Deposito del 20/06/2008 (dalla 219 alla 229) |
S.219/2008 del 11/06/2008 Camera di Consiglio del 02/04/2008, Presidente BILE, Relatore DE SIERVO Norme impugnate: Art. 314 codice di procedura penale. Oggetto: Processo penale - Riparazione per l'ingiusta detenzione - Diritto alla riparazione per la durata della custodia cautelare che risulti superiore alla misura della pena inflitta - Mancata previsione. Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale Atti decisi: ord. 558/2006 e 753/2007 |
S.220/2008 del 11/06/2008 Udienza Pubblica del 15/04/2008, Presidente BILE, Relatore SAULLE Norme impugnate: Artt. 3 e 4 della legge della Regione Valle d'Aosta 29/12/2006, n. 34. Oggetto: Ambiente - Norme della Regione Valle d'Aosta - Parchi faunistici - Custodia degli animali selvatici nei giardini zoologici - Requisiti per l'ottenimento dell'autorizzazione. Dispositivo: inammissibilità Atti decisi: ric. 17/2007 |
S.221/2008 del 11/06/2008 Camera di Consiglio del 07/05/2008, Presidente BILE, Relatore AMIRANTE Norme impugn ate: Art. 8, c. 4°, del decreto legislativo 17/01/2003, n. 5. Oggetto: Procedimento civile - Società - Controversie in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia - Procedimento di primo grado dinanzi al tribunale in composizione collegiale - Istanza di fissazione dell'udienza collegiale - Mancata notifica nel termine perentorio - Prevista estinzione del processo in luogo del differimento dell'udienza e successiva cancellazione dal ruolo. Dispositivo: non fondatezza Atti decisi: ord. 776/2007 |
S.222/2008 del 11/06/2008 Udienza Pubblica del 20/05/2008, Presidente BILE, Relatore MAZZELLA < br> Norme impugnate: Decreto legge 31/01/2007, n. 7, convertito con modificazioni in legge 02/04/2007, n. 40; discussione limitata all'art. 10, c. 4°. Oggetto: Turismo - Professioni - Guida turistica e accompagnatore turistico - Divieto di subordinazione ad autorizzazioni preventive, al rispetto di parametri numerici e di requisiti di residenza - Libero esercizio per i titolari di laurea in lettere con indirizzo in storia dell'arte o in archeologia e per i titolari di laurea o diploma universitario in materia turistica - Obbligo per le Regioni di promuovere sistemi di accreditamento per le guide turistiche specializzate in particolari siti, località e settori. Dispositivo: non fondatezza Atti decisi: ric. 27/2007 |
O.223/2008
del 11/06/2008 Camera di Consiglio del 07/05/2008, Presidente BILE, Relatore SILVESTRI Norme impugnate: Art. 157, c. 1° e 5°, del codice penale, come sostituiti dall'art. 6 della legge 05/12/2005, n. 251; art. 10, c. 3°, della stessa legge n. 251 del 2005. Oggetto: Reati e pene - Prescrizione - Reati di competenza del giudice di pace - Reati puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria - Termine di prescrizione di tre anni - Mancata previsione dell'applicazione di tale termine a tutti gli altri reati di competenza del giudice di pace. Dispositivo: manifesta infondatezza - manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 491, 492, 572, 573/2006; 281, 359, 409, 419, 421, 451, 530, 541, 643, 741, 746, 769, 770, 771/2007 |
O.224/2008 del 11/06/2008 Camera di Consiglio del 21/05/2008, Presidente BILE, Relatore MAZZELLA Norme impugnate: Art. 18 del codice di procedura civile. Oggetto: Procedimento civile - Competenza per territorio - Foro generale delle persone fisiche - Azione di risarcimento di danni derivanti dalla circolazione stradale - Omessa previsione della competenza territoriale del giudice del luogo in cui risiede il danneggiato da fatto illecito. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 848/2007 |
S.225/2008
del 11/06/2008 Camera di Consiglio del 21/05/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK Norme impugnate: Art. 707 del codice penale. Oggetto: Reati e pene - Possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli - Configurazione quale reato di pericolo in rapporto alle condizioni soggettive del soggetto attivo. Dispositivo: non fondatezza Atti decisi: ord. 277/2007 |
O.226/2008 del 11/06/2008 Camera di Consiglio del 16/04/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK Norme impugnate: Art. 576 del codice di procedura penale, c ome modificato dall'art. 6 della legge 20/02/2006, n. 46; artt. 6 e 10 della legge 20/02/2006, n. 46. Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Impugnazione della parte civile. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 18, 159, 160, 231, 602 e 635/2007 |
O.227/2008 del 11/06/2008 Camera di Consiglio del 16/04/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK Norme impugnate: Art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20/02/2006, n. 46; artt. 1 e 10 della legge 20/02/2006, n. 46. Oggetto: Processo penale - Appel lo - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Preclusione, salvo nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2 - Inammissibilità dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella. Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens Atti decisi: ord. 111, 130, 307, 661, 750, 766, 789, 795, 802, 819, 820 e 821/2007 |
O.228/2008 del 11/06/2008 Camera di Consiglio del 16/04/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK Norme impugnate: Art. 1 della legge 20/02/2006, n. 46, sostitutivo dell'art. 593 del codice di procedura penale. Oggetto:< /em> Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Preclusione, salvo nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2 - Inammissibilità dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 408/2007 |
O.229/2008 del 11/06/2008 Camera di Consiglio del 16/04/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK Norme impugnate: Art. 443, c. 1°, del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 2 della legge 20/02/2006, n. 46; artt. 2 e 10 della legge 20/02/2006, n. 46. Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Giudizio abbreviato - Limiti all'appello - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Esclusione - Inammissibilità dell'appello proposto prima dell'entrata in vigore della novella. Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens Atti decisi: ord. 125, 198, 495, 603 e 784/2007 |
ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'articolo 314 del codice di procedura penale promossi con ordinanze del 19 luglio 2006 dalla Corte di cassazione, a Sezioni unite penali, sul ricorso proposto da P. A. e del 30 marzo 2007 dalla Corte d'appello di Trieste sull'istanza proposta da B. A. V. iscritte al n. 558 del registro ordinanze 2006 e al n. 753 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell'anno 2006 e n. 45, prima serie speciale, dell'anno 2007. Udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Ugo De Siervo. Ritenuto in fatto 1. - Con ordinanza in data 19 luglio 2006, la Corte di cassazione, a Sezioni unite penali, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 314 del codice di procedura penale in relazione agli artt. 2, 3, 13 (quest'ultimo invocato solo nella parte motiva dell'ordinanza di rimessione), 24, 76 e 77 della Costituzione, «nella parte in cui non è previsto il diritto alla riparazione per la custodia cautelare che risulti superiore alla misura della pena inflitta». Premette la Corte di procedere in relazione ad un ricorso proposto avverso l'ordinanza con cui la Corte d'appello di Reggio Calabria aveva accolto solo in parte la richiesta presentata dall'istante ai sensi dell'art. 314 cod. proc. pen. per ottenere la liquidazione di una somma a titolo di riparazione per l'ingiusta detenzione in carcere complessivamente subita dal 23 gennaio 1986 al 22 giugno 1989. La Corte territoriale, infatti, aveva condannato il Ministero dell'economia al pagamento dell'indennità soltanto in relazione alla privazione della libertà subita dal 26 gennaio 1988 al 22 gi ugno 1989. Così la Cassazione riassume i fatti a base della decisione impugnata. Il 23 gennaio 1986 l'imputato era stato sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere per le imputazioni di associazione per delinquere di stampo mafioso, di detenzione e porto d'armi e, successivamente, di tentato omicidio. Il 22 gennaio 1988 erano scaduti i termini massimi di custodia cautelare per i reati concernenti l'associazione mafiosa e le armi; la custodia era, tuttavia, mantenuta in quanto l'imputato era stato condannato alla pena di quattordici anni di reclusione per i reati di tentato omicidio, nonché di detenzione e porto d'armi. Con sentenza del 23 giugno 1989, la Corte d'assise d'appello aveva assolto l'imputato dal reato di tentato omicidio per insufficienza di prove, mentre il processo proseguiva in relazione agli altri reati. In data 17 giugno 1999 l'imputato veniva assolto dal reato associativo e condannato a dieci mesi di reclusione per i reati concernenti le armi. Infine, in data 7 maggio 2001, la Corte territoriale pronunciava sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione in ordine al reato di porto e detenzione di armi. La Corte d'appello, pronunciando sull'istanza di riparazione per ingiusta detenzione, riteneva che l'indennizzo dovesse essere riconosciuto solo per il periodo, compreso tra il 26 gennaio 1988 e il 22 giugno 1989, riguardante la custodia cautelare relativa al reato di tentato omicidio, mentre per il periodo dal 23 gennaio 1986 al 22 gennaio 1988, l'istanza doveva essere respinta, sia in quanto la custodia cautelare era legittimata dalla pluralità di imputazioni, sia in quanto la declaratoria di non doversi procedere per intervenuta prescrizione dei reati concernenti le armi precludeva il riconoscimento del diritto alla riparazione. Ciò in quanto tale diritto è configurato dall'art. 314 cod. proc. pen. solo in caso di proscioglimento nel merito. Avverso tale ordinanza P.A. ha proposto ricorso per Cassazione. Le sezioni unite, cui il ricorso è stato rimesso dalla quarta sezione (con ordinanza n. 1920 del 14 novembre 2005), chiariscono innanzitutto di esaminare la richiesta di riparazione per ingiusta detenzione limitatamente al periodo di custodia subita dal 23 gennaio 1986 al 22 gennaio 1988, data quest'ultima in cui sono scaduti i termini massimi della misura cautelare relativamente ai delitti di associazione mafiosa, di detenzione e porto illegale d'armi, reati per i quali i limiti massimi di durata della custodia in carcere coincidono. Ciò precisato, la Cassazione afferma che il tema di indagine sul quale essa è chiamata a pronunciarsi consiste nello stabilire se sia o meno «configurabile il diritto alla riparazione nel caso in cui l'imputato, sottoposto a detenzione per più titoli cautelari di pari durata massima, venga assolto da un reato con una delle formule indicate nel primo comma dell'art. 314 cod. proc. pen. e venga, invece, prosciolto dall'altro reato perché estinto per prescrizione». La giurisprudenza di legittimità, nel caso di processo cumulativo con più imputazioni, è orientata a ritenere che, poiché il diritto all'equa riparazione spetta solo in quanto l'interessato sia stato prosciolto con formula liberatoria di merito, ai fini del riconoscimento di tale diritto è necessario che tale presupposto ricorra con riguardo a tutti gli addebiti formulati. Ciò deriverebbe dal fatto che il periodo di detenzione cautelare è unico e inscindibile per tutti i titoli custodiali di modo che, se essi hanno un identico limite massimo di durata, la mancanza di proscioglimento nel merito anche per uno solo dei reati farebbe sì che l'intera detenzione cautelare debba essere riferita a quest'ultimo, a prescindere dalla misura della pena che sarebbe stata inflitta in caso di condanna. Di conseguenza, nel caso di provvedimento coercitivo fondato su più contestazioni, il proscioglimento con formula non di merito anche da una sola di esse, impedirebbe il sorgere del diritto alla riparazione. In senso diverso si è, tuttavia, pronunciata la suprema Corte in due decisioni della quarta sezione, le quali si caratterizzano per il fatto di aver riconosciuto la riparazione a favore di coimputati nello stesso processo dell'imputato che ora agisce per la riparazione, i quali, come quest'ultimo, erano stati assolti dal reato associativo e, dopo essere stati condannati per i reati relativi alle armi, erano stati prosciolti per prescrizione. Con la prima sentenza (6 luglio 2005, n. 40094), la Corte ha osservato che «il periodo di custodia cautelare riferibile ai reati concernenti le armi non poteva in nessun caso superare il limite di dieci mesi corrispondente all'entità della reclusione inflitta con la condanna pronunciata nel giudizio di primo grado: di talché, poiché contro tale decisione il p.m. non aveva proposto appello, al reato successivamente dichiarato prescritto era attribuibile un periodo di detenzione cautelare non superiore a dieci mesi e la maggiore durata, della custodia in carcere doveva essere riferita all'imputazione per la quale era intervenuta assoluzione nel merito». Nella seconda decisione (8 luglio 2005, n. 36898) si è affermato che «qualora risulti per il particolare svolgersi del processo, che il periodo, il tempo, delle limitazioni della libertà non coincide per tutti i titoli-reati, nel senso che possono distinguersi, con estrema precisione, il periodo di limitazione della libertà sofferta per il titolo-reato per il quale si è avuto il proscioglimento per prescrizione e il periodo di limitazione della libertà - oltre e, nel caso di specie, ben oltre, quella soglia - sofferta soltanto per il titolo-reato per il quale v'è stato il proscioglimento nel merito, non v'è nessuna ragione per negare l'equa riparazione per questo secondo periodo di limitazione della libertà». Alla base di tali pronunce vi sarebbe la tesi secondo cui al titolo cautelare venuto meno a seguito di proscioglimento per prescrizione «non può essere riferito un periodo corrispondente alla durata massima prevista dalla legge processuale, ma esclusivamente il periodo di detenzione cautelare pari all'entità della pena che sarebbe stata inflitta in caso di condanna». Le sezioni unite affermano di non condividere tali conclusioni dal momento che esse porterebbero a conseguenze che esorbitano dalla effettiva sfera precettiva dell'art. 314 cod. proc. pen. Tale disposizione, al comma 1, individua nella sentenza assolutoria nel merito il presupposto per il sorgere del diritto all'equa riparazione. Al comma 4 stabilisce poi che il diritto alla riparazione è escluso per quella parte della custodia cautelare che sia computata ai fini della determinazione della misura di una pena, secondo la regola della fungibilità ex art. 657 cod. proc. pen., ovvero per il periodo in cui le limitazioni conseguenti all'applicazione della custodia siano state sofferte anche in forza di altro titolo. Dalla lettura coordinata di tali disposizioni emergerebbe «l'intenzione del legislatore di escludere integralmente la riparazione per ingiusta detenzione in tutti i casi di proscioglimento non di merito e, a maggior ragione, di condanna, prescindendo totalmente dall'effettiva misura della pena applicabile o in concerto applicata, quand'anche questa risulti largamente inferiore al periodo di custodia cautelare effettivamente subita». Tuttavia, le sezioni unite dubitano della legittimità costituzionale dell'art. 314 cod. proc. pen. proprio «nella parte in cui esclude il diritto alla riparazione per la custodia cautelare che risulti superiore alla misura della pena inflitta, precludendo di riflesso - nell'ipotesi di più titoli cautelari con pari limiti di durata massima - la liquidazione dell'indennità in ordine all'imputazione per la quale è intervenuta assoluzione nel merito, anche se l'effettivo periodo di custodia cautelare risulti superiore alla misura della pena inflitta (o che sarebbe stata inflitta) per l'altra imputazione se il reato non fosse stato dichiarato prescritto». L'univoco tenore letterale della disposizione censurata precluderebbe la possibilità di interpretare la medesima in senso conforme a Costituzione. Nel medesimo senso deporrebbe la scelta di politica legislativa alla base dell'art. 314, comma 1, cod. proc. pen. il quale postula il proscioglimento nel merito per tutte le imputazioni. Tale disposizione, ad avviso della Suprema Corte, contrasterebbe, innanzitutto, con gli artt. 76 e 77 della Costituzione, in quanto non darebbe fedele attuazione della direttiva contenuta nell'art. 2, comma 1, n. 100 della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale). Infatti, a fronte dell'ampiezza del principio dettato dalla delega, nel quale non vi è alcuna limitazione in relazione al titolo della detenzione o alle ragioni dell'ingiustizia, il legislatore delegato avrebbe indiscriminatamente escluso dalla riparazione le ipotesi in cui la pena effettivamente inflitta per uno dei reati risulti inferiore alla durata della detenzione subita «pur apparendo quest'ultima, per una parte, 'ex po st' oggettivamente ingiusta». Inoltre, il legislatore delegato avrebbe disatteso la direttiva contenuta nell'art. 2, comma 1, della citata legge che impone di adeguarsi alle norme «delle convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale». Infatti, negando la riparazione del pregiudizio derivato dalla privazione della libertà personale per un periodo superiore alla misura della pena inflitta, si sarebbe discostato dall'art. 5, paragrafo 5, della Convenzione europea e dall'art. 9, paragrafo 5, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici che prevedono il diritto ad un indennizzo in caso di detenzione illegale senza alcuna limitazione. Il legislatore delegato si sarebbe, altresì, discostato dall'art. 5, paragrafo 3, della suddetta Convenzione, il quale riconosce il diritto ad ogni persona arrestata o detenuta ad essere giudicata in tempo congruo. La disposizione censurata, infatti, non riconoscerebbe il diritto alla riparazione pur quando il soggetto si trovi a subire una detenzione preventiva di lunga durata, superiore alla pena poi stabilita in quanto giudicato a notevole distanza dal fatto commesso. L'art. 314 cod. proc. pen. violerebbe, altresì, gli artt. 2, 13 e 24, quarto comma, Cost. Alla stregua di tali disposizioni costituzionali, dalle quali emerge il valore primario ed essenziale del principio di solidarietà e della libertà personale, la nozione di errore giudiziario - di cui l'art. 24 Cost. prevede la riparazione - dovrebbe comprendere «tutte le ipotesi di custodia cautelare che, essendo risultate 'ex post' obiettivamente ingiuste, rivelano l'erroneità della misura restrittiva adottata in quanto lesiva del bene della libertà personale». L'esclusione del diritto alla riparazione nell'ipotesi in cui il sacrificio della libertà personale abbia superato la misura della pena inflitta - tanto più ove tale divario tra custodia cautelare ed entità della pena dipenda da tempi non ragionevoli di durata del processo - contrasterebbe con i valori tutelati dalla Costituzione. Infine, sarebbe violato l'art. 3 della Costituzione sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto le limitazioni al diritto alla riparazione, alla quale la giurisprudenza costituzionale ha riconosciuto fondamento solidaristico, sarebbero inadeguate rispetto all'obiettivo di assicurare un'equa riparazione a restrizioni della libertà personale obiettivamente ingiuste. 2. - Anche la Corte d'appello di Trieste, con ordinanza del 30 marzo 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 77 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 314 cod. proc. pen. nella parte in cui non prevede il diritto alla riparazione per ingiusta detenzione per la durata della custodia cautelare che risulti superiore alla misura della pena inflitta. Il rimettente riferisce che l'imputato era stato sottoposto alla misura cautelare della custodia in carcere, dall'8 gennaio 1999 all'8 settembre 2000, per i reati di detenzione e porto in luogo pubblico di arma comune da sparo, ricettazione, detenzione e porto di arma comune clandestina, nonché tentato omicidio premeditato. La sentenza di primo grado, dopo aver derubricato tale ultimo reato in quello di lesioni personali volontarie pluriaggravate, condannava l'imputato alla pena di anni uno, mesi otto di reclusione e lire 3.000.000 di multa. La Corte d'appello, con sentenza n. 503 del 2004, del 17 giugno 2004, in parziale riforma della pred etta decisione, dopo aver ulteriormente derubricato il reato di lesioni volontarie in quello di lesioni personali colpose (art. 590 cod. pen.), dichiarava non doversi procedere in ordine a tale reato per difetto di querela e rideterminava la pena, per gli altri reati, in anni uno, mesi due, giorni venti di reclusione e euro 1.600,00 di multa, concedendo altresì il beneficio della sospensione condizionale della pena. Il rimettente, ritenuto di non poter accogliere l'istanza di riparazione per l'intero periodo di custodia cautelare, essendo essa riferita a tutti i reati contestati (e non solo a quella di tentato omicidio), rileva che nella fattispecie al suo esame la detenzione cautelare si è protratta per anni uno e mesi otto e cioè per un lasso di tempo superiore alla pena irrogata in secondo grado a seguito della dichiarazione di improcedibilità per difetto di querela in relazione al reato di cui all'art. 590 cod. pen. L'art. 314 cod. proc. pen., «come costantemente interpretato dalla Corte di cassazione», non consentirebbe, tuttavia, di ritenere ingiusta la detenzione subita e dunque di riconoscere il diritto alla riparazione. Ciò posto, il giudice a quo dà atto che la Corte di cassazione, a Sezioni unite penali, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della citata disposizione, in relazione agli artt. 76 e 77 Cost. nonché in relazione agli artt. 2, 3 e 24, quarto comma, Cost. Tale questione si attaglierebbe anche al caso al suo esame nel quale l'interessato ha sofferto un periodo di detenzione cautelare superiore alla pena detentiva inflittagli. Il rimettente ritiene che la suddetta questione di legittimità costituzionale sia rilevante anche nel procedimento al suo esame e sia non manifestamente infondata «per le ragioni e nei termini prospettati dall'ordinanza delle Sezioni unite della Corte di cassazione sopra citata, cui deve farsi integrale richiamo». Considerato in diritto 1. - Le Sezioni unite penali della Corte di cassazione dubitano della legittimità costituzionale dell'art. 314 del codice di procedura penale, «nella parte in cui non [vi] è previsto il diritto alla riparazione per la custodia cautelare che risulti superiore alla misura della pena inflitta», in riferimento agli artt. 2, 3, 13 (quest'ultimo evocato solo nella parte motiva dell'ordinanza di rimessione), 24, 76 e 77 della Costituzione. Analogamente, la Corte di appello di Trieste censura tale disposizione, nel medesimo senso, in riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 77 della Costituzione. 2. - I giudizi meritano di essere riuniti, in ragione dell'identità dell'oggetto delle questioni di legittimità costituzionale sollevate. 3. - L'ordinanza della Corte di appello di Trieste omette di motivare in ordine al requisito della non manifesta infondatezza della questione, limitandosi a dare conto della precedente ordinanza di rinvio delle Sezioni unite, e ad indicare taluni dei parametri che queste ultime hanno posto a fondamento della censura di legittimità costituzionale. A ciò non si accompagna alcuna autonoma argomentazione in ordine alle ragioni per le quali dall'esame di tali parametri discenderebbe il dubbio di costituzionalità: in conformità alla costante giurisprudenza di questa Corte, la questione così sollevata va dichiarata manifestamente inammissibile (si vedano, ex plurimis, le ordinanze n. 81 e n. 14 del 2008). 4. - La fattispecie sulla quale le Sezioni unite si trovano a decidere nasce dall'istanza proposta, ai fini della riparazione per l'ingiusta detenzione, da un soggetto che è stato sottoposto a custodia cautelare in carcere, in forza di più titoli relativi a reati per cui la legge prevede una uguale durata massima della misura restrittiva. Il rimettente riferisce che l'imputato è stato prosciolto con sentenza irrevocabile, ai sensi dell'art. 530 cod. proc. pen., dal più grave reato contestatogli, e condannato in primo grado alla pena di dieci mesi di reclusione, quanto all'ulteriore imputazione: in séguito, per quest'ultima, la corte di appello, sull'impugnazione proposta dal solo imputato, ha pronunciato sentenza di non doversi procedere, stante l'estinzione del reato per sopraggiunta prescrizione. L'istante muove dalla premessa, secondo cui il mancato appello da parte del pubblico ministero in relazione alla pena inflitta in primo grado rende certo che essa, quand'anche il giudizio di appello si fosse concluso con una pronuncia sul merito dell'imputazione, non avrebbe potuto superare i dieci mesi di reclusione. Ne seguirebbe che al titolo di custodia cautelare, concernente il reato per il quale non è intervenuta sentenza di assoluzione nel merito, potrebbe venire riferito un periodo detentivo pari a dieci mesi, mentre la residua e più lunga fase detentiva sarebbe riconducibile esclusivamente all'imputazione per la quale, invece, vi è stato proscioglimento nel merito: essa, pertanto, dovrebbe venire indennizzata, in forza del primo comma dell'art. 314 cod. proc. pen. Il giudizio a quo muove, pertanto, da una particolare ipotesi di convergenza di titoli di custodia cautelare in carcere: ciò nonostante, l'intervento sollecitato a questa Corte ha per oggetto, in termini più generali, la legittimità costituzionale della disciplina relativa alla riparazione per l'ingiusta detenzione, nella parte in cui essa si applica alle sole ipotesi di assoluzione nel merito, e non anche al caso in cui il reo, non assolto nel merito, abbia scontato un periodo di custodia cautelare. È evidente che, in tal modo, il perimetro del giudizio costituzionale si colloca entro un'area che si rivela di carattere indennitario: la riparazione spetta infatti a chi sia prosciolto irrevocabilmente nel merito, quand'anche sussistessero in origine le condizioni richieste ai fini della misura cautelare. Altro profilo, che esula dall'oggetto del presente giudizio, presentano viceversa i casi in cui alcune condizioni di applicabilità non fossero presenti, quando la custodia cautelare è stata disposta, ovvero è stata mantenuta in essere. Il rimettente ritiene che l'accoglimento dell'istanza su cui deve decidere sia irrimediabilmente precluso dal divieto, ricavabile in forza della sola lettura dell'art. 314, comma 1, cod. proc. pen., di concedere riparazione indennitaria quando il proscioglimento non abbia il carattere assolutorio nel merito. Difatti, tale divieto osterebbe all'operazione interpretativa, pure sperimentata da talune precedenti decisioni della Corte di cassazione, a sezione semplice, di ascrivere al titolo detentivo per il quale è intervenuta condanna il solo periodo pari alla misura della pena inflitta, ritenendo invece indennizzabile il periodo ulteriore, in quanto non più giustificato dal titolo a cui è seguito, invece, il proscioglimento nel merito. Secondo le Sezioni unite, solo muovendo da l postulato della riparabilità della custodia cautelare che abbia ecceduto la pena inflitta (allo stato preclusa dalla lettera dell'art. 314 cod. proc. pen.) si potrebbe contenere entro l'invalicabile limite di siffatta pena la fase custodiale non indennizzabile, concedendo viceversa la riparazione per il periodo eccedente. In caso contrario, l'intero termine, pari alla durata massima della custodia cautelare, verrebbe giustificato alla luce del titolo in relazione al quale non vi è stata assoluzione nel merito, impedendo la riparabilità del periodo che eccede la pena concretamente commisurata dal giudice, e conseguentemente precluderebbe l'apprezzamento di tale ultimo periodo in relazione al titolo su cui si è formato il giudicato di assoluzione. Il passaggio da una fattispecie peculiare di convergenza di titoli di custodia alla richiesta di dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 314 cod. proc. pen. nella più ampia misura sopra esposta non comporta l'irrilevanza della questione. Non spetta infatti a questa Corte sindacare analiticamente i passaggi logico-giuridici che il giudice a quo ha compiuto per approdare alla conclusione appena riassunta: è sufficiente porre in rilievo, invero, che essi sono adeguatamente motivati (sentenze n. 39 del 2008 e n. 50 del 2007). Attraverso siffatta motivazione, il rimettente è giunto a ritenere, tramite un apprezzamento non privo di plausibilità, che l'istanza oggetto del giudizio principale possa essere accolta, solo a seguito dell'introduzione nel testo dell'art . 