Deposito del 13/03/2008 (dalla 53 alla 61) |
S.53/2008 del 10/03/2008 Camera di Consiglio del 30/01/2008, Presidente BILE, Relatore AMIRANTE Norme impugnate: Art. 616 del codice di procedura civile, come sostituito dall'art. 14 della legge 24/02/2006, n. 52. Oggetto: Procedimento civile - Giudizio di opposizione all'esecuzione - Esclusione dell'appello avverso la sentenza pronunciata in primo grado - Previsione introdotta nel novellato art. 616 cod. proc. civ. dall'art. 14 della legge n. 52 del 2006 - Applicabilità nei processi di cognizione pendenti pur se instaurati, in primo grado, anteriormente all'entrata in vigore della nuova disciplina. Dispositivo: inammi ssibilità Atti decisi: ord. 512 e 610/2007 |
O.54/2008 del 10/03/2008 Camera di Consiglio del 30/01/2008, Presidente BILE, Relatore MAZZELLA Norme impugnate: - Artt. 186, c. 2°, 187, c. 7°, del codice della strada (d.lgs. 30.4.1992, n. 285); - art. 186 del codice della strada (d.lgs. 30.4.1992, n. 285), come sostituito dall'art. 5 del decreto legge 27/06/2003, n. 151, convertito con modificazioni in legge del 01/08/2003, n. 214. Oggetto: Circolazione stradale - Reato di guida sotto l'influenza dell'alcool e reato di guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti - Prevista competenza, rispettivamente, del tribunale monocratico e del giudice di pace. Circolazione stradale - Reato di guida sotto l'influenza dell'alcool - Prevista competenza del tribunale monocratico - Conseguente preclusione dell'ammissione all'oblazione, consentita agli imputati del reato di guida sotto l'influenza di stupefacenti, di competenza del giudice di pace. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 647 e 723/2007 |
O.55/2008 del 10/03/2008 Camera di Consiglio del 30/01/2008, Presidente BILE, Relatore TESAURO Norme impugnate: Art. 1, c. 547°, della legge 23/12/2005, n. 266. Oggetto: Sicurezza pubblica - Violazioni nella produzione, importazione, distribuzione e installazione di apparecchi da gioco (art. 110, co. 9, regio decreto n. 773/1931) - Intervenuta depenalizzazione - Inapplicabilità alle violazioni commesse anteriormente. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 414, 455 e 596/2007 |
O.56/2008 del 10/03/2008 Camera di Consiglio del 13/02/2008, Presidente BILE, Relatore AMIRANTE Norme impugnate: Art. 7 quater, c. 1° e 2°, del decreto legge 31/01/2005, n. 7, convertito con modificazioni in legge 31/03/2005, n. 43. Oggetto: Sanità pubblica - Decreti ingiuntivi e sentenze divenuti esecutivi dopo la data di entrata in vigore del D.L. n. 341/1999 (conv. in legge n. 453/ 1999), relativi a crediti nei confronti della soppressa azienda universitaria Policlinico Umberto I - Opposizione all'esecuzione promossa nei confronti dell'azienda ospedaliera per credito risultante da decreto ingiuntivo non opposto e maturato in data posteriore alla soppressione dell'azienda universitaria - Previsione, con norma di interpretazione autentica, di inefficacia del decreto ingiuntivo nei confronti della nuova azienda ospedaliera Policlinico Umberto I; Pignoramenti intrapresi in forza di titoli esecutivi e giudizi di ottemperanza pendenti in base al medesimo titolo nei confronti della soppressa azienda universitaria Policlinico Umberto I - Opposizione all'esecuzione promossa nei confronti dell'azienda ospedaliera per credito risultante da decreto ingiuntivo non opposto e maturato in data posteriore alla soppressione dell'azienda universitaria - Prevista inefficacia per i primi ed estinzione anche d'ufficio per i secondi, con norma di interpretazione autentica, nei conf ronti della nuova azienda ospedaliera Policlinico Umberto I. Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens Atti decisi: ord. 403 e 620/2007 |
O.57/2008 del 10/03/2008 Camera di Consiglio del 13/02/2008, Presidente BILE, Relatore MADDALENA Norme impugnate: Art. 19, c. 1° lett. e-ter (aggiunta dall'art. 35, c. 26° quinquies, del decreto legge 04/07/2006, n. 223, convertito con modificazioni in legge 04/08/2006, n. 248) del decreto legislativo 31/12/1992, n. 546. Oggetto: Imposte e tasse - Riscossione delle imposte - Fermo amministrativo dei veicoli - Opposizione di terzo all'iscrizione di fermo amministrativo su veicoli non appart enenti al debitore contribuente sottoposto ad esecuzione - Giurisdizione sulle relative controversie - Attribuzione alle commissioni tributarie, anziché al giudice ordinario, delle opposizioni promosse da terzi che assumono di essere proprietari dei beni assoggettati a fermo e che non hanno alcun contenzioso pendente innanzi alle commissioni tributarie - Contrasto con l'orientamento espresso dalle Sezioni unite della Corte di cassazione. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 519/2007 |
O.58/2008 del 10/03/2008 Camera di Consiglio del 13/02/2008, Presidente BILE, Relatore MAZZELLA Norme impugnate: Art. 18 della legge 24/11/1981, n. 689. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 599/2007 |
O.59/2008 del 10/03/2008 Camera di Consiglio del 13/02/2008, Presidente BILE, Relatore TESAURO < br> Norme impugnate: Art. 1, c. 65°, della legge 28/12/1995, n. 549; art. 5 bis del decreto legge 11/07/1992, n. 333, conv. con modificazioni in legge 08/08/1992, n. 359. Oggetto: Espropriazione per pubblica utilità - Occupazioni appropriative intervenute anteriormente al 30 settembre 1996 - Criteri di liquidazione del danno in misura ridotta rispetto al valore venale degli immobili. Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens Atti decisi: ord. 609/2007 |
O.60/2008 del 10/03/2008 Camera di Consiglio del 27/02/2008, Presidente BILE, Relatore QUARANTA Norme impugnate: Art. 171, c. 1° bis, del codice della strada (d.lgs. 30.4.1992, n. 285), come modificato dall'art. 3, c. 11°, del decreto legge 27/06/2003, n. 151, convertito con modificazioni in legge 01/08/2003, n. 214. Oggetto: Circolazione stradale - Obbligo, per i conducenti e gli eventuali passeggeri di ciclomotori e motoveicoli, di indossare e di tenere regolarmente allacciato un casco protettivo conforme ai tipi omologati - Trattamento sanzionatorio per l'inosservanza della prescrizione normativa - Omessa previsione dell'esenzione dall'obbligo per coloro che risultino affetti da patologie incompatibili con l'utilizzo del casco protettivo. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 535 e 536/2007 |
O.61/2008 del 10/03/2008 Camera di Consiglio del 27/02/2008, Presidente BILE, Relatore SILVESTRI Conflitto: Ammissibilità di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della proposta 11/05/2007 del Ministro dell'economia e delle finanze di revoca di consigliere di amministrazione della RAI. Oggetto: Radiotelevisione e servizi radioelettrici - Richiesta e votazione nell'Assemblea degli azionisti RAI, da parte del Ministro dell'economia e delle finanze d'intesa con il Presidente del Consiglio dei ministri, della revoca di consigliere di amministrazione della RAI. Dispositivo: ammissibile Atti decisi: confl. pot. amm. 16/2007 |
ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 616, ultimo periodo, del codice di procedura civile, come sostituito dall'art. 14 della legge 24 febbraio 2006, n. 52 (Riforma delle esecuzioni mobiliari), promossi dalla Corte d'appello di Salerno, nei procedimenti civili vertenti tra R. S. e la Banca della Campania e tra G. S. e E. I., con ordinanze del 18 ottobre 2006 e del 25 gennaio 2007 rispettivamente iscritte ai nn. 512 e 610 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27 e n. 36, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante. Ritenuto in fatto 1.- La Corte d'appello di Salerno, nel corso di un giudizio di appello (introdotto con atto notificato il 30 maggio 2006) avverso una sentenza resa su un'opposizione all'esecuzione (pubblicata il 30 maggio 2005), ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, dell'art. 616, ultimo periodo, del codice di procedura civile (r. o. n. 512 del 2007), come sostituito dall'art. 14 della legge 24 febbraio 2006, n. 52 (Riforma delle esecuzioni mobiliari). La norma è censurata nella parte in cui, a seguito della citata novella (entrata in vigore il 1° marzo 2006), ha soppresso l'appellabiltà della sentenza che definisce l'opposizione all'esecuzione. Quanto alla rilevanza, il remittente afferma l'applicabilità di tale norma nel giudizio a quo (con conseguente inammissibilità dell'appello) sulla base di una ricognizione dei principi generali del processo, in difetto di una normativa transitoria (quale invece è stata dettata per i precedenti interventi legislativi di cui alle leggi 14 maggio 2005, n. 80, e 28 dicembre 2005, n. 263). In particolare, la Corte d'appello fa applicazione della regola tempus regit actum, rilevandone il carattere talmente generale da essere derogabile soltanto per le questioni di giurisdizione e di competenza ai sensi dell'art. 5 del codice di rito civile, con la conseguenza della assoluta eccezionalità della cosiddetta perpetuatio iurisdictionis e dell'impossibilità di una applicazione analogica della normativa che la prevede. Secondo il giudice a quo, va escluso che una sentenza emessa prima dell'entrata in vigore della norma (nel caso di specie, il nuovo testo dell'art. 616 cod. proc. civ.) che ne sopprime la appellabilità abbia come effetto il mantenimento del regime delle sue impugnazioni. Un giudizio di appello ha, secondo il remittente, quale suo presupposto processuale specifico, la vigenza di una norma che l'appello stesso consenta: ne consegue che è al momento in cui l'appello è proposto che va verificato se esso sia previsto e, quindi, ammissibile. Nella specie, l'appello, proposto con atto di citazione notificato il 30 maggio 2006, andrebbe dichiarato inammissibile per l'immediata applicabilità della norma denunciata, ma proprio una tale interpretazione di quest'ultima rende, a parere della Corte remittente, immediatamente rilevante la questione di legittimità costituzionale sollevata. Nel merito, poi, il giudice a quo osserva che, con la soppressione di un grado di giudizio di merito e l'equiparazione delle opposizioni all'esecuzione a quelle agli atti esecutivi, nonostante l'ontologica diversità dei presupposti e degli oggetti delle prime rispetto alle seconde, risulta sensibilmente limitata la tutela del debitore. Pur premettendo che la questione non è posta in riferimento alla pretesa di un doppio grado di giurisdizione di merito (principio non assistito da copertura costituzionale), «ma in relazione al rapporto tra la soppressione di un grado di merito con il complessivo contesto normativo del processo esecutivo riformato», il remittente osserva che, con l'inclusione tra i titoli esecutivi stragiudiziali delle scritture private autenticate (suscettibili di essere poste in esecuzione con la loro mera trascrizione nel testo del precetto) e con la conseguente agevolazione dell'avvio della procedura esecutiva a favore del titolare del credito anche prima ed a prescindere da un controllo giurisdizionale sul contenuto del titolo, vengono a ridursi le possibilità, per il debitore, di contestare il merito del rapporto (che potrebbe non essere mai stato in precedenza sottoposto al vaglio del giudice, come invece accade normalmente nell'ipotesi di un titolo esecutivo giudiziale), in quanto limitate ad un solo grado, potendo semmai egli dolersi per esclusivi motivi di legittimità dell'unica pronuncia di merito che potrà conseguire sul punto. Peraltro, rileva il remittente, il principio della non costituzionalizzazione del doppio grado risulta «talvolta temperato», per escludere i sospetti di non conformità con i principi degli artt. 3 e 24 Cost., dalla necessità del riscontro di ulteriori elementi, come la correlazione con la scarsa consistenza economica della controversia e con la sua decisione secondo equità. Solo in tal modo l'inappellabilità non si espone a sospetti di violazione delle invocate norme costituzionali, tenendo conto che il parametro del valore rende giustificata e ragionevole l'opzione di accelerare il procedimento (negando il rimedio dell'appello), sulla scorta di un apprezzamento di prevalenza dell'interesse (individuale e generale) ad una sollecita definizione della causa e che, inoltre, la tutela del diritto di difesa va c oordinata con l'esigenza, di pari livello costituzionale, di disciplinare i modi ed i limiti del suo esercizio in concreto, al fine di assicurare la conclusione della lite entro un congruo termine. Del resto questa Corte, in relazione al regime di impugnabilità delle sentenze di opposizione allo stato passivo fallimentare, ha, in passato, ritenuto possibile un sindacato sulla razionalità dell'ambito dell'appellabilità in riferimento all'art. 3 Cost., dichiarando l'illegittimità costituzionale dell'art. 99, ultimo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nella parte in cui sanciva l'inappellabilità delle sentenze rese su crediti di lavoro e di previdenza e assistenza obbligatorie, contemplati negli artt. 409 e 442 cod. proc. civ. (sentenza n. 69 del 1982). La Corte remittente individua significative analogie tra il decisum di tale sentenza ed il tema della soppressione dell'appello in argom ento, contestando anzitutto che la possibile ratio dell'intervento risieda nel recupero di snellezza, velocità ed efficienza del processo esecutivo. Al riguardo, si ricorda che, con l'opposizione all'esecuzione, il debitore può soltanto: a) quando si tratta di titolo esecutivo giudiziale, fare valere fatti impeditivi o modificativi o estintivi del diritto azionato, che siano successivi alla formazione del titolo esecutivo (o alla conclusione del processo in cui esso si è formato e avrebbe potuto essere modificato), ma non anche quei fatti che, in quanto verificatisi in epoca precedente, avrebbero potuto essere dedotti nel giudizio di cognizione preordinato alla costituzione del titolo giudiziale; b) quando si tratta di titolo esecutivo stragiudiziale, contestare per la prima volta i fatti costitutivi del diritto consacrato nel titolo o dedurre fatti impeditivi o modificativi o estintivi, proprio perché - trattandosi di titolo formatosi al di fuori di un processo - in precedenza potrebbe non essersi mai data l'occasione di dedurre in giudizio gli uni o gli altri. Pertanto la sussistenza, in favore del creditore, del titolo esecutivo non garantisce affatto il debitore per i casi in cui egli debba fare valere queste particolari situazioni, ancora più delicate in quanto l'aggressione al suo patrimonio, dopo la notifica del precetto, è prossima, quando non già iniziata con il pignoramento. Il semplice possesso del titolo esecutivo, reso oltretutto sensibilmente più semplice dagli interventi riformatori degli anni più recenti, non rende la posizione del debitore più garantita, proprio quando egli avrebbe bisogno di una tutela cognitiva piena avente ad oggetto diritti. E poiché il debitore può esercitare, prima dell'opposizione di cui all'art. 615 cod. proc. civ., un'ordinaria azione di cognizione, strutturata nei due gradi di merito e in quello successivo di legittimità, volta all'accertamento dell'estinzione del diritto del creditore in caso di titolo giudiziale e per fatti ad esso successivi (ovvero alla contestazione del diritto stesso in caso di titoli stragiudiziali), al remittente non pare giustificato il diverso trattamento che alle ragioni del debitore deriva con «il dimezzamento» dei gradi di cognizione di merito riservato alle opposizioni all'esecuzione. D'altra parte, non potrebbe mai configurarsi un onere del debitore di «precipitarsi» ad avviare un'ordinaria azione di accertamento negativo, ogniqualvolta abbia sentore della possibilità di una esecuzione in suo danno, per dedurre fatti modificativi, estintivi o impeditivi del diritto del creditore (ma successivi al titolo ed al processo in cui il titolo si è formato, se giudiziale) ovvero per gli stessi fatti senza limiti (se il titolo è stragiudiziale): si tratterebbe, infatti, di imporre al debitore medesimo un gravoso onere di prevenzione giudiziale delle avverse iniziative. La Corte d'appello, tuttavia, parifica le due descritte situazioni e rileva un trattamento ingiustificatamente differenziato per fattispecie sostanzialmente identiche, con evidente violazione del canone dell'uguaglianza. Il richiamo all'esigenza di celerità sarebbe, in conclusione, inconferente, essendo questa garantita da un compiuto sistema di strumenti interinali o cautelari in senso lato - del tutto idoneo ad assicurare le ragioni delle parti - strutturati anche su di un sistema di impugnazioni e di anticipazione del finale effetto della cancellazione del vincolo imposto con il pignoramento, di cui alla nuova formulazione dell'art. 624 cod. proc. civ. Il principio di eguaglianza (appena) evocato sarebbe, altresì, violato sotto il profilo dell'incongrua equiparazione delle opposizioni all'esecuzione a quelle agli atti esecutivi, in quanto le prime hanno ad oggetto diritti soggettivi, mentre le seconde riguardano irregolarità formali di atti della procedura e difficilmente possono riverberare effetti sul diritto posto a base dell'esecuzione. La sottoposizione delle due categorie di azioni di cognizione, ontologicamente diverse, al medesimo regime processuale appare al remittente incongrua e non rispettosa del canone richiamato, che impone il trattamento differenziato di fattispecie diverse. Quanto, infine, ai profili di contrasto con gli artt. 24 e 111, secondo comma, Cost., la norma denunciata comporterebbe la compressione del diritto del debitore alla piena ed effettiva tutela delle proprie situazioni giuridiche soggettive in un processo equo e giusto, ancorché «a suo danno» sia aumentata l'efficienza del processo esecutivo e le ipotesi di aggressione del suo patrimonio in forza di titoli esecutivi non giudiziali e, quindi, senza un preventivo controllo da parte del giudice: e ciò, nonostante la semplice presenza del titolo esecutivo. 2.- La medesima Corte d'appello ha sollevato identica questione, in riferimento agli stessi parametri, con ordinanza emessa il 25 gennaio 2007 (r. o. n. 610 del 2007), nel corso di un giudizio di appello, introdotto con atto notificato il 18 luglio 2006, avverso una sentenza - pubblicata il 28 aprile 2006 - resa a conclusione di un giudizio di opposizione all'esecuzione, intrapreso per contestare la pignorabilità del bene staggìto e, comunque, «la persistenza del diritto ad agire in executivis per intervenuta transazione», con ricorso ai sensi dell'art. 615 cod. proc. civ. depositato in data 8 novembre 1999. In proposito , il remittente - che svolge poi, nel merito, argomentazioni del tutto analoghe alle precedenti - esclude che una sentenza emanata dopo l'entrata in vigore della norma che ne sopprime l'appellabilità possa conservare il regime delle impugnazioni vigente al momento della proposizione del giudizio in primo grado. 3.- È intervenuto, in riferimento al giudizio introdotto da quest'ultima ordinanza, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la non fondatezza della questione. In particolare, l'Avvocatura ritiene inconferente il richiamo della sentenza n. 69 del 1982 di questa Corte che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 99 della legge fallimentare - nel testo anteriore alla riforma del 2006 - nella parte in cui sanciva l'inappellabilità delle sentenze rese in sede di opposizione allo stato passivo su crediti di lavoro, previdenziali e assistenziali. In tale occasione non sarebbe stata ritenuta irrazionale tout court la norma che limitava l'impugnabilità delle sentenze rese ai sensi dell'art. 99 della legge fallimentare (per disparità di trattamento tra creditori di soggetti falliti e creditori di soggetti in bonis), bensì dichiarata incostituzionale la norma nella parte in c ui - secondo il diritto vivente - estendeva l'inappellabilità, originariamente prevista per le sentenze rese in controversie non eccedenti la competenza per valore del pretore, alle sentenze rese in controversie aventi ad oggetto crediti di lavoro, previdenziali e assistenziali (attratte nella competenza per materia del pretore in base alla legge 11 agosto 1973, n. 533). Ora, la differente posizione in cui si trova il debitore prima e dopo la notificazione del precetto (possibilità, nel primo caso, di promuovere un'ordinaria azione di accertamento negativo del credito, soggetta al doppio grado di giurisdizione di merito; possibilità, nel secondo caso, di promuovere il giudizio di opposizione all'esecuzione di cui all'art. 615 cod. proc. civ., che si conclude con sentenza non impugnabile) non può ritenersi irragionevole, trovando la sua giustificazione nella esigenza di definire rapidamente le questioni relative alla validità ed efficacia del titolo esecutivo, che permea l'attuale disciplina del processo di esecuzione a seguito delle modifiche introdotte con le riforme degli anni 2005 e 2006. Esigenza, questa, che consente di escludere che l'equiparazione, quanto al regime di impugnazione, delle sentenze rese nel giudizio di opposizione all'esecuzione e di quelle rese nel giudizio di opposizione agli atti esecutivi sia priva di una sua razionalità perché non tiene conto della diversa natura degli interessi coinvolti. Va infine escluso, secondo l'Avvocatura dello Stato, che l'inappellabilità della sentenza resa ai sensi dell'art. 616 cod. proc. civ. si ponga in contrasto con gli artt. 24 e 111, secondo comma, Cost., in quanto l'attuazione dei principi di effettività della tutela giurisdizionale e del giusto processo non impongono affatto la previsione del doppio grado di merito. Considerato in diritto 1.- Con due ordinanze la Corte di appello di Salerno ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, «dell'ultimo periodo dell'art. 616 del codice di procedura civile, come sostituito dall'art. 14 della legge 24 febbraio 2006, n. 52», disposizione vigente dal 1° marzo 2006, la quale stabilisce che il giudizio di cognizione introdotto dall'opposizione all'esecuzione è deciso con sentenza non impugnabile. La remittente, con la prima ordinanza (r. o. n. 512 del 2007), riferisce che il giudizio di appello di cui è investita concerne una sentenza emessa prima dell'entrata in vigore della disposizione suddetta, ma fa osservare come, in difetto di una disciplina transitoria, il regime della non impugnabilità, e quindi della sola assoggettabilità della sentenza al ricorso per cassazione di cui all'art. 111, settimo comma, Cost., si debba applicare anche ai giudizi di appello pendenti relativi ad una sentenza venuta ad esistenza prima dell'entrata in vigore dell'innovazione legislativa. Con la seconda ordinanza (r. o. n. 610 del 2007) - emessa in un giudizio avente ad oggetto una sentenza concernente l'opposizione all'esecuzione spiegata per contestare sia il diritto di procedere in executivis sia la pignorabilità dei beni oggetto dell'esecuzione stessa - la Corte remittente espone che la sentenza impugnata è successiva all'entrata in vigore della disposizione sostitutiva, nei sensi suindicati, dell'art. 616 cod. proc. civ. Tutto ciò in punto di rilevanza della questione. 2.- Riguardo alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo premette che non intende mettere in discussione il consolidato orientamento secondo il quale lo svolgimento dei giudizi attraverso due gradi di merito non è principio costituzionalizzato, ma sostiene che la disciplina del processo, pur tenendo conto dei larghi margini di apprezzamento di cui gode il legislatore, deve corrispondere ai canoni della non irragionevolezza, della parità di trattamento per situazioni identiche e della non omologazione di fattispecie diverse. A tal proposito, la Corte d'appello invoca il precedente costituito dalla sentenza di questa Corte n. 69 del 1982, dichiarativa della illegittimità della disposizione che sott raeva all'appello le sentenze emesse in sede di opposizione al passivo fallimentare aventi ad oggetto crediti di lavoro, previdenziali o assistenziali. Sotto tali profili il giudice a quo ritiene irragionevole stabilire la non appellabilità di sentenze emesse in giudizi di opposizione all'esecuzione quando la categoria dei titoli esecutivi si è, da ultimo, ampliata fino ad includere numerose ipotesi di titoli stragiudiziali, in precedenza non assoggettati a verifica da parte di un giudice. La remittente ritiene, altresì, contrastante con il principio di eguaglianza l'aver sottratto all'appello le suddette sentenze sulle opposizioni all'esecuzione, mentre sono appellabili quelle emesse in giudizi di accertamento negativo del credito promossi dal debitore prima di essere assoggettato ad esecuzione, pur trattandosi in entrambi i casi di pronunce suscettibili di giudicato sulla esistenza del rapporto. Inoltre, la remittente denuncia, quale ulteriore violazione dell'art. 3 Cost., l'equiparazione, quanto al regime delle impugnazioni, delle opposizioni all'esecuzione a quelle agli atti esecutivi: le prime concernenti l'accertamento del rapporto, le altre mere irregolarità del procedimento esecutivo. Le ordinanze di remissione sostengono, infine, che la previsione della sola ricorribilità per cassazione delle sentenze di cui si tratta impedirebbe la piena realizzazione del diritto di difesa e contrasterebbe con i principi del giusto processo. 3.- In via preliminare deve essere disposta la riunione dei due giudizi, aventi ad oggetto la medesima disposizione di legge, censurata per motivi identici. Si rileva, anzitutto, l'inammissibilità della questione proposta con l'ordinanza n. 512 del 2006, per implausibilità della motivazione sulla rilevanza. Infatti, contrariamente a quanto assume la remittente, in caso di successione di leggi e in mancanza di una disciplina transitoria, il regime di impugnabilità dei provvedimenti giurisdizionali va desunto dalla normativa vigente quando essi sono venuti a giuridica esistenza (come osservato dalla giurisprudenza di legittimità: Cass., 12 maggio 2000, n. 6099, e 20 settembre 2006, n. 20414). E, nel caso in esame, la sentenza oggetto dell'appello era stata depositata ben prima dell'entrata in vigore della disposizione che prevede la non impugnabilità delle sentenze emesse in giudizi di opposizione all'esecuzione. 4.- Per differenti ragioni, anche la questione sollevata con l'ordinanza n. 610 del 2007 dalla stessa Corte di appello di Salerno non è ammissibile. La suddetta ordinanza, infatti, non ha i requisiti necessari per dare ingresso ad un giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale, in quanto presenta carenze nella esposizione dei fatti, contiene affermazioni non motivate nella ricostruzione del quadro normativo ed incorre in contraddizioni tra motivazione e richiesta di una sentenza di illegittimità costituzionale integralmente ablativa della disposizione impugnata. La remittente censura, anzitutto, la disposizione in argomento accusandola di trascurare la circostanza che - per le innovazioni intervenute negli ultimi anni, innovazioni che la Corte di Salerno non precisa - è aumentato il numero di atti non giurisdizionali aventi efficacia di titolo esecutivo, senza però indicare se, nel giudizio pendente dinanzi a sé, l'esecuzione cui il debitore si oppone si fondi su un titolo giudiziale o extragiudiziale. In secondo luogo, al fine di affermarne la totale equiparazione, riguardo all'oggetto, a un giudizio di accertamento negativo del credito fatto valere, la remittente implicitamente sostiene che il giudizio di opposizione all'esecuzione ha sempre ad oggetto l'accertamento dell'esistenza del rapporto ed è idoneo ad acquistare efficacia di giudicato su tale accertamento. Tale tesi, in mancanza di riferimenti a un orientamento giurisprudenziale univoco e consolidato (cosiddetto diritto vivente), avrebbe richiesto una congrua ancorché succinta motivazione, tanto più che dall'esposizione in fatto risulta che l'opposizione all'esecuzione nel processo a quo si fonda sull'impignorabilità dei beni assoggettati ad esecuzione, nonché sulla persistenza del diritto ad agire in executivis per intervenuta transazione. Ora, l'identificazione, in linea di principio, dell'oggetto del giudizio di opposizione all'esecuzione - e cioè lo stabilire se esso sia sempre l'accertamento dell'esistenza del rapporto di credito oppure sia limitato al riscontro della sussistenza dei requisiti dell'azione esecutiva, alternativa non priva di conseguenze sull'ampiezza del giudicato che potrà formarsi - costituisce un nodo problematico sul quale la Corte remittente avrebbe dovuto argomentare. Le considerazioni svolte consentono di rilevare, in primo luogo, che le censure appaiono motivate non congruamente, in quanto il giudizio di opposizione all'esecuzione può concernere anche ipotesi in cui questa si fonda su titoli giudiziali, e addirittura su sentenza passata in giudicato, titoli riguardo ai quali non si ravvisano le addotte cause di irragionevolezza dell'inappellabilità della sentenza che decide sulla opposizione all'esecuzione. A tal proposito il giudice a quo, pur argomentando sulle evenienze soltanto di alcune ipotesi di opposizione all'esecuzione, sollecita la emissione di una sentenza di illegittimità costituzionale totalmente caducatoria della disposizione censurata, e quindi anche riguardo alla sua applicabilità a fattispecie processuali per le quali i sospetti di incostituzionalità non vengono neppure prospettati. Si deve, infine, osservare che la remittente censura l'equiparazione, quanto al regime di non impugnabilità, delle opposizioni all'esecuzione a quelle agli atti esecutivi, in quanto le prime avrebbero ad oggetto non mere irregolarità bensì l'accertamento del rapporto di credito, ma solleva la questione basandosi sul non dimostrato presupposto che l'inappellabilità, per essere legittima, debba fondarsi sempre sulla medesima ratio e che non rientri nella libertà di apprezzamento del legislatore individuare rationes diverse, ciascuna idonea a fornirne ragionevole giustificazione. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 616, ultimo periodo, del codice di procedura civile, come sostituito dall'art. 14 della legge 24 febbraio 2006, n. 52 (Riforma delle esecuzioni mobiliari), sollevate, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte d'appello di Salerno con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 marzo 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 186, comma 2, e 187, comma 7, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come sostituito dall'art. 5 del decreto-legge 27 giugno 2003 n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della strada), convertito, con modificazioni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 214, promossi con ordinanze del 9 maggio 2007 dal Tribunale di Genova nel procedimento penale a carico di R.B. e del 18 ottobre 2005 dal Tribunale di Pesaro nel procedimento penale a carico di F.F., iscritte ai nn. 647 e 723 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 38 e 42, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella. Ritenuto che, con ordinanza del 9 maggio 2007, il Tribunale ordinario di Genova (r.o. n. 647 del 2003) ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 186, comma 2, e 187, comma 7, del decreto legislativo 30 aprile 1992 n. 285 (Nuovo codice della strada), come sostituiti dall'art. 5 del decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della strada), convertito, con modificazioni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 214; che, riferisce il rimettente, R.B. è stato citato a séguito di opposizione a decreto penale di condanna, emesso per il reato di cui all'art. 186, comma 2, del d.lgs. n. 285 del 1992, ascrittogli per avere circolato alla guida di un veicolo in stato di ebbrezza per l'uso di sostanze alcoliche; che, in tale sede, l'imputato ha eccepito l'incompetenza per materia del tribunale in composizione monocratica, ritenendo sussistere, in ordine al procedimento per il reato di cui all'art. 186, comma 2, del codice della strada, la competenza del giudice di pace, così come evidenziato in un recente orientamento della stessa Corte di cassazione; che, in quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente osserva che, nell'ambito del codice della strada, le disposizioni di cui agli artt. 186 e 187 avevano in precedenza sempre costituito un sistema unitario, attenendo allo stesso tipo di comportamento illecito, cioè la guida in stato di alterazione psico-fisica indotta dall'uso di sostanze «attive», quali l'alcool o gli stupefacenti, ed erano, quindi, in tal senso, entrambe preposte a garantire la sicurezza della circolazione stradale; che, riferisce il rimettente, successivamente, con la normativa istitutiva della competenza penale del giudice di pace, le contravvenzioni di cui agli artt. 186 e 187 del codice della strada sono state attribuite a tale organo giudicante e sottoposte a regime sanzionatorio differenziato; che, ricorda sempre il rimettente, a distanza di breve tempo, tale «nuovo regime» è stato modificato ulteriormente dal d.l. n. 151 del 2003, convertito dalla legge n. 214 del 2003, che ha conferito ai predetti reati una maggiore efficacia sanzionatoria, attraverso il ripristino delle originarie sanzioni penali (arresto e ammenda, da applicarsi congiuntamente); che, prosegue il rimettente, da tale scelta avrebbe dovuto discendere, quale logico corollario, l'attribuzione della competenza al giudice togato per entrambe le fattispecie, anche in considerazione della peculiarietà del procedimento penale in materia, caratterizzato da significative difficoltà di accertamento dei fatti; che invece, secondo il rimettente, nell'intervento del 2003 il legislatore, facendo ricorso ad una formula anomala («per l'irrogazione della pena») e collocando la disposizione attributiva della competenza all'interno del solo art. 186, C.d.S., avrebbe legittimato l'interpretazione in base alla quale sarebbe prevista, dopo l'intervento normativo del 2003, una diversa ripartizione della competenza; che tale ripartizione della competenza determinerebbe diversi dubbi di costituzionalità, sia perché sarebbe assolutamente inutile e antieconomica, sia perché irragionevolmente sottrarrebbe al tribunale la fattispecie (guida in stato di alterazione da sostanze psicotrope) in astratto più grave, determinando al contempo una ingiustificata disparità di trattamento in relazione a due fattispecie omogenee; che, con ordinanza del 18 ottobre 2005, il Tribunale ordinario di Pesaro (r.o. n. 723 del 2003) ha sollevato, con riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 del d.l. 27 giugno 2003, n. 151, convertito, con modificazioni, dalla legge 1 agosto 2003, n. 214, denunciando la disparità di trattamento della diversa attribuzione di competenza per le due fattispecie, sostanzialmente omogenee, di guida in stato di ebbrezza e di guida sotto l'influenza di sostanze stupefacenti; che il rimettente riferisce che, essendo stata richiesta dall'imputato l'ammissione all'oblazione, la questione sottoposta al suo esame sarebbe rilevante nel giudizio a quo; che, intervenuto in tale giudizio, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata. Considerato che il giudice monocratico del Tribunale ordinario di Genova dubita, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, della legittimità costituzionale degli articoli 186, comma 2, e 187, comma 7, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come sostituiti dall'art. 5 del decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della strada), convertito, con modificazioni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 214, nella parte in cui dette norme prevedono una competenza differenziata per il reato di guida sotto l'influenza dell'alcool; che il giudice monocratico presso il Tribunale di Pesaro dubita, con riferimento all'art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 5 del predetto d.l. 27 giugno 2003, n. 151, convertito, con modificazioni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 214, per la ritenuta disparità di trattamento della diversa attribuzione di competenza delle due fattispecie, sostanzialmente omogenee, di guida in stato di ebbrezza e di guida sotto l'influenza di sostanze stupefacenti; che le questioni sollevate riguardano la stessa norma, e prospettano censure analoghe con riferimento a parametri costituzionali parzialmente coincidenti, per cui è opportuno procedere alla trattazione congiunta dei relativi giudizi; che, per quanto riguarda la questione sollevata dal Tribunale di Genova con riferimento al parametro di cui all'art. 24 Cost., deve rilevarsi che l'ordinanza di rimessione è del tutto carente di motivazione e che, quanto alla questione sollevata con riferimento all'art. 3 Cost., la stessa ordinanza si caratterizza per l'indeterminatezza del petitum (da ultimo, ordinanze nn. 35 e 279 del 2007), non essendo chiaro quale sia l'intervento richiesto tra i due astrattamente ipotizzabili, tra loro peraltro diametralmente opposti; che, quanto alla questione sollevata dal Tribunale di Pesaro, l'ordinanza di rimessione è totalmente priva di descrizione della fattispecie oggetto del giudizio a quo, il che comporta - secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (si vedano, da ultimo, le ordinanze nn. 45, 72, 91 e 132 del 2007) - la manifesta inammissibilità della questione sollevata. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 186, comma 2, e 187, comma 7, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come sostituiti dall'art. 5 del decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della strada), convertito, con modificazioni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 214, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Genova, con l'ordinanza indicata in epigrafe; dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 del decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Nuovo codice della strada), convertito, con modificazioni, nella legge 1° agosto 2003, n. 214, sollevata, con riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Pesaro, con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Luigi MAZZELLA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 marzo 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 547, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2006), promossi con ordinanza del 30 novembre 2006 dal Tribunale di Lanciano, con ordinanza del 22 gennaio 2007 dal Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Nardò, e con ordinanza del 16 marzo 2007 dal Tribunale di Lucca, rispettivamente iscritte ai nn. 414, 455 e 596 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 23, 25 e 35, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro. Ritenuto che il Tribunale di Lanciano, con ordinanza del 30 novembre 2006, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 547, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2006< /SPAN>), il quale prevede che, per le violazioni di cui all'art. 110, nono comma, del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), commesse in data antecedente all'entrata in vigore della citata legge, si applicano le disposizioni vigenti al tempo delle violazioni stesse; che il rimettente, investito di un procedimento penale, premette che l'art. 1, comma 543, della legge n. 266 del 2005 ha sostituito l'art. 110, nono comma, del r.d. n. 773 del 1931, configurando quali illeciti amministrativi, e non più quali reati, «le violazioni previste in materia di installazione in esercizi pubblici di apparecchi automatici da gioco non conformi alle disposizioni di legge»; che, in deroga al «principio di retroattività della lex mitior» enunciato dall'art. 2 del codice penale, l'art. 1, comma 547, della legge n. 266 del 2005 stabilisce che per le violazioni poste in essere anteriormente alla data di entrata in vigore della stessa legge continua ad applicarsi la disciplina previgente; che, ad avviso del giudice a quo, tale disposizione si pone in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, poiché determina un'ingiustificata disparità di trattamento tra soggetti responsabili di violazioni identiche, in danno di coloro che, avendo commesso il fatto in epoca anteriore al 1° gennaio 2006, rimangono soggetti alla sanzione penale; che, invero, la deroga ai principi generali sulla successione delle leggi penali nel tempo non sarebbe sorretta da una sufficiente ragione giustificativa; che la questione di costituzionalità così prospettata sarebbe rilevante, «atteso che agli [...] imputati, cui si attribuisce un fatto commesso prima del 1° gennaio 2006, è contestata anche la violazione dell'art. 110 T.U.L.P.S.»; che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo di dichiarare la questione inammissibile per omessa descrizione della fattispecie oggetto del giudizio principale o, in subordine, di restituire gli atti per un nuovo esame della rilevanza alla luce dello ius superveniens, dato dall'art. 1, comma 86, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), che ha sostituito l'art. 110, nono comma, del r.d. n. 773 del 1931; che anche il Tribunale di Lucca, con ordinanza del 16 marzo 2007, pronunciata nell'ambito di un procedimento penale per il reato di cui all'art. 110, nono comma, del r.d. 773 del 1931, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 547, della legge n. 266 del 2005, in riferimento all'art. 3 della Costituzione; che il rimettente, dopo aver rilevato che il citato art. 110, nono comma, è stato nuovamente sostituito dall'art. 1, comma 86, della legge n. 296 del 2006, «senza variazioni essenziali», si duole che la deroga al principio di non ultrattività della legge penale, introdotta dalla norma censurata, non sia ragionevole, siccome contrastante con l'intento, manifestato con la legge n. 266 del 2005 e confermato con la legge n. 296 del 2006, di «abbandonare la sede penale e relegare le fattispecie di cui all'art. 110 T.U.L.P.S. ad un ambito eminentemente amministrativo»; che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo di dichiarare la questione infondata; che, infine, il Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Nardò, con ordinanza del 22 gennaio 2007, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 547, della legge n. 266 del 2005, in riferimento agli artt. 3, 10, primo comma, e 25, secondo comma, della Costituzione; che il giudice a quo, investito di un procedimento penale per il reato di cui all'art. 110, commi settimo, lettera a), e nono, del r.d. n. 773 del 1931, commesso prima dell'entrata in vigore della legge n. 266 del 2005, prospetta l'introduzione, ad opera della censurata norma, di una «singolare deroga [...] al principio d'irretroattività della legge penale meno favorevole», in contrasto con gli artt. 3 e 25, secondo comma, della Costituzione; che, invero, ascrivendo la fattispecie criminosa in contestazione alla più ampia categoria dei reati finanziari, il rimettente ritiene che l'«intervento settoriale», con cui è stata disposta, nel limitato ambito degli apparecchi da gioco, una deroga ai principi comuni in tema di successione di leggi penali, non sia giustificabile «neppure alla luce dell'art. 53 Cost.», dopo che il legislatore, con l'abrogazione dell'art. 20 della legge 7 gennaio 1929, n. 4 (Norme generali per la repressione delle violazioni delle leggi finanziarie) ex art. 24 del d. lgs. 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell'articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205), ha dimostrato il suo «deciso contrario orientamento» all'ultrattività delle norme penali finanziarie; che, inoltre, il rimettente deduce la violazione dell'art. 10, primo comma, della Costituzione, in quanto la disciplina di diritto intertemporale posta dall'art. 1, comma 547, della legge n. 266 del 2005 non sarebbe fondata «su alcun valore o interesse di analogo rilievo a quello tutelato dal principio generale, anche dell'ordinamento internazionale e comunitario, della lex mitior»; che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo di dichiarare la questione inammissibile, per non avere il rimettente considerato, nel formulare il giudizio sulla rilevanza, che l'art. 110, nono comma, del r.d. n. 773 del 1931 è stato sostituito dall'art. 1, comma 86, della legge n. 296 del 2006. Considerato che il Tribunale di Lanciano ed il Tribunale di Lucca dubitano, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 547, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2006), in forza del quale, per le violazioni di cui all'art. 110, nono comma, del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblic a sicurezza), commesse in data antecedente all'entrata in vigore della citata legge, si applicano le disposizioni vigenti al tempo delle violazioni stesse; che anche il Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Nardò, ha sollevato questione di costituzionalità dell'art. 1, comma 547, della legge n. 266 del 2005, evocando quali parametri del giudizio gli artt. 3, 10, primo comma, e 25, secondo comma, della Costituzione; che, avendo i rimettenti censurato la medesima disciplina di diritto intertemporale, sotto profili in parte coincidenti, deve essere disposta la riunione dei relativi giudizi; che il Tribunale di Lanciano ed il Tribunale di Lucca hanno omesso di descrivere le fattispecie concrete oggetto dei giudizi a quibus, essendosi limitati a riferire che agli imputati vengono contestate talune tra le molteplici violazioni di cui all'art. 110, nono comma, del r.d. n. 773 del 1931, nel testo vigente anteriormente alla novella di cui all'art. 1, comma 543, della legge n. 266 del 2005, senza neppure fornire puntuali indicazioni in ordine alla data dei commessi reati, precludendo, in tal modo, ogni possibilità di controllo sulla rilevanza delle questioni; che il Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Nardò, nel formulare il giudizio sulla rilevanza, non ha compiutamente ricostruito il quadro normativo di riferimento, non avendo argomentato, sia pure per escluderne l'incidenza, in merito alla nuova sostituzione dell'art. 110, nono comma, del r.d. n. 773 del 1931 ad opera dell'art. 1, comma 86, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007); che, pertanto, tutte le questioni di costituzionalità devono essere dichiarate inammissibili per difetto di motivazione sulla rilevanza. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 547, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2006), sollevate, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Lanciano e dal Tribunale di Lucca, nonché, in riferimento agli artt. 3, 10, primo comma, e 25, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Nardò, con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giuseppe TESAURO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 marzo 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'articolo 7-quater, commi 1 e 2, del decreto-legge 31 gennaio 2005, n. 7 (Disposizioni urgenti per l'università e la ricerca, per i beni e le attività culturali, per il completamento di grandi opere strategiche, per la mobilità dei pubblici dipendenti, e per semplificare gli adempimenti relativi a imposte di bollo e tasse di concessione, nonché altre misure urgenti), introdotto, in sede di conversione, dalla legge 31 marzo 2005, n. 43, promossi dal Tribunale di Roma in due procedimenti civili vertenti, rispettivamente, tra l'Azienda Policlinico Umberto I e l'Alse Medica s.r.l., e la stessa Azienda e la Kemihospital s.p.a. ed altri, con ordinanze del 5 maggio e del 3 luglio 2006, iscritte ai nn. 403 e 620 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 22 e 36, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di costituzione dell'Azienda Policlinico Umberto I; udito nella camera di consiglio del 13 febbraio 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante. Ritenuto che, nel corso di due giudizi di opposizione all'esecuzione, il Tribunale di Roma, con due ordinanze di identico contenuto, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, primo comma, 24, 25, 97, 101, 102, 104 e 113, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'articolo 7-quater, commi 1 e 2, del decreto-legge 31 gennaio 2005, n. 7 (Disposizioni urgenti per l'università e la ricerca, per i beni e le attività culturali, per il completamento di grandi opere strategiche, per la mobilità dei pubblici dipendenti, e per semplificare gli adempimenti relativi a impost e di bollo e tasse di concessione, nonché altre misure urgenti), introdotto, in sede di conversione, dalla legge 31 marzo 2005, n. 43; che la disposizione censurata appare al remittente in contrasto con i richiamati parametri costituzionali in quanto, stabilendo l'inefficacia, nei confronti dell'Azienda ospedaliera Policlinico Umberto I, di titoli - quali, appunto, i decreti ingiuntivi non opposti - «ormai coperti dal giudicato», violerebbe alcuni «elementari principi di civiltà giuridica», come il principio di ragionevolezza, quello di eguaglianza, il principio di rispetto delle funzioni del potere giudiziario e quello della difesa giurisdizionale dei diritti e degli interessi, sicuramente lesi da una norma in grado di incidere retroattivamente sul giudicato; che si è costituita, in entrambi i giudizi, l'Azienda Policlinico Umberto I, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza e/o non fondata nel merito; che è anche intervenuto, in tutti e due i giudizi, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la non fondatezza della questione. Considerato che il Tribunale di Roma solleva, in entrambi i giudizi, questione di legittimità costituzionale dell'art. 7-quater, commi 1 e 2, del decreto-legge 31 gennaio 2005, n. 7 (Disposizioni urgenti per l'università e la ricerca, per i beni e le attività culturali, per il completamento di grandi opere strategiche, per la mobilità dei pubblici dipendenti, e per semplificare gli adempimenti relativi a imposte di bollo e tasse di concessione, nonché altre misure urgenti), introdotto, in sede di conversione, dalla legge 31 marzo 2005, n. 43; che i giudizi, pertanto, possono essere riuniti e decisi con un unico provvedimento; che questa Corte, con la sentenza n. 364 del 2007, successiva alle ordinanze indicate in epigrafe, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'intero art. 7-quater attualmente censurato, ravvisandone il contrasto con gli artt. 3, 24, 102 e 113 Cost.; che, pertanto, alla luce di tale intervento - da ritenere, a tutti gli effetti, come ius superveniens - è necessario disporre la restituzione degli atti al giudice a quo. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, ordina la restituzione degli atti al Tribunale di Roma. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 marzo 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALE composta dai Signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 35, comma 26-quinquies, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, promosso con ordinanza del 28 febbraio 2007 dal Tribunale di Novara nel procedimento civile vertente tra F. A. e la S. s.p.a., iscritta al n. 519 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 58, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 13 febbraio 2008 il Giudice relatore Paolo Maddalena. Ritenuto che il Tribunale di Novara, con ordinanza emessa il 28 febbraio 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 35, comma 26-quinquies, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, nella parte in cui - inserendo la lettera e-ter all'art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), ed attribuendo alle commissioni tributarie la cognizione dei ricorsi proposti avverso il fermo di beni mobili registrati di cui all'art. 86 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 - devolve alla giurisdizione delle commissioni tributarie, anziché a quella del giudice ordinario in funzione di giudice dell'esecuzione, anche i ricorsi dei terzi opponenti che, rivendicando la proprietà del bene mobile registrato, non sono debitori esecutati e non hanno un contenzioso pendente dinanzi alle menzionate commissioni tributarie; che il giudizio a quo è stato promosso dal terzo proprietario, il quale si è opposto all'iscrizione da parte dell'esattoria del fermo amministrativo su veicoli non di proprietà del debitore contribuente esecutato; che, quanto alla rilevanza della questione, il Tribunale rimettente ne motiva la sussistenza, affermando che la norma censurata sembrerebbe deporre per l'esclusione della giurisdizione del giudice ordinario in ogni caso di fermo amministrativo (anche non collegato ad un ricorso di natura tributaria), sicché soltanto la declaratoria di illegittimità costituzionale della disposizione stessa, quanto meno per la parte in cui devolve alle commissioni tributarie anche i ricorsi avverso i provvedimenti di fermo amministrativo proposti dai terzi opponenti (non aventi alcun contenzioso tributario pendente dinanzi alle commissioni tributarie), può far ritenere la giurisdizione del giudice ordinario; che il giudice rimettente osserva che, anteriormente all'entrata in vigore dell'art. 35, comma 26-quinquies, del decreto-legge n. 223 del 2006, la Corte di cassazione, a sezioni unite, aveva affermato che il fermo amministrativo è atto funzionale all'espropriazione forzata e che la tutela giudiziaria esperibile nei confronti di esso si deve realizzare davanti al giudice ordinario; che il legislatore, consentendo la proposizione del ricorso avverso il provvedimento di fermo amministrativo dei beni mobili registrati soltanto dinanzi alle commissioni tributarie, avrebbe fatto venir meno la giurisdizione del giudice ordinario, tra l'altro dimenticando che l'esecuzione esattoriale viene adottata per la riscossione non solo dei crediti tributari, ma anche dei contributi INPS e INAIL e delle sanzioni amministrative pecuniarie inflitte dalla pubblica amministrazione (ad esempio, a seguito di contravvenzioni stradali), le cui controversie di merito non sono affatto devolute alle commissioni tributarie; che, ad avviso del rimettente, la scelta operata dal legislatore in ordine alla giurisdizione delle commissioni tributarie sui ricorsi avverso i provvedimenti di fermo amministrativo contrasterebbe con l'attuale ordinamento legislativo dell'esecuzione esattoriale, nel quale permane la giurisdizione del giudice ordinario: a quest'ultimo verrebbe sottratto soltanto il controllo di una fase - quella relativa al fermo - che ha natura cautelare e prodromica al pignoramento ed è pertanto già inserita nella fase esecutiva; che, secondo il giudice a quo, non sarebbe ragionevole né costituzionalmente legittimo che il legislatore abbia sottratto alla giurisdizione del giudice ordinario una fase del procedimento esecutivo esattoriale che, per tutto il resto, rimane sotto il controllo di quest'ultimo giudice; che il rimettente sottolinea inoltre che dinanzi alle commissioni tributarie vi sono per il ricorrente delle limitazioni alla facoltà di provare le proprie ragioni, dovendo pronunciarsi le predette commissioni, salva l'ammissione di consulenza tecnica d'ufficio, solo su documenti e mai su testimonianze, ammesse invece, seppur in limitati casi, dall'art. 621 del codice di procedura civile; che la scelta del legislatore di affidare un segmento del procedimento esecutivo esattoriale alla cognizione di un giudice speciale non sarebbe ispirato a ragionevolezza e contrasterebbe con l'ordinamento vigente, perché tra i principi generali cui il legislatore deve ispirarsi vi è quello fissato dall'art. 25 della Costituzione, per cui nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge: e nella fattispecie il giudice naturale sarebbe il giudice ordinario, la cui giurisdizione permane per tutto il resto del procedimento esecutivo esattoriale, salvo che per il fermo; che - ricorda conclusivamente il rimettente - altro principio fondamentale è quello dettato dall'art. 102 della Costituzione, per cui non possono essere istituiti giudici straordinari o giudici speciali e, ove già vi siano, come le commissioni tributarie, ai medesimi non potrebbero essere attribuiti altri compiti del tutto diversi da quelli strettamente connessi con le loro funzioni; che nel giudizio dinanzi alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per l'inammissibilità o, comunque, per la non fondatezza della questione; che, dopo aver sottolineato il contrasto tra il dispositivo e la motivazione dell'ordinanza di rimessione in relazione ai parametri evocati, la difesa erariale rileva che il giudice a quo ha omesso di verificare in modo analitico se siano consentite interpretazioni diverse della norma sottoposta a censura, tali da consentirne una lettura conforme ai principi costituzionali evocati; che, in ogni caso, la questione sarebbe infondata, perché il legislatore gode di ampia discrezionalità nel definire la disciplina del processo e dei relativi istituti, e le relative scelte sono censurabili sotto un profilo costituzionale solo ove si manifestino irragionevoli ed arbitrarie; che nella specie la scelta legislativa, mirante a risolvere le difficoltà interpretative della disciplina vigente, non sarebbe irragionevole, attesa la natura tributaria dell'atto sotteso all'emanazione del fermo amministrativo e la natura di parte nel relativo processo del concessionario procedente; che, con la norma censurata, il legislatore non avrebbe istituito ex novo una giurisdizione speciale, essendosi limitato a disciplinare un aspetto processuale del procedimento esecutivo esattoriale, attribuendo la competenza a conoscere delle questioni concernenti una misura generale cautelare finalizzata ad assicurare la riscossione delle imposte al giudice cui spetta di decidere del credito garantito; che l'ordinanza di rimessione - osserva infine l'Avvocatura - denoterebbe un uso distorto dell'incidente di costituzionalità al fine di sindacare scelte discrezionali del legislatore e tentare di conseguire l'avallo alla tesi interpretativa formulata. Considerato che il dubbio di legittimità costituzionale, sollevato dal Tribunale di Novara, investe l'art. 35, comma 26-quinquies, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, nella parte in cui - inserendo la lettera e-ter all'art. 19 del d.lgs. 31 dicembre 19 92, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), ed attribuendo alle commissioni tributarie la cognizione dei ricorsi proposti avverso il fermo di beni mobili registrati di cui all'art. 86 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 - devolve alla giurisdizione delle commissioni tributarie, anziché a quella del giudice ordinario in funzione di giudice dell'esecuzione, anche i ricorsi dei terzi opponenti che, rivendicando la proprietà del bene mobile registrato sottoposto a fermo, non sono debitori esecutati e non hanno un contenzioso pendente dinanzi alle menzionate commissioni tributarie; che, ad avviso del giudice rimettente, la norma denunciata violerebbe gli artt. 3 e 24 della Costituzione, perché il legislatore avrebbe irragionevolmente affidato un segmento del procedimento esecutivo esattoriale - quello relativo alla misura cautelare del fermo amministrativo, prodromica al pignoramento - alla cognizione delle commissioni tributarie, giudice speciale, sottraendola al giudice ordinario, la cui giurisdizione permane per tutto il resto del procedimento esecutivo esattoriale, salvo che per il fermo; ed avrebbe sottoposto a tale giurisdizione speciale anche il ricorso del terzo proprietario, con ricadute quanto al suo diritto di difesa, non essendo in alcun modo possibile dare ingresso alla prova testimoniale dinanzi alle commissioni tributarie; che questa Corte ha più volte affermato che il giudice è abilitato a sollevare la questione di legittimità costituzionale solo dopo aver accertato che sia impossibile seguire un'interpretazione da lui ritenuta non contraria a Costituzione e che, conseguentemente, è manifestamente inammissibile la questione sollevata senza che il rimettente abbia dimostrato di avere esperito il doveroso tentativo di pervenire, in via interpretativa, alla soluzione da lui ritenuta costituzionalmente corretta (tra le tante, ordinanze n. 108 e n. 68 del 2007); che l'ordinanza di rimessione muove da una lettura ampia della portata della norma denunciata per poi sollecitare, attraverso una pronuncia di illegittimità costituzionale, una riduzione dell'ambito della introdotta giurisdizione tributaria, senza spiegare perché la devoluzione alle commissioni tributarie dovrebbe operare anche là dove la controversia abbia ad oggetto l'opposizione promossa dal terzo che, senza contestare il rapporto tributario, si limiti a mettere in discussione l'appartenenza al contribuente debitore del bene mobile registrato sottoposto al fermo; che, pertanto, la questione sollevata dal Tribunale di Novara è manifestamente inammissibile. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 35, comma 26-quinquies, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Novara con l'ordinanza indicata in epigrafe.< o:p> Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Paolo MADDALENA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 marzo 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 18 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), promosso con ordinanza del 20 aprile 2007 dal Giudice di pace di Sorgono nel procedimento civile vertente tra Alessandro Murru e la Prefettura di Nuoro, iscritta al n. 599 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell'anno 2007.</ SPAN> Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 13 febbraio 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella Ritenuto che, con ordinanza del 20 aprile 2007, il Giudice di pace di Sorgono ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 18 della legge 24 novembre l981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), con riferimento agli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione, nella parte in cui non prevede espressamente un termine (diverso e più breve da quello di prescrizione delle sanzioni, di cui al successivo art. 28) per l'emissione dell'ordinanza-ingiunzione; che, riferisce il rimettente, in un procedimento di opposizione a ordinanza-ingiunzione del prefetto, conseguente alla mancata ottemperanza da parte di A.M. all'intimazione di arrestarsi, in violazione dell'art. 192 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), il ricorrente aveva eccepito, tra gli altri motivi di opposizione, che l'ordinanza stessa gli era stata notificata oltre quattro anni dopo la data del verbale di contestazione, dunque ben oltre il termine perentorio di centoventi giorni di cui ai commi 1 e 1-bis dell'art. 204 dello stesso d.lgs. n. 285 del 1992, con conseguente decadenza del prefetto dal potere sanzionatorio; che il rimettente, pur reputando inapplicabile alla concreta fattispecie l'invocato termine di cui all'art. 204, comma 1-bis, del codice della strada, che a suo dire sarebbe dettato esclusivamente per il caso del ricorso proposto dal trasgressore, non ha ritenuto di rigettare l'eccezione relativa alla dedotta intempestività dell'ordinanza-ingiunzione; che, riferisce il rimettente, la tesi dell'applicabilità, ai procedimenti sanzionatori previsti dalla legge n. 689 del 1981, del termine stabilito dall'art. 2, comma 3, della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di processo amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), da lui in precedenza condivisa, è stata smentita da una recente sentenza della Corte di Cassazione, pronunciata a sezioni unite; che, pertanto, non potendo trovare applicazione, in base a tale ultimo orientamento interpretativo, neppure questo termine, il censurato art. 18 della legge n. 689 del 1981 sarebbe incostituzionale in quanto, non prevedendo alcun termine alla durata del procedimento sanzionatorio, de facto fa coincidere tale durata con il periodo quinquennale di prescrizione delle sanzioni amministrative, di cui all'art. 28 della legge stessa; che, quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente dà atto che, a partire dalla richiamata sentenza di legittimità, è ormai pacificamente esclusa l'applicabilità all'ordinanza-ingiunzione del termine previsto dalla legge n. 241 del 1990, e ritenendo che, di conseguenza, il potere del prefetto di emettere ordinanza-ingiunzione in relazione alla fattispecie di inottemperanza all'ordine di arrestarsi non è soggetto ad alcun termine di decadenza, denuncia l'irragionevolezza della disparità di trattamento tra il trasgressore, che ha l'onere di inviare scritti difensivi entro il breve termine di trenta giorni dalla contestazione, e l'autorità amministrativa procedente, che avrebbe avanti a sé il termine, ben più lungo, di quasi 5 anni, previsto per la prescrizione delle s anzioni amministrative; che, secondo il rimettente, al principio di ragionevolezza fanno implicito riferimento sia gli artt. 24 e 111 della Costituzione, allorché assicurano alle parti la parità di diritti e la ragionevole durata del processo, sia l'art. 3 della Costituzione, che riconosce ai cittadini pari garanzie e trattamento, siano essi trasgressori del codice della strada o di altre norme amministrative, di natura diversa; che è intervenuto nel giudizio di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, deducendo l'inammissibilità della questione, sia sotto il profilo della incompleta descrizione della fattispecie, sia sotto quello della mancata esplorazione di una interpretazione costituzionalmente compatibile, nonché della mancanza di rilevanza della questione; che, nel merito, l'Avvocatura sottolinea l'infondatezza della questione relativa all'art. 3 Cost., per la disomogeneità del tertium comparationis, e, in riferimento a quelle relative agli artt. 24 e 111, per la dedotta inidoneità della normativa censurata, pur se intesa nel senso prospettato dal rimettente, a ledere il principio di difesa e quello del giusto processo. Considerato che il Giudice di pace di Sorgono dubita, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 18 della legge 24 novembre l981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui non prevede espressamente un termine (diverso e più breve da quello di prescrizione delle sanzioni, di cui al successivo art. 28) per l'emissione dell'ordinanza-ingiunzione; che, il rimettente, pronunciando sull'eccezione di violazione del termine previsto dall'art. 204, commi 1 e 1-bis del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), ha ritenuto tale termine inapplicabile alla fattispecie prevista dall'art. 192 dello stesso codice della strada, senza fornire adeguata motivazione né sulle ragioni in base alle quali, in un giudizio informato al principio della domanda, coerentemente con la conclusione interpretativa da lui prescelta, non ha rigettato l'opposizione, né sulle stesse ragioni dell'asserita inapplicabilità; che, pertanto, l'ordinanza è carente sotto il profilo della motivazione sulla rilevanza; che d'altra parte il rimettente, affidando a questa Corte l'individuazione in concreto di un termine di decadenza senza indicarlo, sollecita l'esercizio di un potere discrezionale, riservato al legislatore (si vedano, da ultimo, le ordinanze n. 347 e n. 380 del 2007), e allo stesso tempo, lasciando indeterminato il possibile intervento della Corte, omette di formulare un petitum specifico (v. da ultimo, ordinanze nn. 35 e 279 del 2007); che, pertanto, la questione deve ritenersi, sotto gli indicati profili, manifestamente inammissibile. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 18 della legge 24 novembre l981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Giudice di pace di Sorgono con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Luigi MAZZELLA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 marzo 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 65, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) e dell'articolo 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, promosso con ordinanza del 27 marzo 1996 dal Tribunale di Avezzano nel procedimento civile vertente tra Carattoli Gabriella ed altre ed il Comune di Massa d'Albe, iscritta al n. 609 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 13 febbraio 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro. Ritenuto che il Tribunale ordinario di Avezzano, con ordinanza del 27 marzo 1996, (pervenuta a questa Corte in data 1° agosto 2007) ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 42, terzo comma, e 97, primo e secondo comma, della Costituzione questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 65, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) e 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modifica zioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359; che, nel giudizio principale, alcuni privati hanno dedotto che il Comune di Massa d'Albe ha realizzato un inceneritore su di un appezzamento di terreno di loro proprietà e ne hanno chiesto la condanna al risarcimento del danno subito a causa della occupazione ed irreversibile trasformazione del fondo; che, secondo il rimettente, sussistendo i presupposti dell'accessione invertita, il risarcimento del danno dovrebbe essere quantificato in base al criterio stabilito dal «combinato disposto» dei citati artt. 1, comma 65, e 5-bis (recte: dall'art. 5-bis, comma 6, del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito dalla legge n. 359 del 1992, nel testo sostituito dall'art. 1, comma 65, della legge n. 549 del 1995); che, a suo avviso, la norma denunciata, disponendo la retroattività della nuova regola di liquidazione del danno violerebbe l'art. 3 Cost. sotto due profili: in primo luogo, realizzerebbe una ingiustificata discriminazione in danno dei proprietari dei suoli che non hanno percepito il risarcimento del danno in base ad una sentenza passata in giudicato, ovvero di transazione stipulata anteriormente all'entrata in vigore del d.l. n. 333 del 1992; in secondo luogo, non ragionevolmente equiparerebbe l'entità del risarcimento del danno conseguente da una condotta illegittima della Pubblica amministrazione all'indennità di espropriazione; che il citato art. 5-bis, comma 6, si porrebbe altresì in contrasto: con l'art. 24, Cost., in quanto l'irragionevole discriminazione sopra indicata comporterebbe una violazione del diritto di difesa; con l'art. 42, terzo comma, Cost., poiché avrebbe introdotto nell'ordinamento «una sorta di espropriazione di fatto legalizzata», equiparando, non ragionevolmente, accessione invertita ed espropriazione legittima; con l'art. 97, primo e secondo comma, Cost., in quanto l'accessione invertita, in violazione del principio di legalità, permetterebbe di eludere le disposizioni in materia di controlli e di competenze dei Comuni, delle Province, delle Regioni e dello Stato, favorendo il comportamento illecito d ei pubblici funzionari; che, nel giudizio innanzi a questa Corte, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile; che, secondo la difesa erariale, la questione non ha ad oggetto il combinato disposto degli artt. 1, comma 65, della legge n. 549 del 1995 e 5-bis del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, bensì il comma 6 dell'art. 5-bis di detto decreto-legge, introdotto dal citato art. 1, comma 65, dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla sentenza n. 369 del 1996, con conseguente manifesta inammissibilità della questione. Considerato che il dubbio di legittimità costituzionale sottoposto a questa Corte ha ad oggetto l'art. 5-bis, comma 6, del decreto legge n. 333 del 1992, convertito dalla legge n. 359 del 1992, nel testo sostituito dall'art. 1, comma 65, della legge n. 549 del 1995, nella parte in cui equiparava la disciplina del risarcimento del danno da accessione invertita alla disciplina concernente la determinazione della indennità dovuta nel caso di espropriazione per pubblica utilità; che, successivamente all'ordinanza di rimessione, questa Corte, con la sentenza n. 369 del 1996, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della norma censurata, nella parte in cui applica al «risarcimento del danno» i criteri di determinazione stabiliti per l'indennità di espropriazione per pubblica utilità; che, dopo questa sentenza, l'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) ha introdotto nel citato art. 5-bis il comma 7-bis, il quale ha stabilito una disciplina differenziata del risarcimento del danno rispetto a quella concernente l'indennità di espropriazione per pubblica utilità; che, infine, questa Corte, con sentenza n. 349 del 2007, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del comma 7-bis dell'art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992, aggiunto dall'art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996, il quale stabiliva il risarcimento del danno subito per effetto dell'occupazione acquisitiva da parte della pubblica amministrazione in misura non corrispondente al valore di mercato del bene occupato; che pertanto, alla stregua di dette pronunce di questa Corte, gli atti devono essere restituiti al Tribunale di Avezzano per un nuovo esame della rilevanza della questione. LA CORTE COSTITUZIONALE ordina la restituzione degli atti al Tribunale di Avezzano. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giuseppe TESAURO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 marzo 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 171, comma 1-bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), comma aggiunto dall'art. 33 della legge 7 dicembre 1999, n. 472 (Interventi nel settore dei trasporti. Ecologia) e poi sostituito dall'art. 3, comma 11, del decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della strada), convertito, con modificazioni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 214, e dell'art. 172, comma 8, lettera f) (recte: lettera e), del medesimo d.lgs. n. 2 85 del 1992, promossi, con n. 2 ordinanze del 18 agosto 2006, dal Giudice di pace di Chiaravalle Centrale nei procedimenti civili vertenti tra C. V., D.N. V. e la Prefettura di Catanzaro, iscritte ai nn. 535 e 536 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 32, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 27 febbraio 2008 il Giudice relatore Alfonso Quaranta. Ritenuto che il Giudice di pace di Chiaravalle Centrale, con due ordinanze di identico contenuto, ha sollevato - in riferimento all'art. 3 della Costituzione - questioni di legittimità costituzionale dell'art. 171, comma 1-bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), comma aggiunto dall'art. 33 della legge 7 dicembre 1999, n. 472 (Interventi nel settore dei trasporti. Ecologia) e poi sostituito d all'art. 3, comma 11, del decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della strada), convertito, con modificazioni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 214, e dell'art. 172, comma 8, lettera f) (recte: lettera e), del medesimo d.lgs. n. 285 del 1992; che il rimettente - senza nulla precisare, in entrambi i casi, in merito alla fattispecie oggetto del giudizio principale (e alla natura di quest'ultimo) - si limita ad evidenziare come, «tra i motivi di opposizione», il ricorrente avrebbe allegato di non aver indossato il casco protettivo, «al momento della contestazione», in quanto «affetto da una patologia» che sarebbe stata aggravata dall'uso di quel dispositivo di protezione; che il giudice a quo - nel rilevare che l'evenienza da ultimo indicata «non è ricompresa» tra quelle indicate dall'art. 171, comma 1-bis, del codice della strada, laddove, invece, il successivo art. 172, comma 8, lettera f) (recte: e) «indica, tra le persone esentate dall'obbligo di indossare le cinture di sicurezza», quelle che risultino, «sulla base di certificazione rilasciata dalla unità sanitaria locale o dalle competenti autorità di altro Stato membro delle Comunità europee», o affette «da patologie particolari», ovvero in «c ondizioni fisiche che costituiscono controindicazione specifica all'uso» delle cinture - censura «la disparità di trattamento che le norme sopra richiamate hanno creato tra i conducenti (e gli eventuali passeggeri) di ciclomotori e motoveicoli»; che, lamentando una «evidente violazione dell'art. 3 della Costituzione», il Giudice di pace di Chiaravalle Centrale ha disposto la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale «per quanto di sua competenza»; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e comunque non fondata. Considerato che il Giudice di pace di Chiaravalle Centrale, con due ordinanze di identico contenuto, ha sollevato - in riferimento all'art. 3 della Costituzione - questioni di legittimità costituzionale dell'art. 171, comma 1-bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), comma aggiunto dall'art. 33 della legge 7 dicembre 1999, n. 472 (Interventi nel settore dei trasporti. Ecologia) e poi sostituito dall'art. 3, comma 11, del decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della strada), convertito, con modificazioni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 214, e dell'art. 172, comma 8, lettera f) (recte: lettera e), del medesimo d.lgs. n. 285 del 1992; che, in via preliminare, deve essere disposta la riunione dei giudizi, atteso che la loro identità di oggetto ne giustifica l'unitaria trattazione ai fini di un'unica decisione; che entrambe le ordinanze di rimessione non contengono una descrizione delle fattispecie oggetto dei due giudizi principali; che, per costante giurisprudenza di questa Corte, è manifestamente inammissibile la questione sollevata ove, come nella ipotesi di omessa descrizione della fattispecie, sia impedito di vagliare l'effettiva applicabilità della norma denunciata al giudizio principale, con conseguente carenza di motivazione sulla rilevanza della questione (ex plurimis, ordinanze n. 426 e n. 421 del 2007). Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 171, comma 1-bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), comma aggiunto dall'art. 33 della legge 7 dicembre 1999, n. 472 (Interventi nel settore dei trasporti. Ecologia) e poi sostituito dall'art. 3, comma 11, del decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice del la strada), convertito, con modificazioni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 214, e dell'art. 172, comma 8, lettera f) (recte: lettera e), del medesimo d.lgs. n. 285 del 1992, sollevate - in riferimento all'art. 3 della Costituzione - dal Giudice di pace di Chiaravalle Centrale, con le ordinanze di cui in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Alfonso QUARANTA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 marzo 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della proposta di revoca del Consigliere di amministrazione della RAI-Radiotelevisione italiana S.p.a., Prof. Angelo Maria Petroni, presentata dal Ministro dell'economia e delle finanze, anche d'intesa con il Presidente del Consiglio dei ministri, in data 11 maggio 2007, e di tutti gli atti ad essa connessi e conseguenti, promosso con ricorso della Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, depositato in cancelleria l'8 novembre 2007 ed iscritto al n. 16 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2007, fase di ammissibilità. Udito nella camera di consiglio del 27 febbraio 2008 il Giudice relatore Gaetano Silvestri. Ritenuto che la Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, in persona del suo Presidente pro-tempore, ha promosso ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato contro il Ministro dell'economia e delle finanze ed il Presidente del Consiglio dei ministri, affinché la Co rte costituzionale dichiari che non spettava al Ministro dell'economia e delle finanze, anche d'intesa con il Presidente del Consiglio dei ministri, richiedere e votare nell'Assemblea degli azionisti della RAI-Radiotelevisione italiana S.p.a., la revoca di un consigliere di amministrazione in assenza di conforme deliberazione adottata dalla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi, e, per l'effetto, annulli la proposta di revoca presentata dal Ministro dell'economia e delle finanze in data 11 maggio 2007 e tutti gli atti ad essa connessi e conseguenti; che la ricorrente Commissione parlamentare sottolinea come il presente conflitto di attribuzione tragga origine dalla violazione delle attribuzioni ad essa costituzionalmente garantite, «dal momento che l'attività radiotelevisiva pubblica non può essere considerata appannaggio esclusivo delle scelte della maggioranza politica, ma deve essere svolta in modo conforme all'indirizzo politico costituzionale, che fa della libera circolazione delle idee e del pluralismo culturale uno degli assi portanti dell'ordinamento»; che la difesa della Commissione ricorda, in proposito, come tali funzioni di indirizzo e vigilanza siano state attribuite all'organo parlamentare «in considerazione dei caratteri di imparzialità, democraticità e pluralismo che devono informare lo svolgimento dell'attività del servizio pubblico radiotelevisivo» ed al precipuo scopo di evitare nella gestione del servizio «un'ingerenza diretta ed esclusiva dell'Esecutivo»; che, nel caso di specie, la ricorrente ritiene che le sue attribuzioni siano state lese in occasione della revoca del consigliere di amministrazione della RAI, Prof. Angelo Maria Petroni, da parte della relativa Assemblea degli azionisti, effettuata su richiesta del Ministro dell'economia e delle finanze, nella sua qualità di azionista di maggioranza, «in mancanza della previa necessaria deliberazione della Commissione parlamentare di vigilanza». In particolare, la difesa di quest'ultima deduce che il Ministro dell'economia avrebbe disatteso quanto previsto dall'art. 49, comma 8, del decreto legislativo 31 luglio 2005, n. 177 (Testo unico della radiotelevisione), secondo cui «Il rappresentante del Ministero dell'economia e delle finanze, nell e assemblee della società concessionaria convocate per l'assunzione di deliberazioni di revoca o che comportino la revoca o la promozione di azione di responsabilità nei confronti degli amministratori, esprime il voto in conformità alla deliberazione della Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi comunicata al Ministero medesimo»; che la difesa della ricorrente ricostruisce la sequenza degli eventi che hanno preceduto la revoca del consigliere Petroni, sottolineando come il Presidente della Commissione parlamentare di vigilanza abbia richiamato, più volte, l'attenzione del Ministro dell'economia e delle finanze «sull'esigenza istituzionale di porre in essere ogni iniziativa utile al più corretto esercizio del ruolo attribuito alla Commissione», con particolare riguardo all'ipotesi di revoca di un componente del consiglio di amministrazione; che il Ministro dell'economia ha replicato alle osservazioni del Presidente della Commissione, rilevando come il suddetto organo parlamentare sia chiamato a partecipare al solo procedimento di nomina dei membri del consiglio di amministrazione e non anche a quello di revoca o di responsabilità, precisando che il comma 8 dell'art. 49 del d.lgs. n. 177 del 2005, in virtù di quanto previsto dal comma 10 del medesimo articolo, non può trovare applicazione fino al novantesimo giorno successivo alla data di chiusura della prima offerta pubblica di vendita della RAI; che, secondo la difesa della Commissione, la tesi sostenuta dal Ministro sarebbe il frutto di un'interpretazione formalistica delle disposizioni di cui all'art. 49 del d.lgs. n. 177 del 2005, in contrasto con la ratio dell'intera disciplina recata dal d.lgs. n. 177; che, dalla ricostruzione degli eventi relativi alla revoca del consigliere Petroni, ed in particolare dal «complessivo comportamento» tenuto dal Ministro dell'economia, la ricorrente deduce una grave lesione delle competenze costituzionalmente garantite della Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi; che la ricorrente individua il parametro costituzionale del conflitto nel principio del pluralismo informativo deducibile dall'art. 21 della Costituzione; che siffatto principio, secondo la difesa della Commissione parlamentare, «tradotto nell'ambito dell'attività radiotelevisiva pubblica, comporta che essa non può essere considerata appannaggio esclusivo delle scelte di maggioranza (sia pure sotto il controllo parlamentare) ma richiede un adeguato contemperamento di tutti gli interessi in gioco alla luce dell'indirizzo politico costituzionale»; che, in proposito, la ricorrente ricorda come «l'affermazione della centralità del Parlamento nel governo del sistema radiotelevisivo pubblico» sia presente nella legislazione a partire dalla legge 14 aprile 1975, n. 103 (Nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva), oltre che nella giurisprudenza della Corte costituzionale, la quale con la sentenza n. 225 del 1974 «ha definitivamente aperto la strada verso la "parlamentarizzazione" del sistema radiotelevisivo pubblico, spostando il centro di determinazione delle scelte generali in tale settore a favore dell'organo rappresentativo della collettività nazionale»; che dall'esame di alcune pronunzie della Corte costituzionale, ed in particolare della sentenza n. 194 del 1987, la ricorrente trae la conclusione secondo cui il Parlamento, «e per esso la Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi», costituisce «la sede istituzionale naturale nella quale il principio pluralista, che deve informare l'intero settore radiotelevisivo pubblico, trova la più efficace garanzia, sia con riguardo all'accesso delle formazioni sociali all'uso dei mezzi radiotelevisivi, sia con riguardo a meccanismi che garantiscano la presenza di una pluralità di fonti di informazione»; che, per queste ragioni, secondo la difesa della Commissione, «la "parlamentarizzazione" del servizio radiotelevisivo [.] implica la doverosa vigilanza da parte dell'organo parlamentare su tutte le vicende relative alla RAI da cui potrebbero derivare conseguenze negative per la libera manifestazione del pensiero e per la libera informazione»; che, in merito alla propria legittimazione al conflitto, la ricorrente sottolinea come le commissioni parlamentari, titolari di specifiche attribuzioni autonomamente esercitate, siano organi legittimati al conflitto, «in quanto organi-potere che, pur facendo parte del più vasto complesso organizzatorio del Parlamento, occupano tuttavia una posizione peculiare e distinta nel sistema costituzionale e sono in grado di dichiarare la volontà dell'organo di cui sono promanazione»; che, in proposito, sono richiamate la sentenza n. 49 del 1998 e le ordinanze n. 137 del 2000 e n. 171 del 1997 della Corte costituzionale, con le quali è stata riconosciuta la competenza della Commissione parlamentare di vigilanza a dichiarare definitivamente la volontà della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica nella materia attinente all'informazione; che, in definitiva, la ricorrente ritiene che «proprio i poteri di indirizzo, di controllo, di vigilanza e altre competenze direttamente connesse al valore costituzionale del pluralismo» giustifichino «il compiuto riconoscimento delle attribuzioni di rilevanza costituzionale» della Commissione parlamentare di vigilanza; che, quanto alla legittimazione passiva del Ministro dell'economia e delle finanze e del Presidente del Consiglio dei ministri, la ricorrente evidenzia come la Corte costituzionale abbia interpretato l'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, «in modo rigoroso ma non tassativo», ritenendo, per un verso, che quello esecutivo non costituisca un "potere diffuso", e, per altro verso, che siano possibili alcune deroghe nel senso del riconoscimento della legittimazione passiva al singolo ministro; che, in particolare, secondo la difesa della Commissione, «il requisito indispensabile per la legittimazione sembra [.] essere quello dell'esercizio indipendente di attribuzioni di natura costituzionale»; che la ricorrente deduce l'esistenza di «valide argomentazioni» a sostegno della legittimazione ad essere parte di un conflitto tra poteri dello Stato anche del Ministro dell'economia e delle finanze, sul rilievo che questi, «quale azionista di maggioranza della RAI S.p.a., ricopre una funzione rappresentativa del Governo ma comunque autonoma rispetto allo stesso organo inteso nella sua interezza»; che, qualora non dovesse essere accolta siffatta tesi estensiva, la ricorrente ritiene sussistente la legittimazione passiva del Presidente del Consiglio dei ministri, «in proprio e quale organo legittimato ad esprimere la volontà dell'intero organo Governo», in virtù dell'art. 95, primo comma, Cost.; che, al riguardo, la difesa della Commissione sottolinea come il Presidente del Consiglio, in data 11 maggio 2007, abbia informato il Consiglio dei ministri della lettera di pari data, pervenutagli dal Ministro dell'economia, con la quale si proponeva la revoca del consigliere Petroni, ed abbia dichiarato, in una ulteriore missiva dello stesso 11 maggio 2007 indirizzata al Presidente della Commissione di vigilanza, di convenire «pienamente con la valutazione del Ministro dell'economia e delle finanze»; che, da quanto sopra riportato, la ricorrente trae la conclusione che «il Presidente del Consiglio dei ministri ha pienamente condiviso l'operato del Ministro e ha così dato pieno avallo governativo all'illegittimo comportamento qui contestato»; che, infine, la difesa della Commissione parlamentare si sofferma sull'oggetto del conflitto tra poteri, ricordando come esso possa consistere, non solo «nella rivendicazione, da parte di un organo, di un potere da altro usurpato», ma anche «nella contestazione, non della titolarità di un potere altrui, quanto della concreta modalità di esercizio dello stesso quando siffatta modalità impedisce, di fatto, all'altro organo il pieno svolgimento di competenze costituzionalmente assegnate»; che, nel presente conflitto, secondo la ricorrente, «è di tutta evidenza» che il Ministro dell'economia abbia agito «come se fosse l'unico soggetto titolare di poteri nella determinazione della revoca di un consigliere di amministrazione della RAI S.p.a., ignorando le attribuzioni di natura costituzionale spettanti alla ricorrente Commissione di vigilanza»; che il comportamento del Ministro sarebbe «ancor più grave, e quindi lesivo delle attribuzioni della Commissione di vigilanza, in quanto ha eluso in maniera evidente il rispetto di quel principio di "leale collaborazione"» che la Corte costituzionale ha espressamente prescritto anche nei rapporti tra organi dello Stato quando le reciproche competenze vengono ad intrecciarsi tra loro; che la difesa della Commissione conclude rilevando come tutto ciò «significhi esautorare il Parlamento rispetto ad una funzione che il sistema costituzionale gli ha limpidamente riconosciuto», così che l'operato del Ministro dell'economia rispecchierebbe «la nitida volontà di riassegnare il ruolo centrale nella gestione della Concessionaria del servizio pubblico all'organo esecutivo, e cioè ad un organo che per sua natura, non può che essere di parte», con conseguente violazione delle competenze costituzionalmente riconosciute alla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi; che, in data 21 febbraio 2008, la Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi ha depositato una memoria integrativa, con la quale insiste per l'ammissibilità del conflitto di attribuzione e richiama alcuni nuovi eventi intervenuti dopo la proposizione del presente ricorso; che, in particolare, la ricorrente fa riferimento alla sentenza del TAR Lazio, sez. III ter, 16 novembre 2007, n. 11271, con la quale è stata ritenuta illegittima, e quindi annullata, la «sequenza di atti» culminata con la revoca del consigliere Petroni, ed all'ordinanza del Consiglio di Stato, sez. IV, 4 dicembre 2007, n. 6284, con la quale è stata respinta l'istanza cautelare di sospensione degli effetti della richiamata sentenza del TAR Lazio ed è stata fissata l'udienza per la discussione del merito all'11 marzo 2008; che la ricorrente sottolinea come, a seguito delle citate pronunzie, non sia venuto meno l'interesse della Commissione ad agire per conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale; né siffatto interesse verrebbe meno nel caso in cui il giudizio di appello dovesse confermare l'illegittimità degli atti impugnati; che, al riguardo, la difesa della Commissione precisa come nel giudizio per conflitto di attribuzione venga in rilievo «non tanto e non solo l'illegittimità degli atti posti in essere dal Ministro dell'economia e delle finanze (con l'avallo del Governo nella persona del Presidente del Consiglio dei ministri) finalizzati alla revoca di un membro del Consiglio di amministrazione della RAI, quanto l'usurpazione delle competenze proprie della Commissione parlamentare di vigilanza che il comportamento posto in essere dal Ministro dell'economia e delle finanze ha determinato»; che, pertanto, secondo la difesa della Commissione, residuerebbe comunque l'interesse della ricorrente ad ottenere quella decisione sulla spettanza delle attribuzioni in contestazione che rappresenta l'oggetto principale del giudizio per conflitto tra poteri dello Stato; che la stessa difesa precisa come parimenti ininfluente sull'odierno conflitto di attribuzione sia lo scioglimento anticipato delle Camere, disposto con il d.P.R. 6 febbraio 2008, n. 19, poiché lo stesso non determina alcuna interruzione nello svolgimento delle funzioni della Commissione parlamentare di vigilanza, da intendersi comunque prorogata nell'attuale composizione fino alla prima riunione delle nuove Camere, ed anzi alcune delle attribuzioni della Commissione (e precisamente, quelle concernenti la disciplina delle campagne elettorali) «trovano il loro presupposto logico-giuridico proprio nell'avvenuto scioglimento delle Assemblee legislative»; che irrilevante risulterebbe altresì la circostanza che il mandato del Consiglio di amministrazione della RAI si concluderà nel maggio 2008, posto che, secondo la ricorrente, lo scioglimento anticipato delle Camere e la conseguente fissazione della prima riunione delle stesse per la data del 29 aprile 2008 rendono verosimile l'ipotesi che il Consiglio di amministrazione venga prorogato oltre la scadenza del mandato; che, per queste ragioni, il termine del mandato triennale - come pure la fine anticipata della legislatura - non può determinare, a detta della difesa della Commissione, «alcuna cessazione della materia oggetto del presente conflitto»; che, in data 25 febbraio 2008, la difesa della ricorrente ha depositato copia della delibera con la quale la Commissione parlamentare di vigilanza ha deciso la proposizione del presente conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. Considerato che, in questa fase del giudizio, a norma dell'art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, la Corte costituzionale è chiamata a deliberare, senza contraddittorio, circa l'esistenza o meno della «materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza», restando impregiudicata ogni ulteriore decisione, anche in punto di ammissibilità; che, per quanto riguarda i requisiti soggettivi, deve riconoscersi alla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi la qualifica di organo competente a dichiarare in via definitiva la volontà della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica (sentenze n. 502 del 2000 e n. 49 del 1998 ed ordinanze n. 195 del 2003, n. 137 del 2000 e n. 171 del 1997); che, ancora sotto il profilo soggettivo, il Ministro dell'economia e delle finanze non è organo competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere esecutivo, poiché quest'ultimo «non è un "potere diffuso", ma si risolve [.] nell'intero Governo, in nome dell'unità di indirizzo politico e amministrativo proclamata dall'art. 95, primo comma, Cost.» (ordinanza n. 123 del 1979), con la conseguenza che «i singoli ministri non sono legittimati ad essere parte di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, mentre tale legittimazione è stata riconosciuta nelle ipotesi [.] delle competenze direttamente ed esclusivamente conferite al Ministro della giustizia dagli artt. 107, secondo comma, e 110 della Costituzione [.] e del voto di s fiducia individuale espresso dal Parlamento nei confronti di un ministro» e che, pertanto, «al di fuori di queste fattispecie, è il Governo a prendere parte - in funzione dell'unità di indirizzo politico e amministrativo proclamata dal primo comma dell'art. 95 Cost. - ai conflitti tra poteri dello Stato» (ordinanza n. 221 del 2004); che invece il Presidente del Consiglio dei ministri è organo competente a dichiarare in via definitiva la volontà dell'intero Governo, in quanto, ai sensi dell'art. 95, primo comma, della Costituzione, «dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Mantiene l'unità di indirizzo politico ed amministrativo, promovendo e coordinando l'attività dei ministri»; che, pertanto, organi legittimati a stare in giudizio nel presente conflitto di attribuzione sono la Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi ed il Presidente del Consiglio dei ministri; che, quanto al requisito oggettivo del conflitto, la Commissione di cui sopra è investita di attribuzioni che discendono dall'esigenza di garantire il principio, fondato sull'art. 21 Cost., del pluralismo dell'informazione, in base al quale la presenza di un organo parlamentare di indirizzo e vigilanza serve ad evitare che il servizio pubblico radiotelevisivo venga gestito dal Governo in modo «esclusivo o preponderante» (sentenza n. 225 del 1974); che le asserite lesioni, prodotte da atti governativi, delle attribuzioni della Commissione parlamentare inciderebbero, secondo la prospettazione della ricorrente, sulla funzione di garanzia di quest'ultima, costituzionalmente fondata e riconosciuta dalla giurisprudenza di questa Corte; che, in conclusione, in questa fase delibativa, il ricorso va dichiarato ammissibile nei soli confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, salva e impregiudicata la pronuncia definitiva anche sul punto relativo alla ammissibilità; che il ricorso deve essere conseguentemente notificato al Presidente del Consiglio dei ministri, ma non anche al Ministro per l'economia e delle finanze per i motivi prima enunciati. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara ammissibile, ai sensi dell'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il conflitto di attribuzione proposto dalla Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi nei confronti del Governo della Repubblica, con il ricorso indicato in epigrafe; dispone: a) che la cancelleria della Corte dia immediata comunicazione della presente ordinanza alla ricorrente Commissione parlamentare per l'indirizzo generale e la vigilanza dei servizi radiotelevisivi; b) che, a cura della ricorrente, il ricorso e la presente ordinanza siano notificati al Governo della Repubblica, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri, entro il termine di sessanta giorni dalla comunicazione di cui al punto a), per essere successivamente depositati, con la prova dell'avvenuta notifica, presso la cancelleria di questa Corte entro il termine di venti gio rni dalla notificazione, a norma dell'art. 26, comma 3, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Gaetano SILVESTRI, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 13 marzo 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA |