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Deposito del 02/07/2008 (dalla 240 alla 249)

 
S.240/2008 del 23/06/2008
Udienza Pubblica del 20/05/2008, Presidente BILE, Relatore CASSESE


Norme impugnate: Art. 63, c. 1°, n. 4, del decreto legislativo 18/08/2000, n. 267.

Oggetto: Elezioni - Consigliere comunale - Decadenza dall'ufficio per mancata rimozione della causa di incompatibilità derivante dalla pendenza di lite innanzi al TAR tra l'interessato, in qualità di amministratore delegato di due società ricorrenti, e il comune - Omessa estensione della condizione di incompatibilità ai titolari di organi rappresentativi di soggetti che si trovino nella situazione di lite pendente già prevista espressamente dalla vigente normativa.

Dispositivo: inammissibilità
Atti decisi: ord. 249/2007
S.241/2008 del 23/06/2008
Udienza Pubblica del 20/05/2008, Presidente BILE, Relatore NAPOLITANO


Norme impugnate: - Art. 1 e seguenti della legge della Regione Puglia 10/07/2006, n. 20.
- Art. 1 e seguenti della legge della Regione Puglia 28/05/2007, n. 13.
- Art. 1 e seguenti della legge della Regione Puglia 26/10/2006, n. 30.

Oggetto: Parchi e riserve naturali - Regione Puglia - Istituzione del "Parco Naturale Regionale Isola di S. Andrea - Litorale di Punta Pizzo" - Approvazione con legge provvedimento di atti amministrativi del propedeutico procedimento amministrativo - Irr agionevolezza ed incidenza sul principio di buon andamento della P.A. - Violazione delle regole adottate dal T.A.R. nelle sentenze nn. 1184, 1185, 1186 e 1187/2006, in particolare in relazione al contraddittorio con gli interessati e alla unanimità dei consensi delle pubbliche amministrazioni presenti nella Conferenza dei Servizi.
Parchi e riserve naturali - Regione Puglia - Istituzione del Parco naturale regionale "Litorale di Ugento" - Approvazione con legge provvedimento di atti amministrativi del propedeutico procedimento amministrativo.
Parchi e riserve naturali - Regione Puglia - Istituzione del Parco naturale regionale "Costa Otranto - Santa Maria di Leuca e Bosco di Tricase" - Approvazione con legge provvedimento di atti del propedeutico procedimento amministrativo.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 436, 437, 438, 439, 440, 441, 442, 443, 697, 698, 699, 807, 808, 809, 810 e 811/2007
S.242/2008 del 23/06/2008
Udienza Pubblica del 10/06/2008, Presidente BILE, Relatore MADDALENA


Norme impugnate: Art. 1, c. 231°, 232° e 233°, della legge 23/12/2005, n. 266.

Oggetto: Corte dei conti - Giudizi di responsabilità amministrativa - Appelli contrapposti della parte pubblica e delle parti private - Richiesta di definizione del procedimento, previamente estesa dalla parte privata in replica all'appello della parte pubblica, all'eventuale successiva maggiore condanna - Prevista possibilità, secondo il "diritto vivente", di esame e definizione dopo l'esame e la definizione degli appelli.

Dispositivo: inammissibilità
Atti decisi: ord. 75/2008
O.243/2008 del 23/06/2008
Camera di Consiglio del 07/05/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20/02/2006, n. 46; artt. 1 e 10 della legge 20/02/2006, n. 46.

Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Preclusione, salvo nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc.pen., dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella.

Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens
Atti decisi: ord. 266, 468, 508, 526, 530 e 575/2006
O.244/2008 del 23/06/2008
Camera di Consiglio del 07/05/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 593, c. 2°, del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20/02/2006, n. 46; art. 10, c. 1° e 2°, della legge 20/02/2006, n. 46.

Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Preclusione, salvo nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc.pen., dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella.

Dispositivo:</ em> restituzione atti - jus superveniens
Atti decisi: ord. 268/2006
O.245/2008 del 23/06/2008
Camera di Consiglio del 07/05/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 10 della legge 20/02/2006, n. 46.

Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Disciplina transitoria degli appelli già presentati - Ipotesi di appello presentato dall'imputato avverso i capi di decisione di condanna e del pubblico ministero avverso i capi di decisione di assoluzione della medesima sentenza nei confronti dello stesso imputato su reati connessi - Mancata previsione di trattazione e decisione contestuale.

Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens
Atti decisi: ord. 410/2006
O.246/2008 del 23/06/2008
Camera di Consiglio del 07/05/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 10, c. 4°, della legge 20/02/2006, n. 46.

Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Disciplina transitoria - Inammissibilità dell'appello proposto prima della novella nel caso in cui sia annullata una sentenza di condanna di una Corte di appello che abbia riformato una sentenza di assoluzione - Inapplicabilità della disposizione alla sentenza di proscioglimento per prescrizione emessa a seguito di co ncessione delle circostanze attenuanti generiche.

Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens
Atti decisi: ord. 427/2006
O.247/2008 del 23/06/2008
Camera di Consiglio del 21/05/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Artt. 87, c. 3°, 438 e 440 del codice di procedura penale.

Oggetto: Processo penale - Giudizio abbreviato - Accoglimento della richiesta - Esclusione del responsabile civile - Disparità di trattamento riservata alla parte civile sul piano delle pretese risarcitorie.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 60/2006
O.248/2008 del 23/06/2008
Camera di Consiglio del 21/05/2008, Presidente BILE, Relatore MADDALENA


Norme impugnate: Art. 44 del decreto del Presidente della Repubblica 06/06/2001, n. 380.

Oggetto: Edilizia ed urbanistica - Reato edilizio sanzionato dall'art. 44 del d.P.R. n. 380/2001 - Rimessione in pristino prima della condanna - Mancata previsione dell'applicazione della causa di estinzione del reato di cui all' art. 181, comma 1-quinquies, del d.lgs. n. 42/2004.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 796/2007
O.249/2008 del 23/06/2008
Camera di Consiglio del 21/05/2008, Presidente BILE, Relatore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Artt. 165, c. 1°, 645, c. 2°, e 647 del codice di procedura civile; art. 71 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile.

Oggetto: Procedimento civile - Opposizione a decreto ingiuntivo - Termine per la costituzione in giudizio dell'opponente (nella specie, costituitosi il decimo giorno successivo all'esecuzione delle operazioni di notificazione, ma oltre i dieci giorni dalla consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario) - Decorrenza dalla data di notificazione dell'atto, anziché da quella di consegna dello stesso all'ufficiale giudiziario.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 834/2007

pronuncia successiva

SENTENZA N. 240

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          ASSESE            "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 63, comma 1, numero 4), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), promosso con ordinanza del 7 aprile 2006 dalla Corte d'appello di Firenze nel  procedimento civile vertente tra Gorio Giovanni Battista e il Comune di Castelnuovo Berardenga iscritta al n. 249 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visti gli atti di costituzione di Gorio Giovanni Battista, del Comune di Castelnuovo Berardenga nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 20 maggio 2008 il Giudice relatore Sabino Cassese;

    uditi gli avvocati Clara Mecacci per Gorio Giovanni Battista, Maurizio Brizzolari per il Comune di Castelnuovo Berardenga e l'avvocato dello Stato Gaetano Zotta per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

    1. - La Corte d'appello di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione, dell'articolo 63, comma 1, numero 4), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali).

    La disposizione stabilisce, tra l'altro, che «non può ricoprire la carica di sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, provinciale o circoscrizionale [.] colui che ha lite pendente, in quanto parte di un procedimento civile od amministrativo, rispettivamente, con il comune o la provincia».

    Il Collegio rimettente dubita della legittimità costituzionale di tale disposizione, nella parte in cui «non estende il suo effetto alle persone titolari della rappresentanza organica di soggetti che si trovino nella stessa situazione di lite pendente già prevista dalla norma stessa».

    1.2. - La Corte d'appello di Firenze riferisce che dinanzi ad essa pende giudizio di appello avverso la sentenza del 26 luglio 2005, con la quale il Tribunale di Siena ha rigettato la domanda volta all'annullamento della delibera del Consiglio comunale di Castelnuovo Berardenga adottata in data 29.4.2005, con cui il ricorrente, già consigliere comunale, è stato dichiarato decaduto dall'ufficio, in base alla disposizione impugnata, per aver promosso, non in proprio ma in qualità di amministratore delegato di due distinte società, un ricorso al Tribunale amministrativo regionale volto all'annullamento di una delibera consiliare. Secondo quanto riferisce il Collegio rimettente, il giudice di pri mo grado ha ritenuto di interpretare estensivamente la causa di incompatibilità prevista dalla norma impugnata: essa riguarderebbe non solo, come emerge dal tenore letterale della disposizione, chi abbia personalmente una lite pendente con l'ente comunale o provinciale, ma anche chi ricopra cariche rappresentative di soggetti che abbiano, a loro volta, una lite pendente con gli stessi enti.

    In punto di rilevanza, il Collegio rimettente afferma che solo l'accoglimento, da parte della Corte costituzionale, della questione di legittimità costituzionale prospettata potrebbe impedire l'accoglimento dell'appello, che, altrimenti, dovrebbe invece ritenersi fondato.

    La Corte d'appello di Firenze non ritiene, infatti, di poter aderire all'interpretazione estensiva fatta propria dal giudice di primo grado, neppure utilizzando, a tal fine, il canone della interpretazione adeguatrice, sia perché le norme che restringono il diritto di elettorato passivo sono di stretta interpretazione, sia in base ad una interpretazione sistematica dell'art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 267 del 2000, che, per individuare i destinatari delle ipotesi di incompatibilità previste al numero 2), si riferisce espressamente ai soggetti titolari di poteri di rappresentanza («colui che, come titolare, amministratore, dipendente con poteri di rappresentanza o di coordinamento ha parte, direttamente o indirettamente, in servizi, esazioni di diritti, so mministrazioni o appalti»), mentre per identificare i destinatari della causa di incompatibilità prevista al numero 4) si limita ad indicare, senza alcun riferimento a soggetti titolari di poteri di rappresentanza, «colui che ha lite pendente, in quanto parte di un procedimento civile o amministrativo».

    In punto di non manifesta infondatezza, il Collegio rimettente ravvisa, in relazione alle finalità della disciplina giuridica del conflitto di interessi, una equivalenza, da un lato, fra la situazione della persona fisica direttamente titolare dell'interesse in conflitto con quello dell'ente pubblico, e, dall'altro, la situazione della persona fisica che sia rappresentante legale del soggetto titolare dell'interesse in conflitto. Tale equivalenza renderebbe illegittima, per violazione dell'art. 3 Cost., una disciplina diversificata delle stesse, qual è quella attualmente dettata dalla disposizione censurata.

    Inoltre, secondo la Corte rimettente, l'estensione della regola di incompatibilità alle persone titolari della rappresentanza organica dei soggetti che si trovino nella situazione di lite pendente con l'ente locale sarebbe imposta dall'art. 97 Cost., che richiederebbe al legislatore di impedire «le situazioni più evidenti e indiscutibili di conflitto di interessi».

    2. - E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, deducendo l'inammissibilità e comunque l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale sollevata.

    La difesa erariale premette che la disposizione censurata è norma di natura eccezionale considerato che pone una limitazione al diritto di elettorato passivo sancito dall'art. 51 Cost.

    Nel merito, richiama il consolidato orientamento della Corte di cassazione in ordine alla «nozione di "parte in giudizio" in senso tecnico riferita, cioè, a quel soggetto il quale a seguito della proposizione di domanda giudiziale e della costituzione in giudizio diventa titolare di una serie di poteri processuali finalizzati a dare impulso al processo» (Cass. Civ., sez. I, 19 maggio 2001, 6880). Alla luce di tale orientamento, la qualità di parte in senso tecnico è riferita alla società medesima e non al suo rappresentante legale e, ad avviso della difesa erariale, la differente disciplina riservata dalla norma al caso in cui il soggetto eletto alla carica di consigliere comunale rivesta la qualità di rappresentante legale di una società che sia parte di un giudizio con il Comune rispetto al caso in cui l'eletto alla carica di consigliere comunale abbia personalmente una causa con il Comune, non appare lesiva né del principio di ragionevolezza né dei principi di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione (artt. 3 e 97 Cost.) Difatti, da un lato, il potere di rappresentanza organica di un ente collettivo non necessariamente si accompagna alla titolarità del potere di formare la volontà dell'ente; dall'altro, i vantaggi derivanti dall'esito della lite in corso ricadono direttamente nella sfera giuridica del soggetto rappresentato.

    3. - Nel giudizio di costituzionalità si sono costituite le parti del giudizio principale.

    3.1. - Il Comune di Castelnuovo Berardenga sostiene la fondatezza della questione di legittimità costituzionale, nei termini prospettati dal giudice a quo.

    3.2. - L'appellante conclude invece nel senso della inammissibilità e infondatezza della questione stessa.

    In primo luogo, la questione proposta dal giudice a quo sarebbe - a suo avviso - inammissibile, in quanto tesa a sollecitare una pronuncia additiva della Corte costituzionale in una materia, quale quella della disciplina delle cause di incompatibilità, che, anche in considerazione della natura politica dei diritti coinvolti, rientra nella «discrezionalità del legislatore».

    Nel merito, la difesa della parte richiama la giurisprudenza della Corte di cassazione (Cass. Civ., sez. I, 29 maggio 1972, n. 1685; Cass., sez. lav., 29.10.2003, n. 16245), secondo cui la causa di incompatibilità per lite pendente deve riferirsi ad un rapporto litigioso del quale sia parte l'eletto in persona propria, non potendo invece riguardare gli amministratori di una persona giuridica allorché sia quest'ultima, quale soggetto giuridico distinto ed autonomo dalle persone fisiche dei suoi amministratori, ad avere lite pendente con il Comune.

Considerato in diritto

    1. - La Corte d'appello di Firenze ha sollevato questione di legittimità costituzionale, con riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dell'art. 63, comma 1, numero 4), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), nella parte in cui «non estende il suo effetto alle persone titolari della rappresentanza organica di soggetti che si trovino nella stessa situazione di lite pendente prevista dalla norma stessa».

    2. - La questione non è ammissibile.

    Va premesso che la legislazione in materia di incompatibilità degli amministratori locali, nell'ipotesi di lite pendente, ha progressivamente circoscritto l'ambito di applicazione dell'istituto e attenuato i suoi effetti limitativi in relazione al diritto di elettorato passivo.

    Il legislatore ha dapprima trasformato la lite pendente da causa di ineleggibilità a causa di incompatibilità (art. 15 del d.P.R. 5 aprile 1951, n. 203, recante «Testo unico delle leggi per la composizione e l'elezione degli organi delle amministrazioni comunali», sostituito dall'art. 3, primo comma, numero 4), della legge 23 aprile 1981, n. 154, recante «Norme in materia di ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche di consigliere regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale e in materia di incompatibilità degli addetti al servizio sanitario nazionale»). Successivamente, per evitare applicazioni distorsive dell'istituto, ha escluso dal suo ambito diverse fattispecie: la lite per fatto connesso con l'esercizio del mandato; la lite in materia tr ibutaria; la lite promossa nell'esercizio dell'azione popolare; la semplice costituzione di parte civile nel processo penale; la lite promossa in esito a sentenza di condanna, o ad essa conseguente, in mancanza di affermazione di responsabilità con sentenza passata in giudicato (art. 3ter del decreto-legge 22 febbraio 2002, n. 13, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità degli enti locali»).

    In questo quadro, il giudice rimettente chiede alla Corte costituzionale una pronuncia additiva che, in senso inverso rispetto all'evoluzione normativa descritta, abbia l'effetto di ampliare l'ambito di applicazione dell'istituto dell'incompatibilità per lite pendente, estendendolo all'ipotesi in cui l'eletto sia titolare della rappresentanza organica di un soggetto avente lite con l'ente locale.

    Questa Corte ha più volte affermato che la questione di legittimità costituzionale è inammissibile quando il rimettente solleciti un intervento additivo che non sia costituzionalmente obbligato (ordinanze n. 333 e 185 del 2007). Nel caso in esame, la soluzione sollecitata dal rimettente non può ritenersi imposta dalle norme costituzionali invocate. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, proprio con riferimento all'ambito di applicazione dell'incompatibilità per lite pendente, «spetta al legislatore, nel ragionevole esercizio della sua discrezionalità, attuare l'art. 51 della Costituzione, stabilendo il regime delle cause di ineleggibilità e incompatibilità» (sentenza n. 160 del 1997). E' vero che l'art. 97 Cost. impone al legislatore di regolar e, come afferma il rimettente, le «situazioni più evidenti ed indiscutibili di conflitto di interessi». Ma ciò non significa che il legislatore debba risolvere ogni situazione di conflitto di interessi con il principio della incompatibilità. Nel bilanciamento fra i principi previsti dagli artt. 51 e 97 della Costituzione, il compito del Parlamento è quello di valutare in modo ragionevole le diverse ipotesi di conflitto e, in relazione alla gravità di ciascuna, graduare il trattamento normativo più appropriato e proporzionato. Questo può essere di volta in volta rappresentato non solo dalla ineleggibilità o dalla incompatibilità, ma anche dall'obbligo di astenersi o di dichiarare la situazione di conflitto.

    La previsione di una incompatibilità non costituisce, quindi, l'unica soluzione a disposizione del legislatore per porre rimedio alla specifica situazione di conflitto di interessi dell'amministratore titolare della rappresentanza organica di un soggetto avente lite pendente con l'ente locale. Né a diversa conclusione potrebbe pervenirsi sulla base di una comparazione con altre ipotesi di conflitto richiamate dalla Corte d'appello di Firenze, che presentano rilevanti elementi di diversità rispetto a quella cui il rimettente chiede di estendere il regime di incompatibilità (art. 63, comma 1, del decreto legislativo n. 267 del 2000, art. 2 della legge 20 luglio 2004, n. 215, recante «Norme in materia di risoluzione dei conflitti di interesse» e art. 1394 de l codice civile).

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 63, comma 1, numero 4), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo Unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), sollevata, con riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Firenze con l'ordinanza in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Sabino CASSESE, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 2 luglio 2008.

Il Cancelliere

F.to: FRUSCELLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 241< /o:p>

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE       Presidente

- Giovanni Maria  FLICK        Giudice

- Francesco       AMIRANTE        "

- Ugo             DE SIERVO       "

- Paolo           MADDALENA       "

- Alfio           FINOCCHIARO     "

- Alfonso         QUARANTA        "

- Franco          GALLO           "

- Luigi           MAZZELLA        "

- Gaetano         SILVESTRI       "

- Sabino          CASSESE         "

- Maria Rita      SAULLE          "

- Giuseppe        TESAURO         "

- Paolo Maria     NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1 e seguenti della legge regionale della Puglia 10 luglio 2006, n. 20 (Istituzione del Parco naturale regionale "Isola di S. Andrea e litorale di Punta Pizzo"), degli artt. 1 e seguenti della legge regionale della Puglia 28 maggio 2007, n. 13 (Istituzione del Parco naturale regionale "Litorale di Ugento"), e degli artt. 1 e seguenti della  legge regionale della Puglia  26 ottobre 2006, n. 30 (Istituzione del Parco naturale regionale "Costa di Otranto - Santa Maria di Leuca e Bosco di Tricase"), promossi con ordinanze del 12 gennaio (nn. 8 ordinanze), del 27 giugno (nn. 3 ordinanze), del 28 settembre (nn. 5 ordinanze) 2007 dal Tribunale amministrativo regionale della Puglia, sezione staccata di Lecce, rispettivamente iscritte ai nn. da 436 a 443, da 697 a 699 e da 807 a 811 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 24, 40 e 50, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visti gli atti di costituzione della Torre Pizzo Investimenti s.r.l. ed altri, del Comune di Gallipoli, di Lupo Gregorio ed altri, del Comune di Ugento, della Provincia di Lecce, di Benegiamo Laura ed altri, del Comune di Gagliano del Capo, del Comune di Tricase nonché della Regione Puglia;

    udito nell'udienza pubblica del 20 maggio 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;

    uditi gli avvocati Gianluigi Pellegrino per la Torre Pizzo Investimenti s.r.l. ed altri, per Lupo Gregorio ed altri e per Benegiamo Laura ed altri, Ernesto Sticchi Damiani, Luigi Paccione e Fulvio Mastroviti per la Regione Puglia e Pietro Quinto per i Comuni di Gallipoli, Ugento e Gagliano del Capo.

Ritenuto in fatto

    1. - Con otto ordinanze, tutte del medesimo tenore, il Tribunale amministrativo regionale della Puglia, sezione staccata di Lecce, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e seguenti della legge regionale della Puglia 10 luglio 2006, n. 20 (Istituzione del Parco naturale regionale "Isola di S. Andrea e litorale di Punta Pizzo").

    1.1. - Il rimettente, dopo aver premesso che i giudizi a quibus, tutti introdotti da soggetti titolari di diritti su beni immobili ubicati in zone comprese nel perimetro del Parco, hanno ad oggetto atti del procedimento amministrativo finalizzato alla istituzione del Parco (in particolare, il verbale della conferenza dei servizi tenutasi - ai sensi del comma 5 dell'art. 6 della legge regionale 24 luglio 1997, n. 19, recante «Norme per l'istituzione delle aree naturali protette nella Regione Puglia» - in data 15 maggio 2006, nonché tutti gli atti preparatori e consequenziali), osserva che i giudizi medesimi dovrebbero essere dichiarati improcedibili, essendo stata, medio tempore, approvata, p romulgata ed entrata in vigore la legge regionale n. 20 del 2006, istitutiva del Parco naturale in questione.

    Fa infatti presente che, sopravvenuta la legge-provvedimento, il sindacato del giudice amministrativo trova un limite insormontabile nell'avvenuta legificazione del preesistente provvedimento amministrativo.

    Tale fenomeno, prosegue il rimettente, non comporta, peraltro, il sacrificio degli interessi dei cittadini, trasferendosi la tutela di questi dal piano della giurisdizione amministrativa a quello della giustizia costituzionale.

    Esaminando, perciò, le eccezioni di legittimità costituzionale avanzate dalle parti private ricorrenti, il TAR rimettente ritiene non rilevante quella avente ad oggetto gli artt. 6 e 8 della legge regionale n. 19 del 1997. Ciò in quanto le misure di salvaguardia ivi previste hanno cessato di avere efficacia all'atto dell'approvazione della successiva legge regionale n. 20 del 2006.

    1.2. - Il rimettente ritiene, invece, che sia rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale di tale ultima legge regionale.

    Questa sarebbe, infatti, irragionevole poiché «la stessa non avrebbe tenuto conto del mancato rispetto delle regole dettate [dal suddetto] T.A.R. (nelle sentenze nn° 1184, 1185, 1186 e 1187/2006) in relazione alla fase del propedeutico procedimento amministrativo, in particolare per ciò che attiene al (corretto) contraddittorio con gli interessati».

      Riguardo alla rilevanza della questione, il rimettente richiama la problematica connessa alla garanzia giurisdizionale in caso di legge-provvedimento di approvazione, connotata quest'ultima sia dal vincolo funzionale che la lega a precedenti provvedimenti amministrativi, sia dal concorso della volontà legislativa con quella amministrativa nella definizione del contenuto dispositivo sostanziale, contenuto in cui confluiscono gli atti amministrativi assorbiti nell'atto legislativo, di cui acquistano valore e forza.

    Pertanto, aggiunge il rimettente, per un verso l'incidente di costituzionalità è l'unico strumento di tutela nei confronti dei provvedimenti amministrativi impugnati e assorbiti dalla legge regionale, per altro verso, solo ove la legge censurata fosse dichiarata incostituzionale, i giudizi a quibus non sarebbero improcedibili.

    Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente premette che, riguardo alle leggi-provvedimento, il riconoscimento in capo al legislatore di un vasto ambito di discrezionalità deve essere bilanciato tramite la loro sottoposizione ad un controllo di costituzionalità - tanto più rigoroso quanto più marcata è la natura provvedimentale dell'atto - sotto il profilo della non arbitrarietà e ragionevolezza; controllo che investe anche gli atti amministrativi che sono il presupposto di quello legislativo.

    Sulle base di queste premesse, il TAR della Puglia, sezione staccata di Lecce, ritiene che la legge regionale n. 20 del 2006 sia in contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione in quanto il Consiglio regionale, nell'approvarla, non avrebbe tenuto conto del mancato rispetto delle regole dettate dallo stesso TAR, con le quattro sentenze prima ricordate, in relazione alla fase del procedimento amministrativo propedeutico alla adozione degli atti legislativi.

    Ciò si sarebbe verificato sia riguardo alla non corretta attivazione del «contraddittorio con gli interessati» sia riguardo al mancato rispetto del carattere «necessariamente decisorio della conferenza dei servizi di cui all'art. 6, quinto comma, della legge regionale pugliese 24 luglio 1997, n. 19».

    Infatti, da una parte la conferenza dei servizi del 15 maggio 2006 sarebbe stata convocata prima della scadenza del termine per la presentazione delle osservazioni da parte degli interessati, osservazioni che, peraltro, anche ove presentate, non avrebbero avuto risposta in sede amministrativa; e, dall'altra parte, non si sarebbe raggiunta la unanimità dei consensi delle amministrazioni coinvolte nella conferenza dei servizi, avendo la Amministrazione provinciale di Lecce espresso "parere favorevole" a condizione che fosse operata una rettifica della perimetrazione del Parco.

    1.3. - Si sono costituite nei giudizi di legittimità costituzionale numerose parti private: l'uniformità delle difese svolte consente che esse siano unitariamente illustrate.

    Preliminarmente, richiamati i principi espressi dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 225 e n. 226 del 1999, è stata eccepita la inammissibilità della questione per difetto di rilevanza.

    Affermano, infatti, le parti private  che in ipotesi come quelle oggetto dei giudizi a quibus, poiché la legge-provvedimento emanata non rientra nel "tipo" che esse definiscono «in sanatoria o approvazione» avendo invece questa un ruolo di «copertura politica e di istituzione (e quindi di integrazione di efficacia)» rispetto alle determinazioni assunte in sede amministrativa, gli atti precedentemente emanati non sono da quella sostituiti e, quindi, non risulterebbe sottratta al giudice amministrativo la verifica delle denunciate violazioni delle regole procedimentali.

    Di conseguenza, stante la procedibilità dei ricorsi a quibus, ne deriverebbe la inammissibilità per difetto di rilevanza dell'incidente di costituzionalità.

    Quanto al merito, la difesa delle parti private, sostanzialmente associandosi ai rilievi del rimettente, conclude per la fondatezza della questione.

    1.4. - Si è altresì costituita nei giudizi di costituzionalità la Regione Puglia: anche in questo caso la identità delle argomentazioni, svolte nei vari giudizi, ne giustifica la unitaria illustrazione.

    La difesa della Regione deduce in via preliminare la inammissibilità della questione sotto il profilo della carenza di motivazione sia sulla rilevanza che sulla non manifesta infondatezza.

    Secondo la suddetta difesa, infatti, sebbene il rimettente deduca la violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione, non sarebbe poi dato rinvenire nelle ordinanze di rimessione alcuno specifico e puntuale  riferimento alla violazione dei principi di eguaglianza e a quello di buon andamento dell'azione amministrativa.

    Ad avviso della Regione la questione di legittimità sarebbe, altresì, inammissibile in quanto il rimettente non avrebbe precisato in qual modo, da una parte, l'istituzione dell'area naturale protetta avrebbe leso i ricorrenti nei giudizi a quibus e come, invece, l'eventuale rispetto dei parametri di costituzionalità, di cui si afferma la violazione, avrebbe, invece, evitato la lesione dei loro interessi.

    Un ulteriore motivo di inammissibilità della questione sarebbe, ad avviso della Regione, rinvenibile nel difetto di interesse dei ricorrenti.

    Infatti, anche nell'ipotesi in cui la legge regionale censurata dovesse essere dichiarata incostituzionale, costoro non ne trarrebbero alcun sostanziale beneficio, non potendo, comunque, avviare sui loro terreni attività incompatibili con la conservazione dell'area protetta, in quanto l'eventuale caducazione della legge avrebbe l'effetto di dare nuovo vigore alle misure di salvaguardia edilizie previste dagli artt. 6 e 8 della legge regionale n. 19 del 1997.

    Quanto al merito, la Regione ritiene l'incidente di costituzionalità infondato, non essendoci stata, da parte del Consiglio regionale, alcuna violazione procedimentale nella fase anteriore alla approvazione della legge regionale censurata.

    1.5. - Anche il Comune di Gallipoli, già parte nei giudizi a quibus, si è costituito di fronte alla Corte costituzionale.

    Per la difesa di tale ente territoriale la complessa questione di costituzionalità è inammissibile e, comunque, infondata.

    Quanto alla inammissibilità, il costituito Comune riscontra una carenza di motivazione sia riguardo alla rilevanza che alla non manifesta infondatezza della questione, eccependo, altresì, l'erronea indicazione dei parametri costituzionali.

    Osserva, infatti, che non è dato arguire dalla lettura delle ordinanze né in che modo sia stato leso il principio di uguaglianza dalla adozione dell'atto legislativo censurato né quali lesioni abbiano sofferto i ricorrenti dallo svolgimento del procedimento amministrativo.

    Il Comune di Gallipoli aggiunge che, comunque, va esclusa la possibilità di riscontrare la violazione dell'art. 97 della Costituzione, essendo tale disposizione volta a regolare il corretto svolgimento della attività dei pubblici uffici e non quella normativa.

    Precisa, infine, la medesima parte, sempre riguardo alla rilevanza della questione, che anche l'eventuale declaratoria di incostituzionalità della legge censurata non farebbe conseguire ai ricorrenti alcun utile risultato, permanendo sull'area del Parco la vigenza delle misure di salvaguardia di cui agli artt. 6 e 8 della legge regionale n. 19 del 1997.

    Riguardo al merito, la infondatezza della questione è fatta discendere dalla dedotta assenza di vizi nel procedimento amministrativo prodromico alla adozione della legge regionale censurata.

    2. - Con altre tre ordinanze lo stesso Tribunale amministrativo regionale della Puglia, sezione staccata di Lecce, ha sollevato, in riferimento ai medesimi parametri dianzi indicati, questione di legittimità costituzionale della legge regionale della Puglia 28 maggio 2007, n. 13 (Istituzione del Parco naturale regionale "Litorale di Ugento").

    2.1. - Anche in questo caso il giudice rimettente, avendo premesso che i ricorsi, depositati a cura di soggetti proprietari di beni immobili siti in zona interessata dalla istituzione del Parco naturale, hanno ad oggetto il verbale della conferenza dei servizi del 24 novembre 2006 inerente la istituzione del Parco naturale in questione, nonché ogni altro atto connesso relativo al procedimento per la predetta istituzione, precisa che la legge regionale pugliese n. 19 del 1997 ha previsto per la istituzione delle aree naturali protette di interesse regionale un articolato procedimento, suddiviso in due fasi da svolgersi in sequenza: l'una, di natura amministrativa, diretta a «realizzare la partecipazione e d il concorso dei soggetti pubblici e privati portatori dei molteplici interessi coinvolti», l'altra, di carattere legislativo, che inizia con la presentazione al Consiglio regionale, da parte della Giunta, dello schema definitivo di disegno di  legge per l'approvazione della legge-provvedimento.         

       Tale duplicità risulta conservata, chiarisce il rimettente, anche a seguito della intervenuta modifica dell'art. 6 della legge regionale n. 19 del 1997, realizzata tramite l'art. 22 della legge regionale 19 luglio 2006, n. 22 (Assestamento e prima variazione al bilancio di previsione per l'esercizio finanziario 2006), la quale, prescrivendo la pubblicazione nel Bollettino ufficiale della Regione Puglia dello schema di disegno di legge, richiede, se correttamente interpretata, che dopo questo adempimento si tenga un'ulteriore conferenza dei servizi, per la valutazione degli «apporti partecipativi» conseguenti a tale pubblicazione.

    Tanto premesso, il TAR rimettente osserva che gli originari ricorsi dovrebbero essere dichiarati improcedibili poiché, durante il giudizio, è stata approvata, promulgata ed è entrata in vigore la legge regionale n. 13 del 2007, istitutiva del ricordato Parco naturale. Infatti, sopravvenuta la legge-provvedimento, il sindacato del giudice amministrativo trova un limite insormontabile nell'avvenuta legificazione del preesistente provvedimento amministrativo.

    Tale fenomeno non comporta, peraltro, il sacrificio degli interessi dei cittadini, trasferendosi la tutela di questi dal piano della giurisdizione amministrativa a quello della giustizia costituzionale.

    2.2. - Esaminando, perciò, le eccezioni di legittimità costituzionale sollecitate dalle parti private ricorrenti, il TAR rimettente ritiene che sia rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della legge regionale n. 13 del 2007.

    Questa sarebbe, infatti, irragionevole poiché «la stessa non ha tenuto conto del mancato rispetto delle regole dettate [dal suddetto] T.A.R. (nelle sentenze nn° 1184, 1185, 1186 e 1187/2006) in relazione alla fase del propedeutico procedimento amministrativo, in particolare per ciò che attiene al (corretto) contraddittorio con gli interessati».

      Riguardo alla rilevanza della questione il rimettente richiama la problematica connessa alla garanzia giurisdizionale in caso di legge-provvedimento di approvazione, connotata sia dal vincolo funzionale che lega questa a precedenti provvedimenti amministrativi, sia dal concorso della volontà legislativa con quella amministrativa nella definizione del contenuto dispositivo sostanziale, contenuto in cui confluiscono gli atti amministrativi assorbiti nell'atto legislativo, di cui acquistano valore e forza.

    Pertanto, aggiunge il rimettente, per un verso l'incidente di costituzionalità è l'unico strumento di tutela nei confronti dei provvedimenti amministrativi impugnati e assorbiti dalla legge regionale, per altro verso, solo ove la legge censurata fosse dichiarata incostituzionale, i giudizi a quibus non sarebbero improcedibili.

    Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente premette che, riguardo alle leggi-provvedimento, il riconoscimento in capo al legislatore di un vasto ambito di discrezionalità deve essere bilanciato tramite la sua sottoposizione ad un controllo di costituzionalità - tanto più rigoroso quanto più marcata è la natura provvedimentale dell'atto - sotto il profilo della non arbitrarietà e ragionevolezza; controllo che investe anche gli atti amministrativi che sono il presupposto di quello legislativo.

    Sulla base di queste premesse, il TAR della Puglia, sezione staccata di Lecce, ritiene che la legge regionale n. 13 del 2007 sia in contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione in quanto il Consiglio regionale, nell'approvarla, non avrebbe tenuto conto del mancato rispetto delle regole dettate dallo stesso TAR, con le quattro sentenze prima ricordate, in relazione alla fase del procedimento amministrativo propedeutico alla adozione degli atti legislativi.

    Ciò si sarebbe verificato riguardo alla non corretta attivazione del «contraddittorio con gli interessati», in quanto, ad avviso del rimettente, non sarebbe stata data adeguata pubblicità a tale fase del procedimento onde consentire ai soggetti interessati di partecipare ad esso. In particolare non sarebbe stato chiarito che, prima della convocazione della conferenza dei servizi del 24 novembre 2006, vi era la possibilità per gli interessati di formulare le loro osservazioni né il termine entro cui queste dovevano essere presentate.

    2.3. - Anche nei giudizi di legittimità costituzionale originati dalla tre ordinanze ora riferite si sono costituite in giudizio diverse parti private, nelle cui difese, fra loro identiche, si riportano integralmente gli argomenti, che qui si intendono richiamati, già svolti dalle parti private costituitesi nei precedenti giudizi.

    2.4. - Si è, altresì, costituita la Regione Puglia, concludendo, in via preliminare, per la inammissibilità e, nel merito, per l'infondatezza della questione.

    Per la difesa regionale, infatti, la questione sarebbe inammissibile per difetto di motivazione in quanto nelle ordinanze con la quali è stata sollevata la questione non si rinviene alcun riferimento a violazioni da parte delle disposizioni regionali censurate sia dell'art. 97 che dell'art. 3 della Costituzione: il richiamo alle norme costituzionali sarebbe svolto, difatti, con estrema genericità senza alcuna analisi «dei profili di rilevanza costituzionali sollevati».

    Aggiunge la medesima difesa che la questione sarebbe anche inammissibile per difetto di rilevanza in quanto, essendo stati i provvedimenti impugnati emanati in base a disposizioni legislative, non oggetto di autonome censure, che non prevedono la partecipazione dei cittadini interessati alla fase amministrativa della procedura, anche se le norme censurate dovessero essere dichiarate incostituzionali, la amministrazione dovrebbe adottare nuovamente gli atti impugnati reiterandone i medesimi contenuti.

    Quanto al merito della questione, la Regione Puglia contesta la sussistenza di qualsivoglia vizio procedimentale nella fase a monte della adozione della legge censurata, in particolare osservando come, a mente di quanto previsto dall'art. 13 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e diritto di accesso ai documenti amministrativi), in caso di atti generali di pianificazione e programmazione territoriale (ambito nel quale sono compresi quelli aventi ad oggetto la istituzione di Parchi naturali), sono derogate le disposizioni contenute nella medesima legge in tema di partecipazione degli interessati al procedimento, essendo, viceversa, a tale fine applicabili le particolari discipline di settore, discipline che, aggiunge la Regione, sono state nel caso di specie rispettate.

    Escluso, pertanto, il vizio presupposto, risulterebbe in tal modo l'infondatezza delle censure formulate dal rimettente quanto alla violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione.

    2.5. - Si è costituita nei tre giudizi relativi alla legge regionale n. 13 del 2007 la Provincia di Lecce, la quale ha preliminarmente eccepito la inammissibilità della questione per difetto di rilevanza sulla scorta di quanto affermato dalla Corte costituzionale nelle già menzionate sentenze n. 225 e n. 226 del 1999: potendo, infatti, i giudizi a quibus essere definiti indipendentemente dalla risoluzione del quesito sottoposto alla Corte, la relativa questione sarebbe inammissibile.

    La difesa provinciale contesta, altresì, la ammissibilità della questione in quanto il rimettente non avrebbe indicato con precisione quali disposizioni della legge regionale si assumono essere costituzionalmente illegittime. Il rimettente, infatti, avendo utilizzato la locuzione «artt. 1 e seguenti della legge regionale pugliese 28 maggio 2007, n. 13», usa un'espressione del tutto generica che fa identificare, in definitiva, la censura col testo della intera legge.

    Altro profilo di inammissibilità concerne il vizio della motivazione sulla non manifesta infondatezza, non essendo sul punto le argomentazioni del rimettente sostenute da un adeguato corredo motivazionale sia per ciò che concerne l'asserita violazione dell'art. 3 della Costituzione sia per ciò che riguarda la violazione dell'art. 97 della medesima.         

    Anche la difesa della Provincia di Lecce ritiene che la questione sarebbe comunque priva di rilevanza, poiché il suo accoglimento non recherebbe alcun concreto vantaggio ai ricorrenti, stanti le misure di salvaguardia previste dagli artt. 6 e 8 della legge regionale n. 19 del 1997, le quali inibiscono qualsiasi trasformazione del territorio.

    Nel merito, infine, la questione sarebbe infondata, attesa la legittimità della fase amministrativa del procedimento, la quale si è svolta nel rispetto dei principi fissati sia dalla legge n. 394 del 1991 che dalla legge regionale n. 19 del 1997, che non prevedono la partecipazione dei privati alla conferenza dei servizi.

    2.6. - Si è, infine, costituito nei giudizi di fronte alla Corte relativi alle tre ordinanze in questione anche il Comune di Ugento, concludendo per l'inammissibilità e, comunque, l'infondatezza della questione. 

    Quanto alla prima, essa sarebbe motivata dalla circostanza che il rimettente non avrebbe chiarito in quale modo dal difetto di partecipazione degli interessati al procedimento amministrativo sarebbe scaturita una violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione da parte della successiva legge regionale n. 13 del 2007.

    Ulteriore profilo di inammissibilità deriverebbe dal difetto di rilevanza della questione di legittimità costituzionale rispetto alla decisione da assumere nei giudizi a quibus. Infatti, al di là del dedotto vizio formale, il rimettente non avrebbe indicato alcuna lesione sostanziale alla posizione dei ricorrenti in tali giudizi che possa essere sanata attraverso l'eventuale declaratoria di incostituzionalità della legge censurata: peraltro tale declaratoria non comporterebbe alcun concreto risultato in favore di costoro, attesa la persistenza delle misure di salvaguardia dettate dagli artt. 6 e 8 della legge regionale n. 19 del 1997 in forza delle quali è, comu nque, preclusa ogni attività di trasformazione del territorio.

    Quanto alla infondatezza della questione, il Comune di Ugento la fa derivare dalla insussistenza dei vizi procedimentali lamentati dal rimettente: in particolare si rileva che, data la tipologia del provvedimento da assumere, volto alla istituzione di un'area naturale protetta, non vi era alcuna necessità di coinvolgere in esso i proprietari dei terreni inclusi nel perimetro dell'area stessa.

    La insussistenza del vizio procedimentale escluderebbe la sussistenza del vizio di costituzionalità.

    3. - Con altre cinque ordinanze, tutte del medesimo tenore, il Tribunale amministrativo ragionale della Puglia, sezione staccata di Lecce, dubita, con riferimento sempre agli artt. 3 e 97 della Costituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 1 e seguenti della  legge regionale 26 ottobre 2006, n. 30 (Istituzione del Parco naturale regionale "Costa di Otranto - Santa Maria di Leuca e Bosco di Tricase").

    I giudizi  a quibus, introdotti da soggetti titolari di diritti in aree ubicate all'interno del perimetro dell'istituito Parco naturale, hanno ad oggetto il verbale, (mai comunicato e mai pubblicato, secondo quanto viene precisato) della conferenza dei servizi tenutasi ai sensi dell'art. 6, comma 5, della legge regionale n. 19 del 1997 al fine della istituzione del Parco naturale di cui alla legge censurata, nonché la presupposta determinazione (anch'essa, si precisa, mai pubblicata e mai comunicata), assunta dalla Giunta regionale ai sensi dell'art. 6, comma 3, della citata legge regionale n. 19 del 1997, e, infine, ogni altro atto connesso, consequenziale e presupposto.< /P>

    Essendo la motivazione delle ordinanze di rimessione identica a quella delle ordinanze con le quali è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale della legge regionale della Puglia n. 13 del 2007, si rinvia, quanto alla illustrazione di essa, a quanto già riportato riguardo a tali altre ordinanze di rimessione.     

    3.1. - Si sono costituite nei giudizi incidentali di legittimità costituzionale di fronte a questa Corte numerose parti private, già ricorrenti nei giudizi  a quibus.

    Anche in questo caso il tenore degli atti di costituzione è il medesimo delle comparse depositate dalle parti private costituitesi nei giudizi di legittimità costituzionale aventi ad oggetto la legge regionale n. 13 del 2007: pertanto si rinvia a quanto già riportato relativamente a tali atti.

    3.2. - Si è costituita, nei giudizi relativi alla legge regionale n. 30 del 2006, la Regione Puglia, concludendo per la inammissibilità o, comunque, per la infondatezza della questione di legittimità costituzionale.

    In particolare la difesa regionale, negata la natura di legge-provvedimento relativamente alla legge censurata, non trattandosi di norma con la quale viene sussunto a rango legislativo un preesistente provvedimento amministrativo e affermato il difetto di giurisdizione del rimettente in merito ai giudizi a quibus, deduce di conseguenza la mancanza di rilevanza della questione di legittimità costituzionale.

    3.3. - Si è, altresì, costituita la Provincia di Lecce, svolgendo le medesime argomentazioni già dedotte in occasione della precedente costituzione in giudizio e rassegnando le medesime conclusioni.

    Si rinvia, pertanto, a quanto in precedenza già riferito in merito ad esse.

    3.4. - Si è costituito nei giudizi di legittimità costituzionale il Comune di Gagliano del Capo.

    Poiché gli atti di costituzione in giudizio hanno lo stesso contenuto degli atti con i quali si era costituito il Comune di Ugento nei giudizi aventi ad oggetto la legge regionale n. 13 del 2007, si rinvia a quanto a tale riguardo riportato.

    3.5. - Si è, infine, costituito anche il Comune di Tricase, concludendo per l'inammissibilità o l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale della legge regionale n. 30 del 2006.

      Viene, preliminarmente, eccepita la inammissibilità della questione di legittimità costituzionale in quanto in essa difetterebbe il requisito della incidentalità nei giudizi a quibus, posto che, come riferisce il rimettente, l'incidente di costituzionalità sarebbe «l'unico strumento processuale a disposizione dei ricorrenti per tutelare le loro posizioni soggettive nei confronti degli impugnati provvedimenti amministrativi, assorbiti dalla legge regionale». In altre parole, secondo la difesa del Comune di Tricase, «il bene della vita per conseguire il quale è stato instaurato il giudizio principale, risulta [.] conseguibile, nella prospettiva dell'ordinanza, unicamente e direttamente attraverso quello principale».

    Ulteriore motivo di inammissibilità delle ordinanze viene individuato dalla riportata difesa nel fatto che, poiché il rimettente afferma che, solo nell'ipotesi in cui la questione di legittimità costituzionale fosse accolta, i ricorsi principali non sarebbero destinati ad una pronunzia di inammissibilità, egli, implicitamente, affermerebbe di essere, fino al momento dell'accoglimento della questione di costituzionalità «sostanzialmente privo o carente di giurisdizione»: da ciò tale difesa fa discendere la attuale carenza di legittimazione del TAR della Puglia a sollevare la questione in oggetto.

    Riguardo al merito della questione, il concludente Comune ritiene che non troverebbe alcun fondamento la tesi, attribuita al rimettente, secondo la quale la attività legislativa, per essere svolta secondo ragionevolezza, deve conformarsi al rispetto dei giudicati amministrativi. Ciò tanto più ove il denunciato vizio attiene, nel caso di legge-provvedimento, al mancato rispetto di regole procedimentali, riferite alla fase amministrativa del complesso procedimento, enunciate dal giudice amministrativo alla stregua di una legge ordinaria.

    4. - Nell'imminenza della udienza pubblica molte delle parti costituite hanno depositato memorie illustrative.

    4.1. - Con riferimento ai giudizi relativi alla legittimità costituzionale della legge regionale n. 20 del 2006, la Regione Puglia insiste nella eccezione di inammissibilità della questione stante la sua irrilevanza nei giudizi a quibus, legata al difetto assoluto di giurisdizione del rimettente.

    In particolare, la Regione, confermate le eccezioni di inammissibilità per difetto di motivazione delle ordinanze di rimessione e per difetto di interesse degli originari ricorrenti, richiama la recente ordinanza 1° febbraio 2008, n. 2439, delle Sezioni unite civili della Corte di cassazione, con la quale tale giudice, adito in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, ha affermato, in relazione alla impugnazione di fronte al TAR della Puglia di taluni atti relativi al procedimento - analogo a quelli che hanno condotto alla adozione delle tre leggi regionali ora allo scrutinio della Corte - che ha portato alla emanazione della legge regionale della Puglia 20 dicembre 2005, n. 18 (Istituzione del Parco naturale regionale "Terra delle gravine"), il difetto assoluto di gi urisdizione, non spettando ad alcun giudice il sindacato su atti facenti parte dell'iter formativo di una legge regionale.

    Osserva pertanto la difesa regionale che, avendo i giudizi a quibus ad oggetto l'impugnativa di atti del procedimento da cui è scaturita la legge regionale n. 20 del 2006, emergerebbe il difetto di giurisdizione del rimettente, non spettando ad alcun giudice il sindacato sugli atti del detto procedimento, con la conseguente inammissibilità, per difetto di rilevanza, delle questioni di legittimità costituzionale da lui sollevate.

    Quanto al merito, ribadita la insussistenza di vizi procedimentali nell'iter formativo della legge, esclude la fondatezza delle questioni.

    4.2. - Nella memoria illustrativa depositata dall'unica difesa delle numerose parti private costituitesi, si prende in particolare posizione in ordine alla prospettata tesi dell'inammissibilità delle questioni, stante la carenza di giurisdizione del rimettente.

    Ad avviso di tale difesa il richiamo alla citata ordinanza della Corte di cassazione n. 2439 del 2008 non sarebbe pertinente in quanto, nel caso oggetto di tale decisione erano impugnati di fronte al giudice amministrativo solo atti riferibili al procedimento legislativo di istituzione di un Parco naturale mentre, nelle ipotesi ora in esame, oggetto di impugnazione sono atti amministrativi - i verbali delle conferenze dei servizi previste dalla legge regionale n. 19 del 1997 - di tal che andrebbe esclusa la carenza di giurisdizione del rimettente.

    Nel merito, la memoria si riporta alle difese già svolte.

    4.3. - Ha depositato memoria illustrativa anche il Comune di Gallipoli, contestando, sulla scorta di quanto sostenuto dalla Corte di cassazione nella ordinanza n. 2439 del 2008, la ammissibilità  della questione.

    5. - La Regione Puglia, nell'ambito dei giudizi di legittimità costituzionale della legge regionale n. 13 del 2007, ha depositato altra memoria illustrativa nella quale contesta, per un verso, la definibilità della questione sulla base dei precedenti costituiti dalle sentenze n. 225 e n. 226  del 1999 di questa Corte, mentre, per altro verso, eccepisce la inammissibilità della questione alla luce di quanto statuito dalla Corte di cassazione con la ordinanza n. 2439 del 2008.

    La Regione, confermate, per il resto, le precedenti difese, ribadisce l'inammissibilità della questione per non avere il rimettente censurato anche la legge regionale n. 19 del 1997 che regola il procedimento per l'istituzione delle aree naturali protette. Tale omissione, secondo la difesa regionale, avrebbe la paradossale conseguenza che, anche ove la questione sollevata fosse accolta, la Regione dovrebbe emanare altra legge in base allo stesso procedimento che avrebbe determinato l'incostituzionalità ora denunciata.

      5.1. - Ha depositato memoria illustrativa anche il Comune di Ugento: essa riporta gli stessi argomenti già contenuti nella memoria del Comune di Gallipoli, che, pertanto, qui si richiamano.

    6. - Relativamente ai giudizi di legittimità costituzionale aventi ad oggetto la legge regionale n. 30 del 2006 hanno depositato memoria illustrativa sia la Regione Puglia che il Comune di Gagliano del Capo.

    La Regione ha eccepito la inammissibilità della questione stante la carenza di giurisdizione del TAR rimettente, secondo i rilievi della ordinanza n. 2439 del 2008 della Corte di cassazione.

    Il Comune sopraindicato ha, a sua volta, reiterato i temi difensivi già illustrati dai Comuni di Gallipoli e di Ugento.

Considerato in diritto

    1. - Il Tribunale amministrativo regionale della Puglia, sezione staccata di Lecce, dubita, con riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, della legittimità costituzionale di tre leggi della Regione Puglia: cioè della legge regionale 10 luglio 2006, n. 20 (Istituzione del Parco naturale regionale "Isola di S. Andrea e litorale di Punta Pizzo"), della legge regionale 28 maggio 2007, n. 13 (Istituzione del Parco naturale regionale "Litorale di Ugento"), e della  legge regionale 26 ottobre 2006, n. 30 (Istituzione del Parco naturale regionale "Costa di Otranto - Santa Maria di Leuca e Bosco di Tricase").

    In particolare, il giudice amministrativo territoriale pugliese ha sollevato questione di legittimità costituzionale:

     della legge regionale n. 20 del 2006, con otto ordinanze depositate, nel corso di altrettanti giudizi, in data 12 gennaio 2007;

    della legge regionale n. 13 del 2007, con tre ordinanze depositate, nel corso di altrettanti giudizi, in data 27 giugno 2007;

    della legge regionale n. 30 del 2006, con cinque ordinanze depositate, nel corso di altrettanti giudizi, in data 28 settembre 2007.

    Tenuto conto, pur nella formale diversità dei testi normativi censurati, della sostanziale identità degli argomenti sviluppati dal rimettente nelle sedici ordinanze di rimessione a sostegno delle dedotte questioni di legittimità costituzionale, i relativi giudizi possono essere riuniti per essere unitariamente decisi.

       2. - Infatti il TAR salentino, essendo stati impugnati, da numerosi soggetti titolari di diritti su beni immobili ricadenti in zone ubicate all'interno del territorio dei Parchi naturali istituiti con le tre leggi censurate, atti pertinenti al procedimento amministrativo prodromico alla adozione degli atti legislativi in discorso, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dei medesimi affermandone il contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, in quanto essi sarebbero viziati da irragionevolezza e sarebbero lesivi del principio di buona amministrazione. Infatti essi sarebbero stati approvati da parte del Consiglio regionale pugliese senza che si fosse adeguatamente tenuto conto di quanto, in precedenza , stabilito dal medesimo TAR, con taluni provvedimenti giurisdizionali, in merito alle modalità di attivazione, nel corso delle fasi amministrative rispettivamente preordinate alla istituzione dei singoli Parchi naturali, del contraddittorio con i soggetti interessati. Limitatamente alla censura riguardante la legge regionale n. 20 del 2006, il Consiglio regionale non avrebbe, altresì, tenuto conto della circostanza che, in sede di conferenza dei servizi, non sarebbe stata raggiunta la unanimità dei partecipanti in ordine alla perimetrazione del Parco naturale con tale legge istituito.

    3. - Onde meglio esporre le ragioni della presente decisione e comprendere le ragioni delle doglianze del rimettente, pare preliminarmente opportuno premettere una, sia pur schematica, disamina della disciplina regionale pugliese in tema di istituzioni di parchi naturali.

    3.1. - Emanata in conformità ai principi contenuti nella legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette),  la legge regionale  24 luglio 1997, n. 19 (Norme per la istituzione delle aree naturali protette nella Regione Puglia), nel dettare le regole del procedimento preordinato alla istituzione, per legge regionale, di parchi e aree naturali protette, prevedeva, nella sua originaria formulazione, all'art. 6, che nei trenta giorni successivi alla entrata in vigore della legge stessa - ovvero nei trenta giorni successivi alla dichiarazione di ammissibilità della proposta di legge di iniziativa popolare volta alla istituzione di un'area naturale protetta - il Presidente della Giunta regionale dovesse convocare le "preconferenze" dei servizi finalizzate alla individuazione di linee guida per la redazione dei documenti di indirizzo, come previste dall'art. 22, comma 1, della legge n. 394 del 1991. I lavori di tali "preconferenze", ai quali erano chiamati a partecipare le amministrazioni interessate, i Consorzi di bonifica  e le organizzazioni agricole, imprenditoriali e ambientaliste, dovevano concludersi entro trenta giorni dalla loro convocazione.

    Nei successivi trenta giorni era adottato, a cura della Giunta regionale, alla luce dei documenti di indirizzo scaturiti all'esito delle citate "preconferenze", lo schema di disegno di legge nel quale erano, fra l'altro, precisate la descrizione dei luoghi e la loro perimetrazione, e venivano individuate le misure provvisorie di salvaguardia, il regime vincolistico e gli eventuali indennizzi. Tale schema di disegno di legge era, nei successivi trenta giorni, portato a conoscenza degli enti territoriali interessati, mentre negli ulteriori sessanta giorni erano convocate, dal Presidente della Giunta, le conferenze dei servizi aventi le finalità di cui agli artt. 22 della citata legge n. 394 del 1991, 27 della legge 8 giugno 1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali) [dis posizione questa, peraltro, abrogata e sostituita dagli artt. 112 e 113 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali)], e 14 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e diritto di accesso ai documenti amministrativi).

    Conclusasi anche questa fase, nei seguenti sessanta giorni era adottato dalla Giunta il «provvedimento definitivo», che doveva essere inviato al Consiglio regionale per l'approvazione della legge istitutiva del Parco.

    Tale modello procedimentale è stato, peraltro, oggetto di revisione da parte del legislatore regionale pugliese proprio successivamente alla emissione da parte del TAR dei provvedimenti giurisdizionali della cui mancata osservanza da parte del medesimo legislatore, in occasione della adozione delle tre leggi regionali censurate, tale organo giurisdizionale si duole.

    Infatti, con l'art. 30 della legge regionale 19 luglio 2006, n. 22 (Assestamento e prima variazione al bilancio di previsione per l'esercizio finanziario 2006), il testo del richiamato art. 6 della legge regionale n. 19 del 1997 è stato modificato nel senso di prevedere un procedimento più snello, caratterizzato: dalla immediata convocazione - in luogo delle anteriormente previste "preconferenze" - delle conferenze dei servizi volte alla individuazione delle linee guida per la redazione dei documenti di indirizzo; dalla predisposizione, da parte della Giunta, nei trenta giorni successivi alla chiusura dei lavori della conferenza dei servizi (per i quali era dato il termine di novanta giorni dalla convocazione), del disegno di legge di istituzione dell'area naturale protetta; dalla pubblicazione di tale disegno di legge nel Bollettino ufficiale della Regione, oltre che dalla già prevista comunicazione di esso agli enti territoriali interessati; dalla adozione, infine, dal parte della Giunta regionale, del provvedimento definitivo da inviare al Consiglio regionale per l'approvazione della legge istitutiva dell'area protetta.

    Applicata la predetta disciplina - sebbene non sia ben chiaro alla luce delle diverse ordinanze di rimessione se si sia pervenuti alla adozione delle tre leggi censurate applicando il modello procedimentale previsto precedentemente alla modifica introdotta con la legge n. 22 del 2006 ovvero applicando il modello ad essa successivo o, infine, applicando una sorta di modello misto, in parte articolato sulla prima disciplina in parte sulla seconda - il legislatore regionale pugliese ha adottato le tre leggi censurate, istitutive dei ricordati Parchi naturali.

    4. - Come dianzi accennato, diversi soggetti proprietari, o comunque titolari di diritti di godimento, di beni siti all'interno del perimetro dei tre parchi definiti con le leggi censurate hanno impugnato, ciascuno per quanto di specifico interesse, gli atti delle conferenze dei servizi rispettivamente preordinate alla istituzione dei parchi naturali "Isola di S. Andrea e litorale di Punta Pizzo", "Litorale di Ugento" e "Costa di Otranto - Santa Maria di Leuca e Bosco di Tricase", nonché degli atti preparatori e consequenziali alle predette conferenze, ivi comprese le determinazioni assunte dalla Giunta regionale in ordine alla individuazione dello schema di disegno di legge da inviare e sottoporre al Consiglio regionale per la sua approvazione.

    4.1. - Nel corso di tali controversie il TAR ha sollevato le questioni di costituzionalità di cui al presente giudizio.

    5. - Le eccezioni di inammissibilità delle questioni, variamente sollevate dalle parti costituite, non sono fondate.

    5.1. -  Infondata è, infatti, la eccezione di inammissibilità per difetto di rilevanza della questione argomentata dalle difese sia della Regione Puglia che degli altri enti territoriali parti del giudizio di costituzionalità, in relazione ad un preteso difetto di giurisdizione del giudice rimettente rispetto a tutti quanti i giudizi a quibus.

    Tale eccezione si basa principalmente sulla esistenza di una decisione resa di recente dalle Sezioni unite civili della Corte di cassazione (cioè della ordinanza 1° febbraio 2008, n. 2439) con la quale la Corte regolatrice ha affermato la carenza assoluta di giurisdizione relativamente ad una controversia in cui oggetto di impugnazione di fronte al giudice amministrativo era stata, secondo quanto risulta dallo stesso provvedimento giurisdizionale,  la delibera della Giunta regionale pugliese di approvazione dello schema di disegno di legge di istituzione del Parco naturale regionale "Terra delle Gravine".

    Nell'occasione, i giudici di legittimità hanno rilevato che, costituendo gli atti impugnati fasi legislativamente regolamentate del processo di formazione della legge regionale in materia di istituzione di parchi naturali, gli stessi, in quanto espressione di esercizio della potestà legislativa della Regione, sono sottratti al sindacato giurisdizionale, sia del giudice ordinario che di quello amministrativo.

    5.2. - Sollecitando l'adesione di questa Corte a siffatto orientamento, le ricordate parti costituite deducono la inammissibilità della questione per l'evidente difetto di rilevanza della stessa là dove risultasse che il giudice a quo, in quanto carente di potestà giurisdizionale riguardo alle questioni alla sua attenzione nei giudizi principali, non li dovrebbe decidere facendo applicazione delle disposizioni della cui costituzionalità egli dubita.

    La eccezione non è meritevole di accoglimento.

    Infatti la giurisprudenza di questa Corte si è più volte, anche di recente, espressa nel senso che, in considerazione della autonomia del giudizio incidentale di costituzionalità rispetto a quello principale, discende che, in sede di verifica dell'ammissibilità della questione, la Corte medesima può rilevare il difetto di giurisdizione soltanto nei casi in cui questo appaia macroscopico, così che nessun dubbio possa aversi sulla sua sussistenza (fra le altre, le sentenze n. 156 del 2007; n. 144 del 2005; n. 288 del 2003). La relativa indagine deve, peraltro, arrestarsi laddove il rimettente abbia espressamente motivato in maniera non implausibile in ordine alla sua giurisdizione (sentenza n. 11 del 2007; n. 144 del 2005; n. 291 del 2001).

    Precisatosi che, comunque, la verifica operata da questa Corte - operata su di un piano, giova chiarire, di esclusiva ed astratta non implausibilità della motivazione addotta dal rimettente, elemento questo dal punto di vista semantico ovviamente assai meno pregnante della fondatezza - è meramente strumentale al riscontro della rilevanza della questione di costituzionalità e che, esaurendosi la sua funzione all'interno del relativo giudizio, non è certamente idonea a determinare alcuna preclusione in ordine all'eventuale successivo spiegarsi della cognizione piena sul punto da parte del giudice istituzionalmente preposto alle definizione delle questioni di giurisdizione, va osservato che, riguardo alle fattispecie che interessano il presente giudizio, il TAR rimettente ha mot ivato in ordine alla sua affermata giurisdizione, rilevando che gli atti oggetto delle impugnazioni pendenti di fronte a lui, appartenendo - nella complessa serie procedimentale preordinata alla adozione delle leggi istitutive di aree naturali protette - alla fase amministrativa, erano suscettibili di essere validamente impugnati  dinanzi al giudice amministrativo.

    Al riguardo, d'altra parte, non può non considerarsi, ai fine del riscontro della non implausibilità di tali considerazioni, che, diversamente da quanto emerge dall'esame della citata ordinanza n. 2439 del 2008 della Corte di cassazione, nei casi che ora interessano l'oggetto della impugnazione di fronte al giudice a quibus sono, principalmente, gli atti delle conferenze dei servizi tenutesi prima dell'invio da parte della Giunta regionale al Consiglio regionale dello schema definitivo di disegno di legge per la sua approvazione e non, invece, tale schema di disegno di legge.         

    5.3. - Parimenti infondata è la eccezione di inammissibilità, ancora per difetto di giurisdizione del rimettente, formulata dalla difesa del Comune di Tricase. Invero, la circostanza che il TAR salentino affermi che, solo in ipotesi di accoglimento della questione di legittimità costituzionale da lui sollevata, i ricorsi oggetto dei giudizi a quibus non sarebbero destinati ad una pronunzia di improcedibilità o, comunque, di inammissibilità, nulla ha a che vedere con la sussistenza o meno della giurisdizione in capo al rimettente: infatti, diversamente da come sembra intendere il Comune di Tricase,  la avvenuta entrata in vigore della censurata legge-provvedimento non si pone, neppure nella prospettazione del rimettente, quale elemento condizionante ab origine la sua potestas judicandi ma solo quale fatto che incide, negativamente, sulla procedibilità dei ricorsi stessi.

    5.4. - In questo senso viene anche disattesa la ulteriore eccezione di inammissibilità dedotta dalla medesima difesa, attinente alla mancanza di incidentalità nella questione di costituzionalità sollevata dal TAR della Puglia.

    Ove, infatti, fosse rimosso l'elemento sopravvenuto, costituito dai censurati interventi legislativi, che, a giudizio del medesimo TAR, rende attualmente improcedibili gli originari ricorsi, il sindacato del giudice amministrativo sugli atti impugnati riprenderebbe il suo primitivo vigore, risultando in tal senso evidenziata la incidentalità, rispetto ai giudizi principali, di quello di legittimità costituzionale.

    5.5. - Riguardo alla (dedotta da più parti) inammissibilità delle questioni di costituzionalità stante il denunciato difetto di interesse delle parti ricorrenti nei giudizi a quibus le quali, anche in caso di accoglimento delle censure mosse dal rimettente alle tre ricordate leggi regionali, non potrebbero svolgere alcuna attività di trasformazione del territorio a causa della contestuale riattivazione delle misure di salvaguardia previste dagli artt. 6 e 8 della legge regionale 24 luglio 1997, n. 19 (Norme per l'istituzione delle aree naturali protette nella Regione Puglia), va rilevato che, ai fini dell'ammissibilità dello scrutinio di costituzionalità di una legge, e proprio in ragione della autonomia di questo giudizio rispetto a quello a quo, non è necessario che vi sia un interesse sostanziale di una delle parti in ordine all'accoglimento o meno della questione, essendo, invece, sufficiente (oltre, ovviamente, al requisito della non manifesta infondatezza) che la norma di cui si dubita si ponga come necessaria ai fini della definizione del giudizio, essendo, poi, irrilevante questione di fatto se le parti del giudizio a quo  si possano o meno giovare degli effetti della decisione con la quale si è chiuso il giudizio medesimo.   

    5.6. - Sia la Regione Puglia che il Comune di Gallipoli deducono quale motivo di inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal TAR di Lecce la circostanza che tale organo non abbia adeguatamente motivato in ordine alla asserita lesione degli invocati parametri di costituzionalità e in ordine alla conseguente lesione degli interessi dei ricorrenti nei giudizi a quibus. Anche in questo caso la eccezione formulata deve essere disattesa .

    Per quanto interessa ai fini della ammissibilità delle questioni, infatti, il rimettente chiarisce che il vizio di costituzionalità deriverebbe dal non avere il legislatore regionale tenuto conto della esistenza di determinati vizi nell'iter procedimentale che ha condotto alla adozione della legge, vizi che sarebbero consistiti nella lesione del diritto di piena partecipazione dei soggetti coinvolti nel procedimento di istituzione dei Parchi naturali.

    Tale comportamento del legislatore, recidendo in sostanza il legame funzionale tra la fase amministrativa e quella propriamente legislativa del procedimento volto alla istituzione in Puglia delle aree naturali di rilevanza regionale, costituirebbe il motivo sia della asserita irragionevolezza della scelta legislativa sia del contrasto col principio di buona amministrazione, ledendo, secondo la tesi del rimettente, la posizione dei soggetti interessati a tutela dei quali sarebbe posta la fase amministrativa del procedimento stesso.

    5.7. - Non determina, nel caso in esame, la inammissibilità delle questioni di costituzionalità, contrariamente a quanto eccepisce la difesa della Provincia di Lecce, il fatto che il rimettente abbia censurato, rispettivamente, tre interi testi legislativi, senza precisare quale norma, tra quelle contenute in tali testi, si ponga in contrasto coi parametri evocati: infatti il tipo di vizio dedotto dal rimettente, attenendo ad un profilo genetico delle leggi censurate, ne coinvolge necessariamente tutte le disposizioni (sentenze n. 37 del 1991 e n. 204 del 1981).   

    5.8. - Va, infine, disattesa anche la eccezione di inammissibilità delle questioni per difetto di rilevanza, svolta dalle difese delle costituite parti private, nonché da quella della Provincia di Lecce, la quale si basa sugli argomenti sviluppati da questa Corte nelle sue precedenti sentenze nn. 225 e  226 del 1999.

    Infatti, tali, peraltro isolate, decisioni ebbero ad affermare il principio della perdurante sindacabilità di un atto amministrativo, nonostante  la sua avvenuta approvazione con legge regionale.

    L'adesione a tale tesi renderebbe non rilevanti le questioni di legittimità costituzionale ora sollevate dal TAR salentino.

     Tuttavia questa Corte ritiene che i richiamati precedenti, dei quali, per la loro peculiarità, appare giustificata un'applicazione restrittiva, non siano pertinenti al presente caso.

    Infatti in tali occasioni questa Corte, a differenza di quanto si verifica attualmente, era chiamata a sindacare, nel primo caso, la legittimità costituzionale non solo della legge istitutiva dell'area naturale, ma anche della legge con la quale era fissato l'iter procedimentale della successiva legge-provvedimento, e, nel secondo, un conflitto di attribuzione sollevato dalla Regione Lombardia in merito, fra l'altro, alla sentenza con la quale il locale TAR aveva annullato in sede giurisdizionale il provvedimento della Giunta regionale di approvazione e trasmissione al Consiglio regionale dello schema di disegno di legge relativo alla adozione del piano territoriale di coordinamento concernente un parco regionale lombardo.  

    Nella prima fattispecie si presentava, quindi, uno spazio relativo ai provvedimenti amministrativi consequenziali rispetto alla cosiddetta "legge madre" e prodromici rispetto alla cosiddetta "legge figlia", mentre nel secondo la decisione precisava, comunque, che la «fase legislativa, al contrario della precedente [fase amministrativa], non [poteva] essere oggetto del sindacato diretto del giudice amministrativo, ed [era] soggetta al controllo di costituzionalità attraverso la verifica dell'esistenza dei vizi tipici delle leggi, compresi quelli procedimentali».

    E' significativo osservare che la prevalente giurisprudenza amministrativa, cui, tra l'altro, aderisce lo stesso rimettente, non condivide il principio della perdurante sindacabilità dell'atto amministrativo anche se il suo contenuto sia recepito da un atto legislativo. In ogni caso, deve ritenersi che le citate sentenze nn. 225 e 226 del 1999 costituiscano specifiche soluzioni delle particolari questioni che erano state allora sottoposte al giudizio di costituzionalità. In più occasioni (sentenze n. 267 del 2007, n. 429 del 2002, n. 364 del 1999, n. 211 del 1998, n. 185 del 1998, n. 492 del 1995, n. 347 del 1995, n. 62 del 1993, n. 143 del 1989, n. 59 del 1957) questa Corte ha, direttamente o indirettamente, affermato che in caso di leggi-provvedimento volte a "legificare" s celte che di regola spettano alla autorità amministrativa, la tutela dei soggetti incisi da tali atti verrà a connotarsi, come nel presente caso, stante la preclusione di un sindacato da parte del giudice amministrativo, «secondo il regime tipico dell'atto legislativo adottato, trasferendosi dall'ambito della giustizia amministrativa a quello proprio della giustizia costituzionale» (sentenza n. 62 del 1993).

    6. - Nel merito, la questione non è fondata.

    6.1. - Il TAR rimettente, infatti, nel dubitare della legittimità costituzionale delle tre leggi censurate, afferma che le stesse sarebbero irragionevoli e non rispettose del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, violando, pertanto, gli artt. 3 e 97 della Costituzione, in quanto il Consiglio regionale, nell'approvarle, non avrebbe tenuto conto del fatto che la propedeutica fase amministrativa, indirizzata alla istituzione delle tre aree protette, non si era svolta nel rispetto delle regole procedimentali dettate dal medesimo TAR con le quattro sentenze n. 1184, n. 1185, n. 1186 e n. 1187 del 2006.

    Tale tesi non può essere condivisa.

    6.2. - Per ciò che concerne la lesione dell'art. 97 della Costituzione, va detto che la disposizione richiamata è del tutto inconferente rispetto al dedotto profilo di incostituzionalità.

    Al riguardo è sufficiente osservare che il precetto relativo al principio di buon andamento della pubblica amministrazione espresso dall'art. 97 della Costituzione è applicabile esclusivamente all'amministrazione, essendo qui, invece, in discussione non il contenuto di una disposizione legislativa che imponga un determinato comportamento alla pubblica amministrazione (ipotesi alla quale è certamente pertinente il sindacato di costituzionalità esperito alla stregua dell'art. 97 della Costituzione), ma esclusivamente l'andamento di un'attività che, in toto, è riferibile allo svolgimento della funzione legislativa. In altre parole, l'art. 97 Cost. costituisce parametro di legittimità costituzionale di una disposizione legislativa che ve nga a regolare una procedura amministrativa, ma non può essere invocato per valutare il corretto svolgimento di un iter procedimentale legislativo.

    6.3. - Quanto alla affermata irragionevolezza delle tre leggi censurate, va osservato che il rimettente non si cura di prendere in considerazione il contenuto delle leggi regionali in discorso.

    La questione di costituzionalità da lui formulata si fonda, infatti, non su aspetti di irragionevolezza direttamente riferibili al contenuto precettivo delle disposizioni emanate dal legislatore pugliese, quanto, piuttosto, su di un profilo che potrebbe dirsi sintomatico: sulla circostanza, cioè, che il legislatore non avrebbe tenuto conto nell'emanarle di quanto statuito, con riferimento al prodromico procedimento amministrativo, dallo stesso attuale rimettente nelle ricordate quattro sentenze, delle quali, peraltro, neppure risulta l'avvenuto passaggio in giudicato,  contrassegnate dai  numeri 1184, 1185, 1186 e 1187 del 2006.

    Ma per far derivare da ciò, come invece preteso dal giudice a quo, l'affermazione della fondatezza della sollevata censura di illegittimità costituzionale, andrebbe presupposta, indipendentemente e prioritariamente rispetto ad ogni valutazione relativa al sostanziale contenuto dell'atto normativo in tal modo adottato, la sussistenza di un vincolo procedimentale all'attività legislativa che possa essere dettato da organi giudiziari.

    La circostanza che, viceversa, la funzione legislativa, anche regionale,  può essere condizionata solo con disposizioni che traggano direttamente la loro origine dalla Costituzione, esclude la possibilità che un siffatto vincolo possa derivare da decisioni assunte in sede giurisdizionale.

    6.4. - Né, affrontando sotto l'aspetto del merito una questione già esaminata al precedente punto 5.8 con riferimento ai sollevati profili di inammissibilità, può ritenersi che la materia in oggetto possa essere disciplinata solo con provvedimenti amministrativi, in quanto nella legge quadro statale sulle aree protette n. 394 del 1991 è espressamente previsto all'art. 23 il principio fondamentale che sia una legge regionale ad istituire il parco naturale regionale. Ugualmente, non può affermarsi che, in deroga al generale principio della modificabilità della legge anteriore da parte della posteriore, la legge successiva non possa innovare i modelli procedurali amministrativi previsti da leggi precedenti.

    Vale, al riguardo, quanto affermato da questa Corte, in molteplici decisioni. In particolare nella sentenza n. 143 del 1989 si precisa che «Tanto la Costituzione (artt. 70 e 121), quanto gli Statuti regionali definiscono la legge, non già in ragione del suo contenuto strutturale o materiale, bensì in dipendenza dei suoi caratteri formali, quali la provenienza da un certo organo o da un certo potere, il procedimento di formazione e il particolare valore giuridico (rango primario delle norme legislative, trattamento giuridico sotto il profilo del sindacato, residenza all'abrogazione, etc.). Né si potrebbe dire che il divieto di leggi a contenuto particolare e concreto tocchi soltanto le Regioni in conseguenza di un presunto principio generale dell'ordinamento giuridico, poiché un principio del genere, concernendo i caratteri strutturali della legge diretti a qualificarne l'essenza o l'identità tipologica come atto normativo, dovrebbe essere desunto da una inequivoca norma avente un rango superiore alla stessa legge, che in verità non è dato rinvenire nel nostro ordinamento positivo. D'altra parte, come pure ha affermato questa Corte nelle decisioni precedentemente ricordate, nessuna disposizione costituzionale o statutaria comporta una riserva agli organi amministrativi o "esecutivi" degli atti a contenuto particolare e concreto».

    Si tratta di principi ribaditi, anche di recente, nella sentenza n. 267 del 2007, nella quale si ricorda «che, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, non è preclusa alla legge ordinaria la possibilità di attrarre nella propria sfera di disciplina oggetti o materie normalmente affidati all'autorità amministrativa, non sussistendo un divieto di adozione di leggi a contenuto particolare e concreto, ossia di leggi-provvedimento (sentenza n. 347 del 1995). [..] La legittimità di questo tipo di leggi deve, quindi, essere valutata in relazione al loro specifico contenuto. In considerazione del pericolo di disparità di trattamento insito in previsioni di tipo particolare o derogatorio (sentenze n. 185 del 1998, n. 153 del 1997), la legge-provvedimento è, conseguenteme nte, soggetta ad uno scrutinio stretto di costituzionalità (sentenze n. 429 del 2002, n. 364 del 1999, nn. 153 e 2 del 1997), essenzialmente sotto i profili della non arbitrarietà e della non irragionevolezza della scelta del legislatore. Ed un tale sindacato deve essere tanto più rigoroso quanto più marcata sia, come nella specie, la natura provvedimentale dell'atto legislativo sottoposto a controllo (sentenza n. 153 del 1997)». Ma tali profili, come si è già sottolineato, non vengono motivatamente sottoposti al giudizio di questa Corte nelle ordinanze che sollevano le questioni di costituzionalità.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1 e seguenti della legge regionale della Puglia 10 luglio 2006, n. 20 (Istituzione del Parco naturale regionale "Isola di S. Andrea e litorale di Punta Pizzo"), degli artt. 1 e seguenti della legge regionale della Puglia 28 maggio 2007, n. 13 (Istituzione del Parco naturale regionale "Litorale di Ugento"), e degli artt. 1 e seguenti della  legge regionale della Puglia  26 ottobre 2006, n. 30 (Ist ituzione del Parco naturale regionale "Costa di Otranto - Santa Maria di Leuca e Bosco di Tricase"), sollevate, con riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale della Puglia, sezione staccata di Lecce, con le ordinanze in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 2 luglio 2008.

Il Cancelliere

F.to: FRUSCELLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 242

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 231, 232 e 233, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2006), promosso con ordinanza del 12 dicembre 2007 dalla Corte dei conti, Sezione terza centrale d'appello, sul ricorso proposto dal Procuratore regionale presso la Sezione giurisdizionale per la Regione Puglia contro Centrone Giovanni, iscritta al n. 75 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 14, prima serie speciale, dell'anno 2008.

    Visti l'atto di costituzione di Centrone Giovanni nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 10 giugno 2008 il Giudice relatore Paolo Maddalena;

    uditi gli avvocati Vincenzo Caputi Jambrenghi e Francesco Muscatello per Centrone Giovanni e l'avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

    1. ¾ Con ordinanza del 12 dicembre 2007, notificata in data 24 gennaio 2008 ed iscritta al n. 75 del registro ricorsi dell'anno 2008, la Corte dei conti, Sezione terza centrale d'appello, solleva, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 231, 232 e 233, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposiz ioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2006), «nella parte in cui», secondo il diritto vivente delle Sezioni riunite della Corte dei conti, «consentono che, in presenza di appelli contrapposti della parte pubblica e delle parti private, la richiesta di definizione del procedimento, se previamente estesa dalla parte privata, in replica all'appello della parte pubblica, all'eventuale successiva maggior condanna, possa essere esaminata e definita dopo l'esame e la definizione degli appelli».

    1.1. ¾ L'art. 1, comma 231, della legge n. 266 del 2005 prevede che «Con riferimento alle sentenze di primo grado pronunciate nei giudizi di responsabilità dinanzi alla Corte dei conti per fatti commessi antecedentemente alla data di entrata in vigore della presente legge, i soggetti nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna possono chiedere a lla competente sezione di appello, in sede di impugnazione, che il procedimento venga definito mediante il pagamento di una somma non inferiore al 10 per cento e non superiore al 20 per cento del danno quantificato nella sentenza».

    Il successivo comma 232 aggiunge che «La sezione di appello, con decreto in camera di consiglio, sentito il procuratore competente, delibera in merito alla richiesta e, in caso di accoglimento, determina la somma dovuta in misura non superiore al 30 per cento del danno quantificato nella sentenza di primo grado, stabilendo il termine per il versamento».

    Il comma 233 dispone che «Il giudizio di appello si intende definito a decorrere dalla data di deposito della ricevuta di versamento presso la segreteria della sezione di appello».

    2. ¾ In punto di fatto la rimettente Sezione terza centrale di appello della Corte dei conti:

    - chiarisce di dovere decidere, in udienza camerale, l'istanza di definizione agevolata del giudizio di appello proposta ai sensi dell'art. 1, commi 231, 232 e 233, della legge n. 266 del 2005, da Giovanni Centrone, con offerta del pagamento di una somma non superiore al 10 per cento del danno quantificato nella sentenza appellata;

    - precisa che la predetta sentenza è stata appellata in via principale dal pubblico ministero e in via incidentale (tra gli altri) dallo stesso Centrone, attesa la parziale reciproca soccombenza;

    - rileva che le disposizioni impugnate non regolano espressamente tale ipotesi, lasciando incertezza sulla stessa ammissibilità, sugli effetti e sulla disciplina della definizione agevolata in caso di appello da parte del pubblico ministero contabile;

    - riferisce che, in una prima udienza camerale, il pubblico ministero, proprio in ragione della mancata espressa previsione di tale ipotesi, ha eccepito, in via principale, l'inammissibilità della domanda di definizione agevolata mentre, in subordine, ha chiesto che sia posto a carico dell'appellante incidentale Centrone il 30% delle somme di cui alla sentenza appellata, oltre le spese dei due gradi di giudizio;

    - espone di avere sospeso il giudizio in detta prima udienza, in attesa che si pronunciassero le Sezioni Riunite, già investite della soluzione del contrasto interpretativo emerso sulla questione tra le varie sezioni della Corte dei conti;

    - riferisce la soluzione individuata dalle Sezioni riunite della Corte dei conti (sentenza 25 giugno 2007, n. 3/QM/2007), secondo le quali «l'esame della definizione agevolata del giudizio di appello richiesta dalla parte privata appellante in presenza di un contrapposto appello della parte pubblica non può essere preclusa dalla proposizione dell'appello della parte pubblica ma tale esame non possa a sua volta precludere quello di detto appello. Pertanto, nel caso di appelli contrapposti sulla quantificazione della somma dedotta nella sentenza di condanna, la definizione della richiesta se previamente estesa dalla parte privata, in replica all'appello della parte pubblica, all'eventuale successiva maggior condanna, avverrà dopo l'esame dei due appelli riuniti. L'accertamento in giudizio di un maggiore importo sarà oggetto della sentenza di condanna, eventualmente condizionata al mancato tempestivo pagamento della minor somma determinata in applicazione della normativa agevolata di cui ai commi 231, 232, 233 dell'art. 1 della legge n. 266 del 2005, ove ne ricorrano i presupposti. In mancanza dell'accoglimento di entrambi gli appelli la sentenza eventualmente condizionata, avrà ad oggetto l'importo della condanna di primo grado al quale, ove ne ricorrano i presupposti, si applicherà la normativa agevolata»;

    - precisa, infine, che nell'udienza camerale successiva a detta pronuncia delle Sezioni Riunite, la parte pubblica ha confermato le conclusioni già rese, mentre la parte privata, dopo avere chiarito di avere proposto la istanza di definizione agevolata limitatamente alla partita di danno per la quale vi era stata la condanna in primo grado, ha eccepito la inapplicabilità alla fattispecie della sentenza delle Sezioni Riunite, ha insistito nella domanda e, in via subordinata, ha chiesto che l'istanza della definizione agevolata sia rinviata alla definizione del merito.

    2.1. ¾ In ordine alla rilevanza della questione, il rimettente chiarisce che nel caso di specie « sia pure limitatamente ad un capo della sentenza impugnata, pende sia l'appello della parte privata che l'appello della parte pubblica», e sostiene che la richiesta della parte privata, «sia pure in via subordinata», dell'esame congiunto dell'istanza di definizione agevolata con l'esame dell'appello del procuratore regionale varrebbe implicitamente ad estendere «l'istanza di definizione all'eventuale successiva maggiore condanna», così come richiesto dalle Sezioni Riunite.

    2.2. ¾ Ai fini dell'ammissibilità della questione il giudice rimettente sostiene, inoltre, che, per l'autorevolezza della decisione delle Sezioni Riunite (che si sono pronunciate proprio per dirimere un contrasto interpretativo in materia), questa posizione, sebbene espressa da una unica pronuncia, costituisca "diritto vivente" e che non possa, pertanto, essere disattesa.

    Il rimettente sostiene che solo un'eventuale declaratoria di illegittimità delle disposizioni censurate, nella riferita interpretazione datane dalle Sezioni riunite, consentirebbe di superare questo indirizzo e quindi di pervenire ad una soluzione diversa, che sia conforme a Costituzione.

    2.3. ¾ In ordine alla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente afferma, anzitutto, che il semplificato rito camerale della definizione agevolata sia stato introdotto dalle previsioni impugnate per ragioni finanziarie (in specie, l'immediato realizzo, seppure in misura ridotta, delle entrate derivanti dalle sentenze di responsabilità amministrati va di primo grado), ma anche in una logica deflattiva del contenzioso. Questo spiegherebbe, d'altra parte, il pacifico indirizzo giurisprudenziale, il quale ritiene che per accedere alla definizione agevolata la parte privata debba rinunciare alla definizione dell'appello e che l'accoglimento dell'istanza provochi l'estinzione del giudizio di appello.

    Il giudice a quo sostiene, poi, che la interpretazione data a tali disposizioni dalle Sezioni riunite della Corte dei conti, con la sentenza n. 3/QM/2007, sia irragionevole per incongruenza rispetto alla ratio legis, dato che, posticipando e subordinando lo svolgimento del giudizio sulla definizione agevolata allo svolgimento del giudizio di appello, si accentuerebbe l'effetto premiale delle previsioni a favore della parte privata ed, al contempo, si eliminerebbero a danno della parte pubblica i vantaggi derivanti dalla semplificazione delle forme e dalla riduzione dei tempi processuali.

    Il rimettente sostiene, inoltre, che dal dispositivo della richiamata sentenza delle Sezioni Riunite ed, in particolare, dall'inciso «in mancanza di accoglimento di entrambi gli appelli» si ricaverebbe «la posticipazione e la subordinazione» del giudizio sulla definizione agevolata «non soltanto allo svolgimento dell'appello del pubblico ministero ma anche allo svolgimento del giudizio sull'appello della parte privata, appello che, quindi, potrà essere accolto o totalmente o parzialmente, con la conseguenza, nel primo caso, di una completa riforma della condanna e, nel secondo caso, di una definizione rapportata ad una minore somma rispetto a quella quantificata nel dispositivo della sentenza di primo grado».

    Questa circostanza non solo sarebbe irragionevole per incongruenza con la ratio legis, ma determinerebbe una disparità di trattamento a favore dei privati appellanti che siano anche appellati dal pubblico ministero. Questi, infatti, in caso di parziale accoglimento del loro appello, potrebbero definire la propria posizione pagando una somma rapportata ad un importo inferiore a quello risultante dalla sentenza di primo grado e quindi inferiore a quella che pagano i privati (parzialmente o interamente soccombenti) non appellati dalla parte pubblica, i quali per accedere alla definizione agevolata non potrebbero che rinunciare alla definizione del proprio appello.

    2.4. ¾ La rimettente Corte dei conti, Sezione terza di appello chiede, pertanto, che venga dichiarata la illegittimità costituzionale dell'interpretazione dei commi 231, 232 e 233 dell'art. 1 delle legge n. 266 del 2005 fatta propria dalle Sezioni Riunite della Corte dei conti, con la sen tenza 25 giugno 2007, n. 3/QM/2007.

    3. ¾ E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha depositato una memoria, nella quale chiede che la questione sia dichiarata inammissibile od infondata.

    3.1. ¾ La questione sarebbe inammissibile, in quanto tesa a censurare una interpretazione delle disposizioni impugnate che, tuttavia, non costituirebbe ancora "diritto vivente". Per la difesa erariale un'unica pronuncia, per quanto autorevole possa essere l'organo che l'abbia resa, non sarebbe mai idonea a rappresentare quel consolidato indirizzo interpretativo, in cui deve identificarsi il concetto di "diritto vivente".

    3.2. ¾ La questione sarebbe, poi, infondata, sia perché le situazioni comparate dal rimettente sarebbero tra loro disomogenee sia perché questo avrebbe erroneamente interpretato le disposizioni censurate. Le varie argomentazioni sviluppate nell'ordinanza di rimessione, infatti, muovono tutte dalla premessa che la definizione agevolata ponga in essere un automati co meccanismo premiale a favore della parte privata di un giudizio di responsabilità.

    Sennonché le sentenze n. 183 e n. 184 del 2007 della Corte costituzionale avrebbero escluso tale natura dell'istituto introdotto dalle disposizioni impugnate e ricondotto, invece, lo stesso nell'ambito della tradizionale discrezionalità decisionale spettante al giudice contabile nella determinazione del danno da addossare al convenuto.

    4. ¾ E' intervenuto in giudizio Giovanni Centrone, parte privata del giudizio a quo, che ha depositato una memoria, nella quale sostiene che l'accoglimento della domanda di definizione agevolata dovrebbe comportare l'improcedibilità dell'appello proposto dalla parte pubblica e chiede che le disposizioni impugnate siano dichiarate illegittime nella parte in cui non prevedono il differimento del termine per proporre l'appello della parte pubblica all'esito dello spirare del termine per presentare l'istanza da parte del soggetto condannato dal primo giudice.

    4.1. ¾ L'intervenuto argomenta tale tesi, sostenendo che vi sarebbe piena coerenza tra l'improcedibilità dell'appello della parte pubblica, a seguito dell'accoglimento della domanda di definizione agevolata, e la sostanziale rinuncia al proprio appello che la parte privata effettua nel presentare siffatta domanda.

    Sul presupposto di una omogeneità funzionale tra la disciplina della definizione anticipata introdotta degli impugnati commi 231, 232 e 233 dell'art. 1 della legge n. 266 del 2005 e gli istituti (pur riconosciuti come straordinari) del condono edilizio e del condono fiscale, l'intervenuto rileva come la domanda del soggetto privato di condono edilizio estinguesse ex lege il processo penale relativo ai reati edilizi e la domanda di condono fiscale impedisse qualsiasi ulteriore procedimento volto all'accertamento di un maggior imponibile.

    Sul presupposto di una omogeneità funzionale tra pubblico ministero contabile e pubblico ministero penale, l'intervenuto richiama, poi, la sentenza n. 26 del 2007 della Corte costituzionale, dalla quale trae elementi per sostenere l'ammissibilità, nei limiti della ragionevolezza, di una disciplina più restrittiva per l'appello della parte pubblica (e quindi di una non assoluta parità) rispetto all'appello della parte privata.

    4.2. ¾ La proposta pronuncia additiva servirebbe, invece, secondo la difesa dell'intervenuto, a conservare l'effetto deflattivo della definizione agevolata e ad assicurare le ragioni economiche sottese all'introduzione di tale istituto.

    L'intervenuto censura, infine, l'indirizzo interpretativo inaugurato della richiamata sentenza delle Sezioni riunite, rilevando che esso si scontrerebbe con il principio del giusto processo, in quanto attribuisce la cognizione dell'appello pubblico allo stesso giudice investito dell'istanza di definizione agevolata. La decisione sull'appello proposto dalla parte pubblica sarebbe, infatti, secondo l'intervenuto, inevitabilmente influenzata «dalla circostanza che l'importo della condanna troverà, comunque, un decremento tutt'altro che trascurabile per manifesta volontà proveniente - secondo legge - dal [.] debitore stesso».

Considerato in diritto

    1. ¾ La Sezione terza centrale d'appello della Corte dei conti solleva, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 231, 232 e 233, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2006), «nella parte in cui», second o il diritto vivente delle Sezioni riunite della Corte dei conti, «consentono che, in presenza di appelli contrapposti della parte pubblica e delle parti private, la richiesta di definizione del procedimento, se previamente estesa dalla parte privata, in replica all'appello della parte pubblica, all'eventuale successiva maggior condanna, possa essere esaminata e definita dopo l'esame e la definizione degli appelli».

    1.1. ¾ L'art. 1, comma 231, della legge n. 266 del 2005 prevede che «Con riferimento alle sentenze di primo grado pronunciate nei giudizi di responsabilità dinanzi alla Corte dei conti per fatti commessi antecedentemente alla data di entrata in vigore della presente legge, i soggetti nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna possono chiedere a lla competente sezione di appello, in sede di impugnazione, che il procedimento venga definito mediante il pagamento di una somma non inferiore al 10 per cento e non superiore al 20 per cento del danno quantificato nella sentenza».

    Il successivo comma 232 aggiunge che «La sezione di appello, con decreto in camera di consiglio, sentito il procuratore competente, delibera in merito alla richiesta e, in caso di accoglimento, determina la somma dovuta in misura non superiore al 30 per cento del danno quantificato nella sentenza di primo grado, stabilendo il termine per il versamento».

    Il comma 233 dispone che «Il giudizio di appello si intende definito a decorrere dalla data di deposito della ricevuta di versamento presso la segreteria della sezione di appello».

    2. ¾ La rimettente Sezione terza di appello della Corte dei conti contesta la soluzione data dalle Sezioni Riunite della medesima Corte (sentenza 25 giugno 2007, n. 3/QM/2007) ad un contrasto di giurisprude nza sorto tra le varie sezioni in ordine all'ammissibilità della definizione agevolata in appello dei giudizi di responsabilità amministrativa, nel caso, non espressamente regolato dalle previsioni censurate, in cui vi sia stata la proposizione dell'appello anche da parte del pubblico ministero contabile.

    Le Sezioni Riunite, nella pronuncia indicata, affermano che «l'esame della definizione agevolata del giudizio di appello richiesta dalla parte privata appellante in presenza di un contrapposto appello della parte pubblica non può essere preclusa dalla proposizione dell'appello della parte pubblica ma tale esame non possa a sua volta precludere quello di detto appello. Pertanto, nel caso di appelli contrapposti sulla quantificazione della somma dedotta nella sentenza di condanna, la definizione della richiesta se previamente estesa dalla parte privata, in replica all'appello della parte pubblica, all'eventuale successiva maggior condanna, avverrà dopo l'esame dei due appelli riuniti. L'accertamento in giudizio di un maggiore importo sarà oggetto della sentenza di condanna, eve ntualmente condizionata al mancato tempestivo pagamento della minor somma determinata in applicazione della normativa agevolata di cui ai commi 231, 232, 233 dell'art. 1 della legge n. 266 del 2005, ove ne ricorrano i presupposti. In mancanza dell'accoglimento di entrambi gli appelli la sentenza eventualmente condizionata, avrà ad oggetto l'importo della condanna di primo grado al quale, ove ne ricorrano i presupposti, si applicherà la normativa agevolata». Tutto ciò, ovviamente, nel presupposto che la definizione agevolata costituisca un beneficio per l'istante e che, non potendo esso essere negato, sia necessario posporre il rito camerale al giudizio di merito, allungando così la durata della vicenda processuale.

    2.1. ¾ La rimettente ritiene che tale soluzione sia irragionevole, dato che, in base ad essa, si viene a riconoscere al dipendente il beneficio della definizione agevolata anche dopo lo svolgimento del giudizio di appello e quindi in assenza di vantaggi processuali per la parte pubblica.

    Sostiene, inoltre, che tale interpretazione provochi effetti discriminatori a vantaggio degli appellati che potrebbero cumulare i vantaggi della propria domanda di appello (cui non dovrebbero rinunciare e che verrebbe decisa prima della domanda di agevolazione) e i benefici dell'istanza di definizione agevolata.

    Chiede, pertanto, che ne venga dichiarata la contrarietà all'art. 3 della Costituzione.

    3. ¾ La parte privata intervenuta contesta anch'essa l'interpretazione fatta propria dalle Sezioni Riunite, ma propone una diversa lettura, nel senso della inammissibilità dell'impugnazione della parte pubblica, in caso di domanda di definizione agevolata da parte del dipendente condannato in primo grado. Ciò sull'assunto di una omogeneità tra l'istituto della d efinizione agevolata e i vari condoni (edilizi e fiscali) che la legislazione recente ha conosciuto e sull'assunto di una omogeneità tra il processo contabile e quello penale e tra la definizione agevolata ed il così detto patteggiamento.

    La parte privata, inoltre, chiede una pronuncia additiva che valga ad imporre la sua opzione interpretativa, e, specificamente, una dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni censurate, nella parte in cui non prevedono il differimento del termine per proporre l'appello della parte pubblica all'esito dello spirare del termine per presentare l'istanza da parte del soggetto condannato dal primo giudice.

    4. ¾ La questione proposta dal rimettente e quella prospettata dalla parte privata intervenuta sono inammissibili: quella prospettata dalla parte privata è del tutto irrituale, perché questa non può ampliare o modificare l'oggetto del giudizio di costituzionalità, quale definito dall'ordinanza di rimessione; quella proposta dalla rimettente Sezione terza di appe llo della Corte dei conti è, anch'essa inammissibile, in quanto tesa a censurare una interpretazione giurisprudenziale, priva di quei caratteri di costanza e ripetizione necessari per integrare un "diritto vivente" valutabile ai fini del giudizio di costituzionalità (vedi, ex plurimis, sentenze nn. 146 e 64 del 2008, n. 321 del 2007 e n. 376 del 2004).

    Il giudice a quo, inoltre, nel ritenere irrimediabilmente vincolante la impostazione fatta propria dalle Sezioni riunite, non si dà carico di sperimentare altre soluzioni conformi a Costituzione, né prende in esame la coeva giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo la quale le disposizioni impugnate non prevedono nessun beneficio economico, in quanto la riduzione fino al trenta per cento della condanna di primo grado non è automatica, né dipende dall'applicazione al caso di specie di nuovi, benevoli criteri di giudizio (dei quali non v'è traccia nelle norme impugnate), ma scaturisce unicamente da un esame della Corte dei conti in sede camerale, condotto in base al normale potere del giu dice contabile di determinare equitativamente quanta parte del danno accertato debba essere addossato al convenuto ( vedi: artt. 82 ed 83 della legge di contabilità generale dello Stato e sentenze nn. 183 e 184 del 2007, della Corte costituzionale).

    In altri termini, secondo detta giurisprudenza costituzionale, la ratio delle norme in esame è soltanto quella di ottenere una accelerazione del processo, nonché un rapido incameramento da parte dell'Erario almeno delle somme di minore entità, e non quello di configurare una ipotesi di condono.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 1, commi 231, 232 e 233, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2006), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dalla Corte dei conti, Sezione terza di appello, con l'ordinanza in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 2 luglio 2008.

Il Cancelliere

F.to: FRUSCELLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 243< /A>

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco            BILE       Presidente

- Giovanni Maria    FLICK        Giudice

- Francesco         AMIRANTE        "

- Ugo               DE SIERVO       "

- Paolo             MADDALENA       "

- Alfio             FINOCCHIARO     "

- Alfonso           QUARANTA        "

- Franco            GALLO           "

- Luigi             MAZZELLA        "

- Gaetano           SILVESTRI       "

- Sabino            CASSESE         "

- Maria Rita        SAULLE          "

- Giuseppe          TESAURO         "

- Paolo Maria       NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e degli artt. 1 e 10 della stessa legge, promossi con ordinanze del 30 marzo dalla Corte d'appello di Napoli, del 1° giugno dalla Corte d'appello di Palermo, del 3 aprile dalla Corte d'appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, del 5 aprile dalla Corte d'appello di Bologna, del 23 giugno e del 21 aprile 2006 dalla Corte d'appello di Messina rispettivamente iscritte ai nn. 266, 468, 508, 526, 530 e 575 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 35, 44, 47, 48 e 51, prima serie speciale, dell'anno 2006.

    Udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che le Corti d'appello di Napoli (r.o. n. 266 del 2006), di Palermo (r.o. n. 468 del 2006), di Messina (r.o. nn. 530 e 575 del 2006) e di Lecce - sezione distaccata di Taranto (r.o. n. 508 del 2006) hanno sollevato, con riferimento agli artt. 3, 97, 111 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui consente l'appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento nei soli casi previsti dall'art. 603, comma 2, cod. proc. pen.: ossia quando sopravvengano o si scoprano nuove prove dopo il giudizio di primo grado, e sempre che tali prove risultino decisive;

    che analoga questione è sollevata, in riferimento agli artt. 3, 111 e 112 Cost., dalla Corte d'appello di Bologna (r.o. n. 526 del 2006), che censura direttamente l'art. 1 della citata legge n. 46 del 2006;

    che le Corti rimettenti (ad eccezione della Corte d'appello di Messina) dubitano, in riferimento ai medesimi parametri, anche della legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge n. 46 del 2006 (indicato solo nella parte motiva dalla Corte d'appello di Napoli), che prevede l'immediata applicabilità della nuova disciplina ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore, stabilendo altresì che l'appello proposto dal pubblico ministero, prima della data di entrata in vigore della legge, avverso una sentenza di proscioglimento sia dichiarato inammissibile;

    che, ai fini della rilevanza, le Corti rimettenti − chiamate a delibare appelli proposti dal pubblico ministero avverso sentenze di non doversi procedere per difetto o remissione di querela e per prescrizione del reato (r.o. nn. 266, 468, 508, 530, 575, del 2006), ed avverso una sentenza di assoluzione per difetto di imputabilità ai sensi dell'art. 88 del codice penale (r.o. n. 526 del 2006) − precisano che in forza dell'art. 10 della legge n. 46 del 2006 i giudizi dovrebbero essere definiti con ordinanze non impugnabili di inammissibilità;

    che, nel merito, tutte le Corti rimettenti ritengono che l'eliminazione dell'appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento, ad opera dell'art. 1 della novella del 2006, violi il principio di parità fra le parti di cui all'art. 111, secondo comma, Cost., in quanto del tutto irragionevolmente viene sottratto ad una sola delle parti (il pubblico ministero) lo strumento processuale indirizzato a veder affermata la propria pretesa;

    che, infatti, solo apparentemente il limite all'appello delle sentenze di proscioglimento da parte del pubblico ministero e dell'imputato rispetterebbe il principio di parità, considerato il diverso interesse ad impugnare tali sentenze che fa capo all'organo della pubblica accusa e all'imputato;

    che l'esclusione dell'appello delle sentenze di proscioglimento da parte del pubblico ministero, posta a raffronto con il potere dell'imputato di proporre appello avverso le sentenze di condanna, sarebbe invece all'evidenza lesiva del principio di parità;

    che l'ablazione integrale del potere impugnatorio della pubblica accusa non troverebbe alcuna giustificazione nella tutela di valori costituzionali di pari rilievo, né sarebbe giustificata dalla posizione istituzionale del pubblico ministero, dalla sua funzione o da esigenze di corretta amministrazione della giustizia;

    che la residua possibilità di appello, nelle ipotesi previste dal comma 2 dell'art. 603 cod. proc. pen., non eliminerebbe i profili di incostituzionalità della disciplina censurata, attesa l'assoluta marginalità di esse;

    che le Corti rimettenti prospettano altresì la violazione dell'art. 3 Cost. sia sotto il profilo del difetto di ragionevolezza, sia sotto il profilo della disparità di trattamento;

    che la scelta legislativa di privare l'organo della pubblica accusa dell'appello delle sentenze di proscioglimento si paleserebbe irragionevole in relazione al mantenimento, in capo al pubblico ministero, del potere di proporre appello avverso le sentenze di condanna (Corti d'appello di Napoli, di Palermo, di Messina e di Bologna); ed in relazione al mantenimento, in capo alla parte civile, del potere di impugnare le sentenze di proscioglimento (Corte d'appello di Messina);

    che, quanto alla violazione del principio di uguaglianza, l'art. 593 cod. proc. pen., come novellato, determinerebbe una disparità di trattamento per il cittadino assolto, che risulterebbe «favorito rispetto ad un altro condannato ad una pena ingiustamente troppo mite»: situazione, quest'ultima, nella quale l'organo dell'accusa ha conservato il potere di appello, «pur essendo la lesione sociale più grave nel primo caso e meno nel secondo» (Corte d'appello di Bologna);

    che, sempre con riferimento alla dedotta lesione del principio di uguaglianza, sarebbe evidente la disparità di trattamento «tra l'imputato assolto all'esito del giudizio abbreviato e l'imputato assolto all'esito del giudizio ordinario», posto che nella seconda ipotesi il divieto di appellare per il pubblico ministero trova un'eccezione nel caso in cui, dopo il giudizio di primo grado, siano sopravvenute o scoperte nuove prove decisive a carico dell'imputato; con la conseguenza che l'imputato nel giudizio abbreviato godrebbe di un ulteriore ingiustificato beneficio, oltre che di un trattamento sanzionatorio premiale (Corte d'appello di Lecce - sezione distaccata di Taranto);

    che le Corti d'appello di Lecce, di Messina e di Bologna evocano a parametro anche l'art. 112 Cost., assumendo il contrasto della disciplina censurata con il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, sul presupposto che a tale principio debba ritenersi connaturata la previsione del potere di impugnazione del pubblico ministero;

    che la Corte d'appello di Napoli ritiene inoltre violato anche il principio della ragionevole durata del processo (di cui all'art. 111, secondo comma, ultimo periodo, Cost.) ed a tal fine evidenzia come la novella del 2006 determinerebbe − per effetto della eliminazione dell'appello e della prevista possibilità di proporre ricorso in cassazione − un aumento dei gradi di giudizio con conseguente allungamento dei tempi processuali;

    che sempre la Corte d'appello di Napoli censura la disciplina impugnata in riferimento altresì all'art. 97 Cost. (evocato solo in motivazione), sul rilievo che essa determinerebbe «un grave turbamento di carattere strettamente "organizzativo" dell'attività della Suprema Corte», la cui competenza è oggi amplificata, tanto da obbligare a «rivalutare il contenuto di determinati atti e, quindi, ad esercitare un controllo di merito».

    Considerato che il dubbio di costituzionalità sottoposto a questa Corte ha per oggetto la preclusione - conseguente alla sostituzione dell'art. 593 del codice di procedura penale ad opera dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) - dell'appello delle sentenze dibattimentali di proscioglimento da parte del pubblico ministero e l'immediata applicabilità di tale regime, in forza dell'art. 10 della stessa legge, ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge medesima;

    che, stante l'identità delle questioni proposte, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia;

    che, successivamente alle ordinanze di rimessione, questa Corte, con la sentenza n. 26 del 2007, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della citata legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva», e dell'art. 10, comma 2, della stessa legge, «nella parte in cui prevede che l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesi ma legge è dichiarato inammissibile»;

    che, alla stregua della richiamata pronuncia di questa Corte, gli atti devono pertanto essere restituiti ai giudici rimettenti per un nuovo esame della rilevanza della questioni.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    ordina la restituzione degli atti alle Corti d'appello di Napoli, di Palermo, di Lecce - sezione distaccata di Taranto, di Messina e di Bologna.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 2 luglio 2008.

Il Cancelliere

F.to: FRUSCELLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 244< /A>

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco            BILE       Presidente

- Giovanni Maria    FLICK        Giudice

- Francesco         AMIRANTE        "

- Ugo               DE SIERVO       "

- Paolo             MADDALENA       "

- Alfio             FINOCCHIARO     "

- Alfonso           QUARANTA        "

- Franco            GALLO           "

- Luigi             MAZZELLA        "

- Gaetano           SILVESTRI       "

- Sabino            CASSESE         "

- Maria Rita        SAULLE          "

- Giuseppe          TESAURO         "

- Paolo Maria       NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 593, comma 2 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e dell'art 10, commi 1 e 2, della stessa legge, promosso con ordinanza del 29 marzo 2006 dalla Corte d'appello di Roma nel procedimento penale a carico di G. D. ed altri, iscritta al n. 268 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell'anno 2006.

    Udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che la Corte d'appello di Roma ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 593, comma 2, del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e dell'art. 10, commi 1 e 2, della medesima legge, «nella parte in cui, limitando l'appello alle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc.  pen., non prevedono l'omessa e l'erronea valutazione della prova decisiva e nella parte in cui prevedono dichiararsi l'inammissibilità dell'appello»;

    che la Corte rimettente riferisce di essere investita dell'appello proposto da un imputato avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Roma che - in ordine al reato di corruzione aggravata per atti contrari ai doveri di ufficio - aveva dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti per essere il reato estinto per prescrizione, a seguito della concessione delle attenuanti generiche;

    che, con i motivi di appello, l'imputato chiedeva l'assoluzione per non aver commesso il fatto, in quanto non attinto da chiamata in correità da parte di alcun coimputato e non avendo ricevuto alcuna somma di denaro da parte del soggetto per il quale era stata adottata identica pronuncia per il medesimo fatto;

    che, secondo la Corte rimettente, l'appello dovrebbe essere dichiarato inammissibile ai sensi degli artt. 1 e 10 della legge n. 46 del 2006, non essendo più consentito l'appello quale mezzo di impugnazione delle sentenze di proscioglimento;

    che, tuttavia, il rimettente dubita della legittimità costituzionale di tale disciplina;

    che la Corte rimettente − muovendo dalla constatazione che il capoverso dell'art. 593 cod. proc. pen., in esito alla modifica operata con l'art. 1 della legge n. 46 del 2006, statuisce che imputato e pubblico ministero possono appellare contro le sentenze di proscioglimento soltanto nelle ipotesi di cui all'art. 603, secondo comma, cod. proc. pen., se la nuova prova decisiva è sopravvenuta o scoperta dopo il giudizio di primo grado − osserva che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, la "prova decisiva" «non può soggiacere ad alcuna preclusione di carattere temporale»;

    che, pertanto, la norma censurata, «subordinando [.] la sopravvenienza o la scoperta della nuova prova decisiva ai termini variabili di proposizione dell'appello» conseguenti all'applicazione di altre norme processuali (e, in particolare, dell'art. 544, commi 1, 2 e 3, cod. proc. pen., che disciplina i termini di deposito delle motivazioni della sentenza), violerebbe il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost.;

    che la disciplina censurata si porrebbe altresì in contrasto con il principio della parità fra le parti di cui all'art. 111, secondo comma, Cost., posto che i diversi termini per la "scoperta" della nuova prova decisiva si traducono in un ampliamento o, viceversa, in un restringimento delle possibilità per le parti di addurre ed articolare la prova stessa;

    che, inoltre, la norma censurata, riferendosi esclusivamente alla «prova nuova» − intesa quest'ultima come vera e propria insorgenza, in senso stretto, della nuova prova decisiva  − esclude che ai fini dell'appellabilità della sentenza possano aver rilievo «la omessa valutazione di quella decisiva o specificamente la sua erronea valutazione, nonché la mancata ammissione di una prova decisiva e l'esclusione della stessa non portata alla cognizione del giudice, indipendentemente da motivi di preclusione processuale, tutte ipotesi [.] riconducibili nell'alveo dell'appello»;

    che, sotto quest'ultimo profilo, la norma censurata si porrebbe in contrasto con ulteriori parametri costituzionali: innanzitutto, con l'art. 24 della Costituzione attesa la lesione del diritto di difesa, derivante da tale «condizionamento probatorio in contrapposizione oggettiva con il diritto al pieno riconoscimento dell'innocenza»; poi, con l'art. 3 della Carta, atteso che - allorquando la concorrenza delle attenuanti si risolve in un proscioglimento che implica, tuttavia, l'affermazione di responsabilità - la limitazione probatoria in questione  pone «i prosciolti in condizioni disomogenee e non portatori di una differenziata considerazione processuale»; infine, con l'art. 111, primo comma, Cost ., «per la non ragionevole discriminazione del canone di coerenza tra prove a sostegno dell'appello»;

    che, nella seconda parte della complessa ordinanza di rimessione, il giudice a quo prospetta quindi le censure inerenti alla "forma" del provvedimento di inammissibilità previsto dalla norma impugnata: censure che, anche in tal caso, attingono a diversi parametri costituzionali;

    che, in proposito, la Corte rimettente lamenta innanzitutto che il termine molto breve per il deposito del provvedimento di inammissibilità confligge con la natura "sostanziale" di esso, che dovrebbe fornire «la dimostrazione dell'assorbente concludenza delle prove già acquisite ovvero l'esposizione della sentenza, non già un mero esame di influenza della nuova prova sull'atto gravato»;

    che, sotto tale profilo, l'ordinanza di inammissibilità di cui all'art. 593 cod. proc. pen. si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 111, primo, sesto e settimo comma, Cost.;

    che invero, se la predetta ordinanza viene ad essere pronunciata prima della instaurazione del rapporto processuale di impugnazione, ne verrebbe esclusa la possibilità della immediata declaratoria di determinate cause di non punibilità: con la conseguenza di una disparità di trattamento «tra imputati per i quali non può allo stato degli atti pronunciarsi più favorevole proscioglimento, pur ricorrendone le condizioni, e gli imputati che lo conseguono in virtù della nuova prova ammessa»;

    che, inoltre, il contrasto con l'art. 111, primo, sesto e settimo comma, Cost., discenderebbe dalla violazione dei princípi secondo i quali il «"processo è regolato dalla legge" e la regola ordinaria  per cui "contro le sentenze" è dato il ricorso per cassazione, in quanto sono queste i provvedimenti conclusivi del merito»;

    che, d'altra parte, l'ampliamento della tipologia decisoria nel giudizio d'appello conseguente alla novella − ordinanza di inammissibilità  e sentenza di annullamento della condanna di primo grado − comporterebbe «la duplicazione dei processi, in contrasto con la ragionevole durata di cui all'art. 111, secondo comma, della Costituzione».

    Considerato che la Corte d'appello di Roma dubita, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionaledell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) e dell'art. 10, commi 1 e 2, della medesima legge, nella parte in cui, limitando l'appello delle sentenze di proscioglimento alle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen., se la prova nuova è decisiva, non prevedono, quali eccezioni alla inappellabilità della sentenza di proscioglimento, anche «l'omessa e l'erronea valutazione della prova decisiva», e nella parte in cui «prevedono dichiararsi l'inammissibilità dell'appello»;

    che, come risulta dall'ordinanza di rimessione, la Corte rimettente è investita dell'appello proposto dall'imputato avverso sentenza di non doversi procedere pronunciata nei suoi confronti dal Tribunale di Roma, per essere il reato estinto per prescrizione, a seguito della concessione delle attenuanti generiche e solleva la questione sul presupposto di doverne dichiarare l'inammissibilità ai sensi degli artt. 593 cod. proc. pen. e 10 della legge n. 46 del 2006;

    che, successivamente all'ordinanza di rimessione, questa Corte, con la sentenza n. 85 del 2008, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale sia dell'art. 1 della legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura penale, esclude che l'imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta eccezione per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva»; sia dell'art. 10, comma 2, della medesima legge, «nella parte in cui prevede che l'appello proposto prima dell'entrata in vigo re della medesima legge dall'imputato, a norma dell'art. 593 del codice di procedura penale, contro una sentenza di proscioglimento, relativa a reato diverso dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, sia dichiarato inammissibile»;

    che, alla stregua della richiamata pronuncia di questa Corte, gli atti devono pertanto essere restituiti al giudice rimettente per un nuovo esame della rilevanza della questione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    ordina la restituzione degli atti alla Corte d'appello di Roma.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 2 luglio 2008.

Il Cancelliere

F.to: FRUSCELLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 245< /A>

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco            BILE       Presidente

- Giovanni Maria    FLICK        Giudice

- Francesco         AMIRANTE        "

- Ugo               DE SIERVO       "

- Paolo             MADDALENA       "

- Alfio             FINOCCHIARO     "

- Alfonso           QUARANTA        "

- Franco            GALLO           "

- Luigi             MAZZELLA        "

- Gaetano           SILVESTRI       "

- Sabino            CASSESE         "

- Maria Rita        SAULLE          "

- Giuseppe          TESAURO         "

- Paolo Maria       NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), promosso con ordinanza del 14 giugno 2006 dalla Corte d'appello di Catanzaro nel procedimento penale a carico di R. C. ed altro, iscritta al n. 410 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell'anno 2006.

    Udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che la Corte d'appello di Catanzaro ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), «nella parte in cui, disciplinando il regime transitorio degli appelli già presentati, non prevede che, in caso di appel lo presentato dall'imputato avverso i capi di decisione di condanna e dal pubblico ministero avverso i capi di decisione di assoluzione contenuti nella medesima sentenza nei confronti dello stesso imputato su reati connessi ex art. 12 cod. proc. pen., entrambi gli appelli debbano essere trattati e decisi contestualmente»;

    che la Corte rimettente premette che il Tribunale di Castrovillari aveva pronunciato sentenza di condanna nei confronti di due  imputati, per alcuni capi di imputazione, assolvendoli rispetto ad altri e dichiarando la prescrizione per un altro ancora;

    che avverso tale sentenza proponevano appello gli imputati, in relazione ai capi di condanna, e il pubblico ministero, in relazione ai capi assolutori;

    che, nelle more del giudizio di impugnazione, è entrata in vigore la legge n. 46 del 2006, che ha introdotto la regola generale della inappellabilità delle sentenze di assoluzione, prevedendo all'art. 10 la disciplina transitoria;

    che secondo la Corte rimettente − sulla base sia del dato letterale, sia della voluntas legis, sia, infine, dei lavori preparatori − tale inappellabilità prescinde dalla circostanza che la decisione assolutoria «interessi l'intera accusa, oppure soltanto una parte di essa, e quindi riguardi i singoli capi della decisione»;

    che pertanto, a fronte di una sentenza contenente alcuni capi di decisione assolutori ed altri capi di condanna, «può essere astrattamente proposto ricorso in relazione ai primi  ed appello in relazione ai secondi»;

    che, nella disciplina "a regime", il novellato art. 580 cod. proc. pen. prevede che, in tal caso, qualora i gravami riguardino ipotesi accusatorie connesse ai sensi dell'art. 12 cod. proc. pen., il ricorso si converta in appello, così evitando una irragionevole scissione del processo;

    che «analoga disposizione» non è invece contenuta nella norma transitoria di cui all'art. 10 della legge n. 46 del 2006;  norma che si limita a prevedere la declaratoria di inammissibilità dell'appello proposto, prima dell'entrata in vigore della legge, avverso la sentenza di proscioglimento e la possibilità di proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado;

    che in conseguenza di ciò, nel caso di decisione assolutoria e di condanna assieme, si determinerebbe proprio quella "frattura" del devolutum che l'art. 580 cod. proc. pen., nel regime definitivo, mira a scongiurare;

    che - argomenta ancora la Corte rimettente - non sarebbe possibile sospendere la trattazione dell'appello proposto dall'imputato avverso i capi di condanna in attesa che, dichiarato inammissibile l'appello del pubblico ministero, costui esperisca il ricorso per cassazione, come previsto nella norma transitoria; ciò perché tale sospensione, oltre a non essere normativamente prevista, realizzerebbe una stasi a tempo indeterminato del processo, con violazione del principio della ragionevole durata del processo;

    che, tanto premesso, la Corte rimettente ritiene la disciplina censurata palesemente irragionevole e, al riguardo, sottolinea come l'imputato sia costretto «ad una evidente duplicazione di giudizi»: duplicazione che - in caso di ricorso per cassazione del pubblico ministero e di conseguente annullamento della sentenza di primo grado - lo esporrebbero ad un processo assai dilatato nel tempo, a fronte della quasi sicura definizione, in tempi assai rapidi, della sua impugnazione in grado di appello;

    che, secondo la Corte d'appello rimettente, tale disciplina non risulta emendabile con l'applicazione, anche al regime transitorio, dell'art. 580 cod. proc. pen.; applicazione impedita da una serie di plausibili argomenti di ordine testuale e sistematico;

    che, pertanto, la disciplina censurata si porrebbe in contrasto tanto con l'art. 3 Cost., poiché introduce una regolamentazione transitoria degli appelli già presentati «irragionevolmente diversa da quella prevista per il regime ordinario»; quanto con l'art. 111 della Carta, perché «dilata enormemente e senza valida causale i tempi di celebrazione del giudizio nato come unitario»;

    che, sotto il profilo della rilevanza, nell'ordinanza si precisa che l'appello presentato dal pubblico ministero riguarda un capo di decisione assolutamente connesso con quello appellato dagli imputati, trattandosi di reati in concorso formale ai sensi dell'art. 81, primo comma, del codice penale.

    Considerato che il dubbio di costituzionalità sottoposto a questa Corte ha ad oggetto l'art. 10 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), che disciplina l'applicazione in via transitoria del nuovo e più ristretto regime di appellabilità delle sentenze di proscioglimento introdotto dall'art. 1 della medesima legge, stabilendo in particolare, al comma 2, che l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero e dall'imputato, prima dell'entra ta in vigore della legge, è dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile; e, al comma 3, che entro quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento di inammissibilità può essere proposto ricorso per cassazione, contro le sentenze di primo grado;

    che la Corte d'appello rimettente censura, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, il citato art. 10, nella parte in cui - in caso di appello dell'imputato e del pubblico ministero avverso rispettivamente i capi di condanna e di assoluzione contenuti nella sentenza pronunciata nei confronti dello stesso imputato, in relazione a reati connessi ai sensi dell'art. 12 cod. proc. pen. - non prevede che «gli appelli debbano essere trattati e decisi contestualmente»;

    che la rimettente ritiene che la regola della inappellabilità delle sentenze di proscioglimento si applichi anche all'ipotesi in cui l'appello riguardi, come nella specie, non l'intera sentenza, ma singoli capi assolutori della decisione; con la conseguenza di una «evidente duplicazione di giudizi», qualora avverso i capi di assoluzione e di condanna vengano proposti mezzi di impugnazione diversi (ricorso per cassazione in relazione ai primi e appello in relazione ai secondi);

    che la disciplina censurata si porrebbe in contrasto con l'art. 3 Cost., perché introduce una regolamentazione transitoria degli appelli già presentati «irragionevolmente diversa da quella prevista per il regime ordinario» dall'art. 580 cod. proc. pen., e con l'art. 111 Cost., per violazione del principio della durata ragionevole del processo;

    che la Corte rimettente solleva la questione sul presupposto di dover dichiarare ai sensi dell'art. 10 della legge n. 46 del 2006 l'inammissibilità dell'appello proposto dal pubblico ministero, prima dell'entrata in vigore della legge, avverso i capi di assoluzione dell'imputato;

    che con la sentenza n. 26 del 2007, successiva all'ordinanza di rimessione, questa Corte - contestualmente alla declaratoria di incostituzionalità dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, sostitutivo dell'art. 593 del codice di procedura penale - ha dichiarato l'illegittimità costituzione dell'art. 10, comma 2, della citata legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui prevede che l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge è dichiarato inammissibile»;

    che, alla stregua della richiamata pronuncia di questa Corte, gli atti devono pertanto essere restituiti al giudice rimettente per un nuovo esame della rilevanza della questione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    ordina la restituzione degli atti alla Corte d'appello di Catanzaro.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 2 luglio 2008.

Il Cancelliere

F.to: FRUSCELLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 246< /A>

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco           BILE       Presidente

- Giovanni Maria   FLICK        Giudice

- Francesco        AMIRANTE        "

- Ugo              DE SIERVO       "

- Paolo            MADDALENA       "

- Alfio            FINOCCHIARO     "

- Alfonso          QUARANTA        "

- Franco           GALLO           "

- Luigi            MAZZELLA        "

- Gaetano          SILVESTRI       "

- Sabino           CASSESE         "

- Maria Rita       SAULLE          "

- Giuseppe         TESAURO         "

- Paolo Maria      NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 4, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), promosso con ordinanza del 14 marzo 2006 dalla Corte d'appello di Messina nel procedimento penale a carico di C. P. ed altri, iscritta al n. 427 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell'anno 2006.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che la Corte d'appello di Messina ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 4, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), «nella parte in cui non equipara alla sentenza di condanna di una Corte d'appello che abbia riformato una sentenza di as soluzione, la sentenza di proscioglimento per prescrizione emessa a seguito di concessione delle circostanze attenuanti generiche»;

    che la Corte rimettente premette di essere investita del giudizio di rinvio a seguito dell'annullamento, da parte della Corte di cassazione, della sentenza pronunciata dalla Corte d'appello di Reggio Calabria che aveva dichiarato non doversi procedere per prescrizione nei confronti di alcuni imputati, in ordine al reato di omicidio colposo loro ascritto, previa concessione delle circostanze attenuanti generiche;

    che detta sentenza d'appello era stata emessa in riforma della pronuncia del giudice di prime cure, appellata dal pubblico ministero, con la quale i predetti imputati erano stati in origine assolti perché il fatto non sussiste;

    che il giudice a quo rileva che l'art. 10, comma 4, della legge n. 46 del 2006 prevede che la disposizione di cui al comma 2 del medesimo articolo − secondo cui l'appello proposto dall'imputato o dal pubblico ministero, prima della data di entrata in vigore della legge, viene dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile − si applica anche nel caso in cui sia annullata una sentenza di condanna di una corte d'appello che abbia riformato una sentenza di assoluzione;

    che tale disposizione non risulterebbe applicabile «direttamente» al caso per cui si procede né sarebbe suscettibile di interpretazione analogica, in quanto derogatoria «del principio generale dell'appellabilità delle sentenze»;

    che proprio la circostanza che la norma non equipara alla sentenza di condanna di una corte d'appello, che abbia riformato una sentenza di assoluzione, la sentenza di proscioglimento per prescrizione emessa a seguito di concessione delle circostanze attenuanti generiche, risulta, secondo la rimettente, in contrasto con l'art. 3 Cost.;

    che la Corte rimettente −  che ritiene rilevante la questione stante la sua pregiudizialità rispetto alla definizione del giudizio − reputa infatti che tale disciplina determini «una palese disparità di trattamento tra situazioni processuali assimilabili, essendo la pronuncia di proscioglimento necessariamente preceduta da un sostanziale giudizio di responsabilità»;

    che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la manifesta infondatezza della questione;

    che la difesa erariale ritiene non condivisibile la premessa da cui muove l'ordinanza di rimessione circa l'equiparabilità di una sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione, sia pur emessa a seguito della concessione di attenuanti generiche, ad una sentenza di condanna;

    che, infatti, la sentenza di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione, a seguito della concessione di attenuanti generiche, è condizionata esclusivamente all'accertamento «che dagli atti non risulta evidente che non ci sono i presupposti per addivenire ad una formula assolutoria di merito»; e, a differenza dell'altra, non presuppone «necessariamente un sostanziale giudizio di condanna»;

    che venendo meno tale presupposto di assimilabilità − conclude l'Avvocatura generale − non è configurabile la violazione del principio di uguaglianza denunciata dal giudice a quo.

    Considerato che la Corte d'appello di Messina dubita, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 4, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), «nella parte in cui non equipara alla sentenza di condanna di una Corte d'appello che abbia riformato una sentenza di assoluzione, la sentenza di proscioglimento per prescrizione emessa a seguito di concessione delle circostanze attenuanti generiche»;

    che il comma 4 censurato fa espresso richiamo al comma 2 del medesimo articolo, stabilendo che tale disposizione - secondo cui l'appello proposto dall'imputato o dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della legge viene dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile - «si applica anche nel caso in cui sia annullata, su punti diversi dalla pena o dalla misura di sicurezza, una sentenza di condanna di una corte d'assise d'appello o di una corte d'appello che abbia riformato una sentenza di assoluzione»;

    che con la sentenza n. 26 del 2007, successiva all'ordinanza di rimessione, questa Corte - contestualmente alla declaratoria di incostituzionalità dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, sostitutivo dell'art. 593 del codice di procedura penale - ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 10, comma 2, della citata legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui prevede che l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge è dichiarato inammissibile»;

    che, pertanto, risultando mutato a seguito della richiamata pronuncia di questa Corte il quadro normativo di riferimento, gli atti devono essere restituiti al giudice rimettente per un nuovo esame della rilevanza della questione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

     ordina la restituzione degli atti alla Corte d'appello di Messina.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 2 luglio 2008.

Il Cancelliere

F.to: FRUSCELLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 247< /A>

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco           BILE       Presidente

- Giovanni Maria   FLICK        Giudice

- Francesco        AMIRANTE        "

- Ugo              DE SIERVO       "

- Paolo            MADDALENA       "

- Alfio            FINOCCHIARO     "

- Alfonso          QUARANTA        "

- Franco           GALLO           "

- Luigi            MAZZELLA        "

- Gaetano          SILVESTRI       "

- Sabino           CASSESE         "

- Maria Rita       SAULLE          "

- Giuseppe         TESAURO         "

- Paolo Maria      NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 87, comma 3, del codice di procedura penale, in relazione agli artt. 438 e 440 del medesimo codice, promosso, con ordinanza dell'8 novembre 2005, dal Giudice per le indagini preliminari, in funzione di Giudice dell'udienza preliminare, del Tribunale di Sassari nel procedimento penale a carico di C. S., iscritta al n. 60 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell'anno 2006.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 21 maggio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che, con l'ordinanza in epigrafe, il Giudice per le indagini preliminari, in funzione di Giudice dell'udienza preliminare, del Tribunale di Sassari, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 87, comma 3, del codice di procedura penale, in relazione agli artt. 438 e 440 dello stesso codice, nella parte in cui «dispone l'esclusione di ufficio del responsabile civile quando il giudice accoglie la richiesta di giudizio abbreviato»;

    che il giudice rimettente premette che il pubblico ministero aveva richiesto il rinvio a giudizio nei confronti di diverse persone imputate, tra gli altri, dei reati di associazione per delinquere, truffa e appropriazione indebita, per essersi appropriate «di somme di denaro loro consegnate dai clienti contattati senza provvedere al versamento [.] per le operazioni di investimento richieste» ad una società di intermediazione mobiliare;

    che, in apertura dell'udienza preliminare, numerose persone offese si costituivano parti civili e chiedevano la citazione del responsabile civile, «individuandolo nel rappresentante legale pro tempore della società»;

    che tale richiesta - respinta una prima volta per la ritenuta insussistenza dei presupposti legittimanti la chiamata in causa della società - era stata poi reiterata all'esito degli interrogatori di alcuni imputati; uno di essi, in particolare, in relazione alla sua pluriennale attività di promotore finanziario della società in questione,  ammetteva di aver realizzato una gestione parallela illegale delle somme investite, per suo tramite, da oltre duecento persone: somme che egli non aveva mai versato alla società medesima; 

    che, tuttavia, «nelle more della decisione e dell'adozione del relativo provvedimento», alcuni  degli imputati chiedevano di essere giudicati con il rito abbreviato, disposto il quale - afferma il rimettente - «è stata dichiarata l'inammissibilità della richiesta di citazione del responsabile civile non essendo consentita la sua presenza nel processo celebrato con le forme del rito abbreviato; tanto che, ai sensi dell'art. 87, comma 3, cod. proc. pen., una volta radicato il rito de quo il responsabile civile deve essere estromesso anche se già costituito nell'udienza preliminare»;

    che il difensore di parte civile chiedeva quindi di sollevare questione di legittimità costituzionale dell'art. 87, comma 3, cod. proc. pen. per contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost.: eccezione che − secondo il rimettente − merita di essere coltivata, stante la non manifesta infondatezza delle censure prospettate;

    che, in proposito, il giudice a quo − in esito ad una minuziosa ricostruzione delle vicende legislative e della giurisprudenza costituzionale che hanno riguardato il rito abbreviato − rileva che «il nuovo abbreviato è radicalmente diverso da quello previsto dal codice del 1988»: e ciò soprattutto a seguito dell'introduzione, ad opera della legge 16 dicembre 1999, n. 479, della facoltà dell'imputato di richiedere un'integrazione probatoria e del potere del giudice di acquisire tutti gli elementi ritenuti necessari ai fini della decisione (art. 441, comma 5, cod. proc. pen.); 

    che − argomenta ancora il giudice a quo − il modello originario del rito in questione risultava perfettamente coerente con il disposto della norma oggetto di censura, attesa la necessità di «non appesantire», con la presenza del responsabile civile, un giudizio allo stato degli atti caratterizzato dalla massima celerità; tuttavia, tale armonia «è ora venuta meno ed è diventata contrasto», posto che il "nuovo" giudizio abbreviato, per caratteristiche ed impatto statistico, deve essere considerato «un vero e proprio giudizio di merito, alternativo a quello ordinario» ed attivabile comunque solo da parte dell'imputato; 

    che, pertanto, a fronte di tali nuove e diverse caratteristiche del rito, l'esclusione del responsabile civile disposta dall'art. 87, comma 3, cod. proc. pen. si porrebbe in evidente contrasto con diversi parametri costituzionali;

    che risulterebbe, innanzitutto, violato l'art. 3 Cost., sotto il profilo della «disparità di trattamento riservata alla parte civile sul piano delle pretese risarcitorie»;

    che, inoltre, sarebbe leso, in capo alla stessa parte civile, il diritto di agire in giudizio, tutelato dall'art. 24 Cost., nonché il principio della durata ragionevole del processo, sancito dall'art. 111 della Carta: principio «che deve essere inteso come garanzia non solo per l'imputato, ma per tutte le parti processuali e per la collettività in generale»;

    che, in ordine alla rilevanza della questione, il giudice  a quo afferma che essa «appare con evidenza», avuto riguardo alle stesse contestazioni elevate contro gli imputati;

    che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata;

    che la difesa erariale ritiene, quanto all'ammissibilità della questione, «assolutamente apodittiche» le censure del giudice a quo; mentre, con riferimento alla non manifesta infondatezza, evidenzia come il giudizio abbreviato costituisca ancora oggi - dopo le modifiche recate dalla legge n. 479 del 1999 - un rito alternativo al dibattimento, connotato da esigenze di celerità; a fronte di queste ultime non sarebbe dunque manifestamente irragionevole l'esclusione del responsabile civile, prevista dalla norma censurata;

    che, per altro verso, tale esclusione non determinerebbe un vulnus al diritto di agire in giudizio della parte civile, abilitata a tutelare le proprie ragioni nel giudizio civile;

    che, infine, la disciplina censurata non si porrebbe in contrasto con il principio della durata ragionevole del processo, posto che, secondo l'Avvocatura generale, l'esclusione  disposta all'esito dell'udienza preliminare non ostacolerebbe in alcun modo l'azione nei confronti del responsabile civile, non trovando applicazione, in tale ipotesi, il disposto dell'art. 75, comma 3, cod. proc. pen.: norma che, in caso di esercizio dell'azione civile successivamente alla costituzione della parte privata in sede penale, prevede la sospensione del processo civile fino alla definizione di quello penale con sentenza irrevocabile.

    Considerato che il Giudice per le indagini preliminari, in funzione di Giudice dell'udienza preliminare, del Tribunale di Sassari dubita, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 87, comma 3, del codice di procedura penale, in relazione agli artt. 438 e 440 dello stesso codice, nella parte in cui dispone l'esclusione di ufficio del responsabile civile quando il giudice accoglie la richiesta di giudizio abbreviato;

    che l'eccezione di illegittimità costituzionale è formulata, in riferimento all'art. 3 Cost., sotto il profilo della «disparità di trattamento riservata alla parte civile sul piano delle pretese risarcitorie»; in relazione all'art. 24 Cost., per la violazione del diritto della parte civile di agire in giudizio; con riferimento, infine, all'art. 111 Cost., sotto il profilo che - pur essendo legittimato all'esercizio dell'azione civile nel processo penale - il danneggiato verrebbe poi costretto ad intraprendere in altra sede un nuovo processo, a fronte dell'estromissione del soggetto chiamato a garantire l'effettiva soddisfazione del suo diritto: con inevitabile incidenza sulla ragionevole durata del processo;

    che la questione proposta è manifestamente inammissibile per difetto del requisito della rilevanza;

    che, infatti, il giudice a quo afferma espressamente di avere, dopo l'adozione del rito abbreviato, dichiarato l'inammissibilità della richiesta di citazione del responsabile civile, non essendo consentita la sua presenza nel processo celebrato con le forme di detto rito: ciò sul presupposto che, ai sensi dell'art. 87, comma 3, cod. proc. pen., una volta radicato il rito de quo, il responsabile civile debba  essere estromesso anche se già costituito nell'udienza preliminare;

    che, pertanto, il giudice a quo ha già fatto definitiva applicazione della norma della cui legittimità costituzionale ora dubita, così consumando il proprio potere decisorio: con la conseguenza di rendere ininfluente, sotto il profilo della rilevanza, un'eventuale pronuncia di incostituzionalità della  norma stessa.

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 87, comma 3, del codice di procedura penale, in relazione agli artt. 438 e 440 del medesimo codice, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari, in funzione di Giudice dell'udienza preliminare, del Tribunale di Sassari, con l'ordinanza in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 2 luglio 2008.

Il Cancelliere

F.to: FRUSCELLA


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ORDINANZA N. 248< /A>

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 44 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), promosso con ordinanza del 15 giugno 2007 dal Tribunale di Ancona, sezione distaccata di Jesi, nel procedimento penale a carico di G. G., iscritta al n. 796 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 21 maggio 2008 il Giudice relatore Paolo Maddalena.

   

    Ritenuto che, con ordinanza del 15 giugno 2007, il Tribunale penale di Ancona, sezione distaccata di Jesi, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 44 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), nella parte in cui non include la causa di estinzione del reato prevista dall'art. 181, comma 1-quinquies, del decreto legislativo 22 g ennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137);

    che il censurato articolo 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede le sanzioni penali conseguenti alle violazioni della disciplina urbanistica ed edilizia (sostituendo quelle già introdotte dall'articolo 20 della legge 28 febbraio 1985, n. 47, recante «Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie»);

    che l'art. 181, comma 1-quinquies, del d.lgs. n. 42 del 2004 prevede le sanzioni penali conseguenti alle violazioni della disciplina paesistica (sostituendo quelle già introdotte dall'articolo 163 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490, recante «Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'articolo 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352»);

    che il comma 1-quinquies del predetto art. 181 (comma aggiunto dall'art. 1, comma 36, della legge 15 dicembre 2004, n. 308, recante «Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione»), prevede l'estinzione del reato paesistico, in caso di rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici da parte del trasgressore, prima che venga disposta d'ufficio dall'autorità amministrativa, e comunque prima che intervenga la condanna, mentre analogo effetto estintivo non è previsto dal censurato articolo 44 del decreto del Presidente della Repubblica n. 380 del 2001;

    che il giudice rimettente solleva la delineata questione, «così come proposta dai difensori ed integralmente recepita» ed allega il verbale dell'udienza del 15 giugno 2007 del procedimento a carico di G. G.;

    che da tale verbale risulta che i difensori dell'imputato denunciano la irragionevolezza dell'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 e la disparità di trattamento rispetto alla previsione dell'art. 181 del d.lgs. n. 42 del 2004, sull'assunto che entrambe le norme sanzionino l'abuso edilizio e che sia irragionevole che il trattamento sanzionatorio più lieve sia riservato alla fattispecie più grave ovvero all'abuso commesso in una zona o su di un bene vincolato paesisticamente;

    che, in ordine alla rilevanza della questione, gli stessi difensori precisano che dall'istruttoria dibattimentale sarebbe emersa la demolizione del manufatto «baracca prefabbricata in ferro con copertura in lamiera, infissi in alluminio» e che, in caso di accoglimento della questione proposta, da tale demolizione discenderebbe la estinzione del reato;

    che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con una memoria, nella quale chiede che la questione sia dichiarata inammissibile e, in subordine, infondata.

    Considerato che il Tribunale penale di Ancona, sezione distaccata di Jesi, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento all'articolo 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 44 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), nella parte in cui non include la causa di estinzione del reato prevista dall'art. 181, comma 1-quinquies, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice d ei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137);

    che analoga questione è stata ritenuta manifestamente infondata da questa Corte con le ordinanze n. 144 e n. 439 del 2007;

    che, peraltro, la questione è inammissibile, perché il rimettente (il quale si limita a rinviare alle deduzioni a verbale dei difensori dell'imputato) non descrive in modo adeguato la fattispecie sottoposta al suo giudizio (ex plurimis, ordinanze n. 308 e n. 450 del 2007 e n. 82 del 2008);

    che, nella specie, tale insufficiente descrizione impedisce, oltretutto, la stessa precisa individuazione dei termini della questione sollevata, atteso che la carenza degli elementi di fatto non consente di individuare con certezza nemmeno quale delle tre distinte ipotesi di contravvenzioni edilizie previste dal censurato art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 sia stata contestata all'imputato.

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 44 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale penale di Ancona, sezione distaccata di Jesi, con l'ordinanza in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 2 luglio 2008.

Il Cancelliere

F.to: FRUSCELLA


pronuncia precedente

ORDINANZA N. 249

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

-         Franco                     BILE         Presidente

-         Giovanni Maria             FLICK          Giudice

-         Francesco                  AMIRANTE          "

-         Ugo                        DE SIERVO         "

-         Paolo                      MADDALENA         "

-         Alfio                      FINOCCHIARO       "

-         Alfonso                    QUARANTA          "

-         Franco                     GALLO             "

-         Luigi                      MAZZELLA          "

-         Gaetano                    SILVESTRI         "

-         Sabino                     CASSESE           "

-         Giuseppe                   TESAURO           "

-         Paolo Maria                                NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 645, secondo comma, 647 e 165, primo comma, del codice di procedura civile e dell'art. 71 delle disposizioni di attuazione dello stesso codice, promosso con ordinanza del 27 luglio 2007 dal Tribunale ordinario di Patti, sezione distaccata di Sant'Agata di Militello nel procedimento civile vertente tra la Sirio Impianti s.n.c. di Faranda Leone e Bonfiglio Carmelo e la R2 s.n.c. di Rubino Aldo & C., iscritta al n. 834 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell'anno 2008.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 21 maggio 2008 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro.

    Ritenuto che il Tribunale ordinario di Patti, sezione distaccata di Sant'Agata di Militello, nel corso di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, con ordinanza depositata il 27 luglio 2007, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 645, secondo comma, 647 e 165, primo comma, del codice di procedura civile e dell'art. 71 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, per violazione degli artt. 3, 24 e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui prevedono che il termine per la costituzione dell'opponente a decreto ingiuntivo decorra dalla data di notificazione dell'atto, anziché da quella della consegna dello stesso all'ufficiale giudiziario;

    che, nella specie, consegnato l'atto di opposizione all'ufficiale giudiziario il 4 ottobre 2004, lo stesso era stato notificato l'8 ottobre 2004, mentre l'opponente si era costituito il 18 ottobre 2004;

    che - rileva il rimettente - individuare nella consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario il momento di inizio della decorrenza del termine di costituzione dell'opponente introdurrebbe in ogni caso (sia o no questo termine dimidiato) una regola coerente con i princípi più volte affermati dalla Corte costituzionale in materia di notificazione e, in aggiunta, pienamente allineata con i princípi del processo giusto e di durata ragionevole;

    che ciò significherebbe ancorare il dies a quo della costituzione dell'opponente ad un evento - la consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario - che, nell'arco del procedimento notificatorio, appare essere l'unico esattamente conoscibile non solo dal giudice (mancando invece una norma che consenta di avere certezza legale della acquisita conoscenza o conoscibilità, in capo a colui che introduce il giudizio d'ingiunzione, dell'avvenuta notificazione), ma anche dallo stesso opponente, il quale sarebbe posto in grado di sapere da quale giorno il suo termine di costituzione inizia a decorrere;

    che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la manifesta inammissibilità e comunque la manifesta infondatezza della questione proposta.

    Considerato che il Tribunale ordinario di Patti, sezione distaccata di Sant'Agata di Militello, dubita della legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 645, secondo comma, 647 e 165, primo comma, del codice di procedura civile e dell'art. 71 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, nella parte in cui prevede che il termine per la costituzione dell'opponente a decreto ingiuntivo decorra dalla data di notificazione dell'atto, anziché da quella della consegna di esso all'ufficiale giudiziario, per violazione degli ar tt. 3, 24 e 111, primo e secondo comma, Cost.;

    che il giudice rimettente ritiene necessario introdurre una regola coerente con i princípi più volte affermati da questa Corte in materia di notificazione, giungendo ad una soluzione - quella della decorrenza del termine per la costituzione dell'opponente dalla consegna dell'atto all'ufficiale giudiziario - allineata ai princípi del giusto processo e della durata ragionevole dello stesso, di cui al nuovo testo dell'art. 111, primo e secondo comma, Cost.;

    che la rilevanza della questione consiste nel fatto che se il combinato disposto delle norme denunciate fosse dichiarato incostituzionale nella parte in cui prevede che il termine per la costituzione dell'opponente a decreto ingiuntivo decorra dalla data di notificazione dell'atto, anziché da quella della consegna dello stesso all'ufficiale giudiziario, l'opposizione dovrebbe essere dichiarata improcedibile;

    che nell'ordinanza non vi è un adeguato sviluppo argomentativo del denunciato contrasto con i parametri invocati;

    che non vi è alcun accenno agli artt. 3 e 24 Cost., mentre anche il riferimento all'art. 111, primo e secondo comma, Cost., è puramente assiomatico, posto che l'attinenza della prospettata necessità di far decorrere il termine di costituzione dalla consegna dell'atto notificando all'ufficiale giudiziario al principio del giusto processo è tutta da dimostrare;

    che la mancata motivazione della non manifesta infondatezza per insufficiente riferimento ai parametri invocati, è causa di manifesta inammissibilità (ordinanze n. 114 del 2007; n. 39 del 2005; n. 126 del 2003).

    Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 645, secondo comma, 647 e 165, primo comma, del codice di procedura civile e dell'art. 71 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111, primo e secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Patti, sezione distaccata di Sant'Agata di Militello, con l'ordin anza in epigrafe.

   
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 2 luglio 2008.

Il Cancelliere

F.to: FRUSCELLA




 
    I testi delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale, trasmessi dalla newsletter "Palazzo della Consulta" sono offerti alla consultazione per fini esclusivamente di informazione.

    Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16 marzo 1956).

   Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale su quello qui riportato, in caso di divergenza.