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Deposito del 18/07/2008 (dalla 285 alla 295)

 
S.285/2008 del 09/07/2008
Udienza Pubblica del 08/07/2008, Presidente BILE, Relatore MAZZELLA


Norme impugnate: Artt. 2, 3, 4, 6 e 7 della legge della Regione Valle d'Aosta 17/04/2007, n. 6.

Oggetto: Cooperazione allo sviluppo e solidarietà internazionale - Norme della Regione Valle d'Aosta - Iniziative proprie della Regione, progettate anche in collaborazione con altri enti territoriali o con soggetti, nazionali ed internazionali, nell'ambito della cooperazione internazionale con i Paesi in via di sviluppo e i Paesi in via di transizione - Norme che definiscono gli ambiti di intervento, i soggetti delle iniziative di cooperazione e di solidarietà, le tipologie delle azioni, incluse quelle straordinarie di carattere umanitario, l'attività di programmazione.

Dispositivo: illegittimità costituzionale - non fondatezza
Atti decisi: ric. 31/2007
S.286/2008 del 09/07/2008
Camera di Consiglio del 11/06/2008, Presidente BILE, Relatore MAZZELLA


Norme impugnate: Art. 3, c. 1°, della legge 09/12/1941, n. 1383; art. 215 del codice penale militare di pace.

Oggetto: Reati militari - Disposizioni penali per i militari appartenenti alla Guardia di finanza - Appropriazione di valori o generi di cui il militare abbia l'amministrazione o la custodia - Trattamento sanzionatorio - Prevista a pplicabilità delle pene stabilite dagli artt. 215 e 219 cod. pen. militare di pace - Mancata previsione della inapplicabilità di tale disposizione nel caso in cui il soggetto abbia agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa e questa sia stata immediatamente restituita; Peculato militare - Trattamento sanzionatorio - Reclusione da due a dieci anni - Mancata previsione della inapplicabilità di tale disposizione nel caso in cui il soggetto abbia agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa e questa sia stata immediatamente restituita.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ord. 16/2008
S.287/2008 del 09/07/2008
Camera di Consiglio del 21/05/2008, Presidente BILE, Rel atore SAULLE


Norme impugnate: Art. 131, c. 3°, del decreto del Presidente della Repubblica 30/05/2002, n. 115.

Oggetto: Patrocinio a spese dello Stato - Procedimento civile di volontaria giurisdizione - Somme spettanti ai periti a titolo di compenso per l'opera prestata - Anticipazione a carico del pubblico erario - Mancata previsione.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 768/2007
S.288/2008 del 09/07/2008
Udienza Pubblica del 10/06/2008, Presidente BILE, Relatore TESAURO


Norme impugnate: Art. 19, c. 1° e 2°, della legge della Regione Basilicata 09/08/2007, n. 13.

Oggetto: Consorzi - Regione Basilicata - Scioglimento degli organi dei consorzi per lo sviluppo industriale di cui alla legge regionale n. 41/1998 - Irragionevolezza per l'assenza di una disciplina transitoria - Incidenza sul principio di buon andamento della pubblica amministrazione - Riferimento alla sentenza della Corte costituzionale n. 429/2002.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 47, 48 e 49/2008
S.289/2008 del 09/07/2008
Udienza Pubblica del 24/06/2008, Presidente BILE, Relatore MADDALENA


Norme impugnate: Decreto legge 04/07/2006, n. 223, convertito con modificazioni in legge 04/08/2006, n. 248; discussione limitata a gli artt. 22, 26, 27, 29.

Oggetto: Bilancio e contabilità pubblica - Enti ed organismi pubblici non territoriali - Riduzione nella misura del 10 per cento delle spese di funzionamento relative all'anno 2006, nonché nella misura del 20 per cento di quelle iniziali dell'anno 2006 per il triennio 2007-2009.
Regola del contenimento delle spese da parte degli enti inseriti nel conto economico consolidato delle pubbliche amministrazioni - Controlli e sanzioni per il mancato rispetto - Obbligo per gli enti che non ricevono contributi statali di versare le eccedenze di spesa risultanti dai consuntivi degli anni 2005, 2006 e 2007 all'entrata del bilancio dello Stato;
Riduzione rispetto alla finanziaria per il 2006 del limite di spesa annua per studi e incarichi di consulenza, per relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e di rappresentanza sostenute dalla pubblica amministrazione; Norme di contenimento della spesa per commissioni, comitati ed o rganismi - Applicabilità, quali disposizioni di principio ai fini del coordinamento della finanza pubblica, alle Regioni, province autonome, enti locali ed enti del Servizio sanitario nazionale

Dispositivo: non fondatezza - inammissibilità - cessata materia del contendere
Atti decisi: ric. 96, 99, 103 e 105/2006
S.290/2008 del 09/07/2008
Udienza Pubblica del 24/06/2008, Presidente BILE, Relatore GALLO


Norme impugnate: Decreto legge 04/07/2006, n. 223, convertito con modificazioni in legge 04/08/2006, n. 248; discussione limitata all'art. 28, c. 1°.

Oggetto: Impiego pubblico - Riduzione del 20% delle diarie per missioni all'ester o - Applicabilità al personale della Regione e degli enti locali.

Dispositivo: inammissibilità
Atti decisi: ric. 107/2006
S.291/2008 del 09/07/2008
Camera di Consiglio del 25/06/2008, Presidente BILE, Relatore MADDALENA


Norme impugnate: Artt. da 30 a 42 del regio decreto 13/08/1933, n. 1038.

Oggetto: Corte dei conti - Giudizio di conto - Relazione del Magistrato relatore - Notifica all'Amministrazione in uno al decreto di fissazione dell'udienza per la celebrazione del giudizio di conto - Mancata previsione.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 803/2007
O.292/2008 del 09/07/2008
Udienza Pubblica del 20/05/2008, Presidente BILE, Relatore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Artt. 4, c. 1°, lett. b), e 5, c. 1°, della legge 20/09/1980, n. 576.

Oggetto: Previdenza - Sistema previdenziale forense - Pensione di inabilità erogata agli avvocati e procuratori iscritti alla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense - Condizione - Iscrizione alla Cassa in data anteriore al compimento del quarantesimo anno di età.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 778/2007
O.293/2008 del 09/07/2008
Camera di Consiglio del 25/06/2008, Presidente BILE, Relatore DE SIERVO


Norme impugnate: Art. 139 del codice penale.

Oggetto: Reati e pene - Pene accessorie - Differimento, una volta espiata la pena principale, della pena accessoria della sospensione della patente (già differita sino al termine dell'espiazione della pena principale in quanto di ostacolo alla espiazione della pena detentiva nelle misure alternative della semilibertà e dell'affidamento in prova) - Mancata previsione.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 563/2006
O.294/2008 del 09/07/2008
Udienza Pubblica del 08/07/2008, Presidente BILE, Relatore DE SIERVO


Norme impugnate: Art. 15, c. 1°, lett. b), della legge 19/03/1990, n. 55.

Oggetto: Elezioni - Consiglio regionale - Elettorato passivo - Condanna con sentenza passata in giudicato per peculato d'uso 'ex' art. 314, secondo comma, del codice penale - Causa di incandidabilità e ineleggibilità.

Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens
Atti decisi: ord. 674/2007
O.295/2008 del 09/07/2008
Camera di Consiglio del 09/07/2008, Presidente BILE, Relatore MADDALENA


Norme impugnate: Art. 159, c. 3°, del decreto legislativo 22/01/2004, n. 42, come sostituito dall'art. 26 del decreto legislativo 24/03/2006, n. 157.

Oggetto: Tutela del paesaggio - Autorizzazioni edilizie - Potere della soprintendenza di annullare le autorizzazioni non conformi alle prescrizioni di tutela del paesaggio.

Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens
Atti decisi: ord. 13 e 14/2008

pronuncia successiva

SENTENZA N. 285

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-     Franco            BILE         Presidente

-     Giovanni Maria    FLICK          Giudice

-     Francesco         AMIRANTE          "

-     Ugo               DE SIERVO         "

-     Paolo             MADDALENA         "

-     Alfonso           QUARANTA          "

-     Franco            GALLO             "

-     Luigi             MAZZELLA          "

-     Gaetano           SILVESTRI         "

-     Sabino            CASSESE           "

-     Maria Rita        SAULLE            "

-     Giuseppe          TESAURO           "

-     Paolo Maria       NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3, 4, 6 e 7 della legge della Regione Valle d'Aosta 17 aprile 2007, n. 6 (Nuove disposizioni in materia di interventi regionali di cooperazione allo sviluppo e di solidarietà internazionale), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 13 luglio 2007, depositato in cancelleria il 17 luglio 2007 ed iscritto al n. 31 del registro ricorsi 2007.

      Visto l'atto di costituzione della Regione Valle d'Aosta;

    udito nell'udienza pubblica dell'8 luglio 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella;

    uditi l'avvocato dello Stato Luca Ventrella per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Francesco Saverio Marini per la Regione Valle d'Aosta.

Ritenuto in fatto

      1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha proposto in via principale, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera a), della Costituzione, e 2 e 3 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d'Aosta), questioni di legittimità costituzionale della legge della Regione Valle d'Aosta 17 aprile 2007, n. 6 (Nuove disposizioni in materia di interventi regionali di cooperazione allo sviluppo e di solidarietà internazionale), e «in particolare - a titolo indicativo e non esaustivo -» degli artt. 2, 3, 4, 6 e 7 della predetta legge.

      Ad avviso del ricorrente, la Regione Valle d'Aosta, con il prevedere, all'art. 2 della legge impugnata, iniziative di cooperazione allo sviluppo e di solidarietà internazionale rivolte prioritariamente ai Paesi in via di sviluppo e ai Paesi in via di transizione e che la Regione opera attuando iniziative proprie oppure valorizzando e sostenendo le iniziative promosse dai soggetti di cui all'art. 3 della stessa legge nell'ambito della cooperazione internazionale con i Paesi in via di sviluppo e i Paesi in via di transizione, ha legiferato - oltre che nella materia della cooperazione decentrata - anche e direttamente in quella della cooperazione allo sviluppo, at tinente alla cooperazione internazionale quale parte integrante della politica estera dell'Italia e, dunque, in un campo di competenza esclusiva dello Stato, in violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera a), della Costituzione.

    Il Presidente del Consiglio dei ministri aggiunge che la materia nella quale ricade la legge impugnata esula altresì da quelle che, in base agli artt. 2 e 3 dello statuto speciale della Regione Valle d'Aosta, sono attribuite alla Regione medesima.

    Né, secondo l'Avvocatura generale, si potrebbe invocare nella fattispecie l'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), e rivendicare così la maggiore autonomia assegnata alle Regioni a statuto ordinario dall'art. 117, terzo comma, Cost., in materia di «rapporti internazionali». Infatti, nella sentenza n. 211 del 2006, la Corte costituzionale ha affermato che l'art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., nel delineare la competenza legislativa spettante in via esclusiva allo Stato, sottolinea una dicotomia concettuale tra meri "rapporti internazionali" da un lato e "politica estera" dall'altro, che non si ritrova nel terzo com ma dello stesso art. 117, che individua la competenza regionale concorrente in materia internazionale. La politica estera, pertanto, è una componente peculiare e tipica dell'attività dello Stato, che ha un significato diverso e specifico rispetto al termine "rapporti internazionali": mentre questi ultimi sono astrattamente riferibili a singole relazioni, dotate di elementi di estraneità rispetto al nostro ordinamento, la "politica estera" concerne l'attività internazionale dello Stato unitariamente considerata in rapporto alle sue finalità ed al suo indirizzo.

    Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, le attività e le iniziative di cooperazione internazionale disciplinate nella legge impugnata (ed in particolare negli articoli indicati a titolo non esaustivo), sono destinate ad incidere nella politica estera nazionale, prerogativa esclusiva dello Stato, come è confermato dall'art. 1 della legge 26 febbraio 1987, n. 49 (Nuova disciplina della cooperazione dell'Italia con i Paesi in via di sviluppo), che dispone che la «cooperazione allo sviluppo è parte integrante della politica estera dell'Italia e persegue obiettivi di solidarietà tra i popoli e di piena realizzazione dei diritti fondamentali dell'uomo, ispirandosi ai principi sanciti dalle Nazioni Unite e dalle convenzioni CEE-ACP». 

    La difesa erariale sottolinea, in particolare, che il combinato disposto degli artt. 2, 6 e 7 della legge regionale Valle d'Aosta n. 6 del 2007 - che disciplina i modi di intervento nell'ambito della cooperazione internazionale in relazione ai Paesi destinatari e alla tipologia delle azioni previste - e l'art. 3 della medesima legge - che individua i soggetti delle iniziative di cooperazione e di solidarietà - si pongono in aperto contrasto con l'art. 2, comma 2, della citata legge n. 49 del 1987, che rimette al Ministro degli affari esteri la scelta delle priorità delle aree geografiche e dei singoli Paesi, nonché dei diversi settori nel cui ambito deve essere attuata la cooperazione allo sviluppo e l'indicazione degli strumenti di intervento. 

    Inoltre, l'art. 4 della legge impugnata, nel prevedere contenuto e modi di attuazione delle iniziative e dei programmi di cooperazione internazionale, non tiene conto di quanto stabilito dall'art. 3 della legge n. 49 del 1987 (a norma del quale «La politica della cooperazione allo sviluppo è competenza del Ministro degli affari esteri. Per la determinazione degli indirizzi generali della cooperazione allo sviluppo e le conseguenti funzioni di programmazione e coordinamento è istituito nell'ambito del CIPE il Comitato interministeriale per la cooperazione allo sviluppo»), né di quanto affermato nell'art. 5 della stessa legge, che attribuisce alla competenza del Ministro degli affari esteri la funzione di promuovere e coordinare ogni iniziativa in materia di cooperazione allo sviluppo.

    Il ricorrente deduce che le norme impugnate prevedono un potere di determinazione degli obiettivi di cooperazione solidale, degli interventi di emergenza e dei destinatari dei benefici sulla base di criteri, per l'individuazione dei progetti da adottare, fissati dalla stessa Regione.

    Esse, inoltre, implicando anche l'impiego diretto di risorse (umane e finanziarie) in progetti destinati a offrire vantaggi socio-economici alle popolazioni e agli Stati beneficiari ed entrando in tal modo pienamente nella materia della cooperazione internazionale, autorizzano e disciplinano una serie di attività tipiche della politica estera, riservate in modo esclusivo allo Stato. 

    Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, la semplice affermazione di principio, contenuta nell'art. 1 della legge impugnata, in base alla quale gli «interventi di cooperazione allo sviluppo e di solidarietà internazionale» dovranno sempre avvenire «in conformità a quanto stabilito dall'art. 117, comma nono, della Costituzione, e alla relativa normativa statale di attuazione [.] nell'ambito delle proprie competenze e nel rispetto degli indirizzi di politica estera dello Stato», non vale ad escludere la lesione della sfera di competenza statale. Infatti, posto che la normativa statale richiamata nella citata clausola di salvaguardia deve ritenersi quella dettata dall'art. 6 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), nella citata sentenza n. 211 del 2006 la Corte costituzionale ha precisato che il predetto art. 6, lungi dal porsi in contrasto con la riserva esclusiva di competenza statale in materia di politica estera, detta, proprio sul presupposto della inderogabilità della ripartizione delle competenze legislative di cui al titolo V della parte seconda della Costituzione, specifiche e particolari cautele per lo svolgimento concreto della sola condotta internazionale delle Regioni.

    2. - La Regione Valle d'Aosta si è costituita ed ha contestato quanto dedotto dal Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o infondato.

    3. - In una memoria successivamente depositata la Regione ha esposto le argomentazioni a sostegno delle proprie conclusioni.

    In particolare, per quanto riguarda l'eccepita inammissibilità del ricorso, la resistente deduce che le censure del Presidente del Consiglio dei ministri sono generiche in relazione alla complessità ed eterogeneità dei contenuti della legge impugnata, la quale disciplina, oltre ad iniziative di vera e propria cooperazione internazionale, anche iniziative da realizzarsi sul territorio regionale e concernenti materie attribuite alla competenza legislativa della Regione.

    Sarebbe questo il caso, in particolare, delle iniziative culturali, di educazione, di informazione, di formazione e di studio, finalizzate alla diffusione e al radicamento di una cultura di pace e di solidarietà tra i popoli, previste dall'art. 5 della legge regionale Valle d'Aosta n. 6 del 2007 e rientranti, per alcuni profili, nell'ambito delle competenze legislative regionali in materia di «istruzione» e di «promozione organizzazione di attività culturali» di cui all'art. 117, terzo comma, Cost. (applicabile alla Regione Valle d'Aosta in virtù della clausola di maggior favore contenuta nell'art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001), e, per altri profili, nella materia «istruzione e formazione professionale» sottoposta al regime di cui all'art. 117, quarto comma, Cost., e già inclusa tra le materie di comp etenza legislativa primaria regionale dall'art. 2, lettera r), dello statuto speciale. Inoltre, le iniziative di cui al citato art. 5 sono destinate ad essere svolte nel territorio regionale e non determinerebbero, pertanto, alcuna interferenza con la politica estera dello Stato.

    Ad avviso della Regione, anche l'art. 9 della legge censurata interviene in un ambito materiale estraneo a quello della politica estera dello Stato, concernendo, invece, l'organizzazione interna della Regione e l'ordinamento degli uffici da essa dipendenti. Tale disposizione, infatti, prevede l'istituzione, presso la Presidenza della Regione, di una banca dati delle iniziative regionali di cooperazione allo sviluppo e di solidarietà internazionale; inoltre affida alla Presidenza della Regione i compiti di reperire e diffondere le normative, la documentazione ed ogni altra informazione inerente alle tematiche della cooperazione allo sviluppo e della solidarietà internazionale e di assicurare lo scambio di informazioni e di conoscenze sull'a ttuazione della legge impugnata con gli organismi operanti sul territorio regionale nell'ambito dell'assistenza sociale, del volontariato e delle problematiche attinenti all'immigrazione. 

    La legge impugnata disciplina inoltre, a parere della resistente, iniziative (quali quelle straordinarie di emergenza e di carattere umanitario previste dall'art. 6), che non rientrano necessariamente nella sfera della politica estera.

    Infatti, come sottolineato anche dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 360 del 2005, gli interventi in casi di emergenza internazionale si traducono in attività che hanno un rilievo meramente potenziale sul piano internazionale e l'art. 6 impugnato stabilisce espressamente che gli interventi da esso contemplati avvengono nel rispetto delle direttive emanate dalle competenti autorità statali e delimita gli interventi medesimi in ambiti afferenti la sfera della protezione civile. Quest'ultima, a sua volta, è oggetto di una specifica disciplina dettata dal legislatore valdostano e le relative funzioni amministrative sono attribuite ad organi regionali dall'art. 21 della legge 16 maggio 1978 n. 196 (Norme di attuazione dello statuto speciale della Valle d'Aosta). L'estraneità delle iniziative umanitarie rispetto alla cooperazione allo sviluppo è confermata dal fatto che il comma 3 dell'art. 6 dispone che esse siano stabilite dalla Giunta regionale al di fuori delle procedure di programmazione di cui al successivo art. 7 e, cioè, del documento programmatico triennale che indica obiettivi e priorità con riferimento a tutte le altre iniziative regionali contemplate dalla legge impugnata.

    La Regione eccepisce altresì la contraddittorietà e l'illogicità della scelta degli articoli della legge regionale Valle d'Aosta n. 6 del 2007 individuati dal Presidente del Consiglio dei ministri, a titolo indicativo, come particolarmente rilevanti sul piano dell'illegittimità costituzionale. Infatti, da un lato, l'art. 6 della legge impugnata riguarda - come già detto - iniziative straordinarie di carattere umanitario il cui rilievo internazionale è solo potenziale; dall'altro lato, il ricorrente ha omesso di considerare l'art. 1 della stessa legge regionale, che definisce le finalità dell'intero provvedimento legislativo ed il ruolo che la Regione si propone di svolgere per il loro perseguimento.

    La difesa regionale individua un ulteriore profilo di inammissibilità delle censure formulate dal Presidente del Consiglio dei ministri nel fatto che esse sono genericamente rivolte ai singoli articoli nella loro interezza, senza considerare i diversi ambiti materiali di volta in volta coinvolti dalla disciplina contenuta in ciascun articolo.

    In particolare, la resistente deduce che l'art. 4, comma 2, della legge impugnata prevede che la Regione Valle d'Aosta «sostiene il trasferimento di competenze e di conoscenze, anche favorendo il contributo delle professionalità specifiche del personale dell'Amministrazione regionale e degli enti da essa dipendenti nella progettazione, attuazione e valutazione delle iniziative, mediante la concessione di un periodo di aspettativa senza assegni, riconosciuto ai fini giuridici ed economici, con oneri previdenziali ed assistenziali a carico dell'amministrazione di appartenenza». Si tratta di disciplina che, secondo la difesa regionale, non interferisce nella politica estera dello Stato e si esaurisce nell'esercizio delle competenze legisla tive in materia di «ordinamento degli uffici e degli enti dipendenti dalla Regione e stato giuridico ed economico del personale» spettanti alla Regione ai sensi dell'art. 2, lettera a), dello statuto speciale.

    In conclusione, ad avviso della Regione, il ricorso, per la genericità delle censure mosse alla legge impugnata, non individua i termini della questione e deve pertanto ritenersi inammissibile.

    Nel merito, la resistente afferma che, se lo statuto speciale non contiene alcun riferimento né alla politica estera, né alla cooperazione allo sviluppo, né ai rapporti internazionali, tuttavia le competenze della Regione Valle d'Aosta in tali ambiti debbono oggi essere individuate alla luce del novellato art. 117 Cost., le cui disposizioni relative all'attività internazionale delle Regioni sono applicabili anche a quelle a statuto speciale in virtù della clausola di maggior favore contenuta nell'art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001.

    La Regione deduce che, proprio per adeguarsi al mutato quadro costituzionale, ha emanato dapprima la legge della Regione Valle d'Aosta 16 marzo 2006, n. 8 (Disposizioni in materia di attività e relazioni europee e internazionali della Regione autonoma Valle d'Aosta), non impugnata dallo Stato, e successivamente la legge oggetto del presente giudizio.

    Già nella prima è stato previsto che la Giunta regionale provvede alla realizzazione di iniziative nel settore della «cooperazione allo sviluppo, solidarietà internazionale e aiuto comunitario» (art. 5, comma primo, lettera a).

    Con la seconda il legislatore regionale è intervenuto ad innovare la precedente disciplina in materia di cooperazione allo sviluppo contenuta nella legge della Regione Valle d'Aosta 9 luglio 1990, n. 44 (Interventi regionali di cooperazione e solidarietà con i Paesi in via di sviluppo), contestualmente abrogata dall'art. 10 della legge regionale Valle d'Aosta n. 6 del 2007.

      Ad avviso della resistente, l'intento del legislatore regionale di adeguarsi alle sopravvenute modifiche costituzionali è esplicitato anzitutto nell'art. 1, comma 2, della legge impugnata, ai sensi del quale, «in conformità a quanto stabilito dall'art. 117, comma nono, della Costituzione, e alla relativa normativa statale di attuazione, la Regione realizza, coordina, promuove e sostiene, utilizzando anche proprie risorse umane e finanziarie, interventi di cooperazione allo sviluppo e di solidarietà internazionale, nell'ambito delle proprie competenze e nel rispetto degli indirizzi di politica estera dello Stato». Tale affermazione individua il quadro costituzionale di riferimento e quindi anche i limiti entro i quali la Regione è autorizzata a realizzare iniziative di cooperazione allo sviluppo e di solidarietà internazionale.

    La Regione Valle d'Aosta afferma pertanto che la questione di legittimità costituzionale è infondata poiché basata sull'erroneo presupposto che la disciplina regionale intervenga nella materia «politica estera» riservata allo Stato dall'art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., anziché in quella dei «rapporti internazionali e con l'Unione europea delle Regioni» ai sensi dell'art. 117, comma terzo, Cost., in relazione alla quale la potestà legislativa spetta alla Regione salvo che per la determinazione dei principî fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.

      La resistente sostiene altresì che non è condivisibile l'assunto secondo cui le iniziative di cooperazione allo sviluppo si esauriscano in quanto tali nell'ambito della politica estera nazionale e non possano, quindi, essere realizzate anche dalla Regione, nell'esercizio del potere estero ad essa riconosciuto dalla Costituzione e sulla base di una disciplina legislativa regionale rispettosa dei principî fondamentali stabiliti dal legislatore statale.

    In particolare, quanto all'art. 1, comma 1, della legge n. 49 del 1987, la Regione deduce che tale disposizione non mira a ricondurre la cooperazione allo sviluppo in un ambito materiale di esclusiva competenza statale, bensì a definire la politica estera nazionale come rivolta alla cooperazione allo sviluppo ed al perseguimento di obiettivi di solidarietà tra i popoli. Essa non esclude, quindi, che le Regioni possano legiferare in tema di cooperazione allo sviluppo: ciò sia nel vigore della originaria formulazione del titolo V della parte seconda della Costituzione (come dimostrato dalla legge regionale Valle d'Aosta n. 44 del 1990, vigente sino all'entrata in vigore della legge impugnata), sia nel novellato titolo V, che ha rafforzato le co mpetenze regionali nella materia in esame attraverso le previsioni contenute nei commi terzo e nono dell'art. 117.

    Dunque, secondo la resistente, é vero che la cooperazione allo sviluppo ricade anche nella "politica estera" nazionale, ma ciò non esclude che, alla luce del mutato quadro costituzionale, essa costituisca una delle modalità attraverso cui si può esprimere il potere estero delle Regioni e che queste ultime siano competenti a disciplinare, nel rispetto dei principî fondamentali stabiliti dallo Stato, forme di cooperazione allo sviluppo sostenute con proprie risorse. Possono, quindi, coesistere iniziative di cooperazione promosse e realizzate dallo Stato ed iniziative promosse e realizzate dalla Regione, purché la disciplina di queste ultime, concernendo rapporti internazionali, sia rispettosa dei principî fondamentali posti dal legislatore statale e degli indirizzi di politica estera nazionale. E, ad avviso d ella resistente, la legge impugnata è appunto coerente con i principî fondamentali ricavabili dalla legge n. 49 del 1987.

      Rispetto ai singoli articoli della legge impugnata oggetto di specifiche censure da parte del ricorrente, la Regione Valle d'Aosta deduce che tali specifiche doglianze assumono come riferimento una disciplina statale di dettaglio ormai incompatibile con il ruolo internazionale riconosciuto alle Regioni dall'art. 117, nono comma, Cost., e da ritenere cedevole rispetto alla sopravvenuta legge regionale adottata nell'esercizio della potestà concorrente spettante alle Regioni in materia di rapporti internazionali. Diversamente opinando (e ritenendo, quindi, che la Regione sia esclusa dalle scelte in ordine alle aree geografiche ed ai Paesi verso i quali rivolgere l a cooperazione, ai settori in cui attuare la cooperazione medesima ed agli strumenti di intervento), la Regione continuerebbe ad operare come mero soggetto attuativo, a livello periferico, di un'attività riservata esclusivamente allo Stato. Si disconoscerebbero, così, le competenze di rilievo internazionale attribuite dal novellato art. 117 Cost. alle Regioni e si determinerebbe un'immotivata compressione dell'autonomia regionale, riconoscendo al potere ministeriale un ruolo esorbitante rispetto a quello delineato nell'art. 6 della legge statale n. 131 del 2003, secondo la lettura che di tale disposizione ha dato la Corte costituzionale nella sentenza n. 238 del 2004.

      In particolare, alle censure svolte dal ricorrente contro l'art. 4 della legge regionale Valle d'Aosta n. 6 del 2007, concernente la tipologia degli interventi di cooperazione realizzati dalla Regione, la resistente replica che la funzione di promozione e coordinamento riconosciuta al ministro dall'art. 5 della legge n. 49 del 1987 si collega al ruolo meramente propositivo ed attuativo assegnato alle Regioni dall'art. 2, commi 4 e 5, della medesima legge. Tale disciplina statale si basa, cioè, sul presupposto che, nonostante il mutato quadro costituzionale di riferimento, le Regioni continuino ad operare nell'ambito della cooperazione allo sviluppo come delegate dello Stato e non come soggetti autonomi che interloquiscono direttamente con gli Stati esteri, vale a dire su un presupposto che, ad av viso della Regione, la Corte costituzionale, nella citata sentenza n. 238 del 2004, ha ritenuto incompatibile con le sopravvenute modifiche del titolo V della parte seconda della Costituzione.

    Infine, la Regione ribadisce, quanto agli artt. 4, comma secondo, 5, 6 e 9, che essi disciplinano aspetti estranei all'ambito materiale della «politica estera».

Considerato in diritto

      1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato la legge della Regione Valle d'Aosta 17 aprile 2007, n. 6 (Nuove disposizioni in materia di interventi regionali di cooperazione allo sviluppo e di solidarietà internazionale), e «in particolare - a titolo indicativo e non esaustivo -» gli artt. 2, 3, 4, 6 e 7 della predetta legge, per violazione degli artt. 117, secondo comma, lettera a), della Costituzione, e 2 e 3 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d'Aosta).

      Il rimettente sostiene che, con la legge regionale n. 6 del 2007, la Regione Valle d'Aosta ha legiferato nella materia della cooperazione allo sviluppo, attinente alla cooperazione internazionale quale parte integrante della politica estera dell'Italia e, dunque, in un campo di competenza esclusiva dello Stato.

    La Regione eccepisce l'inammissibilità del ricorso, poiché le censure sarebbero generiche in relazione alla complessità ed alla eterogeneità dei contenuti della legge impugnata; nel merito, deduce che la questione è infondata poiché la legge impugnata interviene nella materia dei «rapporti internazionali e con l'Unione europea delle Regioni» di cui all'art. 117, terzo comma, Cost., in relazione alla quale la potestà legislativa spetta alla Regione salvo che per la determinazione dei principî fondamentali, riservata alla legislazione dello Stato.

      2. - L'eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla Regione non è fondata.

      Essa si basa sull'assunto secondo cui la legge impugnata conterrebbe disposizioni dal contenuto eterogeneo, ma tale premessa non è corretta.

    Infatti la legge in questione contiene una disciplina unitaria di una serie di iniziative regionali tra loro affini ed il ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri non può essere ritenuto generico perché alcune di quelle iniziative potrebbero non essere riconducibili alla materia della «politica estera». Il thema decidendum sottoposto alla Corte è chiaro e delineato con precisione nell'atto introduttivo: si tratta di appurare se l'unitaria disciplina dettata dalla legge reg. Valle d'Aosta n. 6 del 2007 con riferimento agli interventi regionali da essa previsti invada o meno la competenza riservata allo Stato dall'art. 117, secondo comma, lettera a), della Costituzione. Il fatto, poi, che quelle attività, in tutto o in parte, non rientrino nella materia «politica estera» costituisce aspetto attinente al merito della questione e non alla sua ammissibilità.

    3. - Nel merito, le questioni sono in parte fondate.

    3.1. - Va premesso che l'impugnazione del Presidente del Consiglio dei ministri deve ritenersi circoscritta agli artt. 2, 3, 4, 6 e 7 della legge regionale n. 6 del 2007, perché nel ricorso sono formulate specifiche censure solamente rispetto a tali norme.

    3.2. - Questa Corte ha già affermato che sono lesive della competenza statale in materia di politica estera le norme regionali che prevedano, in capo alla Regione, il potere di determinazione degli obiettivi della cooperazione internazionale e degli interventi di emergenza ed il potere di individuazione dei destinatari dei benefici sulla base di criteri fissati dalla stessa Regione. Tali norme, infatti, implicando l'impiego diretto di risorse, umane e finanziarie, in progetti destinati a offrire vantaggi socio-economici alle popolazioni e agli Stati beneficiari ed entrando in tal modo nella materia della cooperazione internazionale, autorizzano e disciplinano attività di politica estera (sentenze n. 131 del 2008 e n. 211 del 2006).

    3.3. - La legge censurata determina in generale, nell'art. 2, i tre possibili ambiti di intervento della Regione («cooperazione internazionale con i Paesi in via di sviluppo e i Paesi in via di transizione»; «educazione, formazione e studio»; «emergenze straordinarie e di carattere umanitario») e, negli artt. 4, 5 e 6, definisce, rispettivamente, i caratteri di ciascuna delle tre predette categorie di iniziative.

    In particolare, l'art. 4 disciplina attività di cooperazione internazionale consistenti in progetti che richiedono un intervento, definito nel tempo e nelle risorse impiegate, volti al sostegno di azioni di autosviluppo sostenibile delle popolazioni destinatarie, finalizzati a ricercare la partecipazione attiva e diretta delle popolazioni medesime, allo scopo di valorizzarne le risorse umane, culturali e materiali; ovvero consistenti in programmi che richiedono un intervento complesso e protratto nel tempo che sono volti alla realizzazione di azioni di cooperazione o di iniziative di partenariato territoriale tra le comunità destinatarie e la comunità valdostana oppure sono diretti all'assistenza alle istituzioni pubbliche locali dei Paesi destinatari, al fine di contribuire allo sviluppo delle capacità amm inistrative e gestionali locali.

    Tali iniziative rientrano evidentemente nella materia della politica estera di cui all'art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., così come definita dalle sentenze n. 211 del 2006 e n. 131 del 2008.

    3.4. - L'art. 6 della legge reg. Valle d'Aosta n. 6 del 2007 prevede, a sua volta, attività straordinarie di emergenza e di carattere umanitario. La norma stabilisce che, in quest'ambito, la Regione può sia attuare iniziative proprie ai sensi della legge reg. Valle d'Aosta 18 gennaio 2001, n. 5 (Organizzazione delle attività regionali di protezione civile), sia aderire ad iniziative promosse a livello statale o internazionale.

    Circa la prima categoria di iniziative, la disposizione impugnata, mediante il richiamo alla legge reg. n. 5 del 2001, abilita la Regione Valle d'Aosta a promuovere ed attuare nel territorio di Stati esteri le attività di protezione civile previste dalla predetta legge regionale.

    Anche tale disposizione invade la sfera di competenza statale di cui all'art. 117, secondo comma, lettera a), della Costituzione.

    Questa Corte, con riferimento ad analoghe iniziative previste dall'art. 6 della legge reg. Calabria 10 gennaio 2007, n. 4 (Cooperazione e relazioni internazionali della Regione Calabria), ha affermato che «rientrano [.] nella politica estera dello Stato, come iniziative di cooperazione, sia la fornitura di materiali di prima necessità e attrezzature alle popolazioni colpite, implicando delle scelte nella individuazione delle popolazioni da aiutare (si pensi al conflitto armato tra due Stati); sia la collaborazione tecnica, anche mediante l'invio di personale regionale, ed eventuale coordinamento delle risorse umane messe a disposizione da associazioni, istituti, Enti pubblici o privati, che presuppone la scelta delle aree geografiche e delle popolazioni cui offrire la collaborazione tecnica; sia il sostegno a Enti che operano per finalità di cooperazione umanitaria e di emergenza; sia, infine, la raccolta e la costituzione di fondi, con la promozione di pubbliche sottoscrizioni di denaro da far affluire su apposito capitolo di bilancio per interventi a favore delle popolazioni colpite da emergenze» (sentenza n. 131 del 2008).

    Identica natura hanno le attività di protezione civile disciplinate dall'art. 6 della legge impugnata, le quali, secondo quanto stabilito dal comma 1 dello stesso art. 6, sono finalizzate «a fronteggiare situazioni eccezionali causate da calamità naturali, conflitti armati e processi di pacificazione, situazioni di denutrizione o gravi carenze igienico-sanitarie» e, pertanto, attribuiscono alla Regione una larga autonomia nell'individuazione dei Paesi beneficiari e nella definizione delle iniziative da attuare.

    Passando agli interventi stabiliti dalla Regione Valle d'Aosta in adesione ad attività di protezione civile o di soccorso ed assistenza promosse a livello statale, il comma 3 dell'art. 6 della legge reg. Valle d'Aosta n. 6 del 2007 dispone che restano di competenza regionale le scelte in ordine alle modalità di attuazione (ad esempio, la scelta dei soggetti destinati ad eseguire concretamente l'intervento, oppure quella del contributo concreto da offrire).

    Questo, sia pur limitato, ambito di autonomia attribuito alla Regione invade la sfera che l'art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., riserva allo Stato, poiché attengono alla politica estera non solamente la decisione circa l'attuazione o meno di un intervento a favore di un Paese ed il tipo di iniziativa da adottare, ma anche l'individuazione delle concrete modalità di attuazione di una determinata iniziativa in favore di uno Stato estero.

    L'art. 6 della legge regionale Valle d'Aosta n. 6 del 2007 prevede, infine, che la Regione possa aderire ad iniziative promosse «a livello internazionale». Anche tale previsione è costituzionalmente illegittima.

    Infatti, la circostanza per la quale l'iniziativa di cui di volta in volta si tratti sia stata promossa da singoli Stati esteri ovvero da organizzazioni internazionali non esclude affatto il rischio che essa sia in contrasto con la politica estera dello Stato italiano, il quale ben può avere obiettivi diversi da quelli perseguiti da quegli altri Stati o da quelle organizzazioni internazionali.

    In conclusione, l'art. 6 è integralmente illegittimo, poiché tutte le iniziative da esso disciplinate (sia quelle proprie della Regione, sia quelle attuate in adesione di interventi statali o internazionali) invadono la competenza statale in materia di politica estera.

    3.5. - Dall'illegittimità degli artt. 4 e 6, discende automaticamente quella dell'art. 2, comma 2, della legge censurata, limitatamente alle lettere a) e c), le quali prevedono, in generale, rispettivamente, le iniziative di cooperazione internazionale con i Paesi in via di sviluppo e con i Paesi in via di transizione (disciplinate specificatamente dall'art. 4) e quelle in caso di emergenze straordinarie e di carattere umanitario (disciplinate specificatamente dall'art. 6).

    3.6. - L'illegittimità costituzionale degli artt. 2, comma 2, lettere a) e c), 4 e 6 della legge regionale Valle d'Aosta n. 6 del 2007 non è esclusa per il fatto che l'art. 1, comma 2, della stessa legge regionale stabilisca che le iniziative sono promosse ed attuate dalla Regione «nell'ambito delle proprie competenze e nel rispetto degli indirizzi di politica estera dello Stato». Infatti - come già affermato dalle sentenze n. 131 del 2008 e n. 211 del 2006 con riferimento a disposizioni di analogo tenore contenute in altre leggi regionali - una simile clausola non è idonea a salvaguardare le prerogative dello Stato in materia di politica estera.

    La sentenza n. 211 del 2006 ha chiarito, poi, che l'art. 6 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), lungi dal porsi in contrasto con la riserva esclusiva di competenza statale in materia di politica estera, detta, proprio sul presupposto della inderogabilità della ripartizione delle competenze legislative di cui al titolo V della parte seconda della Costituzione, specifiche e particolari cautele per lo svolgimento concreto della sola condotta internazionale delle Regioni.

    Inoltre non costituisce un argomento a favore della legittimità della legge impugnata il fatto che la Regione Valle d'Aosta abbia già a suo tempo emanato una legge in materia e, precisamente, la legge della Regione Valle d'Aosta 9 luglio 1990, n. 44 (Interventi regionali di cooperazione e solidarietà con i Paesi in via di sviluppo).

    In realtà la disciplina dettata da quella legge (poi abrogata dall'art. 10 della legge regionale Valle d'Aosta n. 6 del 2007), si collocava nell'ambito di quanto previsto dalla legge statale n. 49 del 1987. Essa, infatti, riguardava l'attività propositiva della Regione di cui all'art. 2 della menzionata legge statale (oltre alla attività di formazione, informazione ed educazione da svolgere sul territorio regionale).

    Infine, irrilevante è il fatto che già l'art. 5, comma 1, lettera a), della legge della Regione Valle d'Aosta 16 marzo 2006, n. 8 (Disposizioni in materia di attività e relazioni europee e internazionali della Regione autonoma Valle d'Aosta), non impugnato dallo Stato, dispone che la Giunta regionale provvede, tra l'altro, alla realizzazione di iniziative nel settore «cooperazione allo sviluppo, solidarietà internazionale e aiuto umanitario».

    Invero, secondo tale norma, le iniziative in questione sono realizzate «nell'ambito delle attività di rilievo internazionale ed europeo di cui all'articolo 2» e quest'ultimo, a sua volta, stabilisce che la Regione opera «nell'esercizio delle attività di rilievo internazionale nelle materie di sua competenza». Le disposizioni della legge regionale Valle d'Aosta n. 8 del 2006, dunque, riguardano in generale attività di rilievo internazionale della Regione nelle materie di competenza della Regione medesima e non anche in quelle, come appunto la politica estera, che tali non sono.

    3.7. - Le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3 e 7 della legge regionale Valle d'Aosta n. 6 del 2007 non sono fondate perché si riferiscono a disposizioni non lesive della competenza statale in materia di politica estera.

    Infatti, venuta meno, a seguito della dichiarazione dell'illegittimità costituzionale degli artt. 2, comma 2, lettere a) e c), 4 e 6, la possibilità per la Regione di promuovere ed attuare autonomamente interventi di cooperazione allo sviluppo e di solidarietà internazione, l'art. 3 - che definisce i «soggetti della cooperazione allo sviluppo e della solidarietà internazionale» - si può applicare solamente al fine di individuare i soggetti che attuano le iniziative di educazione, formazione e studio di cui all'art. 5 (norma non impugnata e concernente attività da svolgere nell'ambito del territorio regionale e dirette alla comunità regionale).

    Analoghe considerazioni valgono per l'art. 7 disciplinante la programmazione: se l'attività consentita dalla legge è solamente quella di educazione, formazione e studio, la predetta programmazione può avere ad oggetto solo tale attività.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara l'illegittimità costituzionale degli artt. 2, comma 2, lettere a) e c), 4 e 5 della legge della Regione Valle d'Aosta 17 aprile 2007, n. 6 (Nuove disposizioni in materia di interventi regionali di cooperazione allo sviluppo e di solidarietà internazionale);

    dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3 e 7 della legge della Regione Valle d'Aosta n. 6 del 2007, promosse, in riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera a), della Costituzione, e 2 e 3 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d'Aosta), dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
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SENTENZA N. 286

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-     Franco            BILE         Presidente

-     Giovanni Maria    FLICK          Giudice

-     Francesco         AMIRANTE          "

-     Ugo               DE SIERVO         "

-     Paolo             MADDALENA         "

-     Alfio             FINOCCHIARO       "

-     Alfonso           QUARANTA          "

-     Franco            GALLO             "

-     Luigi             MAZZELLA          "

-     Gaetano           SILVESTRI         "

-     Sabino            CASSESE           "

-     Maria Rita        SAULLE            "

-     Giuseppe          TESAURO           "

-     Paolo Maria       NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, della legge 9 dicembre 1941, n. 1383 (Militarizzazione del personale civile e salariato in servizio presso la Regia guardia di finanza e disposizioni penali per i militari del suddetto Corpo), e dell'art. 215 del codice penale militare di pace, promosso con ordinanza dell'11 ottobre 2007 dal Giudice della udienza preliminare del Tribunale dei Termini Imerese nel procedimento penale a carico di Antonino De Fecondo, iscritta al n. 16 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell'anno 2008.

      Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio dell'11 giugno 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella.

Ritenuto in fatto

    Con ordinanza dell'11 ottobre 2007, il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Termini Imerese ha sollevato, con riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 della legge 9 dicembre 1941, n. 1383 (Militarizzazione del personale civile e salariato in servizio presso la Regia guardia di finanza e disposizioni penali per i militari del suddetto Corpo), nella parte in cui, dopo avere previsto che il militare della Guardia di Finanza il quale «si appropria o comunque distrae, a profitto proprio o di altri, valori o generi di cui egli, per ragioni del suo ufficio o servizio, abbia l'amministrazione o la cust odia o su cui esercita la sorveglianza, soggiace alle pene stabilite dagli articoli 215 e 219 del codice penale militare di pace», non prevede che «tale disposizione non si applica quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, è stata immediatamente restituita»; e, sempre con riferimento all'art. 3 della Costituzione, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 215 cod. pen. mil. pace nella parte in cui non prevede che «tale disposizione non si applica quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, è stata immediatamente restituita».

    Il rimettente riferisce che, nel corso dell'udienza preliminare celebrata nei confronti di D.F.A., imputato «del delitto p.p. dagli artt. 81 cpv. e 314 cod. pen. perché [...] avendo, per ragioni del suo ufficio, la disponibilità di un'autovettura di servizio e del relativo autista, li utilizzava per fini privati», la difesa dell'imputato ha contestato la qualificazione giuridica effettuata dal pubblico ministero e, ritenendo applicabile alla fattispecie la disposizione di cui all'art. 3 della legge n. 1383 del 1941, ha eccepito il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, affermando che la predetta disposizione determina la devoluzione della cognizione relativa ai reati da essa previsti alla giurisdizione militare. </ FONT>

    Secondo il rimettente, mentre l'illegittimo uso personale delle autovetture di servizio è inquadrabile, per la particolare qualifica soggettiva dell'agente, nella speciale previsione dettata dall'art. 3 della legge n. 1383 del 1941, il cui primo comma stabilisce: «Il militare della guardia di finanza che commette una violazione delle leggi finanziare, costituente delitto, o collude con estranei per frodare la finanza, oppure si appropria o comunque distrae, a profitto proprio o di altri, valori o generi di cui egli, per ragioni del suo ufficio o servizio, abbia l'amministrazione o la custodia o su cui eserciti la sorveglianza, soggiace alle pene stabilite dagli articoli 215 e 219 del Codice penale militare di pace, ferme le sanzioni pecuniarie delle leggi speciali»; la condotta del pubblico ufficiale che ut ilizza a fini privati le prestazioni lavorative di un pubblico dipendente, distogliendolo dalle mansioni istituzionali, deve essere ricondotta, allorché ricorrano gli ulteriori presupposti previsti dalla legge, alla fattispecie di abuso d'ufficio di cui all'art. 323 codice penale, non essendo concepibile l'appropriarsi di una persona o della sua energia lavorativa.

    In conclusione, la fattispecie sottoposta all'esame del Tribunale siciliano integrerebbe il concorso formale di due reati: con riferimento all'uso dell'autovettura, il reato di «peculato del militare della Guardia di Finanza» previsto dall'art. 3 della legge n. 1383 del 1941 e, «mancando questo», il reato di peculato militare previsto dall'art. 215 cod. pen. mil. pace; con riferimento all'impiego dell'autista, il reato di abuso d'ufficio previsto dall'art. 323 del codice penale.

    Ciò, prosegue il rimettente, determinerebbe un'ipotesi di connessione ai sensi dell'art. 12, lettera b), del codice di rito e, poiché i due reati rientrano nella giurisdizione di giudici diversi, e poiché il reato di abuso d'ufficio, previsto dall'art. 323 cod. pen., sarebbe meno grave di quello di «peculato del militare della Guardia di Finanza» previsto dall'art. 3 della legge n. 1383 del 1941 (come anche di quello previsto dall'art. 215 cod. pen. mil. pace), il Tribunale dovrebbe pronunciare il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, ai sensi dell'art. 20 cod. proc. pen., in relazione al contestato utilizzo dell'autovettura, proseguendo il giudizio limitatamente all'impiego dell'autista.

    Lo stesso Tribunale, però, mette in dubbio la legittimità costituzionale sia dell'art. 3 della legge n. 1383 del 1941, relativo al peculato militare degli appartenenti alla Guardia di finanza, che dell'art. 215 del codice penale militare di pace, che definisce la fattispecie del «peculato militare» tout court, per la disparità di trattamento che la disciplina del peculato d'uso contenuta nei predetti articoli presenterebbe rispetto a quella dettata in ambito di reati comuni, laddove l'art. 314 cod. pen. è stato integralmente riformulato dall'art. 1 della legge 26 aprile 1990, n. 86, contenente modifiche in tema dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione.

    In seguito a tale intervento riformatore infatti, accanto al peculato vero e proprio, caratterizzato dall'appropriazione definitiva del bene, è stata introdotta la fattispecie del peculato cosiddetto d'uso, che si ha quando «il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, è stata immediatamente restituita», sottoponendola alla ben più mite pena della reclusione da sei mesi a tre anni. A seguito della riforma, invece, è scomparsa la figura del peculato per distrazione, il che non ha però determinato la totale depenalizzazione delle relative condotte, dato che una parte di esse è confluita nella nuova fattispecie di abuso d'ufficio prevista dall'art. 323 del codice penale.

    L'intervento riformatore operato con la legge n. 86 del 1990, sottolinea ancora il rimettente, non ha interessato la figura del «peculato militare» prevista dall'art. 215 cod. pen. mil. pace né quella del «peculato del militare della Guardia di Finanza» prevista dall'art. 3 della legge n. 1383 del 1941.

    Ciò determina, secondo il Tribunale, una diversità di trattamento tra militari e non militari in materia di peculato, dato che mentre le condotte di appropriazione momentanea commesse da pubblici ufficiali non militari sono soggette ad un trattamento sanzionatorio più mite di quello previsto per le condotte di appropriazione definitiva, le condotte di appropriazione momentanea commesse da militari e, in particolare, da militari appartenenti alla Guardia di Finanza, sono soggette allo stesso trattamento sanzionatorio previsto per le condotte di appropriazione definitiva. Tale disparità di trattamento appare al Tribunale priva di razionale giustificazione e, pertanto, in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione.

    Al riguardo, ricorda il rimettente, la stessa Corte costituzionale, nella sentenza n. 473 del 1990 - pur pervenendo nella specie ad una declaratoria di inammissibilità della questione posta dal giudice a quo - rilevava che non è «conforme a razionalità che, riformando il peculato comune così come si è visto più sopra, analoga modifica non sia stata apportata a quello militare».

    Infine, ricorda il rimettente, con la sentenza n. 448 del 1991, la Corte costituzionale ha dichiarato 1'illegittimità costituzionale dell'art. 215 cod. pen. mil. pace limitatamente alle parole «ovvero lo distrae a profitto proprio o di altri», così equiparando il trattamento delle condotte distrattive poste in essere dal militare alle analoghe condotte poste in essere dal pubblico ufficiale non militare.

    Secondo il Tribunale di Termini Imerese, le considerazioni svolte dalla Corte dovrebbero estendersi, da un lato, alla fattispecie di «peculato del militare della Guardia di Finanza» prevista dall'art. 3 della legge n. 1383 del 1941; dall'altro, alle condotte appropriative contrassegnate da un uso momentaneo della cosa cui segue la restituzione della stessa.

    Quanto al primo aspetto, la struttura di detta fattispecie, con particolare riferimento alla natura del bene protetto ed alla condotta tipica, non è diversa da quella del peculato comune oggi prevista dall'art. 314 cod. pen. e da quella del peculato militare di cui all'art. 215 cod. pen. mil. pace, prima che queste ultime fossero modificate per effetto, rispettivamente, dell'art. 1 della legge n. 86 del 1990 e della sentenza n. 448 del 1991 della Corte costituzionale.

    Inoltre, prosegue il rimettente, va considerato che l'art. 3 della legge n. 1383 del 1941, limitandosi quoad poenam a rinviare all'art. 215 cod. pen. mil. pace, prevede una pena meno grave di quella che era prevista dall'art. 314 cod. pen. prima dell'intervento riformatore operato con l'art. 1 della legge n. 86 del 1990 e che oggi è prevista dal primo comma del riformato art. 314. Di conseguenza, anche per il «peculato del militare della Guardia di Finanzia» deve escludersi, secondo il rimettente, che nell'appartenenza dell'agente e dell'oggetto materiale della condotta al Corpo della Guardia di Finanza possa rinvenirsi una valutazione della fattispecie speciale qui considerata in termini di maggiore gravità rispetto alla fattispecie comune di peculato.

    Alla luce dell'evidenziata identità sostanziale tra le fattispecie, così come la mancata estensione delle modifiche apportate al peculato comune dall'art. 1 della legge n. 86 del 1990 al «peculato militare» in genere ed al «peculato del militare della Guardia di Finanza in particolare» appare irrazionale ed ingiustificata in relazione alle condotte distrattive, allo stesso modo e per le stesse ragioni essa appare al rimettente irrazionale ed ingiustificata anche in relazione alle condotte appropriative caratterizzate dall'uso solo momentaneo della cosa, seguito dall'immediata restituzione della stessa.

    Per eliminare l'evidenziata disparità e ripristinare l'uniformità di trattamento tra il militare della Guardia di Finanza ed il pubblico ufficiale non militare, pertanto, secondo il Tribunale rimettente sarebbe necessario dichiarare l'illegittimità costituzionale, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione, nei termini sopra evidenziati, non solo dell'art. 3 della legge n. 1383 del 1941, ma anche dell'art. 215 cod. pen. mil. pace, visto che la condotta di appropriazione caratterizzata dall'uso momentaneo della cosa posta in essere dal militare della Guardia di Finanza, in assenza dell'art. 3 della legge n. 1383 del 1941, sarebbe comunque attratta nella previsione di cui all'art. 215 cod. pen. mil. pace, così come esso è ancora oggi vigente dopo la dichiarazione di parziale incostituzionalità operata con la sentenza n. 448 del 1991 della Corte costituzionale.

    In via subordinata, nell'ipotesi in cui la Corte ritenesse che l'uso momentaneo per fini privati della cosa di cui si dispone per ragioni d'ufficio costituisca una condotta distrattiva e non appropriativa, secondo il rimettente sarebbe sufficiente dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 3 della legge n. 1383 del 1941, limitatamente alle parole «o comunque distrae, a profitto proprio o di altri».

    L'eventuale accoglimento della questione, secondo il Tribunale di Termini Imerese, determinerebbe, per effetto della disposizione dell'art. 16 cod. pen., l'applicazione delle norme del codice penale comune. Sottraendo l'appropriazione momentanea di cose di cui il militare della Guardia di Finanza dispone per ragioni di servizio alla disciplina dell'art. 3 della legge n. 1383 del 1941 e, gradatamente, dell'art. 215 cod. pen. mil. pace, nonché alla giurisdizione del giudice militare, per ricondurla alla disciplina, più favorevole, dell'art. 314, secondo comma, cod. pen. (ed alla giurisdizione del giudice ordinario), si eliminerebbe l'evidenziata ed ingiustificabile disparità di trattamento.

    Con memoria depositata in data 25 febbraio 2008, interveniva nel giudizio di costituzionalità la Presidenza del Consiglio dei ministri, con il patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato, e chiedeva che la questione fosse dichiarata inammissibile per manifesta infondatezza, per l'omesso tentativo da parte del rimettente di offrire una lettura adeguatrice della norma censurata.

Considerato in diritto

    1.- Il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Termini Imerese dubita, con riferimento all'art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 3 della legge 9 dicembre 1941, n. 1383 (Militarizzazione del personale civile e salariato in servizio presso la Regia guardia di finanza e disposizioni penali per i militari del suddetto Corpo) nella parte in cui, dopo avere previsto che il militare della Guardia di Finanza il quale «si appropria o comunque distrae, a profitto proprio o di altri, valori o generi di cui egli, per ragioni del suo ufficio o servizio, abbia l'amministrazione o la custodia o su cui esercita la sorveglianza, soggiace al le pene stabilite dagli articoli 215 e 219 del codice penale militare di pace», non prevede che «tale disposizione non si applica quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, è stata immediatamente restituita».

    Il rimettente dubita, inoltre, sempre con riferimento all'art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 215 del codice penale militare di pace nella parte in cui non prevede che «tale disposizione non si applica quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa, e questa, dopo l'uso momentaneo, è stata immediatamente restituita».

    Egli ritiene infatti che, considerando la natura appropriativa della condotta di chi abbia agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa e l'abbia poi restituita, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 3 della legge n. 1383 del 1941, nella parte in cui si riferisce a tale fattispecie, comporterebbe l'attrazione di essa nell'ambito di applicazione dell'art. 215 cod. pen. mil. pace, così come ancora oggi vigente a seguito della dichiarazione di parziale incostituzionalità operata con la sentenza n. 448 del 1991 di questa Corte.

    2.- In origine, in entrambi gli ordinamenti penali, quello militare e quello comune, le norme incriminatici del peculato abbracciavano tanto le ipotesi di peculato appropriativo vero e proprio, quanto le ipotesi del peculato per distrazione - ossia quelle caratterizzate dalla utilizzazione della cosa da parte dell'agente in modo difforme dalle finalità per le quali era stata affidata alla sua disponibilità -, sia infine le ipotesi di peculato d'uso, caratterizzate dalla temporanea utilizzazione della cosa da parte dell'agente e dalla sua immediata restituzione. La riforma dei reati contro la pubblica amministrazione, introdotta dalla legge 26 aprile 1990, n. 86 (Modifiche in tema di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica ammin istrazione), nel ridisegnare la disciplina del peculato comune senza apportare le stesse modifiche alla disciplina del peculato militare, ha determinato una alterazione dell'originario equilibrio, realizzando un'oggettiva disparità di trattamento tra le due tipologie di reati, la cui disciplina era in precedenza sostanzialmente omogenea.

    Per effetto della legge, infatti, le ipotesi di peculato comune per distrazione sono state espunte dalla sfera di applicazione dell'art. 314 cod. pen., con conseguente parziale riconduzione delle stesse nell'alveo della norma di cui all'art. 323 cod. pen. Contestualmente, è stata attribuita autonoma rilevanza penale al peculato d'uso, disciplinato ora nel secondo comma dell'art. 314 cod. pen., che per tale condotta commina la pena, sensibilmente più mite rispetto a quella prevista per le ipotesi di peculato di cui al primo comma, della reclusione da sei mesi a tre anni.

    In tal modo, in ambito di diritto comune, si è riconosciuto un più benevolo trattamento sanzionatorio ad una condotta appropriativa che, per il suo carattere temporaneo, è caratterizzata da un minore grado di offensività rispetto alle ipotesi di appropriazione definitiva. Un'analoga differenziazione non è stata riprodotta nell'ambito dei reati militari oggetto delle odierne censure, per i quali la pena comminata, per tutte le forme di peculato, continua ad essere quella unica della reclusione da due a dieci anni.

    Questa Corte, pur senza intervenire sulle norme censurate, per effetto dell'inammissibilità delle questioni sollevate, ha avuto modo più volte di sottolineare la mancanza di ragioni giustificative di una disparità di trattamento, a causa dell'insussistenza di significativi elementi di differenziazione tra il peculato militare, disciplinato dall'art. 215 cod. pen. mil. pace, e il peculato comune.

    Con la sentenza n. 4 del 1974 ha affermato che tra i due delitti di peculato sopra indicati sussiste una sostanziale identità, riscontrabile nello stesso testo dei rispettivi articoli, avendo essi in comune l'elemento materiale e l'elemento psicologico ed identici essendo sia il loro contenuto (in entrambi offensivo dello stesso bene che si è voluto proteggere: denaro o cose mobili appartenenti allo Stato), sia l'azione tipica delle due azioni criminose (concretantesi nell'appropriazione o distrazione di beni da parte di soggetti attivi aventi una specifica qualifica).

    La successiva sentenza n. 473 del 1990 è intervenuta su una questione di costituzionalità riguardante lo stesso art. 215 cod. pen. mil. pace, con la quale il rimettente, censurando l'intera disciplina sanzionatoria dettata da tale norma, aveva sollecitato l'estensione al peculato militare della pena comminata per il peculato comune. In tale occasione questa Corte ha ribadito la sostanziale omogeneità tra le due fattispecie di peculato, militare e comune, evidenziando la mancanza di peculiarità attinenti alle specifiche esigenze dell'amministrazione militare tali da giustificare la persistente disparità di trattamento. La questione venne tuttavia dichiarata inammissibile, perché l'intervento richiesto in quella circostanza avrebbe determinato una reformatio in peius del peculato militare per le fattispecie diverse da quelle di uso temporaneo, visto che la pena dettata dall'art. 314 cod. pen. è superiore nel minimo rispetto a quella dettata dall'art. 215 cod. pen. mil. pace e avrebbe, inoltre, comportato una grave manipolazione della norma.

    Con sentenza n. 448 del 1991, questa Corte, investita della questione di legittimità dell'art. 215 cod. pen. mil. pace, nella parte in cui si riferiva al peculato per distrazione, ne ha dichiarato l'illegittimità parziale, in tal modo sottraendo le condotte distrattive dal raggio di applicazione dell'art. 215 e determinando, in forza del disposto dell'art. 16 cod. pen., l'automatica sussunzione delle condotte medesime nell'ambito del diritto penale comune, con conseguente attribuzione di quelle fattispecie alla giurisdizione ordinaria.

    Gli ostacoli che hanno impedito a questa Corte di intervenire nel 1990 sulla citata norma del codice penale militare di pace non insorgono nel caso in esame.

    In primo luogo, perché le norme incriminatrici sono censurate solo nella parte in cui si riferiscono al peculato d'uso. Non è ipotizzabile in conseguenza alcun effetto di reformatio in peius.

    In secondo luogo, perché la pronuncia invocata dall'odierno rimettente non tende, inammissibilmente, ad ottenere la trasposizione di una sanzione dalla norma incriminatrice di diritto comune, indicata come tertium comparationis, alle due norme applicabili nell'ambito militare, ma mira alla caducazione parziale di due norme incriminatrici speciali.

    Entrambe le questioni sono rilevanti per la decisione del giudizio a quo.

    La prima questione riguarda la norma incriminatrice delle condotte di peculato della Guardia di Finanza, immediatamente applicabile al giudizio a quo in forza del principio di specialità. La rimozione di tale norma determinerebbe l'inquadramento della fattispecie nell'ambito della previsione generale dell'art. 215 cod. pen. mil. pace, riguardante il peculato militare. Secondo l'interpretazione non implausibile adottata dal rimettente, infatti, con la citata sentenza n. 448 del 1991, relativa al peculato militare per distrazione, questa Corte non avrebbe determinato l'eliminazione del peculato d'uso dalla sfera di operatività della norma, in quanto la condotta tipica di tale ultima figura di reato non sarebbe caratterizzata dalla mera distrazione della cosa dalle fi nalità per le quali era stata affidata alla disponibilità dell'agente, ma da una vera e propria appropriazione, sia pur temporanea, della stessa. Pertanto, solo la declaratoria di incostituzionalità di entrambe le norme censurate determinerebbe l'invocata applicazione alla fattispecie del più mite trattamento sanzionatorio di cui all'art. 314, cpv., cod. pen. e la conseguente devoluzione della cognizione del reato alla giurisdizione del giudice ordinario.

    3.- Nel merito, le sollevate questioni di costituzionalità sono fondate.

    Le due norme censurate si riferiscono al peculato d'uso militare e assoggettano tale reato alla stessa pena dettata per il peculato (reclusione da due a dieci anni). La disparità di trattamento rispetto alla disciplina dettata, dopo la legge n. 86 del 1990, per il peculato d'uso comune, di cui all'art. 314, secondo comma, cod. pen., è evidente, perché la riforma ha attribuito a tale condotta autonoma rilevanza penale e l'ha assoggettata a una pena sensibilmente più mite (reclusione da sei mesi a tre anni).

    Come già evidenziato da questa Corte nelle sentenze emesse in relazione al reato di cui all'art. 215 cod. pen. mil. pace, ma riferibili, per effetto della loro motivazione, anche al peculato commesso da agente della Guardia di finanza, la descritta disparità di trattamento deve ritenersi priva di ragionevolezza. Le situazioni regolate dalle normative a raffronto, infatti, sono in tutto simili, differenziandosi tra loro unicamente per la qualifica soggettiva del colpevole, ossia l'appartenenza dello stesso all'amministrazione militare.

    Orbene, quanto a quest'ultima condizione, non risulta che essa inerisca alle rationes delle norme incriminatici speciali. Non sussistono, cioè, peculiarità relative alle specifiche esigenze dell'amministrazione militare, in grado di giustificare un maggior rigore nel trattamento sanzionatorio del peculato d'uso commesso in ambito militare rispetto all'analoga condotta commessa in altri rami della pubblica amministrazione.

    Pertanto, le norme censurate, nel comminare un'unica sanzione penale per tutte le forme di peculato, senza attribuire un autonomo rilievo alla fattispecie del peculato d'uso, che anche in ambito militare presenta, rispetto al peculato vero e proprio, un grado di offensività sensibilmente minore, devono considerarsi entrambe lesive del principio di uguaglianza, di cui all'art. 3 della Costituzione.

    Per armonizzare la disciplina del peculato d'uso militare rispetto a quello comune è dunque necessario dichiarare l'illegittimità delle norme censurate nella parte in cui si riferiscono anche al peculato d'uso, secondo la definizione che di tale autonomo reato dà l'art. 314, secondo comma, cod. pen.

    La sottrazione di autonoma condotta di reato dal raggio di applicazione delle norme speciali censurate e dalla indifferenziata disciplina sanzionatoria delle diverse forme di peculato da esse dettata determina, in forza del principio di cui all'art. 16 cod. pen., l'attrazione della stessa condotta nell'ambito di applicazione della norma incriminatrice generale di cui all'art. 314, secondo comma, cod. pen., con conseguente eliminazione dell'irragionevole disparità di trattamento.

    Ogni altra censura resta assorbita.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 3 della legge 9 dicembre 1941, n. 1383, nella parte in cui si riferisce al militare della Guardia di finanza che abbia agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa e, dopo l'uso momentaneo, l'abbia immediatamente restituita;

    dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 215 del codice penale militare di pace nella parte in cui si riferisce anche al militare che abbia agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa e, dopo l'uso momentaneo, l'abbia immediatamente restituita.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


SENTENZA N. 287

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE       Presidente

- Giovanni Maria  FLICK        Giudice

- Francesco       AMIRANTE        "

- Ugo               DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA       "

- Alfio           FINOCCHIARO     "

- Alfonso         QUARANTA        "

- Franco          GALLO           "

- Luigi           MAZZELLA        "

- Gaetano         SILVESTRI       "

- Sabino          CASSESE         "

- Maria Rita      SAULLE          "

- Giuseppe        TESAURO         "

- Paolo Maria     NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

    SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 131, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), promosso con ordinanza dell' 8 gennaio 2007 dal Tribunale di Trapani sul ricorso proposto da D.G.B., iscritta al n. 768 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell'anno 2007.

      Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

      udito nella camera di consiglio del 21 maggio 2008 il Giudice relatore Maria Rita Saulle.

Ritenuto in fatto

    1. - Il Tribunale di Trapani, nel corso di un procedimento per l'autorizzazione al trattamento medico chirurgico disciplinato dalla legge 14 aprile 1982, n. 164 (Norme in materia di rettificazione di attribuzione di sesso), con ordinanza emessa il 20 dicembre 2006, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 131, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzi one.

    Il rimettente, dopo aver premesso che il ricorrente nel giudizio principale è stato ammesso al patrocinio a spese dello Stato, riferisce che nel corso del procedimento il nominato consulente tecnico d'ufficio, unitamente al deposito dell'elaborato da lui redatto, ha formulato istanza di liquidazione dei propri onorari chiedendo che gli stessi siano posti a carico dell'erario.

    Sulla base di tali premesse il giudice a quo osserva che la disposizione censurata, nel sostituire l'art. 11, n. 3), del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 3282 (Approvazione del testo di legge sul gratuito patrocinio), consente ancor oggi che la prestazione del consulente tecnico d'ufficio sia gratuita nei casi in cui risulti preclusa la possibilità di recuperare l'onorario dal soccombente, ove questi sia la stessa parte ammessa al gratuito patrocinio, o nel caso in cui la consulenza venga disposta in un procedimento rientrante nella cosiddetta volontaria giurisdizione.

    In particolare, il Tribunale di Trapani ritiene che l'art. 131, comma 3, del d.P.R. n. 115 del 2002, nell'escludere che l'ausiliario del giudice possa ottenere l'anticipazione del proprio compenso a carico dell'erario, determina una irragionevole disparità di trattamento «rispetto ad altri operatori professionali chiamati a spendere la propria opera nell'ambito di procedimenti giurisdizionali, i compensi dei quali, in caso di ammissione al gratuito patrocinio, sono posti a carico dell'erario». A tal uopo, il rimettente richiama gli artt. 107, lettere f) e d), e 131, comma 4, lettera a), del d.P.R. n. 115 del 2002, i quali prevedono p er il difensore nei giudizi penali e civili, nonché per gli ausiliari del magistrato nell'ambito del processo penale, l'anticipazione a carico dello Stato dei relativi onorari; disciplina, quest'ultima, estesa anche al curatore fallimentare per effetto della sentenza n. 174 del 2006 della Corte costituzionale che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 146, comma 3, del d.P.R. n. 115 del 2002.

    Il giudice a quo, poi, nel richiamare l'ordinanza n. 355 del 2000, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità di analoga questione riferita all'art. 11, numeri 3, e 4, del r.d. 30 dicembre 1923, n. 3282, ritiene che tale pronuncia debba essere «rivisitata alla luce del mutato quadro normativo», ove la generalizzata applicazione del regime del patrocinio a spese dello Stato configura un sistema nel quale l'accesso dei non abbienti al servizio giustizia è tendenzialmente garantito per mezzo dell'intervento finanziario dello Stato.

    Quanto alla rilevanza della sollevata questione, il rimettente evidenzia di dover provvedere in ordine alla richiesta di liquidazione del compenso del nominato consulente tecnico d'ufficio.

    2. - E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

    In via preliminare, la difesa erariale osserva che il rimettente ha omesso di verificare la possibilità di pervenire ad una interpretazione conforme a Costituzione della disposizione censurata chiedendo, peraltro, alla Corte costituzionale un intervento manipolativo estraneo ai suoi poteri.

    La richiesta di adottare, anche per l'ausiliario del magistrato in materia civile, il procedimento di liquidazione degli onorari previsto per il difensore o l'ausiliario del giudice in materia penale comporterebbe, infatti, l'adozione da parte della Corte costituzionale di una pronuncia che andrebbe ad invadere la discrezionalità del legislatore.

    Nel merito, a parere della difesa erariale, la questione sarebbe infondata, in quanto gli artt. 3 e 24 della Costituzione, nel garantire un'efficace e generalizzata tutela giurisdizionale per i diritti e gli interessi legittimi, non vincolano il legislatore all'adozione di un modello unitario di procedimento per la liquidazione delle spese dei compensi degli ausiliari del giudice.

    Infine, quanto alla denunciata irragionevolezza della disposizione censurata, l'Avvocatura osserva che il rimettente non ha indicato «la norma da utilizzare a parametro della ritenuta violazione».

Considerato in diritto

    1. - Il Tribunale di Trapani dubita, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, della legittimità dell'art. 131, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui tale disposizione, avente natura legislativa, prevede che gli onorari dovuti all'ausiliario del magistrato «sono prenotati a debito, a domanda, anche nel caso di transazione della lite, se non è possibile la ripetizione dalla parte a carico della quale sono poste le spese processuali, o dalla stessa parte ammessa, per vittoria della causa o per revoca dell'ammissione».

    2. - La questione non è fondata.

    2.1 - La prospettata censura ha ad oggetto la disciplina afferente la tutela giurisdizionale per i non abbienti la quale era garantita nel nostro ordinamento da due normative generali: il patrocinio a spese dello Stato nei giudizi penali, disciplinato dalla legge 30 luglio 1990, n. 217 (Istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti) e l'istituto del gratuito patrocinio disciplinato dal regio decreto 30 dicembre 1923, n 3282 (Approvazione del testo di legge sul gratuito patrocinio), per i procedimenti civili.

    Con la legge 29 marzo 2001, n. 134 (Modifiche alla Legge 30 luglio 1990, n. 217, recante istituzione del patrocinio a spese dello Stato per i non abbienti), il legislatore, nell'abrogare il r.d. n. 3282 del 1923, e con esso il gratuito patrocinio, ha esteso il patrocinio a spese dello Stato, per mezzo dell'introduzione di un nuovo capo (artt. da 15 bis a 15 noniesdecies), ai giudizi civili e amministrativi.

    Successivamente, la legge n. 134 del 2001 è stata abrogata dal d.P.R. n. 115 del 2002, il quale, oltre a coordinare le norme sulle spese dei diversi procedimenti giurisdizionali, ha previsto il patrocinio a spese dello Stato per tutte le esigenze di giustizia: penali, civili, amministrative, contabili e tributarie.

    In particolare, per quanto attiene ai giudizi civili, l'art. 8 del d.P.R. n. 115 del 2002 stabilisce il principio generale secondo il quale «Ciascuna parte provvede alle spese degli atti processuali che compie e di quelli che chiede e le anticipa per gli atti necessari al processo quando l'anticipazione è posta a suo carico dalla legge o dal magistrato», precisando, al successivo comma 2, che «Se la parte è ammessa al patrocinio a spese dello Stato, le spese sono anticipate dall'erario o prenotate a debito, secondo le previsioni della parte III del presente testo unico».

    L'art. 131 del  d.P.R. n. 115 del 2002, nel disciplinare gli effetti dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, al comma 1 prevede che «Per effetto dell'ammissione al patrocinio e relativamente alle spese a carico della parte ammessa, alcune sono prenotate a debito altre sono anticipate dall'erario».

    Segnatamente, sono anticipate dallo Stato, tra le altre, le indennità e le spese di viaggio spettanti agli ausiliari del giudice, nonché ogni altra spesa da costoro sostenuta per l'adempimento dell'incarico loro conferito. Per ciò che concerne gli onorari, il legislatore, nel censurato comma 3 del citato art. 131 del d.P.R. n. 115 del 2002, prevede che essi siano, a domanda, prenotati a debito ove l'ausiliario del giudice dimostri che non ne sia stata possibile la ripetizione dalla parte a carico della quale sono state poste le spese processuali, o dalla stessa parte ammessa al beneficio, in caso di vittoria della causa o di revoca dello stesso.

    Il rimettente muove dal presupposto interpretativo secondo cui, nei casi di ammissione di una parte al patrocinio a spese dello Stato, la disposizione censurata può comportare, in materia civile, che l'ausiliario del magistrato svolga la sua opera gratuitamente. Al contrario, tale disposizione disciplina il procedimento di liquidazione degli onorari dell'ausiliario medesimo, predisponendo il rimedio residuale della prenotazione a debito, a domanda, proprio al fine di evitare che il diritto alla loro percezione venga pregiudicato dalla impossibile ripetizione dalle parti del giudizio.

    La denunciata disparità di trattamento rispetto alla previsione della anticipazione a carico dell'erario delle spese e degli onorari dovuti al difensore (ai sensi degli artt. 107, lettera f), e 131, comma 4, lettera a), del d.P.R. n. 115 del 2002) va esclusa, infatti, in ragione della eterogeneità delle figure processuali messe a confronto.

    Inoltre, la previsione del meccanismo di anticipazione dell'onorario degli ausiliari del magistrato nel processo penale [di cui all'art. 107, lettera d), contenuto nel Titolo secondo dello stesso d.P.R., che detta «Disposizioni particolari sul patrocinio a spese dello Stato nel processo penale», mentre il cens urato art. 131 è collocato nel successivo Titolo quarto dedicato a «Disposizioni particolari sul patrocinio a spese dello Stato nel processo civile, amministrativo, contabile e tributario»], trova, esplicitamente, la sua ragione nella ontologica diversità del processo penale da quello civile, la qual cosa esclude la necessità (in termini di scelte costituzionalmente obbligate da parte del legislatore) della adozione di modelli unitari per entrambi i giudizi.

    Quanto, infine, alla dedotta violazione dell'art. 24 Cost., che il rimettente ricollega all'impedimento che detto meccanismo di liquidazione determinerebbe all'accesso dei non abbienti al servizio giustizia a prescindere dalla evidente contraddittorietà di tale assunto rispetto alla premessa secondo cui la norma medesima potrebbe comportare la gratuità dell'opera dell'ausiliario del giudice −, la norma impugnata non crea nessuna lesione al diritto di azione o di difesa della parte ammessa al patrocinio, giacché l'a rt. 63 codice di procedura civile prevede l'obbligo del consulente scelto tra gli iscritti ad un albo di prestare il suo ufficio (cosa che, peraltro, nel giudizio a quo si è verificata).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 131, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Trapani con l'ordinanza in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Maria Rita SAULLE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


SENTENZA N. 288

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE               Presidente

- Giovanni Maria  FLICK                Giudice

- Francesco       AMIRANTE                "

- Ugo             DE SIERVO               "

- Paolo           MADDALENA               "

- Alfio           FINOCCHIARO             "

- Alfonso         QUARANTA                "

- Franco          GALLO                   "

- Luigi           MAZZELLA                "

- Gaetano         SILVESTRI               "

- Sabino          CASSESE                 "

- Maria Rita      SAULLE                  "

- Giuseppe        TESAURO                 "

- Paolo Maria     NAPOLITANO              "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 19, commi 1 e 2, della legge della Regione Basilicata 9 agosto 2007, n. 13 (Assestamento del bilancio di previsione per l'esercizio finanziario 2007 e del bilancio pluriennale per il triennio 2007/2009), promossi con n. 3 ordinanze del 15 novembre 2007 dal Tribunale amministrativo regionale della Basilicata, rispettivamente iscritte ai nn. 47, 48 e 49 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell'anno 2008.

    Visto l'atto di costituzione di Roberto Ruggiero ed altro;

    udito nell'udienza pubblica del 10 giugno 2008 e nella camera di consiglio dell'11 giugno 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;

    udito l'avvocato Aldo Loiodice per Roberto Ruggiero ed altro.

Ritenuto in fatto

    1. - Il Tribunale amministrativo regionale della Basilicata, con tre distinte ordinanze del 15 novembre 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 19, commi 1 e 2, della legge della Regione Basilicata 9 agosto 2007, n. 13 (Assestamento del bilancio di previsione per l'esercizio finanziario 2007 e del bilancio pluriennale per il triennio 2007/2009).

    Il giudice rimettente premette di essere stato adito con tre distinti ricorsi proposti avverso i provvedimenti con i quali, in applicazione del citato art. 19 della legge regionale n. 13 del 2007, è stato disposto lo scioglimento dell'Assemblea, del Consiglio di amministrazione e del Presidente, rispettivamente, del Consorzio per lo sviluppo industriale della Provincia di Matera e di quello della Provincia di Potenza, nonché avverso le successive delibere delle Giunte regionali con le quali sono stati individuati i Commissari dei rispettivi Consorzi e gli atti di nomina di questi ultimi.

    2. - Il rimettente, nelle tre ordinanze, premette che i consorzi di sviluppo industriale, operanti in Basilicata, sono stati istituiti a norma dell'art. 50 del d.P.R. 6 marzo 1978, n. 218. L'art. 2 della legge regionale 3 novembre 1998 n. 41 (Disciplina dei consorzi per lo sviluppo industriale) li configura quali «enti pubblici economici di promozione dell'industrializzazione e dell'insediamento di attività produttive nelle aree del proprio comprensorio», dotati di «piena autonomia amministrativa, organizzativa ed economico-finanziaria» (art. 5) e soggetti a poteri di indirizzo e vigilanza della Regione, «per il perseguimento dei fini istituzionali, in forma imprenditoriale, mediante atti di diritto privato».

    La norma censurata dispone che «ai fini della organizzazione di un sistema di governance delle attività industriali e nelle more della definizione di un nuovo assetto normativo concernente le aree industriali, gli organi dei consorzi per lo sviluppo industriale di cui alla legge regionale 3 novembre 1988, n. 41, con l'eccezione del Collegio dei revisori, sono sciolti con le modalità previste dal comma 2 del presente articolo» (comma 1) e che « Il presidente della Giunta regionale, entro trenta giorni dall'entrata in vigore  della presente legge, decreta lo scioglimento degli organi dei consorzi per lo sviluppo industriale operanti in Basilicata e contestualmente, sulla base di un provvedimento deliberativo della Giunta re gionale, nomina un Commissario per ciascun Consorzio» (comma 2).

    Secondo il Tar, non sussisterebbe alcuna obiettiva e ragionevole giustificazione dello scioglimento degli organi consortili, né sarebbe ravvisabile alcun nesso di strumentalità necessaria tra il predetto scioglimento ed il fine della organizzazione di un nuovo di sistema di governo delle attività industriali, nelle more della definizione di un nuovo assetto normativo dei consorzi, con conseguente irragionevolezza del citato art. 19, commi 1 e 2.

    3. - Nel primo e nel terzo giudizio (reg. ord. n. 47 e n. 49 del 2007), si sono costituite le parti private del giudizio principale ed il Consorzio per lo sviluppo industriale della Provincia di Matera, che hanno chiesto che questa Corte dichiari l'illegittimità costituzionale dell'art. 19 della legge regionale n. 13 del 2007, per contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione.

    La difesa di tutte le parti sostiene che lo scioglimento degli organi consortili disposto dall'art. 19 della legge regionale n. 13 del 2007 deve ritenersi arbitrario ed irragionevole, dal momento che esso non trova alcuna giustificazione, al di fuori del generico ed imprecisato riferimento all'organizzazione di un nuovo sistema di «governance» ed alla futura, presunta definizione di un nuovo assetto normativo concernente le aree industriali. La predetta disposizione non solo non conterrebbe alcuna adeguata giustificazione dell'«abnorme misura sanzionatoria adottata», ma non troverebbe neppure un collegamento finalistico con le norme della legislazione statale di cornice.

    4. - All'udienza pubblica le parti hanno insistito per l'accoglimento delle conclusioni formulate nelle difese scritte.

Considerato in diritto

    1. - Con tre distinte ordinanze del 15 novembre 2007, il Tribunale amministrativo regionale della Basilicata ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 19, commi 1 e 2, della legge della Regione Basilicata 9 agosto 2007, n. 13 (Assestamento del bilancio di previsione per l'esercizio finanziario 2007 e del bilancio pluriennale per il triennio 2007/2009), nella parte in cui dispone lo scioglimento degli organi dei consorzi per lo sviluppo industriale di cui alla legge regionale n. 41 del 1998, con l'eccezione del Collegio dei revisori, «ai fini della organizzazione di un sistema di governance delle attività industriali e nelle more della definizione di un nuovo assetto normativo concernente le aree industriali» (comma 1), ed attribuisce al presidente della Giunta regionale, entro trenta giorni dall'entrata in vigore della presente legge, il compito di decretare lo scioglimento dei predetti organi e contestualmente, sulla base di un provvedimento deliberativo della Giunta regionale, di nominare un Commissario per ciascun Consorzio (comma 2).

    Secondo il rimettente, detta norma, in violazione dei citati parametri costituzionali, determinerebbe arbitrariamente ed irragionevolmente lo scioglimento degli organi consortili, in difetto di una obiettiva e ragionevole giustificazione, poiché non sarebbe ravvisabile un nesso di strumentalità necessaria tra siffatta previsione e le finalità genericamente evocate, di organizzazione di un nuovo sistema di governo delle attività industriali, nelle more della definizione di un nuovo assetto normativo dei consorzi che la regione intende perseguire.

    2. - I tre giudizi, avendo ad oggetto la stessa norma, censurata in riferimento agli stessi parametri e con argomentazioni sostanzialmente identiche, devono essere riuniti e decisi con un'unica sentenza.

    3. - La questione non è fondata.

    La norma censurata, disponendo lo scioglimento degli organi del Consorzio per lo sviluppo industriale della Provincia di Matera e di quello della Provincia di Potenza e stabilendo altresì che il Presidente della Giunta regionale provvede a decretare, «entro trenta giorni dall'entrata in vigore della presente legge», il predetto scioglimento e contestualmente a nominare nuovi Commissari, presenta i caratteri di una legge-provvedimento, in quanto incide su un numero determinato e limitato di destinatari ed ha contenuto particolare e concreto. Essa, pertanto, soggiace - come ripetutamente affermato da questa Corte (fra le tante, sentenze n. 267 e n. 11 del 2007) - ad uno scrutinio stretto di legittimità costituzionale, essenzialmente sotto i profili della non arbitrarietà e della non irragionevolezza della sce lta del legislatore regionale.

    Proprio con riferimento a tali profili, questa Corte ha scrutinato norme di legge della Regione Puglia, analoghe a quelle oggi all'esame, con cui pure si disponeva lo scioglimento di organi consortili in vista della ridefinizione del disegno organizzativo delle aree industriali e delle aree ecologicamente attrezzate, ed ha dichiarato le censure sollevate, in riferimento ai medesimi parametri, infondate (sentenza n. 429 del 2002).

    In tale sentenza, la Corte ha affermato che la norma la quale dispone lo scioglimento degli organi consortili e la nomina dei relativi commissari, chiamati a realizzare una serie di attività (di censimento delle aree, di ricognizione del patrimonio, etc.), specificamente individuate dalla medesima legge regionale, in attesa di realizzare un nuovo disegno organizzativo delle aree industriali, non è lesiva dei principi di buon andamento ed imparzialità dell'amministrazione. Essa si risolve viceversa proprio in una serie di «misure di efficienza gestionale» giustificate dall'esigenza di porre in essere, nella fase di transizione dal precedente al futuro assetto delle aree industriali, «i presupposti adeguati per la più sollecita e congrua attuazione della nuova disciplina». 

    L'art. 19, commi 1 e 2, della legge della Regione Basilicata n. 13 del 2007 è stato adottato dal legislatore regionale - intervenuto a disciplinare il settore dei consorzi per lo sviluppo industriale, istituiti ai sensi dell'art. 50 del d.P.R. 6 marzo 1978, n. 218, una prima volta con la legge n. 32 del 1994, e poi, in totale riforma del precedente assetto, con la legge n. 41 del 1998 (che, all'art. 12, disponeva lo scioglimento degli organi consortili preesistenti) - «ai fini della organizzazione di un sistema di governance delle attività industriali e nelle more della definizione di un nuovo assetto normativo concernente le aree industriali».

    Da tale indicazione si evince che la previsione dello scioglimento degli organi consortili preesistenti, ivi contenuta, risponde all'esigenza di assicurare la più rapida ed efficace sostituzione del sistema di governo del settore, mediante la nomina di nuovi commissari, ragionevolmente chiamati a svolgere, al posto dei titolari dei preesistenti organi consortili, tutte le attività necessarie ad attuare il nuovo sistema.

    La norma regionale impugnata configura, in tal modo, un'ipotesi di scioglimento degli organi consortili ulteriore e del tutto diversa da quelle tipizzate dall'art. 10 della legge regionale n. 41 del 1998, in quanto priva di carattere sanzionatorio.

    Essa obbedisce, pertanto, alla medesima finalità delle norme della Regione Puglia già ritenute, nella sentenza n. 429 del 2002, non irragionevoli.

    L'art. 19 censurato, infatti, sebbene caratterizzato da un formulazione meno stringente di quella impiegata dalla Regione Puglia, reca anch'esso «misure di efficienza gestionale» non arbitrarie e non irragionevoli, appunto in quanto giustificate dalla necessità di consentire la più efficiente gestione della fase transitoria ed il sollecito passaggio dal vecchio al nuovo regime.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 19, commi 1 e 2, della legge della Regione Basilicata 9 agosto 2007, n. 13 (Assestamento del bilancio di previsione per l'esercizio finanziario 2007 e del bilancio pluriennale per il triennio 2007/2009), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale della Basilicata, con le ordinanze indicate in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

SENTENZA N. 289

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 22, 26, 27 e 29 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, promossi con ricorsi delle Regione Veneto (2 ricorsi), Toscana e Friuli-Venezia Giulia, notificati il 31 agosto, il 26 settembre, il 5 e il 9 ottobre 2006, depositati in cancelleria l'11 e il 26 settembre, l'11 e 14 ottobre 2006 ed iscritti ai nn. 96, 99, 103 e 105 del registro ricorsi 2006.

    Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 24 giugno 2008 il Giudice relatore Paolo Maddalena;

    uditi gli avvocati Mario Bertolissi e Andrea Manzi per la Regione Veneto, Andrea Manzi per la Regione Toscana, Giandomenico Falcon per la Regione Friuli-Venezia Giulia e l'avvocato dello Stato Danilo Del Gaizo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

    1. ¾ Con ricorso notificato il 31 agosto 2006 e depositato nella cancelleria di questa Corte l'11 settembre 2006 (reg. ric. n. 96 del 2006), la Regione Veneto ha promosso questione di legittimità costituzionale di numerose disposiz ioni del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), e, tra esse, degli artt. 22, 26 e 29.

    L'art. 22 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, contiene disposizioni che stabiliscono la riduzione delle spese di funzionamento per enti ed organismi pubblici non territoriali.

    Sancisce il comma 1 di tale articolo che «Gli stanziamenti per l'anno 2006 relativi a spese per consumi intermedi dei bilanci di enti ed organismi pubblici non territoriali, che adottano contabilità anche finanziaria, individuati ai sensi dell'art. 1, commi 5 e 6, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, con esclusione delle Aziende sanitarie ed ospedaliere, degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, dell'Istituto superiore di sanità, dell'Istituto superiore per la prevenzione e la sicurezza del lavoro, dell'Agenzia italiana del farmaco, degli Istituti zooprofilattici sperimentali e delle istituzioni scolastiche, sono ridotti nella misura del 10 per cento, comunque nei limiti delle disponibilità non impegnate alla data di entrata in vigore del presente decreto. Per gli enti ed organi smi pubblici che adottano una contabilità esclusivamente civilistica, i costi della produzione, individuati all'art. 2425, primo comma, lett. b), nn. 6), 7) e 8), del codice civile, previsti nei rispettivi budget 2006, concernenti i beni di consumo e servizi ed il godimento di beni di terzi, sono ridotti del 10 per cento. Le somme provenienti dalle riduzioni di cui al presente comma sono versate da ciascun ente, entro il mese di ottobre 2006, all'entrata del bilancio dello Stato, con imputazione al capo X, capitolo 2961».

    Il comma 2 dello stesso art. 22 prevede poi che «Per le medesime voci di spesa e di costo indicate al comma 1, per il triennio 2007-2009, le previsioni non potranno superare l'ottanta per cento di quelle iniziali dell'anno 2006, fermo restando quanto previsto dal comma 57 dell'art. 1 della legge 30 dicembre 2004, n. 311. Le somme corrispondenti alla riduzione dei costi e delle spese per effetto del presente comma sono appositamente accantonate per essere versate da ciascun ente, entro il 30 giugno di ciascun anno, all'entrata del bilancio dello Stato, con imputazione al capo X, capitolo 2961. E' fatto divieto alle Amministrazioni vigilanti di approvare i bilanci di enti ed organismi pubblici in cui gli amministratori non abbiano espressamente dichiarato nella relazione sulla gestione di avere ott emperamento alle disposizioni del presente articolo».

    Ad avviso della ricorrente, tali disposizioni non sarebbero applicabili agli enti pubblici non territoriali regionali.

    Se così non fosse, la disposizione denunciata si porrebbe in contrasto con gli artt. 117 e 119 della Costituzione.

    Ad avviso della Regione Veneto, con la disposizione in oggetto il decreto-legge impugnato avrebbe posto per le Regioni vincoli puntuali ad una singola voce di spesa, eccedendo in tal modo dai limiti della competenza statale in materia di coordinamento della finanza pubblica, ai sensi dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione, e violando l'autonomia finanziaria di spesa delle Regioni di cui all'art. 119 della Costituzione.

    La ricorrente ricorda che la Corte in numerose pronunce (ad esempio, nelle sentenze n. 376 del 2003, nn. 4, 36 e 390 del 2004, nn. 417 e 449 del 2005) ha avuto modo di precisare, dichiarando l'illegittimità costituzionale di norme statali, che lo Stato può legittimamente imporre agli enti autonomi vincoli alle politiche di bilancio - anche se con ciò si determina inevitabilmente una limitazione indiretta dell'autonomia di spesa degli enti - purché ciò avvenga attraverso una disciplina di principio e per ragioni di coordinamento finanziario connesse ad obiettivi nazionali, condizionati anche dagli obblighi comunitari. Più precisamente, se l'imposizione di vincoli alle politiche di bilancio di Regioni ed enti locali vuole rimanere nell'ambito della legittimità costituzionale, essa dovrebbe avere ad oggetto o l'entità del disavanzo di parte corrente, oppure, ma solo in via transitoria ed in vista degli specifici obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica perseguiti dal legislatore statale, la crescita della spesa corrente. Alla legge statale, pertanto, viene consentito di stabilire unicamente un limite complessivo, che lascia agli enti stessi ampia libertà di allocazione delle risorse fra i diversi ambiti e obiettivi di spesa. La previsione da parte della legge statale di limiti all'entità di una singola voce di spesa non può essere considerata un principio fondamentale in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica, in quanto pone un precetto specifico e puntuale sull'entità della spesa e si risolve perciò in una indebita invasione, da parte dello Stato, dell'area riservata alle autonomie regionali e locali, alle quali il legislatore nazionale può prescrivere criteri ed obiettivi, come, ad esempio, il contenimento della spesa pub blica, ma non imporre nel dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi.

    Secondo la Regione Veneto, l'art. 22 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, recando disposizioni che stabiliscono la riduzione delle spese di funzionamento per enti ed organismi pubblici non territoriali, se ritenuto applicabile agli enti non territoriali regionali, oltrepasserebbe i limiti imposti al legislatore statale in materia di coordinamento della finanza pubblica, in violazione degli artt. 117, terzo comma, e 119 della Costituzione.

    Con l'art. 26 del medesimo decreto-legge sono stati previsti controlli e sanzioni per il mancato rispetto della regola sul contenimento delle spese da parte degli enti inseriti nel conto economico consolidato delle pubbliche amministrazioni.

    La disposizione prevede che «In caso di mancato rispetto del limite di spesa annuale di cui all'art. 1, comma 57, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, da parte degli enti individuati ai sensi dei commi 5 e 6 del medesimo articolo, fatte salve le esclusioni previste dal predetto comma 57, i trasferimenti statali a qualsiasi titolo operati a favore di detti enti sono ridotti in misura pari alle eccedenze di spesa risultanti dai conti consuntivi relativi agli esercizi 2005, 2006 e 2007. Gli enti interessati che non ricevono contributi a carico del bilancio dello Stato sono tenuti a versare all'entrata del bilancio dello Stato, con imputazione al capo X, capitolo 2961, entro il 30 settembre rispettivamente degli anni 2006, 2007 e 2008, un importo pari alle eccedenze risultanti dai predetti conti con suntivi. Le amministrazioni vigilanti sono tenute a dare, rispettivamente, entro il 31 luglio degli anni 2006, 2007 e 2008, comunicazione delle predette eccedenze di spesa al Ministero dell'economia e delle finanze - Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato».

    Osserva la ricorrente che tale norma impone anche agli enti che non hanno ricevuto contributi statali il versamento delle eccedenze di spesa risultanti dai consuntivi degli anni 2005, 2006 e 2007 entro il 30 settembre di ogni anno. Si tratterebbe di una disposizione irragionevole, dato che essa stabilisce il medesimo obbligo sia per gli enti che hanno ricevuto i contributi statali sia per quelli che non li hanno ricevuti. Siffatta disciplina, sottraendo risorse al bilancio dell'ente senza una base logica giustificativa, violerebbe la sfera di autonomia finanziaria e contabile riconosciuta alle Regioni e agli enti locali e sarebbe contraria al principio di buon andamento dell'azione amministrativa.

    Secondo la ricorrente, la norma in oggetto conterrebbe un precetto preciso (il versamento delle eccedenze di spesa, espressamente individuate, entro un termine stabilito), che richiede ai fini della propria concreta applicazione soltanto un'attività di materiale esecuzione. Non potrebbe quindi essere in alcun modo riconosciuta alla stessa la natura di norma di principio. Pertanto, l'art. 26 del decreto-legge impugnato violerebbe gli artt. 3, 97, 117, 118 e 119 della Costituzione.

    Ad avviso della Regione Veneto, si porrebbe in contrasto con gli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione anche l'art. 29 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223.

    Tale disposizione contiene norme di contenimento della spesa per commissioni, comitati ed organismi, che, ai sensi del comma 6, non trovano diretta applicazione alle Regioni, alle Province autonome, agli enti locali e agli enti del Servizio sanitario nazionale, ma per i quali costituiscono comunque «disposizioni di principio ai fini del coordinamento della finanza pubblica».

    Secondo la ricorrente, la formulazione di quest'ultima norma non sarebbe comunque in grado di impedire che le norme contenute nell'articolo citato abbiano la natura di disposizioni puntuali, capaci di porre in essere vincoli precisi alla spesa di Regioni ed enti locali.

    Il comma 1 dell'art. 29 citato stabilisce che la spesa complessiva sostenuta dalle amministrazioni per organi collegiali e altri organismi, anche monocratici, comunque denominati, venga ridotta del trenta per cento rispetto a quella sostenuta nell'anno 2005 e prevede, da un lato, che le amministrazioni adottino con immediatezza, e comunque entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto, le necessarie misure di adeguamento ai nuovi limiti di spesa, dall'altro lato, che tale riduzione si aggiunga a quella prevista dall'art. 1, comma 58, della legge 23 dicembre 2005, n. 266. Nei successivi commi 2 e 3 si stabiliscono, rispettivamente, per le amministrazioni statali e per quelle non statali, le modalità specifiche di riordino degli organismi con la individuazione della natura degli a tti con cui le amministrazioni dovranno procedere e la statuizione dei relativi criteri. Si prevede inoltre che «gli organismi non individuati dai provvedimenti previsti dai commi 1 e 2 sono comunque soppressi» (comma 4) e che «scaduti i termini di cui ai commi 1, 2 e 3 senza che si sia provveduto agli adempimenti ivi previsti è fatto divieto alle amministrazioni di corrispondere compensi ai componenti degli organismi di cui al comma 1» (comma 5).

    Ad avviso della Regione Veneto, le norme in oggetto, prevedendo riduzioni percentuali precise ad una singola voce di spesa e indicando le modalità di contenimento della medesima, stabilirebbero limiti precisi e stringenti all'autonomia finanziaria e di organizzazione delle Regioni e degli enti locali e sarebbero del tutto inidonee a svolgere la funzione di principi di coordinamento della finanza pubblica.

    Non basterebbe, per ritenere conforme a Costituzione la relativa disciplina, che la norma si definisca disposizione di principio di coordinamento della finanza pubblica. Secondo la ricorrente, autoqualificazioni di tal fatta non esimono il legislatore statale dal rispettare i limiti costituzionali ad esso imposti a tutela dell'autonomia regionale. Affermare che le norme contenute nell'art. 29 del decreto-legge n. 223 del 2006, di natura estremamente puntuale, non si applicano a Regioni ed enti locali, qualificandole subito dopo come principi di coordinamento della finanza pubblica, significherebbe semplicemente - conclude la ricorrente - tentare di superare con un artifizio retorico i confini del potere legislativo statale in materia.

    1.1. ¾ Nel giudizio dinanzi alla Corte si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato.

    Premette la difesa erariale che le disposizioni impugnate rispondono ad evidenti finalità di razionalizzazione e di contenimento della spesa pubblica, anche nella prospettiva del rispetto dei vincoli derivanti dal patto di stabilità, e trovano dunque generale fondamento nella competenza legislativa in materia di coordinamento della finanza pubblica.

    In particolare, la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l'art. 22 del decreto-legge, relativo alla riduzione di spese di funzionamento per enti ed organismi non territoriali, sarebbe inammissibile, in quanto basata sulla mera eventualità (peraltro negata dalla Regione) che si tratti di disposizione applicabile agli enti pubblici non territoriali regionali.

    Con riguardo alle censure mosse all'art. 26, concernente controlli e sanzioni per il mancato rispetto della regola sul contenimento della spesa, sarebbe inammissibile, ad avviso della difesa erariale, la questione prospettata in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, giacché la dedotta violazione dei principi di eguaglianza e di buon andamento non comporterebbe alcuna incisione, neppure indiretta, delle competenze attribuite dalla Costituzione alla Regione.

    Con riferimento alla supposta violazione dell'art. 119 della Costituzione, l'Avvocatura osserva che l'art. 26 sanziona il mancato rispetto del limite di spesa annuale al fine, legittimo in sede di coordinamento della finanza pubblica, di assicurare la compatibilità con i vincoli di bilancio risultanti dagli strumenti di programmazione annuale e pluriennale. Tale strumentalità escluderebbe qualsiasi violazione del principio - che si pretende di desumere dall'art. 119 della Costituzione - secondo il quale l'autonomia di spesa riconosciuta alle Regioni implicherebbe l'esclusione di ogni ingerenza statuale anche sotto forma di procedure e criteri di controllo della spesa pubblica regionale (sentenza n. 4 del 2004).

    Con riguardo alla prospettata violazione dell'art. 118 della Costituzione, la difesa erariale esclude che una norma volta al contenimento della spesa pubblica intacchi l'autonomia amministrativa delle Regioni. La stessa Regione Veneto, del resto, non specificherebbe in quali aspetti l'art. 26 del decreto-legge n. 223 del 2006 sarebbe lesivo dell'art. 118 della Costituzione: il che renderebbe la censura inammissibile, prima ancora che infondata.

    Infondata sarebbe la questione di legittimità costituzionale dell'art. 29 del decreto-legge, perché il comma 6 del medesimo articolo, riconducibile alla materia del coordinamento della finanza pubblica, riconosce che la puntuale disciplina contenuta nella disposizione non si applica in maniera diretta alle Regioni, per le quali essa rappresenta al contrario una mera norma di principio, con ciò rispettando la competenza concorrente.

    2. ¾ Con ricorso notificato il 28 settembre 2006 e depositato nella cancelleria di questa Corte il 26 ottobre 2006 (reg. ric. n. 99 del 2006), la Regione Toscana ha promosso questione di legittimità costituzionale del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, impugnando ne, tra gli altri, gli artt. 22 e 26.

    L'art. 22 si porrebbe in contrasto con gli artt. 117 e 119 della Costituzione.

    Nella disposizione denunciata, l'individuazione degli enti soggetti agli obblighi di riduzione delle spese è effettuata con il rinvio all'art. 1, commi 5 e 6, della legge 30 dicembre 2004, n. 311; la norma esclude espressamente le Aziende sanitarie ed ospedaliere, gli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico, l'Istituto superiore di sanità, l'Istituto superiore per la prevenzione e sicurezza del lavoro, l'Agenzia italiana del farmaco, gli Istituti zooprofilattici sperimentali, le istituzioni scolastiche, gli enti e gli organismi gestori delle aree naturali protette.

    Osserva la ricorrente che l'elenco di cui al citato art. 1, comma 5, della legge n. 311 del 2004 ricomprende anche gli enti e le agenzie regionali (ad esempio: enti regionali per la ricerca e per l'ambiente, enti regionali di sviluppo, agenzie regionali del lavoro); pertanto, poiché il campo di applicazione della norma è definito mediante il rinvio agli enti ed organismi non territoriali di cui al suddetto elenco, le disposizioni dell'art. 22 in esame troverebbero applicazione anche per gli enti e le agenzie regionali, vale a dire per quegli enti che sono costituiti dalla Regione per lo svolgimento di propri compiti e funzioni. Questi enti, infatti, a differenza della Regione e degli enti locali, non sono enti territoriali - e sclusi dall'ambito di operatività della norma - perché il territorio non è elemento costitutivo dei medesimi.

    Il citato art. 22 - se si applica, come la sua letterale formulazione lascerebbe intendere, anche agli enti e alle agenzie regionali - sarebbe lesivo delle attribuzioni regionali. Con esso si porrebbe infatti un vincolo puntuale e specifico all'autonomia di spesa degli enti regionali, per i quali sono le Regioni competenti ad intervenire in via legislativa. In base allo statuto regionale, detti enti ed agenzie regionali sono strumenti per lo svolgimento di compiti della Regione e quindi rientrerebbe nella potestà organizzativa della Regione stessa disciplinare l'assetto e l'autonomia di spesa di tali organismi.

    Incidere con vincoli puntuali di spesa sull'azione di tali enti significherebbe limitare l'attività della Regione stessa, della quale gli enti in questione costituiscono un braccio operativo.

    L'art. 22 interferirebbe in primo luogo con l'autonomia organizzativa regionale costituzionalmente garantita ai sensi dell'art. 117 della Costituzione, il quale, al secondo comma, riserva alla potestà legislativa esclusiva statale la materia dell'ordinamento ed organizzazione amministrativa unicamente con riferimento allo Stato e agli enti pubblici nazionali; conseguentemente, competerebbe alle Regioni disciplinare, nell'esercizio della potestà legislativa residuale ai sensi dell'art. 117, quarto comma, l'ordinamento e l'organizzazione amministrativa della Regione e degli enti regionali.

    L'art. 22, inoltre, lederebbe anche l'autonomia finanziaria delle Regioni e degli enti regionali. La disposizione sarebbe analoga a quella che prevedeva simile riduzione nel 2004 (comma 11 dell'art. 1 della legge n. 191 del 2004), giudicata costituzionalmente illegittima con la sentenza n. 417 del 2005. In particolare, in tale pronuncia è stata sottolineata - conformemente ad un orientamento già in precedenza espresso dalla Corte (sentenze nn. 36 e 390 del 2004) - l'illegittimità costituzionale delle norme che stabiliscono limiti specifici alle spese perché pongono vincoli che «non costituiscono principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, ma comportano una inammissibile ingerenza nell'autonomia degli enti quanto alla gestione della spesa».

    Ricorda la ricorrente che, più di recente, la Corte (sentenza n. 449 del 2005) ha ribadito che la previsione, da parte della legge statale, di limiti all'entità di una singola voce di spesa della Regione non può essere considerata un principio fondamentale in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica (ai sensi dell'art. 117, terzo comma, Cost.), perché pone un precetto specifico e puntuale sull'entità della spesa e si risolve perciò in una indebita invasione dell'area riservata dall'art. 119 Cost. alle autonomie delle Regioni e degli enti locali, cui la legge statale può prescrivere criteri ed obiettivi (ad esempio, contenimento della spesa pubblica), ma non imporre nel dettaglio gli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi.

    I suddetti principi non sarebbero rispettati nel caso in esame, perché le impugnate disposizioni limiterebbero in modo puntuale (con riduzioni del 10 e del 20) le spese per consumi intermedi anche degli enti ed aziende regionali. Tale violazione sarebbe ulteriormente confermata ed aggravata dalla previsione secondo cui i risparmi derivanti dalle imposte riduzioni di spesa devono essere versati al bilancio dello Stato. Quindi gli enti e le agenzie regionali devono ridurre le spese, ma non sono autonomi neppure nel decidere come utilizzare le somme accantonate, dovendo obbligatoriamente versarle al bilancio dello Stato. La violazione del predetto obbligo determina che l'ente vigilante (cioè la Regione, in rapporto agli enti regionali) non possa approvare i bilanci degli enti dipendenti. Si estender ebbe così una norma valevole per gli enti nazionali anche agli enti regionali, con conseguente violazione dell'autonomia finanziaria riconosciuta dall'art. 119 della Costituzione.

    Anche l'art. 26 violerebbe gli artt. 117 e 119 della Costituzione.

    In base a questa disposizione, gli enti che non hanno rispettato il limite di spesa di cui all'art. 1, comma 57, della legge n. 311 del 2004 devono riversare al bilancio dello Stato l'eccedenza risultante dai conti consuntivi.

    L'art. 26, come il precedente art. 22, per il suo tenore letterale verrebbe ad applicarsi anche agli enti regionali, giacché gli enti destinatari dell'obbligo sono individuati con il richiamo agli enti di cui ai commi 5 e 6 dell'art. 1 della legge n. 311 del 2004, ed il comma 5 indica anche gli enti e le agenzie regionali.

    Secondo la Regione Toscana, l'impugnato art. 26 sarebbe lesivo dell'autonomia organizzativa e finanziaria del sistema regionale, perché - al pari dell'art. 22 del medesimo decreto-legge - porrebbe obblighi e vincoli specifici alla spesa degli enti ed aziende regionali e perché imporrebbe di versare al bilancio statale i risparmi di tali organismi, in violazione degli articoli 117 e 119 della Costituzione.

    2.1. ¾ Nel giudizio dinanzi alla Corte si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato.

    La questione di legittimità costituzionale dell'art. 22 sarebbe inammissibile, in quanto la disposizione impugnata non sarebbe applicabile agli enti pubblici non territoriali regionali, non contenendo la norma alcun riferimento espresso a questi ultimi, né potendosi ritenere che essa li riguardi in considerazione del loro inserimento nell'elenco richiamato.

    In ogni caso la questione sarebbe infondata, giacché le misure introdotte dalla disposizione sarebbero motivate dalla necessità di far fronte alla situazione di emergenza dei conti pubblici, consistente nella semplice fissazione di limiti generali, sia all'entità del finanziamento che alla spesa corrente, la quale sarebbe perfettamente compatibile con i principi già enunciati in casi analoghi dalla Corte (è citata la sentenza n. 36 del 2004).

    Analoghe considerazioni varrebbero, sia in termini di inammissibilità (essendo l'ambito soggettivo della norma identico a quello di cui all'art. 22) che di infondatezza, per quanto riguarda la questione di legittimità costituzionale dell'art. 26 del decreto-legge. In particolare, la sanzione per il mancato rispetto del limite di spesa annuale sarebbe giustificata dal fine, legittimo in sede di coordinamento della finanza pubblica, di assicurare la compatibilità con i vincoli di bilancio risultanti dagli strumenti di programmazione annuale e pluriennale. Tale strumentalità escluderebbe qualsiasi violazione del principio - che si pretende di desumere dall'art. 119 della Costituzione - secondo il quale l'autonomia di spesa riconosciuta alle Regioni implicherebbe l'esclusione di ogni ingerenza statua le anche sotto forma di procedure e criteri di controllo della spesa pubblica regionale (sentenza n. 4 del 2004).

    3. ¾ Con ricorso notificato il 5 ottobre 2006 e depositato nella cancelleria di questa Corte l'11 ottobre 2006 (reg. ric. n. 103 del 2006), la Regione Veneto ha promosso questione di legittimità costituzionale di numerose disposizioni del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla legge 4 agosto 2006 , n. 248, impugnandone, tra gli altri, gli artt. 22, 26, 27 e 29.

    Reiterando censure già mosse con il ricorso iscritto al n. 96 del registro ricorsi del 2006, la Regione Veneto sostiene che l'art. 22 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, recando disposizioni che stabiliscono la riduzione delle spese di funzionamento per enti ed organismi pubblici non territoriali, se ritenuto applicabile agli enti non territoriali regionali, oltrepasserebbe i limiti imposti al legislatore statale in materia di coordinamento della finanza pubblica, in violazione degli artt. 117, terzo comma, e 119 della Costituzione.

    Ad avviso della ricorrente, l'art. 26 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, con cui sono stati previsti controlli e sanzioni per il mancato rispetto della regola sul contenimento delle spese da parte degli enti inseriti nel conto economico consolidato delle pubbliche amministrazioni, sarebbe dettato in violazione degli artt. 3, 97, 117, 118 e 119 Cost.

    La norma, imponendo anche agli enti che non hanno ricevuto contributi statali il versamento delle eccedenze di spesa risultanti dai consuntivi degli anni 2005, 2006 e 2007 entro il 30 settembre di ogni anno, sarebbe irragionevole, dato che stabilisce il medesimo obbligo sia per gli enti che hanno ricevuto i contributi statali sia per quelli che non li hanno ricevuti. Ribadendo quanto sostenuto in sede di impugnativa della medesima disposizione, anteriormente alla conversione in legge del decreto-legge, la ricorrente sostiene che un tal genere di disciplina, sottraendo risorse al bilancio dell'ente senza una base logica giustificativa, non sarebbe rispettosa della sfera di autonomia finanziaria e contabile riconosciuta alle Regioni e agli enti locali e sarebbe contraria al principio di buon andame nto dell'azione amministrativa.

    L'art. 27 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, prevede una ulteriore riduzione rispetto a quella prevista dalla finanziaria per il 2006 del limite di spesa annua per studi e incarichi di consulenza, per relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e di rappresentanza sostenute dalle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, con l'esclusione di università, enti di ricerca e organismi equiparati. Con la modifica dei commi 9 e 10 dell'art. 1 della legge 23 dicembre 2005, n. 266, l'ammontare delle spese in discorso non potrà infatti essere superiore al 40 per cento di quelle sostenute per il 2004.

    Secondo la Regione ricorrente, questa norma, che fissa vincoli puntuali relativi a singole voci di spesa dei bilanci delle Regioni e degli enti locali, non costituirebbe un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, ai sensi dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione, e lederebbe pertanto l'autonomia finanziaria di spesa garantita dall'art. 119 della Costituzione. Al riguardo, la ricorrente richiama i principi espressi da questa Corte con la sentenza n. 417 del 2005.

    La Regione Veneto impugna altresì, per contrasto con gli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, l'art. 29 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, reiterando le identiche censure sollevate, con il ricorso n. 96 del 2003, nei confronti del testo della medesima disposizione contenuta nel decreto-legge, anteriormente alla conversione in legge.

    3.1. ¾ Anche in questo giudizio si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato.

    La difesa erariale ribadisce le considerazioni già formulate, a confutazione delle doglianze della Regione, con l'atto di costituzione nel giudizio promosso nei confronti del decreto-legge, anteriormente alla conversione in legge.

    Con riguardo alla censura relativa all'art. 27, l'Avvocatura rileva che nessuna doglianza era stata rivolta nei confronti della stessa disposizione contenuta nel decreto-legge, il quale sul punto non risulta modificato in sede di conversione, ed esprime il dubbio che la norma abbia inteso ridurre le spese in questione anche per Regioni ed enti locali.

    4. ¾ Con ricorso notificato il 9 ottobre 2006 e depositato il successivo 14 ottobre (reg. ric. n. 105 del 2006), anche la Regione Friuli-Venezia Giulia ha impugnato, tra l'altro, l'art. 22, commi 1 e 2, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223, convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2 006, n. 248, deducendone il contrasto con gli artt. 3, 97, 117, terzo comma, e 119 della Costituzione, con l'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 e con gli artt. 4, numeri 1, 1-bis, 2, 3, 9, 10, 12, 13 e 14, 5, numeri 6, 8 e 9, e 48 dello statuto speciale.

    Premette la Regione che la legge di conversione ha aggiunto nell'art. 1 del decreto-legge n. 223 del 2006 il comma 1-bis, recante una clausola di salvaguardia, in virtù della quale «le disposizioni di cui al presente decreto si applicano alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e di Bolzano in conformità agli statuti speciali e alle relative norme di attuazione».

    Secondo la ricorrente, ove si ritenga che, per effetto di tale clausola, l'impugnato art. 22 non debba applicarsi nella Regione Friuli-Venezia Giulia, vengono meno le ragioni di doglianza avanzate con il ricorso.

    Ad avviso della ricorrente, l'art. 22, commi 1 e 2, del decreto-legge n. 223 del 2006 introduce un vincolo puntuale di spesa ad enti pubblici collegati alla Regione Friuli-Venezia Giulia: così per l'Agenzia regionale per la protezione dell'ambiente (ARPA), una parte rilevante della cui dotazione finanziaria proviene dal bilancio regionale; per l'Agenzia regionale per il turismo, finanziata in via esclusiva con fondi del bilancio regionale; per gli Enti regionali per il diritto allo studio universitario di Trieste e Udine, la cui dotazione finanziaria comprende risorse finanziarie assegnate dalla Regione in via ordinaria e straordinaria; per l'Agenzia regionale del lavoro e della formazione professionale, anch'essa finanziata in gran parte dalla Regione.

    La riduzione del 10 per cento delle spese di funzionamento di tali enti, per il 2006, e del 20 per cento, per il triennio 2007-2009, rappresenterebbe una rilevante ingerenza nella gestione di questi enti, sia per l'entità della riduzione sia per il carattere puntuale di essa, dato che la norma va a colpire una specifica categoria di spesa.

    La ricorrente ricorda che la giurisprudenza costituzionale già più volte ha dichiarato l'illegittimità di vincoli puntuali di spesa, anche in relazione alle Regioni ordinarie, affermando che essi esorbitano dalla funzione di porre principi di coordinamento della finanza pubblica (sentenze n. 417 del 2005, n. 390 del 2004, n. 449 del 2005 e n. 88 del 2006).

    Ad avviso della ricorrente, nei confronti della Regione Friuli-Venezia Giulia lo Stato non può stabilire vincoli alla spesa più stringenti di quelli che può disporre nei confronti delle Regioni ordinarie: in base all'art. 48 dello statuto, infatti, «la Regione ha una propria finanza, coordinata con quella dello Stato, in armonia con i principi della solidarietà nazionale».

    Secondo la Regione Friuli-Venezia Giulia, le norme impugnate, comprimendo le spese di funzionamento degli enti collegati alla Regione e agli enti locali, ledono l'autonomia legislativa della Regione, dato che il finanziamento degli enti in questione è regolato con leggi regionali. Le materie di riferimento sarebbero, da un lato, l'«ordinamento degli Uffici e degli Enti dipendenti dalla Regione» (art. 4, numero 1, dello statuto), e l'«ordinamento degli enti locali» (n. 1-bis), dall'altro le «istituzioni culturali, ricreative e sportive; musei e biblioteche di interesse locale e regionale» (art. 4, numero 14), le «istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza» (art. 5, numero 6), l'«ordinamento delle Casse di risparmio, delle Casse rurali; degli Enti aventi carattere locale o regionale per i finanziamenti delle attività economiche nella Regione» (numero 8) e l'«istituzione e ordinamento di Enti di carattere locale o regionale per lo studio di programmi di sviluppo economico» (numero 9). Rileverebbero, poi, in relazione all'ARPA, la competenza primaria in materia di ambiente (art. 4, numeri 2, 3, 9, 12 e 13); in relazione all'Agenzia regionale per il turismo, la competenza primaria in materia di turismo (art. 4, numero 10); in relazione agli Enti per il diritto allo studio universitario, la competenza piena nella relativa materia, spettante alla Regione Friuli-Venezia Giulia ex art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, e, in relazione all'Agenzia regionale del lavoro e della formazione professionale, la competenza concorrente in materia di tutela del lavoro e la competenza piena in materia di formazione professionale, spettanti ex art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001.

    Le norme impugnate lederebbero anche l'autonomia organizzativa e finanziaria della Regione, in relazione all'organizzazione e all'attività degli enti collegati ad essa e agli enti locali. Il vincolo puntuale alle spese, infatti, si porrebbe in diretta contraddizione con il principio di autonomia delle scelte, a base sia dello statuto che del sistema costituzionale dell'autonomia finanziaria regionale.

    Infine, la norma contenuta nell'art. 22, comma 2, ultimo periodo (che vieta «alle Amministrazioni vigilanti di approvare i bilanci di  enti ed organismi pubblici in cui gli amministratori non abbiano espressamente dichiarato nella relazione sulla gestione di avere  ottemperato alle disposizioni del presente articolo») lederebbe l'autonomia legislativa ed amministrativa della Regione, nelle materie sopra indicate, perché verrebbe a sanzionare un dovere  introdotto in modo illegittimo.

    L'art. 22, commi 1 e 2, del decreto-legge n. 223 del 2006 recherebbe anche una lesione indiretta delle prerogative regionali, in quanto comprimerebbe l'autonomia regionale violando norme costituzionali non specificamente poste a garanzia dell'autonomia regionale.

    La compressione dell'autonomia della Regione e degli enti ad essa collegati sarebbe operata in violazione del principio di ragionevolezza (art. 3 Cost.) e del principio di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.). Infatti, il comma 1 ha previsto una fort e riduzione delle spese di funzionamento previste per il 2006 quando si era già nella seconda metà del 2006: con gravi e irragionevoli ripercussioni sulla funzionalità dell'ente. Il comma 2 ha disposto una riduzione ancora più forte (i l 20) delle spese di funzionamento, assumendo come unico parametro la previsione fatta per il 2006 (che potrebbe essere appena sufficiente per il funzionamento dell'ente), senza alcun riferimento ad eventuali avanzi o alla congruità della quota assegnata alle spese di finanziamento o all'andamento delle gestioni passate. Si tratta di un taglio «secco», per dirottare risorse nelle casse statali, senza alcuna  considerazione delle esigenze di buon andamento degli enti interessati: di qui la violazione degli artt. 3 e 97 Cost.

    In altre parole, il comma 1 ed il comma 2 sarebbero irragionevoli in  quanto richiedono la riduzione delle spese di funzionamento in una misura percentuale assoluta sull'importo di tale voce, senza la minima considerazione dei parametri oggettivi in base ai quali deve essere giudicata la consistenza di tale voce, parametri quali il rapporto con le spese non di funzionamento, la natura dell'ente, i risparmi di spesa in tale voce da esso già realizzati nel passato, i fattori di flessibilità o rigidità della voce stessa (se ad esempio l'intera voce si riferisse al pagamento degli stipendi del personale di ruolo la riduzione sarebbe impossibile o si tradurrebbe nell'obbligo d i licenziare parte del personale, con lesione anche dell'autonomia organizzativa).

    Infine, le norme impugnate risulterebbero irragionevoli perché colpirebbero una specifica voce di spesa, mentre sarebbe stato legittimo soltanto operare - semmai - una riduzione della spesa complessiva, lasciando all'ente e alla Regione la scelta delle specifiche spese da tagliare. Il mezzo scelto dal legislatore  statale, cioè, non rispetterebbe neppure il criterio di proporzionalità, in quanto si sarebbe potuto utilizzare un mezzo meno restrittivo per ottenere lo stesso fine.

    4.1. ¾ L'Avvocatura generale dello Stato, costituitasi per il Presidente del Consiglio dei ministri, ha concluso per l'inammissibilità e l'infondatezza della questione. La questione sarebbe inammissibile in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, trattandosi di parametri non relativi al riparto di competenze. Le disposizioni impugnate, ad avviso della difesa erariale, risp ondono ad evidenti finalità di razionalizzazione e di contenimento della spesa pubblica, anche nella prospettiva del rispetto dei vincoli derivanti dal patto di stabilità, e trovano dunque generale fondamento nella competenza legislativa in materia di coordinamento della finanza pubblica. L'intervento legislativo sarebbe motivato dalla necessità di far fronte alla situazione di emergenza dei conti pubblici, e consiste nella semplice fissazione di limiti generali, sia all'entità del finanziamento sia alla spesa corrente.

    In ogni caso, l'Avvocatura dubita della ammissibilità della censura sotto altro profilo, in quanto «non sembra trattarsi di disposizioni applicabili agli enti pubblici non territoriali regionali, non contenendo la norma alcun riferimento espresso a questi ultimi e, pertanto, non potendosi ritenere che la norma li riguardi in considerazione del loro inserimento nell'elenco in essa contemplato».

    5. ¾ In prossimità dell'udienza pubblica, la Regione Veneto, la Regione Friuli-Venezia Giulia e il Presidente del Consiglio dei ministri hanno depositato memorie illustrative.

    La Regione Veneto, nel sottolineare che la previsione da parte della legge statale di limiti all'entità di una singola voce di spesa non può essere considerata un principio fondamentale in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici e di coordinamento della finanza pubblica, ribadisce che l'art. 22 individua quale oggetto del taglio non la crescita della spesa corrente, ma solo le spese per consumi intermedi.

    A sua volta, l'art. 26 conterrebbe un precetto specifico, che richiede ai fini della propria concreta applicazione soltanto un'attività di materiale esecuzione.

    Costituzionalmente illegittimo sarebbe altresì l'art. 27, per le stesse ragioni già espresse dalla Corte con la sentenza n. 417 del 2005.

    Con riguardo all'art. 29, la Regione osserva che l'autoqualificazione come norma di principio è incompatibile con le statuizioni recate dalla disposizione denunciata, aventi un basso grado di astrattezza e contenenti una disciplina in sé compiuta.

    Replicando alla difesa erariale, la Regione Friuli-Venezia Giulia osserva che il nesso dell'art. 22 con il patto di stabilità è del tutto generico, perché i limiti introdotti dalla norma denunciata colpiscono indiscriminatamente tutti gli enti pubblici non territoriali, eccetto quelli espressamente esclusi dalla disposizione.

    La Regione prende atto che l'Avvocatura ha prospettato una interpretazione adeguatrice dell'art. 22, secondo la quale le norme impugnate non sarebbero applicabili agli enti pubblici non territoriali regionali. Ove tale fosse il senso da attribuire alla disposizione, verrebbe meno la ragione della censura.

    L'Avvocatura dello Stato, ribadite le eccezioni preliminari di inammissibilità, osserva che, per le questioni aventi ad oggetto l'art. 22, comma 2, del decreto-legge, la materia del contendere deve ritenersi cessata, perché la norma denunciata - che per l'anno finanziario 2007 non ha avuto applicazione - è stata abrogata dall'art. 2, comma 625, della legge 24 dicembre 2007, n. 296.

    Il comma 1 dell'art. 22 sarebbe una norma di contenimento della spesa, necessitata dalla situazione di emergenza dei conti pubblici, la cui legittimità è già stata riconosciuta ed affermata dalla giurisprudenza costituzionale.

    Quanto all'art. 26, la norma non si riferirebbe alle Regioni, attesa l'espressa previsione contenuta nell'art. 1, comma 57, della legge n. 311 del 2004.

    Secondo l'Avvocatura, l'art. 27 non si applicherebbe alle Regioni e agli enti locali, per espressa previsione dell'art. 1, comma 12, della legge n. 266 del 2005. La norma impugnata, comunque, risponde ad evidenti finalità di razionalizzazione e di contenimento della spesa pubblica.

    Lo stesso varrebbe per l'art. 29, che, per espressa previsione contenuta nel comma 6, non trova diretta applicazione alle Regioni, alle Province autonome e agli enti locali.

Considerato in diritto

    1. ¾ La Regione Veneto (reg. ric. nn. 96 e 103 del 2006), la Regione Toscana (reg. ric. n. 99 del 2006) e la Regione Friuli-Venezia Giulia, con quattro distinti ricorsi, hanno promosso questioni di legittimità costituzionale di numerose disposizioni del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), nel testo originario o nel testo risultante dalla legge di conversione 4 agosto 2006, n. 248.

    In particolare, la Regione Veneto ha proposto in via principale, tra le altre, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 22, 26 e 29 del decreto-legge n. 223 del 2006, denunciando la violazione degli artt. 3, 97, 117, 118 e 119 della Costituzione.

    Successivamente alla conversione in legge del menzionato decreto-legge, la medesima Regione Veneto ha proposto analoghe questioni contro le norme prima citate così come convertite dalla legge n. 248 del 2006 e contro l'art. 27.

    La Regione Toscana ha proposto questioni di legittimità costituzionale degli artt. 22 e 26 del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito in legge, denunciando la violazione degli artt. 117 e 119 della Costituzione.

    Infine, la Regione Friuli-Venezia Giulia ha promosso questione di legittimità costituzionale dell'art. 22 del decreto-legge n. 223 del 2006, nel testo risultante dalla conversione in legge, in riferimento agli artt. 117, terzo comma, e 119 della Costituzione, all'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, agli artt. 4, numeri 1, 1-bis, 2, 3, 9, 10, 12, 13 e 14, 5, numeri 6, 8 e 9, e 48 dello statuto speciale, e agli artt. 3 e 97 della Costituzione.

    2. ¾ La trattazione delle indicate questioni di legittimità costituzionale viene qui separata da quella delle altre, promosse con i medesimi ricorsi, per le quali è opportuno procedere ad un esame distinto.

    I giudizi, così separati e delimitati nell'oggetto, vanno riuniti per essere congiuntamente trattati e decisi in considerazione della analogia delle questioni prospettate.

    3. ¾ Gli artt. 22, 26 e 29 del decreto-legge n. 223 del 2006 - impugnati dalla Regione Veneto con il primo ricorso - sono stati soltanto in parte modificati dalla legge di conversione, la quale ha introdotto innovazioni che, tuttavia, non incidono sul contenuto precettivo delle disposizioni, nei punti qui di interesse. Pertanto, lo scrutinio di costituzionalità va condotto avendo ri guardo al testo di dette norme risultante dalla legge di conversione, tenendo conto delle argomentazioni svolte in entrambi i ricorsi (sentenza n. 430 del 2007), peraltro sostanzialmente identiche.

    4. ¾ L'art. 22 del decreto-legge n. 223 del 2006, impugnato da tutte le Regioni ricorrenti, detta disposizioni per la riduzione delle spese di funzionamento di enti ed organismi pubblici non territoriali.

    La disposizione si compone di due commi.

    Il comma 1 prevede che gli stanziamenti per l'anno 2006 relativi a spese per consumi intermedi dei bilanci di enti ed organismi pubblici non territoriali che adottano contabilità anche finanziaria sono ridotti del 10 per cento, comunque nei limiti delle disponibilità non impegnate alla data di entrata in vigore del decreto-legge. Per gli enti ed organismi che adottano una contabilità esclusivamente civilistica i costi di produzione concernenti i beni di consumo e servizi ed il godimento di beni di terzi sono ridotti del 10 per cento. Le somme provenienti dalle suddette riduzioni sono versate da ciascun ente entro il mese di ottobre 2006 all'entrata del bilancio dello Stato.

    Il comma 2, a sua volta, prevede, per le stesse voci di spesa di cui al comma precedente e per il triennio 2007-2009, l'obbligo di riduzione del 20 per cento delle previsioni di bilancio, rispetto alla spesa stanziata per l'anno 2006; è altresì stabilito che le amministrazioni vigilanti non possono approvare i bilanci degli enti ed organismi soggetti al suddetto obbligo, se i relativi amministratori non abbiano dichiarato nella relazione sulla gestione di aver ottemperato alle specifiche disposizioni introdotte. Anche in tale ipotesi le somme corrispondenti alla riduzione dei costi e delle spese sono accantonate da ciascun ente e poi versate, entro il 30 giugno di ogni anno, all'entrata del bilancio dello Stato.

    Tutte le ricorrenti, nel prospettare la questione in riferimento agli artt. 117 e 119 della Costituzione, lamentano che la norma denunciata porrebbe vincoli puntuali ad una singola voce di spesa, eccedendo dai limiti della competenza statale in materia di "coordinamento della finanza pubblica" e violando l'autonomia finanziaria di spesa degli enti regionali, per i quali sono le Regioni competenti ad intervenire in via legislativa. La Regione Friuli-Venezia Giulia, oltre a denunciare il contrasto con lo statuto speciale, prospetta la questione di costituzionalità in riferimento, altresì, agli artt. 3 e 97 della Costituzione, sotto il profilo della ragionevolezza e del buon andamento della pubblica amministrazio ne.

    4.1.¾ Ai fini dell'esame delle questioni aventi ad oggetto l'art. 22, occorre prendere preliminarmente in esame l'eccezione di inammissibilità formulata dall'Avvocatura generale dello Stato, basata sul rilievo che le stesse sarebbero prospettate in via meramente ipotetica, in ragione della mera eventualità (peraltro negata dalle Regioni) che si tratti di disposizione applicabile agl i enti pubblici non territoriali regionali.

    L'eccezione va respinta.

    Questa Corte ha infatti già chiarito che, a differenza di quanto accade per il giudizio in via incidentale, il giudizio in via principale può concernere questioni sollevate sulla base di interpretazioni prospettate dal ricorrente come possibili. Il principio vale soprattutto nei casi in cui su una legge non si siano ancora formate prassi interpretative in grado di modellare o restringere il raggio delle sue astratte potenzialità applicative e le interpretazioni addotte dal ricorrente non siano implausibili e irragionevolmente scollegate dalle disposizioni impugnate così da far ritenere le questioni stesse del tutto astratte o pretestuose (sentenze n. 228 del 2003, n. 412 del 2004 e n. 449 del 2005).

    Poiché nella specie il testo della disposizione impugnata consente, tra le altre, l'interpretazione censurata dalle ricorrenti, non v'è ostacolo allo scrutinio nel merito delle questioni.

    4.2. ¾ Sempre in via preliminare, con riferimento alla questione promossa dalla Regione Friuli-Venezia Giulia, va escluso che la denunciata lesione delle competenze della ricorrente sia impedita dal comma 1-bis del decreto-legge n. 223 del 2006, introdotto dalla legge di conversione, ai cui sensi «Le disposizioni del presente decreto si app licano alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e Bolzano in conformità agli statuti speciali e alle relative norme di attuazione». In proposito, deve ritenersi che la clausola di salvaguardia contenuta nel suddetto comma 1-bis è troppo generica per giustificare questa conclusione, tanto che in tale disposizione del decreto-legge non risulta neppure precisato quali norme dovrebbero considerarsi non applicabili alla ricorrente per incompatibilità con lo statuto speciale e con le relative norme di attuazione e quali, invece, dovrebbero ritenersi applicabili.

    4.3. ¾ Ancora in via preliminare, va rilevato che le ragioni della controversia sono venute meno in relazione al comma 2 dell'art. 22, che riguarda la riduzione delle spese di funzionamento per enti ed organismi pubblici non territoriali nel triennio 2007-2009.

    Successivamente alla proposizione dei ricorsi, infatti, l'art. 2, comma 625, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008), ha abrogato il citato comma 2 dell'art. 22. Inoltre, la medesima disposizione censurata, sin dal momento della sua entrata in vigore e fino alla data della sua abrogazione, non ha prodotto alcun effetto, perché l'art. 4, comma 2, del decreto-legge 2 luglio 2007, n. 81 (Disposizioni urgenti in materia finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2007, n. 127, ne aveva sospeso l'applicazione per tutto il 2007.

    In ordine al citato comma 2, pertanto, deve constatarsi che è venuto meno l'interesse delle ricorrenti a coltivare l'impugnativa, sicché, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 451 del 2007), deve dichiararsi cessata la materia del contendere.

    4.4. ¾ Quanto al comma 1 dell'art. 22, concernente la riduzione degli stanziamenti relativi a spese per consumi intermedi per l'anno 2006, occorre premettere, nel merito, che, per quanto concerne l'ambito soggettivo di applicazione, la disposizione denunciata fa riferimento agli enti e agli organi pubblici non territoriali individuati ai sensi dell'art. 1, commi 5 e 6, della legge f inanziaria per il 2005 (legge 30 dicembre 2004, n. 311), ai fini dell'applicazione della regola generale di contenimento dell'incremento della spesa della pubblica amministrazione nel triennio 2005-2007. Si tratta degli enti ed organismi inseriti nel conto economico consolidato delle pubbliche amministrazioni, individuati, a decorrere dal 2006, da un elenco dell'ISTAT, da pubblicare nella Gazzetta Ufficiale non oltre il 31 luglio di ogni anno, con esclusione degli organi costituzionali e del Consiglio superiore della magistratura.

    L'elenco delle amministrazioni pubbliche inserite nel conto economico consolidato compilato dall'ISTAT, da considerarsi operante per il 2006, è stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 175 del 29 luglio 2005, e comprende espressamente anche enti ed organismi pubblici non territoriali regionali.

    La disposizione, contenuta nel denunciato art. 22, volta a ridurre gli stanziamenti di spesa per consumi intermedi, deve, pertanto, intendersi riferita, salve le eccezioni tassativamente previste, a tutti gli enti ed organismi pubblici non territoriali, compresi quelli regionali.

    Ciò posto, nella giurisprudenza di questa Corte è ormai consolidato l'orientamento secondo cui norme statali che fissano limiti alla spesa di enti pubblici regionali possono qualificarsi princípi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica alla seguente duplice condizione: in primo luogo, che si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della medesima, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente; in secondo luogo, che non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi (sentenze n. 120 del 2008; n. 412 e n. 169 del 2007; n. 88 del 2006).

    Contrariamente a quanto sostenuto dalle ricorrenti, la disposizione denunciata risponde a entrambe dette condizioni.

    La prima è soddisfatta, perché il censurato limite fissato dal legislatore ha natura transitoria, operando solo per l'anno 2006, e riguarda la spesa complessiva per consumi intermedi, cioè un rilevante aggregato della spesa di parte corrente, che costituisce una delle più frequenti e rilevanti cause del disavanzo pubblico. Il legislatore, dunque, ha perseguito generali obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, incidendo temporaneamente su una complessiva e non minuta voce di spesa (per una analoga fattispecie: sentenza n. 169 del 2007).

    La seconda condizione è soddisfatta, perché la norma censurata non determina gli strumenti e le modalità per il perseguimento del predetto obiettivo, ma lascia liberi gli enti destinatari della prescrizione di individuare le misure necessarie al fine del contenimento della spesa per consumi intermedi.

    La disposizione di cui al comma 1 dell'art. 22 del decreto-legge n. 223 del 2006 va qualificata, dunque, come principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica: principio che, come più volte affermato da questa Corte, deve ritenersi applicabile anche alle autonomie speciali, in considerazione dell'obbligo generale di tutte le Regioni, ivi comprese quelle a statuto speciale, di contribuire all'azione di risanamento della finanza pubblica (sentenze n. 190 del 2008; n. 169 e n. 82 del 2007).

    Né rileva il fatto che la riduzione degli stanziamenti sia imposta per lo stesso esercizio finanziario in corso. Il necessario concorso degli enti pubblici regionali alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica, adottati con l'adesione al patto di stabilità e crescita definito in sede di Unione Europea, postula, infatti, che il legislatore statale possa intervenire sugli stanziamenti per l'anno in corso, qualora lo richieda il complessivo andamento dei conti pubblici, con il solo limite della palese arbitrarietà o della manifesta irragionevolezza della variazione. Tale limite nella specie non è superato, perché la norma denunciata, accanto al tetto del 10 per cento, prevede che in ogni caso la riduzione debba avvenire «nei limiti delle disponibilità non impegnate alla data di entrata in vigore» del decreto-legge.

    Conseguentemente, vanno dichiarate non fondate le proposte questioni di legittimità costituzionale.

    Deve essere dichiarata inammissibile la questione prospettata dalla Regione Friuli-Venezia Giulia in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione.

    Questa Corte ha più volte affermato che le Regioni possono far valere il contrasto con norme costituzionali diverse da quelle attributive di competenza solo ove esso si risolva in una lesione di sfere di competenza regionali (sentenze n. 190 del 2008, n. 401 del 2007 e n. 116 del 2006). Nella specie, le censure sono proposte in relazione a parametri non attinenti al riparto di competenze, senza che sia desunta la compressione di sfere di attribuzione regionale.

    5. ¾ L'art. 26 del decreto-legge n. 223 del 2006 introduce un meccanismo sanzionatorio in caso di mancato rispetto del limite all'incremento delle spese degli enti pubblici non territoriali introdotto dall'art. 1, comma 57, della legge finanziaria per il 2005 (legge n. 311 del 2004). In particolare, si dispone che le amministrazioni vigilanti diano comunicazione al Ministero dell'ec onomia e delle finanze - Dipartimento della Ragioneria generale dello Stato, entro il 31 luglio di ciascuno degli anni 2006, 2007 e 2008, delle eccedenze di spese risultanti dai conti consuntivi, rispettivamente, del 2005, 2006 e 2007, riferiti agli enti tenuti al rispetto della indicata regola di contenimento delle spese. I trasferimenti erariali a qualsiasi titolo erogati in favore dei medesimi enti sono ridotti in misura pari alle eccedenze di spesa risultanti dai predetti conti consuntivi. Qualora gli enti interessati non risultino destinatari di trasferimenti, essi sono tenuti a versare l'importo corrispondente alle eccedenze stesse all'entrata del bilancio dello Stato (con imputazione al capo X, cap. 2961) entro il 30 settembre dell'anno successivo a quello in cui si è registrata l'eccedenza.

    Le questioni di legittimità costituzionale - sollevate dalla Regione Veneto e dalla Regione Toscana in riferimento, rispettivamente, agli artt. 117, 118 e 119 e agli artt. 117 e 119 della Costituzione - non sono fondate.

    Infatti, la norma denunciata si limita a prevedere, al fine di assicurare il rispetto in concreto di una legittima misura di coordinamento finanziario fissata dalla legge finanziaria per il 2005, una sanzione a carico degli enti che non rispettino il limite all'incremento delle spese degli enti non territoriali. Questa Corte ha più volte affermato che costituiscono principi di coordinamento della finanza pubblica le previsioni di sanzioni volte ad assicurare il rispetto di limiti complessivi di spesa, operanti nei confronti degli enti che abbiano superato i predetti limiti (sentenze n. 190 del 2008 e n. 412 del 2007).

    Il versamento, poi, al bilancio dello Stato di un importo corrispondente alle maggiori spese effettuate rispetto al limite previsto, è giustificato dal fatto che gli enti in questione sono inseriti nel conto economico consolidato delle pubbliche amministrazioni.

    Inammissibile è la questione sollevata dalla Regione Veneto in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, essendo evidente che si tratta di parametri estranei alle competenze della Regione.

    6. ¾ E' inammissibile per difetto di interesse la questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l'art. 27 del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito dalla legge n. 248 del 2006, sollevata, in riferimento agli artt. 117, terzo comma, e 119 della Costituzione, dalla Regione Veneto.

    L'art. 27 dispone una riduzione ulteriore del 10 per cento, rispetto a quella prevista dalla legge finanziaria per il 2006 (art. 1, comma 9, della legge n. 266 del 2005), delle spese delle pubbliche amministrazioni per: (a) studi ed incarichi di consulenza conferiti a soggetti estranei all'amministrazione; (b) relazioni pubbliche, convegni, mostre, pubblicità e rappresentanza.

    Ma il comma 9 dell'art. 1 della legge finanziaria per il 2006, per previsione normativa, non si applica né alle Regioni né agli enti locali, secondo quanto dispone l'art. 1, comma 12, della legge n. 266 del 2005.

    7. ¾ L'art. 29 del decreto-legge n. 223 del 2006 prevede la riduzione, a decorrere dal 2006, del 30 per cento della spesa complessiva sostenuta nel 2005 dalle amministrazioni pubbliche per il funzionamento degli organi collegiali. A tal fine le amministrazioni adottano entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto-legge le necessarie misure di adeguamento ai nuovi limiti di spesa. Inoltre, con appositi atti regolamentari da emanare entro tre mesi dalla data medesima, si procede al riordino degli organismi operanti, anche mediante soppressione od accorpamento, con la finalità di realizzare le economie di spesa previste dalla norma in questione. Decorsi i termini predetti senza che si sia provveduto agli adempimenti relativi, è fatto divieto alle amministrazioni di corrispondere compensi ai componenti degli organi in esame.

    La questione, promossa dalla Regione Veneto in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, è inammissibile per difetto di interesse.

    Difatti, per espressa previsione normativa (comma 6 del denunciato art. 29), «Le disposizioni del presente articolo non trovano diretta applicazione alle Regioni, alle Province autonome e agli enti del Servizio sanitario nazionale, per i quali costituiscono disposizioni di principio ai fini del coordinamento della finanza pubblica».

    Ne deriva che i precetti specifici e puntuali previsti dalla disposizione denunciata non si riferiscono alle Regioni, le quali, mentre sono tenute a rispettare il solo obiettivo finanziario globale da essa disposto, sono libere nello stabilire strumenti e modalità per il conseguimento dello scopo divisato dal legislatore statale.

    In quest'ambito la norma denunciata, che incide temporaneamente su una complessiva e non minuta voce di spesa, va qualificata come principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riservata a separate pronunce la decisione delle restanti questioni di legittimità costituzionale sollevate con i ricorsi indicati in epigrafe;

    riuniti i giudizi,

    1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 22, comma 1, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, promossa, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dalla Regione Friuli-Venezia Giulia con il ricorso indicato in epigrafe;

    2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 26 del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006, promossa, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dalla Regione Veneto con i ricorsi indicati in epigrafe;

    3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 27 del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006, promossa, in riferimento agli artt. 117, terzo comma, e 119 della Costituzione, dalla Regione Veneto con il ricorso indicato in epigrafe;

    4) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 29 del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006, promosse, in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, dalla Regione Veneto con i ricorsi indicati in epigrafe;

    5) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 22, comma 1, del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006, promosse: in riferimento agli artt. 117, terzo comma, e 119 della Costituzione, dalla Regione Veneto con i ricorsi indicati in epigrafe; in riferimento agli artt. 117 e 119 della Costituzione, dalla Regione Toscana con il ricorso indicato in epigrafe; in riferimento agli artt. 117, terzo comma, e 119 della Costituzione, all'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 e agli artt. 4, numeri 1, 1-bis, 2, 3, 9, 10, 12, 13 e 14, 5, numeri 6, 8 e 9, e 48 dello statuto speciale, dalla Regione Friuli-Venezia Giulia con il ricorso indicato in epigrafe;

    6) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 26 del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006, promosse: in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, dalla Regione Veneto con i ricorsi indicati in epigrafe; e, in riferimento agli artt. 117 e 119 della Costituzione, dalla Regione Toscana con il ricorso indicato in epigrafe;

    7) dichiara cessata la materia del contendere in ordine alle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 22, comma 2, del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 248 del 2006, promosse: in riferimento agli artt. 117, terzo comma, e 119 della Costituzione, dalla Regione Veneto con i ricorsi indicati in epigrafe; in riferimento agli artt. 117 e 119 della Costituzione, dalla Regione Toscana con il ricorso indicato in epigrafe; e, in riferimento agli artt. 117, terzo comma, e 119 della Costituzione, all'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 e agli artt. 4, numeri 1, 1-bis, 2, 3, 9, 10, 12, 13 e 14, 5, numeri 6, 8 e 9, e 48 dello statuto speciale, dalla Regione Friuli-Venezia Giulia con il ricorso indicato in epigrafe.

      Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

SENTENZA N. 290

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 28, comma 1, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248, promosso con ricorso della Regione Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste, notificato il 10 ottobre 2006, depositato in cancelleria il 19 ottobre 2006 ed iscritto al n. 107 del registro ricorsi 2006.

      Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

      udito nell'udienza pubblica del 24 giugno 2008 il Giudice relatore Franco Gallo;

      uditi l'avvocato Francesco Saverio Marini per la Regione Valle d'Aosta e l'avvocato dello Stato Danilo Del Gaizo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

    1. - La Regione Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste, nell'impugnare numerose disposizioni del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248, ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell'art. 28, comma 1, del suddetto decreto-legge, in riferimento: a) agli artt. 117, terzo comma, e 119, secondo comma, della Costituzione, nonché all'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione); b) all'art. 2, lettera a), dello statuto speciale per la Valle d'Aosta; c) agli artt. 3, lettera f), di detto statuto, 117, terzo comma, e 119, secondo comma, Cost., nonché all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001.

    Ad avviso della ricorrente, la norma denunciata - la quale prevede, nel primo periodo, che «Le diarie per le missioni all'estero di cui alla tabella B allegata al decreto del Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica in data 27 agosto 1998, e successive modificazioni, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 202 del 31 agosto 1998, sono ridotte del 20 per cento a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto» e, nel secondo periodo, che «La riduzione si applica al personale appartenente alle amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni» - fissa vincoli puntuali a singole voci di spesa dei bilanci della Regione e degli enti locali e, cosí facendo, lede la loro autonomia finanziaria di spesa, violando gli artt. 117, terzo comma, e 119, secondo comma, Cost., «che garantiscono, ai sensi dell'art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, anche la sfera di autonomia finanziaria della Regione Valle d'Aosta».

    Sempre per la ricorrente, la norma censurata, imponendo una riduzione del 20 per cento delle diarie del personale della Regione in missione all'estero, víola, altresí, l'art. 2, lettera a), dello statuto speciale, il quale riserva alla potestà legislativa regionale la disciplina nella materia «ordinamento degli uffici e degli enti dipendenti dalla Regione e stato giuridico ed economico del personale». La determinazione normativa di una diaria o di un'indennità di trasferta per missioni all'estero rientrerebbe, infatti, nell'àmbito materiale riguardante il trattamento economico del dipendente regionale, complessivamente considerato.

    La Regione sostiene, inoltre, che il denunciato art. 28, comma 1, del citato d.l. n. 223 del 2006 si pone in contrasto con l'art. 3, lettera f), dello statuto di autonomia, il quale attribuisce alla stessa Regione la potestà di introdurre norme legislative di integrazione ed attuazione, nell'àmbito dei princípi individuati con legge dello Stato, in materia di «finanze regionali e comunali». Ad avviso della ricorrente, il combinato disposto di tale disposizione statutaria e degli artt. 117, terzo comma, e 119, secondo comma, Cost. «qualifica la competenza normativa della Valle D'Aosta in tale materia (in forza della clausola di cui all'art. 10 legge cost. n. 3 del 2001) non piú come meramente suppletiva rispetto a quella statale, ma garantita nell'àmbito dei principi di coordinamento stabiliti dallo Stato, il quale deve, dunque, limitarsi alla fissazione di tali principi». La potestà legislativa in materia di autonomia finanziaria locale si articolerebbe, cioè, su due livelli, statale e regionale, con la conseguenza che la legislazione statale non potrebbe vincolare, come invece fa la norma censurata, la spesa per il personale delle amministrazioni comunali.

    Per la Regione Valle d'Aosta, la norma denunciata troverebbe applicazione anche per le Regioni a statuto speciale, nonostante la clausola contenuta nell'art. 1, comma 1-bis, dello stesso d.l. n. 223 del 2006, la quale stabilisce che quanto da esso disposto si applica alle Regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e Bolzano «in conformità agli statuti speciali e alle relative norme di attuazione». Tale clausola di salvaguardia avrebbe, infatti, un significato ambiguo, perché le norme censurate prevedrebbero espressamente la propria applicabilità alle Regioni a statuto speciale e alle Province autonome di Trento e Bolzano e perché, in ogni caso, il loro tenore letterale non consentirebbe di escluderne con certezza l'applicabilità alle suddette Regioni e Province autonome. La rilevata ambiguità di significato della clausola di salvaguardia consente, ad avviso della ricorrente, di interpretare la norma denunciata in senso lesivo delle attribuzioni della Regione, con la conseguenza che le norme stesse possono essere oggetto di impugnazione, sulla scorta della giurisprudenza della Corte costituzionale, per la quale «il giudizio in via principale può concernere questioni sollevate sulla base di interpretazioni prospettate dal ricorrente come possibili, a condizione che queste ultime non siano implausibili e irragionevolmente scollegate dalle disposizioni impugnate cosí da far ritenere le questioni del tutto astratte o pretestuose».

    2. - Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo, in via pregiudiziale, per l'inammissibilità, e, nel merito, per l'infondatezza delle proposte questioni, osservando che: a) «deve [.] dubitarsi che la norma in questione si applichi al personale della Regione e che, pertanto, la censura sia, sotto tale profilo ammissibile»; b) la disposizione censurata risponde a evidenti finalità di razionalizzazione e contenimento della spesa pubblica per il rispetto del patto di stabilità ed è, perciò, riconducibile alla competenza legislativa statale in materia di coordinamento della finanza pubblica.

    3. - Con memoria depositata nell'imminenza dell'udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ribadisce quanto già affermato nell'atto di costituzione ed eccepisce la manifesta inammissibilità del ricorso per «insussistenza ab origine della materia del contendere», sul rilievo che l'art. 1, comma 1-bis, del citato d.l. n. 223 del 2006 contiene una clausola di salvaguardia nei confronti delle Regioni a statuto speciale, perché «ha espressamente subordinato l'applicabilità della disciplina recata dal [.] decreto [.] alla conformità della suddetta disciplina agli statuti speciali di siffatte regioni e alle relative norme di attuazione».

    4. - La discussione del giudizio di legittimità costituzionale è stata rinviata a nuovo ruolo e poi nuovamente fissata per l'udienza del 24 giugno 2008.

    5. - Con memoria depositata in prossimità dell'udienza, la ricorrente, senza rinunciare al ricorso, ha precisato che «il ricorso aveva una finalità tuzioristica», perché «la norma censurata [.] effettivamente sembra non doversi ritenere vincolante per la Regione Valle d'Aosta, nella quale il calcolo delle diarie in questione è sottoposto ad un regime contrattualizzato e non risponde ai parametri tabellari fissati a livello statale».

Considerato in diritto

    1. - La Regione Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste, nell'impugnare numerose disposizioni del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248, dubita, in particolare, della legittimità costituzionale dell'art. 28, comma 1 .

    Ad avviso della ricorrente, il denunciato art. 28, comma 1 - il quale prevede, nel primo periodo, che «Le diarie per le missioni all'estero di cui alla tabella B allegata al decreto del Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica in data 27 agosto 1998, e successive modificazioni, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 202 del 31 agosto 1998, sono ridotte del 20 per cento a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto» e, nel secondo periodo, che «La riduzione si applica al personale appartenente alle amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni» -, víola: a) gli artt. 117, terzo comm a, e 119, secondo comma, della Costituzione - «che garantiscono, ai sensi dell'art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001, anche la sfera di autonomia finanziaria della Regione Valle d'Aosta» -, perché fissa vincoli puntuali a singole voci di spesa dei bilanci della Regione e degli enti locali e, cosí facendo, lede la loro autonomia finanziaria di spesa; b) l'art. 2, lettera a), dello statuto speciale - il quale riserva alla potestà legislativa regionale la disciplina in materia di «ordinamento degli uffici e degli enti dipendenti dalla Regione e stato giuridico ed economico del personale» -, perché la determinazione normativa di una diaria o di un'indennità di trasferta per missioni all'estero rientra nell'àmbito materiale riguardante il trattamento economico del dipendente regionale; c) il combinato disposto degli artt. 3, lettera f), dello statuto speciale, 117, terzo comma, e 119, secondo comma, Co st., che, sempre «in forza della clausola di cui all'art. 10 legge cost. n. 3 del 2001», qualifica - nell'àmbito dei princípi individuati con legge dello Stato, in materia di finanze regionali e comunali - la competenza normativa della Regione ad introdurre norme legislative di integrazione ed attuazione «non piú come meramente suppletiva rispetto a quella statale, ma garantita nell'àmbito dei principi di coordinamento stabiliti dallo Stato, il quale deve, dunque, limitarsi alla fissazione di tali principi», non potendo vincolare la spesa per il personale delle amministrazioni comunali.

    2. - La trattazione delle indicate questioni di legittimità costituzionale viene qui separata da quella delle questioni relative ad altre disposizioni dello stesso decreto-legge, promosse con il medesimo ricorso e per le quali è opportuno procedere a un esame distinto.

    3. - L'Avvocatura generale dello Stato eccepisce che le questioni sono inammissibili per difetto di interesse a ricorrere, osservando che «deve [.] dubitarsi che la norma in questione si applichi al personale della Regione».

    L'eccezione è fondata, come riconosce la stessa ricorrente affermando, nella memoria depositata in prossimità dell'udienza, che «il ricorso aveva una finalità tuzioristica» in quanto «la norma censurata [.] effettivamente sembra non doversi ritenere vincolante per la Regione».

    Il censurato comma 1 dell'art. 28 del decreto-legge n. 223 del 2006 prevede, nel primo periodo, che «Le diarie per le missioni all'estero di cui alla tabella B allegata al decreto del Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica in data 27 agosto 1998, e successive modificazioni, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 202 del 31 agosto 1998, sono ridotte del 20 per cento a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto». Detta tabella è allegata al citato decreto ministeriale - intitolato «Adeguamento delle diarie di missione all'estero del personale statale, civile e militare, delle università e della scuola» - e riguarda, in particolare, le diarie nette per missioni all'estero riferite esclusivamente ai «grup pi di personale dello Stato e delle Università», senza menzionare in alcun modo il personale delle Regioni e degli enti locali.

    Di conseguenza, il secondo periodo dello stesso comma 1 - per il quale «La riduzione si applica al personale appartenente alle amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni» - deve essere interpretato restrittivamente, in conformità a quanto disposto dal primo periodo del medesimo comma, che, mediante il richiamo alla indicata tabella B allegata al citato decreto ministeriale, circoscrive l'àmbito soggettivo di applicazione della norma denunciata alle categorie di personale menzionate in detta tabella. Tale norma, pertanto, non si riferisce al personale della Regione e dei Comuni della Vall e d'Aosta; e ciò ancorché essa contenga, nel secondo periodo del comma 1, il richiamo a una disposizione - l'art. 1, comma 2, del citato decreto legislativo n. 165 del 2001 - che, al solo fine di definire in via generale le amministrazioni pubbliche, comprende tra di esse anche le Regioni e i Comuni.

    Tale interpretazione trova, del resto, conferma nella circostanza che anche la legislazione regionale e i contratti collettivi applicabili al personale regionale e comunale non contengono alcun riferimento al citato d.m. 27 agosto 1998 o alla disposizione censurata, ai fini della determinazione delle diarie per missioni all'estero.

    Dalla rilevata inapplicabilità della norma denunciata al personale della Regione e dei Comuni della Valle d'Aosta deriva, dunque, l'inammissibilità delle sollevate questioni, per difetto di interesse a ricorrere.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riservata a separate pronunce la decisione delle restanti questioni di legittimità costituzionale del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248, promosse dalla Regione Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste con il ricorso indicato in epigrafe;

    dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale del comma 1 dell'art. 28 del decreto-legge n. 223 del 2006, convertito, con modificazioni, dall'art. 1 della legge n. 248 del 2006, promosse, in riferimento agli artt. 117, terzo comma, e 119, secondo comma, della Costituzione, agli artt. 2, lettera a), e 3, lettera f), dello statuto speciale per la Valle d'Aosta nonché all' art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), dalla Regione Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste, con il ricorso indicato in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

SENTENZA N. 291

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli da 30 a 42 del regio decreto 13 agosto 1933, n. 1038 (Approvazione del regolamento di procedura per i giudizi innanzi alla Corte dei conti), promosso con ordinanza del 5 giugno 2007 dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione siciliana nel giudizio sul conto reso dalla Bipielle Società di gestione del credito s.p.a., nella qualità di cassiere dell'Azienda ospedaliera V. Cervello di Palermo, iscritta al n. 803 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 49, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visto l'atto di intervento del presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 25 giugno 2008 il Giudice relatore Paolo Maddalena.

Ritenuto in fatto

    1. ¾ Con ordinanza del 5 giugno 2007, notificata in data 12 settembre 2007, iscritta al n. 803 del registro ordinanze dell'anno 2007, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione siciliana, solleva, in riferimento agli artt. 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli da 30 a 42 del regio decreto 13 agosto 1933, n. 1038 (Approvazione del regolamento di procedura per i giudizi innanzi alla Corte dei conti), nella parte in cui, «nel regolare la procedura del giudizio di conto, non prevedono che la relazione del Magistrato Relatore in uno al decreto di fissazione della conseguente udienza per la celebrazione del giudizio di conto stesso, sia notificata anche all'Amministrazione».

    1.1. ¾ Le disposizioni censurate prevedono la trasmissione della suddetta relazione al solo procuratore generale (art. 30) e, più complessivamente (articoli da 31 a 42), la partecipazione del solo pubblico ministero contabile (e non della pubblica amministrazione) al giudizio sul conto reso o omesso dal contabile.

    2. ¾ In punto di fatto, la rimettente sezione regionale della Corte dei conti chiarisce:

    a) che il magistrato relatore, esaminando i conti dei tesorieri di diverse Aziende U.S.L. ed ospedaliere della Provincia di Palermo, ha contestato la legittimità della liquidazione degli interessi passivi posti a carico dell'Azienda ospedaliera "V. Cervello" di Palermo per anticipazioni di cassa da parte del tesoriere Banca Popolare Italiana s.p.a., da cui risulta un debito finale, a carico dell'Azienda ospedaliera, di ? 646, 79;

    b) che il magistrato relatore nella sua relazione ha chiesto l'iscrizione a ruolo del conto in questione, al fine di accertare il «superiore addebito a carico dell'Azienda ed in favore del contabile "Banca Popolare Italiana s.p.a.", con contestuale discarico di quest'ultima»;

    c) che il Presidente di sezione ha fissato con decreto apposto in calce alla suddetta relazione l'udienza di trattazione e che la relazione, unitamente al decreto presidenziale, è stata, poi, notificata alla società contabile;

    d) che "Bipielle" Società di gestione del credito s.p.a., quale mandataria della "Banca Popolare Italiana s.p.a." ha depositato una memoria di costituzione, aderendo alle conclusioni del magistrato relatore;

    e) che la relazione non risulta, invece, notificata all'Azienda ospedaliera "V. Cervello" di Palermo, la quale non si è, pertanto, costituta nel giudizio di conto.

    2.1. ¾ In ordine alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice rimettente rileva che tale mancata notifica e, quindi, la mancata partecipazione dell'Azienda ospedaliera al giudizio derivano dalla disciplina positiva degli impugnati artt. da 30 a 42 del regio decreto n. 1038 del 1 933, il quale configura il giudizio di conto, «configurando il contraddittorio esclusivamente nei confronti del contabile».

    Questa disciplina sarebbe, tuttavia, in contrasto con gli artt. 24 e 111, secondo comma, della Costituzione.

    Tali disposizioni costituzionali, secondo il rimettente, impongono anzitutto al legislatore che ogni processo si svolga nel contraddittorio e nella parità processuale delle parti sostanziali.

    Parti sostanziali sarebbero, nella specie, non solo il contabile, ma anche la amministrazione interessata, dato che essa subisce le conseguenze giuridiche «dell'accertamento giudiziale dell'eventuale credito/debito riconosciuto ed accertato dalla Corte in capo al contabile».

    La mancata partecipazione di una parte sostanziale al giudizio di conto varrebbe a negare il contraddittorio e a determinare una chiara ed illegittima disparità tra le parti.

    Né «la pur necessaria partecipazione del P.M., quale garante "dell'imparziale buona gestione contabile"» sarebbe, per il remittente, sufficiente a «soddisfare di per sé la richiesta condizione di parità processuale e di contraddittorio tra le parti sostanziali».

    A conferma di tale tesi la rimettente sezione regionale della Corte dei conti richiama la sentenza n. 1 del 2007 della Corte costituzionale, che, in materia di giudizio per il rimborso di quote inesigibili d'imposta, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli articoli 52, 53 e 54 del medesimo regio decreto n. 1038 del 1933, nella parte in cui non prevedono che il ricorso dell'esattore sia notificato all'amministrazione finanziaria e che anche ad essa siano dati gli ulteriori avvisi.

    Alla luce della prospettata analogia tra le due questioni, secondo la rimettente Corte dei conti, dovrebbe allora dichiararsi la illegittimità costituzionale pure degli artt. da 30 a 42 del regio decreto n. 1038 del 1933, nella parte in cui, «nel regolare la procedura del giudizio di conto, non prevedono che la relazione del Magistrato Relatore in uno al decreto di fissazione della conseguente udienza per la celebrazione del giudizio di conto stesso, sia notificata anche all'Amministrazione».

    2.2. ¾ Il giudice rimettente chiarisce di stare celebrando l'udienza del giudizio di conto e, in ordine alla rilevanza della questione, sostiene che dall'accoglimento di essa nei termini prospettati «deriverebbe la necessità di procedere ai surriferiti adempimenti processuali per la corretta instaurazione del contraddittorio con l'Amministrazione e l'ulteriore r egolare seguito del giudizio di conto».

    2.3. ¾ Il rimettente dispone, infine, la notifica dell'ordinanza di rimessione alla indicata Azienda ospedaliera, affermando che questa sarebbe portatrice di un interesse personale e diretto strettamente legato al giudizio in corso, che potrebbe trovare tutela solo attraverso un'eventuale costituzione nel giudizio incidentale di costituzionalità. Ed invoca, sul punto, le sentenze n. 42 del 1991 e n. 314 del 1993 della Corte costituzionale.

    3. ¾ E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha depositato una memoria, con la quale chiede che la questione venga dichiarata inammissibile o manifestamente infondata.

    3.1. ¾ La difesa erariale ricostruisce, anzitutto, il procedimento del giudizio di conto, rilevando come in esso il pubblico ministero intervenga a tutela dell'ordinamento, degli interessi generali ed indifferenziati della collettività, ma, al contempo, agisca anche a tutela degli interessi concreti e particolari dei singoli e delle amministrazioni pubbliche.

    Proprio la necessaria partecipazione del pubblico ministero, quale garante imparziale non solo della buona gestione contabile, ma anche degli interessi dei singoli e delle amministrazioni pubbliche interessate, varrebbe, per l'Avvocatura dello Stato, a soddisfare la condizione di parità processuale e di contraddittorio tra le parti sostanziali del rapporto.

    3.2. ¾ Sotto questo profilo, la questione sarebbe, allora, manifestamente infondata. Ma essa, per l'Avvocatura generale, sarebbe pure (e prima ancora) inammissibile, dacché la richiesta pronuncia additiva tesa a configurare una diretta partecipazione dell'amministrazione interessata al giudizio di conto, più che ad attuare gli evocati principi costituzionali, ve rrebbe piuttosto a modificare radicalmente il modello processuale esistente ovvero ad effettuare una scelta normativa non costituzionalmente obbligata e rimessa unicamente alle scelte discrezionali del legislatore.

Considerato in diritto

    1. ¾ La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione siciliana, solleva, in riferimento agli artt. 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli da 30 a 42 del regio decreto 13 agosto 1933, n. 1038 (Approvazione del regolamento di procedura per i giudizi innanzi alla Corte dei conti), nella parte in cui, «nel regolare la procedura del giudizio di conto, non prevedono che la relazione del Magistrato Relatore in uno al decreto di fissazione della conseguente udienza per la celebrazione del giudizio di conto stesso, sia notificata anche all'Amministrazione».

    1.1. ¾ Il rimettente censura le disposizioni denunciate in quanto esse (art. 30) prevedono la trasmissione della suddetta relazione al solo procuratore generale ed inoltre (articoli da 31 a 42), prevedono la partecipazione del solo pubblico ministero contabile e non della pubblica amministrazi one al giudizio di conto.

    Il rimettente sostiene che l'amministrazione interessata dovrebbe essere parte del giudizio di conto, dato che essa subisce le conseguenze giuridiche «dell'accertamento giudiziale dell'eventuale credito/debito riconosciuto ed accertato dalla Corte in capo al contabile», e che la mancata partecipazione al giudizio di tale parte sostanziale contrasterebbe con il diritto di difesa, con il principio del contraddittorio e con il principio della parità delle parti, sanciti dagli artt. 24 e 111, secondo comma, della Costituzione.

    Né «la pur necessaria partecipazione del P.M., quale garante "dell'imparziale buona gestione contabile"» sarebbe, per il rimettente, sufficiente a «soddisfare di per sé la richiesta condizione di parità processuale e di contraddittorio tra le parti sostanziali».

    Il giudice a quo richiama, sul punto, il precedente costituito dalla sentenza n. 1 del 2007 di questa Corte, che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 52, 53 e 54 del medesimo regio decreto n. 1038 del 1933, proprio nella parte in cui non prevedono che il ricorso dell'esattore sia notificato all'amministrazione finanziaria e che anche ad essa siano dati gli ulteriori avvisi nell'àmbito del giudizio per rifiutato rimborso di quote di imposta inesigibili.

    2. ¾ La questione non è fondata.

    2.1. ¾ Il rimettente chiede, in buona sostanza, una pronuncia additiva che valga ad imporre la partecipazione necessaria al giudizio di conto dell'amministrazione interessata, ritenendo insufficiente la partecipazione del pubblico ministero contabile per la rappresentazione degli interessi di quest'ultima.

    Questa Corte ha più volte chiarito (si vedano le sentenze n. 104 del 1989 e n. 65 del 1992) che il pubblico ministero contabile interviene a tutela dell'ordinamento e degli interessi generali ed indifferenziati della collettività e, al contempo, agisce, per questa via, anche a tutela degli interessi concreti e particolari dei singoli e delle amministrazioni pubbliche. Ciò vale, pertanto, a ritenere integrato il principio del contraddittorio e rispettato il principio di parità processuale.

    2.2. ¾ A tale consolidato indirizzo la recente sentenza n. 1 del 2007, invocata dal rimettente, non apporta alcuna modifica che sia rilevante ai fini del presente giudizio.

    Con tale pronuncia, infatti, si è ritenuta l'illegittimità costituzionale degli artt. 52, 53 e 54 del regio decreto n. 1038 del 1933, proprio perché si è ritenuto che il giudizio per rifiutato rimborso di quote di imposta inesigibili fuoriesca dallo schema generale dei giudizi contabili.

    Si è ritenuto, in specie, che la peculiarità di tale giudizio discenda dal fatto che esso sia promosso ad istanza di parte, nonché nell'interesse esclusivo o dell'esattore, o (caso meno frequente a verificarsi) dell'Amministrazione, considerata in posizione paritetica a quella della parte privata. Ed in considerazione di questa specialità di giudizio, che ha ad oggetto un rapporto paritetico e non l'interesse oggettivo dell'ordinamento, si è ritenuto necessario estendere la legittimazione processuale all'Amministrazione interessata, qualora sia l'esattore ad agire, ed a quest'ultimo, qualora l'azione sia promossa dall'Amministrazione.

    Al di fuori di tale ipotesi, pertanto, ed, in particolare, in riferimento al giudizio di conto (che non presenta le evidenziate peculiarità del giudizio per rifiutato rimborso di quote di imposta inesigibili e che, anzi, presenta specifici profili di controllo giurisdizionale automatico ed obiettivo) il consolidato indirizzo sopra richiamato deve essere espressamente confermato.

    2.3. ¾ Alla luce di quanto appena osservato, si deve, dunque, escludere qualsiasi violazione degli artt. 24 e 111 della Costituzione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli articoli da 30 a 42 del regio decreto 13 agosto 1933, n. 1038 (Approvazione del regolamento di procedura per i giudizi innanzi alla Corte dei conti), sollevata, in riferimento agli artt. 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione siciliana, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

      Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

ORDINANZA N. 292

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

-         Franco                     BILE               Presidente

-         Giovanni Maria             FLICK                Giudice

-         Francesco                  AMIRANTE                "

-         Ugo                        DE SIERVO               "

-         Paolo                      MADDALENA               "

-         Alfio                      FINOCCHIARO             "

-         Alfonso                    QUARANTA                "

-         Franco                     GALLO                   "

-         Luigi                      MAZZELLA                "

-         Gaetano                    SILVESTRI               "

-         Sabino                     CASSESE                 "

-         Maria Rita                 SAULLE                  "

-         Giuseppe                   TESAURO                 "

-         Paolo Maria                                NAPOLITANO              "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 4 e 5 della legge 20 settembre 1980, n. 576 (Riforma del sistema previdenziale forense), promosso con ordinanza del 18 maggio 2007 dal Tribunale di Bologna nel procedimento civile vertente tra Cioffi Augusto e la Cassa nazionale di previdenza ed assistenza forense, iscritta al n. 778 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell'anno 2007.</ o:p>

    Visti gli atti di costituzione di Cioffi Augusto e della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza forense nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 20 maggio 2008 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro;

    uditi gli avvocati Giorgio Antonini e Andrea Trentin per Cioffi Augusto, Massimo Luciani per la Cassa nazionale di previdenza ed assistenza forense e l'avvocato dello Stato Gianna Maria De Socio per il Presidente del Consiglio dei ministri.

    Ritenuto che, con ordinanza del 18 maggio 2007, il Tribunale ordinario di Bologna ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 4 e 5 della legge 20 settembre 1980, n. 576 (Riforma del sistema previdenziale forense), per violazione degli artt. 3 e 38, secondo comma, della Costituzione;

    che il rimettente riferisce che un avvocato, iscritto alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense dal 1° luglio 1992, con efficacia retroattiva dal 1 gennaio 1980, ha presentato alla Cassa istanza di concessione della pensione di invalidità, respinta, ai sensi degli artt. 5, primo comma, e 4, primo comma, lettera b), della legge n. 576 del 1980, risultando 1'istante iscritto alla Cassa solo dopo il compimento del quarantesimo anno di età;

    che il dubbio di legittimità costituzionale è stato sollevato con riferimento all'art. 3 della Costituzione, per la ingiustificata disparità di trattamento fra avvocati, a parità di iscrizione e contribuzione, sulla base della sola circostanza che il rapporto assicurativo abbia avuto corso prima o dopo il compimento del quarantesimo anno di età; nonché all'art. 38, secondo comma, della Costituzione, per l'assenza di tutela dell'assicurato al verificarsi dell'evento dannoso oggetto dell'assicurazione, in violazione del principio solidaristico, in base al quale gli oneri previdenziali si devono adeguare alla capacità contributiva e l'attribuzione e la distribuzione dei benefici previdenziali allo stato di bisogno;

    che si è costituito in giudizio il professionista al quale è stata negata nel giudizio a quo la pensione di invalidità, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sollevata venga accolta;

    che si è costituita altresì in giudizio la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e infondata, riservandosi ulteriori deduzioni nei successivi scritti difensivi;

    che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o manifestamente infondata;

    che, nell'imminenza dell'udienza pubblica, ha depositato memoria la Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense, illustrando ampiamente le ragioni di inammissibilità e di manifesta infondatezza della questione proposta.

    Considerato che il Tribunale ordinario di Bologna dubita della legittimità costituzionale degli articoli 4 e 5 della legge 20 settembre 1980, n. 576 (Riforma del sistema previdenziale forense), nella parte in cui negano il diritto alla pensione di invalidità agli avvocati che, in possesso di tutti gli altri requisiti contributivi, risultino iscritti alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense successivamente al compimento del quarantesimo anno di età, per violazione dell'art. 3 della Costituzione, per la ingiustificata disparità di trattamento fra avvocati, a parità di data di iscrizione e di entità della contribuzione, sulla base della sola circostanza che il rapporto assicurativo abbia avuto corso prima o dopo il compimento del quarantesimo anno di età; nonché per violazione dell'art. 38, secondo comma, della Costituzione, in quanto in ogni caso il sistema previdenziale previsto per gli avvocati si ispira ad un principio solidaristico secondo il quale non vi è necessaria proporzionalità tra contributi versati e pensione di invalidità percepita, quest'ultima dovendo invece assumere quale parametro lo stato di bisogno;

    che l'ordinanza di rimessione non tiene conto che la normativa censurata è stata sostanzialmente innovata dall'art. 14 della legge 11 febbraio 1992, n. 141 (Modifiche ed integrazioni alla legge 20 settembre 1980, n. 576, in materia di previdenza forense e di iscrizione alla Cassa nazionale di previdenza ed assistenza per gli avvocati e procuratori), che prevede la possibilità, per chi si sia iscritto alla Cassa dopo il quarantesimo anno di età, di conseguire ugualmente la pensione di invalidità a condizione di provvedere ad una contribuzione per ciascun anno intercorrente tra il trentanovesimo anno di età e l'anno anteriore all'iscrizione; con la conseguenza che il vigen te ordinamento della Cassa forense non preclude la possibilità di conseguire il trattamento di invalidità ai lavoratori iscritti dopo i quarant'anni, ma lo condiziona semplicemente ad una regolarizzazione contributiva;

    che il giudice a quo non ha compiutamente ricostruito il quadro normativo di riferimento, non avendo argomentato, sia pure per escluderne l'incidenza, in ordine agli effetti sulla normativa denunciata del sopravvenuto art. 14 della legge n. 141 del 1992;

    che, pertanto, la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza (ex plurimis, sentenza n. 53 del 2008; ordinanza n. 167 del 2007).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 4 e 5 della legge 20 settembre 1980, n. 576 (Riforma del sistema previdenziale forense), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 38, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Bologna, con l'ordinanza in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

ORDINANZA N. 293

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE               Presidente

- Giovanni Maria  FLICK                Giudice     

- Francesco       AMIRANTE                "

- Ugo             DE SIERVO               "

- Paolo           MADDALENA               "

- Alfio           FINOCCHIARO             "

- Alfonso         QUARANTA                "

- Franco          GALLO                   "

- Luigi           MAZZELLA                "

- Gaetano         SILVESTRI               "

- Sabino          CASSESE                 "

- Maria Rita      SAULLE                  "

- Giuseppe        TESAURO                 "

- Paolo Maria     NAPOLITANO              "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'articolo 139 del codice penale, promosso con ordinanza del 13 luglio 2006 dalla Corte d'assise d'appello di Milano nel procedimento penale a carico di Bissoni Franco, iscritta al n. 563 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell'anno 2006.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 25 giugno 2008 il Giudice relatore Ugo De Siervo.

    Ritenuto che la Corte d'assise d'appello di Milano, con ordinanza in data 13 luglio 2006, ha sollevato - in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma della Costituzione - questione di legittimità costituzionale dell'art. 139 del codice penale nella parte in cui «non consente, una volta espiata la pena principale, il differimento della pena accessoria de lla sospensione della patente, già differita sino al termine dell'espiazione della pena principale in quanto di ostacolo alla espiazione della pena detentiva nelle misure alternative della semi libertà e dell'affidamento in prova»;

    che il rimettente riferisce di essere chiamato a decidere in ordine all'istanza con cui un soggetto, il quale ha riportato due condanne definitive per il reato di cui all'art. 73 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), ha chiesto la modifica dell'esecuzione della pena accessoria del ritiro della patente di guida per tre anni irrogata ai sensi dell'art. 85 del citato decreto;

    che, prosegue il rimettente, il condannato, detenuto dal 15 febbraio 1993, con fine pena al 16 agosto 2006, è stato ammesso al regime della semilibertà e quindi all'affidamento in prova e, a partire dal 21 maggio 1998, svolge attività lavorativa presso lo studio di un commercialista, attività per la quale ha necessità di disporre della patente di guida;

    che, al fine di «non ostacolare lo svolgimento del programma lavorativo nel corso delle misure alternative», il procuratore generale competente per l'esecuzione, in data 5 giugno 2000, ha disposto il differimento della pena accessoria al termine della espiazione della pena principale;

    che, in prossimità della cessazione della pena principale, il condannato ha chiesto di poter usufruire della patente di guida al fine di continuare a svolgere la propria attività lavorativa, invocando l'applicazione analogica dell'art. 62 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), il quale dispone che quando il condannato svolge un lavoro per il quale la patente di guida costituisce indispensabile requisito, il magistrato di sorveglianza può disciplinare la sospensione in modo tale da non ostacolare il lavoro del condannato;

    che il competente procuratore generale ha reso parere negativo sulla richiesta, ritenendo che l'esecuzione della pena accessoria non possa essere sospesa né che tale pena possa essere eseguita con modalità diverse da quelle tipicamente previste dalla legge;

    che, tuttavia, ritiene il rimettente di dover sollevare questione di legittimità costituzionale dell'art. 139 cod. pen., dal momento che esso non consente, una volta espiata la pena principale, il differimento della pena accessoria della sospensione della patente, già differita sino al termine dell'espiazione della pena principale in quanto di ostacolo alla espiazione della pena detentiva nelle misure alternative della semi libertà e dell'affidamento in prova.;

    che tale previsione, infatti, contrasterebbe con gli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione;

    che, ad avviso della Corte d'assise d'appello, l'art. 139 cod. pen. deve essere inteso nel senso che la pena accessoria temporanea non può avere esecuzione contemporaneamente alla pena principale detentiva allorché vi sia assoluta incompatibilità tra le due pene;

    che, rileva ancora il giudice a quo, mentre nel corso dell'espiazione della pena principale «una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 139 c.p.» ha permesso di differire l'espiazione della pena accessoria al fine di non impedire al condannato di partecipare all'attività lavorativa utile al suo reinserimento sociale, «analoga interpretazione non sembra consentita allorché la pena principale sia stata espiata e resti da eseguire la pena accessoria»;

    che, di conseguenza, si creerebbe una disparità di trattamento tra situazioni omogenee, dal momento che mentre sarebbe possibile sospendere temporaneamente l'esecuzione della pena accessoria durante la pena alternativa della semilibertà, ciò non sarebbe possibile una volta che la pena principale sia stata espiata;

    che la rigida esecuzione della pena accessoria si porrebbe altresì in contrasto con le finalità rieducative della pena stessa;

    che, con riguardo alla rilevanza della questione, il rimettente sostiene che l'istanza proposta dal condannato non possa essere decisa indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale dal momento che solo l'eventuale dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 139 cod. pen. consentirebbe di valutare la sussistenza delle condizioni per poter accoglierla;

    che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione venga dichiarata infondata;

    che non pertinente sarebbe, infatti, il richiamo alla disciplina di cui all'art. 62 della legge n. 689 del 1981, evocato dal rimettente quale tertium comparationis, dal momento che tale disposizione disciplinerebbe solo l'esecuzione della semidetenzione e della libertà controllata, cioè di misure alternative alla pena principale;

    che neppure sussisterebbe un contrasto con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, dal momento che l'ordinamento non potrebbe consentire un differimento sine die dell'esecuzione della pena accessoria, pena la vanificazione del contenuto dissuasivo e di difesa sociale proprio anche di tale pena.

    Considerato che la Corte d'assise di appello di Milano ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 139 cod. pen., nella parte in cui tale disposizione «non consente, una volta espiata la pena principale, il differimento della pena accessoria della sospensione della patente» di guida, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione;

    che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata infondata;

    che il giudizio a quo si origina da un'istanza di "modificazione" del regime di esecuzione di tale pena accessoria, proposta da parte di un soggetto che ad essa è stato condannato in via definitiva ai sensi dell'art. 85 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza);

    che l'istanza è stata presentata al termine della espiazione della pena detentiva principale, eseguita, in parte, nella forma dell'affidamento in prova ai servizi sociali;

    che, nel corso di tale ultima misura, l'istante ha avviato un'attività lavorativa, per l'esecuzione della quale si è valso della patente di guida, avendo il PM competente disposto in quest'occasione il differimento dell'esecuzione della pena accessoria, al fine di non compromettere il percorso di risocializzazione del reo;

    che, a parere del giudice a quo, tale differimento non può più essere concesso, una volta interamente espiata la pena principale, posto che la norma censurata imporrebbe di eseguire la pena accessoria incompatibile con il regime carcerario, non appena scontata quella principale;

    che tale rigida previsione si porrebbe in contrasto con le finalità rieducative della sanzione penale, vanificando il cammino di risocializzazione già fruttuosamente intrapreso dal reo, e violando in tal modo l'art. 27, terzo comma, della Costituzione;

    che sarebbe parimenti leso l'art. 3 della Costituzione, posto che la norma oggetto determinerebbe disparità di trattamento rispetto all'ipotesi normata dall'art. 62 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), ove invece è consentito al magistrato di sorveglianza di disciplinare il regime di esecuzione della semidetenzione e della libertà controllata, quanto all'impiego della patente di guida, «in modo da non ostacolare il lavoro del condannato»;

    che, per tali ragioni, il rimettente chiede a questa Corte di configurare in capo al giudice dell'esecuzione, mediante la declaratoria di illegittimità dell'art. 139 cod. pen., un potere di differimento della pena accessoria in questione, alle condizioni sopra ricordate;

    che la norma censurata stabilisce che «nel computo delle pene accessorie temporanee non si tiene conto del tempo in cui il condannato sconta la pena detentiva, o è sottoposto a misura di sicurezza detentiva, né del tempo in cui egli si è sottratto volontariamente alla esecuzione della pena o della misura di sicurezza»;

    che da tale previsione la giurisprudenza ha tratto la non implausibile conseguenza per cui la pena accessoria temporanea, incompatibile con la detenzione in casa di reclusione, possa e debba essere eseguita, solo una volta scontata la pena principale detentiva;

    che, per effetto di ciò, la pena accessoria in tali casi si connota per una tendenziale impermeabilità rispetto all'esito del percorso di rieducazione che il reo ha compiuto, proprio nel corso dell'esecuzione della pena principale;

    che questa Corte ha già avuto occasione di valutare la compatibilità di una pena accessoria di tale natura con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione, concludendo per l'infondatezza della questione di legittimità allora proposta, «specie per la breve durata della proibizione» [.] «e tenuto conto altresì dell'abbastanza ampio potere del giudice di adeguare (tale) pena [.] alla particolarità del caso concreto» (sentenza n. 30 del 1972);

    che, entro tale contesto, la giurisprudenza costituzionale ha già rimarcato che «tutto il tema relativo alle pene accessorie avrebbe forse bisogno di precisazioni e chiarimenti legislativi e dottrinali»;

    che, in questa sede, la Corte intende ribadire la necessità che il legislatore ponga mano ad una riforma del sistema delle pene accessorie, che lo renda pienamente compatibile con i principi appena espressi, ed in particolare con l'art. 27, terzo comma, della Costituzione;

    che, tuttavia, la questione di legittimità costituzionale oggi all'esame della Corte è manifestamente inammissibile;

    che, infatti, l'addizione normativa richiesta dal giudice a quo non costituisce una soluzione costituzionalmente obbligata, ed anzi eccede i poteri di intervento di questa Corte, impingendo in scelte affidate alla discrezionalità del legislatore;

    che, in particolare, il potere di differire l'esecuzione della pena accessoria non solo non si profila quale univoca risposta al dubbio di costituzionalità proposto, ma persino denuncia profili eccentrici rispetto ai principi ordinamentali che governano l'esecuzione della sanzione penale, giacché si traduce in un anomala prerogativa del giudice dell'esecuzione di paralizzare sine die l'applicazione di una pena definitivamente inflitta;

    che, invece, solo il legislatore può determinare forme e condizioni, in presenza delle quali incidere sull'esecuzione della pena accessoria, per adeguarla al principio di progressività del trattamento sanzionatorio penale;

    che lo stesso rimettente manca di specificare le modalità e i termini entro cui dovrebbe essere esercitato il potere di differimento di cui chiede il riconoscimento;

    che, pertanto, il petitum formulato dal giudice a quo è inadeguato rispetto al dubbio di costituzionalità proposto, pretendendo egli di operare nel testo dell'art. 139 cod. pen. un'inserzione normativa di cui non vengono definiti i contorni e che non corrisponde al portato di tale disposizione, posto che essa si limita a regolare, nella lettura offertane dalla giurisprudenza, il coordinamento cronologico tra pena principale e pena accessoria, e non i poteri del giudice dell'esecuzione quanto a quest'ultima.

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 139 del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dalla Corte di assise di appello di Milano con l'ordinanza in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Ugo DE SIERVO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

ORDINANZA N. 294

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE                     Presidente

- Giovanni Maria  FLICK                      Giudice

- Francesco       AMIRANTE                      "

- Ugo             DE SIERVO                     "

- Paolo           MADDALENA                     "

- Alfonso         QUARANTA                      "

- Franco          GALLO                         "

- Luigi           MAZZELLA                      "

- Gaetano         SILVESTRI                     "

- Sabino          CASSESE                       "

- Maria Rita      SAULLE                        "

- Giuseppe        TESAURO                       "

- Paolo Maria     NAPOLITANO                    "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'articolo 15, comma 1, lettera b), della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), promosso con ordinanza dell'11 dicembre 2006 dal Tribunale di Palermo nel procedimento civile vertente tra Giuseppe Buzzanca e Carmelo Currenti ed altri iscritta al n. 674 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 2007.

      Visti l'atto di costituzione di Carmelo Currenti nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

      udito nell'udienza pubblica dell'8 luglio 2008 il Giudice relatore Ugo De Siervo;

      udito l'avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.

    Ritenuto che, con ordinanza dell'11 dicembre 2006, il Tribunale di Palermo, I sezione civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'articolo 15, comma 1, lettera b), della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), in riferimento agli articoli 3, 48, terzo comma, e 51 della Costituzione;

    che il rimettente riferisce di essere stato adìto da Buzzanca Giuseppe con ricorso avverso il verbale delle operazioni relative alle elezioni del Presidente della Regione siciliana e dell'Assemblea regionale siciliana del 28 maggio 2006, redatto dall'Ufficio centrale circoscrizionale presso il Tribunale di Messina del 12 giugno 2006, con il quale è stata dichiarata la nullità della sua elezione a deputato regionale, con conseguente proclamazione dell'elezione alla stessa carica del candidato Currenti Carmelo;

    che la contestata nullità è stata dichiarata, su istanza del candidato primo dei non eletti, per la sussistenza di una delle cause di incandidabilità previste dalla censurata disposizione, atteso che il medesimo ricorrente era stato condannato, in via definitiva, per il reato di peculato d'uso di cui all'articolo 314, secondo comma, del codice penale;

    che, in punto di rilevanza, il giudice a quo ha affermato, rigettando l'eccezione sollevata dal resistente, la propria giurisdizione, posto che, per pacifica giurisprudenza, mentre al giudice amministrativo sono devolute le controversie in tema di operazioni elettorali, al giudice ordinario spetta la cognizione delle controversie relative all'ineleggibilità, alle decadenze ed alle incompatibilità;

    che, quanto alla non manifesta infondatezza della presente questione, il rimettente Tribunale sottolinea, innanzitutto, che la disposizione oggetto di censura è stata solo parzialmente abrogata dall'articolo 274, comma 1, lettera p), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), che ha espressamente mantenuto in vigore l'articolo 15 nella sua originaria formulazione per i consiglieri regionali;

    che, quanto alle elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali, trova applicazione l'articolo 58, comma 1, lettera b), del succitato decreto legislativo n. 267 del 2000, in forza del quale - e a seguito della modifica apportata dall'articolo 7 del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 80 (Disposizioni urgenti in materia di enti locali), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2004, n. 140 - non possono candidarsi coloro che hanno riportato condanna definitiva per il reato di cui all'articolo 314 , primo comma, del codice penale;

    che, dunque, «allo stato» si registra una differenza nella formulazione letterale delle disposizioni che riguardano le elezioni regionali e, rispettivamente, le elezioni provinciali, comunali e circoscrizionali, giacché mentre la censurata disposizione contempla tra le cause ostative alla candidatura la condanna definitiva per il delitto previsto dall'articolo 314 del codice penale, senza distinguere tra le ipotesi del primo e del secondo comma, il citato articolo 58 prevede, allo stesso fine, soltanto la condanna definitiva per il delitto previsto dall'articolo 314, primo comma, del codice penale, con esplicita esclusione quindi della fattispecie criminosa meno grave del peculato d'uso, prevista dal secondo comma;

    che il rimettente rigetta l'ipotesi di interpretazione costituzionalmente orientata propugnata dal ricorrente, volta a circoscrivere l'ambito di applicazione della censurata disposizione alla sola ipotesi di peculato prevista dall'art. 314, primo comma, del codice penale, posto che l'effetto parziale dell'abrogazione disposta dall'art. 274, comma 1, lettera p), del decreto legislativo n. 267 del 2000 e la permanenza in vigore del previgente articolo 15 della legge n. 55 del 1990 per i consiglieri regionali trovano conferma nel dato letterale e nell'articolo 31 della legge-delega 3 agosto 1999, n. 265 (Disposizioni in materia di autonomia e ordinamento degli enti locali, nonché modifiche alla L. 8 giugno 1990, n. 142), che non aveva conferito al Governo il potere di modificare le norme concernenti l'ineleggibilità e l'incompatibilità alla carica di consigliere regionale;

    che, secondo il rimettente, la differenza di disciplina così introdotta confligge con i princìpi espressi dagli articoli 3, 48, terzo comma, e 51 della Costituzione, giacché il medesimo fatto, consistente nell'aver riportato una condanna definitiva per il delitto di peculato d'uso previsto dall'articolo 314, secondo comma, del codice penale, sortisce conseguenze radicalmente divergenti in tema di elettorato passivo con riguardo a cariche politiche tra di loro non dotate di una significativa differenza;

    che l'articolo 15 della legge n. 55 del 1990 persegue finalità di salvaguardia dell'ordine e della sicurezza pubblica, di tutela della libera determinazione degli organi elettivi, di buon andamento e trasparenza delle amministrazioni pubbliche, contro i gravi pericoli di inquinamento derivanti dalla criminalità organizzata e dalle sue infiltrazioni, in relazione ad esigenze dell'intera comunità nazionale connesse a «valori costituzionali di rilevanza primaria» (così la sentenza della Corte costituzionale n. 218 del 1993), risultando in tal modo giustificata una disciplina alquanto rigorosa ispirata alla ratio di prevenire e combattere detti pericoli al fine di salvaguardare «interessi fondamentali dello Stato» (sono citate le sentenze n. 25 del 2002; n. 206 del 1999; e n. 184 del 1994);

    che, pertanto, il rimettente ritiene irragionevole che la condanna per il medesimo delitto di peculato d'uso venga ritenuta dal legislatore una manifestazione di grave pericolosità sociale esclusivamente in ordine all'assunzione della carica di consigliere regionale, e non anche per l'assunzione della carica di presidente della provincia, di sindaco, di consigliere provinciale o di consigliere comunale, non sussistendo alcuna apprezzabile diversità di responsabilità e di rilievo istituzionale tale da giustificare una differente disciplina;

    che, con atto depositato il 20 ottobre 2007, si è costituito nel presente giudizio di legittimità costituzionale Currenti Carmelo, parte del giudizio principale, al fine di sostenere l'inammissibilità e, comunque, l'infondatezza della questione di costituzionalità avente per oggetto l'articolo 15, comma 1, lettera b), della legge n. 55 del 1990;

    che in merito alla denunciata disparità di trattamento rispetto al regime previsto per gli amministratori locali, per la parte privata una volta identificato il bene protetto dalla censurata disposizione, risulta «evidente come non si verta affatto in situazioni soggettive identiche trattate diversamente», giacché i deputati regionali, diversamente dai componenti gli organi elettivi degli enti locali, sono investiti di «più pregnanti poteri», sol che si pensi alla titolarità, in capo all'Assemblea regionale siciliana (e di tutti gli altri Consigli regionali), della funzione legislativa;

    che, con atto depositato il 30 ottobre 2007, è intervenuto nel presente giudizio di legittimità costituzionale il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato;

    che, in via pregiudiziale, la difesa erariale eccepisce che, successivamente alla rimessione della questione di costituzionalità in oggetto, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 171 del 2007, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'articolo 7 del decreto-legge n. 80 del 2004, per violazione dell'articolo 77 della Costituzione e che, dunque, essendo venuta nel frattempo meno la disposizione invocata quale termine di raffronto, questa Corte dovrebbe disporre la restituzione degli atti al Tribunale rimettente per una rinnovata valutazione in ordine alla persistenza dei requisiti di rilevanza e non manifesta infondatezza;

    che, sempre in via preliminare, l'interveniente sostiene la manifesta inammissibilità della questione basata sull'asserita violazione dell'articolo 48 della Costituzione, per difetto assoluto di motivazione e per inconferenza del parametro così invocato;

    che, nel merito, l'Avvocatura dello Stato ritiene manifestamente infondate le restanti censure, non sussistendo la lamentata disparità di trattamento, dal momento che il giudice a quo ha messo a raffronto situazioni in realtà non omogenee, in quanto sussiste, al contrario, «una considerevole differenza di responsabilità e rilievo istituzionale» tra le cariche in oggetto, come dimostrato dalla circostanza che i consiglieri regionali, diversamente dagli amministratori locali, sono membri di organi elettivi provvisti di potere legislativo e che essi stessi godono di un particolare status che, ai sensi dell'articolo 122 della Costituzione, risulta preservato dalla guarentigia dell'insindacabilità.

    Considerato che il Tribunale di Palermo, sezione I civile, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'articolo 15, comma 1, lettera b), della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale), in riferimento agli articoli 3, 48, terzo comma, e 51 della Costituzione;

    che la censura relativa alla prospettata violazione dell'articolo 48, terzo comma, della Costituzione non è sorretta da alcuna argomentazione e che, dunque, essa è manifestamente inammissibile (si vedano, tra le più recenti, le ordinanze n. 223, n. 206 e n. 204 del 2008);

    che il giudice a quo, in relazione all'asserita violazione del principio di eguaglianza in materia elettorale (articoli 3 e 51 della Costituzione), ha invocato, quale tertium comparationis, l'articolo 58, comma 1, lettera b), del decreto legislativo n. 267 del 2000, come modificato dall'articolo 7, primo comma, lettera a), del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 80 (Disposizioni urgenti in materia di enti locali), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 maggio 2004, n. 140;

    che, successivamente alla proposizione dell'odierna questione di legittimità costituzionale, questa Corte, con la sentenza n. 171 del 2007, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale della disposizione adottata dal rimettente Tribunale quale termine di paragone «per la sua evidente estraneità rispetto alla materia disciplinata dalle altre disposizioni del decreto-legge in cui è inserita», nonché per la evidente «carenza del requisito della straordinarietà del caso di necessità e d'urgenza di provvedere»;

    che, dunque, a seguito di detta sentenza, si rende necessario disporre la restituzione degli atti al giudice rimettente per un nuovo esame della perdurante rilevanza e non manifesta infondatezza della questione (si veda l'ordinanza n. 201 del 2001).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    ordina la restituzione degli atti al Tribunale di Palermo, I sezione civile.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Ugo DE SIERVO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

ORDINANZA N. 295

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 159, comma 3, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), come sostituito dall'art. 26 del decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 157 (Disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione al paesaggio), promossi con due ordinanze del 5 novembre 2007 dal Consiglio di Stato, sezione sesta giurisdizionale, sui ricorsi proposti dal Ministero per i beni e le attività culturali contro la Rustica Sed es s.r.l. ed altri e il Comune di S. Anastasia, iscritte ai nn. 13 e 14 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell'anno 2008.

    Visti l'atto di costituzione di Italia Nostra nonché l'atto di intervento, fuori termine, del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 9 luglio 2008 il Giudice relatore Paolo Maddalena.

    Ritenuto che, con due ordinanze di identico tenore, pronunciate il 5 novembre 2007 - ed iscritte, rispettivamente, al n. 13 ed al n. 14 del registro ordinanze dell'anno 2008 - il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione sesta, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 76 e 118 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 159, comma 3, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), come sostituito dall'art. 26 del d.lgs. 24 marzo 2006, n. 157 (Disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione al paesaggio);

    che, come emerge dagli atti di promovimento degli incidenti di costituzionalità, nei giudizi a quibus si controverte sugli appelli, proposti dal Ministero per i beni e le attività culturali, avverso le sentenze del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, rese entrambe il 6 dicembre 2006, con le quali sono stati accolti i ricorsi, disgiuntamente proposti dal Comune di S. Anastasia e da altri interessati, avverso il decreto del 13 giugno 2006, n. 11978, con cui la Soprintendenza per i beni ambientali ed architettonici di Napoli e provincia aveva annullato il nulla osta paesaggistico n. 2265 del 13 gennaio 2006, rilasciato dal Comune medesimo per l'attuazione di un «piano particolareggiato d i iniziativa privata»;

    che, espone il rimettente, il TAR per la Campania, con le predette sentenze, «sulla premessa che l'esame dell'organo statale doveva essere necessariamente ed esclusivamente limitato a motivi di legittimità, non potendo impingere in apprezzamenti di merito», riteneva fondato il profilo di violazione di legge ed eccesso di potere dedotto nel ricorso contro la determinazione tutoria negativa;

    che, si evidenzia nelle ordinanze di rimessione, negli atti di appello viene dedotta l'erroneità delle sentenze di primo grado in base al rilievo per cui, a seguito dell'entrata in vigore del citato art. 159, comma 3, la Soprintendenza, in sede di verifica dell'autorizzazione paesaggistica, non avrebbe necessità di indicare specifici vizi di violazione di legge da cui sarebbe affetta detta autorizzazione; in definitiva, non sussisterebbe più «il vincolo della delimitazione del potere di cognizione dell'autorizzazione, oggetto del riscontro, ai soli parametri di legittimità, (inclusi peraltro tutti i possibili profili di eccesso di potere), quale affermato costantemente dalla giurisprudenza amministrativa»;

    che, ad avviso del rimettente, la tesi prospettata dall'appellante risulterebbe «suffragata dalla lettura dello stesso art. 159, comma 3, nel suo testo attuale», giacché il rilievo della "non conformità" alle prescrizioni della legislazione di tutela «implica inevitabilmente il diretto apprezzamento dei fatti rilevanti nel caso concreto, già considerati nell'ambito dell'autorizzazione oggetto di controllo, al fine di esprimere su di essi un giudizio di "valore"», come sarebbe, appunto, quello «ancorato a "concetti indeterminati", da connotare cioè in base ad apprezzamenti tecnici complessi, alla stregua di regole non giuridiche e proprie delle discipline estetico-ambientali, suscettibili di diversi esiti applicativi: si abbia riguardo ai conc etti di "alterazione", "pregiudizio", "compatibilità", "coerenza", rapportate ai "valori paesaggistici" ed agli "obiettivi di qualità paesaggistica", in base alla lettera dell'art. 146, commi 1, 4 e 5, del d.lgs. n. 42\2004»;

    che, ciò premesso sulla portata della denunciata disposizione di cui all'art. 159, comma 3, il giudice a quo motiva sulla rilevanza delle questioni adducendo che, là dove appunto si intenda la disposizione censurata «come estensiva dell'ambito del controllo demandato alla soprintendenza fino agli aspetti c.d. "di merito"», gli appelli dovrebbero trovare accoglimento, con conseguente riforma delle sentenze impugnate;

    che, in punto di non manifesta infondatezza, il Consiglio di Stato rimettente rammenta che il potere devoluto all'organo statale sull'autorizzazione affidata alla Regione, ed agli organi da essa delegati, era stato configurato, fin dall'emanazione dell'art. 82, comma 9, del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382), alla stregua di un "diritto vivente" costituito «da una giurisprudenza amministrativa ormai trentennale», in termini di potere di «annullamento, [.] costantemente limitato al solo rilievo di vizi di legittimità»;

    che, secondo il giudice a quo, dovrebbe dubitarsi, pertanto, che la «innovazione legislativa» costituita dalla norma denunciata, la quale comporta una così rilevante «ridislocazione dei poteri di valutazione "in merito"», possa esser stata prevista nella norma di delega di cui all'art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137, il cui comma 1 prevede soltanto gli obiettivi «della codificazione, cioé della ricognizione delle norme vigenti, e del riassetto, cioè della razionalizzazione di tale corpo normativo», mentre tra i criteri di attuazione della delega, di cui alla lettera d) del comma 2 dello stesso art. 10, non è presente «alcuna previsione che riguardi l'e stensione e le modalità del "controllo" demandato agli organi statali relativamente agli atti autorizzativi qui in rilievo»;

    che, ad avviso del rimettente, ne dovrebbe conseguire un vulnus all'art. 76 Cost., «in ordine alla necessaria corrispondenza delle norme delegate a "principi e criteri direttivi" stabiliti dalla legge-delega»;

    che, prosegue il giudice a quo, analoga violazione dell'art. 76 Cost. si configurerebbe per il fatto che lo strumento utilizzato per addivenire ad una siffatta modificazione dei rapporti Stato-Regione, «in tema di poteri di autorizzazione paesaggistica», sia stato quello dei decreti comunque previsti dal comma 4 dello stesso art. 10, che possono sì apportare «disposizioni correttive ed integrative dei decreti legislativi di cui al comma 1», ma pur sempre «nel rispetto degli stessi principi e criteri direttivi»;

    che nelle ordinanze di rimessione si sostiene, inoltre, che, pur prescindendo dal rispetto di detti principi e criteri direttivi, dovrebbe dubitarsi che «una innovazione di tale portata possa farsi rientrare nel concetto di "disposizione correttiva ed integrativa"», il quale non può «implicare l'adozione, come nel caso, di una soluzione normativa che, su un punto essenziale e qualificante la complessiva disciplina in discorso, risulti in sostanziale contraddizione con quella originariamente assunta in sede di emanazione del decreto legislativo di prima attuazione della delega»;

    che, anche sotto tale ulteriore e diverso profilo, il rimettente prospetta, quindi, la violazione dell'art. 76 Cost., «connessa al meccanismo peculiare prescelto dalla legge di delega per stabilizzare la corretta applicazione delle norme delegate»;

    che il giudice a quo dubita, infine, «che sia conforme al principio di sussidiarietà stabilito dall'art. 118 Cost., come criterio di attribuzione delle funzioni amministrative, anche in correlazione al principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.», la previsione di «un potere di controllo in forma c.d. di "tutela", esteso cioè anche al merito, che consenta allo Stato una costante e generalizzata autonoma rivalutazione delle determinazioni operate dalla regione e dagli enti territoriali delegati, in particolare dai comuni, assorbendosi, agli effetti pratici, in modo altrettanto costante e generalizzato, e rendendolo così potenzialmente instabile ed irrilevante, il punto di vista degli enti, cos tituzionalmente dotati di autonomia, che sono primariamente coinvolti nel "governo del territorio" su cui si colloca il bene interessato dall'autorizzazione paesaggistica»;

    che, nel giudizio promosso con ordinanza iscritta al registro ordinanze n. 13 del 2008, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto con atto depositato in data 19 marzo 2008 e, dunque, oltre i venti giorni dalla pubblicazione dell'ordinanza di rimessione nella Gazzetta Ufficiale del 13 febbraio 2008, n. 8, essendo stata la stessa ordinanza notificata il 26 novembre 2007;

    che, nel giudizio promosso con ordinanza iscritta al registro ordinanze n. 14 del 2008, si è costituita Italia Nostra ONLUS - Associazione Nazionale per la Tutela del patrimonio Storico, Artistico e Naturale della Nazione, interveniente ad adiuvandum  nel giudizio a quo, la quale ha concluso per l'inammissibilità o, comunque, l'infondatezza della sollevata questione.

    Considerato che il Consiglio di Stato, con due ordinanze di identico tenore, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 76 e 118 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 159, comma 3, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), come sostituito dall'art. 26 del d.lgs. 24 marzo 2006, n. 157 (Disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione al paesaggio);

    che i giudizi, in quanto riguardanti la stessa norma, oggetto di identiche censure da parte di entrambe le ordinanze di rimessione, devono essere riuniti per essere decisi con un'unica pronuncia;

    che, in via preliminare, l'intervento del Presidente del Consiglio dei ministri nel giudizio promosso con ordinanza iscritta al registro ordinanze n. 13 del 2008, deve essere dichiarato inammissibile in quanto tardivo (tra le tante, ordinanza n. 199 del 2006), essendo avvenuto fuori termine, ai sensi dell'art. 25, commi secondo e terzo, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), e dell'art. 3, comma 2, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale;

    che, sempre in via preliminare, deve essere dichiarata inammissibile la costituzione di Italia Nostra ONLUS - Associazione Nazionale per la Tutela del patrimonio Storico, Artistico e Naturale della Nazione, nel giudizio promosso con ordinanza iscritta al registro ordinanze n. 14 del 2008;

    che, difatti, le parti legittimate a costituirsi nel giudizio incidentale sono solo quelle che rivestivano la qualità di parte del giudizio a quo al momento della pubblicazione dell'ordinanza di rimessione (sentenze n. 531 del 1988 e n. 220 del 1988), là dove Italia Nostra ONLUS è intervenuta, ad adiuvandum, nel giudizio a quo solo a seguito di atto notificato, a mezzo di servizio postale, il 20 novembre 2007 e depositato il successivo 21 novembre 2007, successivamente, dunque, alla pubblicazione dell'ordinanza di rimessione in data 5 novembre 2007;

    che, tanto premesso, deve osservarsi che, successivamente alle ordinanze di rimessione, la disciplina del procedimento di autorizzazione in via transitoria dettata dalla norma denunciata è stata innovata per effetto dell'art. 2, lettera hh), del d.lgs. 26 marzo 2008, n. 63 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione al paesaggio), che ha sostituito il previgente art. 159 del d.lgs. n. 42 del 2004, come sostituito dall'art. 26 del d.lgs. n. 157 del 2006, su cui, peraltro, questa Corte si è già pronunciata, in precedente occasione, con la sentenza n. 367 del 2007, de positata successivamente all'emissione delle ordinanze di rimessione;

    che, pertanto, alla luce della ricordata sopravvenienza normativa si impone la restituzione degli atti al giudice rimettente, per una rinnovata valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione dal medesimo sollevata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    ordina la restituzione degli atti al Consiglio di Stato, sezione sesta giurisdizionale.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 18 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA



 
    I testi delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale, trasmessi dalla newsletter "Palazzo della Consulta" sono offerti alla consultazione per fini esclusivamente di informazione.

    Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16 marzo 1956).

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