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Deposito del 16/05/2008 (dalla 142 alla 158)

 
S.142/2008 del 07/05/2008
Udienza Pubblica del 01/04/2008, Presidente BILE, Relatore MADDALENA


Norme impugnate: Legge 27/12/2006, n. 296 (legge finanziaria 2007): discussione limitata all'art. 1, c. 1121°, 1122° e 1123°.

Oggetto: Ambiente - Norme della legge finanziaria 2007 - Fondo statale per la mobilità sostenibile nelle aree urbane - Determinazione degli interventi ed erogazione dei finanziamenti con atti ministeriali.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale - non fondatezza - inammissibilità
Atti decisi: ric. 14/2007
S.143/2008 del 07/05/2008
Camera di Consiglio del 02/04/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 33 della legge 22/04/2005, n. 69.

Oggetto: Processo penale - Custodia cautelare all'estero in esecuzione del mandato d'arresto europeo - Computo anche agli effetti della durata dei termini di fase previsti dall'art. 303, commi 1, 2 e 3 cod. proc. pen. - Mancata previsione.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ord. 380/2007
S.144/2008 del 07/05/2008
Camera di Consiglio del 16/04/2008, Presidente BILE, Relatore AMIRANTE


Norme impugnate: Artt. 669 quaterdecies e 695 del codice di procedura civile.

Oggetto: Procedimento civile - Normativa regolatrice del procedimento cautelare uniforme - Accertamento tecnico preventivo - Reclamo avverso rigetto dell'istanza - Omessa previsione della possibilità di proporre reclamo avverso l'ordinanza che rigetta l'istanza di accertamento tecnico preventivo.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ord. 648/2007
S.145/2008 del 07/05/2008
Udienza Pubblica del 26/02/2008, Presidente BILE, Relatore GAL LO


Norme impugnate: Art. 1, c. 54°, 55°, 661°, 662°, 796°, lett. b), 830°, 831° e 832°, della legge 27/12/2006, n. 296 (legge finanziaria 2007).

Oggetto: Imposte e tasse - Norme della legge finanziaria 2007 - Modalità tecniche di trasmissione in via telematica dei dati delle dichiarazioni dei redditi da determinarsi con atto del direttore dell'Agenzia delle entrate, d'intesa con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali - Modalità tecniche di trasmissione in via telematica dei dati dell'import/export alle regioni da determinarsi con atto del direttore dell'Agenzia delle dogane; Misure per il riequilibrio della finanza pubblica - Assunzione da parte delle Regioni a statuto speciale e delle province autonome dell'esercizio di funzioni statali - Disciplina per l'attuazione, per il coordinamento della manovra finanziaria statale e l'ordinamento della finanza regionale, e per il versamento dell'Irap e de ll'addizionale sull'Irpef; Addizionale all'imposta sul reddito delle persone fisiche e aliquota dell'imposta regionale sulle attività produttive - Applicazione oltre i livelli massimi previsti dalla legislazione fino all'integrale copertura dei mancati obiettivi; Spesa sanitaria - Misure per il completo trasferimento a carico del bilancio della Regione siciliana - Aumento della quota di compartecipazione della Regione, previsione di intesa preliminare all'emanazione delle nuove norme di attuazione dello Statuto in materia sanitaria, nonché retrocessione del gettito delle accise sui prodotti petroliferi consumati nella Regione e simmetrico aumento del concorso della Regione alla spesa sanitaria.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale - non fondatezza - inammissibilità - estinzione del processo
Atti decisi: ric. 11/2007
S.146/2008 del 07/05/2008
Udienza Pubblica del 11/03/2008, Presidente BILE, Relatore NAPOLITANO


Norme impugnate: Art. 1, c. 224°, della legge 23/12/2005, n. 266.

Oggetto: Impiego pubblico - Retribuzione - Festività coincidenti con la domenica - Compenso aggiuntivo corrispondente all'aliquota giornaliera - Diritto già riconosciuto a tutti i lavoratori subordinati retribuiti in misura fissa - Inapplicabilità con efficacia retroattiva statuita per i soli dipendenti pubblici, a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 542/2007
< em>S.147/2008 del 07/05/2008
Camera di Consiglio del 12/03/2008, Presidente BILE, Relatore AMIRANTE


Norme impugnate: Art. 301, c. 1°, del codice di procedura civile.

Oggetto: Procedimento civile - Azione di reintegrazione nel possesso - Fase di merito - Cancellazione volontaria dall'albo professionale del difensore di parte ricorrente, intervenuta in data anteriore all'udienza fissata per la precisazione delle conclusioni - Omessa inclusione della cancellazione volontaria del difensore dall'albo professionale tra le cause di interruzione del processo previste dall'art. 301, comma primo, cod. proc. civ.

Dispositivo: inammissibilità
Atti decisi: ord. 709/2007
S.148/2008 del 07/05/2008
Camera di Consiglio del 02/04/2008, Presidente BILE, Relatore AMIRANTE


Norme impugnate: Artt. 4, c. 3° [come sostituito dall'art. 4, c. 1°, lett. b), della legge 30/07/2002, n. 189] e 5, c. 5°, del decreto legislativo 25/07/1998, n. 286.

Oggetto: Straniero - Ingresso e permanenza nel territorio dello Stato - Divieto di rilascio o di rinnovo del permesso di soggiorno, in caso di condanna, anche a seguito dell'applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'art. 444 c.p.p., per determinati reati - Subordinazione del divieto al previo accertamento della pericolosità sociale - Mancata previsione.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 744 e 745/2007
S.149/2008 del 07/05/2008
Camera di Consiglio del 16/04/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 266, c. 2°, del codice di procedura penale.

Oggetto: Processo penale - Mezzi di ricerca delle prove - Disciplina delle intercettazioni delle comunicazioni tra presenti - Mancata estensione a "qualsiasi captazione di immagini in luoghi di privata dimora".

Dispositivo: inammissibilità
Atti decisi: ord. 168/2006
O.150/2008 del 07/05/2008
C amera di Consiglio del 02/04/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 593 (come sostituito dall'art. 1 della legge 20/02/2006, n. 46) del codice di procedura penale; art. 10, c. 1°, 2° e 3°, della legge 20/02/2006, n. 46.

Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Preclusione, salvo nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2 - Inammissibilità dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 213, 596/2006
O. 151/2008 del 07/05/2008
Camera di Consiglio del 02/04/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 593 (come sostituito dall'art. 1 della legge 20/02/2006, n. 46) del codice di procedura penale.

Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Preclusione, salvo nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2.

Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens
Atti decisi: ord. 673/2006
O.152/2008 del 07/05/2008
Camera di Consiglio del 02/04/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Artt. 593 (come sostituito dall'art. 1 della legge 20/02/2006, n. 46) e 443, c. 1° (modificato dall'art. 2 della legge 20/02/2006, n. 46) del codice di procedura penale; art. 10, c. 1°, 2° e 3°, della legge 20/02/2006, n. 46.

Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Giudizio abbreviato - Limiti all'appello - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Preclusione, salvo nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2 - Inammissibilità dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella.

Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens
Atti decisi: ord. 700/2006
O.153/2008 del 07/05/2008
Camera di Consiglio del 02/04/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 443, c. 1°, del codice di procedura penale, modificato dall'art. 2 della legge 20/02/2006, n. 46; art. 10, c. 1° e 2°, della legge 20/02/2006, n. 46.

Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Giudizio abbreviato - Limiti all'appello - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Esclusione - Inammissibilità dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella.

Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens
Atti decisi: ord. 250, 324, 327 e 437/2006
O.154/2008 del 07/05/2008
Camera di Consiglio del 02/04/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Artt. 576 (come modificato dall'art. 6 della legge 20/02/2006, n. 46) e 593 (come sostituito dall'art. 1 della legge 20/02/2006, n. 46) del codice di procedura penale; artt. 1 e 10 della legge 20/02/2006, n. 46.

Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Preclusione - Inammissibilità dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella; Impugnazione della parte civile - Possibilità di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento - Preclusione - Applicabilità delle nuove norme ai processi in corso.

Dispositivo: manifesta inammissibilità - restituzione atti - jus superveniens
Atti decisi: ord. 265, 429 e 577/2006
O.155/2008 del 07/05/2008
Camera di Consiglio del 02/04/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 576 del codice di procedura penale (come modificato dall'art. 6 della legge 20/02/2006, n. 46); artt. 6 e 10 della legge 20/02/2006, n. 46.

Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Impugnazione della parte civile - Possibilità di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento - Preclusione - Applicabilità delle nuove norme ai processi in corso.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 272, 346, 460, 480, 521, 528 e 674/2006
O.156/2008 del 07/05/2008
Camera di Consiglio del 02/04/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 428 del codice di procedura penale (come sostituito dall'art. 4 della legge 20/02/2006, n. 46); artt. 4 e 10 della legge 20/02/2006, n. 46.

Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di non luogo a procedere - Preclusione - Inammissibilità dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 424, 453, 531 e 552/2006
O.157/2008 del 07/05/2008
Camera di Consiglio del 16/04/2008, Presidente BILE, Relatore MADDALENA


Norme impugnate: Art. 35, c. 26° quinquies, del decreto legge 04/07/2006, n. 223, introdotto dalla legge 04/08/2006, n. 248.

Oggetto: Giurisdizioni speciali - Giurisdizione tributaria - Ricorso avverso preavviso di fermo di autoveicolo, emesso dall'agente della riscossione per omesso pagamento di importi dovuti per violazioni del codice della strada e indicati nelle cartelle di pagamento notificate al ricorrente - Eccezione di difetto di giurisdizione dell'adita commissione tributaria - Omessa integrazione dell'art. 2 del decreto legislativo n. 546 del 1992 nel senso dell'espressa devoluzione al giudice tributario delle controversie in materia di fermo dei veicoli dovuto al mancato pagamento di cartella notificata per violazioni del codice della strada.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 715/2007
O.158/2008 del 07/05/2008
Camera di Consiglio del 16/04/2008, Presidente BILE, Relatore GALLO


Norme impugnate: Art. 63 del decreto Presidente della Repubblica 29/09/1973, n. 602.

Oggetto: Imposte e tasse - Riscossione delle imposte - Esecuzione esattoriale - Opposizione di terzo (non legato al debitore da rapporti di coniugio, parentela o affinità) proprietario di immobile concesso in locazione al debitore esecutato in data anteriore all'avvio della procedura esecutiva - Pignoramento di beni mobili, compresi nella locazione, acquistati dal terzo locatore anteriormente al pignoramento - Imposizione al terzo opponente dell'onere di dimostrare l'appartenenza del bene mediante titolo avente data certa anteriore all'anno cui si riferisce l'entrata iscritta a ruolo (atto pubblico o scrittura privata autenticata ovvero sentenza passata in giudicato pronunciata su domanda proposta prima del detto anno) - Omessa previsione della possibilità per il terzo opponente di adempiere al suddetto onere anche mediante l'esibizione di documenti aventi data certa anteriore al pignoramento.

Dispositivo: manifesta infondatezza
Atti decisi: ord. 710/2007

pronuncia successiva

SENTENZA N. 142

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE        Presidente

- Giovanni Maria  FLICK         Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 1121, 1122 e 1123, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), promosso con ricorso della Regione Lombardia, notificato il 26 febbraio 2007, depositato in cancelleria il 7 marzo 2007 ed iscritto al n. 14 del registro ricorsi 2007.

    Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 1° aprile 2008 il Giudice relatore Paolo Maddalena;

    uditi l'avvocato Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Lombardia e l'avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

    1. ¾ Con ricorso notificato il 26 febbraio 2007 e depositato in cancelleria il 7 marzo 2007, la Regione Lombardia ha impugnato numerose disposizioni della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), e, tra esse, l'art. 1, commi 1121, 1122 e 1123, per violazione degli artt. 117, 118, 119 della Costituzione, nonché dei principi costituzionali di leale collaborazione (art. 120), di buon andamento (art. 97) e di ragionevolezza (art. 3).

    Le norme oggetto della questione di legittimità costituzionale concernono l'istituzione di un Fondo per la mobilità sostenibile nelle aree urbane e la determinazione delle relative destinazioni.

    Secondo quanto previsto dal comma 1121, il Fondo è istituito nell'ambito dello stato di previsione del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare.

    Esso consiste in uno stanziamento annuale di 90 milioni di euro per il triennio 2007-2009. Lo scopo del Fondo è il finanziamento di «interventi finalizzati al miglioramento della qualità dell'aria nelle aree urbane e al potenziamento del trasporto pubblico». Ai sensi del comma 1122, le risorse del Fondo sono destinate, con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministro dei trasporti, all'adozione di numerose misure, già individuate ed enumerate dalla disposizione stessa: potenziamento dei mezzi pubblici, soprattutto dei meno inquinanti e nell'ambito dei comuni «a maggiore crisi ambientale»; incentivi per l'intermodalità e per la mobilità sostenibile; valorizzazione degli s trumenti del mobility management e del car sharing; percorsi vigilati protetti casa-scuola; miglioramento della logistica per la consegna e la distribuzione delle merci; realizzazione e potenziamento di forme di distribuzione di carburante (gas metano, gpl, energia elettrica, idrogeno); promozione di reti urbane di percorsi destinati alla mobilità ciclistica. Il comma 1123 dispone infine la destinazione di una quota non inferiore al 5 per cento del Fondo in favore di uno specifico fondo preesistente, e cioè del Fondo per la mobilità ciclistica previsto dalla legge 19 ottobre 1998, n. 366.

    Ad avviso della Regione ricorrente, i commi impugnati violano il riparto di competenze disegnato dalla Costituzione, giacché intervengono in una materia, quale è quella del trasporto pubblico locale, di competenza residuale regionale.

    La ricorrente osserva che, ancor prima della riforma del titolo V della Costituzione, il decreto legislativo 19 novembre 1997, n. 422 (Conferimento alle Regioni ed agli enti locali di funzioni e compiti in materia di trasporto pubblico locale, a norma dell'art. 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59) aveva ridisciplinato l'intero settore, conferendo alle Regioni ed agli enti locali funzioni e compiti relativi a tutti i «servizi pubblici di trasporto di interesse regionale e locale con qualsiasi modalità effettuati ed in qualsiasi forma affidati» ed escludendo solo i trasporti pubblici di interesse nazionale (in particolare, con gli artt. 1 e 3).

    Premessa un'analisi della giurisprudenza costituzionale sulle norme di legge statale prevedenti fondi a destinazione vincolata, relativi ad ambiti di competenza regionale, la ricorrente riconosce che la norma impugnata, tra le finalità dell'intervento, fa riferimento, oltre che al «potenziamento del trasporto pubblico», anche al «miglioramento della qualità dell'aria», e colloca lo strumento finanziario nell'ambito dello stato di previsione del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare.

    Non v'è dubbio - osserva la Regione - che le finalità degli stanziamenti possano avere una connessione con tematiche ambientali; tuttavia, sarebbe censurabile il tentativo di escludere completamente il soggetto Regione dalla determinazione delle politiche relative a temi di propria competenza, vista la incontestabile attinenza tematica del Fondo in questione con la materia del trasporto pubblico locale.

    Ad avviso della ricorrente, il Fondo in questione presenta una stretta analogia con il Fondo previsto dall'art. 4, comma 157, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2004): la disposizione prevedeva la costituzione di «un apposito Fondo presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti» per il generico fine di assicurare il conseguimento di «risultati di maggiore efficienza e produttività dei servizi di trasporto pubblico locale» e la sua ripartizione tramite «decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentita la Conferenza unificata di cui all'art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 19 97, n. 281». Investita dell'impugnazione di tale disposizione, che interveniva in un ambito di competenza regionale, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 222 del 2005, ha ribadito che la necessità di assicurare il rispetto delle attribuzioni costituzionalmente riconosciute alle Regioni impone di prevedere che queste ultime siano pienamente coinvolte nei processi decisionali concernenti il riparto dei fondi; ciò tenendo altresì conto del limite discendente dal divieto di procedere in senso inverso a quanto oggi prescritto dall'art. 119 della Costituzione, e così di sopprimere semplicemente, senza sostituirli, gli spazi di autonomia già riconosciuti dalle leggi statali in vigore alle Regioni e agli enti locali, o di procedere a configurare un sistema finanziario complessivo che contraddica i principi del medesimo art. 119. </ SPAN>

    In quella occasione, la Corte ha ritenuto insufficiente il meccanismo previsto dalla disposizione censurata che si limitava a richiedere una mera consultazione con la Conferenza unificata e ha definito invece costituzionalmente necessario, al fine di assicurare in modo adeguato la leale collaborazione fra le istituzioni statali e regionali, che il provvedimento con cui si ripartiva il Fondo (nel caso di specie, un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri) fosse adottato sulla base di una vera e propria intesa con la Conferenza unificata di cui all'art. 8 del d.lgs. n. 281 del 1997.

    Le disposizioni oggetto della attuale impugnativa - osserva la ricorrente - non fanno riferimento nemmeno ad una forma di intesa (né debole, né tanto meno forte), quale potrebbe essere la mera consultazione non vincolante con organi esponenziali delle prerogative costituzionali delle Regioni e degli enti locali (forma di intesa che sarebbe comunque insufficiente a salvare le norme dalla censura di illegittimità costituzionale); semplicemente, escludono totalmente la Regione da ogni forma di codeterminazione delle misure in esse previste, non prevedendo nessuna forma di coinvolgimento.

    Di qui la violazione del principio di leale collaborazione, in materia di competenza residuale regionale. La mancata partecipazione dei soggetti più da vicino interessati alla corretta ed efficiente attuazione di funzioni di propria competenza, finirebbe con il comprimere illegittimamente un generale parametro di ragionevolezza (anche nella sua specifica accezione di razionalità) e determinerebbe sicuri effetti negativi sulla possibilità di perseguire con successo, nell'ambito delle azioni amministrative relative alla mobilità e al trasporto pubblico, quegli obiettivi generali verso cui ogni buona pratica amministrativa deve orientarsi, obiettivi relativi all'economicità, alla rapidità, all'efficacia, all'efficienza, al miglior c ontemperamento dei vari interessi, tutti riassumibili nel principio costituzionale di buon andamento (art. 97 Cost.).

    Né basterebbe - osserva conclusivamente la Regione - lo spostamento del Fondo da un Ministero all'altro, ferme rimanendo le stesse finalità, a giustificare la totale esclusione delle Regioni dal circuito delle decisioni e dei finanziamenti in materia di trasporto pubblico locale.

    2. ¾ Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la non fondatezza della questione.

    La difesa erariale osserva che una semplice lettura dei commi censurati dimostra che le misure disposte perseguono dichiaratamente la finalità di miglioramento della qualità dell'aria e solo indirettamente, quale strumento di mezzo al fine, toccherebbero altre materie. Significativa, in tal senso, sarebbe la previsione secondo cui le somme stanziate per il Fondo sono iscritte nello stato di previsione del Ministero dell'ambiente, il quale, con decreto emesso di concerto con il Ministro dei trasporti, provvede ad imprimere concreta destinazione alle risorse.

    Le norme censurate, pertanto, attengono in via esclusiva, o quanto meno prevalente, alla materia ambientale, devoluta alla competenza esclusiva statale dall'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.

    3. ¾ In prossimità dell'udienza pubblica, la Regione Lombardia ha depositato una memoria illustrativa.

    La ricorrente - premesso che, nelle more del giudizio di costituzionalità, il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministro dei trasporti, ha adottato il decreto 3 agosto 2007, con il quale sono stati specificati gli interventi oggetto dei finanziamenti prefigurati dalle disposizioni impugnate - ribadisce che queste si pongono in contrasto con il riparto di competenze delineato dall'art. 117 Cost., dal momento che l'istituzione del Fondo per la mobilità sostenibile interferisce con la materia del trasporto pubblico locale, di esclusiva spettanza delle Regioni.

    In particolare, il comma 1122 ha rimesso ad un decreto ministeriale lo stanziamento delle risorse del Fondo ed ha previsto l'attuazione prioritaria di specifici obiettivi individuati non già secondo criteri generali, ma fornendo indicazioni di estremo dettaglio. Vi sarebbe altresì, in violazione del principio costituzionale della leale collaborazione, una totale mancanza di qualsivoglia forma di coinvolgimento delle Regioni nella predisposizione delle norme di attuazione del Fondo.

Considerato in diritto

    1. ¾ Con ricorso notificato il 26 febbraio 2007 e depositato in cancelleria il 7 marzo 2007, la Regione Lombardia ha promosso questioni di legittimità costituzionale di numerose disposizioni della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007).

    2. ¾ L'impugnazione avente ad oggetto l'art. 1, commi 1121, 1122 e 1123, della legge n. 296 del 2006 viene qui trattata separatamente rispetto alle altre questioni promosse con il suddetto ricorso.

    3. ¾ Il comma 1121 istituisce un Fondo per la mobilità sostenibile nell'ambito dello stato di previsione del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare «allo scopo di finanziare interventi finalizzati al miglioramento della qualità dell'aria n elle aree urbane nonché al potenziamento del trasporto pubblico» con uno stanziamento di 90 milioni di euro per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009.

    Ai sensi del comma 1122, le risorse del Fondo sono destinate, con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministro dei trasporti, prioritariamente all'adozione delle seguenti misure: potenziamento dei mezzi pubblici, soprattutto dei meno inquinanti e nell'ambito dei comuni a maggiore crisi ambientale; incentivi per l'intermodalità e per la mobilità sostenibile; valorizzazione degli strumenti del mobility management e del car sharing; percorsi vigilati protetti casa-scuola; miglioramento della logistica per la consegna e la distribuzione delle merci; realizzazione e potenziamento di forme di distribuzione di carburante (gas metano, gpl, energia elettrica, idrogeno); promozione di reti urbane di percorsi destinati alla mobilità ciclistica.

    Il comma 1123 dispone infine la destinazione di una quota non inferiore al 5 per cento del Fondo in favore di uno specifico fondo preesistente, e cioè del Fondo per la mobilità ciclistica previsto dalla legge 19 ottobre 1998, n. 366.

    Le predette norme sono censurate in riferimento agli artt. 117, 118, 119 della Costituzione, nonché ai principi costituzionali di leale collaborazione (art. 120), di buon andamento (art. 97) e di ragionevolezza (art. 3), perché contrasterebbero con il riparto di competenze disegnato dalla Costituzione, intervenendo in una materia, quale è quella del trasporto pubblico locale, di competenza residuale regionale, escludendo completamente il soggetto Regione dalla determinazione delle politiche relative a temi di propria competenza; e perché ometterebbero di prevedere qualsiasi forma di coinvolgimento della Regione nel circuito delle decisioni relative ai finanziamenti in materia di trasporto pubblico locale.

    4. ¾ Così individuato l'ambito delle questioni sottoposte all'esame di questa Corte, devono essere preliminarmente dichiarate inammissibili le censure di violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione.

    Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, le Regioni possono far valere il contrasto con norme costituzionali diverse da quelle attributive di competenza solo ove esso si risolva in una lesione di sfere di competenza regionali (così, fra le tante, sentenze n. 63 e n. 50 del 2008, n. 401 del 2007 e n. 116 del 2006). Nel caso di specie, le censure dedotte, oltre ad essere generiche, non sono prospettate in maniera tale da far derivare dalla pretesa violazione dei richiamati parametri costituzionali una compressione dei poteri della Regione.

    5. ¾ Passando all'esame del merito delle altre censure proposte dalla ricorrente, occorre premettere che con esse questa Corte è chiamata nuovamente a pronunciarsi su questioni di legittimità costituzionale relative all'istituzione di fondi statali.

    Al riguardo, deve essere ricordato che la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente affermato che il legislatore statale non può porsi in contrasto con i criteri e i limiti che presiedono all'attuale sistema di autonomia finanziaria regionale, delineato dal nuovo art. 119 della Costituzione, i quali non consentono finanziamenti di scopo per finalità non riconducibili a funzioni di spettanza statale. Nell'ambito del nuovo titolo V della parte seconda della Costituzione non è quindi di norma consentito allo Stato prevedere finanziamenti in materie di competenza residuale ovvero concorrente de lle Regioni, né istituire fondi settoriali di finanziamento delle attività regionali, in quanto ciò si risolverebbe in uno strumento indiretto, ma pervasivo, di ingerenza dello Stato nell'esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza, con violazione anche dell'art. 117 della Costituzione (sentenze n. 50 e n. 45 del 2008, n. 137 del 2007, n. 77 e n. 51 del 2005).

    In linea preliminare, occorre dunque procedere ad esaminare la materia nella quale vanno ad incidere le norme relative all'istituzione del Fondo per la mobilità sostenibile nelle aree urbane e alla determinazione delle relative destinazioni.

    Dall'analisi del contenuto complessivo delle disposizioni censurate risulta che finalità di queste ultime non è affatto quella di incidere direttamente sulla materia residuale del traffico locale, ma quella di allargare i limiti della sostenibilità ambientale entro i quali detta materia può svolgersi, concedendo alle Regioni un più ampio raggio di azione nello svolgimento delle loro potestà. Detta normativa ricade pertanto nella materia della tutela dell'ambiente, di esclusiva competenza statale ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.

    A tal proposito, è sufficiente rilevare che la previsione del Fondo, istituito nello stato di previsione del Ministero dell'ambiente, persegue espressamente la finalità del miglioramento della qualità dell'aria nelle aree urbane attraverso una serie convergente di misure, tutte rivolte alla promozione e alla salvaguardia del bene giuridico ambiente nella sua completezza ed unitarietà ed anche nell'equilibrio delle sue singole componenti. Esse vanno dalla realizzazione di servizi e infrastrutture che favoriscano l'uso del mezzo pubblico e riducano l'uso dei veicoli privati al potenziamento ed alla sostituzione con veicoli a basso impatto ambientale dei mezzi di trasporto pubblico locale, al potenziamento di interventi di razionalizzazione e miglioramento del processo di distribuzione delle merci in ambito urbano, alla promozione della mobilità ciclistica, alla diffusione dell'utilizzo dei carburanti a basso impatto ambientale, al potenziamento dei servizi integrativi al trasporto pubblico locale e di quelli complementari, allo sviluppo e alla diffusione dei sistemi di utilizzo comune di autovetture, alla realizzazione, ancora, di percorsi vigilati protetti casa-scuola.

    Se si tiene presente che le Regioni devono esercitare le proprie attribuzioni nei limiti posti dalla legislazione statale a tutela dell'ambiente, appare evidente che il Fondo si risolve in uno strumento di aiuto offerto alle Regioni stesse perché possano svolgere la loro azione nei limiti del rispetto dell'ambiente (cfr. sentenza n. 378 del 2007).

    Non è pertanto fondata, in riferimento agli artt. 117, 118, 119 e 120 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1121.

    Tuttavia, poiché il Fondo in esame produce effetti anche sull'esercizio delle attribuzioni regionali in materia di trasporto pubblico locale affinché esso si svolga nei limiti della sostenibilità ambientale, si giustifica l'applicazione del principio di leale collaborazione (sentenze n. 63 del 2008; n. 201 del 2007; n. 285 del 2005), che deve, in ogni caso, permeare di sé i rapporti tra lo Stato e il sistema delle autonomie (sentenza n. 50 del 2008).

    Nel caso in esame, invece, i commi 1122 e 1123 dell'art. 1 non tengono conto di detto parametro, attribuendo al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, senza alcun coinvolgimento regionale, il potere di stabilire, di concerto con il Ministro dei trasporti, la destinazione delle risorse del Fondo, e di prevedere la quota, non inferiore al cinque per cento, da destinare agli interventi per la valorizzazione e lo sviluppo della mobilità ciclistica.

    Le necessarie forme di leale collaborazione, avendo riguardo agli interessi implicati e alla peculiare rilevanza di quelli connessi all'ambito materiale rimesso alla potestà legislativa esclusiva dello Stato, possono, d'altro canto, dirsi adeguatamente attuate mediante la previa acquisizione del parere della Conferenza unificata, competente in materia secondo la legislazione vigente, in sede di adozione del decreto ministeriale di destinazione delle risorse del Fondo.

    Da ciò consegue che i predetti commi devono essere dichiarati costituzionalmente illegittimi nella parte in cui non prevedono che il decreto ministeriale sia emanato previa acquisizione del parere della Conferenza unificata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riservata a separate pronunce la decisione delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), promosse dalla Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe;

    dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, commi 1122 e 1123, della legge n. 296 del 2006, nella parte in cui non prevedono che il decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministro dei trasporti, sia emanato previa acquisizione del parere della Conferenza unificata;

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1121, della legge n. 296 del 2006, promossa, in riferimento agli artt. 117, 118, 119 e 120 della Costituzione, dalla Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe;

    dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 1121, 1122 e 1123, della legge n. 296 del 2006, promossa, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dalla Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia s
uccessiva

SENTENZA N. 143

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 33 della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d'arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), promosso con ordinanza del 27 novembre 2006 dal Giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Bari nel procedimento penale a carico di C.C.H.E., iscritta al n. 380 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto in fatto

        Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Bari ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 33 della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d'arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), nella parte in cui non prevede che la custodia cautelare all'estero in esecuzione del mandato d'arresto europeo sia computata anche agli effetti della durata dei termini di fase previsti dall'art. 303, commi 1, 2 e 3, del codice di procedura penale.

    Il giudice a quo premette di essere chiamato a celebrare, nelle forme del giudizio abbreviato, il processo penale nei confronti di una persona nata in Cile, la quale - a seguito di ordinanza di custodia cautelare emessa dal Giudice per le indagini preliminari dello stesso Tribunale - era stata catturata in Spagna, in esecuzione di mandato d'arresto europeo, il 15 giugno 2005 e consegnata in Italia il 15 luglio 2005.

    Il rimettente riferisce, altresì, che - con istanza pervenuta il 30 agosto 2006 - l'imputato aveva dedotto l'intervenuta decorrenza del termine massimo «di fase» della custodia cautelare previsto dall'art. 303, comma 1, lettera a), numero 3), cod. proc. pen. (termine pari ad un anno, in rapporto ai reati contestati); individuando il relativo dies a quo nella data di cattura dell'istante in Spagna.

    Il giudice a quo rileva, tuttavia, come l'ipotesi in questione non sia regolata dall'art. 722 del codice di rito. Quest'ultima norma disciplina gli effetti della custodia cautelare subita all'estero, in conseguenza di una domanda di estradizione presentata dallo Stato, stabilendo - nel testo risultante a seguito della sentenza di questa Corte n. 253 del 2004 - che detta custodia è computata non soltanto agli effetti della durata complessiva, stabilita dall'art. 303, comma 4, cod. proc. pen.; ma anche agli effetti della durata dei termini di fase previsti dai commi 1, 2 e 3 dello stesso articolo.

    Il caso in esame dovrebbe ritenersi regolato, per contro, in via esclusiva dall'art. 33 della legge n. 69 del 2005, il quale stabilisce che «il periodo di custodia cautelare all'estero in esecuzione del mandato d'arresto europeo è computato ai sensi e per effetti degli articoli 303, comma 4, 304 e 657 del codice di procedura penale». Tale disposizione si configurerebbe, difatti, come norma speciale rispetto all'art. 722 cod. proc. pen., recando una disciplina completa del computo della custodia cautelare all'estero: una disciplina in parte sovrapponibile a quella della citata disposizione codicistica, nel testo anteriore alla sentenza n. 253 del 2004; e in parte più ampia di essa, laddove richiama anche l'art. 657 cod. proc. pen., in tema di computo della custodia cautelare i n fase di esecuzione. Si tratterebbe, di conseguenza, di una norma non suscettibile di «integrazioni esogene» ad opera del medesimo art. 722 cod. proc. pen.

    Né, d'altra parte, sarebbe sostenibile - ai fini di una eventuale interpretazione "correttiva" - che la previsione normativa censurata sia frutto di una mera «dimenticanza», da parte del legislatore, di quanto statuito da questa Corte, non molto tempo prima dell'entrata in vigore della legge n. 69 del 2005, tramite il ricordato intervento sull'art. 722 cod. proc. pen. La norma nazionale apparirebbe collegata, difatti, al disposto dell'art. 26, paragrafo 1, della decisione quadro 2005/584/GAI del Consiglio del 13 giugno 2002 - alla cui attuazione la legge de qua è preordinata - nella parte in cui fa riferimento al «periodo complessivo di custodia che risulta dall'esecuzione di un mandato di arresto europeo». Tale formula, sul piano le tterale, evocherebbe precipuamente l'istituto interno della durata massima «complessiva» della custodia cautelare, di cui all'art. 303, comma 4, cod. proc. pen. Di conseguenza, non potrebbe essere condivisa l'opinione secondo cui la stessa decisione quadro autorizzerebbe - con l'ampia previsione dianzi riprodotta - una lettura estensiva della corrispondente disciplina nazionale, tale da consentire il computo della custodia cautelare all'estero anche agli effetti dei termini di fase.

    In quest'ottica, tuttavia, la norma impugnata verrebbe a porsi - secondo il rimettente - in insanabile contrasto con l'art. 3 Cost.

    Per un verso, infatti, la disciplina dell'art. 722 cod. proc. pen. - quale risultante per effetto della sentenza di questa Corte n. 253 del 2004 - ben potrebbe fungere da tertium comparationis: e ciò al fine di sostenere che l'art. 33 della legge n. 69 del 2005 non sia conforme al parametro costituzionale evocato, nella parte in cui non prevede la possibilità di valorizzare la custodia all'estero anche ai fini del computo dei termini di fase, come ora sancisce, invece, l'art. 722 cod. proc. pen. rispetto all'estradizione dall'estero.

    Per un altro verso poi, ed in ogni caso, le ragioni poste a fondamento della declaratoria di illegittimità costituzionale della norma del codice di rito - ragioni legate all'«equivalenza tra detenzione cautelare all'estero [.] e custodia cautelare in Italia», che il rimettente dichiara di far proprie, riproducendo integralmente la motivazione della sentenza n. 253 del 2004 - varrebbero anche rispetto alla norma censurata: non potendosi ritenere che «l'origine comunitaria» della previsione sia sufficiente a giustificare un diverso trattamento.

    La questione risulterebbe, da ultimo, senz'altro rilevante nel giudizio a quo, giacché - ove si dovesse tenere conto anche del periodo di custodia cautelare sofferto in Spagna - l'imputato, tuttora in vinculis, andrebbe liberato a fronte dell'avvenuta scadenza, alla data del 14 giugno 2006, del termine massimo di durata della custodia valevole in rapporto alla fase del procedimento anteriore a quella in corso (un anno).

    Considerato in diritto

    1. - Il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Bari dubita della legittimità costituzionale dell'art. 33 della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d'arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), nella parte in cui non prevede che la custodia cautelare, subita all'estero in esecuzione del mandato d'arresto europeo, sia computata anche agli effetti della durata dei termini di fase previsti dall'art. 303, commi 1, 2 e 3, del codice di procedura penale.

    Ad avviso del rimettente, la norma impugnata violerebbe l'art. 3 Cost.: sia perché detterebbe una disciplina ingiustificatamente differenziata, in parte qua, rispetto a quella stabilita dall'art. 722 cod. proc. pen. - nel testo risultante a seguito della sentenza di questa Corte n. 253 del 2004 - con riguardo al computo della custodia cautelare subita all'estero, in conseguenza di una domanda di estradizione presentata dallo Stato; sia, e comunque, per le medesime ragioni poste a base della declaratoria di illegittimità costituzionale della citata disposizione codicistica.

    2. - La questione è fondata.

    2.1. - Con la sentenza n. 253 del 2004 questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l'art. 3 Cost., l'art. 722 cod. proc. pen. - come sostituito dall'art. 10 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356 - nella parte in cui stabiliva che la custodia cautelare subita all'estero, in conseguenza di una domanda di estradizione presentata dallo Stato, fosse computata ai soli effetti della durata complessiva stabilita dall'art. 303, comma 4, del medesimo codice (fermo restando quanto previsto dall'art. 304, comma 4, poi divenuto comma 6); e non anche agli effetti della durata dei termini di fase, previsti dall'art. 303, commi 1, 2 e 3.

    Questa Corte ha rilevato come il citato art. 722 cod. proc. pen. determinasse, per tal verso, una evidente disparità di trattamento dell'imputato detenuto all'estero in attesa di estradizione, rispetto all'imputato in custodia cautelare in Italia. A giustificare tale disparità di trattamento non potevano considerarsi sufficienti né la considerazione - addotta nella relazione al decreto-legge n. 306 del 1992 - «che le fasi precedenti alla procedura di estradizione sfuggono alla disponibilità dello Stato italiano»; né la considerazione - prospettata dalla giurisprudenza di legittimità, a sostegno della tesi della ragionevolezza della discriminazione - che, nel caso in parola, la durata della detenzione non risulta ricollegabile all'inerzia dell'autorità giudiziaria nazionale, m a deriva da una situazione volontariamente creata dalla persona sottoposta alle indagini, rifugiatasi o comunque trasferitasi all'estero.

    2.2. - La norma oggi censurata − l'art. 33 della legge n. 69 del 2005 (emanata per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d'arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri) - prevede che il periodo di custodia cautelare sofferto all'estero, in esecuzione del mandato d'arresto europeo, sia computato ai soli effetti degli artt. 303, comma 4, 304 e 657 cod. proc. pen. Si esclude così, al pari dell'art. 722 cod. proc. pen., nel testo scrutinato dalla Corte − con univocità testuale che non autorizza soluzioni interpretative diverse − la rilevanza di detto periodo di custodia agli effetti della durata massima dei cosiddetti termini di fase.

    La ratio decidendi della citata sentenza n. 253 del 2004 vale a fortiori nell'ipotesi in esame.

    Se l'equivalenza tra custodia all'estero e custodia cautelare in Italia è stata affermata con riferimento all'estradizione, essa, a maggior ragione, deve operare in relazione ad uno strumento − quale il mandato d'arresto europeo − che poggia sul principio dell'immediato e reciproco riconoscimento del provvedimento giurisdizionale. Tale istituto, infatti - a differenza dell'estradizione - non postula alcun rapporto intergovernativo, ma si fonda su rapporti diretti tra le varie autorità giurisdizionali dei Paesi membri, con l'introduzione di un nuovo sistema semplificato di consegna delle persone condannate o sospettate. Ciò rende ancor meno tollerabile, sul piano costituzionale, uno squilibrio delle garanzie in tema di dura ta della carcerazione preventiva correlato al luogo - interno o esterno, rispetto ai confini nazionali - nel quale la carcerazione stessa è patita. Posto, infatti, che il titolo dell'arresto e della conseguente custodia, nel caso di specie, è unitario; e che il procedimento di consegna non si articola in funzione di un rapporto tra Stati, ma tra autorità giudiziarie: ne deriva che anche la durata della custodia cautelare deve sottostare ad una disciplina del pari unitaria; così da attrarre i "tempi della consegna" all'interno dei "tempi del processo".

    In sostanza, la condizione del destinatario del provvedimento restrittivo, a seguito di mandato d'arresto europeo, non può risultare - quanto a garanzie in ordine alla durata massima della privazione della libertà personale - deteriore né rispetto a quella dell'indagato destinatario di una misura cautelare in Italia, né, tanto meno, rispetto a quella dell'estradando: non essendo dato rinvenire alcuna ragione giustificativa di un diverso e meno favorevole trattamento del soggetto in questione.

    L'art. 33 della legge n. 69 del 2005 va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che la custodia cautelare all'estero, in esecuzione del mandato d'arresto europeo, sia computata anche agli effetti della durata dei termini di fase previsti dall'art. 303, commi 1, 2 e 3, cod. proc. pen.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 33 della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d'arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), nella parte in cui non prevede che la custodia cautelare all'estero, in esecuzione del mandato d'arresto europeo, sia computata anche agli effetti della durata dei termini di fase previsti dall'art. 303, commi 1, 2 e 3, del codice di procedura penale.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 7 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 144

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 669-quaterdecies e 695 del codice di procedura civile, promosso dal Tribunale di Chieti, nel procedimento civile vertente tra P. C. e E. P. ed altri, con ordinanza del 29 settembre 2003 iscritta al n. 648 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visto l'atto di intervento del presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante.

Ritenuto in fatto

    1.- Nel corso di un procedimento di reclamo avverso un'ordinanza di rigetto della richiesta di accertamento tecnico preventivo, il Tribunale di Chieti ha sollevato, con ordinanza emessa il 29 settembre 2003 (pervenuta alla Corte il 24 maggio 2007), questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione, degli articoli 669-quaterdecies e 695 del codice di procedura civile, nella parte in cui non consentono di proporre il reclamo contro le ordinanze di rigetto delle domande di istruzione preventiva.

    Osserva il remittente che i procedimenti cautelari disciplinati dagli artt. 669-bis e seguenti cod. proc. civ. presentano la medesima ratio dell'istruzione preventiva. In entrambi i casi, infatti, il legislatore ha ritenuto di approntare una disciplina processuale idonea a garantire una tutela immediata del diritto, tutela che si esplica in via principale mediante l'anticipazione degli effetti della decisione di merito, ma anche tramite l'acquisizione delle prove suscettibili di dispersione nelle more dell'ordinario giudizio. Pertanto, se i provvedimenti di istruzione preventiva partecipano della natura cautelare dei provvedimenti anticipatori, non si ravvisa alcuna ragione per escludere l'estensione del regime del reclamo . Né varrebbe obiettare - secondo il giudice a quo - che la tutela cautelare sostanziale ha una funzione distinta, tesa all'anticipazione degli effetti della sentenza definitiva, mentre l'istruzione preventiva salvaguarda solo l'acquisizione probatoria: il remittente sottolinea al riguardo l'identità teleologica dei due strumenti processuali, posto che entrambi assicurano alla parte di non veder pregiudicato il proprio diritto dalla durata del processo. Quest'ultimo può essere irrimediabilmente leso sia nel caso di tardiva tutela sostanziale, sia anche nel caso in cui non si consenta al titolare di assumere quei mezzi di prova soggetti a dispersione o modificazione ed in assenza dei quali la proposizione dell'azione risulterà sfornita di supporto probatorio.

    Se l'effetto negativo della pronuncia cautelare di rigetto è il medesimo, a prescindere dal fatto che a non essere accolta sia la domanda cautelare sostanziale piuttosto che quella istruttoria, ne conseguirebbe una palese disparità di trattamento, posto che nel primo caso l'ordinamento appresta il reclamo, mentre nel secondo non risulta esperibile alcuno strumento d'impugnazione.

    L'indisponibilità di mezzi di impugnazione avverso l'ordinanza di rigetto del ricorso per istruzione preventiva comporta che il ricorrente potrà esclusivamente proporre l'azione ordinaria, esponendosi al concreto rischio che - nelle more del giudizio - la prova di cui si era chiesta l'assunzione anticipata non possa essere più acquisita al processo. Il problema non si pone, invece, nel caso di ordinanza ammissiva dell'istruzione preventiva, proprio perché il provvedimento risulta inidoneo a sortire effetti definitivi, essendo rimessa al successivo ed eventuale giudizio di merito ogni valutazione circa la rilevanza della prova.

    Nell'argomentare la prospettata illegittimità costituzionale, il remittente osserva come la parità dei mezzi istruttori presupponga che entrambe le parti siano in grado di avvalersi delle prove a sostegno delle proprie tesi; proprio per tale ragione, infatti, l'ordinamento ha predisposto uno strumento che impedisce la dispersione incolpevole delle prove. Ciononostante, tale parità risulta inevitabilmente alterata qualora la parte richiedente l'istruzione preventiva, ove non venga messa in condizione di reclamare avverso l'erroneo diniego di assunzione anticipata della prova, veda definitivamente preclusa, nel giudizio di merito, la possibilità di avvalersi della prova stessa a seguito del concretizzarsi del rischio di dispersione paventato.

    In conclusione, il Tribunale esclude che l'estensione del reclamo ai provvedimenti di rigetto dell'istruzione preventiva possa conseguire all'interpretazione estensiva della sentenza n. 253 del 1994 di questa Corte, con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui non ammette il reclamo avverso le ordinanze di rigetto della domanda cautelare. A tale conclusione il remittente perviene rilevando come tale tesi condurrebbe ad una sostanziale disapplicazione dell'impugnato art. 669-quaterdecies cod. proc. civ.

    La rilevanza risulterebbe infine dal fatto che, sulla base di quest'ultima disposizione, il reclamo andrebbe necessariamente dichiarato inammissibile, mentre, al contrario, l'eventuale declaratoria di incostituzionalità della norma ne determinerebbe l'ammissibilità.

    2.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la non fondatezza della questione, osservando, sotto il primo profilo, che l'accertamento tecnico preventivo, a differenza di tutti i procedimenti cautelari, ha ad oggetto l'istruttoria, cioè l'acquisizione di elementi che serviranno poi per decidere sulla ragione o sul torto, mentre tutti gli altri procedimenti cautelari hanno ad oggetto anticipazioni di tutela della posizione giuridica sostanziale. Le due situazioni non sarebbero, quindi, comparabili: mentre, infatti, il rigetto della domanda cautelare può determinare un pregiudizio (e ciò giustifica la reclamabilità), non altrettanto avviene per l'istruzione preventiva , che non esclude la possibilità di provare, nel futuro giudizio, il fondamento della domanda.

    Quanto alla violazione degli artt. 24 e 111 Cost., l'Avvocatura rileva l'inesistenza del paventato ostacolo giuridico all'esercizio del diritto di difesa, in quanto l'attività probatoria resta piena e impregiudicata. La questione risulterebbe comunque inammissibile nella odierna sede perché riguardante una mera eventualità, visto che non si riferisce al procedimento a quo, ma ad altro, eventuale e futuro giudizio.

Considerato in diritto

    1.- Il Tribunale di Chieti, in composizione collegiale, adito con reclamo avverso un provvedimento di rigetto di un ricorso per accertamento tecnico preventivo (da effettuare su un immobile, che si assumeva dissestato in conseguenza di lavori eseguiti da condomini) ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 669-quaterdecies e 695 del codice di procedura civile, nella parte in cui non consentono di proporre il reclamo contro le ordinanze di rigetto delle domande di istruzione preventiva.

    Il remittente premette che la disciplina dell'istruzione preventiva va inserita, secondo l'opinione largamente condivisa, nell'ambito di quella della tutela cautelare, la cui ragione generale consiste nell'approntare rimedi idonei ad evitare che la durata dello svolgimento del processo ordinario possa recare pregiudizio a chi ha ragione ed è parte essenziale della tutela giurisdizionale. Osserva, al riguardo, che, mentre l'art. 695 cod. proc. civ. dispone che sul ricorso per istruzione preventiva il giudice provvede con ordinanza non impugnabile, l'art. 669-quaterdecies cod. proc. civ. stabilisce che, delle disposizioni regolanti il procedimento cautelare uniforme di cui al capo III, sezione I, del libro quarto del codice di procedura civile, soltanto l'art. 669-septies è applicabile all'istruzione preventiva. Di conseguenza, non è applicabile la disposizione che, a seguito della sentenza di questa Corte n. 253 del 1994, prevede la reclamabilità anche dei provvedimenti di rigetto dei ricorsi in materia cautelare.

    Il remittente  sostiene che ragioni in parte analoghe a quelle che hanno giustificato la pronuncia di questa Corte, con la quale fu dichiarata l'illegittimità dell'art. 669-terdecies cod. proc. civ., nella parte in cui non prevedeva la reclamabilità del provvedimento di rigetto della domanda cautelare, conducono a ritenere illegittima la norma censurata. Infatti, da un lato, anche in questo caso, con la possibile dispersione delle prove, il rigetto del ricorso diretto ad ottenere un provvedimento di istruzione preventiva può provocare un pregiudizio irrimediabile al ricorrente; dall'altro, la non reclamabilità dei provvedimenti di accoglimento non produce eguali danni al resistente. Infatti l'art. 698 cod. proc. civ. stab ilisce, al secondo comma, che «l'assunzione preventiva dei mezzi di prova non pregiudica le questioni relative alla loro ammissibilità e rilevanza, né impedisce la loro rinnovazione nel giudizio di merito» e al terzo comma che «i processi verbali delle prove non possono essere prodotti nel giudizio di merito, prima che i mezzi di prova siano stati dichiarati ammissibili nel giudizio stesso».

    2.- La questione è fondata.

    Essa deve essere considerata unitariamente in riferimento a tutti i parametri evocati.

    E' opportuno premettere che questa Corte non ritiene oggetto di possibili dubbi i principi costantemente affermati  della non necessaria previsione di un doppio grado di merito per la realizzazione del diritto di difesa e della parimenti non necessaria attribuzione di identiche facoltà a tutte le parti, purché sia ad esse assicurata la sostanziale parità di efficacia degli strumenti processuali predisposti, a seconda delle posizioni, con riguardo alla consistenza dei diversi interessi (sentenza n. 107 del 2007).

    Da ribadire è, inoltre, il principio secondo cui il legislatore fruisce di ampi margini di scelte nella regolazione degli istituti processuali (sentenza n. 237 del 2007).

    Tutto ciò premesso, si deve anche affermare che la disciplina del processo non si sottrae allo scrutinio di ragionevolezza (ordinanza n. 128 del 1999).

    Con riguardo alla normativa censurata, si rileva anzitutto che essa fa parte della tutela cautelare, della quale condivide la ratio ispiratrice che è quella di evitare che la durata del processo si risolva in un pregiudizio della parte che dovrebbe veder riconosciute le proprie ragioni. Non si può dubitare che l'impossibilità di sentire in futuro nella sede ordinaria uno o diversi testimoni, così come l'alterazione dello stato di luoghi o, in generale, di ciò che si vuole sottoporre ad accertamento tecnico possano provocare pregiudizi irreparabili al diritto che la parte istante intende far valere.

    Le analogie tra le ragioni che impongono la tutela cautelare e quelle che presiedono alla disciplina della istruzione preventiva sono state già più volte riconosciute da questa Corte, che ha anche sottolineato il rapporto che lega il diritto di esercitare l'onus probandi con la garanzia di cui all'art. 24 Cost. (sentenze n. 471 del 1990, n. 257 del 1996, n. 46 del 1997).

    Se si ha riguardo alla reclamabilità dei provvedimenti di rigetto di istanze cautelari sostanziali, la non reclamabilità di quelli che respingono ricorsi per provvedimenti di istruzione preventiva si presenta quindi come un'incoerenza interna alla disciplina della tutela cautelare. La discrasia è ancora più puntuale e evidente rispetto al provvedimento di diniego di sequestro giudiziario per provvedere alla custodia temporanea di libri, registri, documenti, campioni e di ogni altra cosa da cui si pretende desumere elementi di prova, disciplinato dall'art. 670, secondo comma, del codice di procedura civile.

    Né varrebbe obiettare che l'art. 669-septies cod. proc. civ. attribuisce al ricorrente, sussistendo determinate condizioni, la facoltà di riproporre l'istanza. Come questa Corte ha rilevato, la riproposizione della istanza al medesimo giudice che ha emesso il provvedimento di rigetto opera su un piano diverso da quello del reclamo e non assicura lo stesso livello di efficacia di questo (sentenza n. 253 del 1994).

    La non impugnabilità dei provvedimenti sia di rigetto che di accoglimento non comporta tuttavia parità di tutela tra le parti. Mentre, infatti, il pregiudizio che può subire il resistente per effetto della  concessione ed esecuzione di un provvedimento di istruzione preventiva non è definitivo, in quanto ogni questione relativa all'ammissibilità e rilevanza è rinviata al merito, il danno che può derivare al ricorrente da un provvedimento di rigetto può essere irreparabile.

    Le norme impugnate vanno, quindi, dichiarate illegittime nella parte in cui non consentono di utilizzare lo strumento del reclamo, previsto dall'art. 669-terdecies cod. proc. civ., avverso il provvedimento che rigetta l'istanza per l'assunzione preventiva dei mezzi di prova di cui agli artt. 692 e 696 del medesimo codice.

Per questi motivi

LA CORTE COSTIUZIONALE

    dichiara l'illegittimità costituzionale degli articoli 669-quaterdecies e 695 del codice di procedura civile, nella parte in cui non prevedono la reclamabilità del provvedimento di rigetto dell'istanza per l'assunzione preventiva dei mezzi di prova di cui agli articoli 692 e 696 dello stesso codice.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Francesco AMIRANTE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
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SENTENZA N. 145

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE        Presidente

- Giovanni Maria  FLICK         Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 54 e 55, 661 e 662, 796, lettera b), 830, 831 e 832, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), promosso con ricorso della Regione Siciliana notificato il 23 febbraio 2007, depositato in cancelleria il 2 marzo 2007 ed iscritto al n. 11 del registro ricorsi 2007.

    Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 26 febbraio 2008 il Giudice relatore Franco Gallo;

    uditi gli avvocati Michele Arcadipane e Giovanni Carapezza Figlia per la Regione Siciliana e l'avvocato dello Stato Michele Dipace per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto< /SPAN>

    1. - La Regione Siciliana, con ricorso notificato il 23 febbraio 2007 e depositato il 2 marzo 2007, ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 54 e 55, 661 e 662, 796, lettera b), nonché 830, 831 e 832, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007).

    1.1. - Con riferimento al non censurato comma 53 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006 - il quale stabilisce che «Entro il 31 gennaio di ciascun anno sono trasmessi alle regioni i dati relativi all'import/export del sistema doganale» e che «entro il medesimo termine sono trasmessi alle regioni, alle province autonome e ai comuni i dati delle dichiarazioni dei redditi presentate nell'anno precedente dai contribuenti residenti» -, gli impugnati commi 54 e 55 demandano, rispettivamente, ad un provvedimento del direttore dell'Agenzia delle entrate (emanato d'intesa con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali) e ad un provvedimento del direttore dell'Agenzia delle dogane, la disciplina delle «modalità tecniche di trasmissione in via telematica dei dati» relativi, da un lato, alle dichiarazioni dei redditi di cui al precedente comma 53 (comma 54) e, dall'altro, all'«import/export» del sistema doganale (comma 55).

    1.2. - Il comma 661 del medesimo articolo 1 della legge n. 296 del 2006 prevede che «Le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e di Bolzano concorrono al riequilibrio della finanza pubblica, oltre che nei modi stabiliti dal comma 660», cioè tramite il raggiungimento di uno specifico accordo con il Ministro dell'economia e delle finanze avente ad oggetto il complessivo livello delle spese correnti e in conto capitale, «anche con misure finalizzate a produrre un risparmio per il bilancio dello Stato, in misura proporzionale all'incidenza della finanza di ciascuna regione a statuto speciale o provincia autonoma sulla finanza regionale e locale complessiva, anche mediante l'assunzione dell'esercizio di funzioni statali, attraverso l'emanazione, entro il 31 ma rzo 2007 e con le modalità stabilite dai rispettivi statuti, di specifiche norme di attuazione statutaria; tali norme di attuazione precisano le modalità e l'entità dei risparmi per il bilancio dello Stato da ottenere in modo permanente o comunque per annualità definite».

    Il comma 662 demanda alle norme di attuazione dello statuto speciale la previsione - sulla base degli esiti della sperimentazione finalizzata ad assumere, quale base di riferimento per il patto di stabilità interno, il saldo finanziario, ai sensi dell'art. 1, comma 656, della medesima legge - di disposizioni atte ad assicurare «in via permanente il coordinamento tra le misure di finanza pubblica previste dalle leggi costituenti la manovra finanziaria dello Stato e l'ordinamento della finanza regionale previsto da ciascuno statuto speciale e dalle relative norme di attuazione, nonché le modalità per il versamento dell'imposta regionale sulle attività produttive e dell'addizionale dell'imposta sul reddito delle persone fisiche».

    1.3. - L'art. 1, comma 796, lettera b), della medesima legge n. 296 del 2006 - al fine di «garantire il rispetto degli obblighi comunitari e la realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica per il triennio 2007-2009, in attuazione del protocollo d'intesa tra il Governo, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, per un patto nazionale per la salute, sul quale la Conferenza delle regioni e delle province autonome, in data 28 settembre 2006, ha espresso la propria condivisione» - istituisce un «Fondo tra nsitorio» alla cui ripartizione possono accedere (previa sottoscrizione di un accordo che definisca, tra l'altro, un apposito piano di rientro) le Regioni interessate da elevati disavanzi e per le quali sia scattato l'innalzamento ai livelli massimi dell'addizionale regionale all'imposta sul reddito delle persone fisiche o dell'aliquota dell'imposta regionale sulle attività produttive.

    In forza del comma censurato, «Qualora nel procedimento di verifica annuale del piano si prefiguri il mancato rispetto di parte degli obiettivi intermedi di riduzione del disavanzo contenuti nel piano di rientro, la regione interessata può proporre misure equivalenti che devono essere approvate dai Ministeri della salute e dell'economia e delle finanze»; in ogni caso, l'accertamento del mancato raggiungimento di tali obiettivi comporta che, con riferimento all'anno d'imposta dell'esercizio successivo, le predette addizionali si applichino, in via generalizzata e senza «differenziazioni per settori di attività e per categorie di soggetti passivi», «oltre i livelli massimi previsti dalla legislazione vigente fino all'integrale copertura dei mancati obiettivi». Nel caso in cui, invece, il rispetto di detti obiettivi intermedi sia stato conseguito «con risultati [.] quantitativamente migliori», la Regione interessata può ridurre le medesime imposte «per la quota corrispondente al miglior risultato ottenuto». La disposizione impugnata chiarisce, poi, che gli «interventi individuati dai programmi operativi di riorganizzazione, qualificazione o potenziamento del servizio sanitario regionale, necessari per il perseguimento dell'equilibrio economico, nel rispetto dei livelli essenziali di assistenza [.], sono vincolanti per la regione che ha sottoscritto l'accordo». La medesima disposizione precisa che le determinazioni previste nell'accordo «possono comportare effetti di variazione nei provvedimenti normativi ed amministrativi già adottati dalla medesima regione in materia di programmazione sanitaria». Da ultimo, la citata disposizione prevede che il «Ministero della salute, di concerto con il Min istero dell'economia e delle finanze, assicura l'attività di affiancamento delle regioni che hanno sottoscritto l'accordo [.] sia ai fini del monitoraggio dello stesso, sia per i provvedimenti regionali da sottoporre a preventiva approvazione [.], sia per i Nuclei da realizzarsi nelle singole regioni con funzioni consultive di supporto tecnico».

    1.4. - Il comma 830 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, al fine di pervenire al completo trasferimento della spesa sanitaria a carico del bilancio della Regione Siciliana, determina la misura del concorso della Regione a tale spesa nella misura del 44,85 per cento per l'anno 2007, del 47,05 per cento per l'anno 2008 e del 49,11 per cento per l'anno 2009.

    Il comma 831 sospende l'applicazione delle disposizioni di cui al comma 830 fino al 30 aprile 2007; stabilisce che «entro tale data dovrà essere raggiunta l'intesa preliminare all'emanazione delle nuove norme di attuazione dello Statuto della Regione siciliana in materia sanitaria»; determina, infine,  per l'anno 2007 il concorso di detta Regione alla spesa di cui al comma 830 in misura pari al 44,09 per cento, nel caso di mancato raggiungimento dell'intesa.

    Il comma 832 demanda alle norme di attuazione di cui al comma 831 il riconoscimento della «retrocessione alla Regione siciliana di una percentuale non inferiore al 20 e non superiore al 50 per cento del gettito delle accise sui prodotti petroliferi immessi in consumo nel territorio regionale»; stabilisce che tale retrocessione «aumenta simmetricamente, fino a concorrenza, la misura percentuale del concorso della Regione alla spesa sanitaria, come disposto dal comma 830»; prevede, infine, che «alla determinazione dell'importo annuo della quota da retrocedere alla Regione si provvede con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, previo parere della Commissione paritetica prevista dall'articolo 43 dello Statuto».

    2. - La Regione Siciliana censura l'art. 1, commi 54 e 55, 661 e 662, 796, lettera b), 830, 831 e 832, della legge n. 296 del 2006, per violazione (complessivamente) degli artt. 3, 81 e 119 della Costituzione, del principio di leale collaborazione, dell'art. 10 della legge costituzionale 8 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), del decreto legislativo 3 novembre 2005, n. 241 (Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione siciliana, recanti attuazione dell'articolo 37 dello Statuto e simmetrico trasferimento di competenze), nonché degli artt. 36 e 43 dello statuto siciliano (regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 - Approvazione del lo statuto della Regione siciliana).

    2.1. - In particolare, per quanto riguarda gli impugnati commi 54 e 55, la Regione deduce la violazione del principio di leale collaborazione, nella parte in cui dette disposizioni, rispettivamente: a) riservano alla Conferenza Stato-città ed autonomie locali, e non alla Conferenza unificata, l'espressione dell'intesa concernente il provvedimento del direttore dell'Agenzia delle entrate (comma 54); b) non prevedono l'intesa della Conferenza Stato-Regioni sul provvedimento del direttore dell'Agenzia delle dogane (comma 55).

    Per la ricorrente, tale scelta del legislatore statale è «assolutamente arbitraria» perché non considera «in alcun modo il ruolo, il rilievo e gli interessi delle Regioni». L'esclusione della partecipazione di tali enti territoriali alla definizione di modalità tecniche di trasmissione telematica di dati da trasmettere anche alle Regioni medesime è inoltre, secondo la medesima ricorrente, «irrazionale in quanto incompatibile con la logica interna del sistema ed in palese contraddizione con la stessa scelta del legislatore finalizzata ad attivare un confronto con altre realtà istituzionali al fine di elaborare soluzioni condivise».

    Il principio di leale collaborazione - prosegue la Regione Siciliana - «avrebbe viceversa imposto di individuare una sede di raccordo fra i diversi livelli di governo [.] per consentire un esercizio coordinato delle funzioni e meglio rispondere ai criteri di efficienza ed efficacia dell'azione amministrativa».

    2.2. - Per quanto riguarda, invece, gli impugnati commi 661 e 662, la Regione deduce, con un primo motivo di censura, che il comma 661 víola il d.lgs. n. 241 del 2005, perché detto comma, stabilendo «sostanzialmente il trasferimento di funzioni senza trasferimento di risorse economiche o con il trasferimento di risorse inferiori al necessario», non rispetta il «criterio di simmetria» tra trasferimento di funzioni e di risorse stabilito dall'evocato decreto legislativo di attuazione dello statuto.

    Con un secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione degli artt. 81 e 119 Cost. e dell'art. 36 dello statuto, in quanto lo stesso comma 661 - perseguendo l'obiettivo di produrre un risparmio per il bilancio dello Stato e comportando «un corrispondente aggravio di spesa per il bilancio delle considerate Autonomie speciali» - comporta «uno squilibrio finanziario a carico del bilancio regionale».

    Con un terzo motivo, la ricorrente deduce che detto comma víola l'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché tale ultima disposizione costituzionale, «caratterizzata da assoluta specialità [.] e mirante a garantire alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e Bolzano quelle forme di autonomia più ampie contemplate dalle norme del nuovo Titolo V», «non pregiudica in alcun modo quelle attribuzioni e prerogative riconosciute dai singoli Statuti di autonomia, e dunque, al contempo, non consente che al di fuori degli strumenti pattizi in essi individuati, od anche liberamente convenuti, si incida sull'equilibrio finanziario e sull'autonomia regionale».

    Con un quarto motivo, infine, la ricorrente afferma che i commi 661 e 662 violano l'art. 43 dello statuto, in quanto essi, «predeterminando unilateralmente il contenuto di future norme di attuazione statutaria», ledono «il principio di pariteticità che presiede alla determinazione pattizia delle medesime, palesandosi evidentemente, allo scopo, del tutto insufficiente la garanzia procedimentale, del resto ovvia, alla quale si rinvia».

    2.3. - Con riferimento al denunciato art. 1, comma 796, lettera b), della legge n. 296 del 2006, la Regione Siciliana - presupponendo che la violazione delle evocate disposizioni costituzionali non attinenti al riparto di competenze tra Stato e Regioni ridondi in «una compromissione delle attribuzioni costituzionalmente garantite alla Regione stessa» - deduce, con un primo motivo di censura, la violazione dell'art. 23 Cost., perché la disposizione impugnata non soddisfa la riserva di legge prevista dalla Costituzione, prevedendo «l'applicazione di tributi senza individuare alcuna aliquota che limiti il prelievo fiscale ad una percentuale della base imponibile considerata».

    Con un secondo motivo di censura, la ricorrente deduce la violazione dell'art. 3 Cost., in quanto la disposizione censurata determina «una gravissima disuguaglianza» tra i soggetti residenti nelle diverse Regioni italiane, «in relazione a fatti ed accadimenti che si pongono al di fuori della loro possibilità di determinazione e di controllo».

    Da ultimo la ricorrente deduce, con un terzo motivo di censura, la violazione dell'art. 36 dello statuto e dell'art. 119 Cost., perché la lettera impugnata, «rimettendo in fondo al potere, peraltro discrezionale, dell'amministrazione statale l'accertamento del verificarsi di quella situazione da cui scaturisce l'applicazione delle considerate imposte "oltre i limiti massimi previsti dalla vigente legislazione", altera il sistema costituzionale di imputazione della titolarità di competenza nella materia considerata, non consentendo alla Regione di provvedere, nei limiti delle scelte possibili e delle risorse disponibili, alle determinazioni che le competono secondo quei "principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario", espressamente richiamati dall'a rt. 119, comma secondo, della Costituzione».

    2.4. - Per quanto riguarda gli impugnati commi 830, 831 e 832, la Regione Siciliana deduce, con un primo motivo di censura, la violazione degli artt. 81, quarto comma, e 119, quarto comma, Cost., perché le disposizioni denunciate, fissando un aumento della quota di compartecipazione regionale alla spesa sanitaria senza un contemporaneo trasferimento di risorse aggiuntive, determinano «un grave squilibrio finanziario» a carico del bilancio regionale. Tale squilibrio viene quantificato dalla Regione medesima in 185, 371 e 556 milioni di euro per ciascuno degli anni 2007/2009 e rispetto al quale la ricorrente lamenta di essere «palesemente non in grado, in relazione all'entità delle somme in gioco», di p rovvedere «mediante la rimodulazione e la compressione di altre voci di spesa». Ad avviso della ricorrente, le predette misure di retrocessione non potrebbero essere considerate "risorse aggiuntive", in quanto queste ultime misure sono previste soltanto per quote di compartecipazione «ulteriori» rispetto a quelle stabilite dagli impugnati commi 830 e 831.

    Con un secondo motivo di censura, la Regione Siciliana deduce la violazione del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost., in quanto le disposizioni censurate, prevedendo un aumento della quota di compartecipazione regionale alla spesa sanitaria senza un contemporaneo trasferimento di risorse aggiuntive, determinano un «trattamento difforme rispetto a quanto previsto in relazione alle ulteriori maggiorazioni prefigurate dal comma 832». Per la ricorrente, detto principio è infatti «destinato a trovare applicazione, in forza di un procedimento di astrazione [.], anche nei confronti dei fatti, delle situazioni e degli istituti giuridici, ponendo sostanzialmente un divieto di discriminazioni arbitr arie ed ingiuste».

    Infine, la Regione deduce, con un terzo motivo di censura, la violazione dell'art. 43 dello statuto, perché le disposizioni impugnate «limitano l'intervento della Commissione paritetica ivi prevista all'individuazione di quelle misure percentuali di concorso regionale alla spesa sanitaria discendenti dalla prevista simmetria rispetto alla quota di gettito da devolvere, mentre rientra viceversa tra i suoi compiti il definire, tra gli altri, anche tutti i profili finanziari connessi all'esercizio delle funzioni attribuite».

    3. - Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate.

    3.1. - Con riferimento alle questioni riguardanti i commi 54 e 55 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, la difesa erariale afferma che le disposizioni impugnate «disciplinano materie indubbiamente di competenza esclusiva dello Stato», concernendo, da un lato, il sistema tributario e contabile nazionale (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.) e, dall'altro, la trasmissione telematica di dati delle amministrazioni statali (art. 117, secondo comma, lettera r, Cost.).

    La previsione, per la sola trasmissione dei dati relativi alle dichiarazioni dei redditi, di un'intesa da raggiungere in sede di Conferenza Stato-città non víola - secondo l'Avvocatura generale - il principio di leale collaborazione con le Regioni «in quanto mentre per gli enti locali territoriali la procedura di trasmissione informatica-digitale è certamente più complessa, dato il numero e l'organizzazione [di] detti enti, per cui è necessario un modello unitario e condiviso, per quanto riguarda le Regioni si potranno trovare forme diverse di accordi sia con ogni singola Regione che con tutte o gruppi di esse da parte del direttore della Agenzia delle entrate e delle dogane (per quanto riguarda i dati import-export)».

    3.2. - In relazione alle questioni riguardanti i commi 661 e 662, la difesa erariale afferma che le disposizioni impugnate, rientranti nel più ampio «complesso di norme» costituito dai commi da 656 a 672 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, prevedono misure concrete di concorso regionale alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica previsti dal patto di stabilità interno e, quindi, «costituiscono principi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica ai sensi dell'art. 117, terzo comma, e 119, secondo comma, della Costituzione». L'Avvocatura erariale, ritenendo che l'assunzione dell'esercizio di funzioni statali da parte della Regione ben possa costituire una misura di risparmio per i l bilancio dello Stato, afferma che le disposizioni impugnate non comportano «obblighi lesivi della competenza legislativa regionale», ma piuttosto costituiscono «la prefissione di un principio in termini di risultato che lascia alla discrezionalità delle regioni la scelta delle misure organizzative più appropriate per la realizzazione degli scopi indicati».

    3.3. - In relazione alle questioni riguardanti il comma 796, lettera b), la difesa erariale eccepisce preliminarmente in rito l'inammissibilità delle stesse, perché: a) la lettera impugnata è «la puntuale riproduzione» del paragrafo 3.1, lettera b), del protocollo d'intesa tra il Governo, le regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, per un patto nazionale per la salute, «al quale ha aderito la regione ricorrente»; b) «la disposizione in esame non riguarda specificamente la regione siciliana, ma contiene la disciplina del rientro degli eventuali elevati disavanzi nella spesa sanitaria da parte delle regioni implicate, e nel ricorso non è detto che tra queste vi sia la regione siciliana».

    Quanto al merito delle censure, l'Avvocatura afferma che la disposizione impugnata costituisce un principio finalizzato «a tenere sottocontrollo la spesa sanitaria (regionale) che è certamente un obiettivo di finanza pubblica, di competenza statale, imposto dal patto di stabilità con l'Unione europea».

    3.4. - In relazione alle questioni riguardanti i commi 830, 831 e 832, la difesa erariale afferma che le stesse sono infondate, «oltre che» inammissibili, «in quanto il comma 830 è sospeso fino al 30 aprile 2007 [.] e in ogni caso la misura del concorso di spesa regionale è compensata dal riconoscimento alla regione Sicilia della retrocessione di una parte del gettito delle accise sui prodotti petroliferi che dovrebbe compensare l'eventuale maggior onere a carico delle Regioni».

    4. - In data 24 luglio 2007 la Regione Siciliana ha depositato atto di rinuncia al ricorso, limitatamente all'impugnazione del comma 796, lettera b), dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006. A sua volta, con atto depositato in data 11 settembre 2007, il Governo ha accettato la rinuncia al ricorso presentata nei suddetti termini.

    5. - Con memoria depositata in prossimità della pubblica udienza, l'Avvocatura generale dello Stato, tenuto conto dell'intervenuta rinuncia parziale al ricorso e della relativa accettazione, ha sostanzialmente ribadito le conclusioni già rassegnate.

    5.1. - Quanto alle questioni relative ai commi 54 e 55, la difesa erariale afferma che a) «l'aver previsto la sola consultazione della conferenza Stato-città ed autonomie locali» non può «rappresentare una violazione del principio di leale collaborazione sia perché tali modalità non penalizzano il diritto delle Regioni a ricevere i predetti dati sia perché non pregiudicano la possibilità che all'intesa possono partecipare anche le Regioni ai sensi dell'art. 2, c. 2, del d.p.c.m. del 2.7.1996, istitutivo della conferenza stessa»; b) la mancata previsione di un'intesa per la trasmissione dei dati sull'import/export non pregiudica interessi rilevanti delle Regioni, trattandosi «di individuazione di semplici modalità di trasmissione di dati».

    5.2. - Con riferimento alle questioni riguardanti i commi 661 e 662, l'Avvocatura afferma che esse sono infondate «in quanto è la stessa disposizione del comma 661 a prevedere il ricorso a specifiche norme di attuazione statutaria per l'assunzione dell'esercizio delle funzioni statali da parte della Regione». La disposizione impugnata presuppone quindi - secondo la difesa erariale - la partecipazione della Regione alla determinazione delle misure, «fermo restando la finalità di realizzare risparmi per il bilancio statale attraverso le relative riduzioni di spese».

    5.3. - Quanto alle questioni riguardanti i commi 830, 831 e 832, l'Avvocatura, dopo aver ricordato che la Sicilia è l'«unica» Regione a beneficiare ancora dell'intervento statale in materia di «finanziamento della Sanità nel comparto delle autonomie», afferma che l'aumento della misura del concorso a detto finanziamento è stato già unilateralmente disposto dallo Stato in passato (con gli artt. 12, comma 9, della legge 24 dicembre 1993, n. 537, recante «Interventi correttivi di finanza pubblica»; 34, comma 3, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, recante «Misure di razionalizzazione della finanza pubblica»; 2, comma 3, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, recante «Misure di razionalizzazione della finanza pubbl ica»; 1, comma 143, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, recante «Misure di razionalizzazione della finanza pubblica») e che «non è [.] irragionevole che [.] il legislatore richieda agli enti di autonomia piú favoriti, una maggiore partecipazione in nome delle fondamentali esigenze di solidarietà nazionale»: da ciò deriva l'infondatezza delle questioni poste con riferimento all'art. 3 Cost..

    Inoltre - secondo la difesa erariale - le medesime disposizioni, da un lato, «vanno nella direzione della completa attuazione dell'art. 119 Cost. nel senso di un progressivo trasferimento alla regione siciliana dell'intero onere finanziario relativo alla spesa sanitaria con risorse autonome e con trasferimento di parte delle risorse ivi previste a completo trasferimento»; dall'altro, «prevedono che il trasferimento della spesa sanitaria sia attuata fino al completamento, sentita la commissione paritetica di cui all'art. 43 dello statuto della regione siciliana». Da ciò consegue - sempre secondo la difesa erariale - l'infondatezza anche delle questioni poste con riferimento all'art. 119 della Costituzione ed all'art. 43 dello statuto.

    6. - Sempre in prossimità della pubblica udienza, anche la Regione Siciliana ha depositato una memoria con cui, dando atto della propria rinuncia parziale al ricorso, ha sostanzialmente ribadito le conclusioni già rassegnate ed ha altresí chiesto che la Corte costituzionale adotti una sentenza interpretativa che attribuisca ai commi 830, 831 e 832 «un significato che ne consenta l'armonica integrazione con le sovraordinate norme costituzionali e statutarie», ovvero tale da permettere in ogni caso una compensazione tra retrocessione di una parte del gettito delle accise sui prodotti petroliferi, disciplinata dal comma 832, ed il maggior onere previsto dal comma 830. Una diversa interpretazione - secondo la ricorrente - «si paleserebbe certamente inficiata da irragionevolezza poiché, indebitamente, premierebbe la mancata collaborazione della Regione».

Considerato in diritto

    1. - La Regione Siciliana ha promosso questioni di legittimità costituzionale dei commi 54 e 55, 661 e 662, 796, lettera b), 830, 831 e 832, dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), in riferimento agli artt. 36 e 43 dello statuto di autonomia, all'art. 1 del decreto legislativo 3 novembre 2005, n. 241 (Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione siciliana, recanti attuazione dell'articolo 37 dello Statuto e simmetrico trasferimento di competenze), nonché agli artt. 3, 81 e 119 della Costitu zione, al principio di leale collaborazione, all'art. 10 della legge costituzionale 8 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione).

    2. - Preliminarmente, va rilevato che la ricorrente, dopo la proposizione del ricorso, ha depositato in data 24 luglio 2007 atto di rinuncia, limitatamente all'impugnazione del comma 796, lettera b), dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, accettata dallo Stato in data 11 settembre 2007. Con riferimento alla questione rinunciata, deve pertanto dichiararsi l'estinzione del processo, ai sensi dell'art. 25 delle norme integrative per i giudizi dinanzi a questa Corte.

    Cosí delimitato l'oggetto del giudizio, si deve procedere all'analisi delle suddette censure.

    3. - Con un primo gruppo di questioni, la ricorrente censura i commi 54 e 55 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, i quali - nello stabilire che le «modalità tecniche di trasmissione in via telematica dei dati» relativi alle dichiarazioni dei redditi di cui al precedente comma 53 (comma 54) ed all'«import/export alle regioni» (comma 55) sono approvate con atti amministrativi statali (e cioè, rispettivamente, con «provvedimento del direttore dell'Agenzia delle entrate, emanato d'intesa con la Conferenza Stato-città ed autonomie locali» e con «provvedimento del direttore dell'Agenzia delle dogane»), senza che sia all'uopo prevista un'intesa in se de, rispettivamente, di Conferenza Unificata e di Conferenza Stato-Regioni - víolano il principio di leale collaborazione, perché tale scelta del legislatore statale, oltre ad essere «assolutamente arbitraria» ed «irrazionale», non terrebbe adeguatamente in considerazione «gli interessi delle Regioni», destinatarie delle medesime trasmissioni di dati.

    Le questioni non sono fondate.

    La ricorrente lamenta che le disposizioni impugnate, non coinvolgendo la Regione nel procedimento di approvazione delle modalità tecniche di trasmissione in via telematica dei dati indicati dalle stesse disposizioni - cioè di dati che devono esser comunicati anche alla Regione stessa -, trascurano di considerare «il ruolo, il rilievo e gli interessi» della ricorrente medesima relativamente alla determinazione di dette modalità e, dunque, comportano una lesione del principio di "leale cooperazione".

    Tale assunto non può essere condiviso, perché dette disposizioni, in combinato disposto con il comma 53, si limitano a demandare a provvedimenti del direttore dell'Agenzia delle entrate e del direttore dell'Agenzia delle dogane la disciplina delle modalità tecniche di trasmissione telematica di dati dallo Stato alle Regioni ed agli enti locali e, pertanto, sono dirette solo alle suddette Agenzie statali e, comunque, sono riconducibili alla materia, di competenza legislativa esclusiva dello Stato, del «coordinamento informativo statistico e informatico dei dati dell'amministrazione statale, regionale e locale» (art. 117, secondo comma, lettera r, Cost.).

    Né ad una diversa conclusione si può giungere in considerazione dell'asserito interesse della Regione a ricevere i dati suddetti secondo modalità tecniche previamente concordate con lo Stato, essendo questo un interesse di mero fatto, privo di garanzia costituzionale.

    4. - Con un secondo gruppo di questioni, la ricorrente censura i commi 661 e 662 del medesimo art. 1 della legge n. 296 del 2006 per violazione: a) degli artt. 36 e 43 dello statuto; b) dell'art. 1 del d.lgs. n. 241 del 2005; c) degli artt. 81 e 119 Cost.

    4.1. - Il comma 661 prevede, a carico delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome, misure volte al riequilibrio della finanza pubblica, che si aggiungono a quelle previste dal comma 660 del medesimo articolo. A tal fine stabilisce che tali enti devono concorrere alla produzione di un risparmio per il bilancio dello Stato «anche mediante l'assunzione dell'esercizio di funzioni statali, attraverso l'emanazione, entro il 31 marzo 2007 e con le modalità stabilite dai rispettivi statuti, di specifiche norme di attuazione statutaria». Queste norme - prosegue la disposizione censurata - «precisano le modalità e l'entità dei risparmi per il bilancio dello Stato da ottenere in modo permanente o comunque per annualità definite».

    Il comma 662 stabilisce che dette norme di attuazione - tenendo conto degli esiti della sperimentazione finalizzata ad assumere, quale base di riferimento per il patto di stabilità interno, il saldo finanziario, ai sensi dell'art. 1, comma 656, della medesima legge - «devono altresí prevedere le disposizioni per assicurare in via permanente il coordinamento tra le misure di finanza pubblica previste dalle leggi costituenti la manovra finanziaria dello Stato e l'ordinamento della finanza regionale previsto da ciascuno statuto speciale e dalle relative norme di attuazione, nonché le modalità per il versamento dell'imposta regionale sulle attività produttive e dell'addizionale dell'imposta sul reddito delle persone fisiche».

    4.2. - Secondo la ricorrente, il comma 661 víola il «criterio di simmetria» tra trasferimento di funzioni e di risorse stabilito dall'art. 1 del d.lgs. n. 241 del 2005, perché prevede «sostanzialmente il trasferimento di funzioni senza trasferimento di risorse economiche o con il trasferimento di risorse inferiori al necessario».

    La questione non è fondata, perché il criterio di simmetria previsto dal parametro evocato dalla Regione Siciliana non trova applicazione nel caso di specie.

    Tale criterio riguarda solo la specifica ipotesi di trasferimento, dallo Stato alla Regione, delle funzioni di riscossione delle imposte in conseguenza della devoluzione di «quote di competenza fiscale dello Stato» e non, come sostiene la Regione, l'ipotesi del trasferimento di funzioni diverse da quelle di riscossione. Infatti, l'art. 1 del d.lgs. n. 241 del 2005, nel dare attuazione all'art. 37 dello statuto, si limita a disporre che, con riferimento all'imposta relativa alle quote del reddito da attribuire agli stabilimenti ed impianti siti nel territorio della Regione di imprese industriali e commerciali aventi la sede centrale fuori da tale territorio, «sono trasferite alla Regione» - «simmetricamente» al trasferimento del gettito di tale imposta - anche le «competenze previste dallo Statuto sino ad ora esercitate dallo Stato», e, cioè esclusivamente le competenze in ordine alla riscossione di tale imposta.

    4.3. - La ricorrente deduce altresí che il comma 661, nel prevedere la possibilità del trasferimento di funzioni dallo Stato alle Regioni senza un contestuale trasferimento di risorse, determina una violazione dell'autonomia finanziaria della Regione garantita dall'art. 36 dello statuto e dall'art. 119 Cost., rilevante sotto il profilo del rispetto dell'obbligo di copertura della spesa ai sensi dell'art. 81, quarto comma, Cost. Secondo la ricorrente, infatti, la norma crea un aggravio di spesa per la Regione medesima e, perciò, «uno squilibrio finanziario a carico del bilancio regionale».

    Anche tale questione non è fondata, perché, in relazione al dedotto «squilibrio finanziario», non sussiste alcuno specifico elemento che consenta di ritenere che: a) il comma censurato crei un'alterazione del «rapporto tra complessivi bisogni regionali e insieme dei mezzi finanziari per farvi fronte»; b) detto squilibrio finanziario abbia comunque il carattere della "gravità", cosí come è richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte, la quale considera lesi gli evocati parametri costituzionali solo laddove la variazione del rapporto entrate-spese determini un "grave squilibrio" nel bilancio regionale (sentenze n. 29 del 2004; n. 138 del 1999 e n. 222 del 1994).

    4.4. - Con un terzo motivo, la ricorrente deduce anche che il comma 661 determina una violazione dell'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, perché la norma censurata - prevedendo misure dirette a produrre un risparmio per il bilancio dello Stato, finalizzato al riequilibrio della finanza pubblica, da realizzarsi «anche mediante l'assunzione dell'esercizio di funzioni statali» non accompagnate da un simmetrico trasferimento di risorse - incide sull'equilibrio finanziario e sull'autonomia regionale «al di fuori degli strumenti pattizi [.] individuati [negli Statuti], od anche liberamente convenuti» e, perciò, lede il medesimo art. 10, «mirante a garantire alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome di Trento e Bolzano quelle forme di autonomia più ampi e contemplate dalle norme del nuovo Titolo V».

    Nemmeno tale questione è fondata.

    L'evocato art. 10, infatti, non trova applicazione riguardo alle previsioni degli statuti speciali che disciplinano detti strumenti pattizi, perché si limita ad attribuire alle Regioni a statuto speciale le forme di maggiore autonomia che il nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione riconosce alle Regioni a statuto ordinario (sentenza n. 175 del 2006; si vedano anche, ex plurimis, le sentenze n. 102 del 2008, n. 238 del 2004 e n. 314 del 2003). Esso, dunque, non disciplina né l'effettivo àmbito di applicazione degli «strumenti pattizi» previsti dallo statuto, né la garanzia costituzionale di cui detti strumenti beneficiano nell'ordinamento; di conseguenza, non può costituire nemmeno il fondamento costituzionale della censura prospettata dalla ricorrente.

    4.5. - Con un quarto motivo, la ricorrente promuove questione di legittimità costituzionale dei commi 661 e 662, per violazione dell'art. 43 dello statuto speciale della Regione Siciliana, perché detti commi, «predeterminando unilateralmente il contenuto di future norme di attuazione statutaria», ledono «il principio di pariteticità che presiede alla determinazione pattizia delle medesime, palesandosi evidentemente, allo scopo, del tutto insufficiente la garanzia procedimentale, del resto ovvia, alla quale si rinvia».

    Anche tale questione non è fondata, perché, nel caso di specie, è possibile pervenire a un'interpretazione conforme a Costituzione dei censurati commi 661 e 662, idonea a superare il prospettato dubbio di costituzionalità. I commi denunciati - i quali stabiliscono che le misure da essi previste trovano applicazione attraverso apposite «norme di attuazione statutaria», e cioè norme che, in base all'evocato parametro, sono determinate da una «Commissione paritetica di quattro membri nominati dall'Alto Commissario della Sicilia e dal Governo dello Stato» - devono essere, infatti, interpretati nel senso che si limitano a individuare l'àmbito delle modifiche che il legislatore statale dovrà apportare alle norme di attuazione statutaria in base alle determinazioni della menzionata Commissione paritetica. Cosí interpretati, detti commi non hanno l'effetto, affermato dalla ricorrente, di predeterminare unilateralmente il contenuto delle delibere della Commissione e, pertanto, non hanno attitudine lesiva delle prerogative costituzionali della medesima.

    Tale interpretazione trova conferma nella giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale il semplice richiamo alle modalità di attuazione statutaria, contenuto nelle leggi statali che trasferiscono funzioni alle Regioni (o recano riforme che richiedono un coordinamento con le norme di attuazione statutaria), è sufficiente a garantire che «la determinazione delle relative norme d'attuazione venga effettuata, nel rispetto dell'autonomia regionale, dalla Commissione paritetica prevista dall'art. 43 dello Statuto» (sentenze n. 180 del 1980; n. 166 del 1976; n. 298 del 1974).

    5. - Con un terzo gruppo di questioni la ricorrente censura i commi 830, 831 e 832 del medesimo art. 1 della legge n. 296 del 2006, in riferimento all'art. 43 dello statuto di autonomia, nonché agli artt. 3, 81 e 119 Cost.

    5.1. - Il comma 830 ridetermina, ampliandola progressivamente, la misura del concorso della Regione Siciliana alla spesa sanitaria a carico del bilancio regionale. Il successivo comma 831 sospende l'applicazione delle disposizioni di cui al comma 830 fino al 30 aprile 2007; stabilisce che «entro tale data dovrà essere raggiunta l'intesa preliminare all'emanazione delle nuove norme di attuazione dello Statuto della Regione siciliana in materia sanitaria»; ridetermina per l'anno 2007, nel caso di mancato raggiungimento dell'intesa, il concorso della Regione alla medesima spesa in una misura inferiore a quella prevista dal censurato comma 830 per il medesimo anno. Il comma 832 demanda alle norme di attuazione di cui al menzionato comma 831 il riconoscimento della «retrocessione alla Regione siciliana di una percentuale non inferiore al 20 e non superiore al 50 per cento del gettito delle accise sui prodotti petroliferi immessi in consumo nel territorio regionale»; stabilisce che tale retrocessione «aumenta simmetricamente, fino a concorrenza, la misura percentuale del concorso della Regione alla spesa sanitaria, come disposto dal comma 830»; prevede che «alla determinazione dell'importo annuo della quota da retrocedere alla Regione si provvede con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, previo parere della Commissione paritetica prevista dall'articolo 43 dello Statuto».

    5.2. - Preliminarmente, deve essere esaminata l'eccezione della difesa erariale secondo cui il ricorso sarebbe parzialmente inammissibile «in quanto il comma 830 è sospeso fino al 30 aprile 2007».

    L'eccezione non è fondata.

    Il comma 831 dispone la sospensione dell'applicazione del solo comma 830 nel periodo tra la sua entrata in vigore (1° gennaio 2007) e il 30 aprile 2007. Tale sospensione, tuttavia, non fa venire meno la lesività del denunciato comma 830 rispetto alla sfera delle competenze statutariamente attribuite alla Regione, perché tale comma è comunque entrato in vigore ed è idoneo a produrre effetti.

    5.3. - Sempre in via preliminare, devono essere dichiarate inammissibili le questioni relative alla violazione dell'art. 3 Cost. Sul punto, infatti, il ricorso non solo è generico, ma prospetta la violazione di un parametro costituzionale che non afferisce al riparto delle competenze tra Stato e Regioni, né ridonda nella lesione di competenze di queste ultime (ex plurimis, sentenze n. 50 del 2008 e n. 430 del 2007).

    5.4. - Passando al merito delle questioni promosse, la Regione Siciliana deduce, con un primo motivo di censura, che i commi 830, 831 e 832 víolano gli artt. 81, quarto comma, e 119, quarto comma, Cost., sotto il profilo dell'obbligo di copertura della spesa, perché determinano «un grave squilibrio finanziario» a carico del bilancio regionale, fissando un aumento della quota di compartecipazione regionale alla spesa sanitaria senza un contemporaneo trasferimento di risorse aggiuntive. Tale squilibrio viene quantificato dalla Regione medesima, rispettivamente, in 185, 371 e 556 milioni di euro per gli anni 2007, 2008 e 2009.

    Le questioni non sono fondate, perché la ricorrente, in relazione al dedotto «squilibrio finanziario», si limita a prospettare una mera quantificazione dell'aggravio di spesa determinato dalla misura impugnata, senza dimostrare, come invece richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte, che detta misura alteri «gravemente» «il rapporto tra complessivi bisogni regionali e insieme dei mezzi finanziari per farvi fronte» (sentenze n. 29 del 2004; n. 138 del 1999 e n. 222 del 1994).

    Né a diversa conclusione può condurre il rilievo della ricorrente, secondo cui essa non può sopportare il maggior aggravio di spesa determinato dai commi censurati nemmeno «mediante la rimodulazione e la compressione di altre voci di spesa». Tale deduzione non è, infatti, sufficiente a dimostrare che l'aggravio di spesa derivante dai commi censurati sia tale da produrre un "grave squilibrio" del bilancio regionale, tanto più che la ricorrente non offre alcun elemento atto a porre in relazione detto aggravio con le complessive voci del bilancio - sia annuale, sia pluriennale - della Regione. In tal modo, la ricorrente si sottrae all'onere della dimostrazione, richiesta dalla citata giurisprudenza di questa Corte, che la misura impugnata determini effettivamente una grave alterazione del rapporto tra insieme dei mezzi finanziari di cui la Regione può disporre e complessivi bisogni regionali.

    5.5. - La ricorrente Regione Siciliana promuove, infine, in riferimento all'art. 43 dello statuto di autonomia, questione di legittimità costituzionale del comma 832 del medesimo art. 1 della legge n. 296 del 2006, il quale prevede che: a) nelle «norme di attuazione di cui al comma 831», è riconosciuta alla Regione siciliana la retrocessione di una certa quota del gettito delle accise sui prodotti petroliferi immessi in consumo nel territorio regionale (primo periodo); b) «tale retrocessione aumenta simmetricamente, fino a concorrenza, la misura percentuale del concorso della Regione alla spesa sanitaria» (secondo periodo); c) alla determinazione dell'importo annuo della quota da retroceder e alla Regione si provvede «con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, previo parere della Commissione paritetica prevista dall'articolo 43 dello Statuto della Regione siciliana» (terzo periodo).

    Per la Regione, il comma censurato «limita l'intervento della Commissione paritetica ivi prevista all'individuazione di quelle misure percentuali di concorso regionale alla spesa sanitaria discendenti dalla prevista simmetria rispetto alla quota di gettito da devolvere, mentre rientra viceversa tra i suoi compiti il definire, tra gli altri, anche tutti i profili finanziari connessi all'esercizio delle funzioni attribuite».

    La questione relativa ai primi due periodi del comma 832 non è fondata.

    In relazione a detti periodi valgono, infatti, le medesime ragioni d'infondatezza già esposte al punto 4.5. Le disposizioni denunciate - nel rimettere alle norme di attuazione statutaria la disciplina della retrocessione di una certa quota del gettito delle accise - devono essere interpretate nel senso che esse si limitano a individuare l'àmbito delle modifiche da apportare alle norme di attuazione statutaria in materia finanziaria, senza con ciò sottrarre alla menzionata Commissione paritetica la competenza a determinare tali norme.

    È, invece, fondata la questione relativa al terzo periodo del censurato comma 832, ai sensi del quale la determinazione dell'importo annuo della quota da retrocedere alla Regione è effettuata «con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell'economia e delle finanze, previo parere della Commissione paritetica prevista dall'articolo 43 dello Statuto della Regione siciliana». La disposizione denunciata, infatti, nell'attribuire alla Commissione paritetica l'ulteriore competenza ad emettere parere circa la misura di detto importo, incide sui poteri e sulle funzioni previsti dallo statuto speciale per tale Commissione, perché non si limita a individuare l'àmbito delle modifiche da apportare alle norme di attuazione statutaria in materia finanzi aria, ma crea - con una legge statale ordinaria - una speciale funzione consultiva non prevista dallo statuto di autonomia e, al tempo stesso, sottrae alla medesima Commissione il potere di stabilire essa stessa, con le norme di attuazione dello statuto, anche le modalità per la determinazione dell'importo annuo delle accise da retrocedere alla Regione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    1) dichiara estinto il processo, limitatamente alla questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 796, lettera b), della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), promossa dalla Regione Siciliana, con il ricorso indicato in epigrafe;

    2) dichiara l'illegittimità costituzionale del terzo periodo del comma 832 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006;

    3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 54 e 55, della legge n. 296 del 2006, promosse, in riferimento al principio di leale collaborazione, dalla Regione Siciliana, con il ricorso indicato in epigrafe;

    4) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 661 e 662, della legge n. 296 del 2006, promosse dalla Regione Siciliana, in riferimento agli artt. 36 e 43 dello statuto della Regione Siciliana, all'art. 1 del decreto legislativo 3 novembre 2005, n. 241 (Norme di attuazione dello Statuto speciale della Regione siciliana, recanti attuazione dell'articolo 37 dello Statuto e simmetrico trasferimento di competenze), agli artt. 81 e 119 della Costituzione, nonché all'art. 10 della legge costituzionale 8 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), con il ricorso indicato in epigrafe;

    5) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 830, 831 e 832, della legge n. 296 del 2006, promosse, in riferimento all'art. 3 Cost., dalla Regione Siciliana, con il ricorso indicato in epigrafe;

    6) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 830, 831 e 832, primo e secondo periodo, della legge n. 296 del 2006, promosse, in riferimento all'art. 43 dello statuto ed agli artt. 81 e 119 Cost., dalla Regione Siciliana, con il ricorso indicato in epigrafe.

    Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
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SENTENZA N. 146

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE      Presidente

- Giovanni Maria  FLICK       Giudice

- Francesco       AMIRANTE       "

- Ugo             DE SIERVO      "

- Alfonso         QUARANTA       "

- Franco          GALLO          "

- Luigi           MAZZELLA       "

- Gaetano         SILVESTRI      "

- Sabino          CASSESE        "

- Maria Rita      SAULLE         "

- Giuseppe        TESAURO        "

- Paolo Maria     NAPOLITANO     "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2006), promosso con ordinanza del 2 febbraio 2007 dal Tribunale ordinario di Torino nel procedimento civile vertente tra Arace Luigi e la Provincia di Torino, iscritta al n. 542 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 32, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visto l'atto di costituzione di Arace Luigi nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica dell'11 marzo 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;

    uditi l'avvocato Marco Pizzetti per Arace Luigi e l'avvocato dello Stato Daniela Giacobbe per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

    1.- Con ordinanza del 2 febbraio 2007, il Tribunale di Torino, sezione lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2006), nella parte in cui prevede che «Tra le disposizioni riconosciute inapplicabili dall'articolo 69, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997, è ricompreso l'articolo 5, terzo comma, della legge 27 maggio 1949, n. 260, come so stituito dall'articolo 1 della legge 31 marzo 1954, n. 90, in materia di retribuzione nelle festività civili nazionali ricadenti di domenica», per violazione dell'art. 3 della Costituzione.

    Il Tribunale di Torino sottolinea che il giudizio a quo ha ad oggetto la domanda del ricorrente, lavoratore dipendente della Provincia di Torino, di ricevere dall'amministrazione il pagamento dell'aliquota giornaliera di retribuzione prevista dall'art. 5, terzo comma, della legge 27 maggio 1949, n. 260 (Disposizioni in materia di ricorrenze festive), in relazione alle coincidenza con la domenica delle giornate del 2 giugno 2002 e del 25 aprile 2004.

    Sotto il profilo della rilevanza, il rimettente afferma che, in applicazione dell'art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949, lo Stato, gli enti pubblici e gli imprenditori privati devono corrispondere ai salariati retribuiti in misura fissa, qualora le festività previste dal primo comma del medesimo art. 5 ricorrano di domenica, oltre alla retribuzione globale di fatto giornaliera, compreso ogni elemento accessorio, anche un'ulteriore retribuzione corrispondente all'aliquota giornaliera

    Sostiene altresì che la giurisprudenza della Corte di cassazione si è consolidata nel senso di ritenere che con l'espressione «salariati» si deve far riferimento all'intera categoria dei lavoratori subordinati, senza alcuna distinzione tra operai e impiegati e che la spettanza di tale compenso aggiuntivo fisso deve essere condizionata soltanto dalla coincidenza della festività con la domenica e non anche dalla circostanza che in tale giornata il dipendente abbia effettuato prestazioni lavorative, essendo la sua ratio quella di compensare quest'ultimo della perdita di un giorno di riposo. Il riferimento allo Stato e agli altri enti pubblici - sempre secondo il rimettente - non lascia alcun dubbio sull'applicabilità della norma anche a l pubblico impiego.

    Ad avviso del Tribunale di Torino, l'unico ostacolo all'accoglimento della domanda,  ricorrendo altrimenti tutti i presupposti per l'applicazione dell'art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949, è costituito dall'art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005. Tale disposizione avrebbe un contenuto innovativo con effetto retroattivo in quanto l'affermazione che l'art. 5 rientra tra le norme generali e speciali del pubblico impiego di cui all'art. 69 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), non costituirebbe opera di interpretazione dell'art. 69 stesso, ma, piuttosto, una qualificazione giuridica dell'art. 5 come norma del pubblic o impiego.

    A tale proposito, il rimettente osserva che l'art. 69 sopra indicato si riferisce alla preesistente normativa speciale del pubblico impiego di cui prevede la progressiva inapplicabilità a seguito della contrattazione collettiva, mentre l'art. 5 della legge n. 260 del 1949 è una norma dettata per ogni rapporto di lavoro subordinato, pubblico e privato, e, dunque, da ricondurre alla previsione di incondizionata applicabilità sancita dall'art. 2, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001. Da questa ricostruzione risulterebbe evidente la volontà del legislatore di escludere, con effetto retroattivo, l'applicabilità dell'art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949 ai dipendenti pubblici.

    Il rimettente afferma, sempre al fine della rilevanza, che nessuna diversa disciplina del diritto rivendicato dal ricorrente è rinvenibile nei contratti collettivi alla cui stipulazione l'art. 69 ha subordinato l'inapplicabilità delle norme previgenti. La contrattazione collettiva, infatti, non avrebbe affrontato la materia delle festività, con ogni probabilità proprio perché disciplinata da una norma di legge relativa a tutti i rapporti di lavoro pubblici e privati. In ogni caso i contratti collettivi nazionali, sia quello relativo al 1994-1997, sia quello per il periodo 1998-2001, rimanderebbero, per tutto quello dagli stessi non previsto, alle previgenti norme di legge (art. 43 e art. 26).

    A parere del Tribunale di Torino, la questione non è manifestamente infondata in quanto la norma censurata introduce una inequivocabile disparità di trattamento tra lavoratori pubblici e privati retribuiti in maniera fissa, disparità che, a seguito della riforma del pubblico impiego, potrebbe ritenersi legittima solo qualora si fosse in presenza di una effettiva  sostanziale non omogeneità delle situazioni poste a raffronto, secondo quanto affermato dalla stessa Corte costituzionale (sent. n. 89 del 2003).

    Nel caso di specie, secondo il rimettente, non è possibile rinvenire alcuna ragione per ritenere che la situazione del dipendente privato abbia caratteristiche che la differenzino da quella del dipendente pubblico, dato che in entrambi i casi si verifica la perdita di una giornata di riposo per effetto della coincidenza di una festività civile con la domenica. L'assenza di profili distintivi tra tali situazioni appare, sempre secondo il giudice a quo, di tutta evidenza, ove si consideri che lo stesso legislatore del 1949 le aveva disciplinate allo stesso modo, dettando un'unica norma indirizzata agli imprenditori privati, allo Stato e agli altri enti pubblici.

    L'unica ragione giustificatrice della scelta legislativa di differenziare la posizione dei dipendenti pubblici potrebbe essere quella del risanamento della finanza pubblica, che impone di contemperare con le disponibilità di questa la tutela del pubblico dipendente. Tuttavia tale ultima esigenza, anche se seria e condivisibile, non sarebbe di per sé sufficiente a giustificare una differenziazione della condizione del dipendente pubblico da quella del dipendente privato.

    Tra l'altro, l'esigenza di salvaguardia della finanza pubblica sarebbe così generale che potrebbe giustificare qualsiasi differenziazione della disciplina del rapporto di lavoro pubblico da quello privato.

    2.- Si è costituito in giudizio il ricorrente nel giudizio principale, Arace Luigi, che, nell'atto di intervento, evidenzia la correttezza dell'interpretazione data dal giudice rimettente all'art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949, in conformità all'indirizzo della giurisprudenza di legittimità, secondo la quale la norma è volta ad indennizzare, attraverso il pagamento di una retribuzione aggiuntiva corrispondente all'aliquota giornaliera, la mancata fruizione di una giornata di riposo in conseguenza della coincidenza con la domenica di talune festività.

    Altrettanto condivisibile, sempre secondo la difesa dell'interveniente, è l'interpretazione circa l'applicabilità della norma tanto al lavoro privato che al pubblico impiego e la conseguente impossibilità che la stessa possa essere qualificata quale «norma generale e speciale del pubblico impiego» divenuta oggi inapplicabile per il particolare meccanismo previsto dall'art. 69 del d.lgs. n. 165 del 2001. La norma oggetto di censura, pertanto, non sarebbe affatto una norma interpretativa ma, invece, innovativa con effetti retroattivi, avendo reso inapplicabile ai rapporti di lavoro con le pubbliche amministrazioni il più volte citato art. 5 della legge n. 260 del 1949.

    Quanto alla non manifesta infondatezza, l'interveniente ancora una volta condivide le considerazioni addotte dal rimettente. In particolare evidenzia come la norma si ponga in contrasto con l'art. 3 della Costituzione e con il principio di ragionevolezza per l'ingiustificata disparità di trattamento che determinerebbe tra i lavoratori pubblici e quelli privati.

    Con la privatizzazione del pubblico impiego, infatti, il legislatore ha voluto uniformare il rapporto di lavoro pubblico a quello privato. Conseguentemente, si giustificherebbero differenze nella disciplina solo per esigenze specifiche relative alle peculiarità del pubblico impiego

    In questo contesto, a parere della parte privata, una regolamentazione diversa di singoli aspetti del rapporto di lavoro pubblico da quello privato potrebbe ritenersi legittima solo se trovasse la sua giustificazione nei principi costituzionali che regolano l'attività della pubblica amministrazione.

    Tali peculiarità sono state evidenziate dalla Corte costituzionale in tema di reclutamento del personale in forza del principio del pubblico concorso stabilito dall'art. 97 Cost., nella disciplina dello svolgimento di mansioni superiori e nel conferimento e nella revoca di incarichi dirigenziali, al fine di evitare abusi nella progressione in carriera in violazione dei principi di imparzialità e legalità che reggono l'agire delle pubbliche amministrazioni.

    Con riguardo al caso in oggetto, invece, la disparità di trattamento operata dall'art. 1, comma 224, della legge n. 266 del 2005 risulterebbe del tutto ingiustificata in quanto la situazione di fatto si presenterebbe del tutto identica sia nel lavoro pubblico che in quello privato e la ratio sottesa all'art. 5, terzo comma, della legge n. 260 del 1949 sarebbe indifferentemente applicabile ad entrambi i tipi di rapporto.

    Infine, l'interveniente ribadisce che l'obiettivo di contenimento della spesa pubblica non può da solo giustificare l'indicata disparità di trattamento, tanto più che, in base alla previsione degli artt. 45, 46, 47 e 48 del d.lgs. n. 165 del 2001, esso deve essere efficacemente perseguito in sede di stipulazione della contrattazione collettiva.

    3.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, costituitosi a mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, eccepisce l'inammissibilità o, comunque, la manifesta infondatezza del dubbio di costituzionalità.

    Preliminarmente, l'Avvocatura dello Stato afferma che l'ordinanza di rimessione non è sufficientemente dettagliata in merito alla rilevanza della questione nel giudizio a quo. Dalla semplice lettura della norma censurata risulterebbe evidente, infatti, che essa disciplina l'ipotesi di coloro che hanno prestato attività lavorativa in una delle indicate festività casualmente coincidente con la domenica, mentre nell'ordinanza del Tribunale di Torino non è in alcun modo specificato se effettivamente il dipendente abbia prestato la propria attività lavorativa nei giorni indicati. A colmare questa lacuna non sarebbe sufficiente neanche il richiamo operato dal rimettente all'indirizzo giurisprudenziale secondo il quale il compenso aggiuntiv o di cui al terzo comma dell'art. 5 è subordinato alla sola circostanza della coincidenza della festività con la domenica, in quanto tale indirizzo non può ritenersi "diritto vivente", dato che vi sarebbero numerose pronunce di segno opposto. Sotto questo profilo, pertanto, la questione sarebbe inammissibile per difetto di motivazione sul requisito della rilevanza.

    La prospettata questione di costituzionalità sarebbe altresì inammissibile in quanto dall'ordinanza non emergerebbe quale contratto collettivo sia applicabile al caso di specie.

    Nel merito, infine, la questione sarebbe infondata.

    A parere dell'Avvocatura, la premessa da cui muove il Tribunale di Torino, vale a dire che con la riforma di cui al d.lgs. n. 165 del 2001 sarebbe stato operato un assoggettamento del rapporto di lavoro pubblico alla disciplina del rapporto di lavoro privato, anche se esatta, non può essere considerata in senso assoluto. La Corte costituzionale, infatti, ha affermato che rientra nella discrezionalità del legislatore disegnare l'ambito di estensione di tale privatizzazione, con il limite del rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione e della non irragionevolezza della disciplina differenziata. La stessa disciplina contenuta nel citato d.lgs. n. 165 del 2001 dimostrerebbe che alcune differenziazioni sono giustificate dalla particolare natura del rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti.

    La norma in esame, pertanto, frutto di una scelta discrezionale del legislatore in considerazione delle particolari caratteristiche del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, non si porrebbe in contrasto con la Costituzione.

    In prossimità dell'udienza l'Avvocatura dello Stato e la parte interveniente, mediante il deposito di memorie, hanno ribadito le rispettive richieste.

Considerato in diritto

    1.- Il Tribunale di Torino, sezione lavoro, dubita, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2006), nella parte in cui prevede che «Tra le disposizioni riconosciute inapplicabili dall'articolo 69, comma 1, secondo periodo, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, a seguito della stipulazione dei contratti collettivi del quadriennio 1994/1997 è ricompreso l'articolo 5, terzo comma, della legge 27 maggio 1949, n. 260, come sost ituito dall'articolo 1 della legge 31 marzo 1954, n. 90, in materia di retribuzione nelle festività civili nazionali ricadenti di domenica».

    1.1.- Preliminarmente, occorre prendere in considerazione l'eccezione di inammissibilità dedotta dall'Avvocatura dello Stato in relazione alla insufficiente descrizione della fattispecie che sarebbe stata operata dal giudice a quo.

    Secondo la difesa statale l'ordinanza di rimessione non chiarirebbe se il ricorrente abbia o meno lavorato nelle giornate del 2 giugno 2002 e 25 aprile 2004, allorché la festa nazionale e l'anniversario della liberazione hanno coinciso con la domenica. La conoscenza di tale circostanza sarebbe necessaria ai fini della valutazione della rilevanza, in quanto l'art. 5, terzo comma, secondo periodo, della legge 27 maggio 1949, n. 260 (Disposizioni in materia di ricorrenze festive), andrebbe interpretato nel senso che il beneficio da esso concesso è applicabile solo ai lavoratori salariati retribuiti in misura fissa che abbiano effettivamente lavorato in una giornata festiva coincidente con la domenica. L'indirizzo giurisprudenziale contrario, secondo il quale non sarebbe necessario che il dipendente abbia lavorato nella giornata festiva coincidente con la domenica per maturare l'incremento retributivo, non essendo sufficientemente consolidato, non costituirebbe diritto vivente.

    L'Avvocatura dello Stato, inoltre, ritiene insufficiente la descrizione della fattispecie operata dal rimettente anche relativamente alla mancata precisazione di quale contratto collettivo sia applicabile al caso di specie, se quello del comparto Regioni e autonomie locali del quadriennio 1994-1997, ovvero quello del quadriennio 1998-2001.

    L'eccezione dell'Avvocatura dello Stato è da respingere sotto entrambi i profili.

    Quanto al primo, deve rilevarsi che il rimettente espressamente afferma di voler aderire all'interpretazione della Corte di cassazione che ritiene debba essere corrisposta un'aliquota giornaliera aggiuntiva a tutti i lavoratori salariati in misura fissa per il solo fatto che la festività coincida con la domenica, in quanto la finalità del legislatore è quella di compensare il lavoratore della giornata di riposo persa. Detto orientamento, contrariamente a quanto affermato dalla difesa erariale, è adottato stabilmente dalla Corte di cassazione da più di un decennio e può dirsi costituire "diritto vivente".

    Con riferimento al secondo profilo di inammissibilità, è sufficiente rilevare come dall'ordinanza emerga in modo chiaro che il periodo di contrattazione collettiva preso a riferimento è quello che disciplina il contratto di lavoro vigente alle date del 2 giugno 2002 e del 25 aprile 2004. Risulta altresì che in tali date la festività nazionale abbia coinciso con la domenica.

    2.- A parere del rimettente, dopo la riforma del pubblico impiego culminata con il decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), la disciplina del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni è assimilata a quella  del rapporto di lavoro svolto alle dipendenze di datori di lavoro privati e, pertanto, la norma denunciata contrasterebbe con il principio di eguaglianza, non essendo costituzionalmente legittimo differenziare, in mancanza di ragioni che possano giustificarlo, due situazioni identiche in relazione al trattamento delle festività coincidenti con la domenica.

    2.1.- La questione non è fondata.

    La stessa premessa da cui muove il rimettente non può ritenersi corretta dal momento che,  malgrado la progressiva assimilazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni con quello alle dipendenze dei datori di lavoro privati, sussistono ancora differenze sostanziali che rendono le due situazioni non omogenee.

    Questa Corte in più occasioni ha ammesso la possibilità di una disciplina differenziata del rapporto di lavoro pubblico rispetto a quello privato, in quanto il processo di omogeneizzazione incontra il limite «della specialità del rapporto e delle esigenze del perseguimento degli interessi generali» (sentenza n. 275 del 2001). La pubblica amministrazione, infatti, «conserva pur sempre - anche in presenza di un rapporto di lavoro ormai contrattualizzato - una connotazione peculiare», essendo tenuta «al rispetto dei principi costituzionali di legalità, imparzialità e buon andamento cui è estranea ogni logica speculativa» (sentenza n. 82 del 2003).

    Ha altresì già precisato che la specificità del «lavoro pubblico, per il quale rileva l'art. 97 Cost.» (sentenza n. 367 del 2006) legittima differenziazioni di trattamento rispetto al lavoro privato, e che «le peculiarità del contratto collettivo nel pubblico impiego [che è] "efficace erga omnes", "funzionale all'interesse pubblico di cui all'art. 97  Cost.", inderogabile sia in peius che in melius, oggetto di diretto sindacato da parte della Corte di cassazione per violazione o falsa applicazione» influiscono anche sul piano processuale determinando «l'impossibilità di ritenere a priori irrazionali le pec uliarità» della diversa disciplina (sentenza n. 199 del 2003)

    Anche con riferimento alla norma denunciata, relativa al compenso per la perdita di un giorno di riposo nel caso in cui la festività civile coincida con la domenica, non è possibile effettuare una comparazione tra la categoria dei lavoratori che prestano la loro attività nelle pubbliche amministrazioni  e quella dei dipendenti dai datori di lavoro privati, non sussistendo quella omogeneità di situazioni normative che renderebbe ingiustificata la diversa regolamentazione adottata.

    A tale proposito, va evidenziato che la norma oggetto di censura ha come finalità il contenimento e la razionalizzazione della spesa per il settore del pubblico impiego, finalità questa che è imposta dall'art. 2, comma 1, della legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), e ribadita dall'art. 1, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 165 del 2001.

    In particolare il d.lgs. n. 165 del 2001, all'art. 1, comma 1, lettera b), individua, tra gli scopi che detta normativa generale sul pubblico impiego si prefigge, l'esigenza di «razionalizzare il costo del lavoro pubblico, contenendo la spesa complessiva per il personale, diretta e indiretta, entro i vincoli di finanza pubblica». Il rinvio, operato dal successivo comma 2, alle «leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa» per ciò che concerne i «rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche» subisce il limite delle «diverse disposizioni contenute [in tale] decreto». Detto vincolo, nell'ulteriore comma 3, viene specificato prevedendo che «l'attribuzione di trattamenti economici può avvenire esclusivamente mediante contratti collettivi o, alle condizioni previste, mediante contratti individuali. Le disposizioni di legge, regolamenti o atti amministrativi che attribuiscono incrementi retributivi non previsti da contratti cessano di avere efficacia a far data dall'entrata in vigore del relativo rinnovo contrattuale».

    Il legislatore, dunque, ha voluto riservare alla contrattazione collettiva l'intera definizione del trattamento economico, eliminando progressivamente tutte le voci extra ordinem. Lo stesso controllo sulla spesa pubblica per il personale viene quindi incentrato sulla contrattazione collettiva. A tal fine sono disposti i controlli della Corte dei conti sull'ipotesi di contratto collettivo nazionale, ai sensi dell'art. 47, comma 4, del d.lgs. n. 165 del 2001, ed è stabilito il rispetto del vincolo risultante dai contratti collettivi.

    D'altra parte, con riferimento alla questione in oggetto, gli stessi contratti collettivi, oltre a ribadire il principio della onnicomprensività della retribuzione e del divieto di ulteriori corresponsioni, hanno previsto una dettagliata regolamentazione del godimento delle ferie, delle festività e degli eventuali riposi compensativi, con il risultato che, se si applicasse oltre al contratto collettivo quanto prevede l'art. 5 della legge n. 260 del 1949, si avrebbe una almeno parziale duplicazione dello stesso beneficio.

    La disposizione legislativa innanzi citata prevedeva, infatti, il beneficio dell'attribuzione di «una ulteriore retribuzione corrispondente all'aliquota giornaliera» nell'ipotesi in cui la festività nazionale della Repubblica (2 giugno), l'anniversario della liberazione (25 aprile), la festa del lavoro (1° maggio) ed il giorno dell'unità nazionale (4 novembre) avessero coinciso con la festività domenicale. Ma, avendo la legge 5 marzo 1977, n. 54 (Disposizioni in materia di giorni festivi), spostato, per ciò che interessa la presente questione, la celebrazione della festività nazionale della Repubblica e quella dell'unità nazionale, rispettivamente, alla prima domenica di giugno e alla prima domenica di novembre, con contestuale cessazione delle festività del 2 giugno e del 4 novembre, la legge 23 dicembre 1977, n. 937 (Attribuzione di giornate di riposo ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni), ha previsto per i «dipendenti civili e militari delle pubbliche amministrazioni centrali e locali [.] in aggiunta ai periodi di congedo previsti dalle norme [allora] vigenti sei giornate complessive di riposo», di cui due in aggiunta al congedo ordinario e quattro con una disciplina particolare. E' appena il caso di dire che, ai fini delle presenti considerazioni, è irrilevante la modifica normativa apportata con l'art. 1 della legge 20 novembre 2000, n. 336 (Ripristino della festività nazionale del 2 giugno, data di fondazione della Repubblica), poiché questo intervento legislativo non ha determinato una riconsiderazione della materia. Il contenuto sostanziale della disciplina prevista dalla legge n. 937 del 1977 è stato, successivamente, trasferito nei contratti collettivi.

    In particolare, l'art. 18 del contratto collettivo nazionale del comparto Regioni-Enti locali del 6 luglio 1995 prevede al comma 2 dell'art. 18 che «La durata delle ferie è di 32 giorni lavorativi comprensivi delle due giornate previste dall'articolo 1, comma 1, lettera "a", della L. 23 dicembre 1977, n. 937» ed al successivo comma 6 che  «a tutti i dipendenti sono attribuite quattro giornate di riposo da fruire nell'anno solare ai sensi e alle condizioni previste dalla menzionata legge n. 937 del 1977». Identica disciplina è stata prevista dall'art. 10 dell'ultimo contratto collettivo.

    Infine, il contratto collettivo nazionale «per il personale del comparto regioni autonomie locali successivo a quello dell'1 aprile 1999», all'art. 24, disciplina il trattamento per l'attività prestata in giorno festivo e il diritto al riposo compensativo e, al successivo art. 52, nel fornire la nozione di retribuzione, prevede espressamente che, nell'ipotesi di mancata fruizione delle quattro giornate di riposo di cui all'art. 18, comma 6, del contratto collettivo del 6 luglio 1995, al dipendente debba essere riconosciuto lo stesso trattamento economico previsto per i giorni di ferie.

    Da tale descrizione del quadro normativo e negoziale emerge che, contrariamente a quanto affermato dal rimettente, la materia delle festività è stata oggetto della contrattazione collettiva sin dalla prima stipulazione relativa al quadriennio 1994-1998, tanto che al dipendente pubblico del comparto regioni-autonomie locali sono tuttora riconosciuti i trattamenti di favore previsti dalla legge n. 937 del 1977 che aveva ad oggetto i rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni e non si applicava al rapporto di lavoro privato. Ne consegue che, nell'ipotesi di accoglimento della prospettata questione di illegittimità costituzionale, si avrebbe una sovrapposizione di benefici dello stesso genere.

    Più in generale, va ribadito che le differenze ancora esistenti tra il rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni e il rapporto di lavoro alle dipendenze dei datori di lavoro privati rendono ingiustificata la pretesa di estendere, in nome del principio di eguaglianza, l'attribuzione di una singola disposizione, quale quella oggetto di censura, senza tenere conto del quadro complessivo del trattamento economico-normativo dei dipendenti della pubblica amministrazione, quale risulta a seguito dell'applicazione delle procedure di contrattazione collettiva previste dal legislatore.

per questi motivi

la corte costituzionale

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 224, della legge 23 dicembre 2005 n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2006), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Torino, sezione lavoro, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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SENTENZA N. 147

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-     Franco            BILE         Presidente

-     Giovanni Maria    FLICK          Giudice

-     Francesco         AMIRANTE          "

-     Ugo               DE SIERVO         "

-     Paolo             MADDALENA         "

-     Alfio             FINOCCHIARO       "

-     Alfonso           QUARANTA          "

-     Franco            GALLO             "

-     Gaetano           SILVESTRI         "

-     Sabino            CASSESE           "

-     Maria Rita        SAULLE            "

-     Giuseppe          TESAURO           "

-     Paolo Maria       NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 301, primo comma, del codice di procedura civile, promosso dal Tribunale di Genova, nel procedimento civile vertente tra il Condominio di via Suardi n. 16 Busalla e la Mariuccia s.s. di Galvani Pietro & c., con ordinanza del 22 febbraio 2007 iscritta al n. 709 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 12 marzo 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante.

Ritenuto in fatto

    1.- Nel corso di un giudizio di merito possessorio in cui, prima dell'udienza di precisazione delle conclusioni, il procuratore del ricorrente era risultato volontariamente cancellato dall'Albo degli avvocati di Genova, il Tribunale di quella città ha sollevato, con ordinanza del 22 febbraio 2007, questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 24, secondo comma, della Costituzione, dell'art. 301, primo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui non contempla tra le ipotesi di interruzione del processo, accanto a quelle della morte, radiazione o sospensione del procuratore, anche quella della cancellazione volontaria di quest'ultimo dall'albo professionale.

    La questione è ritenuta rilevante poiché dalla sua soluzione il Tribunale fa dipendere  se dichiarare l'interruzione del processo per consentire alla parte rimasta priva del difensore di costituirsi con il patrocinio di nuovo procuratore legalmente esercente.

    Secondo il remittente, la giurisprudenza consolidata della Corte di cassazione non ricollega alla cancellazione volontaria dall'albo del procuratore costituito gli stessi effetti che il primo comma dell'art. 301 cod. proc. civ. fa derivare dai fatti di morte, radiazione o sospensione, ritenendo la prima non assimilabile a dette ipotesi, tassativamente previste dalla citata norma, tutte costituite da eventi indipendenti dalla volontà del professionista o del cliente. La cancellazione è assimilata a quei casi (revoca della procura o rinunzia ad essa) riconducibili ad un comportamento volontario, cui il terzo comma dell'art. 301 citato non attribuisce efficacia interruttiva.

    Peraltro il giudice a quo osserva che tale indirizzo è contrastato sia dalla giurisprudenza amministrativa sia da alcune sentenze di giudici di merito  e da una sentenza della Corte di cassazione, secondo cui la cancellazione dall'albo professionale da parte del procuratore costituito, anche se volontaria, determina, al pari della morte, della sospensione e della radiazione del difensore, l'interruzione del processo. Per giungere a tale risultato viene esclusa l'assimilabilità della cancellazione dall'albo alle ipotesi della revoca o della rinunzia alla procura, posto che la finalità di fatti volontari della parte o del procuratore, suscettibili di determinare una vera e propria paralisi processuale, con lesione della eff ettività del diritto di difesa dell'altra parte, non sarebbe ipotizzabile per la cancellazione volontaria dall'albo, essendo ben difficile che un evento che comporta la perdita dello jus postulandi, possa essere strumentalmente compiuto da un difensore. Ma, per il giudice a quo, la cancellazione volontaria dall'albo potrebbe essere seguita da una reiscrizione, sicché «i seri e fondati» argomenti della citata sentenza verrebbero a perdere «parte del loro mordente». Egli opina quindi che, in casi come quello di specie, si verifichi un vuoto nello ius postulandi della parte rimasta priva di difensore e un vulnus anche per l'altra parte, che non potrebbe effettuare le (più facili) notificazioni e comunicazioni al procuratore costituito. Di qui la prospettata lesione del parametro costituzionale che sancisce il principi o di inviolabilità del diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento.

    2.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilità, ovvero per la non fondatezza della questione. Sotto il primo profilo, il remittente non avrebbe espletato il compito di sperimentare un'interpretazione costituzionalmente orientata delle norme della cui legittimità egli dubita,  non avendo indicato le ragioni per cui l'unica interpretazione possibile sia solo quella non condivisa e ritenuta di dubbia costituzionalità, pur in presenza di un orientamento di segno opposto.

    Nel merito, l'interveniente osserva che nel sistema vi sarebbero due gruppi di evenienze: quelle che incidono sullo status del procuratore e gli impediscono di svolgere la professione (dall'evento estremo, che è la morte, alla evenienza temporanea, che è la sospensione dall'albo) e quelle che riguardano unicamente il contratto d'opera; l'interruzione del processo nel primo caso si verifica, mentre nel secondo funziona il meccanismo di cui all'art. 85 cod. proc. civ. L'ipotesi della cancellazione volontaria dall'albo incide direttamente sullo status professionale, perché l'avvocato non può svolgere la professione; si avrebbe, dunque, uno dei casi di impedimento assoluto di cui all'endiadi della rubrica dell'art. 301, primo comma, cod. proc. civ., in quanto «morte o impedimento» sono espressioni che riguardano tutto ciò che determina insuperabile ostacolo all'esercizio della professione. Diversamente opinando, nel senso che la cancellazione volontaria dall'albo non è ipotesi di interruzione, bensì fattispecie assimilabile alla revoca della procura o alla rinuncia ad essa, la conseguenza sarebbe l'operatività dell'art. 85 cod. proc. civ., senza effetto pregiudizievole alcuno per le esigenze della difesa.

Considerato in diritto

    1.- Il Tribunale di Genova, in composizione monocratica, nel corso di un procedimento civile nel quale era risultata la volontaria cancellazione dall'albo degli avvocati del procuratore di una delle parti, ha sollevato, in riferimento all'art. 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 301, primo comma, del codice di procedura civile, in quanto non include la cancellazione volontaria dall'albo del procuratore tra le cause di interruzione del processo.

    Secondo il remittente, l'orientamento consolidato della Corte di cassazione, contraddetto da una sola pronuncia e dalla giurisprudenza amministrativa, esclude che la cancellazione dall'albo del procuratore produca l'interruzione del processo perché, ricollegandosi ad un fatto volontario, è assimilabile alla revoca della procura e alla rinuncia ad essa, ma non alla morte, alla radiazione o alla sospensione dall'albo.

    La mancata interruzione, ad avviso del remittente, priva della difesa tecnica la parte il cui procuratore ha ottenuto la cancellazione dall'albo e il fatto che la norma censurata non preveda tale ultima evenienza quale causa d'interruzione la pone in contrasto con il precetto di cui all'art. 24 Cost., che sancisce l'inviolabilità del diritto di difesa.

    2.- La questione non è ammissibile.

    Il ragionamento del remittente non può essere, infatti, condiviso.

    Egli non soltanto individua come diritto vivente un orientamento che pur riferisce essere contraddetto, nell'ambito della giurisprudenza ordinaria di legittimità  e di quella amministrativa, da un indirizzo contrario, ma erra, altresì, nella ricostruzione di quest'ultimo, facendo riferimento ad una sola pronuncia della Corte di cassazione e trascurandone altre, in particolare quella emessa dalle sezioni unite in sede di composizione di contrasto giurisprudenziale (Cass. S.U., sentenza 21 novembre 1996, n. 10284) ed ulteriori decisioni a questa successive.

    In tal modo il giudice a quo trascura il principio, più volte affermato da questa Corte, secondo il quale una disposizione non può essere ritenuta costituzionalmente illegittima perché può essere interpretata in un senso che la ponga in contrasto con parametri costituzionali, ma soltanto se ne è impossibile una interpretazione conforme alla Costituzione (si vedano, da ultimo, la sentenza n. 379 del 2007 e le ordinanze n. 448 e n. 464 del 2007).

    Tenuto conto della reale situazione giurisprudenziale, l'ordinanza di remissione si risolve nella irrituale richiesta di avallo di un indirizzo ermeneutico effettuata, oltretutto, in base ad una incompleta ricostruzione del quadro giurisprudenziale di riferimento.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 301, primo comma, del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento all'art. 24, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Genova con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Francesco AMIRANTE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
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SENTENZA N. 148

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-     Franco            BILE         Presidente

-     Giovanni Maria    FLICK          Giudice

-     Francesco         AMIRANTE          "

-     Ugo               DE SIERVO         "

-     Paolo             MADDALENA         "

-     Alfio             FINOCCHIARO       "

-     Alfonso           QUARANTA          "

-     Franco            GALLO             "

-     Luigi             MAZZELLA          "

-     Gaetano           SILVESTRI         "

-     Sabino            CASSESE           "

-     Maria Rita        SAULLE            "

-     Giuseppe          TESAURO           "

-     Paolo Maria       NAPOLITANO        "

 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 4, comma 3, e 5, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nel testo risultante a seguito delle modifiche di cui alla legge 30 luglio 2002, n. 189, promossi dal Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, terza sezione, sui ricorsi proposti da R. C. contro la Questura di Milano ed altro e dal E. L. contro il Ministero dell'interno ed altri, con due ordinanze del 28 maggio 2007, iscritte ai nn. 744 e 745 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante.

Ritenuto in fatto

    1.- Nel corso di un giudizio avente ad oggetto l'annullamento di un provvedimento del Questore di Milano, notificato il 5 maggio 2006, con il quale era stato rifiutato il rinnovo del permesso di soggiorno per motivi di lavoro di un cittadino marocchino, il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, terza sezione, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 3, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nel testo risultante a seguito delle modif iche di cui alla legge 30 luglio 2002, n. 189, applicato in correlazione con il successivo art. 5, comma 5.

    Premette in fatto il remittente che il ricorrente aveva presentato domanda per il rinnovo del permesso di soggiorno e che il Questore di Milano, con il provvedimento impugnato, l'aveva respinta perché a carico dell'istante risultava una condanna (a mesi otto di reclusione ed euro 2000 di multa) irrogata, con sentenza del 21 marzo 2004, a seguito di patteggiamento e con sospensione condizionale della pena, per il reato in materia di stupefacenti di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990.

    Con il ricorso l'interessato ha sostenuto l'illegittimità del suddetto provvedimento, contestando l'automatismo applicato dall'amministrazione nel ritenere sussistente la pericolosità sociale senza una puntuale motivazione al riguardo, svolta sulla base di una adeguata istruttoria riguardante la complessiva personalità del soggetto.

    Dopo il rigetto dell'istanza di sospensione del provvedimento impugnato avanzata, in via cautelare, dal ricorrente, il collegio ha sollevato d'ufficio la questione, dopo aver sottolineato che tale provvedimento si fonda sul combinato disposto delle norme censurate che impedisce allo straniero che risulti condannato, anche a seguito di patteggiamento della pena, per una serie di reati, fra i quali quelli inerenti agli stupefacenti, di ottenere il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno. L'interpretazione consolidata che la giurisprudenza amministrativa ha fornito di queste norme è nel senso di escludere che residui alcuno spazio all'autorità amministrativa per la valutazione della pericolosità sociale dello straniero che - si specifica in alcune decisioni - è presunta ex lege, sicché l'interessato può solo limitarsi a contestare l'esistenza o la rilevanza della condanna, dal momento che il successivo provvedimento amministrativo è di carattere vincolato.

    In questa situazione il ricorso dovrebbe essere respinto, dovendo escludersi che il suddetto diritto vivente consenta una interpretazione adeguatrice, mentre potrebbe giungersi ad una diversa soluzione solo ove le disposizioni censurate venissero dichiarate costituzionalmente illegittime, nella parte in cui attribuiscono automatica rilevanza anche alle condanne pronunciate a seguito di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen.

    Di qui la palese rilevanza della questione, sulla quale non potrebbero avere alcuna influenza eventuali sopravvenienze normative, in quanto, in base al principio tempus regit actum, la legittimità del provvedimento impugnato deve essere valutata esclusivamente sulla base della disciplina vigente all'epoca della sua adozione.

    Ciò posto, il remittente passa all'esame della non manifesta infondatezza della questione, osservando che le due suddette disposizioni, applicate in combinato disposto, appaiono, anzitutto, in conflitto con l'art. 3 Cost. per l'intrinseca irragionevolezza della scelta legislativa di fare derivare automaticamente, per effetto di una condanna per fatti ascrivibili all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990 - ontologicamente caratterizzati dalla "lieve entità" (come si desume dalla stessa norma incriminatrice) - emessa ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen. e, quindi, in mancanza di un accertamento pieno sulla sussistenza della responsabilità penale, la gravissima conseguenza del diniego di rinnovo del permesso di soggiorno, senza imporre alcuna valutazione in concreto della pericolosità sociale dell'int eressato.

    Il medesimo parametro è anche violato - secondo il giudice a quo - dall'irragionevole equiparazione, sotto il profilo degli effetti scaturenti sul piano amministrativo, di fattispecie criminose tra loro assai eterogenee in termini di gravità della condotta commessa, come accade, per quel che si riferisce ai reati inerenti agli stupefacenti, con la previsione del medesimo trattamento per condanne penali irrogate per ipotesi di reato legate alla partecipazione ad associazioni criminose dedite al traffico internazionale di stupefacenti e per condanne, riguardanti sempre la medesima categoria di reati, ma riferite ad ipotesi attenuate dalla lieve entità, ovvero dall'assenza di continuazione o concorso con altri reati e per le quali siano concessi tutti i benefici di le gge.

    Risulterebbe inoltre violato l'art. 24 Cost. in quanto l'inclusione, tra le ipotesi ostative, anche delle condanne emesse ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen. comporta la trasformazione di quello che, per la generalità dei consociati, è un rito premiale (nel quale non vi è l'accertamento pieno della responsabilità penale dell'istante) in una procedura pregiudizievole per lo straniero.

    Infine, il fatto che ad una unica e isolata condanna, anche per reati di lieve o lievissima entità, si attribuisca, automaticamente, il ruolo di elemento ostativo al rinnovo del permesso di soggiorno (con obbligo dell'eventuale relativa revoca), senza attribuire alcun rilievo all'esame in concreto della pericolosità sociale dello straniero, si porrebbe in contrasto con gli artt. 2, 3, 24 e 97 Cost.

    Pur essendo pacifico, infatti, che la disciplina della permanenza degli stranieri è affidata alla discrezionalità del legislatore, cui spetta il bilanciamento di vari interessi fra loro anche in contrasto, è altresì vero che tale discrezionalità incontra il limite della ragionevolezza, come riconosciuto da questa Corte in numerose pronunce (sentenze n. 104 del 1969, n. 144 del 1970 e n. 62 del 1994). Nel caso in esame tale limite sarebbe stato superato in quanto viene assoggettato al medesimo trattamento sia lo straniero che per la prima volta chieda di fare ingresso in Italia, sia chi vi soggiorni già da lungo tempo ed essendo, quindi, stabilmente radicato nel territorio nazionale, abbia maturato la ragionevole aspettativa di fermarvisi.

    Del resto, sullo sfondo, assumono rilievo, sotto tale profilo, il decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (di attuazione della direttiva CE del Consiglio 25 novembre 2003, n. 2003/109/CE, relativa allo status dei cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo) - il cui art. 1, nel sostituire l'art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, prevede che, anche per i soggiornanti di lungo periodo, il permesso di soggiorno non deve essere concesso in presenza di condanne penali per determinate categorie di reati, ma  richiede espressamente che vengano prese in considerazione anche la durata del soggiorno e i legami instaurati con il paese di soggiorno - nonché il decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 (di attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri). In particolare, l'art. 20 di tale ultimo decreto, nel disciplinare le limitazioni al diritto di ingresso e di soggiorno dei cittadini dell'Unione per motivi di ordine pubblico, stabilisce che debba essere rispettato il principio di proporzionalità, che si debba tenere conto di comportamenti che «rappresentino una minaccia concreta e attuale, tale da pregiudicare l'ordine e la sicurezza pubblica» e che l'esistenza di condanne penali non possa giustificare automaticamente l'adozione dei provvedimenti limitativi.

    E' chiaro - secondo lo stesso remittente - che tali disposizioni si riferiscono a categorie di persone ben individuate e non sono, quindi, invocabili dai cittadini extracomunitari privi dei necessari requisiti soggettivi, né possono costituire un valido tertium comparationis nel giudizio di costituzionalità, ma esse sono espressione di principi di portata generale - che, nel nostro ordinamento, sono sanciti dai parametri invocati - in base ai quali le conseguenze, sul piano amministrativo, devono correlarsi necessariamente ai comportamenti specifici tenuti dal destinatario del provvedimento, secondo il principio di proporzionalità.

    Osserva, infine, il remittente che il ricorrente, essendo celibe e privo di familiari con i quali sia possibile attuare il ricongiungimento, non può giovarsi del nuovo regime di particolare tutela introdotto dall'art. 2, primo comma, lettera b), del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 5.

    2.- La stessa questione è stata sollevata, con analoghe motivazioni, dal medesimo remittente nel corso di un giudizio avente ad oggetto l'annullamento di un provvedimento del Questore di Varese, notificato il 19 giugno 2006, con il quale era stato rifiutato il rinnovo del permesso di soggiorno, per motivi di lavoro, ad un cittadino albanese, sulla base di una sentenza di condanna (ad un anno di reclusione ed euro ottomila di multa) emessa dal Tribunale di Varese il 13 maggio 2005 ai sensi dell'art. 444 cod. proc. pen., sempre per il reato di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. n. 309 del 1990.

    Nel corso del giudizio è stata accolta dal giudice di primo grado la domanda di sospensione, in via cautelare, del provvedimento impugnato, sullo specifico rilievo secondo cui, a fronte di una condanna per un reato ritenuto dal legislatore di particolare tenuità, si imponeva una valutazione in concreto della pericolosità sociale del ricorrente ai fini della pronuncia di rigetto del rinnovo del permesso di soggiorno. Tuttavia il Consiglio di Stato, in sede di appello, ha riformato l'ordinanza cautelare, ritenendo che una condanna comunque rientrante nel novero di quelle contemplate dall'art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, intervenuta dopo l'entrata in vigore della legge n. 189 del 2002, è da ritenere automaticamente ostativa rispetto all'accoglimento della domanda di rinnovo del permesso di soggiorn o.  

    3.- In entrambi i giudizi è intervenuto, con atti di uguale contenuto, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.

Considerato in diritto

    1.- Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, terza sezione, con due ordinanze di analogo contenuto, solleva, in riferimento agli articoli 2, 3, 24 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale «dell'art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, come sostituito dalla legge n. 189 del 2002, applicato in correlazione con il successivo art. 5, comma 5, nei sensi di cui in motivazione».

    Il remittente espone che sono stati impugnati provvedimenti dei Questori di Milano (ordinanza n. 744 del 2007) e di Varese (ordinanza n. 745 del 2007) di rigetto delle istanze di rinnovo del permesso di soggiorno, nei confronti rispettivamente di un cittadino marocchino e di un cittadino albanese, per essere stati costoro condannati, con sentenze emesse ai sensi dell'art. 444 del codice di procedura penale, il primo a otto mesi di reclusione e euro duemila di multa, con i benefici di legge, il secondo a un anno di reclusione ed euro ottomila di multa, per il reato di cui all'art. 73, comma 5, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per cessione di sostanze stupefacenti.

    Il giudice a quo, premesso che per il rinnovo del permesso di soggiorno sono stabiliti gli stessi requisiti indicati per l'ingresso dello straniero nel territorio dello Stato, censura la normativa in oggetto per aver incluso tra questi il fatto di non essere stato condannato, anche se con "patteggiamento" della pena, fra gli altri, per reati inerenti agli stupefacenti, ancorché per ipotesi di lieve entità.

    Le due suddette disposizioni, applicate in combinato disposto, appaiono al remittente illegittime anzitutto per intrinseca irragionevolezza, consistente nell'aver disposto il rifiuto del rinnovo del permesso di soggiorno in conseguenza della condanna per qualsiasi reato inerente agli stupefacenti, senza alcuna valutazione in concreto della pericolosità sociale del condannato ed ancorché si tratti di condanna inflitta a seguito di cosiddetto patteggiamento - quindi, in mancanza del pieno accertamento della responsabilità penale - per la quale sia stato, eventualmente, concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena (come accade nella fattispecie di cui al giudizio contro il decreto del Questore di Milano).

    In secondo luogo, e sotto altro profilo, viene denunciato il contrasto della normativa censurata con l'art. 3 Cost. per la previsione del medesimo trattamento per ipotesi diverse, con irragionevole equiparazione di condanne per reati gravi a condanne inflitte per ipotesi criminose di modesta entità.

    Secondo il remittente, la normativa è illegittima anche perché incide su diritti della personalità e, in considerazione dell'automatismo applicativo della misura, lede il diritto di difesa e il principio di proporzionalità rispetto allo specifico comportamento dell'interessato.

    Con l'ordinanza emessa nel giudizio d'impugnazione del decreto del Questore di Milano si assume anche l'illegittimità delle disposizioni stesse per non aver tenuto conto del radicamento dello straniero nel territorio dello Stato.

    2.- I giudizi devono essere riuniti perché concernono le stesse disposizioni e pongono questioni analoghe.

    3.- Nessuno dei profili di censura è fondato.

    Si premette che la principale norma concernente la condizione giuridica dello straniero - attualmente, extracomunitario - è quella dell'art. 10, comma secondo, Cost., la quale stabilisce che essa «è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali».

    Da tale disposizione si può desumere, da un lato, che, per quanto concerne l'ingresso e la circolazione nel territorio nazionale (art. 16 Cost.), la situazione dello straniero non è uguale a quella dei cittadini, dall'altro, che il legislatore, nelle sue scelte, incontra anzitutto i limiti derivanti dalle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute ed eventualmente dei trattati internazionali applicabili ai singoli casi.

    Occorre, inoltre, rilevare che lo straniero è anche titolare di tutti i diritti fondamentali che la Costituzione riconosce spettanti alla persona (si vedano, per tutte, le sentenze n. 203 del 1997, n. 252 del 2001, n. 432 del 2005 e n. 324 del 2006).

    In particolare, per quanto qui interessa, ciò comporta il rispetto, da parte del legislatore, del canone della ragionevolezza, espressione del principio di eguaglianza, che, in linea generale, informa il godimento di tutte le posizioni soggettive.

    Peraltro, come questa Corte ha più volte affermato, «la regolamentazione dell'ingresso e del soggiorno dello straniero nel territorio nazionale è collegata alla ponderazione di svariati interessi pubblici, quali, ad esempio, la sicurezza e la sanità pubblica, l'ordine pubblico, i vincoli di carattere internazionale e la politica nazionale in tema di immigrazione e tale ponderazione spetta in via primaria al legislatore ordinario, il quale possiede in materia un'ampia discrezionalità, limitata, sotto il profilo della conformità a Costituzione, soltanto dal vincolo che le sue scelte non risultino manifestamente irragionevoli» (si vedano, per tutte, la sentenza n. 206 del 2006 e, da ultimo, l'ordinanza n. 361 del 2007).

    4.- Tutto ciò premesso, occorre stabilire se la normativa censurata sia, o meno, in contrasto con i principi enunciati.

    A tal proposito può, in primo luogo, ritenersi che non sia manifestamente irragionevole condizionare l'ingresso e la permanenza dello straniero nel territorio nazionale alla circostanza della mancata commissione di reati di non scarso rilievo. In tale ordine di idee, la condanna per un  delitto punito con la pena detentiva, la cui configurazione è diretta a tutelare beni giuridici di rilevante valore sociale - quali sono le fattispecie incriminatrici prese in considerazione dalla normativa censurata - non può, di per sé, essere considerata circostanza ininfluente ai fini di cui trattasi, al punto di far ritenere manifestamente irragionevole la disciplina legislativa che siffatta condanna assume come circostanza ostativa all'accettazione dello straniero nel territo rio dello Stato.

    Si deve, inoltre, osservare che il rifiuto del rilascio o rinnovo del permesso di soggiorno, previsto dalle disposizioni in oggetto, non costituisce sanzione penale, sicché il legislatore ben può stabilirlo per fatti che, sotto il profilo penale, hanno una diversa gravità, valutandolo misura idonea alla realizzazione dell'interesse pubblico alla sicurezza e tranquillità, anche se ai fini penali i fatti stessi hanno ricevuto una diversa valutazione. Sotto questo aspetto neppure può essere considerata manifestamente irragionevole la scelta legislativa di non aver dato rilievo alla sussistenza delle condizioni per la concessione del beneficio della sospensione  della pena, a differenza di quanto avviene per l'espulsione dal territorio nazionale come misura di sicurez za (sentenza n. 58 del 1995). Invero, il fatto che la prognosi favorevole in merito all'astensione del condannato, nel tempo stabilito dalla legge, dalla commissione di ulteriori reati sia condotta, ai fini della non esecuzione della pena, con criteri diversi da quelli che presiedono al giudizio di indesiderabilità dello straniero nel territorio italiano, non può considerarsi, di per sé, in contrasto con il principio di razionalità-equità, attesa la non coincidenza delle due suddette valutazioni.

    D'altronde, l'inclusione di condanne per qualsiasi reato inerente agli stupefacenti tra le cause ostative all'ingresso e alla permanenza dello straniero in Italia non appare manifestamente irragionevole qualora si consideri che si tratta di ipotesi delittuose spesso implicanti contatti, a diversi livelli, con appartenenti ad organizzazioni criminali o che, comunque, sono dirette ad alimentare il cosiddetto mercato della droga, il quale rappresenta una delle maggiori fonti di reddito della criminalità organizzata (sentenza n. 333 del 1991).

    Del pari infondato è il profilo di censura concernente il tipo di procedimento seguito per giungere alla condanna penale e la natura della sentenza con la quale questa è stata pronunciata. Infatti, da un lato, la sentenza di applicazione della pena su richiesta, salve diverse disposizioni di legge, «è equiparata a una pronuncia di condanna» (art. 445, comma 1, cod. proc. pen) e, d'altra parte, per le fattispecie - quali quelle oggetto dei giudizi a quibus - interamente verificatesi dopo l'entrata in vigore della legge n. 189 del 2002, il fatto che la condanna sia intervenuta in sede di patteggiamento non appare significativo, in quanto «nell'opzione del rito alternativo, l'imputato è posto ex ante nella piena condizione di conoscere tutte le conseguenze scaturenti dalla scelta processuale operata» (ordinanza n. 456 del 2007).

    5.- Le disposizioni impugnate sono censurate anche perché non prevedono uno specifico giudizio di pericolosità sociale dei singoli soggetti.

    A tal proposito si deve ribadire che il cosiddetto automatismo espulsivo «altro non è che un riflesso del principio di stretta legalità che permea l'intera disciplina dell'immigrazione e che costituisce, anche per gli stranieri, presidio ineliminabile dei loro diritti, consentendo di scongiurare possibili arbitri da parte dell'autorità amministrativa» (ordinanza n. 146 del 2002).

    Si rileva, inoltre, che, con i decreti legislativi n. 3 e n. 5 dell'8 gennaio 2007 - rispettivamente, di attuazione delle direttive 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo e 2003/86/CE relativa al ricongiungimento familiare - il legislatore ha dato rilievo, in via generale, a ragioni umanitarie e solidaristiche idonee a giustificare il superamento di cause ostative al rilascio o al rinnovo dei titoli autorizzativi dell'ingresso o della permanenza nel territorio nazionale da parte degli stranieri.

    6.- Si osserva, infine, che gli artt. 24 e 97 Cost. non sono stati invocati sulla base di autonome motivazioni, bensì in connessione con gli artt. 2 e 3 Cost., alla stregua dei quali lo scrutinio è stato condotto con le considerazioni che precedono.

    In conclusione, la sollevata questione deve essere dichiarata non fondata sotto tutti i profili.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi;

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell'art. 4, comma 3, e dell'art. 5, comma 5, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nel testo risultante a seguito delle modifiche di cui alla legge 30 luglio 2002, n. 189, sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3, 24 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, terza sezione, con le ordinanze indicate in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Francesco AMIRANTE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 149< /A>

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco            BILE      Presidente

- Giovanni Maria    FLICK       Giudice

- Francesco         AMIRANTE       "

- Ugo               DE SIERVO      "

- Paolo             MADDALENA      "

- Alfio             FINOCCHIARO    "

- Alfonso           QUARANTA       "

- Franco            GALLO          "

- Luigi             MAZZELLA       "

- Gaetano           SILVESTRI      "

- Sabino            CASSESE        "

- Maria Rita        SAULLE         "

- Giuseppe          TESAURO        "

- Paolo Maria       NAPOLITANO     "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 266, comma 2, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 25 gennaio 2006 dal Tribunale di Varese nel procedimento penale a carico di A. G., ed altri, iscritta al n. 168 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 23, prima serie speciale, dell'anno 2006.

    Udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto in fatto

    Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Varese ha sollevato, in riferimento agli artt. 13, primo e secondo comma, 14, primo e secondo comma, e 15 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 266, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non estende la disciplina delle intercettazioni di comunicazioni tra presenti «a qualsiasi "captazione di immagini in luoghi di privata dimora"», ancorché «non configurabile in concreto come forma di intercettazione di comunicazioni tra presenti».

    Il rimettente riferisce di essere investito del processo penale nei confronti di tre persone, sottoposte a giudizio per una pluralità di fatti di illecito acquisto o cessione di sostanze stupefacenti: fatti che - secondo l'ipotesi accusatoria - si erano svolti, in buona parte, nell'abitazione di uno degli imputati, la quale ne era stata luogo di consumazione o nella quale era avvenuto, quantomeno, il prelevamento della sostanza stupefacente o la consegna del relativo prezzo.

    A sostegno dell'accusa, il pubblico ministero aveva chiesto ed ottenuto l'acquisizione dei risultati di riprese visive, effettuate tramite una videocamera collocata su un edificio adiacente la predetta abitazione e puntata sul davanzale di una finestra della medesima: luogo, quest'ultimo - osserva il rimettente - da ritenere certamente riconducibile alle nozioni di «domicilio» e di «privata dimora».

    In sede di discussione finale, nel valutare «a scopi decisori l'utilizzabilità degli atti», era peraltro emerso che le riprese in questione erano state eseguite dalla polizia giudiziaria senza alcun provvedimento autorizzativo, né del giudice per le indagini preliminari, né del pubblico ministero.

    Ciò premesso in punto di fatto, il giudice a quo si dichiara consapevole della circostanza che questa Corte, con sentenza n. 135 del 2002, ha ritenuto non fondata analoga questione di legittimità costituzionale dell'art. 266, comma 2, cod. proc. pen., volta ad ottenere «una pronuncia additiva che allinei la disciplina processuale delle riprese visive in luoghi di privata dimora a quella delle intercettazioni di comunicazioni fra presenti nei medesimi luoghi». Ad avviso del rimettente, nondimeno, il persistente «vuoto normativo» in materia determinerebbe - anche alla luce dei più re centi orientamenti della giurisprudenza di legittimità - la lesione dei parametri costituzionali evocati, giustificando un nuovo scrutinio.

    Al riguardo, il giudice a quo rileva come la Corte di cassazione abbia richiamato i dicta della citata sentenza n. 135 del 2002, ed abbia perciò affermato che le riprese visive in luoghi di privata dimora sono soggette alla disciplina delle cosiddette intercettazioni ambientali - e quindi alla preventiva autorizzazione del giudice per le indagini preliminari - solo quando mirino alla captazione di comportamenti a carattere comunicativo. Invece, negli altri casi la captazione di immagini configurerebbe una prova documentale non espressamente regolata dalla legge, «fermo [.] il limite della tutela della libertà domiciliare di cui all'art. 14 Cost. da valutarsi di volta in volta».

    Tale limite ulteriore, atto a condizionare «di volta in volta» l'utilizzabilità delle captazioni, non risulterebbe, tuttavia - a parere del rimettente - in alcun modo definito dalla legge; infatti, nel vigente panorama normativo, non v'è alcuna disposizione che vieti o che regoli l'attività investigativa in questione. Divieti e norme regolatrici non potrebbero rinvenirsi, in particolare, nel d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 (Codice in materia di protezione dei dati personali) o nel provvedimento generale sulla videosorveglianza del 29 aprile 2004, emanato dal Garante per la protezione dei dati personali; quest'ultimo, infatti, si limita ad affermare la necessità del rispetto delle norme penali che vietano le intercettazioni di comunicazioni e conversazioni. D'altro canto, non po trebbe ritenersi esistente un «confine definito e rigido» tra le intercettazioni disciplinate dal codice di procedura penale e le altre captazioni investigative penalmente illecite ai sensi dell'art. 615-bis del codice penale.

    L'evidenziata assenza di disciplina si risolverebbe, quindi, in un vulnus delle norme costituzionali poste a tutela della libertà personale, dell'inviolabilità del domicilio e della libertà di comunicazione. Si determinerebbe, fra l'altro, una inversione della «sequenza di garanzia»: nel senso che - alla luce degli orientamenti giurisprudenziali dianzi ricordati - il pubblico ministero e la stessa polizia giudiziaria potrebbero captare immagini all'interno di luoghi di privata dimora, senza alcuna autorizzazione giurisdizionale; se poi risultassero essere state captate delle «comunicazioni», gli esiti del mezzo investigativo sarrebbero inutilizzabili, altrimenti si sarebbero ottenute prove documentali utilizzabili.< /P>

    Il dubbio di costituzionalità non sarebbe, d'altro canto, superabile in via interpretativa: e ciò perché non si potrebbe ritenere - anche alla luce delle indicazioni della sentenza n. 135 del 2002 - che qualsiasi captazione di immagini in luogo di privata dimora rientri nella previsione dell'art. 266 cod. proc. pen., solo perché potenzialmente acquisitiva di comunicazioni tra presenti. Neppure, però, potrebbe accettarsi che - nella perdurante inerzia del legislatore - l'individuazione dei confini di legittimità delle molteplici forme di intrusione nei luoghi di privata dimora resti affidata «alla mera interpretazione giurisprudenziale»: e ciò soprattutto ove si tenga conto della rapida evoluzione tecnologica, che rende aggredibile il domicilio con strumenti sempre più sofisti cati, quali le immagini satellitari ad elevatissimo livello di definizione o la termografia a raggi infrarossi.

    Emergerebbe, di conseguenza, la necessità «minima» di assoggettare la captazione di immagini in luoghi di privata dimora ad un provvedimento autorizzativo giurisdizionale; anzi, più in particolare - come per le intercettazioni «tradizionali» - ad un provvedimento autorizzativo del giudice per le indagini preliminari.

    In tale ottica, il rimettente chiede dunque alla Corte una sentenza additiva, che estenda la disciplina dell'art. 266, comma 2, cod. proc. pen. - dettata per le intercettazioni di comunicazioni tra presenti - a qualsiasi captazione di immagini in luoghi di privata dimora, anche se non configurabile in concreto come forma di intercettazione di comunicazioni tra presenti.

    La questione risulterebbe, infine, rilevante nel giudizio a quo, in quanto dal suo esito dipenderebbe l'utilizzabilità o meno delle videoregistrazioni prodotte dal pubblico ministero a sostegno dell'accusa.

Considerato in diritto

    1. - Il Tribunale di Varese dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 13, primo e secondo comma, 14, primo e secondo comma, e 15 della Costituzione, dell'art. 266, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non estende la disciplina delle intercettazioni di comunicazioni tra presenti a qualsiasi ripresa visiva effettuata in luoghi di privata dimora, ancorché le immagini captate non abbiano ad oggetto comportamenti di tipo comunicativo.

    Il giudice rimettente rileva come, anche alla luce di quanto affermato da questa Corte nella sentenza n. 135 del 2002, la disciplina delle cosiddette intercettazioni ambientali, di cui al citato art. 266, comma 2, cod. proc. pen. - che prevede l'autorizzazione del giudice per le indagini preliminari - sia applicabile alle videoregistrazioni solo quando le stesse mirino a documentare comportamenti a carattere comunicativo. Fuori di tale ipotesi, si riscontrerebbe, per contro, un totale difetto di regolamentazione, poiché non è rinvenibile, nel vigente panorama normativo, alcuna disposizione che vieti o che disciplini l'attività investigativa in questione.

    Siffatto «vuoto normativo» comporterebbe la lesione delle norme costituzionali poste a tutela della libertà personale, dell'inviolabilità del domicilio e della libertà di comunicazione. Esso consentirebbe, difatti, non solo al pubblico ministero, ma alla stessa polizia giudiziaria di effettuare riprese visive in luoghi di privata dimora senza alcuna autorizzazione giurisdizionale, con la riserva di valutarne gli esiti a posteriori: nel senso che, ove si fossero filmati comportamenti di tipo comunicativo, le registrazioni rimarrebbero inutilizzabili; mentre, nell'ipotesi opposta (verificatasi nel giudizio a quo) si sarebbero ottenuti elementi probatori suscettibili di utilizzazione.

    L'esigenza di sottoporre ad un provvedimento autorizzativo giurisdizionale anche le riprese visive di comportamenti non comunicativi in luoghi di privata dimora - esigenza tanto più avvertibile a fronte del progresso tecnologico, che accresce sempre più le possibilità di inspicere nel domicilio tramite strumenti altamente sofisticati - imporrebbe, dunque, la pronuncia additiva invocata.

    2. - La questione è inammissibile.

    2.1. - Nel motivare la rilevanza, il giudice a quo riferisce che, nel caso di specie, le riprese sono state eseguite con una videocamera, collocata su un edificio adiacente l'abitazione dell'indagato e puntata sul davanzale di una finestra dell'abitazione stessa.

    Tale circostanza pone un problema di effettiva configurabilità della protezione costituzionale del domicilio (sulla cui asserita compromissione si incentrano le doglianze del rimettente, al di là della pluralità dei parametri costituzionali evocati): problema, peraltro, specificamente evidenziato nel giudizio a quo dal pubblico ministero. Quest'ultimo - secondo quanto riferisce l'ordinanza di rimessione - ha dedotto, di fronte alle eccezioni della difesa, che le videoregistrazioni in discussione equivarrebbero ad una osservazione a distanza, svolta da un operatore di polizia giudiziaria; e che nessun «attentato al domicilio» sarebbe comunque ravvisabile, proprio perché le riprese sono state eseguite dall'esterno.

    A tali considerazioni il rimettente si limita ad opporre che il davanzale della finestra di un'abitazione è un «punto» certamente riconducibile alle nozioni di «domicilio» e di «privata dimora»: constatazione, tuttavia, insufficiente a fondare un giudizio di rilevanza della questione.

    In proposito, si deve difatti osservare che l'art. 14 Cost. tutela il domicilio sotto due distinti aspetti: come diritto di ammettere o escludere altre persone da determinati luoghi, in cui si svolge la vita intima di ciascun individuo; e come diritto alla riservatezza su quanto si compie nei medesimi luoghi. Nel caso delle riprese visive, il limite costituzionale del rispetto dell'inviolabilità del domicilio viene in rilievo precipuamente sotto il secondo aspetto: ossia non tanto - o non solo - come difesa rispetto ad una intrusione di tipo fisico; quanto piuttosto come presidio di un'intangibile sfera di riservatezza, che può essere lesa - attraverso l'uso di strumenti tecnici - anche senza la necessità di un'intrusione fisica.

    Ne consegue logicamente che, affinché scatti la protezione dell'art. 14 Cost., non basta che un certo comportamento venga tenuto in luoghi di privata dimora; ma occorre, altresì, che esso avvenga in condizioni tali da renderlo tendenzialmente non visibile ai terzi. Per contro, se l'azione - pur svolgendosi in luoghi di privata dimora - può essere liberamente osservata dagli estranei, senza ricorrere a particolari accorgimenti (paradigmatico il caso di chi si ponga su un balcone prospiciente la pubblica via), il titolare del domicilio non può evidentemente accampare una pretesa alla riservatezza; e le videoregistrazioni a fini investigativi non possono, di conseguenza, che soggiacere al medesimo regime valevole per le riprese visive in luoghi pubblici o aperti al pubblico. In una simile ipotesi, difatti, le videoregistrazioni non differiscono, sostanzialmente, dalla documentazione filmata di un'operazione di osservazione o di appostamento, che ufficiali o agenti di polizia giudiziaria potrebbero compiere collocandosi, di persona, al di fuori dell'abitazione.

    In sostanza, il limite dell'art. 14 Cost. può venire in considerazione, rispetto alle riprese visive (come nel caso di specie), in quanto, per eseguire i filmati all'interno del domicilio, gli organi investigativi debbano superare - tramite opportune manovre o avvalendosi di speciali strumenti - una barriera che si frappone tra la generalità dei consociati e l'attività filmata. Se quest'ultima è accessibile visivamente da chiunque, si è fuori dall'area di tutela prefigurata dalla norma costituzionale de qua.

    In tale prospettiva, la descrizione della fattispecie concreta fornita dal giudice rimettente risulta dunque inadeguata. Il giudice a quo non specifica, difatti, né quali immagini siano state concretamente filmate; né come la ripresa sia avvenuta: se con l'impiego o meno, cioè, di particolari accorgimenti tecnici atti a permettere il visus in punti dell'abitazione ordinariamente sottratti agli sguardi dei terzi. E così, ad esempio, una cosa è che la videocamera esterna fosse atta a riprendere solo persone affacciate sul davanzale della finestra dell'abitazione dell'imputato, visibili liberamente dai dirimpettai; altra cosa è che l'apparato di ripresa visiva - per le sue caratteristiche tecni che, o anche solo per la sua particolare collocazione - permettesse di riprendere comportamenti sottratti alla normale osservazione ab externo.

    2.2. - Sotto diverso profilo, il giudice a quo ritiene che - in assenza di un espresso divieto o di una esplicita regolamentazione, da parte della legge ordinaria, delle riprese visive di comportamenti di tipo non comunicativo all'interno del domicilio - tale attività investigativa sarebbe esperibile anche ad iniziativa della polizia giudiziaria; con connessa utilizzabilità processuale dei relativi risultati: esito, quest'ultimo, che il rimettente intende rimuovere attraverso la sentenza additiva richiesta.

    Il rimettente non prende, però, affatto in esame - anche solo per escluderne, eventualmente, la praticabilità - la soluzione interpretativa esattamente opposta. Secondo quest'ultima, in mancanza di una norma che consenta e disciplini il compimento dell'attività in parola - soddisfacendo la doppia riserva, di legge (quanto ai «casi» e ai «modi») e di giurisdizione, cui l'art. 14, secondo comma, Cost. subordina l'eseguibilità di atti investigativi nel domicilio - l'attività stessa dovrebbe ritenersi radicalmente vietata, proprio perché lesiva dell'inviolabilità del domicilio, sancita dal primo comma dello stesso art. 14 Cost.; mentre i risultati delle riprese effettuate in violazione del divieto rimarrebbero inutilizzabili. Si tratta, in effetti, di una soluzione interpretativa già sostenuta da una parte della giurisprudenza di legittimità, tanto prima che dopo la sentenza di questa Corte n. 135 del 2002, citata dal giudice a quo; e che, successivamente all'ordinanza di rimessione, è stata altresì accolta dalle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 26 marzo 2006-28 luglio 2006, n. 26795).

    Questa Corte ha già avuto modo di affermare, del resto, con particolare riferimento agli atti limitativi della libertà e segretezza delle comunicazioni, che le «attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione e fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito» (sentenza n. 34 del 1973; si veda anche la sentenza n. 81 del 1993; nonché, con riferimento al sequestro di scritti predisposti dall'imputato unicamente per facilitare la difesa nel corso dell'interrogatorio, la sentenza n. 229 del 1998).

    È evidente, d'altro lato, che l'adozione della diversa soluzione interpretativa dianzi indicata renderebbe il quesito di costituzionalità irrilevante nel giudizio a quo, giacché - ove le riprese visive di cui si discute, eseguite ad iniziativa della polizia giudiziaria, risultassero, in concreto, lesive dell'inviolabilità del domicilio - esse sarebbero già ora inutilizzabili, alla stregua di detta interpretazione.

    3. - La questione va dichiarata pertanto inammissibile, perché il giudice a quo non ha fornito una descrizione sufficiente della fattispecie concreta; ed ha, altresì, omesso di verificare la praticabilità di una diversa interpretazione del quadro normativo, tale da superare i dubbi di costituzionalità o da renderli comunque irrilevanti nel caso di specie (a quest'ultimo riguardo, ex plurimis, sentenza n. 192 del 2007; ordinanza n. 409 del 2007). E ciò a prescindere da ogni rilievo circa la conferenza dei parametri di cui agli artt. 13, primo e secondo comma, e 15 Cost., pure evocati dal rimettente; nonché a prescindere da ogni considerazione in ordine al merito della questione. Rispetto a qu est'ultimo, infatti, non potrebbe che valere quanto già affermato da questa Corte con la sentenza n. 135 del 2002: sentenza che il rimettente richiama, ma della quale non esamina l'argomento fondante, rappresentato dalla eterogeneità dei due diritti fondamentali posti a confronto - libertà e segretezza delle comunicazioni; inviolabilità del domicilio - e dalla conseguente impossibilità, per la Corte, di colmare il denunciato «vuoto normativo» tramite l'auspicata estensione della disciplina delle intercettazioni ambientali alle videoriprese domiciliari.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

     dichiara l'inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 266, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 13, primo e secondo comma, 14, primo e secondo comma, e 15 della Costituzione, dal Tribunale di Varese con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 150

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco            BILE      Presidente

- Giovanni Maria    FLICK       Giudice

- Ugo               DE SIERVO      "

- Paolo             MADDALENA      "

- Alfio             FINOCCHIARO    "

- Alfonso           QUARANTA       "

- Franco            GALLO          "

- Luigi             MAZZELLA       "

- Gaetano           SILVESTRI      "

- Sabino            CASSESE        "

- Giuseppe          TESAURO        "

- Paolo Maria       NAPOLITANO     "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) e dell'art. 10, commi 1, 2 e 3, della stessa legge, promossi con ordinanze del 5 aprile 2006 dalla Corte d'appello di Napoli e del 15 maggio 2006 dalla Corte d'assise d'appello di Bari, nei procedimenti penali a carico di F. R. e di B.G. ed altri, iscritte ai nn. 213 e 596 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell'anno 2006 e n. 1, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che la Corte d'appello di Napoli (r.o. n. 213 del 2006) ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), «nella parte in cui lim ita l'appello del P.M. contro le sentenze di proscioglimento alle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, del codice di procedura penale», e dell'art. 10, comma 2, della medesima legge;

    che la Corte rimettente premette in fatto di essere investita dell'appello proposto dal pubblico ministero avverso la sentenza di non luogo a procedere per insussistenza del fatto pronunciata dal Giudice per le indagini preliminari, in funzione di Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Nola;

    che, nel merito, la Corte rimettente ritiene che l'art. 593 cod. proc. pen. − nel testo risultante dalle modifiche introdotte dall'art. 1 della sopravvenuta legge n. 46 del 2006, che ha sottratto al pubblico ministero il potere di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento − contrasti innanzitutto con l'art. 111, secondo comma, Cost., secondo cui ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità;

    che il giudice a quo ritiene irragionevole la disparità di trattamento che la disciplina censurata determina a sfavore del pubblico ministero; tale disparità, infatti, non potrebbe trovare giustificazione nel fatto che la proposizione dell'appello sia formalmente preclusa anche all'imputato, ben diverso essendo il rispettivo interesse sostanziale a proporre impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento; né potrebbe trovarla nel fatto che l'organo dell'accusa può comunque giovarsi del ricorso per Cassazione, «poiché il ricorso ha minore estensione dell'atto di appello, che attiene al merito»;

    che viene, altresì, dedotto il contrasto con l'art. 3 Cost., sotto il profilo della assoluta irragionevolezza della diminuzione dei poteri processuali del pubblico ministero: e ciò sia per la «macroscopica diversità di trattamento tra le parti processuali»; sia perché la normativa censurata consente all'organo della pubblica accusa la proposizione dell'appello in caso di soccombenza parziale − vale a dire, in presenza di una sentenza di condanna rispetto alla quale l'accusa richieda un aggravamento della pena − negandola per l'ipotesi di soccombenza totale;

    che la Corte rimettente dubita, infine, della legittimità costituzionale della disciplina censurata in riferimento al principio della ragionevole durata del processo, sul rilievo che - per effetto delle modifiche recate dalla legge n. 46 del 2006 al regime di appellabilità delle sentenze di proscioglimento e al giudizio in cassazione (relativamente sia all'estensione dei motivi di ricorso che al rinvio al giudice di primo grado) - si determinerebbe un aumento dei gradi di giudizio, con conseguente allungamento dei tempi processuali e rischio di prescrizione dei reati;

    che ciò sarebbe particolarmente evidente in relazione alla disciplina transitoria contenuta nell'art. 10 della legge n. 46 del 2006 - relativamente agli appelli già proposti dal pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento - considerando anche il tempo intercorrente tra la sentenza di proscioglimento e la successiva ordinanza dichiarativa dell'inammissibilità dell'appello;

    che anche la Corte d'assise d'appello di Bari (r.o. n. 596 del 2006) ha sollevato, in relazione agli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., analoga questione di legittimità costituzionale dell'art. 593 cod. proc. pen., come sostituito dall'art. 1 della citata legge 20 febbraio 2006, n. 46, e dell'art. 10, commi 1, 2 e 3, della medesima legge;

    che la Corte rimettente è investita dell'appello proposto dal pubblico ministero avverso una sentenza di assoluzione di alcuni imputati emessa, a seguito di giudizio abbreviato, dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bari, in funzione di Giudice dell'udienza preliminare;

    che, ai fini della rilevanza, la Corte rimettente precisa che, sopravvenuta nelle more del giudizio la legge n. 46 del 2006 - il cui art. 1 ha sostituito l'art. 593 cod. proc. pen., sottraendo al pubblico ministero il potere di appellare le sentenze di proscioglimento - l'appello proposto dovrebbe essere dichiarato inammissibile in forza di quanto previsto dall'art. 10 di essa;

    che, nel merito, la disciplina censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost.;

    che, al riguardo, la Corte rimettente evidenzia che il principio del contraddittorio si configura come regola avente valenza oggettiva e quale metodo che deve presiedere allo svolgimento del processo in ogni fase: con la conseguenza che ciascuna parte dovrebbe essere posta nella condizione di promuovere una rivisitazione critica nel merito della decisione;

    che, per contro, la novella censurata «si configura come una vera e propria alterazione» della regola costituzionale;

    che la Corte rimettente è consapevole della giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui il principio di parità tra le parti non comporta necessariamente l'identità dei poteri processuali del pubblico ministero e dell'imputato, ben potendo ipotizzarsi un diverso trattamento riservato al pubblico ministero;

    che, tuttavia, il diverso trattamento, per essere conforme a Costituzione, dovrebbe trovare una ragionevole giustificazione nella peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, nella funzione allo stesso affidata, ovvero in esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia; invece, nessuna di tali ragioni sarebbe rintracciabile alla base della scelta legislativa di limitare l'appello del pubblico ministero, precludendo all'organo della pubblica accusa l'impugnazione delle sentenze di proscioglimento;

    che non potrebbe essere ritenuta idonea ragione giustificatrice quella, indicata nei lavori parlamentari, di dare attuazione al principio sancito dall'art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98; infatti - come la Corte costituzionale ha ripetutamente ribadito - il «doppio grado di giurisdizione di merito non forma oggetto di garanzia costituzionale» e «la formulazione dell'art. 2, nel demandare al legislatore interno ampi spazi per la disciplina dell'esercizio del diritto all'impugnazion e, non esclude [.] che il principio si sostanzi nella previsione del ricorso in Cassazione»;

    che sarebbe dunque evidente, ad avviso della Corte rimettente, la violazione degli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., per l'irragionevole disparità di trattamento che la disciplina censurata determinerebbe a sfavore del pubblico ministero; disparità, questa, che non potrebbe trovare giustificazione nelle ulteriori motivazioni evocate durante i lavori preparatori, fra le quali, l'esigenza di escludere che l'imputato, assolto, sia nuovamente sottoposto a processo; né, tanto meno, potrebbe trovare giustificazione nell'esigenza di una durata ragionevole del processo, che, anzi, verrebbe ulteriormente frustrata dalla riforma.

    Considerato che, con le ordinanze in epigrafe, i rimettenti dubitano, in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui non consente al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento, e dell'art. 10, commi 1, 2 e 3, della medesima legge, recante la relat iva disciplina transitoria;

    che, stante l'identità delle questioni proposte, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia;

    che l'art. 593 cod. proc. pen. censurato disciplina, al comma 2, l'appello del pubblico ministero e dell'imputato avverso le sentenze dibattimentali di proscioglimento, stabilendo − per effetto delle modifiche introdotte dall'art. 1 della legge n. 46 del 2006 ed immediatamente applicabili in forza dell'art. 10 della medesima legge − che l'appello è consentito solo nell'ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen., se la nuova prova è decisiva;

    che dalle stesse ordinanze di rimessione risulta che le Corti rimettenti sono investite degli appelli proposti dal pubblico ministero avverso sentenze pronunciate dal giudice per le indagini preliminari, in funzione di giudice dell'udienza preliminare: sentenza di non luogo a procedere ex art. 425 cod. proc. pen. (r.o. n. 213 del 2006) e sentenza di assoluzione emessa a seguito di giudizio abbreviato (r.o. n. 596 del 2006);

    che il regime di impugnazione delle sentenze emesse a seguito di giudizio abbreviato e delle sentenze di non luogo a procedere è disciplinato dagli artt. 443 e 428 cod. proc. pen. (modificati rispettivamente dagli artt. 2 e 4 della legge n. 46 del 2006), non impugnati;

    che, dunque, le Corti rimettenti sottopongono a scrutinio di costituzionalità una norma (l'art. 593 cod. proc. pen.) − unitamente alla relativa disciplina transitoria − di cui non devono fare applicazione nei giudizi a quibus;

    che l'inesatta indicazione della norma oggetto di censura (aberratio ictus) implica, per costante giurisprudenza di questa Corte, la manifesta inammissibilità della questione (ex plurimis, ordinanze n. 79 del 2008 e n. 461 del 2007).

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

       per questi motivi

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e dell'art. 10, commi 1, 2 e 3, della medesima legge, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte d'appello di Napoli e dalla Corte d'assise d'appello di Bari, con le ordinanze in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 151

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco            BILE      Presidente

- Giovanni Maria    FLICK       Giudice

- Ugo               DE SIERVO      "

- Paolo             MADDALENA      "

- Alfio             FINOCCHIARO    "

- Alfonso           QUARANTA       "

- Franco            GALLO          "

- Luigi             MAZZELLA       "

- Gaetano           SILVESTRI      "

- Sabino            CASSESE        "

- Giuseppe          TESAURO        "

- Paolo Maria       NAPOLITANO     "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), promosso con ordinanza del 30 maggio 2006 dalla Corte d'appello di Brescia nel procedimento penale a carico di L. S. F. ed altri, iscritta al n. 673 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che, con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d'appello di Brescia dubita, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 112 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui non con sente al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento;

    che, ai fini della rilevanza, la Corte rimettente premette di essere chiamata a giudicare in merito all'appello proposto dal pubblico ministero avverso la sentenza con la quale il Tribunale di Bergamo ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di taluni imputati, per mancanza di querela;

    che, nel merito, la soppressione del potere di appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento si porrebbe in contrasto, innanzitutto, con il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, intesa, quest'ultima, quale «manifestazione del fondamentale principio di legalità, di cui all'art. 25 Cost., nel suo aspetto sostanziale»;

    che sebbene, infatti, il potere di impugnazione del pubblico ministero non possa essere ricondotto all'obbligo di esercitare l'azione penale - come sottolineato in più occasioni anche dalla Corte costituzionale - non vi sarebbe dubbio che il potere di appello costituisca «uno dei possibili sviluppi della stessa» e che «limitazioni particolarmente consistenti al potere di impugnazione non possono che riverberarsi sulla completezza delle possibilità di esercizio dell'azione»;

    che, in questa prospettiva, la disciplina censurata violerebbe il diritto di difesa, garantito dall'art. 24 Cost. anche alle parti offese: diritto cui l'azione penale esercitata dal pubblico ministero - e, per essa, il potere di impugnazione correlato - varrebbe ad offrire essenziale tutela «a prescindere dalle possibilità che dette vittime abbiano, in concreto, di accedere al processo nelle forme dell'azione civile ivi intrapresa»;

    che la Corte rimettente evoca quale ulteriore parametro l'art. 111 Cost., assumendo che il principio del contraddittorio nella parità tra le parti, in esso sancito, risulterebbe eluso dalla circostanza che, mentre sarebbe concessa all'imputato piena facoltà di impugnare nel caso di pronuncia di condanna,  un omologo potere sarebbe negato al rappresentante dell'accusa nell'ipotesi di sentenza di proscioglimento: con un'alterazione dei poteri processuali che pregiudicherebbe irrimediabilmente il principio stesso del contraddittorio;

    che - consapevole della giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui il principio della parità non comporta l'identità dei poteri processuali delle parti - la Corte rimettente prosegue affermando che la scelta legislativa deve essere sottoposta ad un «accurato scrutinio di ragionevolezza»: scrutinio da operarsi «nella prospettiva della tollerabilità del sacrificio che la norma impone agli altri valori costituzionali» e, segnatamente, al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, al diritto di difesa delle persone offese dal reato e al principio della parità tra le parti;

    che la rimettente - escluso che, in relazione alla situazione considerata, ricorrano le ragioni che ispirano la previsione di altre limitazioni ai poteri processuali del pubblico ministero (con riferimento, in particolare, ai limiti di appellabilità della sentenza emessa a seguito di giudizio abbreviato) - conclude nel senso che un tale scrutinio «non può che condurre ad un giudizio di irragionevolezza della norma; dovendosi ritenere il vulnus inferto ai principi appena citati non giustificato da alcuna esigenza meritevole di considerazione»;

    che, infine, la disciplina censurata si paleserebbe irragionevole anche sotto il diverso profilo del mantenimento in capo al pubblico ministero del potere di proporre appello avverso la sentenza di condanna.

    Considerato che il dubbio di costituzionalità sottoposto a questa Corte ha per oggetto la preclusione - conseguente alla sostituzione dell'art. 593 del codice di procedura penale ad opera dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) - dell'appello delle sentenze dibattimentali di proscioglimento da parte del pubblico ministero;

    che, successivamente all'ordinanza di rimessione, questa Corte, con la sentenza n. 26 del 2007, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della citata legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva», e dell'art. 10, comma 2, della stessa legge, «nella parte in cui prevede che l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesim a legge è dichiarato inammissibile»;

    che, alla stregua della richiamata pronuncia di questa Corte, gli atti devono pertanto essere restituiti al giudice rimettente per un nuovo esame della rilevanza della questione.

    per questi motivi

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    ordina la restituzione degli atti alla Corte d'appello di Brescia.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 152

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco            BILE      Presidente

- Giovanni Maria    FLICK       Giudice

- Ugo               DE SIERVO      "

- Paolo             MADDALENA      "

- Alfio             FINOCCHIARO    "

- Alfonso           QUARANTA       "

- Franco            GALLO          "

- Luigi             MAZZELLA       "

- Gaetano           SILVESTRI      "

- Sabino            CASSESE        "

- Giuseppe          TESAURO        "

- Paolo Maria       NAPOLITANO     "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 593 e 443, comma 1, del codice di procedura penale, come novellati rispettivamente dagli artt. 1 e 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e dell'art. 10, commi 1, 2 e 3 della stessa legge, promosso con ordinanza del 14 giugno 2006 dalla Corte d'assise d'appello di Bari nel procedimento penale a carico di S. R., iscritta al n. 700 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che, con l'ordinanza indicata in epigrafe, la Corte d'assise d'appello di Bari ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 593 e 443, comma 1, del codice di procedura penale, come novellati rispettivamente dagli artt. 1 e 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di inappellabilit à delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui non consentono l'appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento; nonché dell'art. 10, commi 1, 2 e 3, della medesima legge;

    che la Corte rimettente − premesso di essere investita dell'appello proposto dal pubblico ministero avverso un sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto, emessa in esito a giudizio abbreviato dal Giudice per le indagini preliminari, in funzione di Giudice dell'udienza preliminare, del Tribunale di Bari − evidenzia, preliminarmente, come il pubblico ministero impugnante abbia dedotto, ai sensi dell'art. 593, comma 2, cod. proc. pen., la sopravvenienza di prove nuove aventi carattere decisivo ai fini della affermazione di responsabilità dell'imputato, formulando, conseguentemente, richiesta di rinnovazione del dibattimento per l'assunzione delle stesse;

    che tuttavia, secondo la Corte rimettente, tale richiesta non può essere accolta in quanto le prove nuove, dedotte dal rappresentante dell'accusa, non palesano un carattere di decisività;

    che pertanto, dovendo escludersi l'ammissibilità dell'appello proposto dal pubblico ministero, sussisterebbe il requisito della necessaria rilevanza per prospettare la questione di legittimità costituzionale nei termini sopra indicati;

    che, nel merito, la Corte rimettente ritiene che la disciplina censurata violi, in primo luogo, l'art. 111, secondo comma, Cost., nella parte in cui sancisce il principio del contraddittorio e della parità fra le parti;

    che la violazione di tale parametro è argomentata sul rilievo che la regola del contraddittorio ha valenza oggettiva e rappresenta un metodo che deve presiedere allo svolgimento del processo in ogni fase; con la conseguenza che ciascuna parte deve essere posta nella condizione di promuovere una rivisitazione critica, nel merito, della decisione;

    che, per contro, la novella censurata si configurerebbe «come una vera e propria alterazione» di tale regola costituzionale;

    che la Corte rimettente si dichiara consapevole della giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui il principio di parità tra le parti non comporta necessariamente l'identità dei poteri processuali del pubblico ministero e dell'imputato, ben potendo ipotizzarsi un diverso trattamento riservato al pubblico ministero, il quale tuttavia - per essere conforme a Costituzione - deve trovare una ragionevole giustificazione nella peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, nella funzione allo stesso affidata, ovvero in esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia;

    che, peraltro, ad avviso della Corte stessa, nessuna di tali ragioni sarebbe rintracciabile alla base della scelta legislativa di limitare l'appello del pubblico ministero, precludendo all'organo della pubblica accusa l'impugnazione delle sentenze di proscioglimento;

    che, d'altro canto, non potrebbe essere ritenuta idonea ragione giustificatrice quella - indicata nei lavori parlamentari - di dare attuazione al principio sancito dall'art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98; infatti - come la Corte costituzionale ha ripetutamente ribadito - il «doppio grado di giurisdizione di merito non forma oggetto di garanzia costituzionale» e «la formulazione dell'art. 2, nel demandare al legislatore interno ampi spazi per la disciplina dell'esercizio del dirit to all'impugnazione, non esclude [.] che il principio si sostanzi nella previsione del ricorso in Cassazione»;

    che sarebbe dunque evidente, ad avviso della Corte rimettente, la violazione degli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., per l'irragionevole disparità di trattamento che la disciplina censurata determinerebbe a sfavore del pubblico ministero; disparità, che non potrebbe trovare giustificazione neppure nelle ulteriori motivazioni evocate durante i lavori preparatori, fra le quali l'esigenza di escludere che l'imputato, assolto, sia nuovamente sottoposto a processo, né, tanto meno, quella della durata ragionevole del processo; esigenza, quest'ultima, che anzi verrebbe ulteriormente frustrata dalla riforma.

    Considerato che la Corte d'assise d'appello di Bari dubita della legittimità costituzionale degli artt. 593 e 443 del codice di procedura penale, come novellati rispettivamente dagli artt. 1 e 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui non consentono l'appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento; nonché dell'art. 10, commi 1, 2 e 3, della medesima legge che dis ciplina il relativo regime transitorio;

    che, come risulta dalla stessa ordinanza di rimessione, la Corte rimettente è investita dell'appello proposto dal pubblico ministero avverso una sentenza di assoluzione emessa a seguito di giudizio abbreviato dal Giudice per le indagini preliminari, in funzione di Giudice dell'udienza preliminare, del Tribunale di Bari;

    che, pertanto, la rilevanza della questione è limitata all'art. 443, comma 1, cod. proc. pen. (come risultante dalle modifiche introdotte dall'art. 2 della legge n. 46 del 2006), che disciplina il regime di impugnazione delle sentenze pronunciate all'esito del rito abbreviato e all'art. 10 della legge n. 46 del 2006 che prevede l'immediata applicabilità della nuova disciplina ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge;

    che, successivamente all'ordinanza di rimessione, questa Corte, con la sentenza n. 320 del 2007, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 2 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui, modificando l'art. 443, comma 1, del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio abbreviato, e dell'art. 10, comma 2, della medesima legge, nella parte in cui prevede che l'appello proposto dal pubblico ministero, prima dell'entrata in vigore della legge, contro una sentenza di proscioglimento emessa a seguito di giudizio abbreviato, è dichiarato inammissibile;< /SPAN>

    che, alla stregua della richiamata pronuncia di questa Corte, gli atti devono pertanto essere restituiti al giudice rimettente per un nuovo esame della rilevanza della questione.

     per questi motivi

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    ordina la restituzione degli atti alla Corte d'assise d'appello di Bari.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il  7 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 153

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco            BILE      Presidente

- Giovanni Maria    FLICK       Giudice

- Ugo               DE SIERVO      "

- Paolo             MADDALENA      "

- Alfio             FINOCCHIARO    "

- Alfonso           QUARANTA       "

- Franco            GALLO          "

- Luigi             MAZZELLA       "

- Gaetano           SILVESTRI      "

- Sabino            CASSESE        "

- Giuseppe          TESAURO        "

- Paolo Maria       NAPOLITANO     "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 443, comma 1, del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e dell'art. 10, commi 1 e 2, della stessa legge, promossi, nell'ambito di diversi procedimenti penali, con ordinanze del 14 marzo 2006 dalla Corte d'appello di Torino, del 12 aprile e del 17 marzo 2006 dalla Corte militare d'appello di Napoli e del 12 maggio 2006 dalla Corte d'appello di Torino, rispettivamente iscritte ai nn. 250, 324, 327 e 437 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 34 e 38, prima serie speciale, dell'anno 2006 e nella edizion e straordinaria del 2 novembre 2006.

    Udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che, con due ordinanze di identico contenuto (r.o. nn. 324 e 327 del 2006), la Corte militare d'appello di Napoli ha sollevato, in relazione agli artt. 3, 111 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 443 del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui non prevede per il pubblico ministero la possibilità di appellare le sentenze di proscioglimento, e dell'art. 10, commi 1 e 2, della medesima legge;

    che la Corte rimettente - chiamata in entrambi i giudizi a quibus a delibare l'ammissibilità degli appelli proposti dal pubblico ministero avverso sentenze di assoluzione pronunciate all'esito di giudizio abbreviato dal Giudice per le indagini preliminari, in funzione di Giudice dell'udienza preliminare, presso i Tribunali militari, rispettivamente, di Napoli e di Bari - rileva che, ai sensi dell'art. 10 della legge n. 46 del 2006, gli appelli dovrebbero essere dichiarati inammissibili, in quanto anteriori all'entrata in vigore della legge;

    che la Corte rimettente ritiene tuttavia di dover sollevare questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata, in relazione all'eliminazione del potere di appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento, per contrasto con diversi parametri costituzionali;

    che, secondo la Corte rimettente, il primo a venire in rilievo è quello dell'art. 3 Cost. sia sotto il profilo della lesione del principio di ragionevolezza, impedendosi «al rappresentante della pubblica accusa di dare, nell'ambito della sequenza processuale, concreta attuazione al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale»; sia sotto quello della violazione del principio di eguaglianza, in relazione al potere riconosciuto invece alla parte civile di impugnare le sentenze di proscioglimento;

    che sarebbe, inoltre, violato il secondo comma dell'art. 111 Cost., per l'evidente lesione che la disciplina censurata determinerebbe ai principi della parità fra le parti nel processo e della ragionevole durata del processo;

    che la lesione del primo principio originerebbe dalla considerazione che la garanzia della parità tra le parti non potrebbe che estendersi a tutti gli strumenti funzionali al raggiungimento degli scopi che il processo deve garantire e che, per l'organo dell'accusa, ineriscono alla completa attuazione della pretesa punitiva;

    che, quanto alla lesione del secondo principio, il sistema derivante dalle norme censurate − prevedendo la natura esclusivamente rescindente del giudizio per cassazione in esito al ricorso del pubblico ministero ed, in caso di accoglimento, la regressione del processo al primo grado − comporterebbe, ad avviso della Corte rimettente, una evidente dilatazione dei tempi del processo, non sorretta da alcuna giustificazione;

    che le norme denunciate risulterebbero, altresì, in contrasto con l'art. 112 Cost., poiché il potere di impugnazione dell'organo dell'accusa costituirebbe «una delle espressioni» del principio dell'obbligatorietà dell'azione penale;

    che, infine, la Corte rimettente evidenzia «l'irragionevolezza interna» del regime transitorio disciplinato nell'art. 10 della legge n. 46 del 2006, in relazione alla particolare situazione del pubblico ministero il cui appello andrebbe dichiarato inammissibile anche quando ha già chiesto ed ottenuto, in tale fase, «l'ammissione di nuove prove decisive, circostanza che nel nuovo assetto consentirebbe di coltivare l'impugnazione di merito avverso le sentenze di proscioglimento»;

    che questione analoga è sollevata dalla Corte d'appello di Torino, con due ordinanze sostanzialmente identiche (r.o. nn. 250 e 437 del 2006), con le quali sono censurati, in riferimento all'art. 111 Cost., gli artt. 443, comma 1, del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, e l'art. 10 della medesima legge;

    che, ai fini della rilevanza, la Corte rimettente premette di essere investita degli appelli proposti dal pubblico ministero avverso sentenze di assoluzione emesse, ai sensi dell'art. 442 cod. proc. pen., dal Tribunale di Alessandria e dal Giudice per le indagini preliminari, in funzione di Giudice dell'udienza preliminare, del Tribunale di Torino; e che, entrata in vigore nelle more dei giudizi la legge n. 46 del 2006, gli appelli dovrebbero essere dichiarati inammissibili in forza di quanto previsto dall'art. 10 di essa;

    che, nel merito, la rimettente osserva che l'eliminazione del potere di appello della sentenza di proscioglimento in capo all'organo della pubblica accusa violerebbe il principio della parità fra le parti nel processo, in quanto sottrarrebbe al solo pubblico ministero lo strumento processuale per vedere affermata, nel giudizio, la propria pretesa punitiva;

    che, infatti, il principio della parità fra le parti - sebbene non sia da interpretare quale simmetrica titolarità di poteri - non potrebbe tollerare la totale elisione, in capo all'organo dell'accusa, del potere di ottenere un nuovo giudizio di merito, per vedere riconosciuta la fondatezza della pretesa punitiva;

    che tale squilibrio non risulterebbe compensato dalla circostanza che la novella del 2006 avrebbe ristretto, rispetto al passato, i casi di appellabilità delle sentenze di proscioglimento anche in capo all'imputato, posto che il limite al potere di appello di quest'ultimo «non opera con la medesima ampiezza e radicalità» di quello previsto nei confronti del pubblico ministero;

    che sarebbe proprio tale radicalità di intervento a rendere l'odierna situazione di squilibrio dei poteri diversa dall'asimmetria che si rinviene in tema di impugnazione della sentenza di condanna resa in esito a giudizio abbreviato; nell'odierna situazione, infatti, il pubblico ministero si vedrebbe radicalmente negato il potere di appellare qualunque pronuncia di proscioglimento in ogni tipo di giudizio, in assenza di qualsivoglia ragione giustificativa.

    Considerato che il dubbio di costituzionalità sottoposto a questa Corte ha ad oggetto la preclusione - conseguente alla modifica dell'art. 443, comma 1, del codice di procedura penale ad opera dell'art. 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) - dell'appello delle sentenze di proscioglimento pronunciate a seguito di giudizio abbreviato da parte del pubblico ministero; e l'immediata applicabilità di tale regime, in forza dell'art. 10 della medesima legge, ai procedime nti in corso alla data di entrata in vigore della legge;

    che, stante l'identità delle questioni proposte, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia;

    che, successivamente alle ordinanze di rimessione, questa Corte, con la sentenza n. 320 del 2007, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui - modificando l'art. 443, comma 1, del codice di procedura penale - esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio abbreviato; e dell'art. 10, comma 2, della stessa legge, nella parte in cui prevede che sia dichiarato inammissibile l'appello proposto dal pubblico ministero, prima dell'entrata in vigore della legge, contro una sentenza di proscioglimento emessa a seguito di giudizio abbreviato;< o:p>

    che, alla stregua della richiamata pronuncia di questa Corte, gli atti devono pertanto essere restituiti ai giudici rimettenti per un nuovo esame della rilevanza delle questioni.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    ordina la restituzione degli atti alla Corte militare d'appello di Napoli e alla Corte d'appello di Torino.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 154

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco            BILE      Presidente

- Giovanni Maria    FLICK       Giudice

- Ugo               DE SIERVO      "

- Paolo             MADDALENA      "

- Alfio             FINOCCHIARO    "

- Alfonso           QUARANTA       "

- Franco            GALLO          "

- Luigi             MAZZELLA       "

- Gaetano           SILVESTRI      "

- Sabino            CASSESE        "

- Giuseppe          TESAURO        "

- Paolo Maria       NAPOLITANO     "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), dell'art. 576 cod. proc. pen., come modificato dall'art. 6 della citata legge n. 46 del 2006, anche in combinato disposto con l'art. 593 dello stesso codice, e degli artt. 1 e 10 della medesima legge, promossi, nell'ambito di diversi procedimenti penali, con ordinanze del 5 aprile 2006 dalla Corte d'appello di Roma, del 31 marzo 2006 dalla Corte d'appello di Lecce e del 9 marzo 2006 d alla Corte d'appello di Bologna, rispettivamente iscritte ai nn. 265, 429 e 577 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 35, 43 e 51, prima serie speciale, dell'anno 2006.

    Udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che la Corte d'appello di Roma (r.o. n. 265 del 2006) ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 10 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui precludono al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di p roscioglimento e, nell'ipotesi di processi già pendenti, impongono alla Corte d'appello di dichiarare l'inammissibilità delle predette impugnazioni;

    che la Corte rimettente ha inoltre sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale del «combinato disposto» degli artt. 576, comma 1, e 593 del codice di procedura penale, come modificati rispettivamente dagli artt. 6 e 1 della citata legge n. 46 del 2006, nella parte in cui «precludono alla parte civile la possibilità di proporre, comunque, appello avverso le sentenze emesse in primo grado e, per l'effetto, di dichiarare inammissibile, ai sensi dell'art. 591 cod. proc. pen., l'appello proposto dalla parte civile»;

    che la Corte rimettente − chiamata a delibare gli appelli proposti dal pubblico ministero e dalla parte civile avverso una sentenza di assoluzione per insussistenza del fatto, emessa dal Tribunale di Roma − rileva che, alla luce della normativa introdotta dalla legge n. 46 del 2006, gli appelli proposti dovrebbero essere dichiarati inammissibili;

    che, tuttavia, la disciplina censurata si porrebbe in contrasto con plurimi parametri costituzionali;

    che, in particolare, per quanto concerne la prima questione di costituzionalità, la Corte d'appello rimettente ritiene che la preclusione dell'appello delle sentenze di proscioglimento in capo all'organo della pubblica accusa - conseguente alla sostituzione dell'art. 593 cod. proc. pen. ad opera dell'art. 1 della legge n. 46 del 2006 - violi innanzitutto il principio della parità fra le parti e il principio della ragionevole durata del processo, sanciti nell'art. 111, secondo comma, Cost.;

    che il principio della parità imporrebbe che ciascuna parte sia posta nella condizione di promuovere una rivisitazione critica della decisione, attraverso la proposizione di un appello "nel merito";

    che sono possibili e giustificabili parziali limitazioni al potere di impugnazione dell'organo dell'accusa (come, ad esempio, nella disciplina del giudizio abbreviato); ma non troverebbe alcuna giustificazione la totale privazione del potere di impugnazione in capo a tale organo, a nulla rilevando la residua possibilità di proporre appello nelle ipotesi previste dall'art. 603 cod. proc. pen., stante la loro assoluta marginalità;

    che, quanto alla lesione del principio della ragionevole durata del processo, il sistema derivante dalle norme censurate − prevedendo la natura esclusivamente rescindente del giudizio per cassazione in esito al ricorso del pubblico ministero ed, in caso di accoglimento, la regressione del processo al primo grado − comporterebbe, ad avviso della Corte rimettente, un evidente aumento dei gradi di giudizio, con conseguente dilatazione dei tempi del processo;

    che, inoltre, sarebbe palese il contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., posto che il pubblico ministero conserverebbe il potere di proporre appello avverso una sentenza di condanna parziale (dunque, di parziale accoglimento della pretesa punitiva), ma gli sarebbe preclusa l'impugnazione in caso di assoluzione, vale a dire di totale sconfessione della pretesa punitiva;

    che quanto alla seconda questione proposta − relativa all'impugnazione della parte civile, come disciplinata dall'art. 576 cod. proc. pen., nel testo novellato dalla legge n. 46 del 2006 − la Corte rimettente muove dal presupposto che alla parte privata non competa più tale potere essendo stato soppresso il riferimento al «mezzo previsto per il pubblico ministero», che, prima della novella, avrebbe costituito il solo elemento testuale idoneo a legittimare ed a rendere possibile l'appello della parte civile;

    che, a giudizio della Corte rimettente, le ragioni della illegittimità costituzionale (per violazione  degli artt. 3, 24 e 111 Cost.) esposte in relazione alla preclusione dell'appello del pubblico ministero, varrebbero anche in riferimento alla eliminazione del medesimo potere in capo alla parte privata;

    che analoghe, ed in parte sovrapponibili, argomentazioni sono poste a fondamento delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dalla Corte d'appello di Lecce (r.o. 429 del 2006);

    che, in particolare, la Corte d'appello di Lecce dubita, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 Cost., della legittimità costituzionale dell'art. 593 cod. proc. pen., come sostituito dall'art. 1 della citata legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui limita l'appello del pubblico ministero alle sole sentenze di condanna e lo consente contro le sentenze di proscioglimento nei soli casi previsti dall'art. 603, comma 2, cod. proc. pen.»; dell'art. 576 cod. proc. pen., come modificato dall'art. 6 della legge n. 46 del 2006, «in relazione all'art. 593 cod. proc. pen., nella parte in cui non consente alla parte civile l'appello contro le sentenze di proscioglimento»; infine, dell'art . 10 della legge n. 46 del 2006, «che dichiara applicabile, anche con riguardo alla parte civile, la nuova disciplina introdotta ai processi in corso»;

    che la Corte rimettente premette di essere investita degli appelli proposti dal pubblico ministero e dalla persona offesa costituita parte civile avverso la sentenza con la quale l'imputato è stato assolto perché il fatto non costituisce reato dai reati di diffamazione e calunnia; e precisa che − intervenuta nelle more del giudizio la legge n. 46 del 2006 che ha abrogato l'art. 577 e modificato gli artt. 593 e 576 cod. proc. pen. − gli appelli proposti dovrebbero essere dichiarati inammissibili, in forza di quanto previsto dall'art. 10 della citata legge n. 46 del 2006;

    che, quanto al contrasto della disciplina censurata con l'art. 97 Cost., la Corte d'appello di Lecce ritiene che il meccanismo della declaratoria di inammissibilità dell'appello proposto dal pubblico ministero e della "conversione" forzosa in ricorso per cassazione entro i quarantacinque giorni successivi alla notifica della relativa ordinanza − secondo il regime transitorio previsto nell'art. 10 della legge n. 46 del 2006 − violerebbe il principio del buon andamento della pubblica amministrazione, applicabile anche agli organi giurisdizionali;

    che, infatti, «senza un'apparente ragione», risulterebbe vanificato «il lavoro svolto dal pubblico ministero, costretto a rimodulare la sua impugnazione e a trasformarla in ricorso», gravando contemporaneamente il lavoro della Corte di cassazione, fino a comprometterne l'efficienza;

    che anche la Corte d'appello di Bologna (r.o. n. 577 del 1006) solleva analoghe questioni di legittimità costituzionale: a) dell'art. 10, commi 1, 2 e 3, della legge n. 46 del 2006, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 112 Cost.; b) dell'art. 593, comma 2, cod. proc. pen., come sostituito dall'art. 1 della legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui limita l'appello dell'imputato e del pubblico ministero, contro le sentenze di proscioglimento, alle sole ipotesi ivi previste, nonché dalle parole "Qualora il giudice.", sino alla fine del comma», in riferimento agli artt. 3, 97, 111 e 112 Cost.; c) dell'ar t. 576, comma 1, cod. proc. pen., come modificato dall'art. 6 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui impedisce «alla parte civile di proporre impugnazione, con il mezzo previsto per il pubblico ministero, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio», in relazione agli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione;

    che la Corte d'appello rimettente è chiamata a celebrare il giudizio d'appello, in esito ad impugnazione proposta tanto dal pubblico ministero, quanto dalla parte civile costituita, avverso una sentenza di assoluzione e - sul presupposto interpretativo che entrambe le impugnazioni dovrebbero essere dichiarate inammissibili - motiva diffusamente circa la rilevanza delle questioni;

    che anche la Corte d'appello di Bologna ritiene che la soppressione dell'appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento si ponga in contrasto con l'art. 111, secondo comma, Cost. per violazione del principio della parità fra le parti e della ragionevole durata del processo; nonché con l'art. 3 Cost., in relazione al mantenimento in capo all'organo della pubblica accusa del potere di proporre appello avverso le sentenze di condanna;

    che il contrasto con l'art. 97 Cost. è argomentato sul rilievo che una «norma che impedisca, al pubblico ministero, di emendare l'erroneo proscioglimento dell'imputato ed, alle vittime, di vedere corrisposta la propria legittima aspettativa di punizione», violerebbe il principio del buon andamento e dell'imparzialità della pubblica amministrazione: sia sotto il profilo della inefficienza della «macchina giudiziaria»; sia sotto quello della legittima aspettativa, per tutti i cittadini, «del più completo ed imparziale perseguimento del fine di repressione dei reati»;

    che, infine - richiamando un indirizzo «anche se più datato» della Corte costituzionale, che avrebbe ricollegato la facoltà di appello del pubblico ministero al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale - la Corte rimettente deduce il contrasto della disciplina censurata con l'art. 112 Cost.;

    che, quanto alle censure mosse all'art. 576 cod. proc. pen., nella parte in cui tale norma impedirebbe alla parte civile di proporre appello avverso le sentenze di assoluzione, si lamenta il contrasto della disciplina censurata con l'art. 111 Cost., sotto il profilo della violazione del principio di parità rispetto all'imputato; con l'art. 24 Cost., per lesione del diritto di difesa del soggetto danneggiato dal reato; con l'art. 3 Cost., per la irragionevole disparità di trattamento che si determinerebbe fra il danneggiato che ha scelto di esercitare l'azione civile nel processo penale e si vedrebbe privato di uno strumento di impugnazione, da un lato, e il danneggiato che «percorre la strada del processo civile» ed al quale sarebbe garantito il doppio grado di giudizio di merito, dall'altro;

    che, infine, secondo la Corte rimettente la disciplina transitoria contenuta nell'art. 10 della legge n. 46 del 2006 sarebbe, con riferimento alla parte civile, priva di ragionevolezza (art. 3 Cost.) oltre che contraria al diritto di difesa (art. 24 Cost.), in quanto sottrarrebbe alla parte privata un mezzo di gravame su cui «aveva riposto congruo affidamento perché, al momento dell'impugnazione, quel mezzo gli era garantito dall'ordinamento»;

    che anche il regime transitorio dettato per la parte pubblica  è ritenuto in contrasto con l'art. 3 Cost., sotto il profilo della discriminazione tra «la posizione di coloro che hanno proposto appello prima dell'entrata in vigore della legge» e «quella di coloro che proporranno l'impugnazione solo in seguito»: infatti, solo in relazione «a questi ultimi, e non ai primi, è concessa la facoltà d'appello contro i proscioglimenti, seppur nei limiti del novellato secondo comma dell'art. 593 cod. proc. pen.».

    Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica pronuncia;

    che le Corti d'appello rimettenti dubitano, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 112 della Costituzione, della legittimità costituzionale della preclusione − conseguente alla modifica dell'art. 593 del codice di procedura penale ad opera dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) − dell'appello delle sentenze di proscioglimento emesse all'esito del giudizio di primo grado da parte del pubblico ministero; e della immediata applicabilità di tale regime, in forza dell'art. 10 della legge, ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima;

    che i giudici a quibus − muovendo dalla comune premessa interpretativa in forza della quale la citata legge n. 46 del 2006 avrebbe soppresso il potere di appello della parte civile − sollevano, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale anche dell'art. 576 cod. proc. pen., come modificato dall'art. 6 della legge n. 46 del 2006, (Corti d'appello di Lecce e di Bologna), anche in «combinato disposto» con l'art. 593 nel testo novellato dalla legge n. 46 del 2006 (Corte d'appello di Roma), nonché dell'art. 10 della medesima legge recante il relativo regime transitorio;

    che, quanto alla prima questione, concernente i limiti all'appello del pubblico ministero, successivamente all'ordinanza di rimessione questa Corte, con la sentenza n. 26 del 2007, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale sia dell'art. 1 della citata legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva»; sia dell'art. 10, comma 2, della stessa legge, «nella parte in cui prevede che l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge è dichiarato inammissibile»;

    che, alla stregua della richiamata pronuncia di questa Corte, gli atti devono pertanto essere restituiti ai giudici rimettenti per un nuovo esame della rilevanza delle questioni;

    che, quanto alla seconda questione proposta, relativa all'appello della parte civile, le Corti rimettenti muovono dal presupposto interpretativo che - a seguito delle modifiche recate, dall'art. 6 della legge n. 46 del 2006, all'art. 576 cod. proc. pen. - alla parte civile non sia più consentito proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento;

    che, peraltro, questa Corte − dichiarando manifestamente inammissibile una questione di legittimità costituzionale fondata su un identico presupposto ermeneutico (cfr. ordinanza n. 32 del 2007) − ha evidenziato che «deve registrasi l'assenza allo stato, di un "diritto vivente" conforme alla premessa interpretativa posta a base dei dubbi di legittimità costituzionale»: potendosi ravvisare, già all'epoca di tale decisione, una diversa soluzione ermeneutica idonea a soddisfare il petitum degli odierni rimettenti;

    che, in particolare, nella citata pronuncia, veniva richiamata l'opposta tesi affermata dalla Corte di cassazione, in virtù della quale la novella del 2006 non avrebbe affatto determinato il venir meno, in capo alla parte civile, del potere di appello contro le sentenze di proscioglimento, ai soli effetti della responsabilità civile;

    che tale tesi − nel frattempo divenuta maggioritaria presso la giurisprudenza di legittimità − ha trovato ulteriore conferma nella pronuncia delle Sezioni unite della Corte di cassazione (si veda Cassazione, sezioni unite, 29 marzo 2007, n. 27614) la quale ha ribadito come la parte civile, anche dopo l'intervento sull'art. 576 cod. proc. pen. ad opera dell'art. 6 della legge n. 46 del 2006, possa proporre appello, agli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio di primo grado;

    che, nell'affermare tale opzione ermeneutica, il giudice della legittimità ha, in particolare, fatto leva sull'interpretazione logico-sistematica dell'art. 576 cod. proc. pen. − attribuendo «a mero difetto di tecnica legislativa la formulazione letterale» della norma in questione − e, soprattutto, sulla volontà legislativa, quale desumibile dai lavori parlamentari;

    che, in proposito, la Corte di cassazione ha evidenziato come le modifiche apportate al testo normativo originariamente approvato dal Parlamento, dopo il rinvio alle Camere da parte del Presidente della Repubblica ai sensi dell'art. 74 Cost. − ed in particolare la soppressione, nell'art. 576 cod. proc. pen., dell'inciso «con il mezzo previsto dal pubblico ministero» − risultassero in realtà finalizzate a «rimodulare, accrescendoli, i poteri di impugnazione della parte civile, sganciandone la posizione da quella del pubblico ministero» ed a ripristinare, dunque, il potere di appello della parte privata: con il chiaro intento di recepire il rilievo formulato nel messagg io presidenziale, circa l'eccessiva compressione della tutela delle vittime del reato, quale si delineava nelle soluzioni legislative inizialmente adottate;

    che a ciò va aggiunto come neppure in ordine alla disciplina transitoria si riscontri uniformità di vedute: essendosi affermato, da una parte della giurisprudenza di legittimità, che ove pure la nuova legge avesse effettivamente rimosso il potere di appello della parte civile, non ne conseguirebbe comunque - contrariamente a quanto assumono i rimettenti - l'inammissibilità dell'appello anteriormente proposto da detta parte; e ciò in quanto la disposizione transitoria di cui all'art. 10, comma 1 - evocata dai giudici a quibus a sostegno del loro assunto - nello stabilire che «la presente legge si applica ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima», si sarebbe limitata soltanto a riaffermare il generale princi pio tempus regit actum, tipico della materia processuale;

    che, pertanto, avendo omesso i giudici rimettenti di sperimentare adeguate soluzioni ermeneutiche − diverse da quelle praticate −  idonee a rendere le disposizioni impugnate esenti dai prospettati dubbi di legittimità, le questioni proposte devono essere dichiarate manifestamente inammissibili, alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, ordinanze n. 35 del 2006, n. 381 del 2005 e n. 279 del 2003; nonché, su questione analoga, oltre alla già richiamata ordinanza n. 32 del 2007, si veda l'ordinanza n. 3 del 2008).

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

       per questi motivi

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    ordina la restituzione degli atti alle Corti d'appello di Roma, di Lecce e di Bologna, in relazione alle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e degli artt. 1 e 10 della medesima legge;

    dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 576 del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 6 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, anche in combinato disposto con l'art. 593 del codice di procedura penale, e dell'art. 10 della medesima legge, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione, dalle Corti d'appello di Roma, di Lecce e di Bologna, con le ordinanze in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
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ORDINANZA N. 155

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco            BILE      Presidente

- Giovanni Maria    FLICK       Giudice

- Ugo               DE SIERVO      "

- Paolo             MADDALENA      "

- Alfio             FINOCCHIARO    "

- Alfonso           QUARANTA       "

- Franco            GALLO          "

- Luigi             MAZZELLA       "

- Gaetano           SILVESTRI      "

- Sabino            CASSESE        "

- Giuseppe          TESAURO        "

- Paolo Maria       NAPOLITANO     "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 576 del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 6 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), anche in relazione all'art. 593 dello stesso codice, e degli artt. 6 e 10 della medesima legge, promossi, nell'ambito di diversi procedimenti penali, con ordinanze del 14 marzo 2006 dalla Corte d'appello di Catanzaro, del 15 marzo 2005 dalla Corte d'appello di Lecce, dell'8 maggio 2006 dalla Corte d'assise d'appello di Venezia, del 27 marzo 2006 dalla Corte d'appello di Lecce, del 23 maggio, del 20 aprile e del 5 maggio 2006 dalla Corte d'appello di Brescia, rispettivamente iscritte ai nn. 272, 346, 460, 480, 521, 528 e 674 del registro ordinan ze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 35, 39, 44, 45, 47 e 48, prima serie speciale, dell'anno 2006 e n. 6 prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri.

    Udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che con tre ordinanze, identiche nella parte motiva - rispettivamente del 20 aprile 2006 (r.o. n. 528 del 2006), del 5 maggio 2006 (r.o. 674 del 2006) e del 23 maggio 2006 (r.o. n. 521 del 2006) - la Corte d'appello di Brescia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 576, comma 1, del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 6 della legge 20 febbraio 2006, n. 46  (Modifiche al codice di procedura penale in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui limita la possibilità dell'appello della parte civile avverso la sentenza di proscioglimento, nonché dell'art. 10 della medesima legge, nella parte in cui non prevede un regime transitorio per l'appello proposto dalla parte civile contro una sentenza di proscioglimento, analogo a quello contemplato dai commi 2 e 3 dell'art. 10 per l'imputato e per il pubblico ministero;

    che la Corte - premesso che, in esito ad altrettante sentenze di assoluzione pronunciate dal Tribunale di Bergamo per insussistenza del fatto o perché il fatto non costituisce reato, ciascuna delle costituite parti civili aveva proposto appello, chiedendo, in riforma della sentenza impugnata, che fosse affermata la penale responsabilità degli imputati, con la loro condanna alle pene di legge ed al risarcimento del danno - evidenzia come, nelle more, fosse entrata in vigore la legge n. 46 del 2006, precludendo alla parte civile - sempre a parere della rimettente - la possibilità di proporre appello avverso le sentenze di assoluzione dell'imputato;

    che il giudice a quo ritiene che la nuova formulazione dell'art. 576 cod. proc. pen. − soppresso il riferimento al «mezzo previsto per il pubblico ministero», costituente, prima della novella, il solo elemento testuale idoneo a legittimare l'appello della parte civile, non contemplato autonomamente − avrebbe «ora completamente svincolato il potere di impugnativa della parte civile da quello del pubblico ministero, sicché ad essa non può più essere riconosciuta la facoltà di appello, né contro le sentenze di condanna, né contro le sentenze di assoluzione», stante il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione;

    che, alla luce di tale premessa, la Corte d'appello di Brescia rileva come l'eliminazione del potere di impugnazione in capo alla parte civile configuri, innanzitutto, una violazione dell'art. 3 Cost., sotto il duplice profilo della lesione del principio di eguaglianza e del contrasto con quello di ragionevolezza;

    che, sotto il primo aspetto, l'esercizio dell'azione civile nell'ambito del processo penale si porrebbe quale «deroga rispetto ai normali strumenti di impugnazione previsti in sede civile», impedendo alla parte civile di chiedere - a differenza di quanto avviene nell'ambito del processo civile - «il riesame nel merito di decisioni che potrebbero esserle irreparabilmente pregiudizievoli»;

    che, sotto il profilo dell'irragionevolezza, la novella legislativa, se da un lato mantiene inalterata la possibilità di azionare la pretesa civilistica nel processo penale, dall'altro lato «scoraggia tale scelta, deprivandola degli adeguati strumenti di tutela giuridica»: tanto più che la deminutio per la parte civile non appare giustificata da alcuna esigenza meritevole di considerazione, non potendo per essa di certo valere le ragioni avanzate per limitare il potere di appello in capo al pubblico ministero;

    che la disciplina censurata si porrebbe altresì in contrasto con l'art. 24 Cost., il cui disposto tutela il diritto di difesa anche della parte offesa dal reato, che risulta frustrato dalla radicale inappellabilità conseguente alla novella legislativa;

    che, infine, la normativa in questione violerebbe l'art. 111, secondo comma, Cost., per il quale il processo deve svolgersi nel contraddittorio fra le parti ed in condizioni di parità fra le stesse: entrambi questi principi risulterebbero radicalmente negati alla parte civile nella fase dell'appello, posto che essa è oggi privata del potere di proporre impugnazione, con un evidente squilibrio tra le parti ed alterazione del contraddittorio nella fase dell'appello;

    che la Corte rimettente assume poi come anche la disposizione transitoria dell'art. 10 della legge n. 46 del 2006 si ponga in contrasto con i medesimi parametri costituzionali evocati, nella parte in cui non prevede, per la parte civile, alcun regime transitorio, contemplato invece nei commi 2 e 3 dell'art. 10, per il pubblico ministero e l'imputato: con la conseguenza che alla parte civile non competerebbe né la notifica dell'ordinanza di inammissibilità, né la possibilità di proporre ricorso per cassazione;

    che la disciplina censurata determinerebbe una evidente disparità di trattamento fra pubblico ministero ed imputato, da un lato, e parte civile, dall'altro; una disparità manifestamente priva di qualsiasi ragionevole giustificazione, con violazione anche del principio di parità fra le parti di cui all'art. 111 Cost., oltre che del già richiamato diritto di difesa in capo alla parte civile;

    che analoga questione è sollevata, in riferimento agli artt. 97 e 111 Cost., dalla Corte d'appello di Lecce con ordinanza del 15 marzo 2006 (r.o. n. 346 del 2006), con la quale sono censurati l'art. 576 cod. proc. pen., come modificato dall'art. 6 della legge n. 46 del 2006, «in relazione all'art. 593 dello stesso codice, nella parte in cui non consente alla parte civile di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento», e l'art. 10 della medesima legge, quest'ultimo nella parte in cui «anche con riferimento alla parte civile, dichiara applicabile la disciplina da essa introdotta ai processi in corso»;

    che la Corte rimettente − premesso che la difesa della parte civile aveva proposto rituale impugnazione ai fini civili avverso la sentenza di assoluzione emessa dal Tribunale di Brindisi, e che, tuttavia, dopo la proposizione di essa, era entrata in vigore la legge n. 46 del 2006 − in esito alla ricognizione del nuovo quadro normativo, perviene alla conclusione che la novella in oggetto abbia escluso la possibilità, per la parte civile, di proporre appello avverso le sentenze di assoluzione dell'imputato;

    che, in particolare, il giudice a quo - muovendo dal principio di tassatività delle impugnazioni evocato dall'art. 568 cod. proc. pen. - constata l'assenza, nel testo novellato dell'art. 576 cod. proc. pen., di ogni riferimento ad uno specifico mezzo di impugnazione per la parte civile: con la conseguenza che tale mezzo dovrebbe essere individuato sulla base delle specifiche norme in tema di appello e di ricorso per cassazione;

    che, al riguardo, la Corte rimettente osserva tuttavia come sia inconferente, al fine di tale individuazione, il richiamo alle varie norme del codice di rito; e, tanto meno, quello alla perdurante vigenza dell'art. 600 cod. proc. pen., nella parte in cui tale norma prevede il diritto della parte civile di appellare contro il punto della sentenza di primo grado che attiene alla provvisoria esecuzione delle condanne in materia risarcitoria; 

    che, d'altra parte, la Corte rimettente rileva come - eliminato il suddetto potere per la parte civile - il legislatore non abbia previsto, per questa parte processuale, alcun regime transitorio, contemplato, invece, nei commi 2 e 3 dell'art. 10, per il pubblico ministero e l'imputato: con la conseguenza che alla parte civile, la quale abbia  già proposto impugnazione al momento dell'entrata in vigore della legge n. 46 del 2006, non è consentito proporre ricorso per cassazione, entro i quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento dichiarativo della inammissibilità, «non risultando possibile, sempre in ragione del principio di tassatività delle impugnazioni, un'interpretazione estensiva» di questa disciplina transitoria anche alla parte civile;

    che - alla luce di tali premesse di ricostruzione del sistema - la Corte d'appello di Lecce ritiene fondati i dubbi di legittimità costituzionale, in riferimento, innanzitutto, all'art. 111 Cost. ed ai principi della parità tra le parti e del contraddittorio; da intendersi, questi ultimi, riferiti non alla sola fase del giudizio, ma anche al «successivo momento, di reazione avverso la statuizione con cui è stato definito il giudizio medesimo»;

    che la parte civile - oltre ad essere discriminata rispetto alle altre parti processuali (segnatamente, rispetto al danneggiante-imputato) - verrebbe irragionevolmente privata di uno strumento di doglianza nel merito, nei confronti della decisione del primo giudice; strumento riconosciuto, invece, allorquando l'azione civile venga esercitata dinnanzi al giudice civile;

    che tale ultima constatazione − argomenta ancora la Corte rimettente − «involge, quale inevitabile ricaduta anche la lesione del principio di eguaglianza e del diritto di agire in giudizio a salvaguardia dei propri diritti, sanciti, rispettivamente, dagli artt. 3 e 24 della Carta costituzionale» (parametri che, nondimeno, non vengono espressamente indicati nel dispositivo);

    che, infine, la disciplina censurata violerebbe anche l'art. 97 Cost., sotto un duplice profilo: per il «sensibile carico di lavoro» di cui viene gravata, in esito alla novella censurata, la Corte di cassazione; e per la circostanza che essa diviene «giudice della legalità non più della sentenza, ma dell'intero processo», così mutando la sua stessa natura di giudice del diritto;

    che, con altra ordinanza del 27 marzo 2006 (r.o. 480 del 2006), la Corte d'appello di Lecce ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale identica, quanto ad oggetto dell'impugnativa, rispetto a quella appena sopra esaminata;

    che, anche nell'ordinanza di rimessione in esame, la Corte d'appello di Lecce − chiamata a delibare l'ammissibilità di un appello proposto, agli effetti civili, dalla parte civile avverso una sentenza assolutoria − muove dal presupposto della inammissibilità della proposta impugnazione, sulla scorta di argomentazioni analoghe a quelle svolte nell'ordinanza iscritta al n. 346 del registro ordinanze del 2006;

    che la soppressione del potere di impugnazione in capo alla parte privata compromette, a giudizio della Corte rimettente, il principio di parità delle parti nel processo penale, garantito dall'art. 111 Cost.: ciò in ragione della circostanza che, mentre ad una delle parti, l'imputato, «è giustamente  garantita la possibilità di un nuovo giudizio di merito», nell'ipotesi «speculare» di assoluzione dell'imputato «analoga possibilità non è data − con violazione anche del principio di uguaglianza stabilito dall'art. 3 Cost. − alla persona offesa  dal reato che si è costituita parte civile, e con ingiustificato sacrificio anche del diritto della par te civile di far valere in giudizio le proprie ragioni, garantito dall'art. 24 della Costituzione»;

    che analoghe considerazioni varrebbero poi in relazione all'art. 10 della legge n 46 del 2006, atteso che il regime transitorio in esso disciplinato (e, in particolare, la prevista possibilità di ricorso per cassazione) si applicherebbe solo − dato l'inequivoco tenore letterale del comma 2 − agli appelli già proposti dal pubblico ministero e dall'imputato, ma non a quelli avanzati dalla parte civile;

    che, pertanto, per gli appelli della parte civile dovrebbe trovare applicazione il disposto dell'ultimo comma dell'art. 568 cod. proc. pen., vale a dire la conversione automatica dell'impugnazione in ricorso per cassazione: interpretazione, questa, che, sebbene ritenuta dal giudice rimettente l'unica consentita dal testo della legge, comporterebbe quale inevitabile − ma inaccettabile − conseguenza che un appello, del tutto legittimo, divenga inammissibile in forza dell'applicazione retroattiva della novella; con conseguente contrasto con i parametri costituzionali già sopra specificati;

    che, con ordinanza del 14 marzo 2006 (r.o. n. 272 del 2006), la Corte d'appello di Catanzaro censura, in riferimento agli artt. 3 e 111, settimo comma, Cost., gli artt. 6 e 10 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui «non esplicitano il mezzo di impugnazione esperibile dalla parte civile avverso pregiudizievoli pronunce di primo grado e nulla dispongono circa il regime applicabile in via transitoria, agli appelli proposti dalla parte civile avverso le sentenze di assoluzione»;

    che la Corte rimettente − premesso di dover delibare un appello, ritualmente proposto dalla parte civile avverso una sentenza del Tribunale di Lamezia Terme in composizione monocratica;  e ritenuta la rilevanza della questione medesima, «in quanto le disposizioni impugnate dovrebbero trovare immediata applicazione al giudizio» − osserva che le disposizioni transitorie della legge n. 46 del 2006 «nulla dicono sulla ammissibilità dell'appello proposto dalla parte civile»; e che - seppure si dovesse ritenere «immediatamente applicabile» il disposto dell'art. 6 della novella del 2006, che ha modificato l'art. 576 cod. proc. pen. - non verrebbe risolto il problema, alla luce del principio di tassatività dei mezzi di impugnazione, di quale debba essere il mezzo di impugnazione nel caso di specie: se, cioè, l'appello o il ricorso per cassazione;

    che − a parere del giudice a quo − la prima soluzione «determinerebbe una palese ed irragionevole disparità di trattamento tra la pretesa privata e la pretesa pubblica, in quanto la parte civile sarebbe abilitata a proporre appello, per fini civilistici, avverso sentenze che il P.M. per fini penali non può appellare»; mentre, optando per la seconda soluzione, si porrebbe il problema di una conversione dell'impugnazione in ricorso per cassazione non disciplinata in via transitoria, ciò che «non consentirebbe alla parte di modulare i parametri in funzione dei poteri del giudice di legittimità»;

    che ciò si tradurrebbe sia in una violazione dell'art. 3 Cost., per intrinseca irragionevolezza e disparità di trattamento, quanto in un contrasto con il disposto dell'art. 111, settimo comma, Cost., «perché sarebbe precluso il potere di ricorrere in Cassazione per violazione di legge, nelle corrette forme previste»;

    che, con ordinanza dell'8 maggio 2006 (r.o. n. 460 del 2006), la Corte d'assise d'appello di Venezia ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in via principale, dell'art. 10, comma 1, della legge n. 46 del 2006, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., «nella parte in cui prevede l'applicazione della nuova disciplina anche all'appello proposto dalla parte civile avverso la sentenza di proscioglimento pronunciato nel giudizio, già pendente all'atto della sua entrata in vigore»; ed, in via subordinata, del medesimo art. 10, commi 2 e 3, in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost., «nella parte in cui non prevedono la loro applicazione anche all'appello proposto dalla parte civile contro una sentenza di proscioglimento»;

    che la Corte rimettente − chiamata a delibare l'appello proposto dalla parte civile avverso una sentenza di assoluzione dai reati di omicidio volontario e detenzione e porto di arma da fuoco, emessa dalla Corte d'assise di Treviso − muove dalla constatazione che, in esito all'entrata in vigore della novella n. 46 del 2006, risulterebbe non più ammesso, nel rito penale, l'appello della parte civile avverso le sentenze dibattimentali di proscioglimento: e ciò sulla base di argomentazioni del tutto analoghe a quelle sviluppate dalle altre Corti rimettenti nelle ordinanze sopra richiamate;

    che, allo stesso modo, la Corte d'assise d'appello di Venezia ritiene che l'art. 10, commi 2 e 3, della legge n. 46 del 2006 non si applichi alla parte civile, la quale, pertanto, potrebbe essere ammessa a proporre ricorso per cassazione solo in forza del disposto dell'ultimo comma dell'art. 568 cod. proc. pen.;

    che - a giudizio della Corte rimettente - mentre l'eliminazione "a regime" del potere di impugnazione in capo alla parte civile non porrebbe alcun problema di compatibilità costituzionale, proprio con riferimento alla citata disciplina transitoria verrebbe in evidenza un profilo di disarmonia con alcuni principi della Carta fondamentale;

    che, infatti, «la retroattività dell'inammissibilità dell'appello, già tempestivamente e ritualmente proposto», configurerebbe una violazione del diritto di difesa della parte danneggiata garantito dall'art. 24 Cost.; infatti - mentre l'abolizione dell'appello per i nuovi processi lascerebbe alla parte danneggiata la piena valutazione circa il rapporto tra vantaggi ed inconvenienti derivanti dall'esercizio dell'azione civile nel processo penale - la disciplina contenuta nel comma 1 dell'art. 10 «confisca di fatto il diritto di azione già esercitato, vanificandolo senza rimedi e senza alcuna ragionevolezza»: così violando anche il disposto dell'art. 3 Cost., in relazione alla considerazione che la medesima azione, «se proposta nella sede civil e, avrebbe tranquillamente potuto essere coltivata ulteriormente»;

    che, quanto alla questione prospettata in via subordinata, la Corte rimettente evidenzia come, per la parte civile, la forzata conversione dell'appello in ricorso − conseguente alla mancanza di una disciplina transitoria applicabile all'impugnazione proposta da tale parte processuale − senza la possibilità di "emendare", in alcun modo, gli aspetti formali e sostanziali dell'atto di impugnazione, si tradurrebbe «in una sostanziale espropriazione del diritto di difesa dell'appellante»;

    che la disciplina censurata determinerebbe, sotto tale profilo, una irragionevole disparità di trattamento tra pubblico ministero e imputato, da un lato, e parte civile, dall'altro; con conseguente violazione tanto del principio di eguaglianza di cui all'art. 3, quanto di quello della parità delle parti sancito dall'art. 111 Cost.;

    che in tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio di ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'inammissibilità o, comunque, per la manifesta infondatezza delle questioni;

    che la difesa erariale assume, infatti, che il dubbio di costituzionalità originerebbe da un errato presupposto ermeneutico: vale a dire, che la disciplina introdotta con la legge n. 46 del 2006 avrebbe privato la parte civile della possibilità di appellare la sentenza di proscioglimento;

    che, viceversa, l'art. 6 della legge citata si sarebbe limitato ad eliminare l'inciso contenuto nel testo originario («con il mezzo previsto per il pubblico ministero»), coerentemente con la scelta di limitare drasticamente la possibilità del pubblico ministero e dell'imputato di appellare contro le sentenze di proscioglimento; ma non avrebbe tuttavia pregiudicato, in alcun modo, l'esperibilità di tale rimedio, evidentemente ai soli effetti civili, dalla parte civile; e ciò sarebbe confermato anche dalla permanenza, nel sistema, di una norma come l'art. 600, comma 1, cod. proc. pen., che il legislatore della novella non avrebbe inteso abrogare ed il cui contenuto presupporrebbe, evidentemente, la permanenza del potere di appello della parte c ivile;

    che l'Avvocatura deduce altresì l'inammissibilità delle questioni, sotto il profilo della mancata esplorazione - da parte dei giudici rimettenti - di una diversa possibilità ermeneutica, circa il presupposto interpretativo su cui si fonda la questione: ciò anche in ragione di uno degli orientamenti della Corte di cassazione, che afferma il perdurante potere di impugnazione in capo alla parte civile;

    che, in particolare, in riferimento alla questione sollevata dalla Corte d'appello di Lecce (r.o. 480 del 2006) ed inerente l'art. 10 della legge n. 46 del 2006, l'Avvocatura ritiene che essa, per come prospettata, sia inammissibile «essendosi il giudice a quo limitato a denunciare il contrasto con gli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione, senza minimamente argomentare nel senso della prospettata incostituzionalità»;

    che, infine, in relazione alla questione prospettata dalla Corte d'appello di Catanzaro (r.o. n. 272 del 2006), la difesa erariale deduce, da un lato, l'assoluto difetto di motivazione sulla rilevanza, essendosi la Corte rimettente limitata ad affermare, apoditticamente, che le disposizioni impugnate «dovrebbero trovare applicazione nel presente giudizio»; eccepisce, dall'altro lato, il carattere del tutto ipotetico della questione, posto che il rimettente avrebbe omesso di indicare quale, tra le disposizioni enucleabili dalla norma impugnata, intendesse sottoporre allo scrutinio di costituzionalità.

    Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche e, pertanto, i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con un'unica decisione;

    che i giudici a quibus dubitano, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 576 del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 6 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), quest'ultimo direttamente censurato dalla Corte d'appello di Catanzaro, nella parte in cui escluderebbe, in capo alla parte civile, il potere di proporre appello avverso la sentenza di proscioglimento dell'imputato, e dell'art. 10 della medesima legge;

    che comune a tutte le ordinanze di rimessione è la premessa interpretativa secondo cui la riforma delle impugnazioni del 2006 avrebbe soppresso, per la parte civile, il potere di appello; deduzione, questa, cui i rimettenti − alla luce del generale principio di tassatività dei mezzi di impugnazione espresso nell'art. 568, comma 1, cod. proc. pen. − pervengono in forza di una duplice considerazione: sia la constatazione che la parte civile non è inclusa tra i soggetti legittimati a proporre appello dall'art. 593 cod. proc. pen.; sia il rilievo che il testo novellato dell'art. 576 del codice di rito − nel corpo del quale è stata soppressa l'originaria statuizione, che consentiva alla parte civile di proporre impugnazione con l o stesso mezzo previsto per il pubblico ministero − non specifica di quali mezzi di impugnazione detta parte sia ammessa a fruire;

    che, peraltro, questa Corte − dichiarando manifestamente inammissibile una questione di legittimità costituzionale fondata su un identico presupposto ermeneutico (cfr. ordinanza n. 32 del del 2007) − ha evidenziato che «deve registrasi l'assenza allo stato, di un "diritto vivente" conforme alla premessa interpretativa posta a base dei dubbi di legittimità costituzionale»: potendosi ravvisare, già all'epoca di tale decisione, una diversa soluzione ermeneutica idonea a soddisfare il petitum degli odierni rimettenti;

    che, in particolare, nella citata pronuncia, veniva richiamata l'opposta tesi affermata dalla Corte di cassazione, in virtù della quale la novella del 2006 non avrebbe affatto determinato il venir meno, in capo alla parte civile, del potere di appello contro le sentenze di proscioglimento, ai soli effetti della responsabilità civile;

    che tale tesi − nel frattempo divenuta maggioritaria presso la giurisprudenza di legittimità − ha trovato ulteriore conferma nella pronuncia delle Sezioni unite della Corte di cassazione (si veda Cassazione, sezioni unite, 29 marzo 2007, n. 27614), la quale ha ribadito come la parte civile, anche dopo l'intervento sull'art. 576 cod. proc. pen. ad opera dell'art. 6 della legge n. 46 del 2006, possa proporre appello, agli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio di primo grado;

    che, nell'affermare tale opzione ermeneutica, il giudice della legittimità ha, in particolare, fatto leva sull'interpretazione logico-sistematica dell'art. 576 cod. proc. pen. − attribuendo «a mero difetto di tecnica legislativa la formulazione letterale» della norma in questione − e, soprattutto, sulla volontà legislativa, quale desumibile dai lavori parlamentari;

    che, in proposito, la Corte di cassazione ha evidenziato come le modifiche apportate al testo normativo originariamente approvato dal Parlamento, dopo il rinvio alle Camere da parte del Presidente della Repubblica ai sensi dell'art. 74 Cost. − ed in particolare la soppressione, nell'art. 576 cod. proc. pen., dell'inciso «con il mezzo previsto dal pubblico ministero» − risultassero in realtà finalizzate a «rimodulare, accrescendoli, i poteri di impugnazione della parte civile, sganciandone la posizione da quella del pubblico ministero» ed a ripristinare, dunque, il potere di appello della parte privata: con il chiaro intento di recepire il rilievo formulato nel messagg io presidenziale, circa l'eccessiva compressione della tutela delle vittime del reato, quale si delineava nelle soluzioni legislative inizialmente adottate;

    che a ciò va aggiunto come neppure in ordine alla disciplina transitoria si riscontri uniformità di vedute: essendosi affermato, da una parte della giurisprudenza di legittimità, che ove pure la nuova legge avesse effettivamente rimosso il potere di appello della parte civile, non ne conseguirebbe comunque - contrariamente a quanto assumono i rimettenti - l'inammissibilità dell'appello anteriormente proposto da detta parte; e ciò in quanto la disposizione transitoria di cui all'art. 10, comma 1 - evocata dai giudici a quibus a sostegno del loro assunto - nello stabilire che «la presente legge si applica ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima», si sarebbe limitata soltanto a riaffermare il generale princi pio tempus regit actum, tipico della materia processuale;

    che, pertanto, avendo omesso i giudici rimettenti di sperimentare adeguate soluzioni ermeneutiche − diverse da quelle praticate − idonee a rendere le disposizioni impugnate esenti dai prospettati dubbi di legittimità, le questioni proposte devono essere dichiarate manifestamente inammissibili, alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, ordinanze n. 35 del 2006, n. 381 del 2005 e n. 279 del 2003; nonché, su questione analoga, oltre alla già richiamata ordinanza n. 32 del 2007, si veda l'ordinanza n. 3 del 2008).

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

      per questi motivi

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 576 del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 6 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), anche in relazione all'art. 593 dello stesso codice, e degli artt. 6 e 10 della medesima legge, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Brescia, dalla Corte d'appello di Lecce, dalla Corte d'appello di C atanzaro e dalla Corte d'assise d'appello di Venezia, con le ordinanze indicate in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
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ORDINANZA N. 156

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco            BILE      Presidente

- Giovanni Maria    FLICK       Giudice

- Ugo               DE SIERVO      "

- Paolo             MADDALENA      "

- Alfio             FINOCCHIARO    "

- Alfonso           QUARANTA       "

- Franco            GALLO          "

- Luigi             MAZZELLA       "

- Gaetano           SILVESTRI      "

- Sabino            CASSESE        "

- Giuseppe          TESAURO        "

- Paolo Maria       NAPOLITANO     "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 428 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e degli artt. 4 e 10 della stessa legge, promossi con ordinanze del 6 aprile 2006 dalla Corte militare d'appello di Napoli, del 6 e del 19 aprile 2006 dalla Corte d'appello di Roma e del 17 marzo 2006 dalla Corte militare d'appello di Napoli, rispettivamente iscritte ai nn. 424, 453, 531 e 552 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 43, 44, 48 e 49, prima serie speciale, dell'anno 2006.

    Udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che con due ordinanze di identico contenuto, rispettivamente del 6 aprile e del 17 marzo 2006 (r.o. nn. 424 e 552 del 2006), la Corte militare d'appello di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 111 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 428 codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, «nella parte in cui non prevede, per i l pubblico ministero, la possibilità di appellare le sentenze di non luogo a procedere», nonché dell'art. 10, commi 1 e 2, della medesima legge;

    che la Corte rimettente - chiamata in entrambi i giudizi a delibare l'ammissibilità dell'appello proposto dall'organo della pubblica accusa avverso sentenze di non luogo a procedere  pronunciate dal Giudice per le indagini preliminari, in funzione di Giudice dell'udienza preliminare, presso il Tribunale militare, rispettivamente, di Bari e di Napoli - rileva che, ai sensi dell'art. 10 della legge n. 46 del 2006, gli appelli dovrebbero essere dichiarati inammissibili, in quanto anteriori alla data di entrata in vigore della legge;

    che tuttavia la nuova disciplina dei limiti oggettivi alla impugnabilità delle sentenze di proscioglimento, introdotta dalla legge n. 46 del 2006, si porrebbe in contrasto con diversi parametri costituzionali;

    che, secondo la Corte rimettente, sarebbe violato l'art. 3 Cost., sia sotto il profilo della lesione del principio di ragionevolezza, impedendosi «al rappresentante della pubblica accusa di dare, nell'ambito della sequenza processuale, concreta attuazione al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale»; sia sotto quello della violazione del principio di eguaglianza, in relazione al potere riconosciuto invece alla parte civile di impugnare le sentenze di proscioglimento;

    che sarebbe, inoltre, violato il secondo comma dell'art. 111 Cost., per l'evidente lesione che la disciplina censurata determinerebbe ai principi della parità fra le parti nel processo e della ragionevole durata del processo;

    che la lesione del primo principio originerebbe dalla considerazione che la garanzia della parità tra le parti dovrebbe estendersi a tutti gli strumenti funzionali al raggiungimento degli scopi che il processo deve garantire e che, per l'organo dell'accusa, ineriscono alla completa attuazione della pretesa punitiva;

    che, quanto alla lesione della ragionevole durata del processo, il sistema derivante dalle norme censurate − prevedendo la natura esclusivamente rescindente del giudizio per cassazione in esito al ricorso del pubblico ministero ed, in caso di accoglimento, la regressione del processo al primo grado − comporterebbe, ad avviso della Corte rimettente, una evidente dilatazione dei tempi del processo, non sorretta da alcuna giustificazione;

    che le norme denunciate risulterebbero, altresì, in contrasto con l'art. 112 Cost., poiché il potere di impugnazione dell'organo dell'accusa costituirebbe «una delle espressioni» del principio dell'obbligatorietà dell'azione penale;

    che, infine, la Corte rimettente evidenzia «l'irragionevolezza interna» del regime transitorio disciplinato nell'art. 10 della legge n. 46 del 2006 in relazione alla particolare situazione del pubblico ministero il cui appello va dichiarato inammissibile anche quando abbia già chiesto ed ottenuto, in tale fase, «l'ammissione di nuove prove decisive, circostanza che nel nuovo assetto consentirebbe di coltivare l'impugnazione di merito avverso le sentenze di proscioglimento»;

    che la Corte rimettente ritiene che le considerazioni esposte valgano «a maggior ragione» in relazione ai limiti all'appello della sentenza di non luogo a procedere;

    che, infatti, la sentenza di non luogo a procedere, adottata al termine dell'udienza preliminare, non è assimilabile ad una decisione di merito; con la conseguenza che, con l'eliminazione dell'appello del pubblico ministero, «viene escluso in radice non tanto un secondo giudizio di merito, quanto la possibilità di pervenire all'unico giudizio di merito davanti al giudice della cognizione»;

    che con due ordinanze, di identico contenuto, rispettivamente emesse in data 6 aprile e 19 aprile 2006 (r.o. nn. 453 e 531 del 2006), la Corte d'appello di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost., analoga questione di legittimità costituzionale, censurando l'art. 4 (modificativo dell'art. 428 cod. proc. pen.) e l'art. «11» (recte: 10) della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui sanciscono, per il pubblico ministero, l'inappellabilità «anche per i procedimenti in corso» delle sentenze di non luogo a procedere;

    che la Corte rimettente − premesso di essere chiamata a celebrare due diversi giudizi di appello a seguito di impugnazione del pubblico ministero avverso altrettante sentenze, rese dal Giudice delle indagini preliminari, in funzione di Giudice per l'udienza preliminare presso il Tribunale di Roma, di non luogo a procedere per diverse ragioni (difetto di querela; insussistenza del fatto; difetto di condizione di procedibilità, per essere stato il reato commesso all'estero) − ritiene che, entrata in vigore nelle more dei giudizi la legge n. 46 del 2006, gli appelli dovrebbero essere dichiarati inammissibili ai sensi dell'art. «11» (recte: 10) di essa;

    che, tuttavia, la Corte rimettente dubita della legittimità costituzionale della disciplina censurata in riferimento, innanzitutto, al principio della durata ragionevole del processo di cui all'art. 111, secondo comma, ultima parte, Cost., in quanto, in esito al nuovo meccanismo processuale, potrebbe verificarsi - a seguito dell'annullamento da parte della Corte di cassazione - una regressione del procedimento alla fase dell'udienza preliminare; con inevitabile dilatazione dei tempi di definizione del processo e con conseguente aggravio di lavoro per l'organo di legittimità, data l'estensione della sua competenza "sul  merito";

    che, inoltre, sarebbe leso il canone della ragionevolezza, posto che tale riforma «non appare giustificata né da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia, né da concreti effetti benefici giuridici», oltre a vanificare gli appelli già proposti; mentre il precedente secondo grado "di merito" sarebbe stato idoneo a garantire «un opportuno controllo da parte del giudice collegiale sui possibili errori, anche di fatto, delle sentenze» di non luogo a procedere.

    Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione;

    che entrambi i giudici a quibus dubitano della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 111 e 112 della Costituzione, dell'art. 428 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), quest'ultimo direttamente censurato dalla Corte d'appello di Roma, nella parte in cui esclude che il pubblico ministero possa proporre appello avverso la sentenza di non luogo a procedere emessa in esito all'udienza preliminare, e dell'art. 10 della medesima legge;

    che i rimettenti sollevano la questione sul presupposto che la norma censurata sia applicabile nei giudizi a quibus − ancorché concernenti appelli avverso sentenze di non luogo a procedere proposti prima dell'entrata in vigore della legge n. 46 del 2006 − in forza della disposizione transitoria di cui all'art. 10 della legge stessa: disposizione che viene fatta quindi oggetto di autonoma denuncia di incostituzionalità;

    che, peraltro, il comma 1 del citato art. 10 − nello stabilire che «la presente legge si applica anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima» − si limita, di per sé, a ribadire il principio tempus regit actum, il quale disciplina in via generale la successione di leggi nel settore processuale penale;

    che una deroga a detto principio è invece introdotta dal comma 2 dell'art. 10, il quale − incidendo sull'atto processuale già compiuto (nella specie, l'impugnazione) − stabilisce che «l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dall'imputato o dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della presente legge viene dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile»;

    che, correlativamente, il successivo comma 3 accorda alla parte, il cui appello sia stato dichiarato inammissibile, la facoltà di proporre ricorso per cassazione «contro le sentenze di primo grado» entro quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento di inammissibilità;

    che il comma 2 dell'art. 10 − successivamente alle ordinanze di rimessione − è stato oggetto di dichiarazioni di parziale incostituzionalità, che non interferiscono, peraltro, con l'odierno thema decidendum, in quanto correlate alla dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale di disposizioni «a regime» distinte da quella oggi impugnata (gli artt. 593 e 443, comma 1, cod. proc. pen., come novellati dalla legge n. 46 del 2006) (sentenze n. 26 e n. 320 del 2007);

    che, ciò premesso, i rimettenti danno per scontato che la formula «sentenza di proscioglimento», impiegata nell'art. 10, comma 2, della legge n. 46 del 2006, abbracci anche le sentenze di non luogo a procedere;

    che, peraltro, questa Corte - dichiarando manifestamente inammissibile una questione di legittimità costituzionale basata su un identico presupposto interpretativo (cfr. ordinanza n. 4 del 2008) - ha evidenziato che l'indirizzo allo stato prevalente nella giurisprudenza di legittimità è, invece, di segno opposto;

    che, al riguardo, si rileva, infatti, che la formula «sentenza di proscioglimento» designa, nella sua accezione tecnica, la sentenza liberatoria pronunciata da un giudice chiamato a decidere sul merito: comprendendo, in specie − come si desume dall'intitolazione della sezione I, capo II, titolo III del libro VII del codice di procedura penale − le (sole) sentenze «di non doversi procedere» e di «assoluzione»;

    che, a sostegno dell'indirizzo in questione, si osserva, altresì, come la contrapposizione terminologica fra «sentenza di proscioglimento» e «sentenza di non luogo a procedere» − la quale rispecchia la diversa natura delle due pronunce (quanto ad oggetto dell'accertamento, base decisionale, regime di stabilità ed efficacia extrapenale) − sia già stata valorizzata da questa Corte, al fine di dichiarare non fondata altra questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 428 cod. proc. pen. (nel testo originario), nella parte in cui non prevedeva la facoltà della parte civile di proporre appello avverso la sentenza di non luogo a procedere per il reato di diffamazione a mezzo stampa (sentenza n. 381 del 1992);

    che − sempre a supporto dell'orientamento in discorso − si rileva, ancora, come la disposizione di cui al comma 2 dell'art. 10 della legge n. 46 del 2006 abbia natura di norma eccezionale, proprio perché derogatoria del generale principio tempus regit actum: onde essa andrebbe interpretata restrittivamente, rimanendo comunque insuscettibile di applicazione analogica;

    che, secondo tale orientamento, il trattamento differenziato, introdotto dalla legge n. 46 del 2006 fra la sentenza di non luogo a procedere e quella di proscioglimento − quanto alla disciplina transitoria che accompagna il nuovo regime di inappellabilità - potrebbe giustificarsi proprio alla luce di una delle considerazioni svolte dagli odierni rimettenti: e, cioè, alla luce della non riferibilità alle sentenze di non luogo a procedere delle rationes che, alla stregua dei lavori preparatori della novella, sono alla base della scelta di rendere inappellabili le sentenze di proscioglimento (rationes consistenti nel garantire all'imputato un doppio grado di merito sulla pronuncia di condanna; nell'impossibilità di escludere ogni ragionevole dubbio sulla colpevolezza, dopo una sentenza di proscioglimento; nell'opportunità di evitare che la decisione di proscioglimento emessa da un giudice che ha assistito alla formazione della prova in contraddittorio, quale quello di primo grado, possa essere ribaltata da altro giudice − quello di appello − che ha una cognizione prevalentemente «cartolare» del materiale probatorio);

    che la prospettiva interpretativa ora ricordata − la quale renderebbe irrilevanti le questioni nei giudizi a quibus − non è stata, peraltro, affatto presa in esame dai giudici rimettenti, anche solo per negarne eventualmente la praticabilità;

    che, d'altro canto − con riguardo all'autonoma questione sollevata nei confronti dello stesso art. 10, nella parte in cui (con asserita irrazionale dilatazione dei tempi processuali) estenderebbe la disciplina transitoria anche agli appelli anteriormente proposti contro le sentenze di non luogo a procedere − l'omesso esame della soluzione ermeneutica in discorso equivale a mancato adempimento dell'onere, che grava sul giudice rimettente, di verificare preventivamente se la norma censurata sia suscettibile di interpretazioni alternative, atte ad escludere i dubbi di costituzionalità (ex plurimis, sentenza n. 192 del 2007; ordinanza n. 32 del 2007);

    che le questioni vanno dichiarate, pertanto, manifestamente inammissibili.

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

    per questi motivi

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 428 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 4 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e degli artt. 4 e 10 delle medesima legge n. 46 del 2006, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 111 e 112 della Costituzione, dalla Corte militare d'appello di Napoli e dalla Corte d'appello di Roma, con le ordi nanze indicate in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
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ORDINANZA N. 157

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 35, comma 26-quinquies, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), introdotto dalla legge di conversione 4 agosto 2006, n. 248, promosso con ordinanza del 4 giugno 2007 dalla Commissione tributaria provinciale di Latina sul ricorso proposto da Matrullo Giuseppe contro la Gerit s.p.a., iscritta al n. 715 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2008 il Giudice relatore Paolo Maddalena.

    Ritenuto che la Commissione tributaria provinciale di Latina, con ordinanza emessa il 4 giugno 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 25 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 35, comma 26-quinquies, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), introdotto dalla legge di conversione 4 agosto 2006, n. 248, nella parte in cui omette di integrare l'art. 2 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), nel senso dell'espressa devoluzione al giudice tributario delle controversie in materia di fermo di autoveicoli dovuto al mancato pagamento di cartella notificata per violazioni del codice della strada;

    che la Commissione rimettente - premesso di essere stata investita dell'impugnazione del preavviso di fermo di un autoveicolo emesso dall'agente della riscossione per il mancato pagamento dell'importo scaduto e non pagato relativo a cartelle di pagamento per contravvenzioni stradali -, nell'esaminare l'eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dalla parte convenuta, osserva che «dal dato normativo non emerge ictu oculi il difetto di giurisdizione delle commissioni tributarie con riferimento al fermo concernente sanzioni previste dal codice della strada, né d'altra parte vi è un indirizzo giurisprudenziale univoco in tal senso», tanto più in presenza di un favore legislativo verso l'allargamento e l'autonomia della giurisdizione tributaria a scapito di quella ordinaria ed amministrativa, sicuramente legato alla speditezza del processo tributario;

    che, secondo il rimettente, con l'innovazione legislativa introdotta con la legge di conversione del decreto-legge n. 223 del 2006 è stato individuato un giudice generalmente competente per il fermo quale atto della riscossione coattiva delle entrate non solo tributarie e non solo erariali: il giudice tributario sarebbe così legittimato a giudicare per tutti i fermi amministrativi e per qualunque credito, apparendo «conforme a diritto interpretare la norma di cui al novellato art. 19 del contenzioso tributario nel senso di ritenere che il legislatore abbia inteso assegnare comunque ed in ogni caso la competenza esclusiva per materia, in tema di fermo, al giudice tributario»;

    che, su queste premesse, la Commissione tributaria respinge l'eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dall'agente della riscossione;

    che, tuttavia, la stessa Commissione tributaria rileva che «l'eccepito vuoto legislativo concorre a giustificare il dubbio in questione, dubbio che deve essere risolto prima di emettere la sentenza»;

    che, a tale riguardo, il rimettente si pone l'interrogativo a quale autorità  giudiziaria, senza correre il rischio che sia eccepito il difetto di giurisdizione, si deve rivolgere per la tutela dei suoi diritti il soggetto che ha subito il fermo a seguito di omesso pagamento della cartella per violazioni del codice della strada;

    che, secondo il giudice a quo, «allo stato della legislazione sembra che sia il giudice ordinario sia il giudice tributario possono dichiararsi competenti a giudicare sul fermo di autoveicoli»: di qui «la violazione di principi costituzionali», «perché la decisione non dipende dalla legge, ma dall'interpretazione del giudice adito cui il difensore ha ritenuto di rivolgere la domanda giudiziale»;

    che, ad avviso del rimettente, l'art. 35, comma 26-quinquies, del decreto-legge n. 223 del 2006 determinerebbe una violazione dei principi: di eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, perché il contenuto ambiguo della legge non permetterebbe di trattare in modo uguale il fermo nelle complesse situazioni che si presentano nella realtà; del giudice naturale precostituito per legge, in quanto la norma denunciata non consentirebbe al cittadino di conoscere a priori quale sarà il giudice competente a decidere; del diritto di difesa, inteso come diritto inviolabile di agire in giudizio e di difendersi a tutela dei propri diritti e interessi in ogni stato e grado del procedi mento;

    che, nel giudizio dinanzi alla Corte, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso nel senso dell'inammissibilità o, comunque, dell'infondatezza della questione;

    che la questione sarebbe inammissibile per irrilevanza, giacché la Commissione tributaria ha già respinto l'eccezione di difetto di giurisdizione, sicché il dubbio di costituzionalità non può rivestire alcuna influenza sul giudizio;

    che, inoltre, il legame con gli invocati precetti costituzionali è sviluppato nell'ordinanza di rimessione con riferimento alle difficoltà che può incontrare il cittadino nella individuazione del giudice competente, senza considerare l'ausilio della difesa tecnica della quale il cittadino si avvale, anche per le vertenze di cui è causa;

    che, ad avviso della difesa erariale, il giudice a quo avrebbe omesso di verificare se siano consentite interpretazioni diverse della norma sottoposta a censura, tali da consentirne una lettura conforme ai principi costituzionali evocati; in particolare, la Commissione tributaria non avrebbe accertato se il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e tributario possa operare in relazione al diritto sottostante fatto valere e non all'oggetto del ricorso, così da limitare l'attribuzione alle commissioni tributarie della cognizione delle sole questioni connesse alla riscossione di uno dei tributi riservati a quella giurisdizione;

    che, nel merito, l'Avvocatura ricorda che il legislatore gode di ampia discrezionalità nel definire la disciplina del processo e dei relativi istituti, le cui scelte sono censurabili sotto un profilo costituzionale solo ove si manifestino irragionevoli ed arbitrarie, e che non vi è un principio costituzionalmente rilevante di necessaria uniformità delle regole processuali dei vari tipi di processo.

    Considerato che la questione di legittimità costituzionale, sollevata in riferimento agli artt. 3, 24 e 25 della Costituzione, investe l'art. 35, comma 26-quinquies, del decreto-legge 4 luglio  2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), introdotto dalla legge di conversione 4 agosto 2006, n. 248, nella parte in cui omette di integrare l'art. 2 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), nel senso dell'espressa devoluzione al giudice tributario delle controversie in materia di fermo di autoveicoli dovuto al mancato pagamento di cartella notificata per violazioni del codice della strada;

      che nel giudizio principale, avente ad oggetto l'annullamento di un preavviso di fermo emesso dall'agente della riscossione per l'omesso pagamento di importi relativi a contravvenzioni stradali e indicati nelle cartelle di pagamento notificate al ricorrente, la parte resistente ha eccepito, in via preliminare, il difetto di giurisdizione del giudice tributario adito, e la Commissione tributaria espressamente ha respinto la suddetta eccezione, ampiamente spiegando perché l'art. 35, comma 26-quinquies, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, debba essere interpretato nel senso di ritenere che il legislatore abbia inteso assegnare comunque ed in ogni caso la competenza  esclusiva  per  materia, in tema di fermo, al giudice tributario;

    che la prospettazione della questione di legittimità costituzionale, seguendo la declaratoria da parte del giudice a quo della propria giurisdizione sulla controversia di cui egli è investito, ha ad oggetto una disposizione della quale lo stesso rimettente ha già fatto applicazione;

    che, inoltre, nel motivare la non manifesta infondatezza, lo stesso giudice rimettente dà atto che l'esigenza di adire la Corte costituzionale sorge per dissolvere un dubbio interpretativo, perché la decisione su quale sia il giudice fornito di giurisdizione in materia «non dipende dalla legge, ma dall'interpretazione del giudice adito»;

    che, pertanto, la questione di legittimità costituzionale deve essere dichiarata manifestamente inammissibile: sia per difetto di rilevanza, in relazione alla già avvenuta applicazione della norma denunciata da parte del rimettente (ordinanze n. 416 e n. 112 del 2007); sia perché impropriamente sollevata per ottenere un avallo a favore di una determinata interpretazione della norma stessa (ordinanze n. 292 e n. 85 del 2007).

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 35, comma 26-quinquies, del decreto-legge 4 luglio  2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), introdotto dalla legge di conversione 4 agosto 2006, n. 248, sollevata, in riferimento agli artt . 3, 24 e 25 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Latina con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedente

ORDINANZA N. 158

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Franco                          BILE         Presidente

-  Giovanni Maria                  FLICK          Giudice

-  Francesco                       AMIRANTE          "

-  Ugo                             DE SIERVO         "

-  Paolo                           MADDALENA         "

-  Alfio                           FINOCCHIARO       "

-  Alfonso                         QUARANTA          "

-  Franco                          GALLO             "

-  Luigi                           MAZZELLA          "

-  Gaetano                         SILVESTRI         "

-  Sabino                          CASSESE           "

-  Maria Rita                      SAULLE            "

-  Giuseppe                        TESAURO           "

-  Paolo Maria                     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente< o:p>

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 63 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), promosso con ordinanza depositata il 28 febbraio 2007 dal Tribunale ordinario di Pisa, sezione distaccata di Pontedera, nel giudizio di opposizione di terzo all'esecuzione esattoriale, promosso da Sandro Magnani nei confronti della s.p.a. G.E.T. - Gestione Esattorie e Tesorerie e della debitrice, iscritta al n. 710 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2008 il Giudice relatore Franco Gallo.

    Ritenuto che, nel corso di un giudizio riguardante un'opposizione del terzo Sandro Magnani all'esecuzione esattoriale promossa dalla s.p.a. G.E.T. - Gestione Esattorie e Tesorerie, concessionaria del servizio di riscossione, nei confronti di Lina Sani, il Tribunale ordinario di Pisa, sezione distaccata di Pontedera, con ordinanza depositata il 28 febbraio 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 42 della Costituzione, questioni di legittimità dell'art. 63 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) - come sostituito dall'art. 16 del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell'articolo 1 della legge 28 settembre 1998, n. 337) -, «nella parte in cui prevede che l'opposizione possa essere proposta solo in forza di atto pubblico, scrittura privata autenticata, o sentenza passata in giudicato, anteriore all'anno a cui si riferisce l'imposta iscritta a ruolo, e non anche di documenti aventi data certa anteriori al pignoramento, da parte del locatore che abbia locato al debitore una casa ad uso abitativo arredata, con contratto avente data certa anteriore al pignoramento, ove l'opposizione abbia ad oggetto i mobili compresi in tale locazione»;

    che il giudice rimettente premette, in punto di fatto, che: a) «nel caso di specie l'opponente, che non risulta parente della debitrice, ha fondato la propria opposizione su un contratto di locazione di immobile arredato ad uso abitativo, debitamente registrato [...], contenente l'elenco dei beni mobili compresi nella locazione, alcuni dei quali pignorati in danno della conduttrice, debitrice dell'Erario»; b) la medesima opposizione è fondata «sulla fattura di acquisto dei mobili stessi in data 30 maggio 2003, sottoscritta e quietanzata dal venditore, nonché sul documento di trasporto, relativo agli stessi mobili»; c) tali documenti - secondo la società concessionaria, costituitasi in giudizio - non sarebbero idonei a fon dare l'opposizione, ai sensi dell'art. 63 del d.P.R. n. 602 del 1973, «non essendo atti pubblici o scritture private autenticate, ed essendo comunque posteriori all'anno di iscrizione a ruolo dei tributi per cui si procede (1993-1998)»; d) l'opponente locatore, deducendo di essere proprietario dei beni pignorati, ha prodotto la prova scritta di data certa dell'acquisto di tali beni e del loro affidamento al debitore quale arredo dell'unità immobiliare data in locazione ad uso abitativo; e) «nel caso di specie si ravvisa un'ipotesi in cui ragionevolmente non vi è alcun rischio di collusione o di fraudolenza, cioè quello del terzo (non parente) che concede al debitore una casa arredata ad uso abitativo, con contratto registrato, provando peraltro il proprio acquisto dei beni mobili con documenti attendibili»;

    che il giudice a quo rileva che la norma censurata, con un unico comma, dispone che: a) «L'ufficiale della riscossione deve astenersi dal pignoramento o desistere dal procedimento quando è dimostrato che i beni appartengano a persona diversa dal debitore iscritto a ruolo, dai coobbligati o dai soggetti indicati dall'articolo 58, comma 3, in virtù di titolo avente data anteriore all'anno cui si riferisce l'entrata iscritta a ruolo» (primo periodo); b) «Tale dimostrazione può essere offerta soltanto mediante esibizione di atto pubblico o scrittura privata autenticata, ovvero di sentenza passata in giudicato pronunciata su domanda proposta prima di detto anno» (secondo periodo);

    che, secondo il rimettente, tale disciplina - nel prevedere che il terzo possa opporre all'esecutante il proprio diritto di proprietà sui beni pignorati alla duplice condizione che il diritto risulti da determinati atti e che sia anteriore all'anno cui si riferisce il credito iscritto a ruolo - víola: a) l'art. 3 Cost., perché comporta una irragionevole disparità di trattamento rispetto al regime dell'esecuzione forzata ordinaria, disciplinato dall'art. 621 del codice di procedura civile, il quale non prevede tali limitazioni probatorie; b) l'art. 24 Cost., perché limita ingiustificatamente il diritto di difesa; c) l'art. 42 Cost., perché dà vita «ad una sorta di espropriazione senza indennizzo»;< /P>

    che, quanto alla rilevanza, il giudice a quo osserva che, «dichiarata costituzionalmente illegittima la disposizione di cui all'art. 63 d.P.R. n. 602/1973, l'opposizione potrebbe essere accolta, mentre, ritenuta legittima la stessa disposizione, l'opposizione dovrebbe essere respinta, non essendo i documenti prodotti dall'opponente né atti pubblici, né scritture private autenticate, né sentenze, ed essendo gli stessi posteriori all'anno di riferimento delle imposte iscritte a ruolo»;

    che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in giudizio ed ha chiesto dichiararsi «inammissibile perché manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata»;

    che, nel merito, la difesa erariale afferma, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale, che l'esecuzione esattoriale è regolata in modo tale da assicurare la sollecita riscossione delle imposte, al fine di tutelare il «preminente interesse, costituzionalmente riconosciuto», al «regolare svolgimento della vita finanziaria dello Stato» (sentenze n. 67 del 1974 e n. 87 del 1962);

    che, in particolare, l'Avvocatura generale afferma, quanto all'asserita violazione dell'art. 3 Cost., che la «difformità degli interessi sottesi all'esecuzione ordinaria ed a quella esattoriale» legittima «l'adozione di procedure diversificate»;

    che, quanto alla dedotta lesione dell'art. 24 Cost., la difesa erariale osserva  che nella procedura esecutiva esattoriale la disciplina del regime probatorio «è rimessa, sempre nei limiti della ragionevolezza, alla discrezionalità del legislatore» e che, nella specie, non sussiste alcuna lesione del diritto di agire in giudizio;

    che infine, quanto alla prospettato contrasto con l'art. 42 Cost., la disciplina denunciata, secondo la difesa erariale, «non comporta affatto [.] una violazione della garanzia riconosciuta alla proprietà privata, ma determina, soltanto, secondo le discrezionali valutazioni rimesse al legislatore, l'equo contemperamento tra gli interessi del Fisco ed i diritti di tutela giurisdizionale del terzo».

    Considerato che il Tribunale ordinario di Pisa, sezione distaccata di Pontedera, dubita, in riferimento agli artt. 3, 24 e 42 della Costituzione, della legittimità dell'art. 63 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) - come sostituito dall'art. 16 del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell'articolo 1 della legge 28 settembre 1998, n. 337) - nella parte in cui prevede che l'opposizione del terzo all'esecuzione esattoriale «possa essere proposta solo in forza di atto pubblico, scrittura privata autenticata, o sentenza passata in giudicato, anteriore all'anno a cui si riferisce l'imposta iscritta a ruolo, e non anche di documenti aventi data certa anteriori al pignoramento, da parte del locatore che abbia locato al debitore una casa ad uso abitativo arredata, con contratto avente data certa anteriore al pignoramento, ove l'opposizione abbia ad oggetto i mobili compresi in tale locazione»;

    che, ad avviso del rimettente, la disposizione censurata, disponendo che, nell'esecuzione esattoriale, la prova della proprietà dei beni in capo al terzo opponente può essere offerta soltanto mediante esibizione dei suddetti atti aventi i precisati requisiti temporali, víola: a) l'art. 3 Cost., perché comporta una irragionevole disparità di trattamento rispetto al regime dell'esecuzione forzata ordinaria, disciplinato dall'art. 621 del codice di procedura civile, il quale non prevede tali limitazioni probatorie; b) l'art. 24 Cost., perché limita ingiustificatamente il diritto di difesa; c) l'art. 42 Cost., perché dà vita «ad una sorta di espropriazione senza indennizzo»;

    che questioni identiche a quelle sollevate dal rimettente sono state già dichiarate non fondate da questa Corte con la sentenza n. 351 del 1998, per quanto riguarda la violazione degli artt. 3 (in relazione all'art. 621 cod. proc. civ.) e 24 Cost., e con l'ordinanza n. 455 del 2000, per quanto riguarda la violazione degli artt. 24 e 42 Cost.;

    che tali pronunce hanno ad oggetto l'art. 65 del d.P.R. n. 602 del 1973 che, nel testo anteriore all'entrata in vigore dell'art. 16 del d.lgs. n. 46 del 1999, era sostanzialmente corrispondente, per le parti che qui rilevano, alla norma censurata;

    che, quanto all'art. 3 Cost. (ed al tertium comparationis costituito dall'art. 621 cod. proc. civ.), questa Corte  ha ritenuto che «la disciplina speciale della riscossione coattiva delle imposte non pagate [.] risponde all'esigenza di pronta realizzazione del credito fiscale, attuata con una procedura improntata a criteri di semplicità e di speditezza, che possono comportare non solo presunzioni in ordine all'appartenenza dei beni e preclusioni nelle opposizioni (sentenze n. 415 del 1996, n. 444 del 1995 e n. 358 del 1994), ma anche limiti probatori» ed ha conseguentemente affermato che «una disciplina di tali limiti, diversa e differenziata rispetto a quella prevista pe r la comune esecuzione forzata, [non] è di per sé irragionevole o lesiva del principio di eguaglianza, potendo trovare giustificazione nelle specifiche finalità del procedimento di esecuzione esattoriale e nella diversità di condizione del credito fiscale e di posizione dei soggetti coinvolti nella riscossione coattiva delle imposte» (sentenza n. 351 del 1998);

    che, quanto alla dedotta violazione dell'art. 24 Cost., la Corte ha ribadito che «la disciplina dell'ammissibilità e del regime delle prove è rimessa, sempre nei limiti della ragionevolezza, alla discrezionalità del legislatore [.], il quale può, per determinati rapporti, ammettere solo la prova documentale ed escludere quella testimoniale, ponendo limitazioni che non incidono sul diritto di azione, ma disciplinano il regime delle prove quando l'azione sia esercitata o esprimono profili della disciplina sostanziale» (sentenza n. 351 del 1998; nello stesso senso, ordinanza n. 455 del 2000);

    che, quanto all'asserita violazione dell'art. 42 Cost., questa Corte ha affermato che una siffatta regolamentazione dei «limiti per provare la proprietà di beni pignorati nella casa del contribuente moroso diversa da quella prevista per la comune esecuzione forzata può essere giustificata, in relazione alle specifiche finalità del procedimento di esecuzione esattoriale ed alla posizione dei soggetti coinvolti, dall'esigenza di escludere la possibilità di fraudolente elusioni stabilendo la sostanziale inopponibilità al fisco di atti di alienazione, successivi all'obbligazione tributaria, di beni che permangono nella casa del debitore o in altri luoghi a lui appartenenti; ciò che non comporta una lesione del diritto di agir e in giudizio, né una violazione della garanzia riconosciuta alla proprietà privata» (citata ordinanza n. 455 del 2000);

    che, con riferimento a quest'ultimo profilo, inoltre, la giurisprudenza di questa Corte ha sempre avuto cura di precisare che l'art. 42, secondo comma, Cost. non esclude che il diritto di proprietà sia, in certe situazioni, subordinato a condizioni o presupposti od anche all'onere di un particolare comportamento da parte dello stesso proprietario, come quello di rimuovere tempestivamente i beni mobili dall'abitazione del locatario assoggettato ad esecuzione esattoriale (sentenze n. 4 del 1973 e n. 4 del 1960);

    che il rimettente non prospetta profili diversi da quelli già presi in esame con le citate pronunce o, comunque, tali da indurre questa Corte a modificare il precedente orientamento;

    che le questioni, dunque, devono essere dichiarate manifestamente infondate.

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

La Corte costituzionale

    dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 63 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) - come sostituito dall'art. 16 del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell'articolo 1 della legge 28 settembre 1998, n. 337) -, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 42 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Pisa, sezione distaccata di Pontedera, con l'or dinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA



 
        Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16 marzo 1956).

   Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale su quello trascritto, in caso di divergenza.