314 cod. proc. pen. di una nuova ipotesi di riparazione dell'ingiusta detenzione, per i casi in cui la custodia cautelare subita ecceda la pena inflitta tramite la condanna, e che tale introduzione sia costituzionalmente imposta, alla luce dei parametri evocati. Entro questi termini, è palese che la lettera stessa dell'art. 314 cod. proc. pen. si oppone ad un'esegesi di tale disposizione condotta secondo i canoni dell'interpretazione costituzionalmente conforme: tale circostanza segna il confine, in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimità costituzionale. L'ammissibilità di quest'ultimo, per non avere il rimettente esplorato la via dell'interpretazione conforme, non è infatti pregiudicata dalla presenza di pronunce giudiziali che abbiano sì conseguito l'adeguamento della norma alla Costituzione, ma per il tramite di interpretazioni eccentriche e palesemente contrarie al dettato letterale della legge. Le ragioni che hanno consentito di definire in tali termini l'oggetto del presente processo incidentale sono le medesime che, in direzione contraria, si oppongono ad un allargamento dei confini del giudizio costituzionale oltre il limite segnato dall'ordinanza di rimessione: questa Corte è oggi chiamata a decidere esclusivamente se sia costituzionalmente ammissibile che, in caso di detenzione cautelare sofferta, quest'ultima non fosse causa di riparazione ove l'interessato non sia stato prosciolto nel merito. A tale ipotesi il giudice a quo riconduce il caso, oggetto del processo principale, in cui, nonostante non vi sia stata condanna definitiva in ragione della sopraggiunta prescrizione del reato, tuttavia si sia formata una preclusione processuale a riesaminare la pena inflitta in primo grado, poiché non appellata dal pubblico ministero. Si tratta, anche per tale verso, di una valutazione che, in quanto non implausibile, compete al solo rimettente, e che non incide sui requisiti di ammissibilità del presente giudizio. 5. - In primo luogo, il giudice a quo dubita che l'art. 314 cod. proc. pen. sia conforme agli artt. 76 e 77 della Costituzione, posto che, restringendo la riparazione di carattere indennitario alle sole ipotesi di assoluzione nel merito, esso avrebbe violato l'art. 2, comma 1, numero 100, della legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale), il quale prevede che il legislatore delegato disciplini la «riparazione dell'ingiusta detenzione e dell'errore giudiziario». A sostegno di tale dubbio, il rimettente rileva che questa stessa Corte, pronunciandosi sull'art. 314 cod. proc. pen. ha evidenziato che la legge delega «enuncia la direttiva della riparazione dell'ingiusta detenzione, senza porre alcuna limitazione circa il titolo della detenzione stessa o le 'ragioni' dell'ingiustizia» (sentenze n. 231 e n. 413 del 2004). Tuttavia, il giudice a quo omette di considerare che tali pronunce sono state rese dalla Corte al fine di avallare l'estensione in via interpretativa del campo di applicabilità dell'art. 314 cod. proc. pen. ad ipotesi (rispettivamente, l'arresto provvisorio e l'applicazione provvisoria di misura custodiale su domanda di Stato estero che si accerti carente di giurisdizione; l'archiviazione per morte del reo, quando i coimputati risultano prosciolti nel merito, perché il fatto non sussiste) che, secondo i giudici a quibus, non vi erano ricomprese. Ipotesi, è necessario aggiungere, che sono parse corrispondenti alla ratio cui si ispira la disciplina della riparazione per ingiusta detenzione, ed ai casi ivi espressamente previsti, sicché, proprio nel raffront o con tali ultimi casi, si è appalesata priva di rilievo la circostanza che il titolo formale, ovvero la "ragione" che avevano condotto alla detenzione, non fossero immediatamente corrispondenti alla fattispecie astratta della norma censurata. Proprio l'irrilevanza del tratto formale, a fronte della identità di ragione giustificatrice, hanno in tali casi consentito, ed anzi reso necessario, il ricorso ad un'interpretazione costituzionalmente orientata, alla luce della previsione recata dalla legge delega. Tutt'altra questione sarebbe, invece, ritenere che l'«ingiustizia» della detenzione debba, per vincolo così imposto dal legislatore delegante, venire affidata al mero apprezzamento dell'interprete, senza che il legislatore delegato possa realizzare quel «naturale rapporto di riempimento che lega la norma delegata a quella delegante», in assenza del quale si avrebbe uno «snaturamento del ben diverso regime che la Costituzione ha inteso prefigurare», quanto a simile rapporto (sentenze n. 308 del 2002 e n. 4 del 1992). In quest'ottica, non vi sono ragioni per ritenere che la legge delega abbia voluto introdurre direttamente una clausola generale di riparabilità della detenzione "ingiusta", che sia affidata al filtro dell'interprete, anziché a quello "fisiologico" (sentenza n. 198 del 1988) della norma delegata. Anzi, poiché all'epoca della emanazione della delega era ancora dibattuta la questione degli àmbiti entro cui dovesse qualificarsi come ingiusta la detenzione e dunque riconoscersi il diritto alla riparazione ai sensi dell'art. 24 della Costituzione, deve ritenersi che con l'ampiezza dell'espressione utilizzata il legislatore delegante abbia voluto rimettere al legislatore delegato l'individuazione e la specificazione di tali ipotesi, sia pure nel rispetto dei princípi e dei criteri direttivi enucleabili dalla delega. Piuttosto, è vero quanto sottolineato dal giudice a quo circa la necessità, più volte ribadita da questa Corte (sentenze n. 251 e n. 109 del 1999; n. 310 del 1996; n. 373 del 1992 e n. 344 del 1991), che le norme del codice di procedura penale si adeguino alle norme interposte ai fini del giudizio di costituzionalità, costituite dalle «convenzioni internazionali ratificate dall'Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale» (art. 2, comma 1, della legge n. 81 del 1987); da queste, infatti, ben possono essere tratti princìpi e criteri direttivi idonei ad indirizzare, di volta in volta, la pur presente, ma limitata discrezionalità (sentenze n. 224 del 1990; n. 156 del 1987; n. 56 del 1971 e ordinanza n. 228 del 2005) del legislatore delegato. In ordine alla disciplina della riparazione per ingiusta detenzione, il rimettente richiama, in particolare, l'art. 5, paragrafo 5, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata con la legge 4 agosto 1955, n. 848, e l'art. 9, paragrafo 5, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966, e reso esecutivo con la legge 25 ottobre 1977, n. 881. Tuttavia, tali disposizioni non valgono a sorreggere le conclusioni cui giungono le Sezioni unite. Ai sensi dell'art. 9, paragrafo 5, del Patto, «chiunque sia stato vittima di arresto o detenzione illegali ha diritto a un indennizzo». In forza di tale dizione letterale, nonché dell'ulteriore previsione recata dall'art. 3 della legge n. 881 del 1977, secondo cui è illegale l'arresto o la detenzione «arbitrariamente» disposte (art. 9, paragrafo 1), in difetto dei «motivi» e in contrasto con la «procedura» previsti dalla legge, appare chiaro che tale fonte internazionale pattizia ha per oggetto le sole ipotesi, riconducibili al comma 2 dell'art. 314 cod. proc. pen., nelle quali, a prescindere dal successivo esito del giudizio di merito, difettassero in origine le condizioni legali per applicare o mantenere in vigore una misura custodiale. Per il medesimo motivo, privo di conferenza è il rinvio all'art. 5, paragrafo 5, della CEDU, secondo il quale «ogni persona vittima di arresto o di detenzione eseguiti in violazione alle disposizioni di questo articolo ha diritto ad un indennizzo». Il diritto all'indennizzo consegue ogni qual volta taluno sia stato privato della libertà personale al di fuori dei casi indicati dalla legge nazionale e previsti dal paragrafo 1 dell'art. 5, ovvero in violazione delle modalità e dei tempi disciplinati dai successivi paragrafi 2, 3 e 4. In particolare, il paragrafo 1, lettera c) dell'art 5 consente la detenzione, in base alla legge nazionale, di chi sia stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all'autorità giudiziaria competente; all'interpretazione di questa disposizione da parte della Corte EDU occorre riferirsi secondo quanto chiarito da questa Corte nelle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007. Quest'ultima ha più volte affermato che l'art. 5 esige che la privazione della libertà sia conforme al fine di proteggere la persona da arbìtri (sentenza relativa all'affaire n. 26629/95 Witold Litwa c. Polonia e sentenza relativa all'affaire n. 24952/94 N.C. c. Italia), ovvero di impedire, in armonia con il nucleo costitutivo dell'habeas corpus, che la libertà personale possa venire offesa in difetto di un provvedimento adottato da un tribunale indipendente, e al di fuori dei casi previsti dalla legge. Quando, pertanto, la detenzione è in esecuzione di una decisione giudiziaria, essa è regolare, in via di principio (Grande Camera, sentenza Benham c. Regno Unito, relativa all'affaire 7/1995/513/597). È ben vero che la Corte EDU invita i giudici nazionali, riservando a sé stessa tale compito in seconda battuta, a verificare altresì che la privazione della libertà sia necessaria, tenendo conto delle circostanze (sentenza relativa all'affaire n. 26629/95 N.C. c. Italia), ma tale scrutinio resta comunque vincolato alla ricerca di eventuali elementi di arbitrio (sentenza relativa all'affaire n. 42644/02 Picaro c. Italia) che contagino la fattispecie concreta e la inquadrino nella luce della indebita restrizione della libertà: in nessun modo l'art. 5, secondo la sua portata letterale e secondo l'interpretazione consolidata della Corte di Strasburgo, si spinge fino a disciplinare l'ipotesi, propria del presente giudizio incidentale, in cui taluno sia stato soggetto, in conformità alla legge nazionale, a custodia cautelare e sia stato condannato a pena che risulti inferiore al periodo restrittivo a tale titolo imputabile. In tal caso, infatti, non vi è questione circa la legittimità della custodia cautelare, né si tratta di riparare all'arbitrio perpetrato dai pubblici poteri: si assume, viceversa, che la detenzione fosse fondata su un titolo conforme alla legge, e si pone all'attenzione della Corte tutt'altro genere di quesito. Le Sezioni unite inoltre rilevano, sempre secondo la visuale della censura per violazione della norma interposta richiamata nella legge delega, che il paragrafo 3 dell'art. 5 della CEDU impone di giudicare chi sia posto in stato di custodia cautelare «entro un termine ragionevole», ovvero di porlo in libertà, se ciò non sia possibile. Vi sarebbe, pertanto, una «stretta connessione» tra la questione della legittima durata della custodia cautelare e quella dei ragionevoli tempi di definizione del processo, che si riverbererebbe fino all'incostituzionalità dell'art. 314 cod. proc. pen., nei termini sopra indicati. La Corte osserva a tale proposito che il diritto all'indennizzo previsto dall'art. 5 della CEDU a favore di chi, nelle condizioni sopra ricordate, non sia giudicato entro un tempo ragionevole, spetta per l'eccessiva durata della custodia cautelare, imposta dai tempi del procedimento penale, ma non ha alcun necessario legame normativo con la distinta questione, posta nell'attuale giudizio, concernente il rapporto tra tale durata e la pena eventualmente inflitta: esso in astratto potrebbe denunciare un carattere squilibrato, anche in caso di celere, o comunque temporalmente tollerabile, definizione del processo penale. La protrazione di quest'ultimo per lungo arco di tempo senza dubbio rende meno improbabile l'ipotesi che il reo sia condannato ad una pena detentiva inferiore alla custodia subita a titolo cautelare e mantenuta in essere nel corso del processo, sia pure entro gli invalicabili limiti di legge. Tuttavia, tale circostanza costituisce con ogni evidenza un inconveniente fattuale, che non discende necessariamente dal portato normativo della disposizione impugnata e che pertanto sfugge, entro questi termini, al controllo di costituzionalità (sentenza n. 375 del 2006). La censura fondata sugli artt. 76 e 77 della Costituzione è per tali ragioni infondata. 6. - Resta da esaminare la censura di incostituzionalità dell'art. 314 cod. proc. pen. formulata dalle Sezioni unite con riferimento agli artt. 2, 3, 13 (quest'ultimo, indicato nella sola parte motiva dell'ordinanza di rinvio) e 24, quarto comma, della Costituzione. Questa Corte ha già avuto modo di pronunciarsi sulla disciplina concernente la riparazione dell'errore giudiziario con la sentenza n. 1 del 1969, che risale ad epoca ben precedente alla formulazione dell'odierna norma in esame, e che ebbe infatti ad oggetto l'allora vigente art. 571 cod. proc. pen. In quell'occasione, la Corte, chiamata dal giudice a quo ad estendere l'àmbito applicativo di tale disciplina in forza dell'art. 24, ultimo comma, della Costituzione, dovette arrestarsi a fronte della constatazione per cui il difetto di una compiuta legislazione, tesa a regolare gli aspetti sostanziali e procedurali dell'istituto della riparazione, non avrebbe potuto essere supplito da una pronuncia costituzionale, giacché «una eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale che si fondasse sulla sola parzialità della disciplina, rischierebbe intanto di condurre ad un regresso della situazione normativa, riaprendo un vuoto che non sarebbe colmabile in sede di interpretazione». È agevolmente verificabile che tale condizione ostativa è ormai venuta meno, proprio a sèguito dell'introduzione nel corpo del nuovo codice di procedura penale dell'art. 314. Tramite tale disposizione, il legislatore ha mostrato la volontà di attrarre nell'area della riparazione ipotesi che esulano dalla erroneità del provvedimento giurisdizionale posto a base della detenzione, per abbracciare casi recanti una «oggettiva lesione della libertà personale, comunque ingiusta alla stregua di una valutazione ex post» (sentenze n. 413, n. 231 e n. 230 del 2004; n. 446 del 1997). Nel contempo, è stato analiticamente configurato un istituto, che si presta, quanto alle modalità applicative, ad essere esteso ad ogni ulteriore ipote si che si rivelasse costituzionalmente imposta. La sentenza n. 1 del 1969 appare quindi superata per questa parte dall'evoluzione dell'ordinamento giuridico, come già evidenziato da questa Corte con la sentenza n. 310 del 1996, la quale ha riconosciuto che «è proprio l'art. 314 c.p.p. a porsi come disciplina concretizzatrice della disposizione di principio contenuta nell'art. 24» della Costituzione. Essa permane viceversa integra e vitale, quanto all'affermazione, che ne costituiva il fondamento, per la quale «l'ultimo comma dell'art. 24 della Costituzione enuncia un principio di altissimo valore etico e sociale, che va riguardato - sotto il profilo giuridico - quale coerente sviluppo del più generale principio di tutela dei diritti inviolabili dell'uomo (art. 2), assunto in Costituzione tra quelli che stanno a fondamento dell'intero ordinamento repubblicano, e specificantesi a sua volta nelle garanzie costituzionalmente apprestate ai singoli diritti individuali di libertà, ed anzitutto e con più spiccata accentuazione a quelli tra essi che sono immediata e diretta espressione della personalità umana». Nell'attuale giudizio, tale principio merita di essere apprezzato non solo con riguardo all'art. 24, ultimo comma, della Costituzione, ma anche alla luce dei parametri costituzionali evocati dal rimettente, ovvero degli artt. 2, 3 e 13 della Costituzione. «Il fine ultimo dell'organizzazione sociale» è, infatti, «lo sviluppo di ogni persona umana» (sentenza n. 167 del 1999), il cui valore si pone al centro dell'ordinamento costituzionale: compete al legislatore approntare il più efficace dei sistemi di tutela, affinché esso non venga compromesso. L'inviolabilità di un diritto, ed in questo caso della libertà personale, non è infatti vuota proclamazione della Carta, ma esprime, al contrario, una «preminente forza dei principi costituzionali», tale da opporsi «ad una ricostruzione del sistema che si tradurrebbe in una lesione di essi» (sentenza n. 232 del 1998). È, in altri termini, necessario che sia il legislatore, sia l'interprete si orientino, ciascuno nell'àmbito delle rispettive competenze, verso il riconoscimento del più efficace degli strumenti di tutela a disposizione per prevenire e, se ciò non sia possibile, per fornire ristoro alla lesione di tale diritto inviolabile. La Carta costituzionale, infatti, «impone di impedire la costituzione di situa zioni prive di tutela che possano pregiudicare l'attuazione» del «nucleo irriducibile» dei diritti inviolabili (sentenze n. 252 del 2001, n. 509 del 2000, n. 309 del 1999 e n. 267 del 1998). Questa Corte è ben consapevole che una riparazione di carattere patrimoniale, venendo a monetizzare il sacrificio di una libertà inviolabile, ne costituisce un pallido rimedio, cui debbono sempre venir preferiti strumenti capaci di evitare o limitare il danno, ovvero di reintegrarlo in forma specifica. E tuttavia tale argomento non può valere certamente ad escludere la via della tutela risarcitoria o indennitaria quando, di fatto, essa sia l'unica praticabile nell'ordinamento: si è già ritenuto, a tale proposito, che l'azione risarcitoria costituisce tecnica di tutela della situazione giuridica lesa, alla natura della quale si conforma (sentenza n. 204 del 2004). Ugualmente, questa Corte ha anche di recente sottolineato l'esigenza di garantire l'integrale riparazione del danno subito nei valori propri della persona, anche in riferimento all'art. 2 della Costituzione (sentenza n. 233 del 2003). Ed anzi, si è a maggior ragione affermata l'incostituzionalità del difetto di tutela risarcitoria, in seno a discipline costruite per tutelare i diritti inviolabili della persona umana, ove esse siano «estrinsecazione di un principio solidaristico» (sentenza n. 561 del 1987). Non si può, peraltro, ignorare che una compressione della libertà personale può derivare dalla necessità di perseguire, tramite tale strumento e nel rispetto della riserva di legge e di giurisdizione, finalità dotate di pari dignità costituzionale. In tali casi, ove sia corretto il punto di bilanciamento raggiunto dalla legge tra gli interessi confliggenti, la liceità degli atti e delle condotte tramite i quali la libertà inviolabile è parzialmente sacrificata, pur opponendosi alla configurazione di strumenti risarcitori di tutela, non costituisce valida ragione per escludere, in forza dell'inderogabile dovere di solidarietà, il ristoro indennitario «dovuto per il semplice fatto obiettivo e incolpevole dell'aver subito un pregiudizio non evitabile, in un'occasione dalla quale la collettività nel suo complesso trae un beneficio» (sentenza n. 118 del 1996). Anzi, tale ristoro diviene, a queste condizioni, costituzionalmente necessario: questa Corte ha ripetutamente affermato simile principio, con riguardo al danno incolpevole patito da chi, per esigenze di tutela della collettività, sia stato assoggettato a vaccinazione obbligatoria e, imprevedibilmente, ne abbia riportato un danno alla salute (sentenze n. 118 del 1996, n. 258 del 1994 e n. 307 del 1990). L'istituto della riparazione per l'ingiusta detenzione previsto dall'art. 314, comma 1, cod. proc. pen. condivide tale finalità solidaristica (sentenza n. 109 del 1999 e n. 446 del 1997), giacché disciplina un'ipotesi in cui il provvedimento cautelare, restrittivo della libertà personale, è sorto ed è stato mantenuto in vigore legittimamente, ma si è rivelato solo ex post "ingiusto", in ragione dell'assoluzione nel merito dell'imputato. Le esigenze di tutela della collettività hanno imposto, e legittimato, una misura, il cui pregiudizio in capo all'imputato si è potuto apprezzare solo all'esito del processo penale, permanendo peraltro lecito, proprio alla luce di dette esigenze, e dell'osservanza delle condizioni richieste dalla legge per soddisfarle. Per tale evenienza, nonostante il difetto delle condizioni per il riconoscimento di una tutela risarcitoria, il legislatore ha ritenuto di rimediare alla oggettiva lesione del diritto inviolabile tramite una misura indennitaria, affidata, quanto alla fase di liquidazione, alla valutazione equitativa del giudice, che potrà in tal modo trovare, caso per caso, il ristoro adeguato alla sofferenza incolpevolmente patita dall'individuo. Tuttavia, l'art. 314 cod. proc. pen. condiziona espressamente tale rimedio alla circostanza per cui, all'esito del giudizio, l'imputato sia stato prosciolto nel merito. Tale limitazione viene contestata, sul piano della legittimità costituzionale, dalle Sezioni unite, le quali assumono a causa dell'impedimento nel configurare il diritto alla riparazione «per la parte (di custodia cautelare) eccedente l'entità della pena in concreto inflitta» proprio l'univoca norma che subordina la possibilità di riparazione per l'ingiusta detenzione al fatto che l'imputato sia stato prosciolto con sentenza irrevocabile di merito. Tramite la disposizione censurata, il legislatore ha pertanto inteso normare gli effetti della custodia cautelare, a processo concluso, in relazione all'esito del giudizio sulla responsabilità penale dell'imputato. Tale scelta legislativa appare manifestamente irragionevole, e pertanto lesiva dell'art. 3 della Costituzione. Non è infatti costituzionalmente ammissibile, sotto tale profilo, che l'incidenza che la custodia cautelare ha esercitato sul bene inviolabile della libertà personale dell'individuo, nella fase anteriore alla sentenza definitiva, possa venire apprezzata con esclusivo riferimento all'esito del processo penale, e per il solo caso di assoluzione nel merito dalle imputazioni. Se, infatti, un sacrificio della libertà personale vi è stato durante la fase della custodia cautelare, il meccanismo solidaristico della riparazione non può che attivarsi anche per tale caso, quale che sia stato l'esito del giudizio, e pertanto anche ove sia mancato il proscioglimento nel merito. È, per tale ragione, palesemente privo di ragionevolezza che il legislatore pretenda di apprezzare la ricorrenza delle condizioni necessarie ai fini della riparazione alla luce dell'esito della vicenda processuale concernente il merito dell'imputazione, e non già della sola lesione verificatasi durante l'applicazione della misura custodiale. Per apprezzare quest'ultima, non è poi certamente possibile limitarsi a constatare la legalità del procedimento di applicazione della misura cautelare: invero, le guarentigie attorno alle quali si deve costituire il nucleo irriducibile dell'inviolabilità del diritto apparirebbero ben misero presidio, se esse fossero soddisfatte dalla mera osservanza della riserva di legge e della riserva di giurisdizione contenute nell'art. 13 della Costituzione, senza accompagnarsi all'imposizione di un fine costituzionalmente tracciato che le giustifichi sostanzialmente, per la parte in cui esse si rendono strettamente e necessariamente strumentali al suo perseguimento. Tale elemento è il proprium dell'inviolabilità del diritto nei confronti del legislatore ordinario, la cui osservanza è affidata al controllo di costituzionalità di questa Corte. Le finalità costituzionali proprie delle misure cautelari, che incidono sulla libertà personale nel corso del procedimento penale, sono state individuate, con consolidata giurisprudenza di questa Corte, «unicamente in vista della soddisfazione di esigenze di carattere cautelare o strettamente inerenti al processo» (sentenze n. 64 del 1970 e n. 1 del 1980) Pertanto, i «limiti che deve incontrare la durata della custodia cautelare, discendono direttamente dalla natura servente che la Costituzione assegna alla carcerazione preventiva rispetto al perseguimento delle finalità del processo, da un lato, e alle esigenze di tutela della collettività, dall'altro, tali da giustificare, nel bilanciamento tra interessi meritevoli di tutela, il temporaneo sacrificio della libertà personale di chi non è ancora stato giudicato colpevole in via definitiva» (sentenza n. 229 del 2005; si vedano, inoltre, le sentenze n. 223 del 2006; n. 292 e n. 232 del 1998; n. 15 del 1982; le ordinanze n. 397 del 2000 e n. 269 del 1999). Ove, tuttavia, la durata della custodia cautelare abbia ecceduto la pena successivamente irrogata in via definitiva è di immediata percezione che l'ordinamento, al fine di perseguire le predette finalità, ha imposto al reo un sacrificio direttamente incidente sulla libertà che, per quanto giustificato alla luce delle prime, ne travalica il grado di responsabilità personale. Tale sacrificio non cessa per tale ragione di essere apprezzato in termini di piena legittimità: una circostanza sopravvenuta non incide sul giudizio di conformità della restrizione della libertà personale in fase cautelare alla fattispecie legale. Ma non è questo il punto in discussione: si tratta invece di decidere se il perseguimento di obiettive esigenze connesse alla tutela della collettività non solo consente la compressione di un diritto inviolabile, alle condizioni e nei casi previsti dalla legge, ma permette altresì al legislatore di negare l'attivazione di meccanismi solidaristici di riparazione del sacrificio, seppure introdotti e disciplinati compiutamente per altri analoghi casi. La risposta a tale quesito non può che essere negativa: è anzi proprio la predisposizione di misure cautelari incidenti sulla libertà personale dell'individuo, e forgiate in rapporto ad esigenze generali ed obiettive alle quali l'imputato si trova soggetto, a nutrire il fondamento squisitamente solidaristico della riparazione per ingiusta detenzione e ad imporne costituzionalmente l'estensione alle ipotesi di detenzione cautelare sofferta in misura superiore alla pena irrogata o comunque a causa della mancata assoluzione nel merito.. In tal modo inquadrati i termini della questione sottoposta a questa Corte, risulta chiaro che solo in apparenza la posizione di chi sia stato prosciolto nel merito dall'imputazione penale si distingue da quella di chi sia stato invece condannato (quanto, ovviamente, al solo giudizio circa l'ingiustizia della custodia cautelare che soverchi la pena inflitta). In entrambi i casi, l'imputato ha subito una restrizione del proprio diritto inviolabile. In entrambi i casi, pertanto, ricorre l'obbligo costituzionale di indennizzare il pregiudizio. Assumendo in considerazione la prima ipotesi soltanto, ed omettendo di disciplinare la seconda, il legislatore ha violato l'art. 3 della Costituzione. L'art. 314 cod. proc. pen. deve essere pertanto dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui, nell'ipotesi di detenzione cautelare sofferta, condiziona in ogni caso il diritto all'equa riparazione al proscioglimento nel merito dalle imputazioni. Naturalmente, una volta sancito il diritto alla riparazione, la quantificazione dell'indennizzo verrà compiuta dal giudice, nelle forme e secondo i criteri allo stato vigenti. Sotto tale prospettiva, la Corte ritiene opportuno sottolineare che il carattere di concretezza proprio di siffatta valutazione implica che la distinzione tra prosciolto e condannato, irrilevante ai fini dell'an debeatur, alle condizioni appena esposte, torni a manifestarsi in sede di determinazione del quantum debeatur. Per la parte in cui l'indennizzo si correla ad un ristoro del patimento morale subito dall'imputato, pare evidente, infatti, che il grado di sofferenza cui è esposto chi, innocente, subisca la detenzione sia in linea di principio amplificato rispetto alla condizione di chi, colpevole, sia ristretto per un periodo eccessivo rispetto alla pena. Spetterà, peraltro, ai giudici comuni valutare le peculiarità di ciascuna fattispecie loro sottoposta, al fine di adeguarvi l'indennizzo previsto dalla legge, alla luce della compromissione del fondamentale valore della persona umana. Naturalmente, la presente decisione non osta a che il legislatore, nell'esercizio della propria discrezionalità, possa in futuro revisionare l'istituto della riparazione nel rispetto delle fondamentali esigenze di tutela del valore primario della libertà personale dell'individuo. Questa sentenza, infatti, ha per oggetto - secondo quanto già osservato al punto 4 - la sola ipotesi, rilevante ai fini del giudizio a quo, in cui la pena definitivamente inflitta all'imputato, ovvero oggetto di una preclusione processuale che la sottragga a riforma nei successivi gradi di giudizio, risulti inferiore al periodo di custodia cautelare sofferto. Resta pertanto escluso il riconoscimento dell'indennizzo in fattispecie nelle quali la mancata corrispondenza tra detenzione cautelare e pena eseguita o eseguibile - se diversa da quella inflitta - consegua a vicende posteriori, connesse al reato o alla pena. In tali casi, infatti, si produce una situazione affatto diversa rispetto a quella che induce questa Corte a dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 314 cod. proc. pen. Sono assorbite le ulteriori censure svolte dal rimettente, con riguardo agli artt. 2, 13 e 24 della Costituzione. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 314 del codice di procedura penale, nella parte in cui, nell'ipotesi di detenzione cautelare sofferta, condiziona in ogni caso il diritto all'equa riparazione al proscioglimento nel merito dalle imputazioni, secondo quanto precisato in motivazione; dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 314 cod. proc. pen. sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 24 e 77 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Trieste con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Ugo DE SIERVO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3 e 4 della legge della Regione Valle D'Aosta/Vallée d'Aoste 29 dicembre 2006, n. 34 (Disposizioni in materia di parchi faunistici), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 23 marzo 2007, depositato in cancelleria il 29 marzo 2007 ed iscritto al n. 17 del registro ricorsi 2007. Visto l'atto di costituzione della Regione Valle d'Aosta; udito nell'udienza pubblica del 15 aprile 2008 il Giudice relatore Maria Rita Saulle; udito l'avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Francesco Saverio Marini per la Regione Valle d'Aosta. Ritenuto in fatto 1. - Con ricorso notificato il 23 marzo 2007 e depositato il successivo 29 marzo, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3 e 4 della legge della Regione Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste 29 dicembre 2006, n. 34 (Disposizioni in materia di parchi faunistici), per contrasto con l'art. 117, secondo comma, lettera s), in relazione all'art. 117, primo comma, della Costituzione, nonché con l'art. 2, lettera d), della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d'Aosta), in relazione alla direttiva del Consiglio n. 1999/22/CE del 29 marzo 1999, concernente la custodia degli animali selvatici nei giardini zoologici, ed al decreto legislativo 21 marzo 2005, n. 73 (Attuazione della direttiva 1999/22/CE relativa alla custodia degli animali selvatici nei giardini zoologici). 1.1. - Il ricorrente rileva che, con la citata legge regionale n. 34 del 2006, la Regione Valle d'Aosta ha dato attuazione alla direttiva del Consiglio n. 1999/22/CE, definendo la struttura denominata parco faunistico e/o giardino zoologico e dettando i criteri generali per l'apertura dei parchi medesimi. Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, poiché oggetto della normativa comunitaria di settore e della normativa statale di recepimento sarebbe la protezione dell'ambiente, che si configura come «bene unitario, che può essere compromesso anche da interventi minori e che va pertanto salvaguardato nella sua interezza» (come stabilito dalle sentenze della Corte costituzionale n. 536 del 2002 e n. 67 del 1992), occorrerebbe preliminarmente «verificare se la disciplina dei parchi zoologici, oggetto della direttiva, attenga alla protezione dell'ambiente e, quindi, coinvolga la competenza costituzionale dello Stato (ai sensi dell'art. 117, primo e secondo comma, lettera s, Cost.)», nonché «individuare l'ambito di intervento norm ativo della Regione che non comprometta la salvaguardia del bene unitario». A tal fine, il ricorrente prende in esame il preambolo della citata direttiva, quale parametro di riferimento per l'individuazione delle relative finalità e della verifica del loro corretto recepimento nell'ordinamento interno, osservando come le stesse si realizzino per il tramite della struttura denominata «giardino zoologico» e definita nell'art. 2 della citata direttiva, in quanto attuativa delle «misure di conservazione» contenute nel successivo art. 3. Ad avviso del ricorrente, dette «misure di conservazione», in quanto dirette a soddisfare un interesse unitario, dovrebbero essere specificate con normativa statale, pur potendo essere oggetto di integrazione ad opera della normativa regionale laddove ciò sia giustificato da una «permanente o temporanea situazione di ambiente locale». 1.2. - Per il ricorrente, alla luce di tali considerazioni, la legge regionale n. 34 del 2006 - nel dare attuazione alla citata direttiva comunitaria, specificando le «misure di conservazione» della fauna selvatica non autoctona, in nome della competenza legislativa primaria spettante alla Regione Valle d'Aosta in forza dell'art. 2, lettera d), dello statuto speciale - sarebbe intervenuta «su una materia che rientra a pieno titolo nella tutela dell'ambiente e dell'ecosistema per qualificazione comunitaria», spettante allo Stato ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., «senza alcuna giustificazione correlata alla specifica, puntualmente individuata, situazione ambientale locale». In particolare, l'art. 4, disponendo che l'autorizzazione all'apertura dei parchi faunistici sia rilasciata con decreto dell'assessore regionale competente, sostituirebbe la previsione contenuta nella disciplina statale secondo cui la licenza è rilasciata dal ministro. Parimenti, l'art. 3, prevedendo «i requisiti richiesti per l'ottenimento dell'autorizzazione, la cui specificazione è demandata ad un successivo atto di Giunta», si sovrapporrebbe a quelli già compiutamente individuati in allegato al decreto legislativo n. 73 del 2005, essendo evidente la motivazione e la finalità unitaria della competenza statale in materia. Ad avviso del ricorrente, infatti, la realizzazione del principio di sussidiarietà, in funzione di garanzia della tutela dell'interesse comunitario, imporrebbe che la normativa statale assuma «il valore di norma di principio e di regime generale mentre quella locale di regime specifico». 1.3. - La illegittimità delle disposizioni impugnate discenderebbe, pertanto, dal fatto che le stesse si porrebbero come «norme di principio e di regime, anziché come norme integrative delle norme statali conformative alla particolare, specifica situazione agricola, zootecnica o faunistica regionale». 2. - Con memoria depositata in data 17 aprile 2007 si è costituita in giudizio la Regione Valle d'Aosta, chiedendo che le questioni di legittimità costituzionale promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate. 2.1. - Preliminarmente, la Regione resistente eccepisce che non vi sarebbe certezza in ordine all'atto comunitario effettivamente posto a parametro dello scrutinio di costituzionalità, in quanto nel corpo del ricorso risulta testualmente riportato il preambolo del regolamento del Consiglio n. 338/97 (CE) del 9 dicembre 1996, relativo alla protezione di specie della flora e della fauna selvatiche mediante il controllo del loro commercio, anziché quello alla direttiva n. 1999/22/CE. 2.2. - Quanto al merito delle questioni sollevate, la difesa regionale osserva, in via generale, che la legge regionale n. 34 del 2006 costituirebbe esercizio legittimo della competenza legislativa primaria in materia di fauna attribuita dall'art. 2, lettera d), dello statuto speciale alla Regione Valle d'Aosta. Invero, ad avviso della Regione, affermare che la disciplina dei parchi faunistici coinvolge «specifici profili rientranti nella più generale tutela dell'ambiente e dell'ecosistema», non equivarrebbe - come invece asserito dal ricorrente - ad affermare l'incompetenza della Regione in materia di ambiente e di ecosistema. 2.3. - Sotto il profilo del rispetto degli obblighi internazionali - da intendersi, secondo la pacifica giurisprudenza della Corte costituzionale, comprensivo anche degli obblighi comunitari -, quale limite statutario all'esercizio della competenza legislativa primaria, la difesa regionale osserva che la disciplina dettata dagli impugnati artt. 3 e 4 della legge regionale non si porrebbe in contrasto con le finalità e gli obiettivi perseguiti dalla direttiva 1999/22/CE, rispettando, sul piano contenutistico, sia le «misure di conservazione», sia il procedimento autorizzatorio previsti per l'esercizio e l'apertura dei giardini zoologici, rispettivamente, dagli artt. 3 e 4 della stessa direttiva comunitaria. 2.4. - Ad avviso della difesa regionale, inoltre, anche il profilo d'illegittimità costituzionale derivante dal dedotto contrasto della richiamata disciplina valdostana in materia di parchi faunistici con la normativa statale di attuazione della direttiva 1999/22/CE, costituita dal d.lgs. n. 73 del 2005, risulterebbe privo di fondamento. Al riguardo, la resistente osserva che la legge regionale n. 34 del 2006 si muoverebbe nell'àmbito delle competenze attribuite alla Regione dallo statuto, coerentemente con la espressa clausola di salvaguardia contenuta all'art. 11, comma 2, del d.lgs. n. 73 del 2005, secondo la quale «le regioni a statuto speciale e le province autonome di Trento e Bolzano provvedono alle finalità del presente decreto nell'àmbito delle competenze ad esse spettanti ai sensi degli statuti speciali e delle relative norme di attuazione». Pertanto, secondo la Regione Valle d'Aosta, non si tratterebbe, come invece affermato dal ricorrente, di una «ridisciplina della materia, ma del corretto esercizio della disciplina attuativa della direttiva spettante alla Regione nell'esercizio di una competenza legislativa primaria che ad essa è attribuita, ratione materiae, dallo Statuto speciale», nel rispetto delle finalità imposte agli Stati membri dalla direttiva medesima. 2.5. - Alla luce di tali considerazioni, emergerebbe, a detta di parte resistente, l'infondatezza delle argomentazioni svolte dal ricorrente in merito ad una «presunta vocazione integrativa» ovvero di «regime specifico» spettante al legislatore regionale in materia di parchi faunistici, posto che la conformità costituzionale delle disposizioni adottate nelle materie attribuite alla competenza legislativa primaria dall'art. 2 dello statuto speciale dovrebbe essere valutata «esclusivamente sul piano del rispetto sostanziale della disciplina comunitaria, e non alla stregua delle cosiddette norme di principio dettate dal decreto legislativo». 2.6. - Quanto allo specifico profilo concernente l'organo competente al rilascio dell'autorizzazione all'apertura e all'esercizio di parchi faunistici, la difesa regionale rileva che la censura rivolta all'art. 4 della legge regionale n. 34 del 2006 risulterebbe infondata anche per un altro ordine di considerazioni. Infatti, in materia di fauna, spetta alla Regione Valle d'Aosta non solo la potestà legislativa primaria ai sensi dell'art. 2, lettera d), dello statuto, ma anche la titolarità delle corrispondenti funzioni amministrative, in virtù dell'art. 4, primo comma, del medesimo statuto, secondo il noto principio del parallelismo delle funzioni. L'attribuzione ad un organo della Regione, in luogo del ministro competente per materi a, della funzione amministrativa consistente nel rilascio dell'autorizzazione all'apertura e all'esercizio dei parchi faunistici rappresenterebbe, pertanto, una puntuale applicazione dello statuto di autonomia. Considerato in diritto 1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato gli artt. 3 e 4 della legge della Regione Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste 29 dicembre 2006, n. 34 (Disposizioni in materia di parchi faunistici), per contrasto con l'art. 117, secondo comma, lettera s), in relazione all'art. 117, primo comma, della Costituzione, nonché con l'art. 2, lettera d), della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d'Aosta), in relazione alla direttiva del Consiglio n. 1999/22/CE del 29 marzo 1999, concernente la custodia degli animali selvatici nei giardini zoologici, ed al decreto legislativo 21 marzo 2005, n. 73 (Attuazione della direttiva 1999/22/CE relativa alla custodia degli animali selvatici nei giardini zoologici). Ad avviso del ricorrente, le disposizioni impugnate - prevedendo sia i requisiti necessari per «l'ottenimento dell'autorizzazione» all'apertura e all'esercizio dei parchi faunistici (art. 3), sia che «l'autorizzazione all'apertura e all'esercizio dei parchi faunistici e alla detenzione in essi di esemplari vivi di fauna selvatica» è rilasciata con decreto dell'assessore regionale competente tenuto conto dei suddetti requisiti (art. 4) - interverrebbero su una materia che «rientra a pieno titolo nella tutela dell'ambiente e dell'ecosistema per qualificazione comunitaria», riservata alla competenza statale ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., senza «alcuna giustificazione correlata alla specifica, puntualmente individuata, situazione ambientale local e». 2. - Le questioni di legittimità costituzionale, così come prospettate dal ricorrente, sono inammissibili. Il ricorrente omette di individuare puntualmente il regime costituzionale di ripartizione delle competenze rispetto al quale risulterebbe illegittima la disciplina di cui agli artt. 3 e 4 della legge regionale n. 34 del 2006, non chiarendo se a parametro delle questioni sollevate debbano ritenersi poste le norme dello statuto speciale di autonomia della Regione Valle d'Aosta (che, all'art. 2, lettera d), attribuisce alla Regione la competenza legislativa primaria in materia di «fauna» e, all'art. 4, stabilisce il principio del parallelismo per la titolarità delle funzioni amministrative), ovvero le norme contenute negli artt. 117 e 118 della Costituzione, relative alle Regioni ordinarie. Tale vizio di prospettazione non ha una valenza meramente formale, giacché - anche a prescindere dal mancato assolvimento dell'onere argomentativo imposto al ricorrente in forza dell'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione), circa l'applicabilità ad una Regione ad autonomia speciale delle norme costituzionali contenute negli artt. 117 e 118 Cost. - esso impedisce di ricostruire l'esatto perimetro del thema decidendum, a causa del differente regime di riparto delle competenze normative e amministrative stabilito dalla Costituzione rispetto a quello previsto dallo statuto speciale di autonomia. In conseguenza di ciò, deve dichiararsi l'inammissibilità delle questioni proposte con il ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3 e 4 della legge della Regione Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste 29 dicembre 2006, n. 34 (Disposizioni in materia di parchi faunistici), promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe, in riferimento all'art. 117, secondo comma, lettera s), in relazione all'art. 117, primo comma, della Costituzione, nonché all'art. 2, lettera d), della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d'Aosta), in relazione alla direttiva del Consiglio n. 1999/22/CE del 29 marzo 1999, concernente la custodia degli animali selvatici nei giardini zoologici, ed al decreto legislativo 21 marzo 2005, n. 73 (Attuazione della direttiva 1999/22/CE relativa alla custodia degli animali selvatici nei giardini zoologici). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Maria Rita SAULLE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 8, comma 4, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'art. 2 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), promosso dal Tribunale di Milano, nel procedimento civile vertente tra il Fallimento Editrice Portoria s.p.a. e la Arnoldo Mondadori Editore s.p.a., con ordinanza del 4 giugno 2007 iscritta al n. 776 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante. Ritenuto in fatto 1.-- Nel corso di una controversia concernente rapporti societari il Tribunale di Milano, in composizione collegiale, con ordinanza del 4 giugno 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 8, comma 4, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'art. 2 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), nella parte in cui stabilisce che «la mancata notifica dell'istanza di fissazione dell'udienza nei venti giorni successivi alla scadenza dei termini di cui ai commi precedenti, o del termine per il deposito della memoria di controreplica del convenuto di cui all'art. 7, comma 2, ovvero dalla scadenza del termine massimo di cui all'art. 7, comma 3, determina l'estinzione immediata del processo», anziché la cancellazione della causa dal ruolo. Il giudice remittente riferisce che, nella specie, dopo lo scambio di memorie previsto dagli artt. 6 e 7 del citato d.lgs. n. 5 del 2003, la parte attrice ha notificato l'istanza di fissazione dell'udienza di discussione di cui al censurato art. 8 e la parte convenuta, nel precisare le proprie conclusioni, ha eccepito l'intervenuta estinzione del processo, in quanto la suddetta notificazione è stata effettuata oltre il termine di venti giorni dalla notifica della memoria della controparte alla quale non si intendeva replicare, previsto dal comma 1, lettera c), del suddetto art. 8. Il giudice relatore, sul rilievo secondo cui la contestata notificazione è stata comunque effettuata nel termine di trenta giorni indicato dalla convenuta per la notificazione di eventuale memoria di replica, ha respinto la suddetta eccezione, emettendo i provvedimenti istruttori e fissando l'udienza collegiale di discussione. In tale sede la questione relativa alla pretesa estinzione del giudizio è stata riproposta. Per quel che riguarda la rilevanza della questione, il giudice a quo osserva che, non potendosi accedere alla tesi interpretativa adottata dal giudice relatore - in quanto, in base al «diritto vivente», i riferimenti temporali indicati dalla disposizione censurata, diversi da quello attualmente non rispettato, si riferiscono al caso in cui la controparte non abbia articolato proprie memorie di replica - il giudizio di cui si tratta dovrebbe essere dichiarato irrimediabilmente estinto. Quanto al merito della questione, il Tribunale, dopo aver ricordato che l'estinzione è una vicenda anomala del processo, finalizzata ad evitare la prosecuzione dell'attività processuale quando si verifichino fatti o circostanze ritenute dal legislatore incompatibili con la volontà delle parti di proseguire il giudizio, ritiene che la scelta legislativa di porre termini perentori sanzionati con l'estinzione immediata al fine di governare il delicato passaggio del giudizio alla fase apud iudicem si ponga, in primo luogo, in contrasto con gli artt. 24 e 111 Cost., perché del tutto sproporzionata ed irragionevole rispetto alla perseguita finalità acceleratoria. Invero, nel rito ordinario, in ipotesi analoghe è prevista la conseguenza, meno penalizzante, della cancellaz ione della causa dal ruolo, che può dare luogo all'estinzione del processo solo se seguita dall'omessa riassunzione della causa cancellata entro il termine di un anno. Del resto, nello stesso rito societario, nell'ipotesi di cui all'art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 5 del 2003 - in cui si verifica la mancata presentazione delle parti davanti al collegio per la sentenza contestuale (e, quindi, una manifestazione di disinteresse alla prosecuzione del giudizio ben più esplicita della semplice non tempestiva notifica dell'istanza di fissazione dell'udienza) - è prevista la cancellazione della causa dal ruolo. Di qui l'ulteriore contrasto della disposizione censurata con l'art. 3 Cost. per irragionevole disparità di trattamento rispetto alla suddetta fattispecie. 2.-- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo, anche in una memoria depositata in prossimità della camera di consiglio, una declaratoria di infondatezza della questione. Considerato in diritto 1.-- Il Tribunale di Milano, in composizione collegiale, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 8, comma 4, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), «nella parte in cui stabilisce che la mancata notifica dell'istanza di fissazione d'udienza nei venti giorni successivi alla scadenza dei termini di cui ai commi precedenti, o del termine per il deposito della memoria di controreplica del convenuto di c ui all'art. 7, comma 2, ovvero dalla scadenza del termine massimo di cui all'art. 7, comma 3, determina l'estinzione immediata del processo, anziché l'effetto di cancellazione della causa dal ruolo». Il remittente espone che in una causa, svolgentesi con il rito societario, il fallimento della società attrice ha notificato alla società convenuta l'istanza di fissazione dell'udienza oltre la scadenza dei venti giorni decorrenti dalla notifica della memoria di controparte alla quale non intendeva replicare; che il giudice relatore ha fissato l'udienza ed ha poi respinto l'eccezione di estinzione proposta dalla convenuta con provvedimento impugnato con reclamo, ritenuto inammissibile dal collegio; che l'eccezione è stata riproposta all'udienza collegiale al Tribunale investito del merito. Nel motivare sulla rilevanza, il Tribunale riferisce che l'istanza di fissazione dell'udienza è stata notificata alla convenuta il ventinovesimo giorno successivo alla data di notifica della memoria della medesima, cui l'attore non ha inteso replicare, e sostiene che la chiarezza della letterale formulazione della disposizione è tale da non consentire un'interpretazione diversa da quella che fa decorrere il termine perentorio dalla notifica della memoria di controparte, come nel caso in esame, o dagli altri eventi indicati nell'art. 8 del d.lgs. n. 5 del 2003. La questione, ad avviso del remittente, non è manifestamente infondata perché l'estinzione del giudizio è sanzione irragionevolmente grave soprattutto qualora si consideri che il sistema processuale prevede la meno severa misura della cancellazione della causa dal ruolo per ipotesi analoghe quale la mancata comparizione delle parti all'udienza. L'estinzione del giudizio prevista dalla disposizione censurata inciderebbe negativamente, impedendone il pieno esercizio, sul diritto di difesa e, quindi, sui principi del giusto processo. Si delinea così il contrasto della norma scrutinata con i parametri evocati degli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione. 2.-- La questione, ammissibile per la non implausibilità della motivazione sulla rilevanza, non è fondata. Si premette che questa Corte, con giurisprudenza costante, ha affermato che «il legislatore, nel regolare il funzionamento del processo, dispone della più ampia discrezionalità, sicché le scelte concretamente compiute sono sindacabili soltanto ove manifestamente irragionevoli» (ordinanza n. 7 del 1997, nonché, ex plurimis, sentenze n. 295 del 1995, n. 65 del 1996, n. 327 e n. 383 del 2007, ordinanza n. 376 del 2007). La disposizione in scrutinio non appare irragionevole alla stregua delle seguenti considerazioni. Anzitutto, la sanzione della estinzione per l'inosservanza del termine suddetto è in armonia con il criterio della celerità del giudizio che informa il rito societario e con la necessità di evitare stasi nello svolgimento del processo. Inoltre, la disposizione censurata attiene alla fase del procedimento che precede l'intervento del giudice, con la conseguente opportunità di una misura che, come l'estinzione, opera di diritto. Siffatto rilievo dimostra anche che non è pertinente il paragone con la disciplina della mancata comparizione delle parti in udienza, trattandosi di situazioni processuali diverse. Si osserva infine, da un lato, che la garanzia costituzionale del diritto di difesa non comporta la illegittimità di preclusioni e decadenze processuali e la conseguente necessità che ogni giudizio si concluda con una decisione di merito e, dall'altro, che l'estinzione del processo non incide, in linea generale, in modo definitivamente pregiudizievole sul diritto di azione e sul rapporto sostanziale dedotto in causa. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 8, comma 4, del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'art. 2 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Milano con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 4, del decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 7 (Misure urgenti per la tutela dei consumatori, la promozione della concorrenza, lo sviluppo di attività economiche e la nascita di nuove imprese), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 aprile 2007, n. 40 (Conversione in legge, con modificazioni, del D.L. 31 gennaio 2007, recante misure urgenti per la tutela dei consumatori, la promozione della concorrenza, lo sviluppo di attività economiche e la nascita di nuove imprese), promosso con ricorso della Regione Veneto, notificato il 29 maggio 2007, depositato in cancelleria il 6 giugno 2007 ed iscritto al n. 27 del registro ricorsi 2007. Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 20 maggio 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella; uditi l'avvocato Luigi Manzi per la Regione Veneto e l'avvocato dello Stato Danilo Del Gaizo per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. - Con ricorso del 29 maggio 2007, la Regione Veneto ha promosso varie questioni di legittimità costituzionale di più disposizioni del decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 7 (Misure urgenti per la tutela dei consumatori, la promozione della concorrenza, lo sviluppo di attività economiche e la nascita di nuove imprese), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 aprile 2007, n. 40, in quanto lesive dell'autonomia legislativa regionale o, comunque, del principio di leale collaborazione. Per quanto qui interessa, la Regione ricorrente impugna l'art. 10, comma 4, del d.l. n. 7 del 2007, nel testo modificato dalla legge di conversione n. 40 del 2007, che detta disposizioni relative all'esercizio delle attività di guida turistica e di accompagnatore turistico Tale disposizione - a giudizio della ricorrente - víola l'autonomia legislativa regionale in materia di turismo, nel cui àmbito ricade la disciplina delle professioni turistiche, riservata - ai sensi del quarto comma dell'art. 117 della Costituzione - alla competenza legislativa residuale della Regione. Del resto, la Regione Veneto, disciplinando con la legge regionale 4 novembre 2002, n. 33 (Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo ), in maniera organica l'intero settore, ivi comprese le professioni turistiche, ha individuato le relative figure professionali, ne ha disciplinato l'esercizio e ne ha definito le competenze, prevedendo, per l'esercizio delle stesse, il superamento di un esame di abilitazione, l'iscrizione ad un elenco provinciale e il rilascio di una licenza da parte dei Comuni. Secondo la ricorrente, la norma impugnata si pone in antitesi rispetto alla citata legge regionale n. 33 del 2002, mentre non vale invocare il principio comunitario di libera concorrenza, richiamato dal comma 1 dello stesso art. 10 al fine di affermare la competenza statale: il comma 4 dell'art. 10, nella sua interezza, appare inadeguato rispetto allo scopo di aprire le professioni turistiche al libero mercato. In particolare, del tutto irrazionale è la scelta del legislatore statale di consentire ai soli titolari di laurea in lettere con indirizzo in storia dell'arte o in archeologia o titolo equipollente l'esercizio dell'attività di guida turistica senza alcuna previa selezione, e, in maniera analoga, ai soli titolari di laurea o diploma universitario in materia turistica o titolo equipollente l'esercizio dell'attività di accompagnatore turistico senza ulteriore esame. Né, sotto altro profilo, il titolo di legittimazione dell'intervento statale nella materia de qua può rinvenirsi ipotizzando che le professioni turistiche siano «attratte» nella materia di competenza concorrente delle «professioni» (articolo 117, terzo comma, Cost.) a discapito della materia di competenza regionale esclusiva del «turismo», della quale le professioni turistiche sono parte integrante (viene richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 459 del 2005). Inoltre, la disposizione impugnata appare alla ricorrente non rispettosa della competenza (residuale esclusiva, ai sensi dell'art. 117, quarto comma, Cost.) regionale in materia di formazione professionale, nella parte in cui impone alle Regioni di promuovere sistemi di accreditamento per le guide turistiche specializzate in particolari siti, località e settori: le modalità organizzative e la disciplina del concreto svolgimento dell'attività formativa esterna sul territorio regionale rientrano tra le prerogative proprie delle Regioni (viene citata la sentenza della Corte costituzionale n. 51 del 2005), alle quali spetta di introdurre o meno particolari sistemi di accreditamento che abbiano come scopo quello di elevare la qualità dell'offerta del servizio di guida turistica. In ogni caso, secondo la ricorrente, l'intervento del legislatore statale risulta comunque lesivo del principio di leale collaborazione. 2. Nell'invocare la reiezione del ricorso, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, osserva che, fermi restando i profili di tutela della concorrenza, la norma impugnata regola aspetti dell'esercizio di un'attività professionale, rispetto ai quali l'incidenza nel campo turistico è del tutto ininfluente ai fini della ripartizione delle competenze prevista dall'art. 117 Cost., dovendosi piuttosto ricondurre la disciplina in esame alla materia delle «professioni» prevista dall'art. 117, terzo comma, Cost. Al riguardo - rileva l'Avvocatura generale - l'individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, rientrando nella competenza delle Regioni unicamente la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale (vengono richiamate le sentenze della Corte costituzionale n. 40 e n. 153 del 2006; n. 319, n. 355 e n. 424 del 2004; n. 353 del 2003). Infondata - ad avviso della difesa erariale - è altresì la censura relativa alla pretesa violazione del principio di leale collaborazione, il quale non impone affatto lo strumento dell'intesa per la fissazione dei princípi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente, e tanto meno allorché il legislatore statale legifera in materie rientranti nella propria competenza esclusiva. In prossimità dell'udienza, la Regione Veneto ha depositato una memoria illustrativa con la quale ha ribadito le proprie tesi difensive. Considerato in diritto 1.- La Regione Veneto ha impugnato, tra gli altri, l'art. 10, comma 4, del decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 7 (Misure urgenti per la tutela dei consumatori, la promozione della concorrenza, lo sviluppo di attività economiche e la nascita di nuove imprese), nel testo modificato dalla relativa legge di conversione 2 aprile 2007, n. 40, nella parte in cui introduce disposizioni volte a liberalizzare l'esercizio dell'attività di guida turistica ed a semplificare alcuni adempimenti connessi. 2.- Riservata ad altra pronuncia la decisione sull'impugnazione - effettuata con il medesimo ricorso - di altre disposizioni della stessa legge n. 40 del 2007, si osserva che nel decreto-legge n. 7 del 2007, l'art. 10, comma 4, era così formulato: «Le attività di guida turistica e accompagnatore turistico, come disciplinate dalle legge 29 marzo 2001, n. 135, e successive modificazioni, non possono essere subordinate all'obbligo di autorizzazioni preventive, al rispetto di parametri numerici e a requisiti di residenza, fermo restando il possesso dei requisiti di qualificazione professionale secondo la normativa di cui alla citata legge n. 135 del 2001. Ai soggetti titolari di laurea in lettere con indirizzo in storia dell'arte o in archeologia o altro titolo equipollente, l'esercizio dell'attività di guida turistica o accompagnatore turistico non può essere negato, né subordinato allo svolgimento dell'esame abilitante di cui alla citata legge n. 135 del 2001 o di altre prove selettive, restando consentita la verifica delle conoscenze linguistiche solt anto quando le stesse non siano state oggetto del corso di studi.». Il nuovo testo dell'art. 10, comma 4, risultante dalle modificazioni apportate in sede di conversione, recita: «Le attività di guida turistica e accompagnatore turistico, come disciplinate dalle legge 29 marzo 2001, n. 135, e successive modificazioni, non possono essere subordinate all'obbligo di autorizzazioni preventive, al rispetto di parametri numerici e a requisiti di residenza, fermo restando il possesso dei requisiti di qualificazione professionale previsti dalle normative regionali. Ai soggetti titolari di laurea in lettere con indirizzo in storia dell'arte o in archeologia o altro titolo equipollente, l'esercizio dell'attività di guida turistica non può essere negato, né subordinato allo svolgimento dell'esame abilitante o di altre prove selettive, salva le previa verifica delle conoscenze linguistiche e del territorio di riferimento. Al fine di migliorare la qualità dell'offerta del servizio in relazione a specifici territori o contesti tematici, le regioni promuovono sistemi di accreditamento, non vincolanti, per le guide turistiche specializzate in particolari siti, località e settori. Ai soggetti titolari di laurea o diploma universitario in materia turistica o titolo equipollente non può essere negato l'esercizio di accompagnatore turistico, fatta salva la previa verifica delle conoscenze specifiche quando non siano state oggetto del corso di studi. I soggetti abilitati allo svolgimento dell'attività di guida turistica nell'ambito dell'ordinamento giuridico del Paese comunitario di appartenenza operano in regime di libera prestazione dei servizi senza necessità di alcuna autorizzazione, né abilitazione, sia essa generale o specifica». 3. - Dal confronto dei due testi risulta eliminato, nella legge di conversione, il riferimento alla normativa di cui alla legge n. 135 del 2001 quanto al «possesso dei requisiti di qualificazione professionale», e previsto un rinvio alle norme regionali che - nel rispetto dei princípi fondamentali della legislazione nazionale - disciplinano in materia di requisiti di professionalità, quelli necessari per lo svolgimento delle attività di guida e di accompagnatore turistici. Dal testo definitivo del comma 1 dello stesso art. 10, si ricava anche che le finalità dell'intervento normativo sono quelle di «garantire la libertà di concorrenza secondo condizioni di pari opportunità sul territorio nazionale e il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché assicurare ai consumatori finali migliori condizioni di accessibilità all'acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale, in conformità al principio comunitario della concorrenza e alle regole sancite dagli artt. 81, 82, e 86 del Trattato istitutivo della Comunità europea». Come fonte regolatrice primaria dell'attività professionale delle guide turistiche e degli accompagnatori turistici, l'articolo sopprime ogni autorizzazione regionale preventiva, i parametri numerici ed i requisiti di residenza considerandoli ostacoli al libero svolgimento delle indicate attività, facendo salve solo le condizioni di qualificazione professionale previste dalla legislazione regionale. La legge riconosce ancora ai titolari di laurea in lettere con indirizzo in storia dell'arte o in archeologia, o titolo equipollente, la facoltà di esercitare liberamente l'attività di guida turistica, sopprimendo ogni esame abilitante (fatta salva la previa verifica delle conoscenze linguistiche e del territorio di riferimento), nonché ai titolari di laurea o di diploma universitario in materia turistica, o titolo equipollente, la facoltà di esercitare liberamente l'attività di accompagnatore turistico, salva la verifica delle conoscenze specifiche, quando non sono oggetto del relativo corso di studi. La legge prevede infine che le Regioni, al fine di migliorare la qualità dell'offerta del servizio in relazione a specifici territori o contesti tematici, promuovano sistemi di accreditamento, non vincolanti, per le guide turistiche specializzate in particolari siti, località o settori, e che i soggetti abilitati allo svolgimento dell'attività di guida turistica nell'àmbito dell'ordinamento giuridico del paese comunitario di appartenenza, operino in regime di libera prestazione dei servizi senza necessità di alcuna autorizzazione, né abilitazione generale o specifica. 4. - La ricorrente censura la norma impugnata rivendicando, nella materia, una sua competenza legislativa residuale, capace di sostituirsi completamente a quella statale. Tale competenza sarebbe stata esercitata dalla Regione Veneto con la propria legge 4 novembre 2002, n. 33 (Testo unico delle leggi regionali in materia di turismo), prevedendo il superamento di un esame di abilitazione, l'iscrizione in un elenco provinciale e il rilascio di una licenza da parte dei Comuni. A giudizio della Regione, il principio comunitario di libera concorrenza, richiamato dall'art. 10, comma 1, al fine di affermare la competenza statale, sarebbe stato erroneamente invocato. La Regione Veneto ritiene inoltre irrazionale la norma impugnata, nella parte in cui consente ai soli titolari di laurea in lettere con indirizzo in storia dell'arte o in archeologia o titolo equipollente l'esercizio dell'attività di guida turistica, senza alcuna previa selezione, e, in maniera analoga, ai soli titolari di laurea o diploma universitario in materia turistica o titolo equipollente l'esercizio dell'attività di accompagnatore turistico senza ulteriore esame. Altrettanto irragionevole - a suo giudizio - sarebbe la norma impugnata, nella parte in cui reintroduce di fatto la necessità di una prova abilitante, richiedendo per le guide turistiche «la previa verifica delle conoscenze linguistiche e del territorio di riferimento» e, per gli accompagnatori turistici, «la previa verifica delle conoscenze specifiche quando non siano state oggetto del corso di studi». La norma impugnata sarebbe infine - secondo la Regione ricorrente - lesiva della competenza regionale residuale prevista dall'art. 117, quarto comma, Cost. in materia di formazione professionale, nella parte in cui impone alle Regioni di promuovere sistemi di accreditamento per le guide turistiche specializzate in particolari siti, località e settori. 5. - Il Presidente del Consiglio dei ministri osserva che, fermi restando i profili di tutela della concorrenza, la norma impugnata regola aspetti dell'esercizio di un'attività professionale, rispetto ai quali l'incidenza nel campo turistico è del tutto ininfluente ai fini della ripartizione delle competenze prevista dall'art. 117 Cost., dovendosi piuttosto ricondurre la disciplina in esame - per il suo carattere necessariamente unitario - alla materia delle «professioni » prevista dall'art. 117, terzo comma, Cost., mentre resta affidata alla competenza regionale la disciplina degli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale (vengono richiamate le sentenze di questa Corte n. 40 e n. 153 del 2006; n. 319, n. 355 e n. 424 del 2004; n. 353 del 2003). Quanto alla pretesa violazione del principio di leale collaborazione, osserva la difesa erariale che esso non impone affatto lo strumento dell'intesa per la fissazione dei princípi fondamentali nelle materie di legislazione concorrente quando il legislatore statale legifera in materie rientranti nella propria competenza esclusiva. 6. - La questione non è fondata. 7. - Questa Corte ritiene che, quale che sia il settore in cui una determinata professione si esplichi, la determinazione dei principi fondamentali della relativa disciplina spetti sempre allo Stato, nell'esercizio della propria competenza concorrente, ai sensi dell'art. 117, terzo comma, Cost. L'attribuzione della materia delle «professioni» alla competenza concorrente dello Stato, prevista dalla citata disposizione costituzionale, prescinde, cioè, dal settore nel quale l'attività professionale si esplica e corrisponde all'esigenza di una disciplina uniforme sul piano nazionale che sia coerente anche con i princípi dell'ordinamento comunitario. Nel caso in esame, la norma censurata regola aspetti che sono propri dell'esercizio di una specifica attività professionale, la cui incidenza nel campo turistico risulta ininfluente ai fini del riparto di competenze delineato dall'art. 117 Cost. Si deve osservare che le rilevanti modifiche apportate all'art. 10, comma 4, dalla legge di conversione n. 40 del 2007 sono state anche la conseguenza di alcune procedure di infrazione promosse dalla Commissione CE nei confronti dello Stato italiano, la cui normativa impediva alle guide comunitarie di esercitare liberamente la loro professione sul territorio nazionale (si veda in particolare, la sentenza della Corte di giustizia 26 febbraio 1991, nella causa C-180/89). Su un piano più generale, deve dirsi ancora che la norma impugnata è coerente con i princípi enunciati dal d.lgs. 2 febbraio 2006, n. 30 (Ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell'articolo 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131) che delineano i ruoli rispettivi dello Stato e delle Regioni riguardo alla disciplina di una attività professionale. Tali princípi affermano che la potestà legislativa regionale si esercita sulle professioni individuate e definite dalla normativa statale (art. 1, comma 3); che l'esercizio della professione è espressione della libertà di iniziativa economica costituzionalmente tutelata in tutte le sue forme e applicazioni, purché non contrarie a norme imperative, all'ordine pubblico ed al buon costume e che le Regioni non possono adottare provvedimenti che ostacolino l'esercizio della professione (art. 2, comma 1), perché tale esercizio deve svolgersi nel rispetto della disciplina statale di tutela della concorrenza (art. 3, comma 1). 8. - Infondata è anche la censura della norma impugnata, nella parte in cui - prevedendo la promozione da parte delle Regioni di sistemi di accreditamento per le guide turistiche specializzate in particolari siti, località e settori - non sarebbe rispettosa della competenza regionale in materia di formazione professionale. E' sufficiente, in proposito, osservare che la previsione non è vincolante e che essa si riferisce solo all'eventualità della formazione di guide "specializzate" che resta, comunque, affidata all'iniziativa delle Regioni. 9. - Infondata è anche la censura della Regione ricorrente relativa alla pretesa violazione del principio di leale collaborazione. Tale principio non opera, infatti, nelle fattispecie in cui, come nella presente, la norma nazionale detta princípi fondamentali in una materia di legislazione concorrente (sentenze n. 159 del 2008 e n. 401 del 2007) LA CORTE COSTITUZIONALE riservata a separata pronuncia la decisione delle altre questioni di legittimità costituzionale promosse con il ricorso n. 27 del registro ricorsi 2007 dalla Regione Veneto; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'articolo 10, comma 4, del decreto-legge 31 gennaio 2007, n. 7 (Misure urgenti per la tutela dei consumatori, la promozione della concorrenza, lo sviluppo di attività economiche e la nascita di nuove imprese), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 aprile 2007, n. 40, sollevata, in riferimento agli articoli 117 e 118 della Costituzione, nonché al principio di leale collaborazione, dalla Regione Veneto con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Luigi MAZZELLA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 157, primo e quinto comma, del codice penale, come sostituiti dall'art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nonché dell'art. 10, comma 3, della stessa legge n. 251 del 2005, promossi con ordinanze del 20 febbraio e del 14 marzo 2006 dal Tribunale di Grosseto, del 20 marzo 2006 dal Tribunale di Perugia, dell'11 aprile 2006 dal Tribunale di Perugia, sezione distaccata di Assisi, del 7 novembre 2006 dal Tribunale di Cre mona, del 5 giugno 2006 dal Tribunale di Treviso, sezione distaccata di Montebelluna, del 22 novembre 2006 dal Tribunale di Perugia, sezione distaccata di Gubbio, del 18 gennaio 2007 dal Tribunale di Grosseto, sezione distaccata di Orbetello, del 31 gennaio 2007 dal Tribunale di Bergamo, sezione distaccata di Treviglio, del 31 gennaio 2007 dal Tribunale di Napoli, del 22 febbraio 2007 dal Giudice di Pace di Bergamo, del 18 dicembre 2006 dal Giudice di Pace di Casalmaggiore, dell'8 marzo 2007 dal Tribunale di Grosseto, sezione distaccata di Orbetello, del 3 maggio 2007 dal Giudice di Pace di Bergamo, del 4 maggio 2007 dal Tribunale di Bergamo, sezione distaccata di Treviglio, del 7 e del 15 giugno e del 6 luglio 2007 dal Giudice di Pace di Bergamo, rispettivamente iscritte ai nn. 491, 492, 572 e 573 del registro ordinanze 2006 e ai nn. 281, 359, 409, 419, 421, 451, 530, 541, 643, 741, 746, da 769 a 771 del registro ordinanze 2007, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 46 e 50, prima serie speciale, dell'anno 2006 e nn. 17, 20, 22, 23, 24, 32, 37, 44 e 46, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Gaetano Silvestri. Ritenuto che il Tribunale di Grosseto in composizione monocratica, con due ordinanze di tenore analogo, deliberate rispettivamente il 20 febbraio 2006 (r.o. n. 491 del 2006) ed il 14 marzo 2006 (r.o. n. 492 del 2006), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, primo comma, del codice penale, come sostituito dall'art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui assoggetta ai più lunghi termini di prescrizione in esso previsti, anziché ad un termine triennale, i reati di competenza del giudice di pace puniti con la sola pena pecuniaria; che il rimettente procede, nel primo dei giudizi a quibus, per il reato punito dall'art. 636 cod. pen. (introduzione o abbandono di gregge nel fondo altrui e pascolo abusivo), e nel secondo per i delitti di cui al primo comma dell'art. 612 cod. pen. (minaccia) ed all'art. 594 cod. pen. (ingiuria); che detti reati - secondo il disposto dell'art. 4 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468) - sono attribuiti alla competenza del giudice di pace, sebbene si proceda avanti al tribunale per effetto delle disposizioni transitorie concernenti i fatti antecedenti all'entrata in vigore della relativa disciplina (art. 64 dello stesso d.lgs. n. 274 del 2000); che il giudice a quo rileva come debba quindi applicarsi, ai fatti in questione, il trattamento sanzionatorio prescritto dall'art. 52 del d.lgs. n. 274 del 2000, secondo il disposto degli artt. 63 e 64 dello stesso decreto; che l'attuale disciplina della prescrizione per i reati di competenza del giudice di pace, a parere del rimettente, sarebbe differenziata a seconda che si tratti di delitti puniti con la sola pena pecuniaria, per i quali il primo comma dell'art. 157 cod. pen. fisserebbe un termine prescrizionale di sei anni, oppure di reati punibili anche mediante la permanenza domiciliare od il lavoro di pubblica utilità, per i quali il termine sarebbe pari a soli tre anni, secondo quanto previsto dal quinto comma dello stesso art. 157 cod. pen.; che tale ultima norma, riferendosi alle «pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria», avrebbe infatti riguardo alle sanzioni «paradetentive» applicate dal giudice di pace; che non rileverebbe in senso contrario, a giudizio del rimettente, l'equiparazione istituita dall'art. 58 del d.lgs. n. 274 del 2000, per ogni effetto giuridico, tra le sanzioni «paradetentive» del giudice di pace e le pene detentive comuni, posto che la norma in questione avrebbe natura «generale e suppletiva», e dovrebbe quindi soccombere di fronte alla previsione del nuovo quinto comma dell'art. 157 cod. pen., definito alla stregua di «norma speciale prevalente»; che del resto, osserva il giudice a quo, la disposizione citata da ultimo resterebbe priva di ogni ambito applicativo, ove si escludesse la sua pertinenza alle pene irrogabili dal giudice di pace; che inoltre, secondo il Tribunale, la legge differenzia in molti e diversi profili gli «effetti giuridici» delle pene detentive e quelli delle sanzioni «paradetentive», escludendo ad esempio la sussistenza del delitto di evasione in caso di violazione delle prescrizioni inerenti alla permanenza domiciliare (art. 56 del d.lgs. n. 274 del 2000), o precludendo la sospensione condizionale per l'esecuzione delle pene inflitte dal giudice di pace (art. 60 dello stesso decreto); che l'applicazione del quinto comma dell'art. 157 cod. pen. e del correlato termine prescrizionale breve, nei confronti dei più gravi tra i reati di competenza del giudice di pace, non potrebbe essere esclusa neppure sul rilievo che le sanzioni «paradetentive» sono sempre irrogabili in alternativa a quelle pecuniarie, per le quali è previsto un termine prescrizionale più elevato; che infatti, osserva il rimettente, nei casi di contestazione della recidiva reiterata infraquinquennale sono applicabili le sole pene «paradetentive» (comma 3 dell'art. 52 del d.lgs. n. 274), ed a nulla rileverebbe, per il computo dei termini prescrizionali, l'eventuale concorrenza della stessa recidiva con altre circostanze di segno attenuante (terzo comma dell'art. 157 cod. pen.); che dunque, ed in definitiva, il sistema della prescrizione sarebbe segnato per i reati di competenza del giudice di pace da una marcata irrazionalità, con un trattamento sensibilmente più favorevole per i fatti più gravi, ed ingiustificatamente più severo per quelli di gravità minore (quelli cioè che non consentono l'irrogazione di pene coercitive della libertà); che l'aporia andrebbe risolta, secondo il giudice a quo, mediante un allineamento dei termini prescrizionali verso la soglia più bassa, sia perché i reati attribuiti alla cognizione del giudice onorario sono generalmente meno gravi degli altri, sia perché la prescrizione più veloce troverebbe giustificazione nella durata più breve delle indagini preliminari e nella snellezza di forme tipica del procedimento innanzi al giudice di pace; che l'allineamento auspicato non potrebbe determinarsi, secondo il Tribunale, per il mezzo di una «interpretazione adeguatrice», fondata sull'applicazione analogica del quinto comma dell'art. 157 cod. pen. anche ai reati puniti con sanzione pecuniaria, se attribuiti alla cognizione del giudice di pace; che l'analogia, infatti, presuppone la carenza di una disciplina specifica per la materia da regolare, mentre il primo comma dell'art. 157 cod. pen. contiene una disposizione riferibile direttamente e chiaramente ai reati in questione; che dunque, a parere del rimettente, si evidenzia un dubbio di legittimità costituzionale del primo comma dell'art. 157 cod. pen., per contrasto con l'art. 3 Cost., nella parte in cui non prevede che, per i reati di competenza del giudice di pace puniti con sanzione pecuniaria, il termine prescrizionale sia pari a tre anni (cioè, in sostanza, sia identico a quello previsto dal quinto comma per gli ulteriori reati di analoga competenza); che il giudice a quo riferisce, in punto di rilevanza, come nei casi affidati alla sua cognizione non sia ancora scaduto il termine di sette anni e sei mesi (risultante sia dalla disciplina antecedente alla legge n. 251 del 2005, sia dal nuovo testo degli artt. 157, primo comma, e 161, secondo comma, cod. pen.), mentre è trascorso, anche in forma prorogata, il più breve termine di prescrizione che sarebbe applicabile in caso di accoglimento della questione sollevata; che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nei giudizi con atti depositati, rispettivamente, il 5 dicembre 2006 (r.o. n. 491 del 2006) ed il 7 dicembre 2006 (r.o. n. 492 del 2006); che, secondo la difesa erariale, la questione proposta sarebbe infondata (ed anche inammissibile, stando all'atto concernente il giudizio r.o. n. 492 del 2006); che il rimettente, infatti, avrebbe preso le mosse da una soluzione interpretativa non ineluttabile, e cioè che i reati di competenza del giudice di pace, quando puniti con la sola pena pecuniaria, si prescrivono nei termini indicati al primo comma dell'art. 157 cod. pen.; che invece dovrebbe ritenersi, anche in chiave di «interpretazione adeguatrice», che la norma in questione non riguardi le pene pecuniarie applicate dal giudice onorario, e che anche i reati sanzionati con dette pene ricadano, di conseguenza, nella previsione del quinto comma dello stesso art. 157 cod. pen.; che in effetti il legislatore, fin dall'approvazione della legge 24 novembre 1999, n. 468 (Modifiche alla legge 21 novembre 1991, n. 374, recante istituzione del giudice di pace. Delega al Governo in materia di competenza penale del giudice di pace e modifica dell'articolo 593 del codice di procedura penale), avrebbe inteso creare per la giustizia penale di pace un «microsistema sanzionatorio», con caratteristiche di forte peculiarità; che tale scelta ha implicato, secondo l'Avvocatura generale, un sostanziale superamento della distinzione tra delitti e contravvenzioni, con la previsione di alcune pene principali (pecuniaria, permanenza domiciliare, lavoro di pubblica utilità) segnate da un autonomo regime di applicazione in fase cognitiva e di esecuzione; che vi sarebbe stata quindi una novazione delle previsioni sanzionatorie per le fattispecie incriminatrici trasferite alla cognizione del giudice di pace, di talché le relative pene pecuniarie non consisterebbero più di una multa o di un'ammenda, quanto piuttosto di un novum, ancora non collocato come tale in norme di carattere generale, ma non per questo meno originale rispetto alle sanzioni regolate dal codice penale; che in tal senso deporrebbero dati testuali e sistematici, visto che il secondo comma dell'art. 52 del d.lgs. n. 274 del 2000 esplicitamente si riferisce ad una «modificazione» delle pene originarie, e che le nuove previsioni sanzionatorie restano applicabili anche nel caso di cognizione del reato ad opera di un giudice superiore o speciale; che l'originalità della nuova sanzione penale pecuniaria, e la sua estraneità alla previsione «unificante» dell'art. 17 cod. pen., troverebbero conferma nel fatto che, in caso di omissione del pagamento, non si determina una sua conversione nelle pene della libertà controllata o del lavoro sostitutivo - secondo quanto stabilito per la multa e per l'ammenda dal combinato disposto dell'art. 136 cod. pen. e dell'art. 102 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) - ed opera piuttosto un autonomo meccanismo di conversione, che concerne le sanzioni «paradetentive» applicabili dal giudice di pace (art. 55 del d.lgs. n. 274 del 2000); che, sempre nella prospettazione dell'Avvocatura generale, sarebbe significativa anche la conservata competenza del giudice professionale per il caso della ricorrenza di determinate aggravanti, che comporta l'applicabilità delle sanzioni «ordinarie» già comminate dalla legge (comma 3 dell'art. 4 del d.lgs. n. 274 del 2000); che non sussisterebbe, in definitiva, l'aporia prospettata dal rimettente, in quanto il primo comma dell'art. 157 cod. pen. farebbe «riferimento ai soli reati che sono devoluti alla cognizione del giudice ordinario, per i quali rimane ferma la distinzione fra delitti e contravvenzioni e fra pene detentive e pene pecuniarie di cui al combinato disposto degli artt. 17 e 39 cod. pen.»; per converso, riferendosi a reati puniti con pene «diverse» da quella detentiva o pecuniaria, il quinto comma del citato art. 157 comprenderebbe «tutti i reati per i quali il legislatore ha previsto un sistema sanzionatorio del tutto autonomo rispetto a quello previsto dal codice penale, dovendosi ritenere del tutto irrilevante il ricorso, talvolta, ad una terminologia simile, come nel caso dell a pena pecuniaria»; che il Tribunale di Perugia in composizione monocratica, con ordinanza del 20 marzo 2006 (r.o. n. 572 del 2006), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui non dispone che il termine triennale di prescrizione previsto per i reati puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria si applichi, inoltre, a tutti gli ulteriori reati di competenza del giudice di pace; che si procede, nel giudizio a quo, per fatti di lesione personale (art. 582 cod. pen.) ed ingiuria (art. 594 cod. pen.), commessi in epoca antecedente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 274 del 2000, e dunque affidati alla cognizione del tribunale, sebbene riferibili alla competenza del giudice di pace e sanzionabili, di conseguenza, con le pene previste dall'art. 52 del citato decreto; che il rimettente ulteriormente precisa come, nel caso di specie, trovino applicazione - ai sensi dell'art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005 - le nuove norme per la determinazione dei termini prescrizionali, in quanto più favorevoli delle precedenti; che risulta dunque applicabile, per delitti punibili con le sanzioni della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità, il nuovo e ristretto termine prescrizionale previsto dal quinto comma dell'art. 157 cod. pen., il quale stabilisce che la prescrizione matura in tre anni «quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria»; che infatti tale ultima espressione, secondo il giudice a quo, deve essere riferita agli illeciti di competenza del giudice di pace per i quali siano comminate le cosiddette sanzioni «paradetentive», anche perchè, ove «diversamente intesa, la norma risulterebbe inapplicabile, in quanto priva di qualsivoglia concreto riferimento»; che la possibilità dell'irrogazione di una pena pecuniaria in alternativa alla sanzione «diversa» non escluderebbe l'applicazione della norma censurata ai reati di competenza del giudice di pace, poiché detta norma si riferisce, in astratto, alle previsioni sanzionatorie edittali; che dunque, nell'ambito degli illeciti rimessi alla competenza del giudice onorario, il termine di prescrizione per i reati puniti con la sanzione pecuniaria sarebbe pari a quattro o addirittura a sei anni (a seconda che si tratti di contravvenzioni o delitti), mentre gli illeciti più gravi, per i quali è applicabile anche (o solo) una sanzione coercitiva della libertà personale (ancorché non detentiva), sarebbero suscettibili di estinzione già nell'arco di un triennio; che un tale assetto, secondo il Tribunale, sarebbe «platealmente irragionevole», perché contrastante con l'aspettativa di un «oblio sociale dell'illecito» più o meno tempestivo a seconda della portata dell'offesa, e comunque con il criterio di un più marcato interesse punitivo per i fatti di maggior gravità; che la denunciata irrazionalità risulterebbe particolarmente evidente considerando sequenze criminose di progressione nell'offesa ad un medesimo bene: la prescrizione del reato di percosse (fatto punibile, a norma dell'art. 581 cod. pen., con la sola pena pecuniaria) matura in sei anni, e tuttavia, quando l'agente arriva a provocare lesioni personali lievi (punibili, a norma dell'art. 582 cod. pen., anche con la permanenza domiciliare o il lavoro sostitutivo), il termine per l'estinzione del reato scende a tre anni; che l'aporia dovrebbe essere eliminata, secondo il giudice a quo, estendendo a tutti i reati di competenza del giudice di pace la regola dettata dal quinto comma dell'art. 157 cod. pen., posto che la soluzione d'un allineamento del termine sui valori più lunghi sarebbe preclusa dal divieto di manipolazione in malam partem della disciplina, e considerata, per altro verso, la congruenza d'una prescrizione particolarmente sollecita con quel sistema di «diritto mite» che segnerebbe la giurisdizione penale di pace; che il rimettente illustra la rilevanza nel giudizio a quo della questione sollevata osservando che la prescrizione sarebbe già maturata per il più grave tra i delitti in contestazione (lesione personale), ed invece non potrebbe essere applicata per il fatto meno grave, cioè quello di ingiuria, che risulterebbe a sua volta prescritto, invece, nel caso di accoglimento delle censure prospettate; che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 4 gennaio 2007, chiedendo che la questione sia dichiarata «inammissibile e infondata», sulla base degli argomenti già illustrati in occasione degli atti di intervento concernenti i giudizi r.o. numeri 491 e 492 del 2006; che il Tribunale di Perugia, sezione distaccata di Assisi, con ordinanza dell'11 aprile 2006 (r.o. n. 573 del 2006), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, «in relazione» all'art. 10, comma 3, della stessa legge, nella parte in cui dispone che i nuovi termini prescrizionali in esso previsti, sebbene più favorevoli, non siano applicabili nei procedimenti già pervenuti alla dichiarazione di apertura del dibattimento al momento di entrata in vigore della citata legge n. 251 del 2005; che lo stesso rimettente ha sollevato nel contempo, sempre con riguardo all'art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui non dispone che il termine triennale di prescrizione previsto per i reati puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria si applichi, inoltre, a tutti gli ulteriori reati di competenza del giudice di pace; che nel giudizio a quo si procede per i reati di ingiuria (art. 594 cod. pen.) e di lesione personale (art. 582 cod. pen.), e il dibattimento è stato dichiarato aperto prima dell'entrata in vigore della legge n. 251 del 2005, con la conseguenza, secondo il rimettente, che non potrebbero essere applicati, quand'anche più favorevoli, i nuovi termini prescrizionali fissati all'art. 157 cod. pen.; che, con riferimento all'effetto preclusivo del terzo comma dell'art. 10 della legge n. 251 del 2005, il Tribunale definisce «irragionevole» l'individuazione delle formalità di apertura del dibattimento quale «disposizione spartiacque» per l'efficacia retroattiva della nuova e più favorevole disciplina; che il rimettente prospetta, riguardo al quinto comma dell'art. 157 cod. pen., una «seconda eccezione», sul presupposto che la norma darebbe luogo ad una prescrizione in termini particolarmente brevi per i più gravi tra i reati rimessi alla competenza del giudice di pace, a fronte della previsione di termini più elevati, nel primo comma dello stesso art. 157 cod. pen., per i reati puniti con la sola pena pecuniaria; che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 9 gennaio 2007, chiedendo che la questione proposta sia dichiarata «inammissibile e infondata»; che infatti tale questione - individuata nella sola censura concernente la durata diversificata del termine prescrizionale per i reati di competenza del giudice di pace - sarebbe irrilevante nel caso di specie, «posto che il giudizio potrebbe sfociare in una decisione di merito favorevole agli imputati»; che, in ogni caso, si tratterebbe di questione infondata, per le ragioni già illustrate dalla stessa Avvocatura dello Stato mediante gli atti di intervento prodotti nei giudizi fin qui richiamati; che il Tribunale di Cremona in composizione monocratica, con ordinanza del 7 novembre 2006 (r.o. n. 281 del 2007), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede un termine prescrizionale di tre anni quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria; che il rimettente procede in ordine a fatti di minaccia (art. 612 cod. pen.) e di ingiuria (art. 594 cod. pen.), per i quali, trattandosi di reati puniti con sanzione «paradetentiva», dovrebbe applicarsi il termine triennale di prescrizione fissato al quinto comma dell'art. 157 cod. pen., nella specie già scaduto; che secondo il Tribunale tale effetto estintivo, tipico dei più gravi tra i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, sarebbe frutto di una grave incongruenza del sistema, posto che per i reati meno gravi, puniti con la sola pena pecuniaria, sarebbe applicabile il più lungo termine prescrizionale indicato al primo comma dell'art. 157 cod. pen.; che, dunque, la disciplina censurata contrasterebbe con l'art. 3 Cost., come già ritenuto dalla Corte di cassazione con l'ordinanza 31 agosto 2006, n. 29786; che il rimettente osserva, in punto di rilevanza, che i delitti per i quali procede sarebbero estinti ove fosse applicata la disciplina vigente, e che tale evento non avrebbe luogo se, invece, trovassero applicazione i termini previsti per i reati sanzionati con pena pecuniaria e pure rimessi alla cognizione del giudice di pace; che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 15 maggio 2007, chiedendo che la questione proposta sia dichiarata «inammissibile e infondata», per le ragioni già illustrate mediante gli atti di intervento prodotti nei giudizi fin qui richiamati; che il Tribunale di Treviso, sezione distaccata di Montebelluna, con ordinanza del 5 giugno 2006 (r.o. n. 359 del 2007), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui non dispone che il termine triennale di prescrizione previsto per i reati puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria si applichi, inoltre, a tutti gli ulteriori reati di competenza del giudice di pace; che si procede, nel giudizio a quo, per fatti di minaccia (art. 612 cod. pen.), invasione di terreni o edifici (art. 633 cod. pen.), lesione personale (art. 582 cod. pen.) e ingiuria (art. 594 cod. pen.), attribuiti alla competenza del giudice di pace e sanzionabili, di conseguenza, con le pene previste dall'art. 52 del d.lgs. n. 274 del 2000; che il rimettente osserva come, per i delitti punibili con le sanzioni della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità, debba applicarsi il nuovo e ristretto termine prescrizionale previsto dal quinto comma dell'art. 157 cod. pen., il quale stabilisce che la prescrizione matura in tre anni «quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria»; che infatti, se tale espressione non fosse riferita alle sanzioni «paradetentive» irrogabili dal giudice di pace, la norma che la contiene «risulterebbe inapplicabile, in quanto priva di qualsivoglia concreto riferimento»; che l'applicabilità della disciplina in questione non sarebbe esclusa dalla possibilità che, nel caso concreto, venga irrogata una pena pecuniaria in alternativa alla sanzione «diversa», poiché tale ultima sanzione è comunque compresa nella previsione edittale, ed a questa si riferisce la norma censurata; che, secondo il Tribunale, la disciplina della prescrizione per i reati di competenza del giudice di pace sarebbe «platealmente irragionevole»; che infatti, per i reati puniti unicamente con la sanzione pecuniaria, il termine è pari a quattro anni o addirittura a sei (a seconda che si tratti di contravvenzioni o delitti), mentre gli illeciti più gravi, per i quali è applicabile anche (o solo) una sanzione coercitiva della libertà personale (ancorché non detentiva), sono suscettibili di estinzione nell'arco di un triennio; che un tale assetto contrasterebbe con l'aspettativa di un «oblio sociale dell'illecito» più o meno tempestivo a seconda della portata dell'offesa, e comunque con il criterio di un più marcato interesse punitivo per i fatti di maggior gravità; che la denunciata irrazionalità risulterebbe particolarmente evidente considerando sequenze criminose di progressione nell'offesa ad un medesimo bene: la prescrizione dei reati di minaccia o di percosse (fatti punibili, a norma degli artt. 612 e 581 cod. pen., con la sola pena pecuniaria) matura in sei anni, e tuttavia, se l'azione si sviluppa fino a provocare lesioni personali lievi (punibili, a norma dell'art. 582 cod. pen., anche con la permanenza domiciliare o il lavoro sostitutivo), il termine per l'estinzione del reato scende a tre anni: che l'aporia dovrebbe essere eliminata, secondo il giudice a quo, estendendo a tutti i reati di competenza del giudice di pace la regola dettata dal quinto comma dell'art. 157 cod. pen., posto che la soluzione d'un allineamento del termine sui valori più lunghi sarebbe preclusa dal divieto di manipolazione in malam partem della disciplina, e considerata, per altro verso, la congruenza d'una prescrizione particolarmente sollecita con quel sistema di «diritto mite» che segnerebbe la giurisdizione penale di pace; che il rimettente, illustrando la rilevanza nel giudizio a quo della questione sollevata, assume che la prescrizione sarebbe già maturata per tutti i reati contestati tranne quello meno grave (minaccia), il quale per altro risulterebbe prescritto, a sua volta, nel caso di accoglimento delle censure prospettate; che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 12 giugno 2007, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata per le ragioni già illustrate mediante gli atti di intervento prodotti nei giudizi fin qui richiamati; che il Tribunale di Perugia, sezione distaccata di Gubbio, con ordinanza del 22 novembre 2006 (r.o. n. 409 del 2007), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede un termine di prescrizione, per i reati puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria, più breve di quello applicabile per reati di minor gravità, punibili con la sola pena pecuniaria; che nel giudizio a quo si procede per i reati di lesioni personali colpose (art. 590, primo comma, cod. pen.) e di omessa assistenza (art. 180, comma 7, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, recante «Nuovo codice della strada»); che il rimettente, prendendo in considerazione la richiesta difensiva d'una declaratoria di prescrizione con riguardo al reato di lesioni personali, rileva che per detto reato dovrebbe applicarsi il termine prescrizionale previsto dal primo comma dell'art. 157 cod. pen., e dunque un termine più lungo di quello fissato nel successivo quinto comma; che lo stesso rimettente, posta tale premessa, e rilevato come il quinto comma dell'art. 157 cod. pen. comporti una prescrizione più rapida per il reato di lesioni personali colpose quando ricorra un'aggravante, ravvisa l'esistenza di «profili di legittimità costituzionale con palese violazione dei principi costituzionali, in particolare dell'art. 3 Costituzione»; che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 26 giugno 2007, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata per le ragioni già illustrate mediante gli atti di intervento prodotti nei giudizi finora indicati; che il Tribunale di Grosseto, sezione distaccata di Orbetello, con due ordinanze di analogo tenore, deliberate rispettivamente il 18 gennaio 2007 (r.o. n. 419 del 2007) e l'8 marzo 2007 (r.o. n. 643 del 2007), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questioni di legittimità costituzionale dell'art. 157, primo comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui assoggetta ai più lunghi termini di prescrizione in esso previsti, anziché ad un termine triennale, i reati di competenza del giudice di pace puniti con la sola pena pecuniaria; che si procede, nel primo dei giudizi a quibus, per fatti di minaccia (art. 612 cod. pen.) e danneggiamento (art. 635, comma primo, cod. pen.), e nel secondo per il reato di ingiuria (art. 594 cod. pen.), fatti tutti commessi in epoca antecedente all'entrata in vigore del d.lgs. n. 274 del 2000, e dunque affidati alla cognizione del tribunale, sebbene riferibili alla competenza del giudice di pace e sanzionabili, di conseguenza, con le pene previste dall'art. 52 del citato decreto; che le ordinanze di rimessione ricalcano, per quanto concerne la non manifesta infondatezza della questione sollevata, la motivazione dei provvedimenti recanti i numeri r.o. 491 e 492 del 2006, sottoscritti dal medesimo giudice e già sopra considerati; che il rimettente comunque ribadisce, in relazione ad orientamenti sopravvenuti di segno contrario, che l'aporia del sistema non potrebbe essere superata mediante l'eliminazione della norma che prevede un termine minore per i reati puniti con pene diverse da quelle detentive o pecuniarie (quinto comma dell'art. 157 cod. pen.), anzitutto perché si tratterebbe di una manipolazione con effetti peggiorativi, come tale preclusa dalla riserva di legge in materia penale, ed in secondo luogo perché una prescrizione di durata specialmente breve per i reati di competenza del giudice di pace troverebbe corrispondenza nella ridotta gravità dei reati medesimi, e nella speciale brevità e snellezza di forme del relativo procedimento; che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in entrambi i giudizi indicati, con atti depositati rispettivamente il 27 giugno 2007 ed il 9 ottobre 2007, chiedendo che le questioni siano dichiarate infondate per le ragioni già illustrate in occasione dell'intervento negli ulteriori giudizi fin qui richiamati; che il Tribunale di Bergamo, sezione distaccata di Treviglio, con due ordinanze di tenore analogo, deliberate rispettivamente il 31 gennaio 2007 (r.o. n. 421 del 2007) ed il 4 maggio 2007 (r.o. n. 746 del 2007), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questioni di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui non dispone che il termine triennale di prescrizione si applichi a tutti i reati di competenza del giudice di pace, e non soltanto a quelli puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria; che il rimettente procede, in ciascuno dei giudizi a quibus, con riguardo ai reati di minaccia (art. 612 cod. pen.) e di ingiuria (art. 594 cod. pen.), per i quali ritiene applicabile il termine di prescrizione indicato nel primo comma dell'art. 157 cod. pen., non ancora scaduto; che tuttavia il quinto comma del citato art. 157 prevede, per reati più gravi (in quanto puniti con la permanenza domiciliare od il lavoro di pubblica utilità), un termine prescrizionale di soli tre anni (già maturato in entrambi i giudizi a quibus), dando luogo, a parere del Tribunale, ad un regime «del tutto irrazionale e quindi generatore di un'ingiustificata disparità di trattamento»; che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in entrambi i giudizi indicati, con atti depositati rispettivamente il 27 giugno ed il 4 dicembre 2007, chiedendo che le questioni siano dichiarate infondate per le ragioni già illustrate negli ulteriori atti di intervento dei quali fin qui si è detto; che il Tribunale di Napoli in composizione monocratica, con ordinanza del 31 gennaio 2007 (r.o. n. 451 del 2007), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede termini di prescrizione diversi «a seconda che per il reato siano o meno irrogabili, in alternativa alla pena pecuniaria, la permanenza domiciliare o il lavoro sostitutivo»; che il rimettente procede per i reati di lesione personale (art. 582 cod. pen.), di ingiuria (art. 594 cod. pen.) e di danneggiamento (art. 635 cod. pen.), tutti riferibili alla competenza penale del giudice di pace, e tutti sanzionabili secondo il disposto dell'art. 52 del d.lgs. n. 274 del 2000; che lo stesso rimettente, alla luce della disciplina posta dal primo e dal quinto comma dell'art. 157 cod. pen., rileva che il sistema dei termini prescrizionali per i reati di competenza del giudice di pace sarebbe irrazionale, perché incentrato su tempi più lunghi per i meno gravi tra i reati in questione; che il giudice a quo, in punto di rilevanza, osserva come, nella specie, il reato di lesione personale debba considerarsi già prescritto alla luce del termine triennale fissato dalla disciplina vigente, e come i reati ulteriori, «per i quali è teoricamente applicabile il termine di prescrizione ordinaria di sei anni», potrebbero «parimenti considerarsi prescritti in caso di ritenuta fondatezza della questione di legittimità costituzionale»; che il Giudice di pace di Bergamo - con cinque ordinanze di tenore analogo, deliberate rispettivamente il 22 febbraio 2007 (r.o. n. 530 del 2007), il 3 maggio 2007 (r.o. n. 741 del 2007), il 7 giugno 2007 (r.o. n. 769 del 2007), il 15 giugno 2007 (r.o. n. 770 del 2007) ed il 6 luglio 2007 (r.o. n. 771 del 2007 - ha sollevato, in riferimento all'art. 3 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede un termine prescrizionale di tre anni quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria; che il rimettente procede, nei cinque giudizi a quibus, per i delitti di lesioni personali colpose (art. 590 cod. pen.: r.o. numeri 530 e 771 del 2007), di lesione personale (art. 582 cod. pen.: r.o. numeri 741 e 769 del 2007), e di minaccia (art. 612 cod. pen.: r.o. n. 770 del 2007); che in tutte le ordinanze di rimessione, riproducendo in parte la motivazione di un provvedimento deliberato nello stesso senso dalla Corte di cassazione (ordinanza n. 29786 del 2006), il giudice a quo censura la disciplina della prescrizione risultante dal primo e dal quinto comma dell'art. 157 cod. pen.; che tale disciplina infatti, attribuendo un termine prescrizionale più breve ai reati puniti con «pene diverse» da quella detentiva e da quella pecuniaria, e quindi ai più gravi tra i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, sarebbe priva di razionalità intrinseca e tale da vulnerare, nel contempo, il principio di ragionevolezza ed il canone della uguaglianza, presidiati dall'art. 3 Cost.; che la denunciata aporia, secondo il rimettente, dovrebbe essere eliminata attraverso l'ablazione della norma contenuta nel quinto comma dell'art. 157 cod. pen., con la conseguente applicazione dei più lunghi termini indicati nel precedente primo comma a tutti i reati di competenza del giudice di pace; che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in ciascuno dei cinque giudizi indicati, con atti depositati l'11 settembre 2007 (r.o. n. 530 del 2007), il 4 dicembre 2007 (r.o. n. 741 del 2007) ed il 17 dicembre 2007 (r.o. numeri 769, 770 e 771 del 2007); che, secondo la difesa erariale, le questioni proposte sono infondate, per le stesse ragioni indicate negli atti di intervento prodotti nei giudizi fin qui richiamati; che il Giudice di pace di Casalmaggiore, con ordinanza del 18 dicembre 2006 (r.o. n. 541 del 2007), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, primo e quinto comma, cod. pen., come sostituiti dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevedono «che la prescrizione estingue il reato decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e, comunque, un tempo non inferiore a sei anni se si tratta di delitto e di quattro anni se si tratta di contravvenzione, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria, mentre, qualora per il reato stabilisca pene diverse da quella detentiva e pecuniaria, dispone il termine prescrizionale di tre anni»; che, secondo quanto riferito dal rimettente, nel giudizio a quo si procede per un reato (non indicato) punibile con la sola pena pecuniaria, e per tale ragione assoggettato ad un termine prescrizionale (sei anni, per il disposto del primo comma della norma censurata) più lungo di quello che la legge stabilisce per i più gravi tra i reati di competenza del giudice di pace (tre anni, a norma del quinto comma del citato art. 157 cod. pen.); che tale disciplina, a parere del giudice a quo, comporterebbe una violazione dei principi di ragionevolezza e uguaglianza, come sanciti dall'art. 3 Cost.; che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato l'11 settembre 2007, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata per le ragioni già illustrate negli atti di intervento prodotti nei giudizi finora indicati; Considerato che, mediante le ordinanze di rimessione indicate in epigrafe, sono state sollevate varie questioni concernenti la disciplina della prescrizione per i reati attributi alla competenza del giudice di pace; che uno dei giudici a quibus censura in particolare - con riferimento all'art. 3 della Costituzione - il primo comma dell'art. 157 del codice penale, come sostituito dall'art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di a ttenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui assoggetta ai più lunghi termini di prescrizione in esso previsti, anziché ad un termine triennale, i reati di competenza del giudice di pace puniti con la sola pena pecuniaria (r.o. numeri 491 e 492 del 2006, numeri 419 e 643 del 2007); che altri rimettenti censurano, sempre in riferimento all'art. 3 Cost., il quinto comma dell'art. 157 cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui non dispone che il termine triennale di prescrizione previsto per i reati puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria si applichi, inoltre, a tutti gli ulteriori reati di competenza del giudice di pace (r.o. numeri 572 e 573 del 2006, numeri 359, 421, 451 e 746 del 2007); che in un caso ulteriore l'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, è genericamente censurato per il ritenuto contrasto con l'art. 3 Cost. (r.o. n. 409 del 2007); che viene sollevata inoltre, sempre con riguardo all'art. 3 Cost., una questione di legittimità riferita tanto al primo che al quinto comma dell'art. 157 cod. pen, come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, denunciando l'irragionevolezza della previsione di termini prescrizionali di durata inversamente proporzionale alla gravità dei reati attribuiti alla competenza del giudice di pace (r.o. n. 541 del 2007); che una parte ulteriore delle ordinanze di rimessione - sul contrario assunto che l'allineamento dei tempi di prescrizione (asseritamente necessario alla luce dell'art. 3 Cost.) dovrebbe realizzarsi mediante l'applicazione generalizzata dei termini più lunghi - prospetta l'illegittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede un termine prescrizionale di tre anni quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria (r.o. numeri 281, 530, 741, 769, 770 e 771 del 2007); che infine il Tribunale di Perugia, sezione distaccata di Assisi, solleva anche una questione concernente la disciplina transitoria della legge di riforma della prescrizione, censurando il «nuovo» quinto comma dell'art. 157 cod. pen., «in relazione» al terzo comma dell'art. 10 della legge n. 251 del 2005, in quanto precluderebbe l'applicazione del termine prescrizionale di tre anni nei procedimenti per i quali già fosse intervenuta la dichiarazione di apertura del dibattimento all'epoca di entrata in vigore della stessa legge n. 251 del 2005 (r.o. n. 573 del 2006); che tutte le questioni sollevate riguardano l'attuale disciplina della prescrizione per i reati di competenza del giudice di pace, cosicché appare opportuna la riunione dei relativi giudizi; che la questione sollevata dal Tribunale di Perugia, sezione distaccata di Assisi (r.o. n. 573 del 2006), relativamente al novellato quinto comma dell'art. 156 cod. pen., è manifestamente inammissibile; che infatti l'ordinanza di rimessione, anche per l'effetto di un probabile errore materiale, risulta priva di un'adeguata descrizione della fattispecie concreta, così da precludere a questa Corte il controllo sulla rilevanza (tanto più necessario considerando che le imputazioni sembrerebbero riguardare reati sanzionabili con pena «paradetentiva», e dunque già suscettibili di prescrizione nel nuovo e più favorevole termine di tre anni); che il giudice a quo, in ogni caso, non espone le ragioni del ritenuto contrasto tra la norma censurata e l'art. 3 Cost. (ex multis, ordinanze numeri 426 e 114 del 2007); che anche l'ulteriore questione sollevata dal medesimo rimettente, relativamente alle condizioni per l'applicazione retroattiva delle nuove disposizioni in materia di prescrizione, deve essere dichiarata manifestamente inammissibile, alla luce di carenze motivazionali che investono, tra l'altro, le ragioni della censura concernente il quinto comma dell'art. 157 cod. pen. (norma che regola la disciplina a regime dei termini prescrizionali) ed i motivi per i quali sarebbe stato irragionevole, nell'ulteriore norma censurata, il riferimento in senso preclusivo alla dichiarazione di apertura del dibattimento (riferimento venuto comunque meno, dopo l'ordinanza di rimessione, per effetto della dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale del comma 3 dell'art. 10 della le gge n. 251 del 2005, pronunciata da questa Corte con la sentenza n. 393 del 2006); che la questione sollevata dal Tribunale di Perugia, sezione distaccata di Gubbio (r.o. n. 409 del 2007), è manifestamente inammissibile, poiché la relativa ordinanza difetta d'una adeguata descrizione della fattispecie sottoposta al giudizio e si limita, per altro verso, a denunciare una «palese violazione» dell'art. 3 Cost., senza alcuna specificazione dell'intervento richiesto sul quinto comma dell'art. 157 cod. pen. (norma la cui ablazione implicherebbe, comunque, conseguenze opposte a quelle plausibilmente auspicate dal rimettente); che risulta manifestamente inammissibile anche la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Napoli (r.o. n. 451 del 2007), posto che la relativa ordinanza, ove pure l'obiettivo del rimettente è identificabile nella «estensione» del termine triennale a tutti i reati di competenza del giudice di pace, esprime unicamente una censura, generica e contraddittoria, riguardo al quinto comma dell'art. 157 cod. pen. (la cui caducazione, come già si è notato, provocherebbe semmai l'applicazione generalizzata dei termini previsti nel primo comma dello stesso art. 157); che va dichiarata la manifesta inammissibilità delle questioni sollevate dal Giudice di pace di Bergamo con le cinque diverse ordinanze meglio indicate in epigrafe (r.o. numeri 530, 741, 769, 770 e 771 del 2007), posto che i relativi provvedimenti, di tenore praticamente identico, difettano d'una qualunque descrizione delle fattispecie concrete (a partire dalla data di commissione dei fatti di volta in volta perseguiti), così da restare precluso il necessario controllo di questa Corte sulla rilevanza delle questioni medesime; che risulta manifestamente inammissibile, allo stesso modo, la questione sollevata dal Giudice di pace di Casalmaggiore (r.o. n. 541 del 2007), la cui ordinanza di rimessione non indica neppure la qualificazione giuridica del fatto contestato e, comunque, non esprime un petitum riconoscibile, posto che il dispositivo si sostanzia nella mera descrizione del regime prescrizionale, asseritamente irragionevole, che il legislatore avrebbe introdotto novellando il primo ed il quinto comma dell'art. 157 cod. pen.; che le ulteriori questioni di legittimità costituzionale cui si riferisce il presente giudizio - sollevate dal Tribunale di Grosseto (r.o. numeri 491 e 492 del 2006, 419 e 643 del 2007), dal Tribunale di Perugia (r.o. n. 572 del 2006), dal Tribunale di Cremona (r.o. n. 281 del 2007), dal Tribunale di Treviso (r.o. n. 359 del 2007) e dal Tribunale di Bergamo (r.o. numeri 421 e 746 del 2007) - sono manifestamente infondate, in quanto prospettate in base ad un erroneo presupposto interpretativo; che infatti - come questa Corte ha rilevato dichiarando non fondate «nei sensi di cui in motivazione» questioni analoghe a quelle odierne, poste sia con riguardo al primo che con riferimento al quinto comma dell'art. 157 cod. pen. (sent. n. 2 del 2008) - deve essere esclusa l'attuale vigenza di un termine triennale di prescrizione per i reati di competenza del giudice di pace punibili mediante le cosiddette sanzioni «paradetentive»; che nell'occasione è stata esclusa, in particolare, la riferibilità della norma contenuta nel quinto comma dell'art. 157 cod. pen. a fattispecie incriminatrici che non prevedano in via diretta ed esclusiva pene diverse da quelle pecuniarie o detentive, ed è stata rilevata, per altro verso, la perdurante equiparazione, «per ogni effetto giuridico», tra le pene dell'obbligo di permanenza domiciliare e del lavoro socialmente utile, irrogabili dal giudice di pace in alternativa alle pene pecuniarie, e le sanzioni detentive originariamente previste per i reati che le contemplano (art. 58, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000); che non si rinvengono, nella motivazione dei provvedimenti dai quali origina il presente giudizio, argomenti che inducano a modificare la valutazione appena richiamata; che la ritenuta applicabilità delle disposizioni previste nel primo comma dell'art. 157 cod. pen. a tutti i reati di competenza del giudice di pace esclude l'incongrua diversità di trattamento denunciata da ciascuno dei rimettenti. Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi innanzi alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 157, primo comma, del codice penale, come sostituito dall'art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevate, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Grosseto (r.o. numeri 491 e 492 del 2006, 419 e 643 del 2007), con le ordinanze indicate in epigrafe; dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, sollevate, in riferimento all'art. 3 Cost., dal Tribunale di Perugia (r.o. n. 572 del 2006), dal Tribunale di Cremona (r.o. n. 281 del 2007), dal Tribunale di Treviso (r.o. n. 350 del 2007) e dal Tribunale di Bergamo (r.o. numeri 421 e 746 del 2007), con le ordinanze indicate in epigrafe; dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, del codice penale, come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, sollevate, in riferimento all'art. 3 Cost., dal Tribunale di Perugia (r.o. numeri 573 del 2006 e 409 del 2007), dal Tribunale di Napoli (r.o. n. 451 del 2007) e dal Giudice di pace di Bergamo (r.o. numeri 530, 741, 769, 770 e 771 del 2007), con le ordinanze indicate in epigrafe; dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, primo e quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., dal Giudice di pace di Casalmaggiore (r.o. n. 541 del 2007), con l'ordinanza indicata in epigrafe; dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, in relazione all'art. 10, comma 3, della stessa legge n. 251 del 2005, sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., dal Tribunale di Perugia (r.o. n. 573 del 2006), con l'ordinanza indicata in epigrafe; Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Gaetano SILVESTRI, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 18 del codice di procedura civile, promosso con ordinanza del 14 luglio 2006 dal Giudice di pace di Taranto nel procedimento civile vertente tra Giuseppe Stano e Edilverbera s.n.c. ed altri, iscritta al n. 848 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito della camera di consiglio del 21 maggio 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella. Ritenuto che, con ordinanza del 14 luglio 2006, il Giudice di pace di Taranto ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 18 del codice di procedura civile, nella parte in cui, in relazione all'azione di risarcimento di danni derivanti dalla circolazione stradale, omette di prevedere la competenza territoriale del giudice del luogo in cui risiede il danneggiato da fatto illecito, in tal modo violando il principio di ragionevolezza e quello del giudice naturale precostituito per legge; che il rimettente osserva che, per quanto attiene ai giudizi di risarcimento del danno promossi da danneggiati da incidenti derivanti dalla circolazione stradale nei confronti delle compagnie di assicurazione, l'introduzione di un giudizio nel foro ove l'obbligazione è sorta ovvero ove risiede il convenuto (e con particolare riguardo alla sede legale dell'impresa assicuratrice) determina, per il danneggiato, un notevole aumento dei costi delle spese processuali e soprattutto extraprocessuali, nel caso in cui il foro non coincida con quello di sua residenza, essendo egli costretto ad intraprendere un giudizio fuori della propria sede, con conseguente notevole limitazione nella tutela dei suoi diritti; che, al contrario, la compagnia assicuratrice avrebbe il vantaggio di essere convenuta nella sua sede, nonostante essa, per la sua organizzazione, sia capillarmente presente in ogni circoscrizione con i propri ispettorati; che, afferma il rimettente, nei fatti, le compagnie di assicurazione, molto spesso pretestuosamente, non adempiono alle proprie obbligazioni risarcitorie, facendo affidamento proprio sulla mancata disponibilità, da parte del danneggiato, di mezzi idonei a perseguire un'azione in un foro lontano dalla sua residenza; che, più correttamente, sottolinea il rimettente, l'art. 1469-bis, n. 19 cod. civ. stabilisce che si presumono vessatorie le clausole che hanno per oggetto la fissazione della sede del foro competente nelle cause fra consumatore e professionista avente località diversa da quella di residenza o domicilio elettivo del consumatore; che, analogamente, l'art. 444 cod. proc. civ., in deroga ai principi dettati in materia di competenza per territorio, e, segnatamente, a quello dell'art. 18 cod. proc. civ., prevede, nelle controversie in materia di previdenza e assistenza, la competenza territoriale del foro in cui risiede l'attore; che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio, con il patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto in primo luogo che la questione sia dichiarata inammissibile, per la radicale assenza di qualsivoglia descrizione della fattispecie e, nel merito, che la stessa sia dichiarata manifestamente infondata. Considerato che il Giudice di pace di Taranto dubita, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 18 del codice di procedura civile, nella parte in cui, in relazione all'azione di risarcimento di danni derivanti dalla circolazione stradale, omette di prevedere la competenza territoriale del giudice del luogo in cui risiede il danneggiato da fatto illecito, in tal modo violando il principio di ragionevolezza e quello del giudice naturale precostituito per legge; che il rimettente, limitandosi a trascrivere pedissequamente la memoria depositata da una delle parti, non fornisce alcuna informazione utile sulla vicenda processuale; che la mancanza di ogni indicazione sul giudizio a quo preclude a questa Corte il doveroso controllo sulla rilevanza della questione, rendendo la stessa manifestamente inammissibile (si vedano, tra le altre, ordinanze nn. 396, 447, 450 del 2007). Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 18 del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, dal Giudice di pace di Taranto con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Luigi MAZZELLA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 707 del codice penale, promosso con ordinanza del 7 gennaio 2004 dalla Corte d'appello di Genova, nel procedimento penale a carico di A. M., iscritta al n. 277 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 21 maggio 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick. Ritenuto in fatto 1. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe, pervenuta alla Corte il 28 marzo 2007, la Corte d'appello di Genova ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 25 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 707 del codice penale, che contempla la contravvenzione di possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli. La Corte rimettente premette di essere investita del processo penale nei confronti di una persona imputata del reato previsto dalla norma denunciata, in quanto - essendo stata condannata per delitti determinati da motivi di lucro - veniva colta in possesso di un cacciavite con punta piatta della lunghezza di 14 centimetri, costituente strumento atto ad aprire e a sforzare serrature, senza giustificarne l'attuale destinazione. Facendo propri gli argomenti svolti dalla difesa a sostegno dell'eccezione di illegittimità costituzionale della norma incriminatrice, il giudice a quo muove dalla premessa che il reato in esame - definito come «di sospetto» - incrimini «fatti in sé stessi non lesivi del bene protetto ma tali da far presumere la commissione di reati». Il rimettente ricorda, altresì, come questa Corte abbia dichiarato costituzionalmente illegittimi gli artt. 707 e 708 cod. pen., nella parte in cui rendevano rilevanti, ai fini della configurabilità delle contravvenzioni da essi previste, condizioni personali quali la condanna per mendicità, l'ammonizione, la sottoposizione a misura di sicurezza personale o a cauzione di buona condotta. Il giudice a quo rimarca, ancora, come la sentenza n. 370 del 1996 abbia dichiarato successivamente incostituzionale l'art. 708 cod. pen., per violazione dei principi di ragionevolezza e di tassatività, anche nel residuo riferimento ai soggetti precedentemente condannati per determinati reati; ritenendo invece conforme al principio di tassatività l'art. 707 cod. pen.: ciò, peraltro - ad avviso della Corte rimettente - senza considerare adeguatamente il principio di offensività. In ogni caso - soggiunge il giudice a quo - la sentenza n. 354 del 2002 avrebbe escluso, in relazione alla fattispecie contemplata dall'art. 688, secondo comma, cod. pen., che «lo status personale di condannato» possa «legittimare la sanzione penale». Tanto premesso, la Corte d'appello di Genova ritiene che l'art. 707 cod. pen. si ponga in contrasto con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), incriminando «non [.] il fatto in sé, ma [.] elementi ad esso estranei attinenti alla persona», sulla base di una «presunzione di pericolosità» riguardante «il passato» e, al tempo stesso, «troppo generica». La norma censurata farebbe discendere, per giunta, da una condanna «effetti da essa non previsti», individuando nel pregiudicato un potenziale autore di nuovi reati: e ciò in contrasto con la valenza rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), alla luce della quale il condannato andrebbe considerato, viceversa, socialmente recuperato e insuscettibile di «soffrire condizioni di iniquo sfavore». La disposizione de qua delineerebbe, quindi, una responsabilità «per il modo di essere dell'autore», lesiva anche degli artt. 25 e 27, primo comma, Cost., che sanciscono i principi di offensività e della responsabilità per fatto proprio colpevole. Un ulteriore profilo di violazione dell'art. 3 Cost. si connetterebbe alla disparità di trattamento riscontrabile tra coloro che hanno riportato una condanna definitiva per i reati indicati dalla norma incriminatrice e coloro che - pur avendo commesso identici fatti - non siano stati invece condannati, a causa dell'estinzione del reato per «amnistia, prescrizione, remissione di querela, oblazione, risarcimento del danno»; ovvero in ragione dell'improcedibilità dell'azione penale per mancanza di querela. Risulterebbe violato anche il principio di tassatività (art. 25, secondo comma, Cost.), giacché i comportamenti incriminati - diversamente che per i reati in materia di armi - non sarebbero descritti in termini che delineino «un disvalore sottostante alla fattispecie legale». La norma impugnata comprometterebbe, inoltre, il diritto di difesa (art. 24 Cost.), giacché - invertendo l'onere della prova - imporrebbe all'imputato di giustificare la destinazione o l'origine dei beni detenuti e, dunque, di dimostrare la propria innocenza: precludendo, così, anche l'esercizio della facoltà di «tacere nel processo». Rimarrebbe lesa, di conseguenza, la «presunzione di innocenza» (recte, di non colpevolezza: art. 27, secondo comma, Cost.), in quanto la prova della destinazione criminosa degli oggetti verrebbe desunta, in via meramente presuntiva, da altri elementi (la condizione soggettiva e il possesso delle cose): ottica nella quale il fatto punito «non verrebbe più accertato in un regolare processo», con correlato vulnus anche del «principio di legalità». Alla luce di tale complesso di rilievi - addotti dalla difesa e che la Corte rimettente condivide - sarebbe dunque necessario, ad avviso della Corte stessa, che il confine tra le ipotesi di reato e le misure volte ad affrontare la pericolosità sociale venga «meglio definito». In particolare, mentre misure di polizia e di sicurezza potrebbero risultare «compatibili con il sistema»; di dubbia costituzionalità apparirebbe la previsione - rispetto a chi si trovi in determinate condizioni soggettive, sia pure derivanti da un precedente accertamento giudiziale - di un reato di pericolo come quello in esame, che punisce atti leciti per la generalità dei cittadini, senza neppure richiedere una esclusiva o almeno «struttu rale» attitudine degli oggetti posseduti ad aprire o a sforzare serrature. 2. - Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata. La difesa erariale rileva come i dubbi di costituzionalità prospettati dal giudice a quo siano già stati dichiarati infondati, o manifestamente infondati, tanto da questa Corte che dalla Corte di cassazione. Alla luce delle affermazioni di questa Corte, andrebbe esclusa, in particolare, ogni violazione dell'art. 3 Cost., essendo ben diversa la situazione di chi - definitivamente condannato per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione dei delitti contro il patrimonio - abbia il possesso ingiustificato di arnesi atti ad aprire o a sforzare serrature, rispetto a quella di chi abbia quel possesso, ma non sia stato mai condannato per gli anzidetti reati. Né potrebbe ipotizzarsi una violazione del principio di colpevolezza. Quest'ultimo esclude che un soggetto possa essere chiamato a rispondere di fatti che non può impedire, o in relazione ai quali non è in grado, senza la minima colpa, di ravvisare il dovere di evitarli; mentre, nella specie, il soggetto - che versa in una situazione di peculiare rilievo - potrebbe bene evitare la commissione del fatto incriminato (il possesso ingiustificato di grimaldelli od oggetti similari). Ancor più evidente risulterebbe, poi, l'insussistenza della violazione del principio di tassatività, in quanto l'art. 707 cod. pen. punisce una condotta chiaramente delineata. Non sarebbe violato nemmeno il principio di offensività, giacché il possesso ingiustificato degli arnesi di cui all'art. 707 cod. pen., da parte di chi versi nelle condizioni indicate nella norma incriminatrice, è comunemente avvertito come una situazione pericolosa per la società, meritevole di pena criminale: tanto che analogo reato non solo è stato sempre previsto dalle legislazioni unitarie e preunitarie, ma è stato ed è tuttora previsto anche dalle legislazioni penali degli altri Paesi europei. Come puntualizzato dalla sentenza n. 265 del 2005 di questa Corte, la norma deve ritenersi volta a tutelare, di fronte a forme di esposizione a pericolo, un interesse penalmente rilevante, nel rispetto del principio dell'offensività in astratto: salva l'esigenza di una verifica particolarmente attenta dell'attualità e della concretezza di detto pericolo da parte del giudice chiamato a fare applicazione della norma, avuto riguardo, in specie, all'attitudine funzionale degli strumenti ad aprire o a sforzare serrature e alle modalità di tempo e di luogo della condotta. Egualmente insussistente risulterebbe - secondo l'Avvocatura generale dello Stato - la denunciata violazione del principio della finalità rieducativa della pena. A prescindere dal rilievo che tale finalità non potrebbe essere invocata per escludere la legittimità costituzionale di fattispecie contravvenzionali, l'art. 707 cod. pen. non punisce comunque i fatti per i quali vi è già stata condanna, ma uno specifico fatto nuovo, commesso da soggetto che - in base a particolari precedenti - apparirebbe potenzialmente pericoloso e che non potrebbe essere ritenuto recuperato solo per effetto della condanna o dell'espiazione della pena. L'art. 707 cod. pen., d'altro canto, non richiederebbe affatto che l'imputato provi la liceità della destinazione della cosa posseduta, invertendo l'onere della prova: ma si limiterebbe a pretendere un'attendibile e circostanziata giustificazione, da valutare in concreto, secondo i principi della libertà delle prove e del libero convincimento. Non sarebbe ravvisabile, dunque, alcuna violazione né della presunzione di non colpevolezza, né del diritto di difesa, riguardato anche nel particolare aspetto della facoltà di non rispondere: giacché - come già affermato da questa Corte - se è pur vero che la giustificazione delle cose indicate nell'art. 707 cod. pen. implica che una risposta sia data, è altrettanto vero che la giustificazione è essa stessa un mezzo di difesa, alla qua le l'interessato può liberamente rinunciare qualora ritenga che a fini difensivi sia preferibile il silenzio. Considerato in diritto 1. - La Corte d'appello di Genova dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 25 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, dell'art. 707 del codice penale, che delinea la contravvenzione di possesso ingiustificato di chiavi alterate o di grimaldelli. Ad avviso del giudice a quo, la norma denunciata risulterebbe lesiva, anzitutto, dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), in quanto sottoporrebbe a pena non il fatto in sé, ma una condizione personale - quella di condannato per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio - sulla base di una presunzione di pericolosità riguardante il passato e, al tempo stesso, «troppo generica». Individuando nel condannato un potenziale autore di nuovi reati, l'art. 707 cod. pen. si porrebbe in contrasto anche con la funzione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.), alla luce della quale il condannato andrebbe considerato socialmente recuperato e insuscettibile di «soffrire condizioni di iniquo sfavore». Verrebbe così delineata una responsabilità «per il modo di essere dell'autore», lesiva dei principi di offensività e della responsabilità penale per fatto proprio colpevole, sanciti dagli artt. 25 e 27, primo comma, Cost. L'art. 3 Cost. sarebbe compromesso anche in rapporto alla disparità di trattamento riscontrabile tra chi, per il precedente reato, ha riportato condanna definitiva e chi, a fronte della commissione di un identico fatto, non è stato invece condannato a causa dell'estinzione del reato o dell'improcedibilità dell'azione penale per mancanza di querela. Risulterebbe violato, ancora, il principio di tassatività (art. 25, secondo comma, Cost.), giacché i comportamenti incriminati non verrebbero descritti in termini che delineino «un disvalore sottostante alla fattispecie legale». La norma impugnata vulnererebbe, infine, il diritto di difesa (art. 24 Cost.) e la presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), giacché - invertendo l'onere della prova - imporrebbe all'imputato di giustificare la destinazione dei beni detenuti, precludendogli, così, anche l'esercizio del diritto al silenzio. 2. - La questione non è fondata. 3. - L'ampia discrezionalità che - per costante giurisprudenza di questa Corte - va riconosciuta al legislatore nella configurazione delle fattispecie criminose, si estende anche alla scelta delle modalità di protezione penale dei singoli beni o interessi. Rientra, segnatamente, in detta sfera di discrezionalità l'opzione per forme di tutela avanzata, che colpiscano l'aggressione ai valori protetti nello stadio della semplice esposizione a pericolo; nonché, correlativamente, l'individuazione della soglia di pericolosità alla quale riconnettere la risposta punitiva. Tali soluzioni debbono misurarsi, nondimeno, con l'esigenza di rispetto del principio di necessaria offensività del reato: principio desumibile, in specie, dall'art. 25, secondo comma, Cost., in una lettura sistematica cui fa da sfondo «l'insieme dei valori connessi alla dignità umana» (sentenza n. 263 del 2000). La giurisprudenza di questa Corte ha da tempo chiarito in qual modo si atteggi, a tale riguardo, la ripartizione di competenze tra giudice costituzionale e giudice ordinario (sentenze n. 265 del 2005, n. 263 e n. 519 del 2000, n. 360 del 1995). Spetta, in specie, alla Corte - tramite lo strumento del sindacato di costituzionalità - procedere alla verifica dell'offensività «in astratto», acclarando se la fattispecie delineata dal legislatore esprima un reale contenuto offensivo; esigenza che, nell'ipotesi del ricorso al modello del reato di pericolo, presuppone che la valutazione legislativa di pericolosità del fatto incriminato non risulti irrazionale e arbitraria, ma risponda all'id quod plerumque accidit (tra le altre, sentenza n. 333 del 1991). Ove tale condizione risulti soddisfatta, il compito di uniformare la figura criminosa al principio di offensività nella concretezza applicativa resta affidato al giudice ordinario, nell'esercizio del proprio potere ermeneutico (offensività «in concreto»). Esso - rimanendo impegnato ad una lettura "teleologicamente orientata" degli elementi di fattispecie, tanto più attenta quanto più le formule verbali impiegate dal legislatore appaiano, in sé, anodine o polisense - dovrà segnatamente evitare che l'area di operatività dell'incriminazione si espanda a condotte prive di un'apprezzabile potenzialità lesiva. 4. - Ciò premesso, questa Corte ha già avuto modo di chiarire come la previsione punitiva di cui all'art. 707 cod. pen. - nel testo risultante dopo la parziale declaratoria di illegittimità costituzionale operata dalla sentenza n. 14 del 1971 - non possa ritenersi contrastante con il principio di offensività «in astratto» (sentenza n. 265 del 2005). Contrariamente a quanto assume il rimettente, la disposizione non prefigura una responsabilità «per il modo di essere dell'autore», in assenza di offesa per il bene protetto; ma mira a salvaguardare il patrimonio rispetto a situazioni di pericolo normativamente tipizzate: richiedendo, a tal fine, il concorso di tre distinti elementi. In primo luogo, una particolare qualità del soggetto attivo, che deve identificarsi in persona già condannata - in via definitiva - per delitti determinati da motivi di lucro o per contravvenzioni concernenti la prevenzione di delitti contro il patrimonio. In secondo luogo, il possesso - nel quale detto soggetto deve essere «colto» - di oggetti idonei a vincere congegni posti a difesa della proprietà (chiavi alterate o contraffatte, chiavi genuin e, strumenti atti ad aprire o a sforzare serrature): possesso che - come reiteratamente rilevato da questa Corte - è esso stesso una condotta, o fa comunque seguito ad una condotta, con conseguente insussistenza di un vulnus al principio di materialità del reato (sentenze n. 265 del 2005, n. 236 del 1975 e n. 14 del 1971). In terzo luogo e da ultimo, l'incapacità del soggetto di giustificare - e, amplius, per quanto si dirà, l'impossibilità di desumere aliunde - l'attuale destinazione (lecita) dei predetti strumenti. In presenza di tali elementi, non può reputarsi, in termini generali, irrazionale e arbitraria la previsione - nella quale la fattispecie in esame rinviene pacificamente la propria ratio - che l'agente si accinga a commettere reati contro il patrimonio mediante violenza sulle cose (quali furti in abita zione o su autovetture). Sarà, per il resto, compito del giudice ordinario evitare che - a fronte della descrizione, per certi versi, non particolarmente perspicua del fatto represso - la norma incriminatrice venga a colpire anche fatti concretamente privi di ogni connotato di pericolosità. A tal fine, il giudice dovrà procedere ad un vaglio accurato sia dell'attitudine funzionale degli strumenti ad aprire o a sforzare serrature; sia delle modalità e delle circostanze di tempo e di luogo con cui gli stessi sono detenuti. In particolare, quanto meno univoca ed esclusiva risulti la destinazione dello strumento allo scasso - come nel caso in cui si discuta di oggetti di uso comune, suscettibili di impieghi diversi e leciti - tanto più significative dovranno risultare le modalità e le circostanze spazio- temporali della detenzione, nella direzione dell'esistenza di un attuale e concreto pericolo di commissione di delitti contro il patrimonio (sentenza n. 265 del 2005). Al riguardo, non va del resto dimenticato che la norma incriminatrice non punisce chi «possiede», ma chi «è colto in possesso» degli strumenti in questione: formula, questa, opportunamente valorizzabile al fine di escludere la rilevanza penale di situazioni di generica disponibilità, a fronte delle quali la possibilità di un impiego dell'oggetto per finalità criminose appaia remota e meramente congetturale. 5. - In simile prospettiva, non è quindi riscontrabile la violazione dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), denunciata dal giudice a quo sotto il profilo che la norma incriminatrice risulterebbe basata su una presunzione di pericolosità riguardante «il passato» e «troppo generica». A fronte di una condotta che deve già presentare, nei termini dianzi evidenziati, una potenziale proiezione verso l'offesa al patrimonio, non può considerarsi irragionevole che il legislatore tenga conto delle precedenti condanne riportate dal soggetto attivo per reati aggressivi del medesimo bene, o comunque connotati da finalità di lucro, elevandole ad elemento di selezione dei fatti punibili, in quanto idonee a rendere maggiormente concreta detta proiezione offensiva (sentenza n. 236 del 1975 e ordinanza n. 146 del 1977; nonché sentenza n. 370 del 1996). 6. - Né, d'altra parte, tale soluzione legislativa si pone in contrasto con la finalità rieducativa della pena (art. 27, terzo comma, Cost.): finalità che imporrebbe - secondo il giudice a quo - di considerare il condannato «socialmente recuperato». Al legislatore non è inibito, infatti, prevedere che alla condanna, anche se seguita dall'espiazione della pena, residuino «effetti penali», al cui novero va ascritto quello in esame. Né si può ritenere che, in tale ottica, la condanna per determinati reati si trasformi in un "marchio indelebile", che pone il condannato in una posizione di perenne sfavore rispetto alla generalità dei cittadini, senza alcuna possibilità di emenda. Per communis opinio, difatti, il condannato cessa di rientrare tra i possibili autori della contravvenzione di cui all'art. 707 cod. pen. ove abbia ottenuto la riabilitazione, che estingue gli effetti penali della condanna (art. 178 cod. pen.). 7. - Priva di consistenza appare l'ulteriore censura di violazione del principio di eguaglianza, formulata dal giudice rimettente in rapporto alla disparità di trattamento che si verificherebbe tra coloro i quali hanno riportato una condanna definitiva per i reati indicati dalla norma incriminatrice censurata, e coloro che - pur avendo commesso un identico fatto - non sono stati invece condannati, a causa dell'estinzione del reato o della improcedibilità dell'azione penale per mancanza di querela. Le situazioni poste a confronto risultano, all'evidenza, non comparabili: giacché nel caso del prosciolto (anche se non nel merito) è comunque mancato un accertamento definitivo della responsabilità per il fatto anteriore. 8. - Quanto alla lamentata violazione del principio di determinatezza dell'illecito penale (art. 25, secondo comma, Cost.), questa Corte ha già escluso che detto principio resti vulnerato dalla locuzione descrittiva dell'oggetto materiale del reato, la quale fa perno sull'attitudine funzionale degli strumenti posseduti ad aprire o a sforzare serrature: attitudine la cui verifica non eccede il normale compito ermeneutico istituzionalmente demandato al giudice (ordinanza n. 36 del 1990). Ma analoga conclusione si impone anche con riguardo alle modalità e alle circostanze spazio-temporali della detenzione, la cui analisi - alla luce di quanto dianzi evidenziato - si rende necessaria ai fini della verifica della concretezza e dell'attualità del pericolo per il patrimonio, specie quando si tratti di oggetti di uso comune e a destinazione "aspecifica" (si veda, in rapporto alla similare problematica postasi con riferimento alla contravvenzione di possesso ingiustificato di strumenti atti ad offendere, di cui all'art. 4, secondo comma, della legge 18 aprile 1975, n. 110, la sentenza n. 79 del 1982). 9. - Tanto meno, poi, può ritenersi compromesso il principio della responsabilità per fatto proprio colpevole (art. 27, primo comma, Cost.), il quale esige che tutti e ciascuno degli elementi che concorrono a contrassegnare il disvalore della fattispecie siano soggettivamente collegati all'agente, nella forma del dolo o della colpa, e al medesimo «rimproverabili» (sentenze n. 322 del 2007 e n. 1085 del 1988). Nella specie, il presupposto soggettivo da cui dipende l'applicazione della norma incriminatrice è costituito da un dato certo e pienamente conoscibile dal soggetto attivo (la precedente condanna irrevocabile). Detto soggetto è posto quindi in condizione di evitare la realizzazione dell'elemento oggettivo del reato, in quanto l'acquisizione del possesso degli strumenti atti allo scasso avviene in un momento in cui la legge - a fronte della precedente condanna irrevocabile - impone all'agente di adottare particolari cautele (al riguardo, si veda la sentenza n. 48 del 1994). Mentre, per il resto, è pacifico che, ai fini dell'insorgenza della responsabilità penale, l'acquisto della disponibilità materiale del bene debba essere cosciente e volontario: se il possesso è inconsapevo le, la contravvenzione non si configura. 10. - Questa Corte ha in più occasioni escluso, ancora, i dedotti vulnera alla presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.) e al diritto di difesa (art. 24, secondo comma, Cost.), nel particolare aspetto del diritto al silenzio, legati alla circostanza che la norma impugnata stabilirebbe una inversione dell'onere della prova in danno dell'imputato (sentenza n. 236 del 1975; ordinanze n. 36 del 1990 e n. 146 del 1977). In effetti, al di là della formulazione letterale della previsione punitiva («dei quali non giustifichi l'attuale destinazione»), ciò che la medesima prefigura è solo un onere di allegazione, da parte dell'imputato, delle circostanze da cui possa desumersi la destinazione lecita degli oggetti, che non risultino conosciute o conoscibili dal giudicante. Quest'ultimo - alla stregua di una interpretazione ormai generalmente recepita - potrà trarre comunque aliunde il convincimento in ordine alla liceità degli obiettivi di impiego degli strumenti, ove l'imputato abbia scelto la via del silenzio. Si tratta di una situazione non dissimile, nella sostanza, da quella originata dalle numerose norme incriminatrici, presenti nell'ordinamento, che puniscono il compimento di determinate azioni od omissioni «senza giustificato motivo» (quale, ad esempio, la già ricordata disposizione incriminatrice del porto di strumenti atti a recare offesa alla persona: disposizione che prefigura una tutela in forma preventiva della vita e dell'incolumità fisica delle persone strutturalmente analoga, mutatis mutandis, a quella apprestata dall'art. 707 cod. pen. in rapporto al patrimonio; salvo a non richiedere - in correlazione al più elevato rango dell'interesse protetto - una specifica caratterizzazione del soggetto attivo). Nell'anzidetta clausol a - quella dell'assenza di giustificato motivo - non può infatti scorgersi una inversione dell'onere della prova, lesiva dei parametri costituzionali evocati (sentenza n. 5 del 2004). 11. - Priva di specifica motivazione risulta, da ultimo, l'allegata violazione dell'art. 13 Cost. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 707 del codice penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13, 24, 25 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, dalla Corte d'appello di Genova con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giovanni Maria FLICK, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 576 del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 6 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e degli artt. 6 e 10 della medesima legge, promossi, nell'ambito di diversi procedimenti penali, con ordinanze del 22 maggio 2006 dalla Corte d'appello di Napoli, del 14 giugno e del 5 luglio 2006 dalla Corte d'appello di Palermo, del 30 maggio 2006 dalla Corte d'appello di Lecce, del 23 febbraio 2007 dalla Corte d'appello di Palermo e del 17 maggio 2006 dalla Corte d'appello di Bresc ia, rispettivamente iscritte ai nn. 18, 159, 160, 231, 602 e 635 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 7, 14, 16, 35 e 37, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick. Ritenuto che, con ordinanza del 22 maggio 2006 (r.o. n. 18 del 2007), la Corte d'appello di Napoli ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui «non prevede alcuna disposizione per gli appelli proposti dalla parte civile prima dell'entrata in vigore della legge suddetta av verso la sentenza di proscioglimento dell'imputato»; che la Corte rimettente riferisce di essere investita degli appelli proposti, avverso la sentenza di assoluzione pronunciata in primo grado, dal pubblico ministero, da un imputato prosciolto e, ai soli effetti della responsabilità civile, dalle parti civili; che, alla luce delle modifiche introdotte dall'art. 6 della legge n. 46 del 2006 all'art. 576 del codice di procedura penale che disciplina l'appello della parte civile, la Corte d'appello di Napoli ritiene che l'unico mezzo di impugnazione oggi consentito alla parte civile avverso la sentenza di proscioglimento sia il ricorso per cassazione; che a tale conclusione condurrebbe, in primo luogo, l'«interpretazione sistematica» dell'art. 576 cod. proc. pen. e, in particolare, la circostanza che nel nuovo testo è stato eliminato il riferimento al «mezzo di impugnazione previsto per il pubblico ministero»; con la «conseguenza che, non essendo previsto dagli artt. 593 e seg. c.p.p. un autonomo potere di appello della parte civile, il mezzo di cui dispone dopo la riforma tale soggetto processuale non può che essere il ricorso per cassazione»; che, in secondo luogo, sarebbe «del tutto incongruo» ritenere che la parte civile possa proporre autonomamente appello avverso la sentenza di proscioglimento in casi più ampi rispetto a quelli riservati, a seguito della novella del 2006, alla pubblica accusa (limitati alle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, cod. proc. pen.); che, secondo la Corte rimettente, se l'eliminazione dell'appello della parte civile può ritenersi esente da vizi di incostituzionalità «per i processi non ancora esauriti in primo grado», essa presenterebbe invece evidenti profili di contrasto con la Costituzione in relazione «ai procedimenti pendenti in appello» al momento dell'entrata in vigore della legge; che, infatti, nei procedimenti in corso - non essendo consentito alla parte civile altro mezzo di impugnazione, a differenza di quanto stabilito dall'art. 10 della legge n. 46 del 2006 per l'imputato e il pubblico ministero che possono proporre ricorso per cassazione - la declaratoria di inammissibilità dell'appello comporta che la parte civile è costretta a subire gli effetti della sentenza di proscioglimento ai sensi dell'art. 652 cod. proc. pen., pur avendo legittimamente esercitato un diritto che la legge le conferiva prima della riforma; che sarebbe, pertanto, evidente la violazione degli artt. 3 e 24 Cost., per l'ingiustificata disparità di trattamento riservata nella disciplina transitoria alla parte civile, rispetto all'imputato e al pubblico ministero; che analoga questione è sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost., dalla Corte d'appello di Palermo, con due ordinanze del medesimo tenore del 14 giugno 2006 (r.o. n. 159 del 2007) e del 5 luglio 2006 (r.o. n. 160 del 2007), con le quali è censurato l'art. 10 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui prevede - per l'imputato e per il pubblico ministero e non già per la parte civile costituita - la possibilità di proporre ricorso per cassazione entro quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento di inammissibilità dell'appello proposto, avverso una sentenza di proscioglimento, prima della data di entrata in vigore della legge; che, con altra ordinanza del 23 febbraio 2007 (r.o. n. 602 del 2007), la Corte d'appello di Palermo ha sollevato, in riferimento agli stessi parametri, questione di costituzionalità degli artt. 6, comma 1, lettera a), e 10 della citata legge n. 46 del 2006, dubitando della legittimità costituzionale anche della inappellabilità a regime delle sentenze di proscioglimento da parte della persona offesa costituita parte civile; che, ai fini della rilevanza, i rimettenti precisano di essere investiti degli appelli proposti tra gli altri dalla parte civile avverso sentenze di assoluzione pronunciate rispettivamente dal Giudice per le indagini preliminari, in funzione di giudice dell'udienza preliminare, del Tribunale di Palermo per il reato di lesioni (r.o. n. 159 del 2007); dal Tribunale di Agrigento per il reato di false informazioni al pubblico ministero (r.o. n. 160 del 2007); dal Tribunale di Palermo per il reato di lesioni colpose (r.o. n. 602 del 2007); che in tutte le ordinanze si dà atto che, nelle more del giudizio, è entrata in vigore la legge n. 46 del 2006 e che, in forza dell'art. 10 di essa, gli appelli proposti dovrebbero essere dichiarati inammissibili; che la Corte d'appello di Palermo muove da un presupposto interpretativo identico a quello fatto proprio dalla Corte d'appello di Napoli: vale a dire che le modifiche recate dall'art. 6 della legge n. 46 del 2006 all'art. 576 cod. proc. pen. abbiano fatto venir meno il potere di appello della parte civile avverso le sentenze di proscioglimento; che tale conclusione è argomentata sulla base di considerazioni in parte analoghe a quelle sviluppate dalla Corte d'appello di Napoli; ciò, in particolare, per quanto riguarda l'eliminazione, nell'art. 576 citato, del richiamo al «mezzo previsto dal pubblico ministero», che nel testo originario costituiva il solo elemento testuale per legittimare l'appello della parte civile; che, peraltro, la Corte d'appello di Palermo richiama - quali ulteriori elementi ostativi ad una diversa interpretazione della disciplina censurata - sia il divieto, sancito nell'art. 12 delle preleggi, di adottare «interpretazioni "creative" quand'anche il risultato dovesse essere conforme alle intenzioni del Legislatore»; sia il principio di tassatività delle impugnazioni, in base al quale i provvedimenti del giudice possono essere impugnati solo dai soggetti e con i mezzi espressamente indicati; che, tanto premesso, la Corte d'appello rimettente dubita della legittimità costituzionale della disciplina transitoria contenuta nell'art. 10 della legge n. 46 del 2006, sul rilievo che nei riguardi della parte civile - il cui appello, proposto anteriormente all'entrata in vigore della legge, è dichiarato inammissibile - non sia prevista neppure la possibilità, contemplata invece per il pubblico ministero e per l'imputato, di proporre ricorso per cassazione; che tale disciplina darebbe luogo ad una irragionevole disparità di trattamento fra pubblico ministero e imputato, da un lato, e parte civile, dall'altro, con conseguente violazione degli artt. 3 e 111 Cost.; che sarebbe altresì vulnerato il principio dell'affidamento, in quanto il sistema processuale, consentendo al danneggiato di far valere la propria pretesa civilistica nel processo penale, creerebbe in tale soggetto una «aspettativa [.] a percorrere fino in fondo la via prescelta, allestendo reazioni capaci di elidere gli eventuali pregiudizi derivanti da taluni provvedimenti»; che, pertanto, sarebbe palesemente irragionevole una normativa che, privando la parte civile di ogni potere d'impugnazione, la costringa «a subire l'efficacia di giudicato della sentenza penale, pur avendo scelto di innestare la sua pretesa di essere risarcita in un contesto processuale che le conferiva il potere di appello»; che la disciplina transitoria introdurrebbe, infine, anche una disparità di trattamento «tra chi ha intrapreso l'azione civile nella sede propria e chi ha, invece, optato per l'esercizio dell'azione civile nel processo penale, essendo inibito a quest'ultimo - e non per sua determinazione - il diritto, riconosciuto invece al secondo, di chiedere, con l'appello, un nuovo giudizio di merito che ribalti la pronunzia a lui sfavorevole»; che, nella ordinanza iscritta al n. 602 del registro ordinanze del 2007, la Corte d'appello di Palermo precisa inoltre che la sentenza della Corte costituzionale n. 26 del 2007 - con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva, ed, in parte qua, dell'art. 10 della medesima legge - non incide sull'odierno quesit o di costituzionalità che concerne l'art. 6 della legge n. 46 del 2006, modificativo dell'art. 576 cod. proc. pen.; che, con ordinanza del 17 maggio 2006 (r.o. n. 635 del 2007), la Corte d'appello di Brescia ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 576, comma 1, cod. proc. pen., come modificato dall'art. 6 della citata legge n. 46 del 2006, e dell'art. 10 della medesima legge; che la Corte d'appello rimettente precisa, ai fini della rilevanza, di essere investita dell'appello proposto - avverso la sentenza con cui il Giudice per le indagini preliminari, in funzione di Giudice dell'udienza preliminare, del Tribunale di Brescia, ha assolto l'imputato dal reato di ingiuria e percosse perché il fatto non sussiste - dalla parte civile che ha chiesto «l'affermazione della penale responsabilità dell'imputato e la sua condanna alla pena ritenuta di giustizia, oltre al risarcimento del danno»; che, nel merito, anche la Corte rimettente ritiene che la nuova formulazione dell'art. 576 cod. proc. pen. imponga «di escludere il potere di appello della parte civile»: ciò perché la soppressione dell'inciso «con il mezzo previsto per il pubblico ministero» avrebbe totalmente svincolato il potere di impugnazione della parte civile da quello del pubblico ministero; che, pertanto, alla parte civile «non può più essere riconosciuta la facoltà di appello, né contro le sentenze di condanna, né contro le sentenze di assoluzione, e neanche nei residui casi in cui tale facoltà è tuttora concessa al P.M. dal nuovo art. 593, comma 2, cod. proc. pen.»; che l'eliminazione del potere di appello della persona offesa costituitasi parte civile integrerebbe una violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost.; che nell'ordinanza si evidenzia, in primo luogo, come l'eliminazione del potere di appello impedirebbe «alla parte civile di chiedere il riesame nel merito di decisioni che potrebbero esserle irreparabilmente pregiudizievoli, in base ai meccanismi preclusivi di cui agli artt. 652 e 654 cod. proc. pen.»; che la disciplina censurata sarebbe inoltre irragionevole, poiché, da un lato, mantiene inalterata la possibilità per la parte civile di far valere le proprie pretese civilistiche nel processo penale e, dall'altro, «scoraggia tale scelta, deprivandola degli adeguati strumenti di tutela giuridica delle medesime»; che, in riferimento al lamentato contrasto con l'art. 24 Cost., la Corte rimettente osserva come il diritto di difesa, garantito anche alla persona offesa dal reato, non possa ritenersi attuato dalle sole norme connesse alla costituzione di parte civile, dovendo invece «estrinsecarsi nell'effettività della tutela delle pretese civilistiche», ivi compreso evidentemente il potere di impugnazione; che, quanto alla dedotta lesione dell'art. 111, secondo comma, Cost., la Corte d'appello di Brescia osserva come la disciplina censurata «introduca un evidente squilibrio fra le parti, impedendo radicalmente l'appello alla parte civile, sia in caso di assoluzione che di condanna, laddove all'imputato è riconosciuta ampia facoltà di impugnazione»: uno squilibrio oltre il limite consentito sia dal principio di ragionevolezza, sia dal rispetto di altri valori costituzionali e, segnatamente, del diritto di difesa delle persone offese dal reato e del principio della parità tra le parti; che la Corte d'appello di Brescia formula, in riferimento alla disciplina transitoria, censure analoghe a quelle prospettate dalle altre ordinanze di rimessione, sul rilievo che la parte civile - in mancanza di una disciplina che le consenta di proporre ricorso per cassazione, come previsto per il pubblico ministero e per l'imputato - sarebbe «costretta a subire l'efficacia di un giudicato formatosi sulla sentenza di primo grado e senza più la possibilità di ricorrere al giudice civile, pur avendo optato per il giudizio penale in un contesto legislativo che le conferiva il potere di appello»; che, con ordinanza del 30 maggio 2006 (r.o. n. 231 del 2007), la Corte d'appello di Lecce ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 576 cod. proc. pen., come modificato dall'art. 6 della legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui non consente alla parte civile l'appello contro le sentenze di primo grado», e dell'art. 10 della medesima legge, «che dichiara, anche con riguardo alla parte civile, applicabile ai processi in corso la nuova disciplina»; che la Corte d'appello rimettente premette che, con sentenza del Tribunale di Brindisi, l'imputato è stato condannato per i reati di danneggiamento, lesioni personali, minacce e ingiurie, unificati dalla continuazione, alla pena complessiva di mesi tre di reclusione, previo riconoscimento delle attenuanti generiche; che avverso detta sentenza hanno proposto appello le parti civili, «chiedendo, ai sensi dell'art. 577 c.p.p., la rideterminazione della pena, reputando inadeguata quella inflitta per il reato satellite di ingiurie, nonché revocarsi il beneficio della sospensione condizionale e liquidarsi, a titolo di danni, la somma di 10.000,00 (a fronte di quella - euro 400,00 - liquidata in sentenza, reputata inadeguata)», e l'imputato, che ha chiesto l'assoluzione in relazione a tutte le imputazioni; che la Corte d'appello - rilevato che nelle more del giudizio è entrata in vigore la legge n. 46 del 2006 che ha modificato l'art. 576 cod. proc. pen. e ha abrogato l'art. 577 dello stesso codice - afferma che per effetto di tali modifiche l'appello proposto dalla parte civile ai sensi dell'art. 577 cod. proc. pen. dovrebbe essere dichiarato inammissibile; che, quanto alla impugnazione proposta dalla parte civile ai sensi dell'art. 576 cod. proc. pen., la Corte d'appello rimettente ritiene invece di dover sollevare questione di legittimità costituzionale nei termini sopra precisati, sul presupposto che l'art. 576 censurato, nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dalla legge n. 46 del 2006, non consenta più l'appello della parte civile avverso le sentenze di condanna e di proscioglimento; che, al riguardo, la rimettente osserva che la possibilità per la parte civile di proporre appello - avverso i capi civili della sentenza di condanna e, ai soli effetti della responsabilità civile, avverso la sentenza di proscioglimento - derivava unicamente, nel previgente assetto normativo, dal collegamento tra l'art. 576 cod. proc. pen. e l'art. 593 dello stesso codice; che proprio per tale ragione, nel corso dei lavori parlamentari, si decise di "sganciare" il potere di impugnazione della parte civile da quello del pubblico ministero, attraverso l'eliminazione nell'art. 576 cod. proc. pen. dell'inciso «con il mezzo previsto per il pubblico ministero», così da mantenere ferma la possibilità per la parte civile di proporre impugnazione; che tuttavia, nonostante la chiara volontà legislativa, una volta eliminato il collegamento con l'appello del pubblico ministero non è più possibile riconoscere un analogo potere alla parte civile, stante il principio di tassatività delle impugnazioni contenuto nell'art. 568, comma 1, cod. proc. pen.; che pertanto - mancando oggi nel codice una disposizione che consenta alla parte civile di proporre appello contro le sentenze di primo grado (di condanna e di proscioglimento) - l'unico rimedio offerto alla parte civile a tutela delle proprie ragioni sarebbe il ricorso per cassazione; che il mantenimento in capo alla parte civile del potere di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento e di condanna non potrebbe, del resto, desumersi né dal mancato riferimento alla parte civile in sede di disciplina transitoria (evidenziandosi anzi, al riguardo, un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale, derivante dalla impossibilità per la parte civile di proporre ricorso per cassazione come previsto invece per il pubblico ministero e per l'imputato); né dal riferimento all'impugnazione della parte civile contenuto nell'art. 600 cod. proc. pen., che si riferisce alle sole statuizioni concernenti la provvisionale; che, tanto premesso, la Corte d'appello di Lecce afferma che l'attuale sistema delle impugnazioni - nella parte in cui non consente più l'appello della parte civile avverso le sentenze di condanna e di proscioglimento - si pone «in contrasto con la Costituzione, tanto più ove si consideri che la possibilità per la parte civile di proporre appello contro la sentenza di primo grado, sia pure ai soli effetti civili, venne introdotta nel nostro ordinamento proprio in seguito alla sentenza n. 1 del 1970 della Corte costituzionale»; che, quanto alla disciplina transitoria, la Corte rimettente pone in evidenza come essa finisca per «paralizzare le già azionate pretese civilistiche del danneggiato dal reato, pretese che se proposte nella sede civile avrebbero potuto essere coltivate non solo in primo grado, ma anche in grado d'appello», con conseguente violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost.; che, nei giudizi da cui originano le ordinanze iscritte ai numeri 159, 160, 602 e 635 del registro ordinanze del 2007, è intervenuto il Presidente del Consiglio, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato; che l'Avvocatura generale eccepisce, in primo luogo, l'inammissibilità delle questioni proposte alla stregua della ordinanza n. 32 del 2007, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta inammissibilità di questioni analoghe, per omessa verifica - da parte dei giudici rimettenti - della possibilità di interpretare la disposizione censurata in senso conforme a Costituzione, in assenza di un diritto vivente; che, nel merito, la difesa erariale ritiene peraltro infondate le questioni, perché basate su un erroneo presupposto interpretativo: a suo avviso, infatti, in ossequio al «fondamentale canone ermeneutico» che impone di preferire l'interpretazione conforme a Costituzione, l'art. 576 cod. proc. pen., come novellato, ben potrebbe essere interpretato nel senso che la parte civile conserva la possibilità di proporre appello avverso la sentenza di proscioglimento. Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni analoghe e, pertanto, i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con un'unica pronuncia; che le Corti d'appello di Palermo (r.o. n. 602 del 2007) e di Brescia dubitano, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 576, comma 1, del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 6 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) - quest'ultimo direttamente censurato dalla Corte d'appello di Palermo - nella parte in cui esclude che la parte civile possa proporre appello, ai soli effetti della responsabilità civile, avverso la sentenza di proscioglimento dell'imputato, e dell'art. 10 della medesima legge recante la relativa disciplina transitoria; che la Corte d'appello di Lecce ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 576 cod. proc. pen., come novellato dalla legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui non consente alla parte civile l'appello contro le sentenze di primo grado» e dell'art. 10 della stessa legge; che le Corti d'appello di Napoli e di Palermo (r.o. n. 18 e n. 159 del 2007) censurano esclusivamente l'art. 10 della legge n. 46 del 2006, che prevede l'immediata applicabilità della nuova disciplina ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge, senza consentire alla parte civile - a differenza di quanto previsto invece per il pubblico ministero e per l'imputato - di proporre ricorso per cassazione, a seguito della declaratoria di inammissibilità dell'appello anteriormente proposto, per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost.; che presupposto comune dei dubbi di costituzionalità è - per tutte le ordinanze di rimessione - la premessa interpretativa secondo cui la riforma delle impugnazioni del 2006 avrebbe soppresso, per la parte civile, il potere di appello; che le Corti rimettenti pervengono sostanzialmente a tale conclusione alla luce del generale principio di tassatività dei mezzi di impugnazione espresso nell'art. 568, comma 1, cod. proc. pen. ed in forza di una duplice considerazione: sia la constatazione che la parte civile non è inclusa tra i soggetti legittimati a proporre appello dall'art. 593 cod. proc. pen.; sia il rilievo che il testo novellato dell'art. 576 del codice di rito − nel corpo del quale è stata soppressa l'originaria statuizione, che consentiva alla parte civile di proporre impugnazione con lo stesso mezzo previsto per il pubblico ministero − non specifica di quali mezzi di impugnazione detta parte sia ammessa a fruire; che peraltro, questa Corte − dichiarando manifestamente inammissibile una questione di legittimità costituzionale fondata su un identico presupposto ermeneutico (ordinanza n. 32 del 2007) − ha evidenziato che «deve registrarsi l'assenza allo stato, di un "diritto vivente" conforme alla premessa interpretativa posta a base dei dubbi di legittimità costituzionale»: potendosi ravvisare, già all'epoca di tale decisione, una diversa soluzione ermeneutica idonea a soddisfare il petitum degli odierni rimettenti; che, in particolare, nella citata pronuncia, è stata richiamata l'opposta tesi affermata dalla Corte di cassazione, in virtù della quale la novella del 2006 non avrebbe affatto determinato il venir meno, in capo alla parte civile, del potere di appello contro le sentenze di proscioglimento, ai soli effetti della responsabilità civile; che tale tesi − nel frattempo divenuta maggioritaria presso la giurisprudenza di legittimità − ha trovato ulteriore conferma nella pronuncia delle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 29 marzo 2007, n. 27614) che ha ribadito come la parte civile, anche dopo l'intervento sull'art. 576 cod. proc. pen. ad opera dell'art. 6 della legge n. 46 del 2006, possa proporre appello, agli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio di primo grado; che, nell'affermare tale opzione ermeneutica, il giudice della legittimità ha, in particolare, fatto leva sull'interpretazione logico-sistematica dell'art. 576 cod. proc. pen. − attribuendo «a mero difetto di tecnica legislativa la formulazione letterale» della norma in questione − e, soprattutto, sulla volontà legislativa, quale desumibile dai lavori parlamentari; che, in proposito, la Corte di cassazione ha evidenziato come le modifiche apportate al testo normativo originariamente approvato dal Parlamento, dopo il rinvio alle Camere da parte del Presidente della Repubblica ai sensi dell'art. 74 Cost. − ed in particolare la soppressione, nell'art. 576 cod. proc. pen., dell'inciso «con il mezzo previsto dal pubblico ministero» − risultassero in realtà finalizzate a «rimodulare, accrescendoli, i poteri di impugnazione della parte civile, sganciandone la posizione da quella del pubblico ministero» ed a ripristinare, dunque, il potere di appello della parte privata: con il chiaro intento di recepire il rilievo formulato nel messagg io presidenziale, circa l'eccessiva compressione della tutela delle vittime del reato quale si delineava nelle soluzioni legislative inizialmente adottate; che i medesimi rilievi valgono anche, secondo quanto affermato dalla stessa Corte di cassazione, per ciò che attiene all'appello della parte civile
avverso i capi della sentenza di condanna che riguardano l'azione civile e le sentenze pronunciate a seguito di giudizio abbreviato; che a ciò va aggiunto come neppure in ordine alla disciplina transitoria si riscontri uniformità di vedute: essendosi affermato, da una parte della giurisprudenza di legittimità, che ove pure la nuova legge avesse effettivamente rimosso il potere di appello della parte civile, non ne conseguirebbe comunque - contrariamente a quanto assumono i rimettenti - l'inammissibilità dell'appello anteriormente proposto da detta parte; e ciò in quanto la disposizione transitoria di cui all'art. 10, comma 1 - evocata dai giudici a quibus a sostegno del loro assunto - nello stabilire che «la presente legge si applica ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima», si sarebbe limitata soltanto a riaffermare il generale princi pio tempus regit actum, tipico della materia processuale; che, pertanto, avendo omesso i giudici rimettenti di sperimentare adeguate soluzioni ermeneutiche − diverse da quelle praticate − idonee a rendere le disposizioni censurate esenti dai prospettati dubbi di legittimità, le questioni proposte devono essere dichiarate manifestamente inammissibili, alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, ordinanze n. 35 del 2006, n. 381 del 2005 e n. 279 del 2003; nonché, su questione analoga, oltre alla già richiamata ordinanza n. 32 del 2007, si veda l'ordinanza n. 3 del 2008). Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 576 del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 6 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e degli artt. 6 e 10 della medesima legge, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione, dalle Corti d'appello di Napoli, di Palermo, di Brescia e di Lecce, con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giovanni Maria FLICK, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e degli artt. 1 e 10 della stessa legge, promossi, nell'ambito di diversi procedimenti penali, con ordinanze del 6 aprile 2006 dalla Corte d'appello di Bologna, del 10 marzo 2006 dalla Corte d'appello di Lecce, del 5 dicembre 2006 dalla Corte d'appello di Ancona, del 6 luglio 2006 dalla Corte d'appello di Firenze, del 19 gennaio 2007 (n. 2 ordd.) e del 22 dicembre 2006 (n. 2 ordd.) da lla Corte d'appello di Perugia, del 20 aprile, del 17 maggio, del 7 e del 21 giugno 2006 dalla Corte d'appello di Trieste, rispettivamente iscritte ai nn. 111, 130, 307, 661, 750, 766, 789, 795, 802, 819, 820 e 821 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 12, 13, 18, 38, 44, 46, 48 e 49, prima serie speciale, dell'anno 2007 e n. 1, prima serie speciale, dell'anno 2008. Udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick. Ritenuto che le Corti d'appello di Lecce (r.o. n. 130 del 2007), di Ancona (r.o. n. 307 del 2007), di Perugia (r.o. nn. 750, 766, 789 e 795 del 2007) e di Trieste (r.o. nn. 802, 819, 820 e 821 del 2007) hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui consente l'appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento nei soli casi previsti dall'art. 603, comma 2, cod. proc. pen. - ossia quando sopravvengano o si scoprano nuove prove dopo il giudizio di primo grado, e sempre che tali prove risultino decisive; che analoga questione è sollevata dalle Corti d'appello di Bologna (r.o. n. 111 del 2007) e di Firenze (r.o. n. 661 del 2007) che censurano direttamente l'art. 1 della citata legge n. 46 del 2006; che le Corti rimettenti (ad eccezione della Corte d'appello di Firenze) dubitano, in riferimento ai medesimi parametri, anche della legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge n. 46 del 2006, che prevede l'immediata applicabilità della nuova disciplina ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore; che, ai fini della rilevanza, le Corti rimettenti precisano che - in forza dell'art. 10 della legge n. 46 del 2006 - i giudizi dovrebbero essere definiti con ordinanze non impugnabili di inammissibilità; che, nel merito, tutte le Corti rimettenti ritengono che l'eliminazione dell'appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento - ad opera dell'art. 1 della novella del 2006 - vìoli il principio di parità fra le parti di cui all'art. 111, secondo comma, Cost. (evocato congiuntamente all'art. 3 Cost. dalle Corti d'appello di Perugia e di Trieste), in quanto del tutto irragionevolmente viene sottratto ad una sola delle parti (il pubblico ministero) lo strumento processuale indirizzato a veder affermata la propria pretesa punitiva; che la condizione di parità sarebbe compromessa dal fatto che all'imputato è garantita la possibilità di un nuovo processo di merito nel caso di condanna, mentre analoga possibilità non è data al pubblico ministero nell'ipotesi "speculare" di assoluzione dell'imputato; che la residua possibilità di appello, nelle ipotesi previste dal comma 2 dell'art. 603 cod. proc. pen., non eliminerebbe i profili di incostituzionalità della disciplina censurata, attesa l'assoluta marginalità di esse; che le Corti rimettenti prospettano altresì la violazione dell'art. 3 Cost., sotto il profilo del difetto di ragionevolezza e della disparità di trattamento; che, in particolare, la disciplina censurata ostacolerebbe irragionevolmente la realizzazione delle «esigenze di giustizia», impedendo al pubblico ministero di «correggere, pure quando si tratti di rivalutare le medesime risultanze processuali, un evidente errore valutativo del giudice di merito o di rimuovere una decisione ingiusta» (Corte d'appello di Firenze); che la scelta legislativa di privare l'organo della pubblica accusa dell'appello delle sentenze di proscioglimento si paleserebbe irragionevole anche in relazione al mantenimento in capo al pubblico ministero del potere di proporre appello avverso le sentenze di condanna (Corte d'appello di Ancona); che - quanto alla violazione del principio di uguaglianza - l'art. 593 cod. proc. pen., come novellato, determinerebbe una irragionevole disparità di trattamento tra il cittadino «ingiustamente assolto» e il cittadino «condannato ad una pena ingiustamente mite», essendo quest'ultimo, a differenza del primo, esposto al rischio dell'impugnazione da parte del pubblico ministero (Corte d'appello di Bologna); che le Corti d'appello di Bologna e di Firenze evocano a parametro anche l'art. 112 Cost., assumendo il contrasto della disciplina censurata con il principio di obbligatorietà dell'azione penale, sul presupposto che a tale principio dovrebbe ritenersi connaturata la previsione del potere di impugnazione del pubblico ministero; che la Corte d'appello di Perugia denuncia la violazione dell'art. 112 Cost. in relazione, in particolare, alla disciplina transitoria, sottolineando come essa si risolva - in conseguenza della «dilatazione dei tempi dovuta al decorso del termine per proporre appello e all'intervallo tra la sua presentazione e la fissazione dell'udienza» - in «una sostanziale vanificazione della pretesa punitiva dello Stato», attesi i nuovi termini di prescrizione dei reati; che le Corti d'appello di Lecce e di Trieste ritengono inoltre violato anche il principio della ragionevole durata del processo (di cui all'art. 111, secondo comma, ultimo periodo, Cost.) ed a tal fine evidenziano come la novella del 2006 - per effetto della eliminazione dell'appello e della prevista possibilità di proporre ricorso in cassazione - determini un aumento dei gradi di giudizio con conseguente allungamento dei tempi processuali; che, secondo la Corte d'appello di Trieste, ciò risulterebbe tanto più evidente in relazione alla disciplina transitoria contenuta nell'art. 10 della legge n. 46 del 2006, in quanto la previsione di una «indiscriminata declaratoria di inammissibilità» degli appelli proposti prima dell'entrata in vigore della legge, «derogando al principio tempus regit actum che governa la materia processuale, non solo sacrifica ineludibilmente un atto di gravame tempestivamente proposto, costringendo la parte interessata a presentarne un altro, ma comporta l'inevitabile differiment o della presentazione di esso all'eseguita notifica del provvedimento di inammissibilità e, pertanto, ad un termine futuro ed incerto»; che, sotto diverso profilo, la disciplina transitoria violerebbe l'art. 97 Cost.: sia perché costringerebbe il pubblico ministero «a rimodulare la sua impugnazione e a trasformarla in ricorso», gravando di conseguenza «di un eccessivo carico di lavoro la Corte di cassazione fino a comprometterne l'efficienza e la funzionalità» (Corte d'appello di Lecce); sia «per la concreta ingestibilità del processo» (Corte d'appello di Perugia); che, infine, la sola Corte d'appello di Ancona ritiene violato l'art. 24 Cost., in relazione al diritto di difesa della persona offesa dal reato, indirettamente tutelato dall'appello del pubblico ministero. Considerato che il dubbio di costituzionalità sottoposto a questa Corte ha per oggetto la preclusione - conseguente alla sostituzione dell'art. 593 del codice di procedura penale ad opera dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) - dell'appello delle sentenze dibattimentali di proscioglimento da parte del pubblico ministero, e l'immediata applicabilità di tale regime, in forza dell'art. 10 della medesima legge, ai procedimenti in corso alla data della sua entrata in vigore;</ SPAN> che, stante l'identità delle questioni proposte, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia; che, successivamente alle ordinanze di rimessione, questa Corte, con sentenza n. 26 del 2007, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della citata legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, fatta eccezione per le ipotesi previste dall'art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva», e dell'art. 10, comma 2, della stessa legge, «nella parte in cui prevede che l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della medesima legge è dichiarato inammissibile»; che, alla stregua della richiamata pronuncia di questa Corte, gli atti devono pertanto essere restituiti ai giudici rimettenti per un nuovo esame della rilevanza della questioni. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, ordina la restituzione degli atti alle Corti d'appello di Bologna, Lecce, Ancona, Firenze, Perugia e Trieste. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giovanni Maria FLICK, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), sostitutivo dell'art. 593 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza dell'11 dicembre 2006 dalla Corte d'appello di Firenze, nel procedimento penale a carico di Z. F., iscritta al n. 408 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 22, prima serie speciale, dell'anno 2007. Udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick. Ritenuto che la Corte d'appello di Firenze ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, sostituendo l'art. 593 del codice di procedura penale, limita il potere del pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento; che, ai fini della rilevanza, la Corte d'appello rimettente afferma che il giudizio non può essere definito «indipendentemente dalla risoluzione della questione così sollevata»; che, nel merito, la disciplina censurata si porrebbe, in primo luogo, in contrasto con il principio di parità tra le parti sancito dall'art. 111, secondo comma, Cost., a nulla rilevando - attesa la diversità delle rispettive posizioni - che il limite all'appello delle sentenze di proscioglimento sia previsto anche nei confronti dell'imputato; che sarebbe violato il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, che implica la possibilità di «coltivare» l'azione «in posizione di parità fino all'esito definitivo del giudizio»; che, infine, l'art. 593, comma 2, cod. proc. pen. come novellato, impedendo al pubblico ministero, mediante l'appello, di correggere un «evidente errore valutativo del giudice di merito» o di rimuovere una «decisione ingiusta», ostacolerebbe irragionevolmente la realizzazione di «esigenze di giustizia», in violazione dell'art. 3 Cost. Considerato che il dubbio di costituzionalità sottoposto a questa Corte ha per oggetto la preclusione - conseguente alla modifica dell'art. 593 del codice di procedura penale ad opera dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) - dell'appello delle sentenze dibattimentali di proscioglimento da parte del pubblico ministero; che l'ordinanza di rimessione difetta di qualsivoglia motivazione sulla rilevanza della questione, solo apoditticamente affermata; che, in particolare, non viene precisato se il giudizio a quo tragga origine dall'appello proposto dal pubblico ministero avverso una sentenza di proscioglimento; che a siffatte omissioni consegue, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la manifesta inammissibilità della questione (v., ex plurimis, le ordinanze nn. 207, 132, 127, 92, 91 e 6 del 2007). Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità dell'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Firenze, con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giovanni Maria FLICK, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 443, comma 1, del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), e degli artt. 2 e 10 della stessa legge promossi, nell'ambito di diversi procedimenti penali, con ordinanze del 6 aprile 2006 dalla Corte militare d'appello di Napoli, del 19 settembre 2006 dalla Corte d'appello di Torino, del 19 febbraio 2007 dalla Corte d'appello di Brescia, del 22 febbraio 2007 dalla Corte d'appello di Venezia e del 22 maggio 2007 dalla Corte d'appello di Bari, rispettivamente iscritte ai nn. 125, 198, 495, 603 e 784 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 13, 15, 26, 35 e 48, prima serie speciale, dell'anno 2007. Udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick. Ritenuto che la Corte militare d'appello di Napoli (r.o. n. 125 del 2007), nonché le Corti d'appello di Torino (r.o. n. 198 del 2007) e di Brescia (r.o. n. 495 del 2007) hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3, 111 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 443 codice di procedura penale, come modificato dall'art. 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui esclude che il pubblico ministero possa proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio abbreviato; che analoga questione è sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost., dalle Corti d'appello di Bari (r.o. n. 784 del 2007) e di Venezia (r.o. n. 603 del 2007), che censurano direttamente l'art. 2 della legge n. 46 del 2006; che le Corti rimettenti, ad eccezione della Corte d'appello di Brescia, censurano, in riferimento agli artt. 3, 111 e 112 Cost., anche l'art. 10 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui rende applicabile la nuova disciplina ai procedimenti in corso, stabilendo altresì che l'appello proposto dal pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento prima della entrata in vigore della legge è dichiarato inammissibile; che la Corte militare d'appello di Napoli - chiamata a delibare l'ammissibilità dell'appello proposto dall'organo dell'accusa avverso una sentenza di assoluzione perché il fatto non costituisce reato, pronunciata, all'esito del giudizio abbreviato, dal Giudice per le indagini preliminari, in funzione di Giudice dell'udienza preliminare, del Tribunale militare di Napoli - rileva preliminarmente che l'appello dovrebbe essere dichiarato inammissibile in forza di quanto previsto dall'art. 10 della legge n. 46 del 2006; che, tuttavia, la disciplina censurata si porrebbe in contrasto con diversi parametri costituzionali e, in primo luogo, con l'art. 3 Cost. per violazione dei principi di ragionevolezza e di eguaglianza; che, in particolare, l'eliminazione dell'appello del pubblico ministero sarebbe irragionevole, in quanto «impedisce al rappresentante della pubblica accusa di dare, nell'ambito della sequenza processuale, concreta attuazione al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale»; che la lesione del principio di eguaglianza sussisterebbe in relazione al potere di impugnare le sentenze di proscioglimento riconosciuto alla parte civile; che sarebbero, inoltre, violati i princìpi della parità fra le parti e della ragionevole durata del processo, sanciti dal secondo comma dell'art. 111 Cost.; che, infatti, il principio di parità impone che siano assicurati alle parti tutti gli strumenti funzionali al raggiungimento degli scopi che il processo deve garantire e che, per l'organo dell'accusa, ineriscono alla completa attuazione della pretesa punitiva; che, sotto il secondo profilo, il sistema derivante dalle norme censurate − prevedendo la natura esclusivamente rescindente del giudizio per cassazione in esito al ricorso del pubblico ministero ed, in caso di accoglimento, la regressione del processo al primo grado − comporterebbe una evidente dilatazione dei tempi del processo, non sorretta da alcuna giustificazione; che le norme denunciate risulterebbero, inoltre, in contrasto anche con l'art. 112 Cost., posto che il potere di impugnazione dell'organo dell'accusa costituirebbe «una delle espressioni» del principio dell'obbligatorietà dell'azione penale; che, infine, la Corte rimettente evidenzia «l'irragionevolezza interna» del regime transitorio disciplinato dall'art. 10 della legge n. 46 del 2006 in relazione alla particolare situazione del pubblico ministero, il cui appello andrebbe dichiarato inammissibile anche quando abbia già chiesto ed ottenuto, in tale fase, «l'ammissione di nuove prove decisive, circostanza che nel nuovo assetto consentirebbe di coltivare l'impugnazione di merito avverso le sentenze di proscioglimento»; che la Corte d'appello di Torino − premesso che, in forza dell'art. 10 della citata legge n. 46 del 2006, dovrebbe dichiarare l'inammissibilità dell'appello proposto dal pubblico ministero avverso una sentenza di assoluzione, emessa ex art. 442 cod.proc.pen., dal Giudice per le indagini preliminari, in funzione di Giudice dell'udienza preliminare, del Tribunale di Verbania − nel prospettare, in riferimento all'art. 111 Cost., una analoga questione di legittimità costituzionale evidenzia, in primo luogo, come il principio della parità tra le parti, lungi dall'applicarsi alla sola fase dell'istruzione probatoria, debba impronta re l'intero iter del processo «dalla notizia di reato e fino alla sentenza definitiva»; che la disciplina censurata sottrarrebbe al pubblico ministero lo strumento processuale per la realizzazione della propria pretesa punitiva, così alterando l'equilibrio dei poteri processuali delle parti, fino a pregiudicare l'assolvimento del compito assegnato all'organo della pubblica accusa dall'art. 112 Cost.; che il principio della parità fra le parti - pur non richiedendo una totale simmetria di poteri - postula che eventuali diversità di trattamento siano giustificate dalla peculiare posizione istituzionale dell'organo dell'accusa o da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia (si richiama, al riguardo, l'ordinanza n. 421 del 2001 sui limiti all'appello delle sentenze di condanna emesse all'esito di giudizio abbreviato); che tali ragioni giustificative non potrebbero ritenersi sussistenti in relazione alla radicalità dell'ablazione dei poteri del pubblico ministero conseguente alla riforma dell'appello delle sentenze di proscioglimento, oggetto di censura; che anche la Corte d'appello di Brescia dubita, in relazione agli artt. 3 e 111 Cost., della legittimità costituzionale dell'art. 443, comma 1, cod. proc. pen. come modificato dalla legge n. 46 del 2006, «nella parte in cui priva il pubblico ministero della facoltà di appellare le sentenze di proscioglimento pronunciate in sede di giudizio abbreviato»; che la Corte rimettente rileva che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 26 del 2007, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 1 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui - sostituendo l'art. 593 cod. proc. pen. - esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento, per contrasto con il «canone della ragionevolezza» e i «relativi corollari di adeguatezza e proporzionalità»; che in relazione alla sentenza di proscioglimento emessa a seguito di giudizio abbreviato ricorrerebbero i medesimi «elementi» posti a base della richiamata pronuncia di illegittimità costituzionale; che anche la Corte d'appello di Bari − nel sollevare analoga questione di legittimità costituzionale nell'ambito di un procedimento instaurato a seguito dell'appello proposto dal pubblico ministero avverso una sentenza di assoluzione emessa, all'esito di giudizio abbreviato, dal Giudice per le indagini preliminari, in funzione di Giudice dell'udienza preliminare, del Tribunale di Trani − muove dalla citata sentenza n. 26 del 2007 per rilevare come la perdurante limitazione del potere di appello dell'organo dell'accusa avverso le sentenze emesse all'esito del rito abbreviato risulti oggi, proprio in esito a tale pronuncia, ancor più ingiustificata e, dunque, in contras to con gli artt. 3 e 111 Cost.; che, infatti, il pubblico ministero non soltanto non può opporsi alla richiesta di rito abbreviato avanzata dall'imputato, ma è privo anche dei poteri di impulso probatorio di cui, invece, dispone nel rito ordinario; che, peraltro, essendo il rito abbreviato essenzialmente "cartolare" sia in primo che in secondo grado, verrebbe meno anche il principale argomento a sostegno dell'eliminazione, nel rito ordinario, del potere di impugnazione del pubblico ministero: vale a dire la pretesa ingiustizia della condanna fondata sulla mera rilettura delle carte processuali dopo un'assoluzione fondata sull'assunzione diretta dei mezzi di prova; che la Corte d'appello di Venezia − chiamata a pronunciarsi sull'appello proposto dal pubblico ministero avverso la sentenza di assoluzione resa, in esito a rito abbreviato, dal Tribunale di Verona in composizione monocratica − richiama a sua volta integralmente le motivazioni svolte dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 26 del 2007 e ritiene che tali argomentazioni «debbano trovare applicazione anche per quanto concerne la disposizione di cui all'art. 2 della legge n. 46 del 2006 che priva il P.M. totalmente soccombente in primo grado del potere di proporre appello nel giudizio abbreviato»; che l'ablazione del potere di appello del pubblico ministero integrerebbe una «sperequazione radicale tra le parti del processo» che, ad avviso della Corte rimettente, «supera di gran lunga i limiti della ragionevolezza»; infatti, solo formalmente essa sarebbe compensata dall'analoga preclusione sancita per l'imputato e non troverebbe neppure giustificazione nelle particolari esigenze di celerità del rito speciale, le quali «non possono assumere una rilevanza talmente preponderante da giustificare l'eliminazione generalizzata ed unilaterale dell'appellabilità da parte del P.M. di tutte le sentenze di proscioglimento»; che, invero, tale situazione comporterebbe, per l'organo dell'accusa, l'impossibilità di adempiere, in una fase fondamentale del processo, «alla funzione istituzionale dell'esercizio di un potere a tutela degli interessi collettivi, alla quale è pacificamente riconosciuta rilevanza costituzionale»; che la menomazione del potere di impugnazione della parte pubblica, secondo la Corte rimettente, eccederebbe il limite di tollerabilità costituzionale «in quanto non sorretta da una ratio adeguata in rapporto al carattere radicale, generale e "unilaterale" della menomazione stessa», così violando gli artt. 3 e 111 Cost.; che a tale questione risulta legato e connesso il profilo di illegittimità costituzionale dell'art. 10 della medesima legge n. 46 del 2006, il quale, anche in relazione al giudizio abbreviato, impone al giudice, in via transitoria, di dichiarare inammissibile l'appello del pubblico ministero proposto, contro una sentenza di proscioglimento pronunciata a seguito di tale rito, prima dell'entrata in vigore della medesima legge. Considerato che il dubbio di costituzionalità sottoposto a questa Corte ha ad oggetto la preclusione - conseguente alla modifica dell'art. 443, comma 1, del codice di procedura penale ad opera dell'art. 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) - dell'appello delle sentenze di proscioglimento pronunciate a seguito di giudizio abbreviato da parte del pubblico ministero, e l'immediata applicabilità di tale regime, in forza dell'art. 10 della medesima legge, ai procedime nti in corso alla data della sua entrata in vigore; che, stante l'identità delle questioni proposte, i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con unica pronuncia; che, successivamente alle ordinanze di rimessione, questa Corte, con la sentenza n. 320 del 2007, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui, modificando l'art. 443, comma 1, del codice di procedura penale, esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio abbreviato, e dell'art. 10, comma 2, della stessa legge, nella parte in cui prevede che l'appello proposto dal pubblico ministero, prima dell'entrata in vigore della legge, contro una sentenza di proscioglimento emessa a seguito di giudizio abbreviato è dichiarato inammissibile; che, alla stregua della richiamata pronuncia di questa Corte, gli atti devono pertanto essere restituiti ai giudici rimettenti per un nuovo esame della rilevanza delle questioni. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, ordina la restituzione degli atti alla Corte militare d'appello di Napoli e alle Corti d'appello di Torino, di Brescia, di Bari e di Venezia. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'11 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giovanni Maria FLICK, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 giugno 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA |