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Deposito del 14/03/2008 (dalla 62 alla 69)

 
S.62/2008 del 10/03/2008
Udienza Pubblica del 15/01/2008, Presidente BILE, Relatore TESAURO


Norme impugnate: Artt. 3, lett. w), n. 1; 5, c. 1°, lett. b); 7, c. 1°, lett. b); 19, c. 3°, lett. b); 20 e 24 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 26/05/2006, n. 4.

Oggetto: Ambiente - Norme della Provincia di Bolzano - Gestione dei rifiuti e tutela del suolo - Classificazione come "materia prima secondaria" dei rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero rispondenti a determinate specifiche nazionali ed internazionali - Esenzione dalla normativa sui rifiuti a condizione che il detentore non se ne disfi, non abbia l'intenzi one o non abbia l'obbligo di disfarsene; Terre e rocce da scavo e residui della lavorazione della pietra non contaminati, destinati all'effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati - Esenzione dalla normativa sui rifiuti; Trasporti di rifiuti speciali che non eccedano i 30 chilogrammi o i 30 litri al giorno, effettuati dai produttori - Esenzione dalla disciplina del formulario di identificazione dei rifiuti, senza distinguere tra rifiuti pericolosi e non pericolosi; Iscrizione all'Albo nazionale gestori ambientali - Possibilità che la Giunta preveda, in deroga alla disciplina statale, discipline semplificate o l'esenzione dall'obbligo di iscrizione; Collaudo ed autorizzazione degli impianti di recupero e di smaltimento dei rifiuti - Esercizio provvisorio a seguito della semplice domanda in attesa dell'accertamento della regolarità dell'impianto e del rilascio dell'autorizzazione.

Dispositivo: illegittimità costituzionale - inammissibilità
Atti decisi: ric. 94/2006
S.63/2008 del 10/03/2008
Udienza Pubblica del 12/02/2008, Presidente BILE, Relatore TESAURO


Norme impugnate: Legge 27/12/2006, n. 296 (legge finanziaria 2007); discussione limitata all'art. 1, c. 853°.

Oggetto: Impresa - Fondo per il finanziamento degli interventi consentiti dagli Orientamenti UE sugli aiuti di Stato per il salvataggio e la ristrutturazione delle imprese in difficoltà - Interventi da disporsi sulla base di criteri e modalità fissati dal CIPE e da attuarsi attraverso le società per azioni Sviluppo Italia.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale - inammissibili tà
Atti decisi: ric. 10 e 14/2007
S.64/2008 del 10/03/2008
Camera di Consiglio del 13/02/2008, Presidente BILE, Relatore GALLO


Norme impugnate: Art. 2 del decreto legislativo 31/12/1992, n. 546, come modificato dall'art. 3 bis, c. 1°, lett. b), del decreto legge 30/09/2005, n. 203, introdotto dalla legge 02/12/2005, n. 248.

Oggetto: Giurisdizioni speciali - Giurisdizione tributaria - Controversie relative alla debenza del canone per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche - Impugnazione della relativa cartella di pagamento emessa dal concessionario della riscossione dei tributi - Illogicità dell'attribuzione della controversia alla giurisdizione delle commission i tributarie, anziché alla giurisdizione del giudice ordinario in coerenza con il diritto vivente circa la ritenuta natura non tributaria del canone dovuto.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ord. 459/2007
O.65/2008 del 10/03/2008
Udienza Pubblica del 15/01/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 160 del codice penale, come modificato dall'art. 6 della legge 05/12/2005, n. 251.

Oggetto: Reati e pene - Interruzione del corso della prescrizione - Avviso di conclusione delle indagini di cui all'art. 415-bis cod. proc. pen. - Mancata previsione quale atto interruttivo.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 313/2006
O.66/2008 del 10/03/2008
Camera di Consiglio del 13/02/2008, Presidente BILE, Relatore TESAURO


Norme impugnate: Art. 5 bis, c. 7° bis (aggiunto dall'art. 3, c. 65°, della legge 23/12/1996, n. 662) del decreto legge 11/07/1992, n. 333, convertito con modificazioni in legge 08/08/1992, n. 359.

Oggetto: Espropriazione per pubblica utilità - Occupazioni appropriative intervenute anteriormente al 30 settembre 1996 - Criteri di liquidazione del danno in misura ridotta rispetto al valore venale degli immobili.

Dispositivo: restituzione atti - jus supervenie ns
Atti decisi: ord. 712/2007
O.67/2008 del 10/03/2008
Camera di Consiglio del 27/02/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Artt. 438, 516 e 517 del codice di procedura penale.

Oggetto: Processo penale - Dibattimento - Nuove contestazioni - Contestazione "tardiva" da parte del pubblico ministero di un reato connesso o concorrente con quello contestato nel decreto che dispone il giudizio - Facoltà dell'imputato di richiedere il giudizio abbreviato in relazione alla nuova imputazione - Mancata previsione.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 505/2005
O.68/2008 del 10/03/2008
Camera di Consiglio del 27/02/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 47, c. 2°, ultima parte, del codice di procedura penale.

Oggetto: Processo penale - Rimessione del processo - Effetti della richiesta di rimessione - Ipotesi di riproposizione di richiesta già dichiarata inammissibile o rigettata - Esclusione della sospensione del processo solo se la richiesta non sia fondata su elementi nuovi rispetto a quelli di altra già rigettata o dichiarata inammissibile.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 533/2005
O.69/2008 del 10/03/2008
Camera di Consiglio del 27/02/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 517 del codice di procedura penale.

Oggetto: Processo penale - Dibattimento - Nuove contestazioni - Contestazione suppletiva tardiva da parte del pubblico ministero di circostanze aggravanti, in particolare della recidiva - Rimessione in termini dell'imputato per la richiesta del rito abbreviato - Mancata previsione.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 713/2007

pronuncia successiva

SENTENZA N. 62

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

    - Franco            BILE               Presidente

    - Giovanni Maria    FLICK                Giudice

    - Francesco         AMIRANTE                "

    - Ugo               DE SIERVO               "

    - Paolo             MADDALENA               "

    - Alfio             FINOCCHIARO             "

    - Alfonso           QUARANTA                "

    - Franco            GALLO                   "

    - Luigi             MAZZELLA                "

    - Gaetano           SILVESTRI               "

    - Maria Rita        SAULLE                  "

    - Giuseppe          TESAURO                 "

    - Paolo Maria       NAPOLITANO              "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 3, comma 1, lettera w), numero 1), 5, comma 1, lettera b), 7, comma 1, lettera b), 19, comma 3, lettera b), 20 e 24, commi 1 e 2, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 26 maggio 2006, n. 4 (La gestione dei rifiuti e la tutela del suolo), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri notificato il 9-18 agosto 2006, depositato in cancelleria il 10 agosto 2006 ed iscritto al n. 94 del registro ricorsi 2006.

    Visto l'atto di costituzione della Provincia autonoma di Bolzano;

    udito nell'udienza pubblica del 15 gennaio 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;

    uditi l'avvocato dello Stato Glauco Nori per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Giuseppe Franco Ferrari per la Provincia autonoma di Bolzano.

Ritenuto in fatto

    1. - Con ricorso notificato il 9-18 agosto 2006, depositato in cancelleria il 10 agosto, il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 19, comma 3, lettera b), 20 e 24, commi 1 e 2, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 26 maggio 2006, n. 4 (La gestione dei rifiuti e la tutela del suolo), in riferimento all'art. 9, numero 10, del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), nonché questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, lettera w), numero 1), 5, comma 1, lettera b), e 7, comma 1, lettera b), della medesima legge, in riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione.

    1.1. - Il ricorrente premette in via generale che la disciplina dei rifiuti è riconducibile ad un àmbito, la "tutela dell'ambiente e dell'ecosistema" di cui all'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, che, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, non è configurabile come materia oggetto di competenza statale circoscritta e delimitata, delineando piuttosto una materia "trasversale", in ordine alla quale si manifestano competenze diverse, anche regionali (sentenza n. 407 del 2002).

    Passando poi ad individuare la base giuridica delle norme impugnate, il ricorrente precisa che essa «dovrebbe essere la tutela della salute», riservata dall'art. 9, numero 10, dello statuto di autonomia alla potestà legislativa concorrente della Provincia, «nei limiti indicati dall'art. 5», vale a dire «nei limiti del precedente articolo» - perciò «in armonia con la Costituzione e i principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica e con il rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali» - «e dei principi stabiliti dalle leggi dello Stato».

    Sull'assunto, dunque, che l'intervento legislativo della Provincia abbia come «base statutaria» il citato art. 9, numero 10, il quale impone l'armonia con i principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica, il Presidente del Consiglio dei ministri deduce che gli artt. 19, comma 3, lettera b), 20 e 24, commi 1 e 2, della legge provinciale n. 4 del 2006 violerebbero i principi enunciati, rispettivamente, dagli artt. 193, comma 4, 212 e 208 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), eccedendo i limiti della competenza concorrente attribuita alla Provincia in materia di "igiene e sanità".

    In particolare, l'art. 19, comma 3, lettera b), della legge provinciale, prevedendo, senza distinguere tra rifiuti pericolosi e rifiuti non pericolosi, che le disposizioni di cui al comma 1 - secondo cui durante il trasporto effettuato da enti o imprese i rifiuti sono accompagnati da un formulario di identificazione - non si applicano «ai trasporti di rifiuti speciali che non eccedano la quantità di 30 chilogrammi o di 30 litri al giorno, effettuati dal produttore dei rifiuti speciali stessi», si porrebbe in contrasto con il principio desumibile dall'art. 193, comma 4, del d. lgs. n . 152 del 2006, che esenta dall'obbligo relativo al formulario di identificazione unicamente i «trasporti di rifiuti non pericolosi effettuati dal produttore dei rifiuti stessi, in modo occasionale e saltuario, che non eccedano la quantità di trenta chilogrammi o di trenta litri».

    Inoltre, l'impugnato art. 20, comma 2, con riguardo all'obbligo e alle modalità di iscrizione all'Albo nazionale gestori ambientali di cui al comma 1, autorizza la Giunta provinciale ad «emanare ai sensi dell'articolo 32 norme in deroga, onde consentire l'iscrizione con procedure semplificate per determinate attività ossia l'esenzione dall'obbligo di iscrizione», così violando il principio dettato dall'art. 212 del d. lgs. n. 152 del 2006, secondo cui l'iscrizione all'Albo, salvo i casi di esonero elencati nella stessa norma, è requisito per lo svolgimento delle attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi, di raccolta e trasporto di rifiuti pericolosi, di bonifica dei siti, di bo nifica dei beni contenenti amianto, di commercio ed intermediazione dei rifiuti senza detenzione dei rifiuti stessi, nonché di gestione di impianti di smaltimento e di recupero di titolarità di terzi e di gestione di impianti mobili di smaltimento e di recupero di rifiuti.

    Infine, l'art. 24 della legge provinciale - stabilendo, al comma 1, che «Almeno 15 giorni prima della messa in esercizio dell'impianto, l'interessato presenta all'Agenzia provinciale la domanda di collaudo ed autorizzazione dell'impianto. Con la presentazione della richiesta di autorizzazione l'impianto si intende provvisoriamente autorizzato a partire dalla data dell'attivazione indicata nella richiesta stessa» e, al comma 2, che «Entro 90 giorni dalla messa in esercizio dell'impianto l'Agenzia provinciale accerta la regolarità dell'impianto e rilascia l'autorizzazione [.]» - consentirebbe la messa in esercizio di un impianto di smaltimento o recupero di rifiuti prima della valutazione in ordine alla sua regolarità, al di fuori della previsione di cui all'art. 208 del d. lgs . n. 152 del 2006, che disciplina l'autorizzazione unica per i nuovi impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti senza configurare alcuna forma di autorizzazione tacita provvisoria.

    1.2. - Il ricorrente deduce altresì la violazione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione ad opera degli artt. 3, comma 1, lettera w), numero 1, e 5, comma 1, lettera b), della legge provinciale n. 4 del 2006.

    La prima delle due norme denunciate qualifica come materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche i rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero e rispondenti a determinate specifiche nazionali ed internazionali, mentre il citato art. 5, comma 1, lettera b), stabilisce che ai materiali, alle sostanze e agli oggetti che, senza necessità di operazioni di trasformazione, già presentano le caratteristiche delle materie prime secondarie non si applica la normativa sui rifiuti, a condizione che il detentore non se ne disfi, non abbia l'intenzione o non abbia l'obbligo di disfarsene.

    Tale disciplina contrasterebbe con la normativa comunitaria in tema di rifiuti, come dimostrato dalla circostanza che la Commissione europea, con lettera n. 2005/4051 del 5 luglio 2005, aveva contestato all'Italia - in relazione all'art. 1, commi 25, 26, 27 e 29, della legge statale 15 dicembre 2004, n. 308 (Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione), che pure classificava i rottami ferrosi e non ferrosi tra le materie prime secondarie - la violazione della direttiva 75/442/CE del 15 luglio 1975 (Direttiva del Consiglio< /SPAN> relativa ai rifiuti), poiché quest'ultima non prevedeva alcuna esclusione dal suo àmbito di applicazione per i rottami derivanti come scarti di lavorazione oppure originati da cicli produttivi o di consumo e riutilizzabili nell'industria siderurgica o metallurgica.

    Analogamente, l'art. 1, primo comma, lettera a), della vigente direttiva 2006/12/CE del 5 aprile 2006 (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti) definisce «rifiuto» qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi.

    1.3. - L'art. 7, comma 1, lettera b), della legge provinciale n. 4 del 2006, escludendo dall'applicazione della medesima legge le terre e le rocce da scavo ed i residui della lavorazione della pietra non contaminati, destinati all'effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, violerebbe l'art. 117, primo comma, della Costituzione, in quanto si porrebbe in contrasto con la definizione di rifiuto data dalla direttiva 2006/12/CE, nel cui allegato I, al punto Q11, sono indicati tra le categorie di rifiuti i «residui provenienti dall'estrazione e dalla preparazione delle materie prime (ad esempio residui provenienti da attività minerarie o petrolifere, ecc.)».

    A sostegno delle censure, il ricorrente richiama alcune sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee, secondo cui, in base ai principi di precauzione e dell'azione preventiva, la nozione di rifiuto non può essere interpretata in senso restrittivo e, dunque, la natura di residuo di produzione di una sostanza può essere esclusa solo allorquando il suo riutilizzo non sia solo eventuale, ma certo, senza trasformazione preliminare e nel corso del processo di produzione (Corte di giustizia, sentenza 15 giugno 2000, cause riunite C-418/97 e C-419/97, ARCO Chemie Nederland Ltd.; sentenza 18 aprile 2002, causa C‑9/00, Palin Granit Oy; sentenza 11 novembre 2004, causa C-457/02, Niselli).

    1.4. - Nella memoria successivamente depositata, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ripetuto le argomentazioni svolte nel ricorso e dedotto un ulteriore profilo d'incostituzionalità dell'art. 19, comma 3, lettera b), della legge provinciale, il quale avrebbe «esteso l'esclusione ai trasporti che non eccedano la quantità di 30 chilogrammi o di 30 litri al giorno, effettuati dal produttore dei rifiuti speciali stessi, trasporti che non possono certamente essere definiti occasionali e saltuari come è richiesto dalla legge statale»; infine , ha ribadito che gli artt. 3, comma 1, lettera w), numero 1, e 5, comma 1, lettera b), della legge provinciale n. 4 del 2006 sono «da esaminare in coordinamento tra di loro».

    2. - Nel giudizio si è costituita la Provincia autonoma di Bolzano, chiedendo, anche nella memoria depositata in prossimità dell'udienza, che la Corte dichiari il ricorso inammissibile o, comunque, infondato.

    In via preliminare, riguardo alle censure relative all'inosservanza degli obblighi comunitari, la resistente eccepisce la carenza d'interesse del ricorrente, sul rilievo che la legge impugnata «non ha fatto altro che ricalcare in larga parte quella nazionale». Inoltre, l'atto introduttivo - omettendo di prendere in considerazione altresì gli artt. 11 e 117, quinto comma, della Costituzione, nonché l'art. 9 dello statuto di autonomia, «che riconosce espressamente i limiti posti dagli artt. 4 e 5» alla competenza legislativa provinciale - non avrebbe correttamente individuato i parametri del giudizio di costituzionalità. In ogni caso, le doglianze non sarebbero sorrette da una sufficiente motivazione.

    Anche le questioni promosse in riferimento all'art. 9, numero 10, dello statuto speciale sarebbero inammissibili, poiché il ricorrente non avrebbe spiegato «per quale ragione debba essere preso in considerazione quale parametro statutario violato il predetto art. 9, n. 10, d.P.R. n. 670/1972, piuttosto che l'art. 8, n. 6».

    Nel merito, la legge n. 4 del 2006 sarebbe stata emanata dalla Provincia nell'esercizio della potestà esclusiva in materia di "tutela del paesaggio" (art. 8, numero 6, dello statuto di autonomia), «con risvolti rispetto a numerose altre materie nelle quali alla Provincia autonoma è attribuita parimenti la competenza primaria», quale l'urbanistica; non opererebbe, di conseguenza, il limite dei principi stabiliti dalle leggi dello Stato di cui all'art. 5 dello statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol.

    Pertanto, in virtù di detta competenza, ad essa spetterebbe «il potere di disciplinare autonomamente le procedure di iscrizione all'albo dei trasportatori o anche disciplinare le esenzioni dall'iscrizione».

    Inoltre, il testo dell'art. 19, comma 3, lettera b), sarebbe «pressoché identico» a quello dell'art. 193, comma 4, del d. lgs. n. 152 del 2006 e, introducendo una deroga agli obblighi relativi al formulario d'identificazione ragionevole e giustificabile, «non intacca i nuclei essenziali del contenuto normativo della legge statale». D'altra parte, tale deroga non riguarderebbe, in base alla giurisprudenza della Corte costituzionale, norme di riforma economico-sociale (sentenza n. 312 del 2003).

    L'art. 24 della legge provinciale avrebbe istituito un sistema più rigoroso di quello delineato dall'art. 208 del d. lgs. n. 152 del 2006, prevedendo non solo l'approvazione del progetto, ma anche una verifica obbligatoria, non eventuale, sull'effettivo funzionamento dell'impianto provvisoriamente autorizzato.

    Infine, l'art. 7, comma 1, lettera b), della legge provinciale, secondo la resistente, è compatibile con i principi affermati nella materia dal giudice comunitario (Corte di giustizia, sentenza 18 aprile 2002, causa C‑9/00, Palin Granit Oy; sentenza 11 novembre 2004, causa C-457/02, Niselli), in quanto, per un verso, ammettendo alle esclusioni solo i terreni non contaminati, impone che la determinazione della contaminazione avvenga in maniera preventiva, non già a destinazione; per altro verso, stabilisce modalità che garantiscono un riutilizzo effettivo, dunque certo e non solo eventuale, dei residui.

    Neppure le previsioni relative alle materie prime secondarie per attività siderurgiche e metallurgiche si porrebbero in contrasto con la evocata direttiva comunitaria sui rifiuti, posto che «a partire dalla trasformazione dei rottami ferrosi in prodotti siderurgici, essi non possono più essere distinti da altri prodotti siderurgici scaturiti da materie prime primarie, salvo naturalmente il caso in cui vengano abbandonati» (Corte di giustizia, sentenza 11 novembre 2004, causa C-457/02, Niselli).

Considerato in diritto

    1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 19, comma 3, lettera b), 20 e 24, commi 1 e 2, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 26 maggio 2006, n. 4 (La gestione dei rifiuti e la tutela del suolo), in riferimento all'art. 9, numero 10, del d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), nonché questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, lettera w), numero 1, 5, comma 1, lettera b), e 7, comma 1, lettera b), della medesima legge, in riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione.

    2. - Il primo gruppo di questioni riguarda gli artt. 19, comma 3, lettera b), 20 e 24, commi 1 e 2, della legge n. 4 del 2006, i quali, secondo la prospettazione del ricorrente, eccederebbero i limiti della competenza concorrente in materia di "igiene e sanità", attribuita alla Provincia dall'art. 9, numero 10, dello statuto di autonomia, ponendosi in contrasto con i «principi dell'ordinamento giuridico della Repubblica» fissati, rispettivamente, negli artt. 193, comma 4, 212 e 208 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale).

    2.1. - In particolare, l'art. 19, comma 3, lettera b), della legge provinciale è impugnato in quanto, stabilendo, «senza distinguere tra rifiuti pericolosi e rifiuti non pericolosi», che le disposizioni di cui al comma 1 - secondo cui durante il trasporto effettuato da enti o imprese i rifiuti sono accompagnati da un formulario di identificazione - «non si applicano ai trasporti di rifiuti speciali che non eccedano la quantità di 30 chilogrammi o di 30 litri al giorno, effettuati dal produttore dei rifi uti speciali stessi», avrebbe esteso illegittimamente ai rifiuti pericolosi l'esenzione dal generale obbligo relativo al formulario di identificazione introdotta dall'art. 193, comma 4, del d. lgs. n. 152 del 2006.

    Le ulteriori censure formulate nella memoria depositata in prossimità dell'udienza pubblica in relazione al citato art. 19, comma 3, lettera b), non possono essere prese in considerazione, in quanto siffatta memoria è destinata esclusivamente ad illustrare e chiarire le ragioni svolte nell'atto introduttivo, non essendo possibile con essa dedurne di nuove (sentenza n. 430 del 2007).

    2.2. - L'art. 20 della legge provinciale - da intendersi impugnato nel solo comma 2, il comma 1 limitandosi a ribadire che «Per lo svolgimento della attività di raccolta e trasporto di rifiuti, [...] è prevista l'iscrizione all'Albo nazionale gestori ambientali, di seguito denominato albo nazionale, ai sensi dell'articolo 212 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152» - prevede, con riguardo all'obbligo e alle modalità di iscrizione all'Albo nazionale gestori ambientali, che la Giunta provinciale può «emanare ai sensi dell'articolo 32 norme in deroga, onde consentire l'iscrizione con procedure semplificate per determinate attività ossia l'esenzione dall'obbligo di iscrizione». Per questo, il predetto art. 20 della legge provinciale violerebbe l'art. 212 del d. lgs. n. 152 del 2006, in base al quale l'iscrizione all'Albo, salvo i casi di esonero elencati nella stessa norma, è requisito per lo svolgimento delle attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi prodotti da terzi, di raccolta e trasporto di rifiuti pericolosi, di bonifica dei siti, di bonifica dei beni contenenti amianto, di commercio ed intermediazione dei rifiuti senza detenzione dei rifiuti stessi, nonché di gestione di impianti di smaltimento e di recupero di titolarità di terzi e di gestione di impianti mobili di smaltimento e di recupero di rifiuti.

    2.3. - Infine, l'art. 24 della legge provinciale - stabilendo, al comma 1, che «Almeno 15 giorni prima della messa in esercizio dell'impianto, l'interessato presenta all'Agenzia provinciale la domanda di collaudo ed autorizzazione dell'impianto. Con la presentazione della richiesta di autorizzazione l'impianto si intende provvisoriamente autorizzato a partire dalla data dell'attivazione indicata nella richiesta stessa» e, al comma 2, che «Entro 90 giorni dalla messa in esercizio dell'impianto l'Agenzia provinciale accerta la regolarità dell'impianto e rilascia l'autorizzazione [.]» -violerebbe l'art. 208 del d. lgs. n. 152 del 2006, il quale disciplina l'autorizzazione unica per i nuovi impianti di smaltimento e di recupero rifiuti senza configurare alcuna forma di autorizzaz ione tacita provvisoria.

    3. - Con un secondo gruppo di questioni viene prospettata la violazione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione, ad opera degli artt. 3, comma 1, lettera w), numero 1, e 5, comma 1, lettera b), nonché dell'art. 7, comma 1, lettera b), della legge provinciale n. 4 del 2006.

    L'art. 3, comma 1, lettera w), numero 1, qualifica come materia prima secondaria per attività siderurgiche e metallurgiche i rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero e rispondenti a determinate specifiche nazionali ed internazionali; l'art. 5, comma 1, lettera b), stabilisce che ai materiali, alle sostanze e agli oggetti che, senza necessità di operazioni di trasformazione, già presentano le caratteristiche delle materie prime secondarie non si applica la normativa sui rifiuti, a condizione che il detentore non se ne disfi, non abbia l'intenzione o non abbia l'obbligo di disfarsene.

    La disciplina posta dalle due norme contrasterebbe con la normativa comunitaria in tema di rifiuti e, in particolare, con la direttiva 2006/12/CE del 5 aprile 2006 (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti), la quale non prevede alcuna esclusione dal suo àmbito di applicazione per i rottami derivanti come scarti di lavorazione oppure originati da cicli produttivi o di consumo e riutilizzabili nell'industria siderurgica o metallurgica.

    Anche l'art. 7, comma 1, lettera b), della legge provinciale n. 4 del 2006, escludendo dall'applicazione della legge medesima le terre e le rocce da scavo ed i residui della lavorazione della pietra non contaminati, destinati all'effettivo utilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati, sarebbe in contrasto con la direttiva 2006/12/CE e con la nozione di rifiuto in essa contenuta.

    4. - Successivamente alla proposizione del ricorso, tre delle norme censurate - artt. 7, comma 1, lettera b), 19, comma 3, lettera b), 20, comma 2, della legge provinciale n. 4 del 2006 - sono state modificate, rispettivamente, dai commi 1, 2 e 3 dall'art. 9 della legge provinciale 18 ottobre 2006, n. 11 (Modifiche di leggi provinciali in vari settori). In forza del principio di effettività della tutela delle parti nei giudizi in via di azione, si impone il trasferimento delle questioni alle nuove norme, che lasciano sostanzialmente immutato il contenuto precettivo di quelle oggetto di censura (sentenze n. 162 del 2007, n. 449 del 2006).

    5. - La questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, lettera w), numero 1, e 5, comma 1, lettera b), della legge provinciale n. 4 del 2006 è inammissibile.

    Il ricorrente, infatti, non ha sufficientemente motivato la censura, omettendo, in particolare, di specificare le ragioni per le quali le due norme - la prima riguardante i «rottami ferrosi e non ferrosi derivanti da operazioni di recupero [...]», la seconda concernente «i materiali, le sostanze e gli oggetti che, senza necessità di operazioni di trasformazione, già presentino le caratteristiche delle materie prime secondarie» - siano «da esaminare in coordinamento tra loro».

    6. - Le eccezioni d'inammissibilità sollevate con riferimento alle ulteriori questioni non sono fondate, in quanto nel ricorso i parametri del giudizio sono identificati in modo sufficientemente chiaro e le censure, seppur succintamente, sono argomentate in riferimento a ciascuno di essi.

    Inoltre, sussiste l'interesse del ricorrente all'impugnazione dell'art. 7, comma 1, lettera b), della citata legge provinciale, concernente l'esenzione dal regime dei rifiuti di terre e rocce da scavo, nonché di residui della lavorazione della pietra non contaminati, poiché, indipendentemente dalla sostituzione del testo dell'art. 186 del d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) ad opera dell'art. 2, comma 23, del decreto legislativo 16 gennaio 2008, n. 4 (Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale), il parametro addotto inerisce non già alla violazione della competenza statale, ma all'inosservanza dei vincoli derivanti dall'ordinamento co munitario, i quali si impongono anche alle Province autonome.

    7. - Le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 19, comma 3, lettera b), 20, comma 2, e 24, commi 1 e 2, della legge provinciale n. 4 del 2006 sono fondate entro i termini di seguito precisati.

    L'imputazione delle norme impugnate alla competenza legislativa concorrente della Provincia in materia di "igiene e sanità" di cui all'art. 9, numero 10, dello statuto speciale, da esercitarsi nei limiti complessivamente indicati dagli artt. 4 e 5 dello stesso statuto, è corretta.

    La legge provinciale, ai sensi dell'art. 1, per quanto qui rileva, «disciplina la gestione dei rifiuti, degli imballaggi e dei rifiuti di imballaggio, nelle varie fasi di raccolta, trasporto, recupero e smaltimento, compreso il controllo di queste operazioni».

    Come dedotto dal ricorrente, la disciplina dei rifiuti si colloca, per consolidata giurisprudenza di questa Corte, nell'àmbito della "tutela dell'ambiente e dell'ecosistema", di competenza esclusiva statale ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione. Lo statuto speciale conferma questa competenza esclusiva dello Stato, ma riserva alla competenza della Provincia alcuni segmenti della tutela ambientale.

    La competenza statale nella materia ambientale, infatti, si intreccia con altri interessi e competenze, di modo che deve intendersi riservato allo Stato il potere di fissare standard di tutela uniforme sull'intero territorio nazionale, restando ferma la competenza delle Regioni alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli propriamente ambientali (ex multis, sentenza n. 407 del 2002).

    Pertanto, anche nel settore dei rifiuti, accanto ad interessi inerenti in via primaria alla tutela dell'ambiente, possono venire in rilievo interessi sottostanti ad altre materie, per cui la «competenza statale non esclude la concomitante possibilità per le Regioni di intervenire [...], così nell'esercizio delle loro competenze in tema di tutela della salute», ovviamente nel rispetto dei livelli uniformi di tutela apprestati dallo Stato (sentenza n. 62 del 2005; altresì, sentenze n. 380 del 2007, n. 12 del 2007, n. 247 del 2006).

    La legge provinciale n. 4 del 2006 esplicita le sue «finalità» nell'art. 2, inserito nel titolo relativo alla gestione dei rifiuti, comprendendovi anche l'esigenza della protezione della salute dell'uomo («i rifiuti devono essere recuperati e smaltiti senza pericolo per la salute dell'uomo»). Essa, come la precedente legge della Provincia di Bolzano 6 settembre 1973, n. 61 (Norme per la tutela del suolo da inquinamenti e per la disciplina della raccolta, trasporto, e smaltimento dei rifiuti solidi e semisolidi) - «specificamente rivolta alla disciplina della raccolta, trasporto e smaltimento dei rifiuti», abrogata dall'art. 46 della legge n. 4 del 2006, e adottata, secondo questa Corte, nell'esercizio «di potestà legislativa esclusiva in materia di tutela del paesaggio e di u rbanistica, nonché di potestà legislativa concorrente in materia di igiene e sanità» (sentenza n. 312 del 2003) - ha ad oggetto la cura di una molteplicità di interessi pubblici, in alcuni casi afferenti alla conservazione ed alla fruizione del territorio (si pensi alla localizzazione degli impianti di smaltimento e recupero dei rifiuti).

    La competenza legislativa esclusiva in materia di "tutela del paesaggio" e "urbanistica" e la competenza legislativa concorrente in materia di "igiene e sanità" possono costituire un valido fondamento dell'intervento provinciale, ma tali competenze devono essere esercitate nel rispetto dei limiti generali di cui all'art. 4 dello statuto speciale, richiamati dall'art. 5 ed evocati dal ricorrente, limiti che nella specie non risultano osservati.

    Anche di recente si è ribadito che «la disciplina ambientale, che scaturisce dall'esercizio di una competenza esclusiva dello Stato», quella in materia di "tutela dell'ambiente e dell'ecosistema", cui, come precisato, pacificamente è riconducibile il settore dei rifiuti, «viene a funzionare come un limite alla disciplina che le Regioni e le Province autonome dettano in altre materie di loro competenza, per cui queste ultime non possono in alcun modo derogare o peggiorare il livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato» (sentenza n. 378 del 2007).

    8. - In applicazione degli enunciati principi, deve rilevarsi che l'art. 19, comma 3, lettera b), della legge provinciale, stabilendo che «Le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano ai trasporti di rifiuti speciali che non eccedano la quantità di 30 chilogrammi o di 30 litri al giorno, effettuati dal produttore dei rifiuti speciali stessi», ha introdotto una esenzione per i rifiuti pericolosi dall'obbligo del formulario d'identificazione in contrasto con l'art. 193 del d. lgs. n. 152 del 2006, destinato in ogni caso a prevalere (sentenza n. 378 del 2007), secondo cui «Le dis posizioni di cui al comma 1 non si applicano [...] ai trasporti di rifiuti non pericolosi effettuati dal produttore dei rifiuti stessi, in modo occasionale e saltuario, che non eccedano la quantità di trenta chilogrammi o di trenta litri» (comma 4).

    Il legislatore statale, invero, ha istituito un regime più rigoroso di controlli sul trasporto dei rifiuti pericolosi, in ragione della loro specificità (artt. 178, comma 1, e 184 del d. lgs. n. 152 del 2006) e in attuazione degli obblighi assunti in àmbito comunitario, in base ai quali «per quanto riguarda i rifiuti pericolosi i controlli concernenti la raccolta ed il trasporto [...] riguardano l'origine e la destinazione dei rifiuti» (art. 5, comma 2, della direttiva 91/689/CEE del 12 dicembre 1991, relativa ai rifiuti pericolosi), poiché «una corretta gestione dei rifiuti pericolosi richiede norme supplementari e più severe che tengano conto della natura di questi rifiuti» (quarto considerando della direttiva citata).</ SPAN>

    Il formulario d'identificazione, strumento indicato dall'art. 5, comma 3, della citata direttiva 91/689/CEE, in mancanza del quale la legge statale, ove i rifiuti siano pericolosi, commina sanzioni penali (art. 258, comma 4, del d. lgs. n. 152 del 2006), consente di controllare costantemente il trasporto dei rifiuti, onde evitare che questi siano avviati per destinazioni ignote. La relativa disciplina statale, proponendosi come standard di tutela uniforme in materia ambientale, si impone nell'intero territorio nazionale e non ammette deroghe quali quelle previste dall'art. 19, comma 3, lettera b), della legge provinciale in esame.

    9. - L'art. 20, comma 2, della legge provinciale n. 4 del 2006 concerne l'Albo nazionale gestori ambientali, struttura unitaria posta a presidio dell'affidabilità delle singole imprese aspiranti ad esercitare attività nel settore dei rifiuti, che, come tale, presuppone una uniformità di disciplina sul territorio nazionale.

    Secondo l'art. 212, comma 5, del d. lgs. n. 152 del 2006, nel testo modificato dall'art. 2, comma 30, del d. lgs. n. 4 del 2008, «L'iscrizione all'Albo è requisito per lo svolgimento delle attività di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi, di raccolta e trasporto di rifiuti pericolosi, di bonifica dei siti, di bonifica dei beni contenenti amianto, di commercio ed intermediazione dei rifiuti senza detenzione dei rifiuti stessi, nonché di gestione di impianti di smaltimento e di recupero di titolarità di terzi e di gestione di impianti mobili di smaltimento e di recupero di rifiuti, nei limiti di cui all'art. 208, comma 15».

    L'iscrizione all'Albo è posta dal legislatore statale in correlazione con l'esigenza di dare attuazione a direttive comunitarie (art. 12 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 2006/12/CE del 5 aprile 2006, relativa ai rifiuti, e, prima, art. 12 della direttiva del Consiglio 75/442/CEE del 15 luglio 1975, relativa ai rifiuti; Corte di giustizia, sentenza 9 giugno 2005, in causa C-270/03, Commissione c. Repubblica italiana).

    L'impugnato art. 20, comma 2, nel disporre che «La Giunta provinciale può, con riguardo all'obbligo e alle modalità d'iscrizione nell'Albo nazionale, emanare ai sensi dell'articolo 32 norme in deroga, onde consentire l'iscrizione con procedure semplificate per determinate attività oppure l'esenzione dall'obbligo di iscrizione», ammette deroghe alla disciplina contenuta nell'art. 212 del citato decreto delegato, mentre l'adozione di norme e condizioni per l'esonero dall'iscrizione ovvero per l'applicazione in proposito di procedure semplificate attiene necessariamente alla competenza statale, nell'osservanza della pertinente normativa comunitaria.

    10. - Anche l'art. 24, commi 1 e 2, della legge provinciale n. 4 del 2006 interviene in senso riduttivo sulla disciplina uniforme stabilita dal legislatore statale nella materia ambientale, in ordine all'autorizzazione degli impianti di smaltimento e recupero dei rifiuti, disciplina, cui, secondo precedenti affermazioni di questa Corte, «la legislazione regionale deve attenersi, proprio in considerazione dei valori della salute e dell'ambiente che si intendono tutelare in modo omogeneo sull'intero territorio nazionale» (sentenza n. 173 del 1998; si vedano, altresì, le sentenze n. 194 del 1993, n. 307 del 1992).

    Le norme impugnate, invero, consentono la messa in esercizio di un impianto di smaltimento o recupero di rifiuti prima che la sua regolarità sia valutata, in contrasto con l'opposto principio espresso dall'art. 208 del d. lgs. n. 152 del 2006, il quale, pure nel testo modificato dall'art. 2, comma 29-ter, del d. lgs. n. 4 del 2008, disciplina l'autorizzazione unica per i nuovi impianti senza prevedere alcuna forma di autorizzazione tacita, neppure provvisoria, e ciò in ottemperanza alle prescrizioni delle pertinenti direttive comunitarie, configurando queste ultime un sistema di autorizzazioni previe (artt. da 9 a 11 della direttiva del Parlamento europeo e del Cons iglio 2006/12/CE del 5 aprile 2006, relativa ai rifiuti e, prima, artt. da 9 a 11 della direttiva del Consiglio 75/442/CEE del 15 luglio 1975, relativa ai rifiuti; art. 3 della direttiva 91/689/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti pericolosi; Corte di giustizia, sentenza 14 giugno 2001, in causa C-230/00, Commissione c. Belgio).

    11. - La questione di legittimità costituzionale dell'art. 7, comma 1, lettera b), della legge provinciale n. 4 del 2006 è fondata, in riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione.

    Invero, alla luce dei principi espressi nella materia dalla Corte di giustizia - da ultimo ribaditi nella sentenza 18 dicembre 2007, in relazione all'esclusione delle terre e delle rocce da scavo destinate all'effettivo riutilizzo per reinterri, riempimenti, rilevati e macinati dall'ambito di applicazione della disciplina nazionale sui rifiuti, ad opera dell'art. 10 della legge 23 marzo 2001, n. 93 (Disposizioni in campo ambientale) e dell'art. 1, commi 17 e 19, della legge 21 dicembre 2001, n. 443, recante «Delega al Governo in m ateria di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive» (Corte di giustizia, sentenza 18 dicembre 2007, in causa C‑194/05, Commissione c. Repubblica italiana) - deve ritenersi che la norma denunciata si ponga in contrasto con la direttiva 2006/12/CE.

    Ai sensi dell'art. 1, comma 1, lettera a), della direttiva 2006/12/CE si intende per rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell'allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia l'intenzione o l'obbligo di disfarsi».

    Le «terre e rocce» di cui al capitolo 17, sezione 17 05, del catalogo europeo dei rifiuti contenuto nella decisione 2000/532/CE del 3 maggio 2000 (Decisione della Commissione che sostituisce la decisione 94/3/CE che istituisce un elenco di rifiuti conformemente all'articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti e la decisione 94/904/CE del Consiglio che istituisce un elenco di rifiuti pericolosi ai sensi dell'articolo 1, paragrafo 4, della direttiva 91/689/CEE del Consiglio relativa ai rifiuti), vanno qualificate come «rifiuti», ai sensi della direttiva sopra citata, se il detentore se ne disfa ovvero ha l'intenzione o l'obbligo di disfarsene.

    Tenuto conto dell'obbligo di interpretare in modo ampio la nozione di rifiuto, la possibilità di considerare un bene, un materiale o una materia prima derivante da un processo di estrazione o di fabbricazione che non è principalmente destinato a produrlo, un sottoprodotto di cui il detentore non intende disfarsi, deve essere limitata alle situazioni in cui il riutilizzo non è semplicemente eventuale, bensì certo, non richiede una trasformazione preliminare e interviene nel corso del processo di produzione o di utilizzazione (Corte di giustizia, sentenza 11 novembre 2004, causa C-457/02, Niselli; sentenza 11 settembre 2003, causa C-114/01, Avesta Polarit Chrome; sentenza 18 aprile 2002, causa C‑9/00, Palin Granit Oy).

    Al riguardo la Corte di giustizia ha precisato che la modalità di utilizzo di una sostanza non è determinante per qualificare o meno quest'ultima come rifiuto, poiché la relativa nozione non esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica. Il sistema di sorveglianza e di gestione istituito dalla direttiva sui rifiuti intende, infatti, riferirsi a tutti gli oggetti e le sostanze di cui il proprietario si disfa, anche se essi hanno un valore commerciale e sono raccolti a titolo commerciale a fini di riciclo, di recupero o di riutilizzo (Corte di giustizia, sentenza 18 dicembre 2007, in causa C‑194/05, Commissione c. Repubblica italiana; sentenza 18 aprile 2002, causa C‑9/00, Palin Granit Oy; sentenza 25 giugno 1997, cause riunite C‑304/94, C‑330/94, C‑342/94 e C‑224/95, Tombesi).

    La norma provinciale fa sorgere la presunzione che, nelle situazioni da esse previste, le terre e rocce da scavo costituiscano sottoprodotti che presentano per il loro detentore, data la sua volontà di riutilizzarli, un vantaggio o un valore economico anziché un onere di cui egli cercherebbe di disfarsi.

    Se tale ipotesi in determinati casi può corrispondere alla realtà, non può esistere alcuna presunzione generale in base alla quale un detentore di terre e rocce da scavo tragga dal loro riutilizzo un vantaggio maggiore rispetto a quello derivante dal mero fatto di potersene disfare (Corte di giustizia, sentenza 18 dicembre 2007, in causa C‑194/05, Commissione c. Repubblica italiana).

    L'art. 7, comma 1, lettera b), della legge provinciale, dunque, sottraendo alla nozione di rifiuto taluni residui che invece, in base a quanto esposto, corrispondono alla definizione sancita dall'art. 1, lettera a), della direttiva 2006/12/CE, si pone in contrasto con la direttiva medesima, la quale funge da norma interposta atta ad integrare il parametro per la valutazione di conformità della normativa regionale all'ordinamento comunitario, in base all'art. 117, primo comma, della Costituzione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 1, lettera w), numero 1, e 5, comma 1, lettera b), della legge della Provincia autonoma di Bolzano 26 maggio 2006, n. 4 (La gestione dei rifiuti e la tutela del suolo), promossa, in riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe;

    2) dichiara l'illegittimità costituzionale degli artt. 7, comma 1, lettera b), 19, comma 3, lettera b), 20, comma 2, e 24, commi 1 e 2, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 26 maggio 2006, n. 4 (La gestione dei rifiuti e la tutela del suolo).

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 marzo 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
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SENTENZA N. 63

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

    - Franco            BILE               Presidente

    - Giovanni Maria    FLICK                Giudice

    - Francesco         AMIRANTE                "

    - Ugo               DE SIERVO               "

    - Alfio             FINOCCHIARO             "

    - Alfonso           QUARANTA                "

    - Luigi             MAZZELLA                "

    - Gaetano           SILVESTRI               "

    - Sabino            CASSESE                 "

    - Maria Rita        SAULLE                  "

    - Giuseppe          TESAURO                 "

    - Paolo Maria       NAPOLITANO              "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 853, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), promossi con ricorsi delle Regioni Veneto e Lombardia, notificati il 23 e il 26 febbraio 2007, depositati in cancelleria il 1° e il 7 marzo 2007 ed iscritti ai nn. 10 e 14 del registro ricorsi 2007.

    Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 12 febbraio 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;

    uditi gli avvocati Mario Bertolissi e Andrea Manzi per la Regione Veneto, Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Lombardia e l'avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

    1. - La Regione Veneto, con ricorso notificato il 23 febbraio 2007, depositato in cancelleria il successivo 1° marzo (r.r. n. 10 del 2007), ha promosso questioni di legittimità costituzionale di numerose disposizioni della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), fra le quali anche quella concernente l'art. 1, comma 853, in riferimento agli artt. 3, 117 e 118 della Costituzione nonché al principio della leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120, secondo comma, della Costituzione e 11 della legge costituzionale  18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione).

    In particolare, la ricorrente sostiene che la citata norma, nella parte in cui prevede che gli interventi del «Fondo per il finanziamento degli interventi consentiti dagli Orientamenti UE sugli aiuti di Stato per il salvataggio e la ristrutturazione delle imprese in difficoltà» sono disposti sulla base di criteri e modalità fissati dal CIPE, con propria delibera, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, e che per la loro attuazione il Ministro dello sviluppo economico può avvalersi di Sviluppo Italia S.p.a.: lederebbe la competenza regionale residuale in materia di «impresa»; non potrebbe, comunque, trovare idoneo fondamento nel principio di sussidiarietà, non essendo individuata dalla medesima disposizione alcuna esigenza di esercizio unitario della competenza e, in ogni caso, non essendo la disciplina in essa contenuta idonea e proporzionata al perseguimento del fine che lo Stato abbia eventualmente inteso perseguire (di soddisfacimento della predetta esigenza unitaria).

    La ricorrente ritiene, altresì, che, ove, in subordine, si riconosca la sussistenza della necessità di una disciplina accentrata nel settore e si ritenga quella posta dal comma 583 idonea e proporzionata a soddisfare tale necessità, sarebbe, comunque, violato il principio di leale collaborazione, poiché la Regione è stata totalmente pretermessa dalla programmazione, dalla gestione e dall'attuazione delle misure ricollegabili al Fondo.

    2. - Anche la Regione Lombardia, con ricorso notificato il 26 febbraio 2007, depositato in cancelleria il successivo 7 marzo (r.r. n. 14 del 2007), ha promosso questioni di legittimità costituzionale, fra l'altro, dell'art. 1, comma 853, della legge n. 296 del 2006, in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, nonché ai principi di leale collaborazione (art. 120 Cost.), buon andamento dell'amministrazione (art. 97 Cost.) e ragionevolezza (art. 3 Cost.).

    La ricorrente deduce: che la norma censurata, disciplinando finanziamenti statali vincolati nella destinazione e diretti a sostenere attività di competenza regionale, determinerebbe una illegittima violazione della medesima competenza regionale, essendo detti finanziamenti privi di dimensione macroeconomica e quindi non riconducibili alla competenza statale esclusiva in materia di tutela della concorrenza; che, ove anche si ritenesse che trovino spazio àmbiti di competenza statale legati alla tutela della concorrenza o si considerasse operante la cosiddetta «sussidiarietà ascendente», sarebbe comunque violato il principio costituzionale di leale collaborazione, in ragione del mancato coinvolgimento delle Regioni.

    3. - In entrambi i giudizi si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo il rigetto dei ricorsi.

    Secondo la difesa erariale gli aiuti alle imprese sarebbero riconducibili alla competenza esclusiva statale, riguardando, per un verso, gli obblighi internazionali dello Stato ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera a), della Costituzione e, per altro verso, la materia «tutela della concorrenza» di cui all'art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, afferendo «a problematiche di economia nazionale generale».

    4. - All'udienza pubblica le parti hanno insistito per l'accoglimento delle conclusioni formulate nelle difese scritte.

Considerato in diritto

    1. - La Regione Veneto e la Regione Lombardia, con due distinti ricorsi, hanno promosso questioni di legittimità costituzionale di numerose norme della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007).

    1.1. - Le impugnazioni aventi ad oggetto l'art. 1, comma 853, della legge n. 296 del 2006, sono qui trattate separatamente rispetto alle altre questioni promosse nei suddetti ricorsi e, in quanto aventi ad oggetto la stessa norma e formulate in riferimento a profili e con argomenti in parte coincidenti, vanno riunite per essere decise con la medesima sentenza.

    2. - La predetta norma è censurata in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, nonché al principio della leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120, secondo comma, della Costituzione e 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, ed ai principi di buon andamento dell'amministrazione (art. 97 Cost.) e di ragionevolezza (art. 3 Cost.).

    La Regione Veneto sostiene che la disposizione, stabilendo che gli interventi del «Fondo per il finanziamento degli interventi consentiti dagli Orientamenti UE sugli aiuti di Stato per il salvataggio e la ristrutturazione delle imprese in difficoltà» sono disposti sulla base di criteri e modalità fissati dal CIPE, con propria delibera, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, e che per la loro attuazione il Ministro dello sviluppo economico può avvalersi di Sviluppo Italia S.p.a., invaderebbe la competenza regionale residuale in materia di «impresa», in violazione dell'art. 117 della Costituzione. Secondo la ricorrente, un simile intervento del legislatore statale non potre bbe ritenersi fondato neppure sull'attrazione in sussidiarietà allo Stato della competenza di cui all'art. 118 della Costituzione, non essendo ravvisabile alcuna esigenza di esercizio unitario della competenza stessa e, in ogni caso, non essendo la disciplina in esso contenuta idonea e proporzionata al soddisfacimento della predetta esigenza unitaria.

    Entrambe le Regioni ricorrenti sostengono inoltre che, anche ove si volesse ritenere che sussista la necessità di una disciplina accentrata nel settore e che quella posta dal comma 853 sia idonea e proporzionata a soddisfarla, sarebbe, comunque, violato il principio di leale collaborazione, stabilito dagli artt. 5 e 120 della Costituzione, non essendo prevista alcuna forma di coinvolgimento delle Regioni nella programmazione, gestione e attuazione delle misure ricollegabili al Fondo.

    3. - Le questioni prospettate della Regione Lombardia in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione sono inammissibili.

    Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, le Regioni possono far valere il contrasto con norme costituzionali diverse da quelle attributive di competenza solo ove esso si risolva in una lesione di sfere di competenza regionali (così, fra le tante, sentenze n. 401 del 2007, n. 116 del 2006, n. 383 del 2005). Nel caso di specie, le censure dedotte, oltre ad essere generiche, non sono prospettate in maniera da far derivare dalla pretesa violazione dei richiamati parametri costituzionali una compressione dei poteri delle Regioni, con conseguente inammissibilità delle stesse.

    4. - Le ulteriori questioni sollevate nei confronti dell'art. 1, comma 853, della legge n. 296 del 2006 sono fondate nei termini di seguito precisati.

    4.1. - In linea preliminare, occorre procedere ad individuare la materia sulla quale detta norma va ad incidere.

    La norma stabilisce la disciplina delle modalità di erogazione e gestione del «Fondo per il finanziamento degli interventi consentiti dagli Orientamenti UE sugli aiuti di Stato per il salvataggio e la ristrutturazione delle imprese in difficoltà», riconducibile alla categoria dei fondi statali a destinazione vincolata. In relazione a tali fondi, questa Corte ha costantemente affermato che la legge statale, nelle materie di competenza regionale residuale o concorrente, non può prevedere nuovi finanziamenti a destinazione vincolata, «che possono divenire strumenti indiretti, ma pervasivi, di ingerenza dello Stato nell'esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a qu elli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza» (per tutte sentenza n. 77 del 2005). Alla luce di siffatto principio, occorre, pertanto, preliminarmente valutare se il Fondo in esame incida o meno in una materia di competenza regionale residuale o concorrente.

    4.2. - Il «Fondo per il finanziamento degli interventi consentiti dagli Orientamenti UE sugli aiuti di Stato per il salvataggio e la ristrutturazione delle imprese in difficoltà» è stato istituito dall'art. 11, comma 3, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (recante «Disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale»), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 14 maggio 2005, n. 80. Tale norma si è tuttavia limitata ad istituire il predetto Fondo ed a stabilirne la dotazione finanziaria per l'anno 2005, identificandone genericamente le finalità negli aiuti per la ristrutturazione ed il salvataggio delle imprese in difficoltà, in linea c on le indicazioni comunitarie.

    Il citato art. 1, comma 853, ha quindi attribuito al CIPE il compito di definire, con propria delibera, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, le tipologie di aiuto concedibile, le priorità di natura produttiva nonché i requisiti economici e finanziari delle imprese da ammettere ai benefici e per l'eventuale coordinamento delle altre amministrazioni interessate, «in conformità agli orientamenti comunitari in materia», sicché è appunto questa disposizione, e la disciplina con la stessa stabilita, che è suscettibile di determinare la lesione denunciata con i ricorsi in esame.

    La norma impugnata non identifica i settori nei quali operano le imprese in difficoltà che, eventualmente, sono beneficiarie di detti aiuti. Gli Orientamenti comunitari ai quali la medesima norma rinvia (Comunicazione della Commissione 2004/C244/02, adottata il 7 luglio 2004) prevedono che i finanziamenti in questione riguardino «tutti i settori di attività, esclusi i settori del carbone e dell'acciaio, ma compresa la pesca e l'acquacoltura» e, nel rispetto delle relative disposizioni specifiche, l'agricoltura; contengono anche «norme specifiche per le piccole e medie imprese e per il settore agricolo».

    Pertanto, risulta chiaro che la disposizione in esame disciplina finanziamenti riferibili ad una pluralità di materie, in relazione ai molteplici settori nei quali le imprese in difficoltà, cui detti finanziamenti sono destinati, si trovino ad operare.

    Contrariamente a quanto sostenuto dalla Regione Veneto, non è, infatti, configurabile una materia «impresa», disgiunta dai settori (riconducibili, tra l'altro, esemplificativamente, all'agricoltura, al commercio, al turismo, all'industria) nei quali le imprese operano, non espressamente richiamata negli elenchi dell'art. 117 della Costituzione e che, per ciò solo, possa ritenersi attribuita alla competenza residuale delle Regioni.

    Inoltre, la disciplina dei finanziamenti in esame neppure può essere ricondotta allo «sviluppo economico e produttivo», dato che, come questa Corte ha affermato, lo «sviluppo economico» non è configurabile quale materia spettante alla competenza legislativa regionale di tipo residuale, ma è piuttosto «una espressione di sintesi, meramente descrittiva, che comprende e rinvia ad una pluralità di materie» attribuite sia alla competenza statale che a quella regionale (sentenze n. 430 del 2007 e n. 165 del 2007).

    Nella specie, i settori nei quali operano le imprese in difficoltà, in favore delle quali possono essere erogati i finanziamenti - come risulta dai citati Orientamenti comunitari - sono i più vari (agricoltura, commercio, industria, pesca, turismo etc.) e ad essi corrispondono altrettante materie, tutte essenzialmente di competenza regionale.

    4.3. - Il riferimento alla «tutela della concorrenza» quale materia di competenza statale esclusiva, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa erariale, non può giustificare l'intervento del legislatore statale in relazione ad aiuti di Stato, i quali, quando consentiti, lo sono normalmente in deroga alla tutela della concorrenza.

    Questa Corte ha affermato che la predetta materia comprende «le misure legislative di tutela in senso proprio, che hanno ad oggetto gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull'assetto concorrenziale dei mercati e ne disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione» e quelle «di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l'apertura, eliminando barriere all'entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, in generale i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche» (sentenza n. 430 del 2007). Dunque, detta materia non può essere estesa fino a ricomprendere «quelle misure statali che non intendono i ncidere sull'assetto concorrenziale dei mercati o che addirittura lo riducono o lo eliminano» (sentenza n. 430 del 2007) o che, lungi dal costituire uno strumento indispensabile per tutelare e promuovere la concorrenza, contrastano con i principi comunitari e contraddicono apertamente il fine (la tutela della concorrenza), che pur affermano di voler perseguire (sentenza n. 1 del 2008).

    Inoltre, neppure può ritenersi - come dedotto dal resistente - che la norma impugnata costituisca adempimento di un obbligo comunitario di esclusiva competenza statale. Infatti, tale norma si limita a disciplinare le modalità di gestione del Fondo, già istituito in attuazione degli orientamenti comunitari sugli aiuti alle imprese in difficoltà (contenuti nella richiamata comunicazione della Commissione UE) dall'art. 11, comma 3, del d.l. n. 35 del 2005, e non ha attinenza con la disciplina dei rapporti dello Stato con l'Unione europea, evocata dalla lettera a) del secondo comma dell'art. 117 della Costituzione.

    Peraltro, tale competenza esclusiva dello Stato nella materia suddetta deve essere intesa tenendo conto che il medesimo art. 117 della Costituzione non solo attribuisce alla competenza regionale concorrente la «materia» dei rapporti delle Regioni con l'Unione europea (comma terzo), ma riconosce alle Regioni il potere di dare attuazione alla normativa comunitaria nelle materie di loro spettanza (comma quinto); quindi, l'intervento del solo legislatore statale per l'adempimento di un obbligo comunitario si giustifica solo nel caso in cui esso incida su materie di competenza statale esclusiva (sentenza n. 116 del 2006).

    Nella specie non si configurano, pertanto, materie di competenza statale esclusiva sulle quali la norma impugnata incide, in quanto quelle interessate dai finanziamenti in esame corrispondono ai molteplici settori (ad esempio, il commercio, l'agricoltura, il turismo, l'industria) nei quali operano le imprese in difficoltà che siano beneficiarie dei medesimi, riconducibili a materie di competenza regionale.

    4.4. - Occorre poi considerare che la norma impugnata, disciplinando le modalità di gestione ed erogazione del Fondo per il finanziamento degli interventi consentiti dagli Orientamenti UE sugli aiuti di Stato per il salvataggio e la ristrutturazione delle imprese in difficoltà, è strumentale rispetto al conseguimento di obiettivi che sono quelli delineati dalla stessa Comunicazione della Commissione UE. Siffatti obiettivi corrispondono a «ragioni di politica sociale o regionale» connesse ai «positivi effetti economici dell'attività delle piccole e medie imprese», o anche, in via eccezionale, alla opportunità di «conservare una struttura di mercato concorrenziale nel caso in cui la scomparsa di imprese possa determinare una situazione di monopolio o di oligopolio ristretto».

    Pertanto, il Fondo in esame risulta diretto a perseguire finalità di politica economica - costituite dal sostegno alle imprese in difficoltà, la cui scomparsa dal mercato potrebbe danneggiare il sistema economico produttivo nazionale - che, almeno in parte, sfuggono alla sola dimensione regionale (l'intervento tramite Sviluppo Italia s.p.a. prefigurato dalla norma impugnata non esclude quello analogo delle Regioni, in linea con quanto già avvenuto, come dimostrato dalla legislazione regionale di settore: così ad es. l'art. 10 della legge della Regione Calabria 8 luglio 2002, n. 24; l'art. 8 della legge della Regione Emilia-Romagna 28 dicembre 1999 n. 39); e che sono, perciò, tali da giustificare la deroga al normale riparto di competenze fra lo Stato e le Regioni e la conseguente «attrazione in sussidiarietà» allo Stato della relativa disciplina, in base ai principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza (sentenza n. 242 del 2005).

    Tuttavia, «l'attrazione in sussidiarietà» allo Stato di funzioni spettanti alle Regioni, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, comporta la necessità che lo Stato coinvolga le Regioni stesse «poiché l'esigenza di esercizio unitario che consente di attrarre, insieme alla funzione ammistrativa, anche quella legislativa, può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovvero sia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà» (sentenza n.303 del 2003).

    Nel caso in esame, la norma impugnata, in violazione di detti parametri, attribuisce invece al CIPE il potere di stabilire, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, criteri e modalità di realizzazione degli interventi del Fondo, determinando le tipologie di aiuto concedibile, le priorità di natura produttiva, i requisiti economici e finanziari delle imprese da ammettere ai benefici, nonché i criteri dell'eventuale coordinamento con le altre amministrazioni interessate, senza prevedere un coinvolgimento delle Regioni idoneo ad equilibrare le esigenze di leale collaborazione con quelle di esercizio unitario delle funzioni attratte in sussidiarietà al livello statale.

    Pertanto, va dichiarata l'illegittimità costituzionale della norma, nella parte in cui non stabilisce che i poteri del CIPE di determinazione dei criteri e delle modalità di attuazione degli interventi di cui al Fondo per il finanziamento degli interventi consentiti dagli Orientamenti UE sugli aiuti di Stato per il salvataggio e la ristrutturazione delle imprese in difficoltà siano esercitati d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riservata a separate pronunce la decisione delle restanti questioni di legittimità costituzionale sollevate con i ricorsi indicati in epigrafe;

    riuniti i giudizi,

    1) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 853, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), nella parte in cui non prevede che i poteri del CIPE di determinazione dei criteri e delle modalità di attuazione degli interventi di cui al Fondo per il finanziamento degli interventi consentiti dagli Orientamenti UE sugli aiuti di Stato per il salvataggio e la ristrutturazione delle imprese in difficoltà siano esercitati d'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano;

    2) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 853, della legge n. 296 del 2006, promosse, in riferimento agli artt. 3 e 97, della Costituzione, dalla Regione Lombardia, con il ricorso indicato in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 marzo 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia succ
essiva

SENTENZA N. 64

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Franco               BILE               Presidente

-  Giovanni Maria       FLICK                Giudice

-  Francesco            AMIRANTE                "

-  Ugo                  DE SIERVO               "

-  Paolo                MADDALENA               "

-  Alfio                FINOCCHIARO             "

-  Alfonso              QUARANTA                "

-  Franco               GALLO                   "

-  Luigi                MAZZELLA                "

-  Gaetano              SILVESTRI               "

-  Sabino               CASSESE                 "

-  Maria Rita           SAULLE                  "

-  Giuseppe             TESAURO                 "

-  Paolo Maria          NAPOLITANO              "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), come modificato dall'art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, promosso con ordinanza depositata il 2 novembre 2006 dal Tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra il Condominio di Viale Mazzini n. 119, il Comune di Roma ed altra parte, iscritta al n. 459 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell'anno 2007.

      Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

      udito nella camera di consiglio del 13 febbraio 2008 il Giudice relatore Franco Gallo.

Ritenuto in fatto

    1. - Nel corso di un giudizio, nel quale un contribuente aveva proposto opposizione all'esecuzione ai sensi dell'art. 615 del codice di procedura civile nei confronti del Comune di Roma, il Tribunale ordinario di Roma, con ordinanza depositata il 2 novembre 2006, ha sollevato, in riferimento agli artt. 102, secondo comma, e 25, primo comma, della Costituzione, questioni di legittimità dell'art. 2 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) - come modificato dall'a rt. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 -, nella parte in cui stabilisce, nel secondo periodo del comma 2, che appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie relative alla debenza del suddetto canone.

    2. - Il Tribunale rimettente premette, in punto di fatto, che: a) la controversia riguarda la contestazione, da parte del contribuente, del diritto del Comune di Roma a procedere alla riscossione coattiva, mediante cartella di pagamento, del canone per l'occupazione di spazi ed aree pubblici (COSAP) relativo all'anno 2000; b) il Comune ha preliminarmente eccepito il difetto di giurisdizione del giudice adíto, essendo la controversia devoluta alla giurisdizione delle commissioni tributarie in forza del novellato art. 2 del decreto legislativo n. 546 del 1992.

    3. - Il giudice a quo premette altresí, in punto di diritto, che: a) le commissioni tributarie sono organi giurisdizionali «pienamente compatibili» con il dettato costituzionale, essendo preesistenti all'entrata in vigore della Costituzione (Corte costituzionale, sentenze n. 196 del 1982; n. 215 del 1976; ordinanze n. 144 del 1998; n. 351 del 1995); b) la loro giurisdizione deve ritenersi limitata alle controversie attinenti alla «materia tributaria» e ciò «costituisce garanzia di compatibilità con il divieto di istituzione di nuovi giudici speciali» (ordinanza n. 144 del 1998).

    4. - Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente afferma, sulla base delle indicate premesse, che la disposizione censurata - nello stabilire che «appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie relative alla debenza del canone per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche previsto dall'art. 63 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni» - attribuisce alla cognizione delle commissioni tributarie prestazioni che, secondo la giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione, non hanno natura tributaria (sentenze n. 14864 del 2006; n. 1239 del 2005; n. 12167 del 2003) ed ineriscono a diritti soggettivi rientranti nella giurisdizione del giudice ordinario. La norma denuncia ta comporterebbe, pertanto, lo "snaturamento" della giurisdizione tributaria e, quindi, la violazione sia del divieto di costituzione di nuovi giudici speciali (art. 102, secondo comma, Cost.), sia del principio del giudice naturale precostituito per legge (art. 25, primo comma, Cost.).

    Né, per il giudice a quo, tali dubbi di costituzionalità sono superati dalla giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione (sent. n. 4895 del 2006), la quale, in forza dell'argomento secondo cui «i "canoni" indicati nella disposizione [...] attengono tutti ad entrate che in precedenza rivestivano indiscussa natura tributaria», ha ritenuto manifestamente infondata un'analoga questione di legittimità costituzionale in tema di giurisdizione tributaria sulla tariffa di igiene ambientale (TIA). Ad avviso del rimettente, infatti, detta giurisprudenza non solo si pone «in netto contrasto [...] con le pronunce specifiche in tema di COSAP innanzi richiamate», ma non ti ene neppure conto dell'alternatività - prevista dalla normativa vigente - tra TOSAP e COSAP.

    Quanto alla rilevanza, infine, il Tribunale di Roma osserva che «qualunque decisione [.] non potrà prescindere dall'eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dal convenuto», eccezione la cui fondatezza dipende dall'applicabilità, nel giudizio principale, della disposizione censurata.

    5. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale ed ha chiesto dichiararsi l'infondatezza delle sollevate questioni.

    Nel merito, la difesa erariale afferma che: a) «Un ampliamento della competenza delle Commissioni Tributarie non equivale ad istituzione di un nuovo giudice speciale»; b) «l'intervenuta revisione non vincola il legislatore ordinario a mantenere immutati nell'ordinamento e nel funzionamento le Commissioni Tributarie come già revisionate»; c) «Non può dirsi che la mera attribuzione della competenza a conoscere dei canoni di concessione per l'occupazione dei suoli pubblici snaturi le competenze originarie delle Commissioni: tale competenza si aggiunge a quella relativa alla materia propriamente tributaria, in una logica di sistema che considera la natura pubblicistica dell'entrata la quale, pur non essendo "stricto sensu" tributaria, è certamente "fiscale" e d altrettanto certamente non è "privatistica", rett[a], come è, da principi e regole non dissimili da quelli che presiedono la "tassa"».

Considerato in diritto

    1. - Il Tribunale ordinario di Roma dubita della legittimità costituzionale dell'art. 2 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) - come modificato dall'art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 -, nella parte in cui stabilisce, nel secondo periodo del comma 2, che appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie relative alla debenza del canone per l'occupazion e di spazi ed aree pubblici (COSAP).

    In particolare, il Tribunale afferma che la norma denunciata víola: a) l'art. 102, secondo comma, della Costituzione, perché "snaturerebbe" la giurisdizione di cui sono investite le commissioni tributarie, creando così un "nuovo" giudice speciale vietato dalla Costituzione; b) l'art. 25, primo comma, Cost., perché, attribuendo ai giudici tributari la cognizione delle controversie relative alla debenza del COSAP, distoglierebbe dette controversie - relative a prestazioni che non hanno natura tributaria - dal proprio "giudice naturale", e cioè da quello civile.

    2. - La questione sollevata in riferimento all'art. 102, secondo comma, Cost. è fondata.

    Al riguardo, va premesso che, come riconosciuto dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte, la giurisdizione tributaria deve essere considerata un organo speciale di giurisdizione preesistente alla Costituzione (ex plurimis: sentenza n. 50 del 1989; ordinanze n. 144 del 1998, n. 152 del 1997, n. 351 del 1995). Ciò posto, si perviene alla conclusione della fondatezza della questione attraverso i seguenti due passaggi argomentativi: 1) la modificazione dell'oggetto della giurisdizione degli organi speciali di giurisdizione preesistenti alla Costituzione è consentita solo se non "snaturi" la materia originariamente attribuita alla cognizione del giudice speciale; 2) una volta che, conformemente a quanto asseri to dal diritto vivente, sia esclusa la natura tributaria del COSAP, l'attribuzione alla giurisdizione tributaria - ad opera della norma censurata - delle controversie relative a tale canone "snatura" la materia originariamente attribuita alla cognizione del giudice tributario e, conseguentemente, víola l'evocato art. 102, secondo comma, Cost.

    2.1. - Con riguardo al primo passaggio argomentativo, concernente il limite entro il quale la Costituzione consente al legislatore ordinario di modificare, senza "snaturarlo", l'oggetto della giurisdizione dei giudici speciali tributari, va ricordato che, come affermato in via generale da questa Corte (sentenze n. 196 del 1982, n. 215 del 1976, n. 41 del 1957; ordinanza n. 144 del 1998): a) l'evocato art. 102, secondo comma, Cost. vieta l'istituzione ex novo di giudici speciali diversi da quelli espressamente nominati in Costituzione; b) la VI disposizione transitoria della Costituzione - ad integrazione della disciplina posta dal citato art. 102 Cost. - impone l'obbligo di effettuare la revisione degli organi speciali di giurisdizione preesistenti alla Costituzione («salvo le giurisdizioni del Consiglio di Stato, della Corte dei conti e dei tribunali militari») entro il termine ordinatorio di cinque anni dall'entrata in vigore della Costituzione medesima. Questa stessa Corte ha poi precisato che, benché l'indicata revisione non crei nell'ordinamento «una sorta di immodificabilità nella configurazione e nel funzionamento» delle giurisdizioni revisionate, tuttavia il legislatore ordinario - nel modificare la disciplina di tali organi giurisdizionali - incontra il duplice limite costituzionale «di non snaturare (come elemento essenziale e caratterizzante la giurisprudenza speciale) le materie attribuite» a dette giurisdizioni speciali «e di assicurare la conformità a Costituzione» delle medesime giurisdizioni (ordinanza n. 144 del 1998). Da tale giurisprudenza si desume che il menzionato duplice limite opera con riferimento ad ogni modificazione legislativa riguardante l'oggetto delle giurisdizioni speciali preesistenti alla Costituzione (sia in sede di prima revisione, che successivamente) e, altresí, che il mancato rispetto del limite di «non snaturare» le materie originariamente attribuite alle indicate giurisdizioni si traduce nell'istituzione di un "nuovo" giudice speciale, espressamente vietata dall'art. 102 Cost. L'identità della "natura" delle materie oggetto delle suddette giurisdizioni costituisce, cioè, una condizione essenziale perché le modifiche legislative di tale oggetto possano qualificarsi come una consentita «revisione» dei giudici speciali e non come una vietata introduzione di un "nuovo" giudice speciale.

    2.1.1. - In coerenza con i sopra evidenziati princípi e con specifico riferimento alla materia devoluta alla cognizione dei giudici tributari, questa Corte ha rilevato, in numerose pronunce, che la giurisdizione del giudice tributario «deve ritenersi imprescindibilmente collegata» alla «natura tributaria del rapporto» (ordinanze n. 395 del 2007; n. 427, n. 94, n. 35 e n. 34 del 2006). In particolare, con dette pronunce, la Corte - in riferimento a questioni di costituzionalità di disposizioni che, secondo i rimettenti, avrebbero attribuito alla cognizione dei giudici tributari controversie non aventi natura tributaria e, pertanto, avrebbero violato l'art. 102, secondo comma, Cost. - ha dichia rato la manifesta inammissibilità delle sollevate questioni, perché i giudici a quibus non avevano neppure tentato di fornire un'interpretazione costituzionalmente orientata delle denunciate disposizioni. Essi, infatti, non avevano esplorato la possibilità di interpretare tali disposizioni nel senso che esse mantenevano ferma la competenza del giudice ordinario in materie non tributarie e, pertanto, non avevano spezzato il nesso di inscindibilità tra giurisdizione tributaria e materia tributaria richiesto dall'evocato parametro costituzionale.

    2.1.2. - Da quanto precede deriva che l'attribuzione alla giurisdizione tributaria di controversie non aventi natura tributaria comporta la violazione del divieto costituzionale di istituire giudici speciali. Tale illegittima attribuzione può derivare, direttamente, da una espressa disposizione legislativa che ampli la giurisdizione tributaria a materie non tributarie ovvero, indirettamente, dall'erronea qualificazione di "tributaria" data dal legislatore (o dall'interprete) ad una particolare materia (come avviene, ad esempio, allorché si riconducano indebitamente alla materia tributaria prestazioni patrimoniali imposte di natura non tributaria). Per valutare la sussistenza della denunciata violazione dell'art. 102, secondo comma, Cost., occorre accertar e, perciò, se la controversia devoluta ai giudici tributari abbia o no effettiva natura tributaria. E, a tal fine, non si può prescindere dai criteri elaborati dalla giurisprudenza di questa Corte per qualificare come tributarie le entrate erariali; criteri che, indipendentemente dal nomen iuris utilizzato dalla normativa che disciplina tali entrate, consistono nella doverosità della prestazione e nel collegamento di questa alla pubblica spesa, con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante (ex multis: sentenze n. 334 del 2006 e n. 73 del 2005).

    Al riguardo, va sottolineato che, ove sia stata accertata la natura non tributaria della materia attribuita alla cognizione dei giudici tributari, si deve affermare l'illegittimità costituzionale di detta attribuzione, né possono addursi in contrario argomenti che non trovano fondamento nell'art. 102, secondo comma, Cost. e nella VI disposizione transitoria della Costituzione. Ad esempio, non sarebbe sufficiente, al fine di negare lo "snaturamento" della materia attribuita alla giurisdizione tributaria, affermare che le controversie relative ad alcuni particolari canoni, pur non avendo natura tributaria, sono legittimamente attribuite alla cognizione delle commissioni tributarie per la sola ragione che il fatto generatore delle suddette prestazioni patrim oniali è simile al presupposto che, in passato, avevano avuto alcuni tributi. Neppure sarebbe sufficiente addurre mere ragioni di opportunità per giustificare, sul piano costituzionale, la cognizione, da parte dei giudici tributari, di controversie non tributarie riguardanti fattispecie in qualche misura simili a quelle propriamente tributarie. Al contrario, come già rilevato, il difetto della natura tributaria della controversia fa necessariamente venir meno il fondamento costituzionale della giurisdizione del giudice tributario, con la conseguenza che l'attribuzione a tale giudice della cognizione della suddetta controversia si risolve inevitabilmente nella creazione, costituzionalmente vietata, di un "nuovo" giudice speciale.

    2.2. - Con riguardo al sopra menzionato secondo passaggio argomentativo, concernente la natura non tributaria del COSAP, questa Corte deve preliminarmente prendere atto che la disposizione censurata è stata oggetto di numerose pronunce della Corte di cassazione. Tale giurisprudenza, dopo aver inserito il denunciato art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge n. 203 del 2005 nell'àmbito di una tendenza del legislatore ad ampliare progressivamente l'oggetto della giurisdizione tributaria mediante successive modificazioni dell'art. 2 del decreto legislativo n. 546 del 1992, ha costantemente dichiarato che le controversie attinent i al COSAP non hanno natura tributaria (ex multis, Cassazione, sezioni unite civili, nn. 25551, 13902, 1611 del 2007; n. 14864 del 2006; n. 1239 del 2005; n. 5462 del 2004; n. 12167 del 2003). In particolare, la Cassazione, dopo aver rilevato che il COSAP si applica in via alternativa al tributo denominato «tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche» (TOSAP), ha precisato che detto canone, da un lato, «è stato concepito dal legislatore come un quid ontologicamente diverso, sotto il profilo strettamente giuridico, dal tributo (Tosap) in luogo del quale può essere applicato» e, dall'altro, «risulta disegnato come corrispettivo di una concessione, reale o presunta (nel caso di occupazione abusiva), dell'uso esclusivo o speciale di beni pubblici».

    Tali decisioni circa la natura non tributaria del COSAP, che - per il numero elevato, la sostanziale identità di contenuto e la funzione nomofilattica dell'organo decidente - costituiscono diritto vivente, prospettano una ricostruzione plausibile dell'istituto, non in contrasto con i sopra ricordati criteri elaborati dalla giurisprudenza costituzionale per individuare le entrate tributarie. Non sussistono ragioni, pertanto, perché questa Corte proceda ad una autonoma valutazione circa la natura del COSAP.

    3. - Dalla evidenziata esclusione della natura tributaria del COSAP discende, dunque, l'illegittimità costituzionale della norma denunciata, perché questa attribuisce alla giurisdizione tributaria la cognizione di controversie relative a prestazioni patrimoniali non tributarie e, pertanto, si risolve nella creazione di un giudice speciale vietato dal secondo comma dell'art. 102 Cost.

    4. - Resta assorbita la questione sollevata dal giudice rimettente con riferimento all'art. 25, primo comma, Cost.

      per questi motivi

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 2, secondo periodo, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) - come modificato dall'art. 3-bis, comma 1, lettera b), del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della l egge 2 dicembre 2005, n. 248 -, nella parte in cui stabilisce che «Appartengono alla giurisdizione tributaria anche le controversie relative alla debenza del canone per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche previsto dall'articolo 63 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni».

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 marzo 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronunc
ia successiva

ORDINANZA N. 65

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE       Presidente

- Giovanni Maria  FLICK        Giudice

- Francesco       AMIRANTE        "

- Ugo             DE SIERVO       "

- Paolo           MADDALENA       "

- Alfio           FINOCCHIARO     "

- Alfonso         QUARANTA        "

- Franco          GALLO           "

- Luigi           MAZZELLA        "

- Gaetano         SILVESTRI       "

- Maria Rita      SAULLE          "

- Giuseppe        TESAURO         "

- Paolo Maria     NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 160 del codice penale modificato dall'art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promosso con ordinanza del 3 maggio 2006 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano nel procedimento penale a carico di R. G. ed altri, iscritta al n. 313 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell'anno 2006.

    Visti l'atto di costituzione di R. G. ed altri nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 15 gennaio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick;

    udito l'avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.

    Ritenuto che, con l'ordinanza in epigrafe, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 160 del codice penale, nella parte in cui «non prevede l'avviso di conclusione delle indagini di cui all'art. 415 bis cod. proc. pen. quale atto interruttivo del corso della prescrizione»;

    che il rimettente − premesso che, in sede di udienza  preliminare,  la difesa degli imputati ha richiesto l'emissione di pronuncia  di non luogo a procedere ai sensi dell'art. 425 del codice di procedura penale, sul rilievo dell'intervenuta prescrizione dei reati contestati, già maturata all'atto della richiesta di rinvio a giudizio − evidenzia che, prima di tale evento, «l'unico atto di iniziativa del P.M. inoltrato agli imputati interessati» risulta essere l'avviso di conclusione delle indagini preliminari, ai sensi dell'art. 415-bis  cod. proc. pen.: atto non rientrante tra quelli indicati dall'art. 160, secondo comma, cod. pen. ed aventi efficacia interruttiva del corso della prescrizione;

    che questi ultimi − argomenta il giudice a quo − si caratterizzano per essere sintomatici della persistenza dell'interesse punitivo in capo allo Stato, presupponendo essi «lo svolgimento di attività processuale da parte degli organi giudiziari»: così da palesare la volontà dello Stato, espressa attraverso i suoi organi, di proseguire nella pretesa punitiva; caratteristiche, queste, che connotano indubbiamente anche l'avviso di cui all'art. 415-bis  cod. proc. pen., introdotto nel rito penale dalla legge n. 479 del 1999;

    che, invero, attraverso l'avviso di conclusione delle indagini, il pubblico ministero «concretamente anticipa» l'accusa nei confronti della persona indagata, attraverso modalità formali del tutto assimilabili alla contestazione del fatto cui è preordinata la richiesta di rinvio a giudizio: così manifestandosi, attraverso un'univoca iniziativa dell'organo d'accusa, la volontà statuale di coltivare la punizione da parte dello Stato;

    che pertanto, deduce ancora il giudice a quo, l'omesso inserimento di tale atto nel novero di quelli interruttivi di cui all'art. 160, secondo comma, cod. pen. può essere spiegato solo ipotizzando «il mancato coordinamento tra la disposizione introdotta [.] ed il codice di diritto sostanziale»; apparendo altrimenti incongruo che ad un tal genere di atto, in tutto rispondente ai criteri che connotano gli altri atti interruttivi della prescrizione, non venga  riconosciuta identica efficacia;

    che d'altra parte tale esclusione, secondo il rimettente, non è emendabile in via interpretativa, attraverso l'assimilazione dell'avvertimento all'indagato della facoltà di rendere interrogatorio, contenuto nell'avviso ex art. 415-bis cod. proc. pen., all'invito a presentarsi per rendere interrogatorio di cui all'art. 375, comma 3, del medesimo codice: atto, quest'ultimo, invece annoverato fra quelli che producono l'effetto di interrompere il corso della prescrizione; sicché l'esclusione si traduce in una ingiustificata disparità di trattamento «tra situazioni sostanzialmente identiche per ratio e natura», contrasta ndo così con l'art. 111, secondo comma, della Costituzione;

    che, infatti, è risolto immotivatamente, in favore dell'indagato, il contrasto tra l'interesse di quest'ultimo alla estinzione del reato per decorso del tempo e quello dello Stato, impersonato dal pubblico ministero, che non ha tuttavia palesato inerzia o disinteresse alla pretesa punitiva;

    che tale situazione, ad avviso del giudice a quo, integra una disparità di trattamento tra le parti processuali in violazione del principio di parità di esse nel processo, espresso nell'art. 111, secondo comma, della Costituzione, «in adesione al più generale principio di cui all'art. 3 della Costituzione»;

    che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, concludendo per l'inammissibilità o, comunque, per la manifesta infondatezza della questione e ritenendo, in particolare, «improprio» il richiamo al principio costituzionale di parità delle parti nel processo: principio «di carattere squisitamente processuale» e, come tale, inidoneo a fondare una censura di incostituzionalità di una norma in materia di prescrizione, istituto di diritto sostanziale;

    che nel giudizio di costituzionalità hanno spiegato costituzione le parti private G.R., A.C. ed A.C., concludendo per l'infondatezza della questione;

    che la difesa privata − muovendo dal presupposto che l'elenco delle cause interruttive di cui all'art. 160 cod. pen. è da intendersi nel senso di «rigorosa tassatività», ragion per cui un suo ampliamento è destinato a risolversi in una «inammissibile analogia in malam partem» − afferma che l'avviso di conclusioni delle indagini non è atto idoneo ad evidenziare l'interesse dello Stato alla punizione del colpevole, rivestendo piuttosto la funzione di consentire all'indagato di "difendersi provando"; per altro verso, la difesa privata assume che, ferma restando la sovrana discrezionalità del legislatore nell'individuare gli atti aventi efficacia interruttiva della prescrizione, il sindacato della Corte risulterebbe  comunque paralizzato dal principio di legalità espresso nell'art. 25 Cost., posto che una pronuncia di accoglimento comporterebbe l'innesto, nel sistema, di norma di minor favore per l'imputato.

    Considerato che il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale Milano dubita della compatibilità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Carta, dell'art. 160 del codice penale, nella parte in cui tale norma non prevede, tra gli atti interruttivi del corso della prescrizione, l'avviso di conclusione delle indagini di cui all'art. 415-bis del codice del rito penale: situazione che, ad avviso del rimettente, si risolverebbe in una ingiustificata disparità di trattamento in favore dell'indagato, attesa l'irra gionevole esclusione di un atto di iniziativa del pubblico ministero, del tutto identico, per natura e funzione, a quelli tipici contemplati nella norma addotta a sospetto;

    che il giudice a quo muove dal corretto presupposto interpretativo − di recente ribadito anche dalle Sezioni unite della Suprema Corte di Cassazione  (sentenza 22 febbraio 2007 n. 21833) - secondo il quale l'avviso di conclusione delle indagini ex art. 415-bis cod. proc. pen. non ha efficacia interruttiva della prescrizione, non risultando compreso nell'elenco degli atti espressamente previsti dall'art. 160, secondo comma, cod. pen.; e, nondimeno, egli richiede una pronuncia additiva, volta ad integrare la serie degli atti che, contemplati nella norma del codice sost anziale, risultano gli unici idonei a produrre l'effetto di interrompere il corso della prescrizione;

    che tuttavia la pronuncia che il rimettente sollecita - mirando ad introdurre una nuova ipotesi di interruzione della prescrizione al di fuori di quelle contemplate dal legislatore - esorbita dai poteri spettanti a questa Corte, a ciò ostando il principio della riserva di legge sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost.; tale principio, rimettendo al legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni loro applicabili, inibisce alla Corte tanto la creazione di nuove fattispecie criminose o l'estensione di quelle esistenti a casi non previsti, quanto «di incidere in peius sulla risposta punitiva o su aspetti inerenti alla punibilità»: aspett i fra i quali, indubbiamente, rientrano quelli inerenti la disciplina della prescrizione e dei relativi atti interruttivi o sospensivi (si veda la sentenza n. 394 del 2006; riguardo all'introduzione di nuove ipotesi di interruzione del corso della prescrizione, si vedano, tra le tante, le ordinanze n. 245 del 1999; n. 412 del 1998; n. 178 del 1997; n. 315 del 1996; n. 144 del 1994; nn. 193 e 188 del 1993);

    che pertanto la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 160, secondo comma, del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano con l'ordinanza in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 marzo 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
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ORDINANZA N. 66

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'articolo 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359, introdotto dall'art. 3,  comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), promosso con ordinanza del 19 febbraio 2007 dalla Corte d'appello di Napoli nel procedimento civile vertente tra l'Enel s.p.a. e Izzo Vincenzo, iscritta al n. 712 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie sp eciale, dell'anno 2007.

    Visti gli atti di costituzione della Enel Distribuzione s.p.a. e di Izzo Vincenzo;

    udito nella camera di consiglio del 13 febbraio 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro.

    Ritenuto che la Corte d'appello di Napoli, con ordinanza del 19 febbraio 2007, ha sollevato, in riferimento agli art. 111, primo e secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 (di seguito, CEDU), rat ificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), ed all'art. 1 del  Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952 (infra, Protocollo), questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), che ha aggiunto il comma 7-bis nell'art. 5-bis del decreto-legge 11 luglio 1992, n. 333 (Misure urgenti per il risanamento della finanza pubblica), convertito, con modificazioni, dalla legge 8 agosto 1992, n. 359;

    che nel giudizio a quo un privato ha convenuto in giudizio l'Enel, chiedendone la condanna a pagare l'indennità per l'occupazione legittima di un suolo di sua proprietà, sul quale sono stati realizzati una stazione elettrica e due elettrodotti, ed a risarcire i danni per l'occupazione illegittima e per la costituzione di una servitù;

    che il rimettente, adito in sede di giudizio di rinvio, espone che, in virtù del principio di diritto enunciato dalla Corte suprema di cassazione, deve quantificare il danno subito dall'attore in forza del criterio stabilito dalla norma censurata che, tuttavia, si porrebbe in contrasto con i parametri costituzionali sopra indicati;

    che la Corte d'appello, a conforto del dubbio di legittimità costituzionale, richiama, sostanzialmente riproducendole, le argomentazioni svolte dalla Corte suprema di cassazione nell'ordinanza del 20 maggio 2006, che ha sollevato analoga questione di legittimità costituzionale:

    che, a suo avviso, il citato art. 5-bis, comma 7-bis, si porrebbe in contrasto con l'art. 111, primo e secondo comma, Cost., in relazione all'art. 6 della CEDU, in quanto l'applicabilità della norma ai giudizi in corso vulnera i princípi del giusto processo e della parità delle parti;

    che, inoltre, detta norma violerebbe l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 della CEDU ed 1 del Protocollo, poiché la sua applicabilità ai giudizi in corso e la misura dalla stessa stabilita per la quantificazione del danno da occupazione acquisitiva lederebbe il diritto di proprietà, ponendosi in contrasto con i citati artt. 6 ed 1, come interpretati dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, con conseguente violazione di obblighi internazionali assunti dallo Stato;

    che, nel giudizio innanzi a questa Corte si sono costituiti sia l'attore sia la convenuta del processo principale, chiedendo, rispettivamente, il primo anche nella memoria depositata in prossimità della camera di consiglio, che la questione sia accolta e che sia dichiarata non fondata.

    Considerato che il dubbio di legittimità costituzionale sottoposto a questa Corte ha ad oggetto l'art. 5-bis, comma 7-bis, del decreto-legge n. 333 del 1992, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 359 del 1992, introdotto dall'art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996, nella parte in cui stabilisce che, in caso di occupazioni illegittime di suoli per causa di pubblica utilità, intervenute anteriormente al 30 settembre 1996, si applicano, per la liquidazione del danno, i cri teri di determinazione dell'indennità di cui al comma 1, con esclusione della riduzione del 40 per cento, che, in tal caso, l'importo del risarcimento è altresì aumentato del 10 per cento, e che dette disposizioni si applicano anche ai procedimenti in corso non definiti con sentenza passata in giudicato;

    che, successivamente all'ordinanza di rimessione, questa Corte, con la sentenza n. 349 del 2007, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del comma 7-bis dell'art. 5-bis del d.l. n. 333 del 1992, aggiunto dall'art. 3, comma 65, della legge n. 662 del 1996, il quale stabiliva il risarcimento del danno subito per effetto dell'occupazione acquisitiva da parte della pubblica amministrazione in misura non corrispondente al valore di mercato del bene occupato;

    che pertanto, alla stregua di detta pronuncia di questa Corte, gli atti devono essere restituiti alla Corte d'appello di Napoli per un nuovo esame della rilevanza della questione.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

    ordina la restituzione degli atti alla Corte d'appello di Napoli.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 marzo 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
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ORDINANZA N. 67

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE       Presidente

- Giovanni Maria  FLICK        Giudice

- Francesco       AMIRANTE        "

- Ugo             DE SIERVO       "

- Alfio           FINOCCHIARO     "

- Alfonso         QUARANTA        "

- Franco          GALLO           "

- Luigi           MAZZELLA        "

- Gaetano         SILVESTRI       "

- Sabino          CASSESE         "

- Maria Rita      SAULLE          "

- Giuseppe        TESAURO         "

- Paolo Maria     NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 438, 516 e 517 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 30 giugno 2005 dal Tribunale di Sala Consilina, nel procedimento penale a carico di Z. E., iscritta al n. 505 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell'anno 2005.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 27 febbraio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che, con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Sala Consilina ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 438, 516 e 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono la facoltà, per l'imputato, di accedere al giudizio abbreviato allorché il pubblico ministero contesti in dibattimento - «tardivamente», in quanto già emerso nella fase delle indagini preliminari - un reato concorrente con quello indicato nel decreto che dispone il giudizio;</ SPAN>

    che il rimettente - investito del processo penale nei confronti di una persona rinviata a giudizio per il reato di cui all'art. 323 del codice penale (abuso d'ufficio) - riferisce che, nel corso dell'istruttoria dibattimentale, il pubblico ministero ha contestato all'imputato anche il reato previsto dall'art. 479 cod. pen. (falso ideologico in atto pubblico);

    che in relazione alla nuova contestazione - avvenuta non sulla base di elementi acquisiti in dibattimento, ma di circostanze già emerse nel corso delle indagini preliminari - l'imputato ha chiesto di essere ammesso al giudizio abbreviato;

    che, alla stregua delle norme denunciate, detta richiesta dovrebbe essere dichiarata inammissibile, in quanto proposta ben oltre il termine di cui art. 438, comma 2, cod. proc. pen.: donde - ad avviso del rimettente - la rilevanza della questione;

    che quanto, poi, alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo osserva come - contestando in dibattimento un reato già desumibile dagli atti di indagine, quando il termine per l'accesso al rito alternativo è ormai spirato - il pubblico ministero venga a privare l'imputato del diritto di avvalersi di tale rito in relazione alla nuova imputazione;

    che, consentendo un simile esito, le norme impugnate si porrebbero in contrasto con l'art. 24 Cost.: avendo questa Corte chiarito, con la sentenza n. 265 del 1994, che «qualora non possa rimproverarsi alcuna inerzia all'imputato, ossia nessuna addebitabilità al medesimo delle conseguenze della mancata instaurazione dei riti alternativi al dibattimento, sarebbe molto difficile negare che la impossibilità di ottenere i relativi benefici concretizzi una ingiustificata compressione del diritto di difesa»;

    che risulterebbe leso, altresì, l'art. 3 Cost., stante l'ingiustificata disparità di trattamento tra l'imputato cui vengano tempestivamente contestate tutte le condotte criminose risultanti dal materiale probatorio acquisito all'esito delle indagini preliminari, e l'imputato che si veda contestare durante il dibattimento, «tardivamente», un ulteriore reato in relazione al quale gli è ormai precluso l'accesso al giudizio abbreviato;

    che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

    Considerato che il Tribunale di Sala Consilina dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, degli artt. 438, 516 e 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non permettono all'imputato di accedere al rito abbreviato allorché il pubblico ministero contesti, in dibattimento, un reato concorrente già desumibile dagli atti delle indagini preliminari;

    che - ad avviso del rimettente - la questione sarebbe rilevante nel giudizio principale a fronte della richiesta di giudizio abbreviato, formulata dall'imputato con riguardo al reato oggetto della nuova contestazione dibattimentale;

    che il giudice a quo solleva una questione di costituzionalità, la quale poggia sull'implicito presupposto interpretativo - corrispondente all'indirizzo giurisprudenziale dominante - per cui le nuove contestazioni dibattimentali possono fondarsi non soltanto su elementi emersi nel corso dell'istruttoria dibattimentale, ma anche sulla semplice rivalutazione delle risultanze delle indagini preliminari: soluzione ermeneutica che fa leva precipuamente su esigenze di celerità e concentrazione delle attività processuali;

    che, nel far ciò, il giudice a quo non tiene, tuttavia, affatto conto (anche solo per contestarne, eventualmente, la riferibilità all'ipotesi di specie) dell'ulteriore, consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità - basato sulle medesime esigenze - secondo cui non è ammessa la richiesta di giudizio abbreviato «parziale»: e ciò in quanto l'art. 438 cod. proc. pen. prevede che, tramite tale rito alternativo, debba essere definito «il processo» - ossia, in tesi, la totalità degli addebiti - e non la singola imputazione;

    che, nella specie, di contro - secondo quanto si desume dall'ordinanza di rimessione - la richiesta di rito abbreviato dell'imputato ha riguardato solo il reato oggetto della nuova contestazione, e non anche quello per cui egli era stato originariamente rinviato a giudizio;

    che l'omessa considerazione dell'orientamento giurisprudenziale dianzi ricordato rende, di conseguenza, inadeguata la motivazione circa la rilevanza della questione: giacché - ove dovesse farsi applicazione del predetto orientamento - la richiesta di giudizio abbreviato dell'imputato risulterebbe comunque inammissibile per il suo oggetto, e lo scrutinio di costituzionalità ininfluente sull'esito del giudizio a quo;

    che, pertanto - a prescindere dall'inconferenza dell'impugnativa dell'art. 516 cod. proc. pen. (che regola una fattispecie diversa da quella oggetto del quesito: la modifica dell'imputazione) e dalla mancanza, nell'ordinanza di rimessione, di una specifica motivazione riguardo all'asserita violazione dell'art. 111 Cost. -  la questione va dichiarata manifestamente inammissibile.

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 438, 516 e 517 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Sala Consilina con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 marzo 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
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ORDINANZA N. 68

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE       Presidente

- Giovanni Maria  FLICK        Giudice

- Francesco       AMIRANTE        "

- Ugo             DE SIERVO       "

- Alfio           FINOCCHIARO     "

- Alfonso         QUARANTA        "

- Franco          GALLO           "

- Luigi           MAZZELLA        "

- Gaetano         SILVESTRI       "

- Sabino          CASSESE         "

- Maria Rita      SAULLE          "

- Giuseppe        TESAURO         "

- Paolo Maria     NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 47, comma 2, ultima parte, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 18 novembre 2003 dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Udine, nel procedimento penale a carico di P. F., iscritta al n. 533 del registro ordinanze 2005 e pubblicata nella Gazzetta ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell'anno 2005.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 27 febbraio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che, con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Udine ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 47, comma 2, ultima parte, del codice di procedura penale, come sostituito dalla legge 7 novembre 2002, n. 248 (Modifica degli articoli 45, 47, 48 e 49 del codice di procedura penale), «nella parte in cui prevede che il giudice non dispone la sospensione del processo in caso di riproposizione di richiesta di rimessione già dichiarata inammissib ile o rigettata» dalla Corte di cassazione, «solo se la richiesta non è fondata su elementi nuovi»;

    che il giudice a quo premette, in punto di fatto, che, nel corso dell'udienza preliminare, l'imputato aveva presentato, oltre a due istanze di ricusazione, quattro richieste di rimessione, ai sensi dell'art. 45 cod. proc. pen.;

    che la penultima di tali richieste era stata dichiarata inammissibile dalla Corte di cassazione, con ordinanza comunicata al giudice procedente l'11 novembre 2003;

    che lo stesso giorno l'imputato aveva depositato un'ulteriore richiesta di rimessione fondata su motivi, «almeno formalmente, diversi dai precedenti»: il che - ad avviso del rimettente - comporterebbe, in base alla norma denunciata, che il processo debba essere sospeso prima della discussione e che non possano essere pronunciati né il decreto che dispone il giudizio, né la sentenza di non luogo a procedere;

    che il giudice a quo dubita, tuttavia, della compatibilità della norma impugnata con i parametri costituzionali evocati, ricordando come questa Corte, con la sentenza n. 353 del 1996, abbia dichiarato l'illegittimità costituzionale del previgente testo dell'art. 47 cod. proc. pen., nella parte in cui faceva divieto al giudice di pronunciare la sentenza sino a che non fosse intervenuta l'ordinanza che dichiara inammissibile o rigetta la richiesta di rimessione;

    che - secondo quanto affermato dalla Corte - tale divieto non teneva conto, infatti, dei possibili abusi nella riproposizione della richiesta già dichiarata inammissibile o rigettata, in base a motivi anche solo in apparenza nuovi, finalizzati ad allontanare nel tempo la decisione di merito, provocando la paralisi delle attività processuali: donde la compromissione del bene costituzionale dell'efficienza del processo e del canone fondamentale della razionalità delle norme processuali;

    che la successiva legge n. 248 del 2002, modificativa della disciplina della rimessione - prosegue il giudice a quo - avrebbe escluso, peraltro, l'automatica sospensione del processo unicamente nel caso in cui la richiesta risulti basata sui medesimi motivi di altra richiesta già rigettata o dichiarata inammissibile;

    che, in tal modo, il legislatore non si sarebbe fatto carico dell'esigenza di prevenire i possibili abusi: l'«argine» della «novità» dei motivi - in quanto rimesso «alle capacità dialettiche della parte interessata» - risulterebbe difatti inidoneo allo scopo, tanto più dopo l'inserimento, tra i casi di rimessione, di ipotesi «generiche» quale il legittimo sospetto; onde permarrebbe il rischio che la sistematica riproposizione della richiesta di rimessione, basata su motivi anche solo in apparenza nuovi, pregiudichi irragionevolmente l'efficienza del processo;

    che tale considerazione risulterebbe ancor più pregnante a fronte del nuovo precetto dell'art. 111 Cost., il quale impegna il legislatore ad assicurare tempi ragionevoli del processo, evitando ogni disciplina espressiva di un incongruo bilanciamento tra interesse tutelato ed effetti della norma di tutela sulle attività processuali;

    che, in tale ottica, potrebbe dubitarsi della ragionevolezza di consentire una sospensione tendenzialmente indefinita del processo, anche dopo che la Corte di cassazione ha verificato, nell'esaminare una prima istanza di rimessione, la situazione ambientale in cui il processo stesso si sta svolgendo: giacché neppure l'esigenza di assicurare un giudizio che appaia «indiscutibilmente imparziale» può essere perseguita ad ogni costo, ma va contemperata con il concorrente interesse alla speditezza delle attività processuali;

    che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

    Considerato che il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Udine dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dell'art. 47, comma 2, ultima parte, del codice di procedura penale, come sostituito dalla legge 7 novembre 2002, n. 248 (Modifica degli articoli 45, 47, 48 e 49 del codice di procedura penale), nella parte in cui prevede che - nel caso di riproposizione di una richiesta di rimessione già dichiarata inammissibile o rigettata dalla Corte di cassazione - il giudice che procede non sia tenuto a sospendere il processo solo quando la richiesta non risulti fondata su elementi nuovi;

    che il giudice rimettente motiva la rilevanza della questione riferendo che, nel giudizio a quo, l'imputato ha riproposto una richiesta di rimessione, già dichiarata inammissibile, sulla base di motivi «almeno formalmente» diversi dai precedenti: iniziativa che - ad avviso del rimettente stesso - farebbe scattare l'obbligo di sospensione del processo previsto dall'art. 47, comma 2, cod. proc. pen.;

    che, nello scrutinare analoghe questioni di legittimità costituzionale, questa Corte ha già avuto modo di rilevare, peraltro, come la citata disposizione subordini espressamente l'obbligo di sospensione a una duplice condizione, preliminare rispetto a quella della novità dei motivi (ordinanza n. 268 del 2004);

    che, a detto fine, l'art. 47, comma 2, cod. proc. pen. esige, infatti, da un lato, che il processo stia per entrare in una fase particolarmente "qualificata" («prima dello svolgimento delle conclusioni e della discussione», ovvero prima della pronuncia del decreto che dispone il giudizio o della sentenza); dall'altro lato, che il giudice abbia avuto notizia dalla Corte di cassazione che la richiesta di rimessione è stata assegnata alle sezioni unite, ovvero a una sezione diversa dall'apposita sezione cui sono assegnati i ricorsi quando il Presidente rileva una causa di inammissibilità;

    che dall'ordinanza di rimessione, tuttavia, non consta affatto che il giudice a quo abbia ricevuto la notizia ora indicata: anzi, non risulta neppure che la nuova richiesta sia stata trasmessa alla Cassazione, in modo da rendere possibile la verificazione della seconda condizione, essendo stata la questione sollevata subito dopo il deposito della richiesta stessa in cancelleria;

    che, pertanto - a prescindere da ogni rilievo circa la validità dell'assunto del rimettente, stando al quale la novità anche solo «formale» dei motivi basterebbe ad imporre la sospensione del processo, ai sensi della norma denunciata (nel senso che l'identità dei motivi vada invece apprezzata «sia in senso formale che materiale», con riguardo alla parallela ipotesi della reiterazione delle dichiarazioni di ricusazione del giudice, si vedano le ordinanze n. 285 del 2002, n. 366 del 1999 e n. 466 del 1998) - il giudice a quo non risulta comunque chiamato, allo stato, a fare applicazione di detta norma: donde l'irrilevanza della questione sollevata;

    che la questione stessa va dichiarata, pertanto, manifestamente inammissibile.

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 47, comma 2, ultima parte, del codice di procedura penale, come sostituito dalla legge 7 novembre 2002, n. 248 (Modifica degli articoli 45, 47, 48 e 49 del codice di procedura penale), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Udine con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 marzo 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedente

ORDINANZA N. 69

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE        Presidente

- Giovanni Maria  FLICK         Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 517 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 12 giugno 2007 dal Tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di L. E., iscritta al n. 713 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 27 febbraio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che, con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Roma, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che - nel caso di contestazione suppletiva di circostanze aggravanti, e in particolare della recidiva, effettuata dal pubblico ministero in base alle risultanze delle indagini preliminari, e non di nuovi elementi emersi nel corso dell'istruttoria dibattimentale - l'imputato venga ri messo in termini ai fini della presentazione della richiesta di giudizio abbreviato o di applicazione della pena;

    che il rimettente - investito del processo nei confronti di una persona imputata dei reati di cui agli artt. 640 e 648 del codice penale - riferisce che, dopo la dichiarazione di apertura del dibattimento e l'ammissione delle prove richieste dalle parti, e prima che avesse inizio l'istruttoria, il pubblico ministero aveva contestato all'imputato, rimasto contumace, la recidiva specifica, infraquinquennale e reiterata;

    che - disposta la notifica al contumace del verbale recante la contestazione suppletiva - alla successiva udienza il difensore dell'imputato aveva eccepito l'illegittimità costituzionale, in relazione all'art. 111 Cost., dell'art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che, in caso di contestazione suppletiva della recidiva da parte del pubblico ministero, l'imputato sia rimesso in termini per chiedere la definizione del processo con il rito abbreviato;

    che, ad avviso del rimettente, la questione sarebbe rilevante nel giudizio a quo, in quanto la contestazione suppletiva della recidiva è avvenuta in un momento successivo al compimento delle formalità di cui all'art. 491 cod. proc. pen., costituenti il termine ultimo per l'esercizio, da parte dell'imputato, della facoltà di chiedere la definizione del processo con uno dei riti alternativi: onde il rimettente stesso si troverebbe a dover delibare, alla stregua di tale dato, «l'ammissibilità o meno della richiesta di giudizio abbreviato implicitamente anticipata dalla Difesa dell'imputato»;

    che quanto, poi, alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo ricorda come questa Corte, con sentenza n. 265 del 1995 (recte: 1994) - innovando la propria pregressa giurisprudenza - abbia dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono la facoltà dell'imputato di chiedere al giudice del dibattimento l'applicazione della pena, a norma dell'art. 444 cod. proc. pen., relativamente al fatto diverso o al reato concorrente contestato in dibattimento, quando la nuova contestazione concerne un fatto che già risultava dagli atti di indagin e, al momento dell'esercizio dell'azione penale;

    che in tali casi, difatti - secondo quanto precisato dalla Corte - la libera determinazione dell'imputato verso i riti speciali risulta sviata da aspetti di «anomalia» caratterizzanti la condotta processuale del pubblico ministero, derivanti dall'erroneità o dall'incompletezza dell'imputazione, apprezzabile sulla base degli stessi atti d'indagine: così che non potrebbe parlarsi di libera assunzione del rischio del dibattimento da parte del giudicabile;

    che una simile disciplina - sempre per affermazione della Corte - risulterebbe, altresì, censurabile in rapporto all'art. 3 Cost., venendo l'imputato irragionevolmente discriminato, ai fini dell'accesso ai riti speciali, in ragione della maggiore o minore esattezza della discrezionale valutazione delle risultanze delle indagini preliminari da parte del pubblico ministero, nell'esercitare l'azione penale alla chiusura delle indagini stesse;

    che - a parere del giudice a quo - le medesime conclusioni non potrebbero non valere anche in rapporto alla contestazione «tardiva» di circostanze aggravanti: di circostanze, cioè, la cui sussistenza fosse ravvisabile dal pubblico ministero già in base agli atti delle indagini preliminari;

    che, pure in tale ipotesi, la mancata previsione della rimessione in termini dell'imputato per la richiesta dei riti speciali si risolverebbe in una discriminazione priva di giustificazione razionale; nonché in una violazione del diritto del giudicabile a difendersi e ad essere sottoposto ad un giusto processo, inteso come «diritto ad una scelta del rito pienamente consapevole, assunta in base alla previsione ed alla ponderazione dei rischi connessi»;

    che la scelta del rito, da parte di un imputato gravato da più precedenti penali, risulterebbe, infatti, inevitabilmente influenzata dalla contestazione o meno, ad opera del pubblico ministero, della circostanza aggravante della recidiva: e ciò specie ove si tratti di recidiva reiterata, stante il divieto del giudizio di prevalenza su di essa di eventuali circostanze attenuanti, introdotto dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251; divieto a fronte del quale la richiesta di giudizio abbreviato o dell'applicazione di pena rappresenterebbe l'unico modo per ottenere una riduzione - di un terzo o fino a un terzo - del trattamento sanzionatorio;

    che, in tale prospettiva, la contestazione «tardiva» della recidiva, effettuata dal pubblico ministero dopo l'apertura del dibattimento, rappresenterebbe «un'anomalia della condotta processuale della parte pubblica», idonea «a frustrare irrimediabilmente la strategia difensiva dell'imputato in uno dei suoi punti chiave»;

    che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata.

    Considerato che il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dell'art. 517 del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che - nel caso in cui il pubblico ministero contesti in dibattimento circostanze aggravanti già desumibili dagli atti delle indagini preliminari, e in particolare la recidiva - l'imputato venga rimesso in termini ai fini della presentazione della richiesta di giudizio abbreviato o di applicazione della pena;

    che dall'ordinanza di rimessione emerge, peraltro, che nessuna richiesta di rito alternativo è stata, in concreto, ancora presentata dall'imputato nel giudizio a quo;

    che il rimettente desume, infatti, la rilevanza della questione unicamente dalla circostanza che il difensore abbia eccepito l'illegittimità costituzionale dell'art. 517 cod. proc. pen., nella parte in cui non consente all'imputato di accedere al rito abbreviato nell'ipotesi considerata: eccezione che il giudice a quo interpreta come «implicita anticipazione» della relativa richiesta;

    che, proprio in quanto tale, detta eccezione non vale, tuttavia, a rendere attualmente pregiudiziale il quesito di costituzionalità rispetto alla definizione del giudizio a quo: e ciò specie ove si consideri che - essendo l'imputato contumace - il difensore non potrebbe presentare la richiesta di giudizio abbreviato per suo conto, salvo che sia munito di procura speciale (art. 438, comma 3, cod. proc. pen.); evenienza della quale non v'è, peraltro, alcun cenno nell'ordinanza di rimessione;

    che, pertanto - a prescindere da ogni rilievo riguardo al merito delle censure, e segnatamente quanto alla validità dell'assunto per cui, in rapporto ad una circostanza aggravante quale la recidiva (basata sui meri precedenti penali dell'imputato), la mancata tempestiva richiesta del rito alternativo non comporterebbe la libera assunzione del «rischio» della sua contestazione in dibattimento - la questione va dichiarata manifestamente inammissibile (con riferimento ad analogo quesito, si veda l'ordinanza n. 129 del 2003).

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 517 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Roma con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 marzo 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 14 marzo 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA



 
    I testi delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale, trasmessi dalla newsletter "Palazzo della Consulta" sono offerti alla consultazione per fini esclusivamente di informazione.

    Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16 marzo 1956).

   Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale su quello qui riportato , in caso di divergenza.