma, Cost., in quanto avrebbe introdotto una
disciplina di dettaglio nella materia «tutela della salute», rientrante
nella competenza legislativa concorrente o, in subordine, in quella del
«coordinamento della finanza pubblica», anch'essa rientrante nella
competenza legislativa concorrente; dell'art. 119 Cost., in quanto,
essendo stata abolita la quota fissa solo con effetto dalla data di
entrata in vigore della legge di conversione del suddetto decreto-legge
(20 maggio 2007) e fino al 31 dicembre 2007, ma non anche per il periodo
passato (1° gennaio-19 maggio 2007) e per il futuro (dal 1° gennaio 6.1. - Le suddette questioni di legittimità costituzionale non sono fondate. 6.2. - Questa Corte ha avuto occasione di fissare alcuni principi sulle forme di finanziamento delle prestazioni sanitarie. In particolare, è stato chiarito che «il diritto alla salute spetta ugualmente a tutti i cittadini e va salvaguardato sull'intero territorio nazionale. Non è pertanto casuale che la spesa in questione sia prevalentemente rigida e non si presti a venire manovrata, in qualche misura, se non dagli organi centrali di governo». Nell'ipotesi di introduzione di quote di partecipazione al costo delle prestazioni, questa Corte ha precisato: «Per non violare l'eguaglianza dei cittadini nei confronti del servizio, la sfera di operatività di una norma siffatta dev'essere, invero, ridotta ai minimi termini; mentre è soltanto lo Stato che dispone [.] della potestà di circoscrivere in tal senso la sp esa, per mezzo dell'introduzione di tickets o con il ricorso ad analoghe misure di contenimento»; ciò perché, «là dove sono in gioco funzioni e diritti costituzionalmente previsti e garantiti, è infatti indispensabile superare la prospettiva del puro contenimento della spesa pubblica, per assicurare la certezza del diritto ed il buon andamento delle pubbliche amministrazioni, mediante discipline coerenti e destinate a durare nel tempo» (sentenza n. 245 del 1984). Questa Corte ha, inoltre, precisato che il ticket è stato originariamente introdotto «più in funzione di dissuasione dal consumo eccessivo di medicinali che in funzione di finanziamento della spesa sanitaria», mentre «la successiva evoluzione legislativa ha [.] attribuito al ticket una sempre maggiore valenza di strumento per la riduzione della spesa pubblica in materia sanitaria ed ha correlativamente disposto un'articolata disciplina delle esenzioni» (sentenza n. 184 del 1993). Dopo la riforma del titolo V della parte II della Costituzione questa Corte ha avuto modo di ribadire la necessità, già segnalata nella sua pregressa giurisprudenza, che la spesa sanitaria sia resa compatibile con «la limitatezza delle disponibilità finanziarie che annualmente è possibile destinare, nel quadro di una programmazione generale degli interventi di carattere assistenziale e sociale, al settore sanitario» (sentenza n. 111 del 2005). Ciò implica che «l'autonomia legislativa concorrente delle Regioni nel settore della tutela della salute ed in particolare nell'ambito della gestione del servizio sanitario può incontrare limiti alla luce degli obiettivi della finanza pubblica e del contenimento della spesa» (sentenza n. 193 del 2007). Tuttavia, la stessa offerta "minimale" di servizi sanitari non può essere unilateralmente imposta dallo Stato, ma deve essere concordata per alcuni aspetti con le Regioni, con la conseguenza che «sia le prestazioni che le Regioni sono tenute a garantire in modo uniforme sul territorio nazionale, sia il corrispondente livello di finanziamento sono oggetto di concertazione tra lo Stato e le Regioni stesse» (sentenza n. 98 del 2007). 6.3. - Alla luce dei principi generali prima riassunti, si deve tener conto del concreto inquadramento delle prestazioni sanitarie cui si riferisce il presente giudizio. Le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale sono comprese nei livelli essenziali di assistenza sanitaria: in particolare, l'Allegato 1, punto 2.E del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 29 novembre 2001 (Definizione dei livelli essenziali di assistenza) prevede che in tale tipo di assistenza rientrino le prestazioni terapeutiche e riabilitative e la diagnostica strumentale e di laboratorio. Lo stesso decreto esclude poi alcune di queste prestazioni dai livelli di assistenza, ponendole a carico degli assistiti. Proprio per assicurare l'uniformità delle prestazioni che rientrano nei livelli essenziali di assistenza (LEA), spetta allo Stato determinare la ripartizione dei costi relativi a tali prestazioni tra il Servizio sanitario nazio nale e gli assistiti, sia prevedendo specifici casi di esenzione a favore di determinate categorie di soggetti, sia stabilendo soglie di compartecipazione ai costi, uguali in tutto il territorio nazionale. L'esclusione di una determinazione unilaterale ad opera dello Stato delle misure di contenimento della spesa sanitaria ha portato alla stipulazione di un protocollo di intesa tra Governo, Regioni e Province autonome di Trento e di Bolzano per un patto nazionale sulla salute, condiviso dalla Conferenza Stato-Regioni nella seduta del 28 settembre 2006. A tale protocollo ha fatto seguito un'intesa (Provvedimento 5 ottobre 2006, n. 2648), in cui, al punto 4.5, «si conviene di omogeneizzare le forme di compartecipazione alla spesa in funzione di una maggiore appropriatezza delle prestazioni». L'art. 1, comma 796, della legge n. 296 del 2006, che comprende l'impugnata lettera p), precisa che le norme ivi contenute sono volte alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica per il triennio 2007-2009, in attuazione del protocollo di intesa di cui sopra. 7. - L'esigenza di adottare misure efficaci di contenimento della spesa sanitaria e la necessità di garantire, nello stesso tempo, a tutti i cittadini, a parità di condizioni, una serie di prestazioni che rientrano nei livelli essenziali di assistenza (entrambe fornite di basi costituzionali messe in rilievo dalla giurisprudenza di questa Corte), rendono compatibile con la Costituzione la previsione di un ticket fisso, anche se non si tratta dell'unica forma possibile per realizzare gli obiettivi prima indicati. Lo scopo perseguito è, da una parte, quello di evitare l'aumento incontrollato della spesa sanitaria, derivante dall'inesistenza di ogni forma di compartecipazione ai costi da parte degli assistiti, e, dall'altra, quello di non rendere più o meno onerose nelle diverse Regioni prestazioni che si collocano nella fascia delle prestazioni minime indispensabili per assicurare a tutti i cittadini il godimento del diritto alla salute. Sia la previsione di un ticket fisso uguale in tutto il territorio nazionale (che peraltro ha avuto vigenza limitata al periodo intercorrente tra il 1° gennaio e il 20 maggio 2007), sia il ricorso a forme diverse di compartecipazione degli assistiti - entrambe previste dalle norme statali che si sono succedute nel tempo e tutte impugnate dalla Regione Veneto - sono da ritenersi compatibili con i principi costituzionali, nella considerazione bilanciata dell'equilibrio della finanza pubblica e dell'uguaglianza di tutti i cittadini nell'esercizio dei diritti fondamentali, tra cui indubbiamente va ascritto il diritto alla salute. La scelta di un sistema o di un altro appartiene all'indirizzo politico dello Stato, nel confronto con quello delle Regioni. Nella specie, l'intesa di cui prima s'è fatta menzione stab ilisce con chiarezza che i criteri di compartecipazione devono assumere carattere omogeneo. Né potrebbe essere diversamente, giacché non sarebbe ammissibile che l'offerta concreta di una prestazione sanitaria rientrante nei LEA si presenti in modo diverso nelle varie Regioni. Giova precisare che dell'offerta concreta fanno parte non solo la qualità e quantità delle prestazioni che devono essere assicurate sul territorio, ma anche le soglie di accesso, dal punto di vista economico, dei cittadini alla loro fruizione. Alla luce delle precedenti considerazioni, le norme impugnate non presentano i vizi di legittimità costituzionale denunciati dalla Regione ricorrente. LA CORTE COSTITUZIONALE riservata a separate pronunce la decisione delle altre questioni di legittimità costituzionale promosse, nei confronti della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), dalla Regione Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe; riservata a separate pronunce la decisione delle altre questioni di legittimità costituzionale promosse, nei confronti del decreto-legge 20 marzo 2007, n. 23 (Disposizioni urgenti per il ripiano selettivo dei disavanzi pregressi nel settore sanitario, nonché in materia di quota fissa sulla ricetta per le prestazioni di assistenza specialistica ambulatoriale), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 17 maggio 2007, n. 64, dalla Regione Veneto, con il ricorso indicato in epigrafe; riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 796, lettera p), della legge n. 296 del 2006, promossa, in riferimento agli artt. 117 e 119 della Costituzione, dalla Regione Veneto con il ricorso indicato in epigrafe; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6-quater del decreto-legge 28 dicembre 2006, n. 300 (Proroga di termini previsti da disposizioni legislative e disposizioni diverse), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 26 febbraio 2007, n. 17, promossa, in riferimento agli artt. 117 e 119 Cost. ed al principio di leale collaborazione, dalla Regione Veneto con il ricorso indicato in epigrafe; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1-bis del decreto-legge n. 23 del 2007, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge n. 64 del 2007, promossa, in riferimento agli artt. 117 e 119 Cost. ed al principio di leale collaborazione, dalla Regione Veneto con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Gaetano SILVESTRI, Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 giugno 2008. Il Cancelliere F.to: MELATTI
ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai Signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA ; " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 126-bis del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) - introdotto dall'art. 7 del decreto legislativo 15 gennaio 2002, n. 9 (Disposizioni integrative e correttive del nuovo codice della strada, a norma dell'articolo 1, comma 1, della legge 22 marzo 2001, n. 85), come modificato dal decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della strada), convertito, con modificazioni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 214 - e dell'art. 172, commi 1 e 8, dello stesso decreto legislativo n. 285 del 1992, come modificato d all'art. 3, comma 12, del citato decreto-legge n. 151 del 2003, promossi con ordinanze del 19 dicembre 2006 dal Giudice di pace di Rieti nel procedimento civile vertente tra D'Onofrio Roberto e il Prefetto di Rieti e del 5 febbraio 2007 dal Giudice di pace di Assisi nel procedimento civile vertente tra Piombini Stefania e l'Ufficio territoriale del Governo di Perugia, iscritte ai nn. 458 e 717 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 25 e 41, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2008 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro. Ritenuto che, nel corso di giudizio di opposizione a verbale della Regione Carabinieri Lazio, elevato il 3 luglio 2005, per violazione dell'artt. 126-bis del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) - introdotto dall'art. 7 del decreto legislativo 15 gennaio 2002, n. 9 (Disposizioni integrative e correttive del nuovo codice della strada, a norma dell'articolo 1, comma 1, della legge 22 marzo 2001, n. 85), come modificato dal decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della strada), convertito, con modi ficazioni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 214 - e dell'art. 172, commi 1 e 8, dello stesso decreto legislativo n. 285 del 1992, come modificato dall'art. 3, comma 12, del citato decreto-legge n. 151 del 2003, per mancato uso della cintura di sicurezza, promosso da D'Onofrio Roberto - in cui l'opponente eccepiva, oltre alla mancata indicazione a verbale del luogo del rilevamento, all'inesistenza della via indicata, all'assenza del ricorrente nella stessa via, al disinserimento della cintura nell'approssimarsi alla fermata, anche l'incostituzionalità degli artt. 172 e 126-bis del codice della strada - il Giudice di pace di Rieti (reg. ord. n. 458/07) ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli stessi artt. 126-bis e 172, commi 1 e 8, di detto codice, per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione; che il giudice a quo espone le difese dell'opponente dirette a censurare il sistema della legge, che non istituisce una proporzionale graduazione della sanzione accessoria della decurtazione dei punti-patente, in relazione ai diversificati momenti e situazioni concrete della circolazione del veicolo e quindi della condotta di guida, in contrasto con il principio di uguaglianza; che la sanzione fissa, prevista dalla normativa indicata - rileva il giudice a quo - è in contrasto con il principio proprio della materia delle sanzioni amministrative pecuniarie, regolata dalla legge n. 689 del 1981, che stabilisce, in linea generale, una commisurazione tra minimo e massimo nell'applicazione delle sanzioni, nell'intento di adattare e personalizzare, per quanto possibile, la sanzione al caso concreto, e perseguire così lo scopo della adeguatezza della sanzione stessa, che deve risultare eticamente giusta ed evitare comportamenti devianti nel trasgressore; che, si rileva ancora nella ordinanza di rimessione, il meccanismo di graduazione è, d'altra parte, previsto nella medesima norma sospettata, nella parte in cui commina la pena pecuniaria, applicabile in una misura ricompresa tra un minimo ed un massimo; che, a parere del Giudice di pace rimettente, la questione sollevata dall'istante-ricorrente soddisfa sia il criterio della rilevanza, «essendo il problema sollevato riscontrabile in molte parti del codice della strada, soprattutto nella normativa decurtatoria dei punti-patente», sia il criterio della non manifesta infondatezza, «visto che tutta la materia sanzionatoria amministrativa è permeata dal criterio di proporzionalità tra fatto colposo e sanzione e di adeguatezza della sanzione, nonché da quell'altro, strettamente correlato al primo, di graduazione dell'intensità dell'effetto deterrente, indotto dalla sanzione, sui comportamenti futuri»; che tali principi, che sono a fondamento del sistema sanzionatorio penalistico, sono richiamati indirettamente dalla stessa Carta costituzionale laddove (art. 27, terzo comma) prevede che «la pena deve tendere alla rieducazione del condannato» e quindi - secondo il rimettente - «non deve essere sentita come estranea e neppure quale frutto di un'imposizione astratta ed arbitraria dell'Autorità e perciò stesso rifiutata o foriera di rifiuto e di iniziative di sottrazione, pur nel rispetto della garanzia insita nel sistema processuale»; che nel giudizio innanzi alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi l'inammissibilità o comunque l'infondatezza della questione, in quanto già dichiarata manifestamente infondata con l'ordinanza n. 169 del 2006 della Corte costituzionale, alla stregua della considerazione che rientra nella discrezionalità del legislatore sia l'individuazione delle condotte punibili, sia la scelta e la quantificazione delle relative sanzioni, con la conseguenza che tale discrezionalità può essere oggetto di censura, in sede di scrutinio di costituzionalità, soltanto ove il suo esercizio ne rappresenti un uso distorto o arbitrario, così da confliggere in modo manifesto con il canone della ragionevolezza che, nella specie, non risulta violato; che, nel corso di giudizio di opposizione a verbale dei Carabinieri di Assisi, Nucleo radiomobile, elevato il 29 maggio 2006, per violazione dell'art. 172, comma 8, del decreto legislativo n. 285 del 1992, come modificato dall'art. 3, comma 12, del citato decreto-legge n. 151 del 2003, per mancato uso della cintura di sicurezza, promosso da Giombini Stefania - in cui l'opponente eccepiva l'incostituzionalità degli artt. 172 e 126-bis del codice della strada - il Giudice di pace di Assisi ha sollevato questione di legittimità costituzionale dei citati articoli 126-bis e 172, commi 1 e 8, di detto codice, per contrasto con il principio di ragionevolezza di cui agli artt. 2 e 3 della Costituzione ; che il giudice a quo si fa carico di esaminare la giurisprudenza della Corte costituzionale che, con riferimento alla previsione della decurtazione di cinque punti della patente di guida per il mancato uso della cintura di sicurezza, evoca la discrezionalità del legislatore sia nell'individuazione delle condotte punibili, sia nella scelta e nella quantificazione delle relative sanzioni, e ne ammette la censurabilità, in sede di scrutinio di costituzionalità, soltanto ove il suo esercizio ne rappresenti un uso distorto o arbitrario, così da confliggere in modo manifesto con il canone della ragionevolezza (sentenza n. 169 del 2006), e che, confrontando il comportamento del conducente (persona munita di patente e soggetta a decurtazione d i punteggio) e il comportamento del passeggero che, munito o no di patente, è chiamato a rispondere solo in via pecuniaria, conclude trattarsi di condotte palesemente diverse (sentenza n. 109 del 2005 e ordinanze n. 45 del 2006, n. 401 e n. 212 del 2005); che, ad avviso del rimettente, la sanzione accessoria per il mancato uso delle cinture è irragionevolmente più repressiva di quella prevista per comportamenti oggettivamente più gravi, come nell'ipotesi in cui un automobilista, che debba rispettare il limite di velocità di 10 km all'ora in un centro storico, imposto magari per ragioni di incolumità pubblica, superi di ben quattro volte detto limite (ovvero fino a 40 km in più) e subisca solo una decurtazione di 2 punti, pur mettendo a repentaglio, oltre che la sua, anche l' incolumità dei terzi; che, secondo il giudice a quo, ciò rispecchia un uso distorto della discrezionalità, poiché viene prevista una sanzione macroscopicamente sproporzionata, irragionevole e immotivata rispetto ad altri comportamenti ben più gravi, e dimostra palese contraddittorietà e/o scarsa ponderazione nell'attività legislativa; che la rilevanza della decisione invocata sul giudizio a quo risulterebbe per tabulas, nel senso che è evidente l'interesse della ricorrente a non vedersi decurtata la patente a punti. Considerato che, con distinte ordinanze, il Giudice di pace di Rieti e quello di Assisi dubitano della legittimità costituzionale dell'art. 126-bis del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) - introdotto dall'art. 7 del decreto legislativo 15 gennaio 2002, n. 9 (Disposizioni integrative e correttive del nuovo codice della strada, a norma dell'articolo 1, comma 1, della legge 22 marzo 2001, n. 85), come modificato dal decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della strada), convertito, con modificazi oni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 214 - e dell'art. 172, commi 1 e 8, dello stesso decreto legislativo n. 285 del 1992, come modificato dall'art. 3, comma 12, del citato decreto-legge n. 151 del 2003, là dove si prevedono la decurtazione di cinque punti in caso di mancato uso della cintura di sicurezza, per violazione, secondo il primo rimettente, degli artt. 3 e 24 Cost., sotto il profilo del contrasto con il principio di graduazione in relazione alle differenziate situazioni di guida e alle differenti pericolosità e, per il secondo, degli artt. 2 e 3 della Costituzione, per contrasto con il principio di ragionevolezza; che, censurando le due ordinanze le medesime norme, sia pure sotto profili diversi, va disposta la riunione dei due giudizi, perché siano decisi con unica pronuncia; che, con riferimento all'ordinanza del Giudice di pace di Rieti, la doglianza del rimettente relativa all'art. 24 Cost. è manifestamente inammissibile per omessa motivazione in ordine al parametro di cui deduce la violazione (ex plurimis: ordinanze n. 72 del 2007 e n. 414 del 2005); che, con riguardo alla violazione dell'art. 3 della Costituzione, dedotta dallo stesso Giudice di pace, devono confermarsi le precedenti decisioni di questa Corte che hanno dichiarato la manifesta infondatezza della questione, relativamente ai parametri di cui agli artt. 2 e 3 Cost., specificamente riguardo all'irragionevolezza del trattamento sanzionatorio (decurtazione punti patente), atteso che l'individuazione delle condotte punibili e la scelta e la quantificazione delle relative sanzioni rientrano nella discrezionalità del legislatore (ordinanze nn. 45 e 169 del 2006); che è, del pari, manifestamente infondata, in riferimento allo stesso art. 3 Cost., la censura con la quale si contesta la incostituzionalità della misura fissa della decurtazione dei punti (5 punti per la specifica ipotesi contravvenzionale), che contrasterebbe con il principio di necessaria gradualità della pena, essendosi sempre ammesso, anche in sede penale, che un trattamento sanzionatorio in misura fissa non è di per sé contrario al principio di ragionevolezza (ordinanze n. 401 del 2005, n. 282 del 2001, n. 159 del 1994). che l'ordinanza del Giudice di pace di Assisi omette la compiuta descrizione della fattispecie sottoposta al suo giudizio, limitandosi il rimettente ad affermare la rilevanza della questione atteso l'interesse della ricorrente a non vedersi decurtata la patente a punti: ciò che rende impossibile il vaglio dell'effettiva applicabilità delle norme censurate al caso dedotto, determinando la manifesta inammissibilità della questione sollevata (ordinanze nn. 353, 333 e 317 del 2007 e n. 374 del 2006). Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'articolo 126-bis del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) - introdotto dall'art. 7 del decreto legislativo 15 gennaio 2002, n. 9 (Disposizioni integrative e correttive del nuovo codice della strada, a norma dell'articolo 1, comma 1, della legge 22 marzo 2001, n. 85), come modificato dal decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della strada), convertito, con m odificazioni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 214 - e dell'art. 172, commi 1 e 8, dello stesso decreto legislativo n. 285 del 1992, come modificato dall'art. 3, comma 12, del citato decreto-legge n. 151 del 2003, sollevata, in riferimento all'art. 24 della Costituzione, dal Giudice di pace di Rieti, con l'ordinanza in epigrafe; dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli stessi articoli 126-bis e 172, commi 1 e 8, del citato decreto legislativo n. 285 del 1992, sollevata, in riferimento agli articoli 2 e 3 della Costituzione, dal Giudice di pace di Assisi, con l'ordinanza in epigrafe; dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 126-bis e 172, commi 1 e 8, del predetto decreto legislativo n. 285 del 1992, sollevata, in riferimento all'articolo 3 della Costituzione, dal Giudice di pace di Rieti, con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Alfio FINOCCHIARO, Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 giugno 2008. Il Cancelliere F.to: MELATTI ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai Signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 141, 143, 144, 148, 149, 150 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), e dell'art. 9, comma 2, del d.P.R. 18 luglio 2006, n. 254 (Regolamento recante disciplina del risarcimento diretto dei danni derivanti dalla circolazione stradale, a norma dell'articolo 150 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 - Codice delle assicurazioni private), promossi con ordinanze del 20 febbraio 2007 dal Giudice di pace di Pavullo nel Frignano nel procedimento civile vertente tra Piscitelli Iolanda e Volandi Andrea ed a ltro e del 19 dicembre 2006 dal Giudice di pace di Montepulciano nel procedimento civile vertente tra Malfetti Gioia e Goti Samuele ed altri, iscritte ai nn. 633 e 670 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 37 e 39, prima serie speciale dell'anno 2007. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 27 febbraio 2008 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro. Ritenuto che il Giudice di pace di Pavullo nel Frignano - nel corso di un giudizio promosso per il risarcimento del danno subito dalla parte attrice il giorno 7 marzo 2006, in Fellicarolo di Fanano, in un incidente stradale - ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 141, 143, 144, 148, 149, 150 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), e dell'art. 9 del d.P.R. 18 luglio 2006, n. 254 ( Regolamento recante disciplina del risarcimento diretto dei danni derivanti dalla circolazione stradale, a norma dell'articolo 150 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 - Codice delle assicurazioni private), per violazione dell'art. 76 della Costituzione, e, in subordine, dell'art. 143 dello stesso d.lgs. n. 209 del 2005, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., dell'art. 148, comma 2, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., dell'art. 149, comma 2, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., dell'art. 149, comma, 2, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., degli artt. 149 e 150, in combinato disposto con l'art. 9, del d.P.R. n. 254 del 2006, per violazione dell'art. 3 Cost.; che il rimettente dichiara di dubitare che le procedure di liquidazione del danno previste dal codice delle assicurazioni siano in grado di eliminare l'actio generalis di cui all'art. 2054 del codice civile, essendo sostenibile che la regolamentazione prevista da tale codice sia non conforme alla Carta costituzionale e che, inoltre, la limitazione alla difesa tecnica legale nella fase stragiudiziale violerebbe un preciso diritto costituzionalmente garantito; che il giudice a quo assume che, in ragione di tale dubbio e applicando la normativa vigente, dovrebbe respingere la domanda risarcitoria così come proposta, anche in mancanza di una espressa deroga all'art. 2043 cod. civ., che stabilisce, in via generale, il diritto ad agire del danneggiato nei confronti del danneggiante; che, in punto di rilevanza, il rimettente assume che ove non fosse applicabile l'art. 2054 cod. civ., utilizzato dalla ricorrente, sarebbe applicabile la normativa contenuta nel d.lgs. n. 209 del 2005, della quale, appunto, egli «paventa l'incostituzionalità»; che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, deducendo l'inammissibilità delle questioni, per non esserne stata adeguatamente valutata e motivata la rilevanza e l'infondatezza delle stesse; che il Giudice di pace di Montepulciano - nel corso di un giudizio promosso per il risarcimento dei danni riportati dalla parte attrice in un incidente stradale in cui era rimasta coinvolta, quale trasportata su un veicolo di proprietà altrui e condotto da una terza persona, a séguito del tamponamento subito da detto veicolo ad opera di altra vettura - ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 141 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), per violazione degli artt. 3, 24 e 76 Cost.; che il rimettente riferisce che il convenuto, costituendosi in giudizio, ha eccepito la illegittimità costituzionale della norma censurata, nella parte in cui prevede, in caso di lesioni del terzo trasportato, la risarcibilità in capo alla compagnia assicuratrice del vettore, indipendentemente dalla responsabilità di detto conducente; che la nuova disciplina, rappresentata dall'art. 141 del Codice delle assicurazioni, in vigore per i sinistri accaduti a far data dal 1° gennaio 2006 - come quello oggetto del procedimento a quo - prevede che l'impresa assicuratrice del veicolo sul quale viaggia il trasportato risarcisca quest'ultimo indipendentemente dalla condotta colposa del conducente, e che il terzo trasportato abbia azione diretta solo contro l'assicurazione del vettore; che, in estrema sintesi, il trasportato deve necessariamente rivolgere la richiesta di risarcimento dei danni al proprio vettore ed alla compagnia assicuratrice di quest'ultimo, indipendentemente da qualsiasi responsabilità dello stesso, così stravolgendo i canoni classici e tipici della responsabilità civile; che il danneggiato non ha, invece, alcuna possibilità di rivolgere le proprie istanze risarcitorie alla compagnia assicuratrice del responsabile civile, in spregio ed in aperto contrasto con la Direttiva 2005/14/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 maggio 2005, che modifica le direttive del Consiglio 72/166/CEE, 88/357/CEE e la direttiva 2000/26/CE del Parlamento europeo e del Consiglio sull'assicurazione della responsabilità civile risultante dalla circolazione dei veicoli, il cui art. 4-quinquies obbliga gli Stati membri a provvedere affinché le persone lese da un sinistro, causato da un veicolo assicurato, possano av valersi di un'azione diretta nei confronti dell'impresa che assicura contro la responsabilità civile la persona responsabile del sinistro; che, secondo il rimettente, con la legge di delegazione 29 luglio 2003, n. 229 (Interventi in materia di qualità della regolazione, riassetto normativo e codificazione. - Legge di semplificazione 2001), si intendeva tutelare il consumatore ed il contraente più debole e non certo modificare i princípi generali di risarcimento dei danni, con la conseguenza che la tutela doveva essere riservata a tutti i rapporti contrattuali (e non extra-contrattuali), ovvero alle cosiddette garanzie dirette, a favore degli assicurati-consumatori-contraenti, laddove, invece, il censurato art. 141, al pari dell'art. 149 del codice delle assicurazioni, non prende assolutamente in considerazione tali soggetti, ma i danneggiati; che, con l'imporre al danneggiato la richiesta di risarcimento del danno non a chi è responsabile dello stesso in base al codice civile, bensì alla compagnia assicuratrice del proprio vettore indipendentemente dalla sussistenza o meno in capo a quest'ultimo di alcuna responsabilità, anche in via meramente residuale, il decreto legislativo ha modificato, sia sostanzialmente sia proceduralmente, i diritti dei danneggiati, facoltà questa non concessa dalla legge di delegazione; che il codice delle assicurazioni ha altresì ridotto i doveri dei responsabili dei sinistri stradali, dal momento che costoro non dovranno più neppure essere convenuti in giudizio e non saranno più tenuti a rispondere in solido del danno cagionato; che, infatti, l'art. 141, comma 3, prevede che il danneggiato possa proporre l'azione diretta di cui all'art. 145 nei soli confronti dell'impresa di assicurazione del vettore, senza far menzione alcuna del responsabile del sinistro (in contrasto con quanto previsto dall'art. 144 dello stesso codice oltre che con i princípi generali dell'ordinamento giuridico), ed ovviamente della compagnia del responsabile civile che, del resto, fino ad allora potrebbe, anzi dovrebbe, non aver mai neppure ricevuto una richiesta di risarcimento, visto il richiamo operato all'art. 148; che il rimettente deduce, altresì, la violazione dell'art. 3 Cost., dal momento che il terzo trasportato può agire, ai sensi dell'art. 141, nei soli confronti dell'assicuratore del proprio vettore e non anche nei confronti di altri eventuali responsabili, nonché dell'art. 24 Cost., per esservi lesione del diritto di difesa in capo alla compagnia assicuratrice del vettore, la quale non potrà efficacemente tutelarsi, non disponendo di elementi idonei a dimostrare l'esclusiva responsabilità dell'altro conducente, visto e considerato che detto altro conducente, qualora operi l'art. 149 codice assicurazioni, viene risarcito dalla propria compagnia, con la conseguenza che la compagnia del vettore avrà notevoli difficoltà a dimostrare la colpa esclu siva dell'altro conducente ed far scattare l'inoperatività dell'art. 141; che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, deducendo l'inammissibilità e l'infondatezza della questione sollevata. Considerato che le due ordinanze investono, sostanzialmente, sotto vari profili, la legittimità costituzionale della disciplina dell'azione diretta del trasportato danneggiato nei confronti della compagnia assicuratrice del veicolo sul quale viaggiava al momento del sinistro, quale risultante dagli articoli 141 e seguenti del decreto legislativo n. 209 del 2005; che, pertanto, deve essere disposta la riunione dei relativi giudizi, perché siano decisi con unica pronuncia; che, in particolare, le disposizioni citate sono impugnate nella parte in cui - prevedendo l'azione diretta del trasportato verso la compagnia assicuratrice del veicolo - escluderebbero che il medesimo trasportato possa agire nei confronti del vero responsabile del danno, così come previsto dal sistema degli artt. 1917, 2043 e 2054 del codice civile; che, peraltro, i giudici rimettenti non hanno adempiuto l'obbligo di ricercare un'interpretazione costituzionalmente orientata delle norme impugnate, nel senso cioè che esse si limitino a rafforzare la posizione del trasportato, considerato soggetto debole, legittimandolo ad agire direttamente nei confronti della compagnia assicuratrice del veicolo, senza peraltro togliergli la possibilità di fare valere i diritti derivanti dal rapporto obbligatorio nato dalla responsabilità civile dell'autore del fatto dannoso; che tale interpretazione delle norme impugnate avrebbe consentito di superare i prospettati dubbi di costituzionalità; che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la mancata sperimentazione del tentativo di interpretare la normativa impugnata in modo conforme a Costituzione comporta la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale; che rimane così assorbito ogni ulteriore profilo di inammissibilità. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 141, 143, 144, 148, 149, 150 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), e dell'art. 9, comma 2, del d.P.R. 18 luglio 2006, n. 254 (Regolamento recante disciplina del risarcimento diretto dei danni derivanti dalla circolazione stradale, a norma dell'articolo 150 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 - Codice delle assicurazioni private), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 76 della Costituzione, dal Giudice di pace di Pavullo nel Frignano, con l'ordinanza in epigrafe; dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 141 del medesimo decreto legislativo n. 209 del 2005, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 76 della Costituzione, dal Giudice di pace di Montepulciano, con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Alfio FINOCCHIARO, Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 giugno 2008. Il Cancelliere F.to: MELATTI ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai Signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 775, secondo comma, del codice civile, promosso con ordinanza del 22 febbraio 2007 dal Tribunale di Sondrio nel procedimento civile vertente tra Vanoi Ermanno e Vanoi Anna ed altri, iscritta al n. 632 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di costituzione di Vanoi Ermanno e di Vanoi Anna nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 1° aprile 2008 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro; uditi gli avvocati Vittorio Angiolini e Giovanni Gobbi per Vanoi Ermanno e l'avvocato dello Stato Giustina Noviello per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto che, con ordinanza del 22 febbraio 2007, il Tribunale di Sondrio ha sollevato, in riferimento agli articoli 2 e 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 775, secondo comma, del codice civile, nella parte in cui prevede che, in caso di decesso del donante, decorsi cinque anni dalla donazione, gli eredi del donante medesimo, divenuti tali successivamente alla decorrenza del termine di prescrizione quinquennale, non possono più chiedere l'annullamento dell'atto di liberalità per incapacità d'intendere e di volere del donante al momento in cui la donazione è stata fatt a; che, secondo il rimettente, la questione è rilevante in quanto la parte attrice ha chiesto l'annullamento della donazione avvenuta con atto pubblico del 18 aprile 1996, e tale domanda è contrastata dalla controparte che ha eccepito la prescrizione ai sensi dell'art. 775, secondo comma, cod. civ.; che la questione, inoltre, è, ad avviso del giudice a quo, non manifestamente infondata, in quanto la norma impugnata impedisce all'erede, divenuto tale successivamente alla decorrenza del termine di prescrizione quinquennale, «di esercitare la propria legittimazione ad agire», determinando un'ingiustificata disparità di trattamento rispetto all'erede che, per mera casualità, sia divenuto tale prima della decorrenza del detto termine; che tale preclusione sarebbe in contrasto con i principi di uguaglianza e non discriminazione sanciti dagli articoli 2 e 3 della Costituzione e ciò a fronte di una non sostanziale disparità di condizioni fra le due categorie di eredi sopra individuate, alle quali viene riservato un differente trattamento, con evidente, conseguente danno economico per la categoria svantaggiata, per un'evenienza meramente accidentale; che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la manifesta infondatezza della questione per avere il rimettente tralasciato di considerare come «la legittimazione dell'erede non sia propria di tale figura giuridica» ma si giustifichi in base al principio dell'universalità della successione, con conseguente subentro dell'erede nei diritti che avrebbe potuto esercitare il donante se fosse rimasto in vita; che, secondo l'Autorità intervenuta, all'erede non possono essere riconosciuti poteri ulteriori rispetto a quelli che sarebbero spettati al de cuius; che la norma impugnata, inoltre, sarebbe ragionevole in quanto diretta a contemperare la tutela dell'incapace e la certezza dei traffici giuridici; che si è costituito Ermanno Vanoi, attore nel giudizio principale, chiedendo la declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata per irragionevolezza, in quanto impedisce all'erede del donante l'esercizio dell'azione di annullamento della donazione; che, osserva la parte costituita, il momento iniziale di decorrenza del termine deve essere individuato nel momento in cui l'atto da impugnare è stato posto nella sfera di effettiva conoscibilità dell'interessato; che sarebbe, inoltre, compromesso il diritto dell'erede di agire in giudizio a tutela dei propri diritti ed interessi, in violazione dell'art. 24 della Costituzione; che, infine, una eventuale disparità di trattamento dell'erede dovrebbe essere soggetta a riserva di legge come previsto dall'art. 42, quarto comma, della Costituzione, non potendo costituire mero esito di procedimento ermeneutico nell'esercizio della giurisdizione; che si è, altresì, costituita Anna Vanoi, parte convenuta nel giudizio a quo, concludendo per la manifesta infondatezza della questione, in quanto l'art. 775, secondo comma, cod. civ,. da un lato, è norma perfettamente coerente con l'art. 428 cod. civ., secondo cui l'azione di annullamento per gli atti compiuti da persona incapace di intendere e di volere si prescrive in cinque anni dal giorno in cui l'atto è stato compiuto e, dall'altro, è espressione dell'esigenza di certezza nei rapporti giuridici; che, con memoria depositata nell'imminenza della udienza, Ermanno Vanoi ha ribadito e sviluppato le sue ragioni a favore di un accoglimento della questione sottoposta all'esame della Corte, deducendo: la chiarezza della sua proposizione; l'irragionevolezza della norma impugnata, per la disparità di trattamento tra coloro che siano divenuti eredi di un soggetto incapace di intendere e di volere prima o dopo il decorso del termine prescrizionale dei cinque anni; la necessità che il momento iniziale di decorrenza del termine sia individuato, analogamente a quanto avviene nell'ipotesi descritta dall'art. 1442 cod. civ., in quello in cui l'atto da impugnare sia stato posto nella sfera di effettiva conoscibilità dell'interessato; l'infondatezza deg li argomenti contrari addotti dalla controparte; che, con memoria depositata nell'imminenza della udienza, Anna Vanoi ha insistito per la manifesta infondatezza della questione, sviluppando le argomentazioni già offerte al momento della costituzione in giudizio; che, secondo la parte convenuta nel giudizio a quo, l'erede "subentra" nel patrimonio del de cuius e, di conseguenza, nei relativi diritti e poteri che il donante avrebbe potuto esercitare se fosse rimasto in vita; che non è ravvisabile alcuna arbitraria ed ingiustificata disparità di trattamento tra eredi a seconda del momento della loro successione; che l'art. 775 cod. civ. è espressione del principio generale di certezza nei rapporti giuridici, proprio perché l'incapacità naturale presuppone un'ordinaria capacità di intendere e di volere e il termine prescrizionale di cinque anni è più che adeguato; che non sarebbe corretto mettere a raffronto la norma impugnata con l'art. 1442 cod. civ., trattandosi di situazioni diverse e disomogenee; che, osserva ancora la parte costituita, il legislatore, in materia di fissazione del termine di prescrizione dei singoli atti, gode di ampia discrezionalità, con l'unico limite dell'eventuale irragionevolezza; che non sarebbe ravvisabile alcuna lesione del diritto di difesa, in quanto non si discute di strumenti di tutela giudiziale ma dell'esistenza o meno di un diritto a seconda che lo si ritenga o meno prescritto; che in ogni caso il thema decidendum del giudizio sarebbe cristallizzato dall'ordinanza di rimessione che non accenna ad un'ipotetica violazione dell'art. 24 della Costituzione. Considerato che il Tribunale di Sondrio dubita della legittimità costituzionale dell'art. 775, secondo comma, del codice civile, nella parte in cui prevede che gli eredi del donante - i quali siano divenuti tali successivamente alla decorrenza del termine di prescrizione quinquennale per proporre l'azione di annullamento della donazione per incapacità di intendere e di volere del donante - non possano più chiedere l'annullamento dell'atto di liberalità, per violazione dell'art. 3 Cost., in quanto la norma impugnata impedirebbe all'erede di agire in giudizio, determinan do un'ingiustificata disparità di trattamento rispetto all'erede che, per mera casualità, sia divenuto tale prima della decorrenza del detto termine, nonché per violazione dell'art. 2 Cost.; che la posizione dell'erede che sia divenuto tale dopo il decorso di cinque anni dal giorno in cui la donazione è stata fatta non è comparabile con quella di chi sia divenuto tale prima di tale termine, dal momento che solo il secondo è titolare del diritto di ottenere l'annullamento della donazione, laddove il primo non è più titolare di tale diritto, essendosi lo stesso prescritto già in capo al suo dante causa; che ciò determina la manifesta infondatezza della questione dedotta con riferimento all'art. 3 Cost.; che la questione sollevata con riferimento all'art. 2 Cost. è manifestamente inammissibile per non avere il rimettente in alcun modo motivato la violazione di tale parametro. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 775, secondo comma, del codice civile, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Sondrio con l'ordinanza in epigrafe; dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 775, secondo comma, cod. civ., sollevata, in riferimento all'art. 2 della Costituzione, dal Tribunale di Sondrio con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Alfio FINOCCHIARO, Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 giugno 2008. Il Cancelliere F.to: MELATTI ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366 (Delega al Governo per la riforma del diritto societario), e, «per derivazione», degli articoli da 2 a 17 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'art. 2 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), promossi dal Tribunale di Napoli nei procedimenti civili vertenti fra T. M. e la Banca Intesa s.p.a. e tra P. B. e A. T. ed altra, con ordinanze del 10 e del 18 aprile 2007, iscritte rispettivamente ai nn. 765 e 798 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 46 e 49, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante. Ritenuto che, nel corso di due giudizi promossi da privati nei confronti di un istituto di credito e di un intermediatore finanziario il Tribunale di Napoli, in composizione collegiale, con altrettante ordinanze di analogo contenuto rispettivamente del 10 e del 18 aprile 2007, ha sollevato, in riferimento all'art. 76 del la Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366 (Delega al Governo per la riforma del diritto societario), «nella parte in cui, in relazione al giudizio ordinario di primo grado in materia societaria, non indica i principi e criteri direttivi che avrebbero dovuto guidare le scelte del legislatore delegato» e, «per derivazione», degli articoli da 2 a 17 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'art. 2 della legge 3 ottobre 2001, n. 366); che il giudice a quo ricorda, innanzitutto, che l'art. 76 Cost. stabilisce che la delega delle funzioni legislative al Governo non può avvenire se non con determinazione di principi e criteri direttivi, per un tempo limitato e con definizione dell'oggetto; che, nella specie, con il censurato art. 12, il legislatore si è, invece, limitato ad indicare le materie nelle quali il Governo poteva intervenire, l'obiettivo di rendere più rapida ed efficace la definizione dei procedimenti, il divieto di modificare la competenza per territorio e materia, la tendenziale collegialità del procedimento, la possibilità di valutare l'atteggiamento delle parti in sede di tentativo di conciliazione e di dettare regole che favorissero la riduzione dei termini e la concentrazione del procedimento; che, in tal modo, però, non sono stati indicati «con sufficiente determinazione i principi ed i criteri direttivi» ai quali il legislatore delegato si sarebbe dovuto attenere, in quanto non è stata fornita alcuna indicazione in ordine allo schema processuale da adottare, sicché il legislatore delegato è stato lasciato libero di creare per il processo societario di cognizione un nuovo modello processuale, che esula completamente dallo schema del procedimento ordinario disciplinato dal codice di procedura civile e che, viceversa, anticipa, in pratica, il nuovo rito ordinario quale prefigurato dal testo redatto della Commissione ministeriale per la riforma del processo civile; che proprio tali connotati della legge delega fanno sì che essa sia in contrasto con il parametro costituzionale invocato, il che impone - ad avviso del remittente - di sollevare questione di legittimità costituzionale dell'art. 12 della legge n. 366 del 2001, nella parte relativa al procedimento di primo grado, e, «per derivazione», degli articoli da 2 a 17 del d.lgs. n. 5 del 2003; che la suddetta questione sarebbe rilevante perché dall'esito della decisione di questa Corte dipende l'applicabilità dell'intera nuova disciplina processuale alla controversia in corso; che nel giudizio introdotto dall'ordinanza n. 765 del 2007 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la manifesta inammissibilità della questione. Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche, riguardanti la delega legislativa per la riforma dei procedimenti in materia di diritto societario, onde i relativi giudizi devono essere riuniti e decisi con unica pronuncia; che il Tribunale di Napoli, in composizione collegiale, ha sollevato, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366 (Delega al Governo per la riforma del diritto societario), nonché, per derivazione, degli articoli da 2 a 17 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366); che, secondo il remittente, l'indicazione della più rapida ed efficace definizione dei procedimenti, quale finalità da perseguire con la normativa da emettere in attuazione della delega, e l'indicazione della concentrazione del procedimento e della riduzion e dei termini processuali quali principi e criteri direttivi, per la loro genericità, hanno reso «libero il legislatore delegato di creare un nuovo modello processuale che esula completamente dallo schema del procedimento ordinario disciplinato dal codice di procedura civile»; che la delega, pertanto, sarebbe carente dei requisiti di cui all'art. 76 Cost. e da ciò deriverebbe anche l'illegittimità degli articoli da 2 a 17 del d.lgs. n. 5 del 2003; che la questione è manifestamente inammissibile per le ragioni già indicate nell'ordinanze n. 404 del 2007 e n. 23 del 2008 di questa Corte che hanno esaminato identiche questioni sollevate dal medesimo remittente; che, infatti, anche nel presente giudizio il remittente denuncia la genericità della delega, ma sembra soprattutto dolersi che essa abbia consentito al delegato di creare un nuovo tipo di procedimento anziché modificare, per le materie in oggetto, lo schema del processo civile ordinario; che riflesso di tale perplessità è l'esclusione dalla richiesta di illegittimità dell'art. 1, oltre che degli articoli successivi al 17 del d.lgs. n. 5 del 2003, esclusione che comporterebbe una dichiarazione di illegittimità della delega solo nella parte i n cui il Governo ha inteso darne attuazione con le disposizioni di cui agli articoli da 2 a 17 del decreto delegato; che, quindi, contrariamente a quanto espressamente enunciato dal Tribunale remittente, le suddette disposizioni della normativa delegata potrebbero essere illegittime per vizi propri e non per derivazione dall'illegittimità della delega; che il remittente non precisa di quali disposizioni del decreto delegato debba fare applicazione, essendosi questa Corte già pronunciata su alcune di esse - successivamente alla remissione delle presenti questioni - con le sentenze n. 54, n. 321, n. 340 del 2007 e n. 71 del 2008; che le rilevate contraddittorietà e carenze delle ordinanze di rimessione si risolvono in difetti della motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza della questione. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366 (Delega al Governo per la riforma del diritto societario), e, «per derivazione», degli articoli da 2 a 17 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedi menti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'art. 2 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), sollevata, in riferimento all'art. 76 della Costituzio ne, dal Tribunale di Napoli con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 giugno 2008. Il Cancelliere F.to: MELATTI ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366 (Delega al Governo per la riforma del diritto societario) e, «per derivazione», degli articoli da 2 a 17 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'art. 2 della legge 3 ottobre 2001, n. 366) promosso dal Tribunale di Napoli nel procedimento civile vertente tra L. B. e la Banca Fideuram s.p.a. ed altro, con ordinanza del 1° febbraio 20 06, iscritta al n. 806 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante. Ritenuto che, nel corso di un giudizio promosso da privati nei confronti di un istituto di credito e di un intermediatore finanziario, il Tribunale di Napoli, in composizione collegiale, con ordinanza del 1° febbraio 2006, ha sollevato, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366 (Delega al Governo per la riforma del diritto societario), «nella parte in cui, in relazione al giudizio ordinario di primo grado in materia societaria, non indica i principi e criteri direttivi che avrebbero dovuto guidare le scelte del legislatore delegato» e, «per derivazione», degli articoli da 2 a 17 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'art. 2 della legge 3 ottobre 2001, n. 366); che il giudice a quo ricorda, innanzitutto, che l'art. 76 Cost. stabilisce che la delega delle funzioni legislative al Governo non può avvenire se non con determinazione di principi e criteri direttivi, per un tempo limitato e con definizione dell'oggetto; che, nella specie, con il censurato art. 12, il legislatore si è, invece, limitato ad indicare le materie nelle quali il Governo poteva intervenire, l'obiettivo di rendere più rapida ed efficace la definizione dei procedimenti, il divieto di modificare la competenza per territorio e materia, la tendenziale collegialità del procedimento, la possibilità di valutare l'atteggiamento delle parti in sede di tentativo di conciliazione e di dettare regole che favorissero la riduzione dei termini e la concentrazione del procedimento; che, in tal modo, però, non sono stati indicati «con sufficiente determinazione i principi ed i criteri direttivi» ai quali il legislatore delegato si sarebbe dovuto attenere, in quanto non è stata fornita alcuna indicazione in ordine allo schema processuale da adottare, sicché il legislatore delegato è stato lasciato libero di creare per il processo societario di cognizione un nuovo modello processuale, che esula completamente dallo schema del procedimento ordinario disciplinato dal codice di procedura civile e che, viceversa, anticipa, in pratica, il nuovo rito ordinario quale prefigurato dal testo redatto della Commissione ministeriale per la riforma del processo civile; che proprio tali connotati della legge delega fanno sì che essa sia in contrasto con il parametro costituzionale invocato, il che impone - ad avviso del remittente - di sollevare questione di legittimità costituzionale dell'art. 12 della legge n. 366 del 2001, nella parte relativa al procedimento di primo grado, e, «per derivazione», degli articoli da 2 a 17 del d.lgs. n. 5 del 2003; che la suddetta questione sarebbe rilevante perché dall'esito della decisione di questa Corte dipende l'applicabilità dell'intera nuova disciplina processuale alla controversia in corso; che, in via subordinata e per l'ipotesi in cui la Corte dovesse ritenere costituzionalmente legittimo l'art. 12 della legge n. 366 del 2001, il Tribunale di Napoli solleva anche questione di legittimità costituzionale degli articoli da 2 a 17 del d.lgs. n. 5 del 2003, per contrasto con l'art. 76 della Costituzione, «in quanto emanati eccedendo dai principi e criteri direttivi dettati dalla legge n. 366 del 2001»; che il remittente rileva come, per evitare il sospetto di incostituzionalità della legge delega, questa debba necessariamente essere interpretata nel senso che il legislatore delegante, indicando il principio di «concentrazione del procedimento», abbia fatto evidentemente riferimento alle scansioni previste nel processo ordinario, che si svolge attraverso la successione di più udienze fisse ed obbligatorie (artt. 180, 183, 184, 189 cod. proc. civ.), sicché «la generica indicazione del legislatore delegante del principio di "riduzione dei termini processuali"» avrebbe dovuto (e potuto) essere riempita di contenuto dal legislatore delegato solo attraverso la riduzione dei termini previsti nel giudizio di cognizione ordinario per la fissazione di tali udienze e per il deposito di memorie e comparse difensive; che solo una simile lettura, «estremamente riduttiva e per questo proposta in via subordinata rispetto all'altra, dei principi fissati dal legislatore delegante», sarebbe idonea a fugare i sospetti di illegittimità costituzionale dell'art. 12 della legge n. 366 del 2001, risultando però evidente, in questo modo, l'illegittimità costituzionale degli articoli da 2 a 17 del d.lgs. n. 5 del 2003, emanati eccedendo i limiti della delega contenuta nell'art. 12 della legge n. 366 del 2001; che anche detta questione, secondo il Tribunale, sarebbe rilevante, per le stesse ragioni indicate nella motivazione della questione proposta in via principale; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la manifesta inammissibilità delle questioni.
Considerato
che
questa Corte
- già
investita del vaglio di
costituzionalità di identiche questioni, sollevate dal medesimo
giudice che anche le presenti questioni (sollevate in modo identico alle precedenti) presentano gli stessi difetti di prospettazione, in quanto il remittente non solo non adempie l'obbligo di ricercare un'interpretazione costituzionalmente orientata di ciascuna delle norme impugnate, ma propone, nel medesimo contesto motivazionale, due opzioni ermeneutiche sostanzialmente alternative, così inammissibilmente demandando alla Corte la scelta fra queste; che le questioni, pertanto, sono manifestamente inammissibili. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366 (Delega al Governo per la riforma del diritto societario) e, «per derivazione», degli articoli da 2 a 17 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'art. 2 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), sollevate, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, dal Tribunale di Napoli con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 giugno 2008. Il Cancelliere F.to: MELATTI ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 131, comma 4, lettera c) del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), promosso con ordinanza del 19 ottobre 2006 dal Tribunale di Bolzano, emessa nel procedimento civile tra C. E. e D. D, iscritta al n. 844 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell'anno 2008; udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Maria Rita Saulle. Ritenuto che il Tribunale ordinario di Bolzano, con ordinanza del 19 ottobre 2006, emessa nel corso di un procedimento civile, ha sollevato, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 131, comma 4, lettera c), del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui prevede che le spese so stenute dall'ausiliario del magistrato per l'adempimento dell'incarico sono anticipate dall'erario; che il giudice a quo, in punto di fatto, dopo aver premesso che l'attrice del giudizio principale, ammessa al patrocinio a spese dello Stato, chiede accertarsi che il convenuto, dal quale è legalmente separata, non è il padre della minore, nata dall'unione della stessa attrice con un terzo entro i trecento giorni dalla data della separazione, riferisce di aver proceduto alla nomina di un consulente tecnico; che, in ragione dell'incarico in tal senso conferito, nel corso del giudizio ha emesso apposita ordinanza con la quale ha provveduto alla liquidazione, mediante anticipazione a carico dell'erario, delle spese di laboratorio richieste dal consulente al fine di procedere ai necessari esami ematologici presso la ASL; che, sempre in punto di fatto, il rimettente riferisce che, con una seconda ordinanza, ha disposto la revoca del precedente provvedimento di liquidazione, non eseguito, e che in conseguenza di ciò il consulente ha chiesto di essere esonerato dall'incarico; che il rimettente afferma che la norma censurata è in contrasto con i parametri costituzionali evocati, in quanto ritiene che non ci siano ragioni per porre a carico del convenuto le spese per procedere all'esame devoluto al consulente, né di poter richiedere tali spese, a titolo di anticipazione, a quest'ultimo; che in particolare, secondo il giudice a quo, la norma censurata, laddove comporta, di fatto, «anticipazione di spesa a carico dell'ausiliario del giudice, viola gli artt. 24 e 111 Cost., posto che la tutela dei non abbienti deve essere realmente a carico dello Stato e non di altri soggetti, mentre il giusto processo non può risolversi in strumento di tutela del non abbiente a ingiusto discapito di altro cittadino»; che, sempre in ordine alla non manifesta infondatezza della questione sollevata, il rimettente osserva che «ove invece si pretenda che per effetto della disposizione in esame, l'ausiliario del giudice attenda la liquidazione delle spese necessarie per procedere all'indagine tecnica devolutagli, si violerebbe il principio della ragionevole durata del processo sancito dall'art. 111 Cost., stante le note lungaggini che la procedura comporta». Considerato che il Tribunale ordinario di Bolzano dubita, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 131, comma 4, lettera c), del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), che prevede che le spese sostenute dall'ausiliario del magistrato per l'adempimento dell'incarico siano anticipate dall'erario; che, in particolare, il rimettente ritiene che la disposizione censurata contrasti con gli evocati parametri costituzionali in quanto essa, di fatto, implica il previo esborso da parte dell'ausiliario nominato dal magistrato della somma corrispondente alle spese necessarie per l'espletamento dell'incarico; che la questione così prospettata è manifestamente infondata; che l'art. 131, comma 4, lettera c), del d.P.R. n. 115 del 2002, tra gli effetti dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, dispone che sono anticipate dall'erario, tra le altre, le spese sostenute dall'ausiliario del magistrato per l'adempimento dell'incarico; che il procedimento di liquidazione disciplinato dalla disposizione censurata, laddove fa riferimento alle «spese sostenute», presuppone che la loro anticipazione a carico dell'erario venga disposta solo dopo che il professionista nominato dal magistrato abbia fornito la prova di averle effettivamente affrontate; che tale disciplina non contrasta con i principi sanciti dall'art. 24 della Costituzione, in quanto la prevista anticipazione da parte dello Stato delle spese già sostenute dal consulente, non preclude a quest'ultimo di adempiere al proprio incarico, senza assumere definitivamente su di sè l'onere di dette spese, e di conseguenza alle parti coinvolte nel procedimento di esercitare il loro diritto di difesa; che, quanto alla presunta violazione dell'art. 111 della Costituzione, la sua evocazione da parte del rimettente è inconferente, in quanto la disposizione censurata, disciplinando il procedimento di liquidazione delle spese sostenute dall'ausiliario del magistrato, non è idonea ad incidere sui tempi di celebrazione del processo cui lo stesso procedimento è accessorio. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 131, comma 4, lettera c), del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), sollevata, in riferimento agli artt. 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Bolzano con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Maria Rita SAULLE, Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 giugno 2008. Il Cancelliere F.to: MELATTI ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso UARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino ASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe ESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 25 novembre 2003, n. 339 (Norme in materia di incompatibilità dell'esercizio della professione di avvocato), promosso con ordinanza del 23 agosto 2007 dal Giudice di pace di Cortona nel procedimento civile vertente tra Jarubowska Edyta Joanna e Maneggia Alessandro, iscritta al n. 792 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visto l'atto di costituzione di Jarubowska Edyta Joanna nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.
Ritenuto che il Giudice di pace di Cortona ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione, dell'art. 1 della legge 25 novembre 2003, n. 339 (Norme in materia di incompatibilità dell'esercizio della professione di avvocato), nella parte in cui prevede che il regime di incompatibilità fra impiego pubblico ed esercizio della professione forense si applichi anche ai dipendenti pubblici a tempo parziale che risultino già iscritti negli albi degli avvocati alla data di entrata in vigore della legge n. 339 del 2003, nonché dell'art. 2 della citat a legge, nella parte in cui prevede soltanto un breve periodo di moratoria per esercitare l'opzione imposta fra impiego pubblico ed esercizio della professione; che il rimettente nel descrivere la fattispecie al suo esame si limita a dire «che l'attrice ha manifestato espressamente, negli atti di causa, la propria volontà di avvalersi dei suoi difensori per la trattazione della causa» e «che gli stessi difensori hanno manifestato la volontà di continuare nella conduzione della causa e che entrambe le volontà, della parte e dei difensori, sono meritevoli di considerazione, trattandosi di diritti assoluti e costituzionalmente garantiti»; che si è costituita in giudizio Jarubowska Edyta Joanna, parte attrice nel giudizio a quo; che, quanto alla rilevanza della questione, la difesa della parte privata sottolinea che, nelle more del processo, i propri difensori sono stati cancellati dall'albo dell'ordine degli avvocati di Perugia, ai sensi dell'art. 2 della legge n. 339 del 2003, essendo al contempo pubblici dipendenti in part time non superiore al 50%; che, quanto alla manifesta infondatezza, la difesa della parte privata indica come tertium comparationis la disciplina relativa a coloro che, dopo aver commesso determinati reati, possono godere dell'indulto in virtù dell'art. 1 della legge 31 luglio 2006, n. 241 (Concessione di indulto), e ritiene che sussista una evidente disparità di trattamento tra chi ha beneficiato dell'indulto e chi, solo perché dipendente pubblico part time, si vede inflitta la sanzione della cancellazione dall'albo degli avvocati; che la parte costituita chiede, in via subordinata, che la Corte «sollevi innanzi a se stessa la questione di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 2 della legge n. 339 del 2003 per violazione dell'art. 25 della Cost. in quanto, secondo detto articolo, nessuno può essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso e, appunto, in questo caso ai dipendenti pubblici part time già iscritti agli Albi degli Avvocati prima dell'entrata in vigore della legge 339/03 è stata applicata la pena della cancellazione dall'albo degli avvocati proprio con una legge successiva al fatto commesso»; che, in via ulteriormente subordinata, chiede alla Corte di sollevare questione di legittimità costituzionale innanzi a se stessa degli artt. 1 e 2 della legge n. 339 del 2003, per contrasto con gli artt. 3, 4, 35 e 41 Cost., nella parte in cui non prevedono un regime transitorio che salvaguardi la posizione di chi risulti già iscritto negli albi degli avvocati alla data di entrata in vigore della legge n. 339 del 2003; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile o infondata; che l'Avvocatura dello Stato eccepisce, in via preliminare, l'inammissibilità della questione avendo il rimettente omesso completamente sia di illustrare i termini della controversia ai fini della valutazione della rilevanza, sia di argomentare la presunta non manifesta infondatezza della stessa, ed essendosi, invece, limitato a rinviare genericamente, dichiarando di condividerla, alla relativa eccezione formulata dalla parte, non fornendo, neppure sinteticamente, gli argomenti interpretativi necessari per valutare i profili di asserita incostituzionalità delle norme denunciate, le quali senza alcuna argomentazione, sono «lasciate completamente all'esame e al giudizio della Corte»; che, nel merito, la difesa statale richiama la sentenza di questa Corte n. 390 del 2006 con la quale, sia pure in relazione ad una questione in parte diversa rispetto a quella in esame, si è ritenuto ragionevole il nuovo regime di incompatibilità introdotto dagli articoli 1 e 2 della legge n. 339 del 2003, e che, con riferimento alla questione di coloro che erano iscritti negli albi degli avvocati ed esercitavano la professione sulla base della disciplina preesistente, sottolinea che il legislatore, con l'art. 2 della normativa in parola, ha comunque riconosciuto la posizione differenziata di tali soggetti, attribuendo loro la facoltà di optare tra il mantenimento del rapporto di impiego e l'esercizio della professione forense entro il termin e di 36 mesi dall'entrata in vigore della legge stessa. Considerato che il Giudice di pace di Cortona dubita, in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 25 novembre 2003, n. 339 (Norme in materia di incompatibilità dell'esercizio della professione di avvocato), nella parte in cui prevede che il regime di incompatibilità fra impiego pubblico ed esercizio della professione forense si applichi anche ai dipendenti pubblici a tempo parziale che risultino già iscritti negli Albi degli avvocati alla data di entrata in vigore della legge n. 339 del 2003, nonché dell'art. 2 della citata legge, n ella parte in cui prevede soltanto un breve periodo di moratoria per esercitare l'opzione imposta fra impiego pubblico ed esercizio della professione; che la questione è manifestamente inammissibile; che il rimettente ha omesso ogni descrizione della fattispecie oggetto del giudizio principale e non ha motivato sulla non manifesta infondatezza delle questioni sollevate; che pertanto l'ordinanza di rimessione è inidonea a dare valido ingresso al giudizio di legittimità costituzionale in quanto priva dei requisiti minimi a tal fine necessari (ex plurimis: ordinanze nn. 277, 33 e 14 del 2006). Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge 25 novembre 2003, n. 339 (Norme in materia di incompatibilità dell'esercizio della professione di avvocato), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione, dal Giudice di pace di Cortona con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 giugno 2008. Il Cancelliere F.to: MELATTI ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Alfio FINOCCHIARO " ha pronunciato la seguente</ SPAN> ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 2, del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507 (Revisione ed armonizzazione dell'imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale), promosso con ordinanza del 15 maggio 2007 dalla Commissione tributaria provinciale di Piacenza nel giudizio vertente tra la s.c. a r.l. per azioni Banca di Piacenza e l'I.C.A. s.r.l. iscritta al n. 835 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubb lica n. 3, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visti l'atto di costituzione della s.c. a r.l. per azioni Banca di Piacenza e l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 20 maggio 2008 il Giudice relatore Franco Gallo; uditi l'avvocato Vittorio Angiolini per la s.c. a r.l. per azioni Banca di Piacenza e l'avvocato dello Stato Gianna Maria De Socio per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto che, nel corso di un giudizio riguardante l'impugnazione, da parte della s.c. a r.l. per azioni Banca di Piacenza, di un avviso di accertamento relativo all'omessa denuncia e all'omesso versamento dell'imposta sulla pubblicità per l'anno 2006, la Commissione tributaria provinciale di Piacenza, con ordinanza depositata il 15 maggio 2007, ha sollevato - in riferimento agli artt. 3, 24, 27, 53, 76 e 111 della Costituzione - questioni di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 2, del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507 (Revisione ed armonizzazione dell'imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale), il quale dispone che «è solidalmente obbligato al pagamento dell'imposta colui che produce o vende la merce o fornisce i servizi oggetto della pubblicità»; che il giudice rimettente premette che la suddetta s.c. a r.l. per azioni ha proposto ricorso contro l'avviso notificatole il 18 novembre 2006 dalla s.r.l. ICA Imposte Comunali Affini, concessionaria del servizio pubblicità del Comune di Piacenza, la quale aveva accertato «l'omessa denuncia e versamento della imposta sulla pubblicità per l'anno 2006 per n. 5 cartelli bifacciali di mq. 10 complessivi»; che, secondo quanto riferito dallo stesso rimettente, la ricorrente afferma: a) di avere stipulato con la s.r.l. Pubblitop un contratto per l'utilizzo degli spazi pubblicitari per un solo anno, dal 10 giugno 2003 al 10 giugno 2004, senza tacita proroga; b) di essere venuta a conoscenza, all'inizio del 2006, del fatto che i detti spazi erano ancora utilizzati e di avere, perciò, diffidato formalmente la s.r.l. Pubblitop a rimuovere la pubblicità; c) che quest'ultima non aveva provveduto e, il 13 luglio 2006, era stata dichiarata fallita; d) di avere diffidato, quindi, la s.r.l. ICA a provvedere alla copertura degli spazi pubblicitari; e) di avere provveduto in proprio, il 30 gennaio 2007, alla copertura di detti spazi; f) di non essere tenuta al pagamento dell'imposta «per una pubblicità mai voluta e per la quale l'obbligo del pagamento incombeva alla Pubblitop quale titolare del mezzo pubblicitario»; g) di essere totalmente estranea al rapporto tributario, «cosí che la applicazione di sanzioni [lede] i suoi diritti di contribuente, mentre la mancata preventiva escussione della Pubblitop [determina] una soggezione alla imposta per mera responsabilità oggettiva»; che la medesima Commissione tributaria riferisce, poi, che la s.r.l. ICA ha resistito in giudizio, sostenendo che la banca ricorrente era solidalmente tenuta al pagamento dell'imposta ai sensi dell'art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 507 del 1993 e che l'esposizione pubblicitaria doveva considerarsi abusiva dopo che la s.p.a. OPS, subentrata alla s.r.l. Pubblitop nel novembre 2005, «aveva dato disdetta degli impianti appartenuti alla Pubblitop con lettera del 31 gennaio 2006»; che il giudice a quo censura l'art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 507 del 1993, «nella parte in cui prevede che colui che produce o vende la merce o fornisce i servizi oggetto della pubblicità resti obbligato in solido con il soggetto passivo di imposta, anche quando sia accertato che egli abbia voluto e fatto tutto quanto poteva affinché il soggetto passivo di imposta non realizzasse il presupposto della imposizione tributaria», in riferimento: a) all'art. 3 Cost., per lesione del principio di ragionevolezza, essendo «il contribuente costretto a pagare una imposta senza essere a conoscenza del presupposto di fatto»; b) allo stesso art. 3 Cost., per «disparità di trattamento [.] fra debitore e coobbligat o solidale, chiamato a pagare senza avere realizzato il presupposto di fatto»; c) all'art. 53 Cost., «per essere il contribuente assoggettato alla obbligazione tributaria senza correlazione della sua capacità contributiva al presupposto di imposta»; d) agli artt. 3 e 76 Cost., per eccesso di delega, «in quanto la legge delega attribuisce la soggettività passiva solo a colui che dispone dei mezzi pubblicitari»; e) agli artt. 24 e 111 Cost., per «violazione del diritto di difesa e del principio dell'equo processo»; che, ad avviso dello stesso rimettente, la norma censurata víola anche: a) gli artt. 3 e 27 Cost., perché «non prevede che le sanzioni di tipo afflittivo o punitivo debbano colpire esclusivamente il soggetto passivo di imposta e non debbano colpire il soggetto pubblicizzato», il quale non può fare alcunché «per far cessare e prevenire la propria responsabilità solidale»; b) l'art. 3 Cost., perché è irragionevole che il soggetto pubblicizzato sia obbligato in solido «con un soggetto fallito, senza potersi rivalere in regresso sul medesimo»; che, per il giudice a quo, la sentenza della Corte costituzionale n. 557 del 2000, che ha ritenuto legittima - in riferimento agli artt. 3, 53 e 76 Cost. - la responsabilità solidale del soggetto pubblicizzato per il pagamento dell'imposta sulla pubblicità prevista dal censurato art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 507 del 1993, non osta all'accoglimento delle questioni, perché si riferisce ad una fattispecie diversa da quella oggetto del giudizio principale; che nel caso di specie, infatti, secondo il rimettente, «solo alcune delle somme richieste alla banca, come obbligata in solido, sono richieste a titolo di imposta; [.] altre somme sono richieste a titolo di sanzione pecuniaria per l'omessa denuncia, per ritardato pagamento e per interessi di mora (del 7%), ossia per titoli che appaiono sanzioni prettamente afflittive»; che, in punto di rilevanza, il giudice a quo afferma che: a) «dagli atti e documenti di causa risulta che la banca ha stipulato un contratto di pubblicità per un solo anno (e per tale periodo il soggetto titolare del mezzo pubblicitario - Pubblitop - ha pagato alla ICA la relativa tassa), ma la pubblicità è rimasta esposta anche successivamente a tale periodo annuale, per inerzia di chi disponeva del mezzo pubblicitario (la Pubblitop ha dapprima ceduto ad altri il ramo di azienda e poi è fallita) ed a totale insaputa del soggetto pubblicizzato che, non appena informato, si è attivato (invano) chiedendo la copertura della pubblicità r imasta esposta sui tabelloni»; b) «la banca - che non voleva assolutamente avvalersi del mezzo pubblicitario oltre il termine contrattualmente convenuto - è stata raggiunta dall'accertamento e colpita dalle sanzioni, nonostante abbia posto in essere tutto quanto poteva per evitare le conseguenze della altrui omissione»; che si è costituita in giudizio la s.c. a r.l. per azioni Banca di Piacenza, ricorrente nel giudizio principale, concludendo per l'accoglimento delle proposte questioni di legittimità costituzionale; che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in giudizio, chiedendo dichiararsi l'inammissibilità o, in subordine, la manifesta infondatezza delle sollevate questioni; che la difesa erariale, a sostegno dell'eccepita inammissibilità, osserva che: a) il giudice rimettente avrebbe dovuto ricostruire adeguatamente il quadro normativo, valutando il rilievo del comma 172 dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, che ha abrogato l'art. 23 del d.lgs. n. 507 del 1993, recante la disciplina degli interessi di mora sulle somme dovute per l'imposta sulla pubblicità; b) il rimettente avrebbe dovuto descrivere sufficientemente la fattispecie, precisando «gli obblighi formali e/o sostanziali il cui inadempimento avrebbe costituito presupposto delle contestate sanzioni (l'ordinanza accenna genericamente ad un'"omessa denuncia", senza precisarne l'oggetto)» ed avrebbe dovuto tenere conto del fatto che la disciplina delle sanzioni «è recata per detta imposta dagli artt. 23 e 24 (non censurati) dello stesso D.Lgs.»; c) il giudizio di rilevanza effettuato dal rimettente è carente per contraddittorietà e la questione risulta, conseguentemente, posta in astratto, perché è sollevata per l'ipotesi che l'obbligato solidale «abbia voluto e fatto tutto quanto poteva affinché il soggetto passivo di imposta non realizzasse il presupposto della imposizione tributaria», mentre «nella fattispecie concreta la contestazione concerne l'imposta sulla pubblicità per l'anno 2006» e la banca aveva proceduto in proprio alla copertura degli spazi pubblicitari solo il 30 gennaio 2007; che nel merito, con riguardo alla dedotta manifesta infondatezza, la medesima difesa erariale afferma che la disposizione denunciata non víola gli evocati parametri costituzionali, perché: a) valgono, in riferimento agli artt. 3, 53 e 76 Cost., le stesse ragioni indicate nella sentenza della Corte costituzionale n. 557 del 2000, concernente una fattispecie analoga; b) i parametri degli artt. 24 e 111 Cost. non sono conferenti, perché «attengono al piano processuale delle garanzie di tutela giurisdizionale dei diritti e del giusto processo, mentre la norma censurata si colloca sul piano della disciplina sostanziale del rapporto»; c) il parametro dell'art. 27 Cost. è inconferente, perché attiene alla personalità della responsabilità penale e al la presunzione di innocenza; che, con memoria depositata in prossimità dell'udienza, la s.c. a r.l. per azioni Banca di Piacenza ha confermato le conclusioni già formulate nell'atto di costituzione, precisando, in punto di rilevanza delle sollevate questioni, che: a) non può invocarsi, «al fine di revocare in dubbio la rilevanza della questione come prospettata dal giudice a quo, il fatto che la materia delle sanzioni amministrative sia oggetto di due ulteriori e specifiche disposizioni dello stesso d.lgs. n. 507 del 1993, non censurate nel presente giudizio, e precisamente degli artt. 23 e 24», perché tali disposizioni «si limit ano a prevedere entità e natura delle sanzioni», nulla disponendo sul destinatario delle medesime e, dunque, «la disposizione che individua la responsabilità solidale del "soggetto pubblicizzato" [.], sia per l'imposta sia per le relative sanzioni», è proprio la disposizione censurata; b) il soggetto pubblicizzato obbligato in solido ha fatto quanto in suo potere per impedire che il soggetto passivo dell'imposta realizzasse il presupposto dell'imposizione, perché, prima del decorso del periodo cui si applica l'imposta oggetto di contestazione, ha manifestato, tramite ripetuti inviti formali alla rimozione dei messaggi pubblicitari, una volontà contraria alla loro permanenza; c) il fatto che «solo nel gennaio del 2007, dopo che i propri ripetuti solleciti erano rimasti senza esito, la Banca di Piacenza abbia provveduto, di sua ini ziativa e a proprie spese, a rimuovere i messaggi pubblicitari» deve essere considerato «un rimedio adottato in via di fatto e del tutto sprovvisto di qualsiasi base giuridica, dal momento che gli spazi pubblicitari su cui i messaggi erano esposti non erano in alcun modo nella disponibilità della Banca» e «solo per una circostanza del tutto fortuita il soggetto passivo (che nel frattempo era fallito) non ha avuto modo di opporsi a tale iniziativa della Banca»; che la stessa s.c. a r.l. per azioni premette, in punto di non manifesta infondatezza delle sollevate questioni, che il problema della costituzionalità della disposizione censurata si pone in modo nuovo e diverso rispetto alle questioni decise dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 557 del 2000, perché, nella specie: a) «non solo non si rinviene alcun rapporto giuridico tra il soggetto passivo e l'obbligato in solido, essendo il contratto pubblicitario tra questi stipulato ormai scaduto da tempo, ma, oltre a ciò, è dimostrato che l'originario committente della pubbl icità ha inequivocabilmente espresso la propria volontà contraria alla permanenza dei messaggi pubblicitari»; b) «le somme richieste» [.] con l'avviso impugnato sono solo per una parte minoritaria richieste a titolo di imposta, mentre per la maggior parte corrispondono all'applicazione di sanzioni amministrative tributarie: precisamente, su una somma complessiva di euro 1.084,98, solo 465 euro corrispondono all'imposta accertata; e la restante somma corrisponde, per la maggior parte (altri 465 euro), alla sanzione amministrativa per l'omessa denuncia, e per la parte rimanente all'ulteriore sanzione per il ritardo nel pagamento (139,50 euro), ed infine ad "interessi di mora" e spese di notifica»; che la medesima parte privata deduce, altresí, che la norma censurata, «entra in piena ed irragionevole contraddizione con la stessa definizione del presupposto di imposta dell'art. 5», definito come «la diffusione di messaggi pubblicitari», perché «la diffusione del messaggio svolta non solo all'insaputa ma addirittura contro la precisa volontà contraria di chi dovrebbe trarne vantaggio, [.] non è piú un'attività pubblicitaria, ma è, invece, «un trattamento di dati inerenti a chi esercita impresa, da reputarsi come tale sicuramente illecito» in base agli artt. 11 e seguenti del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali); che ciò che viene, allora, in rilievo, nel caso in esame - secondo la parte privata - è il fatto che la norma censurata non ammette che il soggetto pubblicizzato possa fornire prova del fatto di non avere ricevuto vantaggio dalla diffusione di un messaggio pubblicitario che reclamizza i propri prodotti o servizi, ponendo cosí una presunzione assoluta; che l'impossibilità di fornire una tale prova contraria sarebbe confermata «dal disposto dell'art. 8 del medesimo d.lgs. n. 507, che, nell'imporre al solo "soggetto passivo" di cui all'art. 6 l'obbligo di presentare tutte le dichiarazioni circa l'inizio dell'attività pubblicitaria (comma 1), le relative variazioni (comma 2) e la cessazione dell'attività (comma 3), individua in questo soggetto l'unico interlocutore del Comune per tutto ciò che attiene alle comunicazioni sull'utilizzo degli spazi pubblicitari e ai relativi adempimenti»; che secondo la parte privata, infatti, il d.lgs. n. 507 del 1993 «non individua alcun meccanismo che consenta al committente di comunicare al Comune una sua eventuale volontà contraria alla permanenza del messaggio, e ciò perché, semplicemente, ad una tale volontà contraria non viene attribuito alcun giuridico rilievo»; che, per la stessa s.c. a r.l. per azioni, inoltre, la norma censurata víola il combinato disposto degli artt. 3 e 27 Cost., perché configura un'ipotesi di responsabilità per fatto altrui dell'obbligato in solido in relazione alle sanzioni irrogate per violazioni delle norme tributarie commesse dall'obbligato principale, «il quale solo ha la disponibilità dei mezzi per la pubblicità medesima ed ha [.] l'esclusiva nell'intrattenere le relazioni con l'amministrazione al riguardo dell'uso e della cessazione di questi mezzi»; che la parte privata sottolinea, infine, che, nel caso in esame, «le sanzioni riguardano la violazione di obblighi di denuncia (la denuncia di inizio e la "denuncia di cessazione" dell'attività), che a norma dell'art. 8 del d.lgs. n. 507 del 1993 incombono solo ed unicamente sul soggetto passivo dell'imposizione (cioè su colui che dispone del mezzo attraverso cui il messaggio è veicolato) e non possono ritenersi estesi all' "obbligato solidale"». Considerato che la Commissione tributaria provinciale di Piacenza dubita - in riferimento agli artt. 3, 24, 27, 53, 76 e 111 della Costituzione - della legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 2, del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507 (Revisione ed armonizzazione dell'imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urb ani a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale), il quale dispone che «è solidalmente obbligato al pagamento dell'imposta colui che produce o vende la merce o fornisce i servizi oggetto della pubblicità»; che, in particolare, il giudice a quo censura la suddetta disposizione «nella parte in cui prevede che colui che produce o vende la merce o fornisce i servizi oggetto della pubblicità resti obbligato in solido con il soggetto passivo di imposta, anche quando sia accertato che egli abbia voluto e fatto tutto quanto poteva affinché il soggetto passivo di imposta non realizzasse il presupposto della imposizione tributaria», per violazione: a) dell'art. 3 Cost., per lesione del principio di ragionevolezza, essendo «il contribuente costretto a pagare una imposta senza essere a conoscenza del presupposto di fatto»; b) dello stesso art. 3 Cost., per «disparità di trattamento [.] fra debitore e coobbligato s olidale, chiamato a pagare senza avere realizzato il presupposto di fatto»; c) dell'art. 53 Cost., «per essere il contribuente assoggettato alla obbligazione tributaria senza correlazione della sua capacità contributiva al presupposto di imposta»; d) degli artt. 3 e 76 Cost., per eccesso di delega, «in quanto la legge delega attribuisce la soggettività passiva solo a colui che dispone dei mezzi pubblicitari»; e) degli artt. 24 e 111 Cost., per «violazione del diritto di difesa e del principio dell'equo processo»; che lo stesso giudice a quo censura la disposizione anche per violazione: a) degli artt. 3 e 27 Cost. congiuntamente, perché «non prevede che le sanzioni di tipo afflittivo o punitivo debbano colpire esclusivamente il soggetto passivo di imposta e non debbano colpire il soggetto pubblicizzato», il quale non può fare alcunché «per far cessare e prevenire la propria responsabilità solidale»; b) dell'art. 3 Cost., perché è irragionevole che il soggetto pubblicizzato sia obbligato in solido «con un soggetto fallito, senza potersi rivalere in regresso sul medesimo»; che la difesa erariale eccepisce che le questioni sono manifestamente inammissibili, perché poste in astratto, essendo state sollevate sul presupposto di fatto che l'obbligato solidale «abbia voluto e fatto tutto quanto poteva affinché il soggetto passivo di imposta non realizzasse il presupposto della imposizione tributaria», ipotesi che non ricorrerebbe nel caso di specie, in cui «la contestazione concerne l'imposta sulla pubblicità per l'anno 2006» e l'obbligato in solido aveva proceduto in proprio alla copertura degli spazi pubblicitari solo il 30 gennaio 2007; che tale eccezione deve essere rigettata, perché dall'ordinanza di rimessione non emerge che il presupposto di fatto delle sollevate questioni sia manifestamente insussistente; che, infatti, da quanto riferito dal rimettente risulta che l'obbligato in solido per il pagamento dell'imposta non ha potuto procedere tempestivamente alla rimozione della pubblicità, perché non ha mai avuto la disponibilità degli spazi sui quali erano stati installati i cartelli pubblicitari; che le questioni sollevate in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., per lesione del principio di ragionevolezza, per disparità di trattamento fra il coobbligato solidale e il debitore principale e per violazione del principio della capacità contributiva, sono manifestamente infondate, in forza di quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 557 del 2000, la quale ha dichiarato l'infondatezza di analoghe questioni, aventi ad oggetto la stessa norma e proposte in base agli stessi parametri; che l'analogia tra le questioni decise con tale sentenza e quelle poste dal rimettente all'odierno esame della Corte risulta dal fatto che sia le une che le altre hanno ad oggetto la legittimità costituzionale del denunciato art. 6, comma 2, del decreto legislativo n. 507 del 1993, secondo cui il "soggetto pubblicizzato" è obbligato in solido con il soggetto passivo al pagamento dell'imposta, per il solo fatto di essere «colui che produce o vende la merce o fornisce i servizi oggetto della pubblicità»; con la sola differenza che quelle esaminate dalla sentenza n. 557 del 2000 riguardano l'ipotesi, piú generale, in cui l'obbligazione solidale sussiste in capo al "soggetto pubblicizzato" «anche in mancanza di un effettivo rapporto giuridico-eco nomico [pubblicitario] tra i due soggetti», mentre quelle sollevate dall'ordinanza di rimessione della Commissione tributaria provinciale di Piacenza riguardano la specifica ipotesi - pur sempre riconducibile all'ipotesi oggetto della sentenza n. 557 del 2000 - in cui il "soggetto pubblicizzato" è obbligato in solido con il soggetto passivo di imposta quando sia accertata, oltre alla cessazione del rapporto pubblicitario, anche la circostanza che egli «abbia voluto e fatto tutto quanto poteva affinché il soggetto passivo di imposta non realizzasse il presupposto della imposizione tributaria»; che valgono in proposito, in difetto di nuovi profili di illegittimità prospettati dal rimettente, le stesse considerazioni svolte dalla Corte con la citata sentenza n. 557 del 2000, secondo cui: a) «il principio di capacità contributiva non esclude che la legge possa stabilire prestazioni tributarie a carico, oltreché del debitore principale, anche di altri soggetti, purché non estranei al presupposto d'imposta, costituendo unico limite alla discrezionalità del legislatore la non irragionevolezza del criterio di collegamento utilizzato per l'individuazione dei predetti responsabili d'imposta (sentenza n. 184 del 1989, ordinanze n. 301 del 1988 e n. 316 del 1987)»; b) «nella fattispecie in esame non può certo considerarsi estraneo al presuppo sto di imposta» colui che svolge «l'attività economica oggetto della pubblicità» e, quindi, ben può assumersi quale idoneo elemento di collegamento il fatto stesso di svolgere detta attività; c) pertanto, «la solidarietà passiva a carico di tale soggetto» non è lesiva «del principio di capacità contributiva»; d) ciò è vero anche in considerazione del fatto che «alla solidarietà passiva nel senso sopra precisato si ricollegano quali necessari corollari il diritto di rivalsa dell'obbligato solidale nei confronti del debitore principale e il diritto al risarcimento del danno nel caso in cui la diffusione del messaggio pubblicitario avvenga in difformità o, come di fatto possibile, in difetto di un sottostante rapporto giuridico»; che anche la questione con la quale, in riferimento agli artt. 3 e 76 Cost., si denuncia l'eccesso di delega, sul rilievo che «la legge delega attribuisce la soggettività passiva solo a colui che dispone dei mezzi pubblicitari», è manifestamente infondata, sempre in forza di quanto affermato da questa Corte con la citata sentenza n. 557 del 2000; che tale pronuncia ha, infatti, chiarito che «La norma delegante di cui all'art. 4, comma 4, lettera a), numero 2, della legge 23 ottobre 1992, n. 421, indica [.] tra i principi e criteri direttivi, "la regolamentazione della responsabilità tributaria di colui che produce, vende la merce o fornisce i servizi oggetto della pubblicità"» e che «è evidente come uno dei modi di attuazione della responsabilità tributaria sia proprio quella solidarietà passiva che viene, invece, infondatamente censurata sotto il profilo dell'eccesso di delega»; che la questione sollevata in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., per «violazione del diritto di difesa e del principio dell'equo processo», è del pari manifestamente infondata, perché la norma censurata non ha natura processuale ed è, quindi, estranea all'àmbito di applicazione dei suddetti parametri costituzionali (ex plurimis, ordinanze n. 13 del 2008 e n. 180 del 2007); che, inoltre, la questione sollevata in riferimento all'art. 3 Cost. - per cui sarebbe irragionevole che il soggetto pubblicizzato sia obbligato in solido «con un soggetto fallito, senza potersi rivalere in regresso sul medesimo» - è manifestamente infondata, perché, contrariamente a quanto affermato dal rimettente, non è escluso il regresso nei confronti di soggetti falliti, essendo il fallimento e l'eventuale incapienza del patrimonio del fallito a soddisfare il credito circostanze di mero fatto, rientranti nell'alea connessa alla scelta del contraente e irrilevanti, come tali, ai fini dello scrutinio di costituzionalità; che la questione proposta in riferimento congiunto agli artt. 3 e 27 Cost. - basata sulla considerazione che la norma denunciata «non prevede che le sanzioni di tipo afflittivo o punitivo debbano colpire esclusivamente il soggetto passivo di imposta e non debbano colpire il soggetto pubblicizzato», il quale non può fare alcunché «per far cessare e prevenire la propria responsabilità solidale» - è in parte manifestamente inammissibile e in parte manifestamente infondata; che nell'ordinanza di rimessione si afferma che, nel caso di specie, al "soggetto pubblicizzato", obbligato in solido per il pagamento dell'imposta sulla pubblicità, sono state richieste somme «a titolo di sanzione pecuniaria per l'omessa denuncia, per ritardato pagamento e per interessi di mora (del 7%), ossia per titoli che appaiono sanzioni prettamente afflittive», per fatto altrui; che, quanto alla sanzione per l'omessa denuncia [rectius: per l'omessa presentazione della dichiarazione di cui all'art. 8 del d.lgs. n. 507 del 1993 da parte del soggetto passivo di imposta], il giudice a quo muove da un'incompleta ricostruzione del quadro normativo, perché non tiene conto dei princípi stabiliti, in materia di sanzioni amministrative tributarie, dagli artt. 2, comma 2, 5, comma 1, primo periodo, e 11, comma 1, del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472 (Disposizioni generali in materia di sanzioni amministrative per le violazioni di norme tributarie, a norma dell'articolo 3, comma 133, della legge 23 dicembre 1996, n. 662), nonché dall'art. 7, com ma 1, del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 24 novembre 2003, n. 326; che, in particolare, dette disposizioni prevedono, rispettivamente, che: a) «la sanzione è riferibile alla persona fisica che ha commesso o concorso a commettere la violazione»; b) «Nelle violazioni punite con sanzioni amministrative ciascuno risponde della propria azione od omissione, cosciente e volontaria, sia essa dolosa o colposa», c) «Nei casi in cui una violazione che abbia inciso sulla determinazione o sul pagamento del tributo è commessa dal dipendente o dal rappresentante legale o negoziale di una persona fisica nell'adempimento del suo ufficio o del suo mandato ovvero dal dipendente o dal rappresentante o dall'amministratore, anche di fatto, di società, associazione od ente, con o senza personalità giuridica, nell'esercizio delle s ue funzioni o incombenze, la persona fisica, la società, l'associazione o l'ente nell'interesse dei quali ha agito l'autore della violazione sono obbligati solidalmente al pagamento di una somma pari alla sanzione irrogata, salvo il diritto di regresso secondo le disposizioni vigenti»; d) «Le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica»; che, omettendo del tutto di considerare il suddetto quadro normativo, il rimettente si è limitato ad interpretare estensivamente la disposizione censurata facendo derivare da essa la responsabilità del "soggetto pubblicizzato" anche per il pagamento della menzionata sanzione pecuniaria e non - come testualmente previsto da detta disposizione - per il solo pagamento dell'imposta; che tale lacuna argomentativa, risolvendosi in un difetto di motivazione sulla rilevanza, comporta la manifesta inammissibilità della questione in parte qua; che, quanto alla sanzione per il ritardato pagamento dell'imposta, il giudice a quo erroneamente assume che essa trova applicazione, nei confronti del "soggetto pubblicizzato", non per fatto proprio, ma per fatto commesso dal soggetto passivo d'imposta; che, al contrario, detta sanzione - prevista dall'art. 13 del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471 (Riforma delle sanzioni tributarie non penali in materia di imposte dirette, di imposta sul valore aggiunto e di riscossione dei tributi, a norma dell'articolo 3, comma 133, lettera q, della legge 23 dicembre 1996, n. 662) - punisce il ritardato pagamento del soggetto tenuto al versamento del tributo e, quindi, anche dell'obbligato in solido a tale pagamento, il quale risponde, pertanto, per fatto proprio e non per fatto altrui; che la questione relativa a tale sanzione si risolve, dunque, nella mera denuncia di illegittimità della norma che prevede che il "soggetto pubblicizzato" è anch'esso obbligato al pagamento dell'imposta e, pertanto, si identifica con le questioni già dichiarate manifestamente infondate, per le ragioni di cui sopra; che, quanto agli interessi di mora, il giudice a quo erroneamente assume che essi siano una "sanzione" e che trovino applicazione, nei confronti del "soggetto pubblicizzato", per fatto commesso dal soggetto passivo d'imposta; che, invece, l'art. 23, comma 4, del d.lgs. n. 507 del 1993, applicabile ratione temporis alla fattispecie oggetto del giudizio principale, distingue espressamente tra sanzioni e interessi di mora e prevede che questi ultimi, i quali hanno natura essenzialmente risarcitoria, sono dovuti in caso di ritardo nel pagamento dell'imposta da parte del soggetto obbligato, senza che la disposizione differenzi, nell'àmbito dei soggetti obbligati, tra la posizione del debitore principale d'imposta e quella dell'obbligato solidale; che, pertanto, anche tale questione è manifestamente infondata. LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara, per la parte precisata in motivazione, la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 2, del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507 (Revisione ed armonizzazione dell'imposta comunale sulla pubblicità e del diritto sulle pubbliche affissioni, della tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche dei comuni e delle province nonché della tassa per lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a norma dell'articolo 4 della legge 23 ottobre 1992, n. 421, concernente il riordino della finanza territoriale), sollevata, in riferimento congiunto agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dalla Commissi one tributaria provinciale di Piacenza, con l'ordinanza indicata in epigrafe; 2) dichiara, per la parte precisata in motivazione, la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 507 del 1993, sollevata, in riferimento congiunto agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Piacenza, con l'ordinanza indicata in epigrafe; 3) dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 507 del 1993, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 53, 76 e 111 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Piacenza, con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Franco GALLO, Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 giugno 2008. Il Cancelliere F.to: MELATTI ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge finanziaria 2006), promosso con ordinanza del 4 aprile 2006 dal Tribunale di Venezia, iscritta al n. 842 del registro ordinanze del 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visti l'atto di costituzione di I. S., nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 21 maggio 2008 il Giudice relatore Alfonso Quaranta. Ritenuto che il Tribunale di Venezia, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza depositata il 4 aprile 2006, pervenuta alla Corte costituzionale − con la prova delle notificazioni prescritte nell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87 − il 27 dicembre 2007 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell'anno 2008, h a sollevato questione di legittimità costituzionale dell' art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge finanziaria 2006), in riferimento agli articoli 3, 101, 102 e 104 della Costituzione; che la disposizione è ritenuta lesiva dei parametri costituzionali sopra richiamati, in quanto interpreta l'art. 8, comma 2, della legge 3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico), nel senso che il personale degli enti locali trasferito nei ruoli del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) statale è inquadrato, nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali dei corrispondenti ruoli statali, sulla base del trattamento economico complessivo in godimento all'atto del trasferimento; che l'ordinanza di rimessione è stata emessa nel giudizio vertente tra la signora I. S. e il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca, avente ad oggetto il limitato riconoscimento da parte dell'amministrazione, all'atto dell'inquadramento, dell'anzianità di servizio maturata alle dipendenze dell'ente locale; che il giudice a quo premette alla formulazione delle censure la ricostruzione del quadro normativo; che il rimettente ricorda, in particolare, come in attuazione della previsione contenuta nella legge n. 124 del 1999, con il decreto del Ministro della pubblica istruzione 23 luglio 1999 (Trasferimento del personale ATA dagli enti locali allo Stato, ai sensi dell'art. 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124), veniva disposto l'effettivo trasferimento del personale ATA, demandando ad un successivo decreto ministeriale la definizione dei criteri di inquadramento nell'àmbito del comparto scuola, finalizzati all'allineamento degli istituti retributivi del personale in questione a quelli del comparto medesimo, con riferimento alla retribuzione stipendiale, ai trattamenti accessori e al riconoscimento ai fini giuridici ed economici ; che, con il successivo decreto del Ministero della pubblica istruzione 5 aprile 2001 (Recepimento dell'accordo ARAN - Rappresentanti delle organizzazioni e confederazioni sindacali in data 20 luglio 2000, sui criteri di inquadramento del personale già dipendente degli enti locali e transitato nel comparto scuola), veniva attribuita al personale ATA, così trasferito, la posizione stipendiale d'importo pari o immediatamente inferiore al trattamento annuo in godimento al 31 dicembre 1999, costituito da stipendio e retribuzione individuale di anzianità; che tanto premesso, il Tribunale di Venezia, in punto di rilevanza, deduce che, laddove si ritenesse costituzionalmente illegittima la norma censurata, la domanda della ricorrente troverebbe accoglimento; che, a sostegno della prospettata illegittimità costituzionale, il rimettente afferma, in primo luogo, che la norma in questione avrebbe carattere innovativo e non interpretativo, introducendo «un nuovo regolamento della fattispecie diverso da quello previsto dal chiaro tenore dell'art. 8, comma 2, della legge n. 124 del 1999»; che sussisterebbe, pertanto, la lesione dei princípi di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione, in ragione della disparità di trattamento tra soggetti che, in base alla norma precedente, godevano uniformemente (secondo un orientamento costante della Corte di cassazione) del trattamento favorevole e soggetti che, nella stessa situazione di fatto, sono destinati, in base alla nuova norma, ad un trattamento deteriore; che, ad avviso del giudice a quo, l'irragionevolezza della norma sarebbe tanto più evidente in ragione del fatto che tutto il contenzioso, sia quello già definito alla data di entrata in vigore della legge n. 266 del 2005, che quello ancora pendente, si riferisce ad una vicenda già completamente esaurita; che l'effetto retroattivo e peggiorativo della norma in esame rileverebbe, d'altro canto, anche sul piano del legittimo affidamento, con conseguente ulteriore violazione dei princípi della ragionevolezza e dell'uguaglianza di cui all'art. 3 Cost.; che un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale è, infine, ravvisato nella lesione degli artt. 101, 102 e 104 Cost., dal momento che la norma, in quanto diretta ad incidere su fattispecie sub iudice, finirebbe per invadere gli àmbiti riservati al potere giudiziario; che si è costituita la ricorrente del giudizio a quo, depositando memoria con la quale, contestando le argomentazioni contenute nella sentenza della Corte costituzionale n. 234 del 2007, deduce, inoltre, la lesione degli artt. 24, 97, e 111 Cost. ad opera della norma denunciata; che la parte privata prospetta, altresì, il contrasto di quest'ultima anche con la direttiva n. 77/187/CEE del 14 febbraio 1977 (Direttiva del Consiglio concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti), nonché con i princípi comunitari della certezza del diritto e della "parità delle armi" nel processo, ai sensi dell'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali; che la parte privata ha, quindi, chiesto, in subordine rispetto alla declaratoria di illegittimità costituzionale, di rimettere alla Corte di giustizia CE, ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE, alcune questioni pregiudiziali in ordine alla interpretazione della suddetta direttiva n. 77/187/CEE, nonché al citato art. 6 della CEDU; che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che, nel richiamare la sentenza n. 234 del 2007, ha chiesto dichiararsi inammissibile e comunque non fondata la questione; che in data 9 maggio 2008, quindi fuori termine, la ricorrente del giudizio a quo ha depositato memoria. Considerato che il Tribunale di Venezia, in funzione di giudice del lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge finanziaria 2006), nella parte in cui, facendo salva l'esecuzione dei giudicati già formatisi alla data di entrata in vigore della legge medesima, stabilisce che il comma 2 dell'articolo 8 della legge 3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico) si interpreta nel senso che il personale degli enti locali trasferito nei ruoli del personale amministrativo, tecnico ed ausiliario (ATA) statale è inquadrato nelle qualifiche funzionali e nei profili professionali dei corrispondenti ruoli statali, sulla base del trattamento economico complessivo in godimento all'atto del trasferimento; che l'ordinanza di rimessione, depositata il 4 aprile 2006, è pervenuta − con la prova delle notificazioni prescritte nell'art. 23 della legge 11 marzo 1953 n. 87 − a questa Corte il 27 dicembre 2007; che il giudice rimettente censura la disposizione in questione in riferimento agli artt. 3, 101, 102 e 104 della Costituzione; che si è costituita la ricorrente del giudizio a quo; che quest'ultima ha prospettato la lesione, quali ulteriori parametri, degli artt. 24, 97 e 111 Cost., nonché dell'art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali; che la stessa parte privata ha chiesto, altresì, di rimettere alla Corte di giustizia CE, ai sensi dell'art. 234 del Trattato CE, alcune questioni pregiudiziali di interpretazione del diritto comunitario, con riguardo alla direttiva n. 77/187/CEE del 14 febbraio 1977 (Direttiva del Consiglio concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimenti di imprese, di stabilimenti o di parti di imprese o di stabilimenti); che, ancor prima di valutare i limiti entro cui il diritto comunitario può essere preso in considerazione come elemento integrativo dei parametri costituzionali (si vedano l'ordinanza n. 103 del 2008 e la sentenza n. 39 del 2008), va ribadito che l'oggetto del giudizio di costituzionalità in via incidentale è limitato all e norme ed ai parametri indicati nella ordinanza di rimessione; che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, non possono essere presi in esame, oltre ciò che è precisato nell'ordinanza di rimessione, ulteriori questioni o profili di costituzionalità dedotti dalle parti, tanto che siano stati eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, quanto che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il contenuto della stessa ordinanza (sentenze n. 86 del 2008, n. 244 del 2005; ordinanza n. 174 del 2003); che, pertanto, devono ritenersi inammissibili le deduzioni e le richieste della parte privata costituitasi nel presente giudizio, dirette ad estendere il thema decidendum; che, con riguardo alla norma censurata, questa Corte, con la sentenza n. 234 del 2007, ha dichiarato non fondate questioni di costituzionalità identiche a quella attualmente proposta, rilevando come si fosse determinata una situazione di oggettiva incertezza del dato normativo, in ragione delle diverse interpretazioni possibili, circa il riconoscimento della anzianità pregressa maturata dal personale ATA, ed in assenza di un diritto vivente sulla inderogabilità dei criteri enunciati dall'art. 8 della legge n. 124 del 1999, e ritenendo, pertanto, non irragionevole il ricorso, da parte del legislatore, alla interpretazione au tentica effettuata con l'art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005; che, sempre nella richiamata pronuncia, questa Corte ha statuito, in particolare, che l'inquadramento stipendiale nei ruoli statali del personale in questione, in ragione del maturato economico e non della effettiva anzianità complessiva di servizio conseguita presso l'ente locale, ha costituito una delle possibili varianti di lettura della norma, come emerge dai decreti ministeriali di attuazione dell'art. 8 della legge n. 124 del 1999; che la Corte ha affermato, altresì, in relazione al dedotto contrasto tra la norma denunciata e i princípi della disciplina dei rapporti di lavoro, che tale impostazione «non tiene conto del fatto che il fluire del tempo - il quale costituisce di per sé un elemento diversificatore che consente di trattare in modo differenziato le stesse categorie di soggetti, atteso che la demarcazione temporale consegue come effetto naturale alla generalità delle leggi - non comporta, di per sé, una lesione del principio di parità di trattamento sancito dall'art. 3 della Costituzione»; che, rispetto agli ulteriori profili di censura prospettati anche dall'odierno rimettente in riferimento agli artt. 101, 102 e 104 della Costituzione, non si è ravvisato, per effetto della norma contestata, alcuna compromissione dell'esercizio della funzione giurisdizionale, la quale opera su un piano diverso rispetto a quello del potere legislativo di interpretazione autentica; che, nella citata sentenza n. 234 del 2007, questa Corte ha affermato che «la disciplina dettata dall'art. 8, comma 2, della legge n. 124 del 1999, come interpretata dal censurato art. 1, comma 218, della legge n. 266 del 2005, nasce dall'esigenza di armonizzare, con una normativa transitoria di primo inquadramento, il passaggio del personale in questione da un sistema retributivo disciplinato a regime ad un altro sistema retributivo ugualmente disciplinato a regime, salvaguardando, proprio per quanto attiene al profilo economico, i livelli retributivi maturati e attribuendo agli interessati, a partire dal nuovo inquadramento, i diritti riconosciuti al personale ATA statale. Tutto ciò allo scopo di rendere, almeno tendenzialmente, omogeneo il sistema retributivo di tutti i dipendenti ATA, al di là delle rispettive provenienze e, comunque, salvaguardando il diritto di opzione per l'ente di appartenenza nel caso di mancata corrispondenza di qualifiche e profili»; che il Tribunale di Venezia non sottopone a questa Corte alcuna argomentazione diversa ed ulteriore rispetto a quelle già scrutinate nella richiamata pronuncia; che la presente questione, pertanto, deve essere dichiarata manifestamente infondata (si veda l'ordinanza n. 400 del 2007). Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 218, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato − legge finanziaria 2006), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 101, 102 e 104 della Costituzione, dal Tribunale di Venezia con l'ordinanza di cui in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Alfonso QUARANTA, Redattore Gabriella MELATTI, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 giugno 2008. Il Cancelliere F.to: MELATTI |