Deposito del 20/11/2008 (dalla 375 alla 385) |
S.375/2008 del 17/11/2008 Udienza Pubblica del 23/09/2008, Presidente FLICK, Redattore SAULLE Norme impugnate: Decreto del Presidente della Repubblica 05/10/2007. Oggetto: Trasporto - Trasporto marittimo - Decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2007 con il quale è stata disposta la messa in liquidazione, prodromica alla soppressione, dell'Autorità portuale di Trapani - Mancata richiesta di parere alla Regione siciliana, di previa intesa o informativa. Dispositivo: inammissibile Atti decisi: confl. enti 12/2007 |
S.376/2008 del 17/11/2008 Udienza Pubblica del 21/10/2008, Presidente FLICK, Redattore AMIRANTE Norme impugnate: Art. 3, c. 132°, legge 24/12/2003, n. 350, in combinato disposto con l'art. 47 del decreto legge 30/09/2003, n. 269, convertito con modificazioni in legge 24/11/2003, n. 326. Oggetto: Infortuni sul lavoro e malattie professionali - Malattie professionali derivanti dall'esposizione ultradecennale all'amianto - Rivalutazione dei periodi di lavoro soggetti all'assicurazione, mediante moltiplicazione per il coefficiente 1,5 - Inapplicabilità, secondo il "diritto vivente" di tale beneficio a coloro che prima del 2 ottobre 2003 non abbiano presentato domanda amministrativa di riconoscimento del beneficio stesso, pur avendo poi presentato domanda nel prescritto termine decadenziale. Dispositivo: inammissibilità Atti decisi: ord. 115 e 116/2008 |
S.377/2008 del 17/11/2008 Camera di Consiglio del 22/10/2008, Presidente FLICK, Redattore CASSESE Norme impugnate: Artt. 63, c. 1°, n.4, e 69, c. 5°, del decreto legislativo 18/08/2000, n. 267. Oggetto: Elezioni - Consigliere comunale - Decadenza dall'ufficio per mancata rimozione della causa di incompatibilità derivante dalla pendenza di lite innanzi al giudice civile od amministrativo tra l'interessato ed il comune - Devoluzione della tutela giurisdizionale avverso la delibera di decadenza al tribunale o rdinario anziché al T.A.R. Dispositivo: non fondatezza - inammissibilità Atti decisi: ord. 69/2008 |
O.378/2008 del 17/11/2008 Camera di Consiglio del 22/10/2008, Presidente FLICK, Redattore AMIRANTE Norme impugnate: Art. 26, c. 7° bis, del decreto legislativo 25/07/1998, n. 286, aggiunto dall'art. 21, c. 1°, della legge 30/07/2002, n. 189. Oggetto: Straniero - Espulsione automatica in caso di condanna, con provvedimento irrevocabile, per determinati reati - Automaticità della sanzione Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens Atti decisi: ord. 11 3/2008 |
O.379/2008 del 17/11/2008 Camera di Consiglio del 22/10/2008, Presidente FLICK, Redattore FINOCCHIARO Norme impugnate: Art. 276, c. 1°, del codice civile. Oggetto: Filiazione - Azione per la dichiarazione giudiziale di paternità o di maternità naturale in caso di morte del presunto genitore - Legittimazione passiva degli eredi - Riferimento alla sentenza della Corte di Cassazione a sezioni unite n. 21287/2005 Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 145/2008 |
O.380/2008 del 17/11/2008 Camera di Consiglio del 22/10/2008, Presidente FLICK, Redattore MAZZELLA Norme impugnate: Art. 18 della legge 24/11/1981, n. 689. Oggetto: Sanzioni amministrative - Violazioni del codice della strada comportanti sanzione amministrativa pecuniaria la cui entità è demandata alla determinazione del Prefetto - Opposizione avverso l'ordinanza prefettizia ingiuntiva del pagamento della sanzione - Dedotta intempestività del provvedimento opposto - Omessa previsione dell'obbligo, in capo alle Pubbliche Amministrazioni, di osservare, anche in sede di emissione di ordinanze-ingiunzione, il termine da esse stesse autodeterminato per la conclusione del procedimento o, in difetto, il termine legale di novanta giorni Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 172/2008 |
O.381/2008 del 17/11/2008 Camera di Consiglio del 22/10/2008, Presidente FLICK, Redattore SILVESTRI Norme impugnate: Art. 157, c. 1° e 5°, del codice penale, come sostituito dall?art. 6 della legge 05/12/2005, n. 251. Oggetto: Reati e pene - Prescrizione - Reati di competenza del giudice di pace - Reati puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria - Previsione del termine prescrizionale di tre anni Reati e pene - Prescrizione - Reati di competenza del giudice di pace - Reati puniti con la sola pena pecuniaria ai sensi dell'art. 52, comma 2, lett. a), d.lgs. n. 274/2000 - Termine minimo di prescrizione di sei anni se si tratta di delitto Reati e pene - Prescrizione - Reati di competenza del giudice di pace - Reati puniti con la sola pena pecuniaria - Termine di prescrizione di tre anni - Mancata previsione Dispositivo: manifesta infondatezza - manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 577, 584, 608, 614, 634, 677, 678, 680, 711, 716, 727, 734, 735, 786 e 804/2007; 114 e 155/2008 |
O.382/2008 del 17/11/2008 Camera di Consiglio del 22/10/2008, Presidente FLICK, Redattore NAPOLITANO Norme impugnate: Art. 1 e seguenti della legge della Regione Puglia 28/05/2007, n. 13. Oggetto: Parchi e riserve naturali - Regione Puglia - Istituzione del Parco naturale regionale "Litorale di Ugento" - Approvazione con legge provvedimento di atti amministrativi del propedeutico procedimento amministrativo. Dispositivo: manifesta infondatezza Atti decisi: ord. 128/2008 |
O.383/2008 del 17/11/2008 Camera di Consiglio del 22/10/2008, Presidente FLICK, Redattore CASSESE Norme impugnate: Sentenza n. 192 del 21 maggio-6 giugno 2008 Oggetto: Correzione di errore materiale Dispositivo: Atti decisi: ordd. 365 e 840/2007 |
Camera di Consiglio del 05/11/2008, Presidente FLICK, Redattore QUARANTA Norme impugnate: Art. 10, c. 3°, della legge 05/12/2005, n. 251. Oggetto: Reati e pene - Prescrizione - Modifiche normative comportanti un regime più favorevole in tema di termini di prescrizione dei reati - Disciplina transitoria - Applicabilità della nuova disciplina ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della novella, ove sia stato disposto o ammesso il giudizio abbreviato. Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens Atti decisi: ord. 149/2007 |
O.385/2008
del 17/11/2008 Camera di Consiglio del 05/11/2008, Presidente FLICK, Redattore QUARANTA Norme impugnate: Art. 213, c. 2° sexies. del codice della strada (d.lgs. 30.4.1992, n. 285), introdotto dall'art. 5 bis, c. 1°, lett. c) , n. 2, del decreto legge 30/06/2005, n. 115, convertito con modificazioni in legge 17/08/2005, n. 168. Oggetto: Circolazione stradale - Sanzioni accessorie per violazioni del codice della strada - Confisca obbligatoria del ciclomotore o motoveicolo adoperato per commettere un reato, in specie, guida sotto l'influenza dell'alcool Dispositivo: manifesta infondatezza Atti decisi: ord. 91/2008 |
ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio per conflitto di attribuzione tra enti sorto a seguito del decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2007 (Soppressione dell'autorità portuale di Trapani), con il quale è stata disposta la messa in liquidazione, prodromica alla soppressione, dell'Autorità portuale di Trapani, promosso con ricorso della Regione siciliana, notificato il 19 dicembre 2007, depositato in cancelleria il 29 dicembre 2007 ed iscritto al n. 12 del registro conflitto tra enti 2007. Udito nell'udienza pubblica del 23 settembre 2008 il Giudice relatore Maria Rita Saulle; udito l'avvocato Paolo Chiapparone per la Regione siciliana. Ritenuto in fatto 1. - Con ricorso notificato il 19 dicembre 2007 e depositato il successivo 29 dicembre, la Regione siciliana ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione al decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2007 (Soppressione dell'autorità portuale di Trapani), per contrasto con l'art. 22 del proprio statuto e l'art. 8 del decreto del Presidente della Repubblica 17 dicembre 1953, n. 1113 (Norme di attuazione dello Statuto della Regione siciliana in materia di comunicazione e trasporti), nonché con il principio di lea le collaborazione. Premette la ricorrente che l'Autorità portuale di Trapani è stata istituita con d.P.R. 2 aprile 2003 e che con l'atto impugnato se ne è prevista, previa liquidazione, la soppressione senza alcun coinvolgimento della Regione siciliana e, quindi, in contrasto con i cennati parametri costituzionali. In particolare, la ricorrente rileva che l'art. 22 del proprio statuto prevede che «la Regione ha diritto a partecipare all'istituzione ed alla regolamentazione dei servizi nazionali di comunicazione e trasporti, terrestri, marittimi e aerei, che [.] possano interessare la Regione stessa», e che, ai sensi dell'art. 8 delle norme di attuazione, «per l'istituzione e la regolamentazione dei servizi nazionali di comunicazione e trasporti terrestri, marittimi ed aerei, che si svolgono nell'ambito della Regione, o che direttamente la interessino, dovrà essere preliminarmente sentito il parere dell'Amministrazione regionale, da emettersi non oltre sessanta giorni dalla richiest a». La Regione siciliana osserva, poi, che l'art. 6 della legge 28 gennaio 1994, n. 84 (Riordino della legislazione in materia portuale), attribuisce alle Autorità portuali diversi compiti in materia di gestione dei porti, attività questa che, in quanto strettamente funzionale al trasporto marittimo, richiede per l'istituzione e soppressione della suddette Autorità il previo coinvolgimento della Regione. In proposito, la ricorrente richiama il Piano Direttore sugli «indirizzi strategici ed interventi prioritari del sistema dei trasporti e della mobilità generale in Sicilia», approvato con decisione assembleare del 16 dicembre 2002, nel quale è previsto «lo spostamento dell'asse dei traffici marittimi intercontinentali sul Mediterraneo» e dunque «un coinvolgimento nell'immediato futuro delle Autorità portuali dell'Isola, compresa quella di Trapani». A parere della ricorrente, vi sarebbe un «interesse diretto» della Regione ad essere preventivamente consultata in ordine alla «regolamentazione di servizi nazionali di comunicazione e trasporti che si svolgono ed incidono nel suo territorio»; interesse che discenderebbe «dalle stesse previsioni del Piano per lo sviluppo del trasporto maritti mo con riferimento al coinvolgimento della Sicilia, quale regione strategica all'interno del bacino del Mediterraneo e, in ragione di ciò, innegabilmente interessata allo sviluppo dei traffici marittimi». 1.1. - Quanto alla dedotta violazione del principio di leale collaborazione, la ricorrente osserva che esso avrebbe imposto, quantomeno, il raggiungimento di una preventiva intesa prima dell'adozione dell'atto impugnato. Considerato in diritto 1. - La Regione siciliana ha sollevato, in relazione al decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2007 (Soppressione dell'autorità portuale di Trapani), conflitto di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri. A parere della Regione ricorrente l'atto impugnato contrasterebbe con l'art. 22 dello statuto della Regione siciliana e con l'art. 8 del decreto del Presidente della Repubblica 17 dicembre 1953, n. 1113 (Norme di attuazione dello Statuto della Regione siciliana in materia di comunicazione e trasporti), nonché con il principio di leale collaborazione, in quanto prevede la soppressione, previa liquidazione, dell'Autorità portuale di Trapani in assenza di una previa intesa con l'amministrazione regionale. 2. - Il conflitto è inammissibile. Il decreto impugnato trova il suo fondamento nell'art. 6, comma 10, della legge 28 gennaio 1994, n. 84 (Riordino della legislazione in materia portuale), il quale prevede che «le autorità portuali di cui al comma 8 sono soppresse, con procedura di cui al medesimo comma, quando, in relazione al mutato andamento dei traffici, vengano meno i requisiti previsti nel suddetto comma». Per effetto del richiamo al comma 8 contenuto nella disposizione cennata, la procedura di soppressione delle Autorità portuali (come quella di Trapani), «ulteriori» rispetto a quelle istituite per legge dal comma 1 dello stesso art. 6, deve avvenire anch'essa - come richiesto per la loro istituzione - con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Ministro dei trasporti e della navigazione. Alla luce di tale quadro normativo risulta dunque che il decreto impugnato è atto meramente esecutivo della legge n. 64 del 1994, la quale indica in modo vincolante i presupposti e le forme del procedimento di istituzione e di soppressione delle Autorità portuali. Da ciò consegue che il decreto impugnato non può essere ritenuto atto idoneo a produrre in via autonoma la lamentata lesione della sfera di attribuzioni costituzionalmente spettante alla Regione ricorrente. Non sussiste, pertanto, materia per un conflitto. In proposito, è sufficiente richiamare il principio, fissato da questa Corte, secondo cui si deve escludere la sussistenza della materia di un conflitto di attribuzione fra regione (o provincia autonoma) e Stato, in tutti quei casi, nei quali, come in quello di specie, esso è rivolto contro un atto di mera esecuzione di una legge statale, in quanto in tal modo diretto, nella sostanza, a censurare quest'ultima (sentenza n. 277 del 1998). LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibile il conflitto di attribuzione sollevato dalla Regione siciliana avverso il decreto del Presidente della Repubblica 5 ottobre 2007 (Soppressione dell'autorità portuale di Trapani). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 novembre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Maria Rita SAULLE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 novembre 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA
nei giudizi di legittimità
costituzionale del combinato disposto dell'art. 3, comma 132, della
legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Disposizioni per la formazione del
bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2004), e
dell'art. 47 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni
urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei
conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre
2003, n. 326, promossi dal Tribunale di Genova nei procedimenti civili
vertenti tra R. M. e T. G. e l'Istituto nazionale della previdenza
sociale (INPS), con due ordinanze del 18 dicembre 2007, iscritte
rispettivamente al n. 115 e al n. 116 del registro ordinanze 2008 e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima
serie speciale, dell'anno 2008. Visti gli atti di costituzione dell'INPS nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 21 ottobre 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante; uditi l'avvocato Mario Poti per l'INPS e l'avvocato dello Stato Francesco Lettera per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.- Nel corso di un giudizio instaurato da una pensionata, nei confronti dell'Istituto nazionale della previdenza sociale, allo scopo di ottenere la rivalutazione, con il coefficiente di 1,5, del periodo di lavoro nel quale ella era stata esposta all'amianto e la conseguente ricostituzione della pensione, il Tribunale di Genova, con ordinanza del 18 dicembre 2007, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 132, della legge 27 dicembre 2003, n. 299 (recte: della legge 24 dicembre 2003, n. 350, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2004»), e dell'art. 47 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326. Premette, in fatto, il remittente che deve ritenersi pacifico, in base agli atti di causa, che la ricorrente, nel corso dell'attività lavorativa protrattasi dal 22 gennaio 1962 fino 13 gennaio 1992, è stata esposta all'amianto per più di dieci anni in attività assoggettate all'assicurazione obbligatoria gestita dall'INAIL e che la medesima è titolare di pensione di vecchiaia dal giugno 2005, a seguito del compimento del sessantesimo anno di età. L'ordinanza di rimessione, inoltre, dà per pacifica la legittimazione passiva dell'INPS e l'interesse ad agire della ricorrente, trattandosi di lavoratrice esposta all'amianto per il periodo "qualificato" di almeno un decennio, così come f issato dall'art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto). Ciò posto, il Tribunale di Genova osserva che il suddetto art. 47 del d.l. n. 269 del 2003, nel modificare - con decorrenza 2 ottobre 2003 - il testo dell'art. 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992, ha reso meno favorevole la disciplina dei benefici previdenziali previsti da tale norma; ed infatti, oltre a ridurre il coefficiente di rivalutazione da 1,5 a 1,25, ne ha anche attribuito rilevanza ai soli fini dell'importo della pensione e non anche della maturazione del diritto alla medesima (peraltro, facendo salva l'applicabilità del precedente regime in favore di alcune categorie di lavoratori). E poiché, nella specie, occorre stabilire se a lla ricorrente debba applicarsi la precedente (e più favorevole) disciplina, ovvero quella vigente, ciò dà conto - ad avviso del giudice a quo - della rilevanza dell'odierna questione di legittimità costituzionale. Nell'esporre il contenuto di tale questione, il Tribunale pone a confronto il testo delle due disposizioni censurate, rilevando che l'art. 3, comma 132, della legge n. 350 del 2003, pur presupponendo la norma dell'art. 47, ha ampliato la platea dei soggetti esclusi dall'applicazione della normativa nuova e meno favorevole, in particolare disponendo l'ultrattività del sistema previgente nei confronti di altre tre categorie di destinatari: 1) coloro i quali, alla data del 2 ottobre 2003 (data di entrata in vigore del d.l. n. 269 del 2003), avevano già maturato il diritto alla pensione; 2) coloro che, alla stessa data, avevano presentato domanda di riconoscimento del beneficio derivante dall'esposizione all'amianto all'Istitu to nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro ovvero all'INPS; 3) coloro che, a tale data, avevano comunque introdotto una controversia giudiziale poi conclusasi con esito favorevole per il lavoratore. Tale lettura della citata norma è - ad avviso del Tribunale di Genova - l'unica consentita, non potendosi ritenere, in assenza di apposita previsione, che il legislatore abbia «realmente inteso mantenere ferma la disciplina previgente per tutti coloro che erano stati esposti ad amianto prima del 2 ottobre 2003»; e simile interpretazione è anche quella fatta propria dalla Corte di cassazione in numerose pronunce. E' successivamente intervenuto il d.m. 27 ottobre 2004 il quale, nel regolare la posizione dei lavoratori che alla data del 2 ottobre 2003 avevano già maturato il diritto ai benefici previdenziali di cui all'art. 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992, ha previsto, all'art. 1, comma 2, per tutti costoro, la possibilità di avvalersi del precedente regime presentando apposita domanda nel termine di centottanta giorni dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto medesimo (15 giugno 2005). Siffatta previsione - che, ad avviso del Tribunale di Genova, è illegittima, sicché se ne rende necessaria la disapplicazione - ha peraltro tentato di porre rim edio a quella che «pare essere un'irragionevole disparità di trattamento». Nella specie, infatti, la perdurante applicazione del precedente e più favorevole regime previdenziale è stata collegata, come si è detto, alla sussistenza di almeno una delle condizioni indicate dal censurato art. 3, comma 132; ad avviso del giudice a quo, mentre sembra «del tutto ragionevole» collegare la diversità di trattamento alla già avvenuta maturazione del diritto a pensione, non altrettanto può dirsi per la presentazione, entro la data del 2 ottobre 2003, di una qualsiasi domanda amministrativa per il riconoscimento del beneficio in questione. Secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione in precedenza richiamata, infatti, nel regime antecedente l'entrata in vigore delle disposizioni censurate non era prevista la necessità di alcuna domanda amministrativa per fare accertare il diritto alla rivalut azione dei contributi previdenziali per effetto dell'esposizione all'amianto. Ne consegue che al remittente pare si possa fondatamente dubitare della ragionevolezza «della disparità di trattamento stabilita dalla legge in ragione di un atto - la presentazione della domanda - che non soltanto non rientra in alcun modo tra gli elementi costitutivi del beneficio disciplinato, ma neppure ne condiziona il riconoscimento». Introdurre la necessità di una domanda che prima non era prevista e ricollegare alla mancata precedente presentazione di tale domanda l'applicazione della nuova e meno favorevole disciplina «significa di fatto introdurre un termine di decadenza con effetto retroattivo». Nel caso specifico, la lavoratrice alla data del 2 ottobre 2003 non possedeva i requisiti per il pensionamento ed ha presentato per la prima volta la domanda all'INAIL per il riconoscimento dei benefici in data 15 giugno 2005; alla medesima, pertanto, dovrebbe applicarsi la nuova disciplina di cui all'impugnato art. 47 del d.l. n. 269 del 2003. Tale situazione appare al remittente tale da creare un'ingiustificata disparità di trattamento tra due lavoratori che abbiano subito la medesima esposizione all'amianto, per il solo fatto che uno di costoro abbia omesso di presentare una domanda «che non era tenuto a presentare», con violazione dell'art. 3 della Costituzione. Il Tribunale di Genova, quindi, solleva questione di legittimità costituzionale delle censurate disposizioni nella parte in cui escludono dall'applicazione della disciplina previgente a quella introdotta dall'art. 47 del d.l. n. 269 del 2003 «coloro che prima del 2 ottobre 2003 non abbiano presentato domanda amministrativa di riconoscimento dei benefici previsti dall'art. 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992», pur avendo poi presentato la domanda nel termine di decadenza di cui al menzionato art. 47. 2.-- Nel corso di un'altra controversia, promossa da un lavoratore nei confronti dell'INPS, per ottenere la rivalutazione, con il coefficiente di 1,5, del periodo lavorativo nel quale era stato esposto all'amianto, il Tribunale di Genova ha sollevato, sempre in riferimento all'art. 3 Cost., un'identica questione di legittimità costituzionale. In questa diversa ordinanza il giudice a quo precisa che il ricorrente era stato esposto all'amianto per oltre diciassette anni (dal 14 novembre 1975 al 31 dicembre 1992) e che il suo interesse ad agire è dimostrato dal fatto che egli potrebbe accedere immediatamente alla pensione di anzianità solo ove gli venisse applicata la previgente disciplina dell'art. 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992. Il lavoratore, infatti, alla data del 2 ottobre 2003 aveva maturato poco meno di trentuno anni di contribuzione e non avrebbe potuto raggiungere i quarant'anni neppure col riconoscimento dei benefici in questione. Al momento della proposizione del ricorso, però, il medesimo lavoratore aveva maturato trentatré anni di contribuzione che, rivalu tati con il coefficiente di 1,5, gli consentirebbero di accedere alla pensione di anzianità; prestazione che non potrebbe conseguire, invece, ove gli si applicasse «la successiva - e meno favorevole - disciplina» introdotta dall'art. 47 del d.l. n. 269 del 2003. Nel prosieguo dell'ordinanza, il Tribunale chiarisce che il ricorrente ha presentato domanda all'INAIL per il riconoscimento dei benefici in data 3 dicembre 2004, sicché deve essergli applicata la nuova e meno favorevole disciplina previdenziale, con la conseguenza che egli matura il diritto a pensione «più tardi e in un importo inferiore per il solo fatto di non aver presentato una domanda che non era tenuto a presentare»; donde la rilevanza della questione. Per il resto, l'ordinanza è di contenuto identico alla precedente. 3.-- Si è costituito in entrambi i giudizi l'INPS, con atti di contenuto identico, chiedendo che la Corte dichiari la questione inammissibile o comunque infondata. Rileva l'ente previdenziale che dal confronto tra l'art. 47, comma 6-bis, del d.l. n. 269 del 2003, introdotto dalla legge di conversione n. 326 del 2003, e l'art. 3, comma 132, della legge n. 350 del 2003, emerge - anche alla luce della giurisprudenza della Corte di cassazione - che il perdurare dell'applicazione dell'art. 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992 è collegato alla già avvenuta maturazione, alla data del 2 ottobre 2003, del diritto a pensione ovvero all'avviamento di un procedimento amministrativo o giurisdizionale. Tali condizioni sono fra loro alternative e non cumulative, sicché il possesso anche di una sola di esse è sufficiente ad evitare l'effetto sfavorevole costituito dall'entrata in vigore della nuova disciplina. Nella specie, ove pure fosse accolta la prospettata questione, continuerebbe a doversi applicare la disposizione del censurato art. 47, perché «l'eventuale espunzione della preventiva domanda amministrativa di prestazione dal novero delle condizioni legittimanti l'ultrattività della pregressa normativa non varrebbe comunque ad escludere l'applicazione dello ius superveniens» nei confronti dei ricorrenti i quali, per ammissione dello stesso Tribunale di Genova, non avevano maturato il diritto al trattamento di pensione e non avevano avanzato alcuna domanda in sede giurisdizionale. Nel merito, la questione sarebbe infondata, poiché costruita sul convincimento del giudice a quo, reputato «eccessivamente drastico», secondo cui nel vigore del testo originario della legge n. 257 del 1992 non era necessaria alcuna domanda amministrativa per ottenere il riconoscimento del diritto alla rivalutazione dei contributi in conseguenza dell'esposizione all'amianto. Nella prassi, invece, ancorché in difetto di una specifica norma di legge, la domanda di riconoscimento dell'esposizione era stata prevista dall'INPS fin dalla circolare n. 304 del 1995, che specificava la necessità di una domanda da corredare con la certificazione già resa dall'INAIL; sicché collegare la perdurante applicazione della pregressa e più fav orevole normativa all'avvenuto inoltro di una domanda di accertamento appare del tutto ragionevole. La stessa Corte di cassazione, infatti, pur avendo ribadito l'inesistenza di una previsione di legge che imponesse la presentazione di una domanda amministrativa per ottenere i benefici previdenziali in questione, ha affermato che la rivalutazione determina in concreto il contenuto del diritto alla pensione, di modo che la richiesta di accredito dei contributi figurativi per l'esposizione all'amianto si può immedesimare nella stessa domanda di pensione. Il che, del resto, è del tutto logico, essendo l'INPS nella chiara impossibilità di provvedere d'ufficio al computo del beneficio. 4.-- E' intervenuto in entrambi i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che, con due atti di contenuto pressoché identico, ha concluso nel senso dell'inammissibilità o dell'infondatezza della questione. Osserva l'Avvocatura che l'inammissibilità deriverebbe dal fatto che il remittente non ha esposto le ragioni per le quali dall'accoglimento della questione dovrebbe derivare ai ricorrenti l'applicazione di un trattamento più favorevole; la declaratoria di illegittimità costituzionale, infatti, non potrebbe condurre ad estendere il beneficio ai lavoratori dei giudizi a quibus, i quali non rientrano nelle altre categorie indicate dal legislatore, sicché rimarrebbero comunque esclusi. Non sarebbe possibile, d'altra parte, neppure una pronuncia additiva, in mancanza di una soluzione dal contenuto costituzionalmente obbligato. Considerato in diritto 1.-- Il Tribunale di Genova - con due ordinanze di contenuto sostanzialmente eguale quanto alle disposizioni impugnate e alla motivazione sulla non manifesta infondatezza della questione, ancorché le fattispecie oggetto dei giudizi si diversifichino per alcuni elementi - ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell'art. 3, comma 132, della legge 27 dicembre 2003, n. 299 (recte: legge 24 dicembre 2003, n. 350, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2004»), e dell'art. 47 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326. Le suddette disposizioni vengono censurate nella parte in cui escludono dall'applicazione della disciplina previgente a quella introdotta dall'art. 47, comma 1, del richiamato d.l. n. 269 del 2003 «coloro che prima del 2 ottobre 2003 non abbiano presentato domanda amministrativa di riconoscimento dei benefici previsti dall'art. 13, comma 8, legge n. 257 del 1992, come sostituito dall'articolo 1, comma 1, d.l. n. 169 del 1993, convertito in legge n. 271 del 1993, pur avendo poi presentato domanda nel termine decadenziale previsto dal citato art. 47». 2.-- Dalle ordinanze di rimessione risulta, per quanto qui interessa, che la questione viene posta nell'ambito di due giudizi promossi, con ricorsi rispettivamente del 13 ottobre 2006 (r.o. n. 115 del 2008) e 26 settembre 2005 (r.o. n. 116 del 2008), da due ex lavoratori dipendenti addetti ad attività assoggettate all'assicurazione obbligatoria gestita dall'INAIL con esposizione all'amianto in concentrazione oltre i limiti di legge e per periodi ultradecennali (cessati, in entrambi i casi, entro il 31 dicembre 1992) che hanno chiesto di poter usufruire del beneficio previdenziale di cui all'art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla cessazione dell'impiego dell'amianto), nel testo previgente all'art. 47 del d.l. n. 269 del 2003, pur non essendo alla data di entrata in vigore di tale ultimo decreto (2 ottobre 2003) titolari di pensione di vecchiaia o anzianità né avendo presentato, entro la stessa data, la relativa domanda amministrativa o giudiziaria seguita da sentenza di accoglimento. Il remittente premette che la disciplina originaria dell'art. 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992 attribuiva ai lavoratori addetti a lavorazioni comportanti contatti con l'amianto, per una certa durata e con un rilevante quantitativo di concentrazione potenzialmente morbigeno, il beneficio della moltiplicazione dei periodi di contribuzione in cui dette lavorazioni avevano avuto luogo per il coefficiente 1,50 e che tale beneficio era efficace al fine del conseguimento dell'anzianità contributiva necessaria per ottenere la pensione oltre che sulla misura di questa. Successivamente è stato emanato il d.l. n. 269 del 2003, il cui art. 47, per quanto rileva nel presente giudizio, ha ridotto, con decorrenza dal 2 ottobre 2003, il coefficiente suddetto da 1,50 a 1,25 ed ha stabilito che siffatto beneficio non è utilizzabile per la maturazione del diritto al trattamento pensionistico, ma soltanto ai fini della determinazione dell'importo delle relative prestazioni. Con la legge di conversione n. 326 del 2003 nel citato art. 47 è stato inserito il comma 6-bis, il quale ha previsto l'applicabilità delle previgenti disposizioni anche per coloro che avessero, alla data indicata, già maturato il diritto a pensione avvalendosi del beneficio previdenziale in oggetto, nonché per coloro che, alla stessa data, fruissero del trattamento di mobilità o avessero definito la risoluzione del rapporto di lavoro in relazione alla domanda di pensionamento. I precedenti commi 5 e 6 dello stesso articolo hanno, inoltre, prescritto che coloro che intendessero ottenere il riconoscimento del beneficio dovessero presentare domanda all'INAIL entro centottanta giorni dalla data di pubblicazione del decreto interministeriale contenente le modalità di attuazione della nuova disciplina, da emanare entro sessanta giorni dall'entrata in vigore dello stesso d.l. n. 269 del 2003. Tale decreto ministeriale è stato, invece, emanato il 27 ottobre 2004 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 17 dicembre 2004, sicché il termine per la suindicata domanda è scaduto il 15 giugno 2005. L'art. 3, comma 132, della legge finanziaria n. 350 del 2003 ha esteso le categorie dei soggetti che possono godere del regime previgente all'emanazione del d.l. n. 269 del 2003, prevedendone l'applicazione anche a coloro che, alla data 2 ottobre 2003, avessero «già maturato [.] il diritto al conseguimento dei benefici previdenziali di cui all'art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257 e successive modificazioni», nonché «a coloro che hanno avanzato domanda di riconoscimento all'INAIL o che ottengono sentenze favorevoli per cause avviate entro la stessa data». Successivamente, il citato decreto interministeriale attuativo ha stabilito che «ai lavoratori che sono stati esposti all'amianto per periodi lavorativi soggetti all'assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali gestita dall'INAIL, che abbiano già maturato, alla data del 2 ottobre 2003, il diritto al conseguimento dei benefici previdenziali di cui all'art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257, e successive modificazioni, si applica la disciplina previgente alla medesima data, fermo restando, qualora non abbiano già provveduto, l'obbligo di presentazione della domanda [.] entro il termine di 180 giorni a pena di decadenza dalla data di entrata in vigore del presente decreto». Premesso l'esposto svolgimento normativo, il remittente riferisce, in fatto, che, per entrambi i ricorrenti, sono state accertate sia l'esposizione all'amianto per il tempo e nelle concentrazioni previsti, sia la mancata maturazione del diritto a pensione alla data del 2 ottobre 2003. Più precisamente, la ricorrente nel giudizio di cui all'ordinanza n. 115 del 2008 gode della pensione di vecchiaia dal giugno 2005 e il ricorrente nell'altro giudizio maturerebbe il diritto alla pensione di anzianità se gli fosse applicato il regime previgente il d.l. n. 269 del 2003. Entrambi i ricorrenti, inoltre, hanno presentato la domanda in sede amministrativa solo in epoca successiva (rispettivamente, il 15 giugno 2005 e il 3 dicembre 2004). Il giudice a quo sostiene che la normativa censurata, nella interpretazione datane dalla Corte di cassazione in alcune pronunce tra loro conformi - costituenti, quindi, "diritto vivente" - non consente l'applicazione ai ricorrenti nei giudizi principali del regime previgente più favorevole per quanto concerne la misura del coefficiente di rivalutazione. La Corte di cassazione, infatti, ha precisato che, nella lettura della suddetta disciplina: a) l'espressione "maturazione del diritto" deve intendersi riferita alla maturazione del diritto a pensione; b) «tra coloro che non hanno ancora maturato il diritto a pensione, la salvezza concerne esclusivamente gli assicurati che, alla data indicata, abb iano avviato un procedimento amministrativo o giudiziario per l'accertamento del diritto alla rivalutazione contributiva». Conseguentemente, ad avviso del Tribunale di Genova, il decreto ministeriale attuativo, nella parte in cui attribuisce il diritto al più favorevole coefficiente di rivalutazione anche a coloro che alla data del 2 ottobre 2003 non avevano maturato il diritto a pensione né presentato alcuna domanda, purché provvedessero a farlo entro il 15 giugno 2005, non è conforme alla legge e va disapplicato. Ma la disciplina legale suddetta è irragionevole perché, condizionando il trattamento più favorevole alla presentazione di una domanda amministrativa entro una certa data quando, all'epoca, non era previsto alcun onere di una simile presentazione, fa derivare una diversità di regime da un fatto puramente casuale. 3.-- In via preliminare deve essere disposta la riunione dei due giudizi aventi ad oggetto la medesima questione. Non può essere accolta l'eccezione d'inammissibilità avanzata, sia pure in termini formalmente diversi, dalla difesa dell'INPS e dall'Avvocatura dello Stato, secondo cui la motivazione sulla rilevanza sarebbe insufficiente in quanto le ordinanze non chiarirebbero in che modo l'eventuale accoglimento della questione, così come proposta, influirebbe sui giudizi di provenienza. Il remittente, infatti, chiede che la dichiarazione di illegittimità colpisca quella parte della normativa che condiziona la fruizione del più favorevole previgente regime del beneficio in oggetto, da parte di coloro che non avessero maturato il diritto a pensione alla data del 2 ottobre 2003, alla presentazione, entro la stessa data, di una apposita domanda amministrativa. Eliminato tale requisito, poiché entrambi i ricorrenti nei giudizi a quibus hanno presentato la domanda amministrativa entro il 15 giugno 2005 (termine fissato dalla nuova disciplina), le loro domande, sotto tale profilo, non troverebbero ostacoli all'accoglimento. 4.-- La questione è, invece, inammissibile per ragioni diverse. Senza voler qui ripercorrere tutta la vicenda normativa e giurisprudenziale relativa alle lavorazioni comportanti esposizione all'amianto, è necessario, tuttavia, metterne in evidenza alcuni punti rilevanti per comprendere i termini della questione stessa. In una prima fase, una volta accertata l'efficacia morbigena delle polveri di amianto, ancorché non ben identificati i modi, i tempi e i livelli di concentrazione della esposizione perché siffatta efficacia potesse spiegarsi, l'esigenza primaria fu quella di favorire la dismissione delle lavorazioni concernenti il suddetto minerale. Il problema si pose in sede comunitaria nella prima metà degli anni ottanta. L'Italia tardò a dare esecuzione alle misure disposte in quella sede e solo dopo la sentenza di condanna della Corte di giustizia CE 13 settembre 1990, n. 240, seguita ad una procedura d'infrazione, fu emanata la legge n. 257 del 1992, principalmente finalizzata, come si evince anche dal titolo, a favorire la cessazione dell'impiego dell'amianto. Tra le misure previste per raggiungere tale obiettivo, l'art. 13, comma 8, stabilì che i periodi di lavoro relativi alle attività assoggettate all'assicurazione obbligatoria gestita dall'INAIL che esponevano alle polveri di amianto fossero moltiplicati per il coefficiente 1,50 quando superavano i dieci anni. E' opportuno precisare che tale misura non comportava l'introduzione di una nuova prestazione previdenziale, bensì una modalità di calcolo della anzianità contributiva ai fini delle ordinarie prestazioni pensionistiche di vecchiaia e di anzianità o di queste sostitutive in regimi speciali, modalità di calcolo che aveva il fine precipuo di favorire l'esodo dal mondo del lavoro del maggior numero di lavoratori che subivano, sul piano occupazionale, le conse guenze della voluta dismissione. In correlazione a tale finalità, il beneficio non era attribuito a coloro che fossero già titolari dei suddetti trattamenti pensionistici (sentenza n. 434 del 2002). Dopo oltre un decennio, durante il quale sono anche intervenute modifiche normative che qui non rilevano, con il d.l. n. 269 del 2003 la misura suindicata ha subito una radicale trasformazione dovuta ad un duplice ordine di ragioni. Da un lato, infatti, è stato logico presumere che, a distanza di tanti anni dall'entrata in vigore della legge n. 257 del 1992, il risultato della dismissione delle lavorazioni dell'amianto, comportanti esposizione dei lavoratori alle sue polveri, fosse stato ormai conseguito; dall'altro, è venuto emergendo, dalle indagini epidemiologiche e dai progressi della scienza medica, che gli effetti dannosi della suddetta esposizione possono prodursi anche a lunga distanza di tempo e che non era, quindi, irragionevole attribuire un beneficio previdenziale a coloro che a si ffatto rischio erano stati esposti, anche se le relative attività non erano obbligatoriamente assoggettate all'assicurazione INAIL. La nuova normativa ha, pertanto, previsto che il beneficio non valga al fine del raggiungimento della anzianità contributiva, ma sia attribuito, in presenza delle altre condizioni di legge, a coloro che abbiano maturato il diritto al trattamento di quiescenza secondo gli ordinari criteri di calcolo, al solo fine della misura della pensione. La riduzione del coefficiente di rivalutazione da 1,50 a 1,25 è dovuta alla non irragionevole previsione che vi sarebbe stato un allargamento della platea degli aventi diritto e, quindi, a una nuova valutazione delle esigenze di bilancio. Le disposizioni dell'art. 47, commi 5 e 6, del d.l. n. 269 del 2003 sono predisposte alla definizione delle modalità di attuazione della nuova disciplina, con riguardo alla quale stabiliscono a carico degli aventi diritto l'onere della domanda amministrativa entro il termine di decadenza collegato alla pubblicazione del suddetto decreto interministeriale. Il comma 6-bis dello stesso art. 47, introdotto dalla legge di conversione, e l'art. 3, comma 132, della legge finanziaria n. 350 del 2003, disciplinano il regime transitorio in considerazione del mutamento delle finalità e dei presupposti della misura previdenziale in oggetto. Il primo, come si è detto, consente l'attribuzione del beneficio previdenziale secondo il più favorevole previgente regime in favore di coloro che alla data di entrata in vigore del d.l. n. 269 del 2003 (2 ottobre 2003) abbiano maturato il diritto al trattamento pensionistico anche in base ai benefici previdenziali di cui all'art. 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992, e ad altre categorie che qui non rilevano. Il citato art. 3, comma 132, a sua volta stabilisce che il regime previgente si applica ai lavoratori che alla data del 2 ottobre 2003 abbiano maturato «il diritto al conseguimento dei benefici previdenziali di cui all'art. 13, comma 8, della legge 27 marzo 1992, n. 257, e successive modificazioni», nonché «a coloro che hanno presentato domanda di riconoscimento all'INAIL o che ottengono sentenze favorevoli per cause avviate entro la stessa data». Il remittente ritiene, anche in conformità ad un orientamento della Corte di cassazione, che l'espressione «abbiano maturato il diritto al conseguimento dei benefici previdenziali» debba essere interpretata come riferentesi al diritto alla pensione, implicitamente con l'attribuzione dei benefici di cui si tratta, nonché che il regime previgente si applichi anche a coloro che abbiano fatto domanda amministrativa entro il 2 ottobre 2003. Ai fini del giudizio di costituzionalità è sufficiente rilevare che siffatta interpretazione non è implausibile, qualora si consideri che la disposizione di cui all'art. 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992, come già osservato, non ha istituito una nuova prestazione previdenziale, ma soltanto un sistema più favorevole di calcolo della contribuzione per la determinazione della pensione. Non si può, pertanto, configurare «la maturazione del diritto ai benefici» indipendentemente dal conseguimento del diritto a pensione. Ciò che non può essere condiviso nel ragionamento del remittente è l'affermazione che il fatto di aver subordinato l'attribuzione del più favorevole originario regime alla presentazione di una domanda amministrativa, effettuata entro una data ricadente in un periodo in cui essa non era obbligatoriamente prevista, costituisca la retroattiva - e quindi irragionevole - imposizione di un onere. A tal proposito, si rileva che il legislatore ha dettato la disciplina transitoria inerente al passaggio da un regime ad un altro in correlazione con il mutamento di funzione e di struttura della misura disciplinata. Considerando che tale passaggio comportava un trattamento meno favorevole, ha voluto far salve alcune situazioni ritenute meritevoli di tutela, introducendo disposizioni derogator ie rispetto all'immediata applicazione della nuova disciplina. Tra tali ipotesi ha inserito anche quella di coloro che avessero precedentemente presentato domanda amministrativa per ottenere il riconoscimento del beneficio, in ragione della relativa efficacia ai fini del conseguimento della pensione. La tesi del remittente non si limita all'affermazione della irragionevolezza della suddetta disposizione derogatoria, ma si estende dalla richiesta della relativa dichiarazione di illegittimità a quella della introduzione, come diversa ipotesi derogatoria, della presentazione della domanda entro il termine del 15 giugno 2005, termine, quest'ultimo, che è stato stabilito a fini diversi, come non contesta lo stesso remittente, il quale afferma l'impossibilità di applicarlo in via puramente interpretativa della normativa censurata. A quanto rilevato consegue l'inammissibilità della questione, dal momento che, per giurisprudenza costante di questa Corte, va riconosciuta al legislatore ampia discrezionalità - salvo il limite della palese irragionevolezza - nella fissazione delle norme di carattere transitorio dettate per agevolare il passaggio da un regime ad un altro, tanto più ove si tratti di disciplina di carattere derogatorio comportante scelte connesse all'individuazione delle categorie dei beneficiari delle prestazioni di carattere previdenziale. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell'art. 3, comma 132, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2004), e dell'art. 47 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell'andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Genova con le ordinanze indicate in epigrafe.</ FONT> Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 novembre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 novembre 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 63, comma 1, numero 4), e 69, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), promosso, con ordinanza del 29 dicembre 2007 dal Tribunale amministrativo regionale della Puglia sezione di Lecce sul ricorso proposto da Aurelio Gianfreda nei confronti del Ministero dell'interno ed altri, iscritta al n. 69 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 22 ottobre 2008 il Giudice relatore Sabino Cassese. Ritenuto in fatto 1. - Il Tribunale amministrativo regionale della Puglia ha sollevato, con riferimento agli articoli 3, 24, 101, 103, 111 e 113 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 69, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), «nella parte in cui devolve al Tribunale ordinario la tutela giurisdizionale avverso la delibera di decadenza dalla carica di consigliere, per incompatibilità», nonché, con riferimento agli artt. 3, 24 e 51 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 63, comma 1, numero 4), dello stesso decreto legislativo, «nella parte in cui prevede, anche agli effetti di cui al successivo art. 68, comma 2, che, colui il qua le ha una lite pendente, in quanto parte di un procedimento civile (od amministrativo) con il comune, è incompatibile con la carica di consigliere comunale». Espone il Tribunale rimettente che dinanzi a esso pende il ricorso proposto da un componente del consiglio comunale di Poggiardo, per l'annullamento della deliberazione con la quale lo stesso consiglio è stato convocato, nonché di quelle con le quali esso ha affermato la sussistenza di una causa di incompatibilità in capo al ricorrente e ha successivamente dichiarato la sua decadenza dalla carica. La causa di incompatibilità riscontrata dal consiglio comunale è quella prevista dall'art. 63, comma 1, numero 4), del d. lgs. n. 267 del 2000, che dispone l'incompatibilità di chi abbia una lite pendente con l'ente locale. 2. - In ordine alla rilevanza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 69, comma 5, del d. lgs. n. 267 del 2000, che attribuisce al giudice ordinario la giurisdizione sulle controversie in materia di decadenza per incompatibilità, il Tribunale rileva che solo l'accoglimento di essa e la conseguente attribuzione delle relative controversie al giudice amministrativo gli consentirebbero di decidere sul ricorso. 3. - In punto di rilevanza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 63, comma 1, numero 4), del citato decreto legislativo, il Collegio osserva che l'eventuale accoglimento di essa renderebbe l'esito del giudizio sicuramente favorevole al ricorrente. 4. - In ordine alla non manifesta infondatezza della questione relativa all'art. 69, comma 5, del citato decreto legislativo, il Tribunale rileva che l'attribuzione della giurisdizione al giudice ordinario non è conforme al criterio costituzionale di riparto, basato sulla dicotomia tra diritti soggettivi e interessi legittimi, trattandosi di un'ipotesi in cui vi è un atto amministrativo da impugnare. Esso ritiene artificiosa la distinzione, elaborata dalla giurisprudenza di legittimità per giustificare il riparto della giurisdizione operato in questa materia dalla legge, tra interesse legittimo alla regolarità delle operazioni elettorali e diritto soggettivo all'eleggibilità e alla compatibilità. Argomenta, poi, anche facendo riferime nto alla giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 140 del 2007 e n. 204 del 2004), la pienezza della tutela assicurata dal giudice amministrativo e critica la tesi della corrispondenza tra attività amministrativa vincolata e diritto soggettivo. Da queste considerazioni il rimettente trae la conclusione che in materia elettorale non vi sono ragioni per distinguere tra il diritto soggettivo all'elettorato passivo e l'interesse legittimo alla regolarità delle operazioni elettorali, ma che si è in presenza soltanto di interessi legittimi. Il rimettente osserva infine, in via subordinata, che, anche se si ritenesse che in questo ambito sussistono diritti soggettivi, occorrerebbe tener conto della peculiarità della materia, caratterizzata da un intreccio di situazioni giuridiche di diversa natura, la cui piena ed effettiva tutela imporrebbe al legislatore di devolvere le relative controversie alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. 5. - In merito alla non manifesta infondatezza della questione relativa all'art. 63, comma 1, numero 4), del citato decreto legislativo, il Tribunale rimettente, dopo avere illustrato il quadro della giurisprudenza costituzionale in materia di incompatibilità per lite pendente, osserva che, secondo la stessa giurisprudenza, in materia di elettorato passivo la regola è costituita dalla più ampia apertura possibile, mentre l'ineleggibilità e l'incompatibilità rappresentano l'eccezione (sentenza n. 344 del 1993). Ciò premesso, il collegio rimettente ritiene, in primo luogo, che la previsione dell'incompatibilità per lite pendente sia, almeno per i consiglieri comunali, irrazionale e sproporzionata rispetto al fine di assicurare il corretto esercizio delle funzioni elettive, in considerazione della limitata possibilità del singolo consigliere di influenzare le decisioni relative alle controversie di cui l'ente è parte. La previsione gli appare, in secondo luogo, lesiva del diritto di difesa giurisdizionale di cui all'art. 24 Cost., in quanto - in assenza della previsione di sospensione o interruzione dei termini di decadenza o prescrizione - l'opzione per la conservazione della carica elettiva impone all'interessato un pregiudizio definitivo. L'irragionevole zza della norma deriverebbe, in terzo luogo, dall'esclusione della rilevanza delle liti tributarie, che possono vertere su questioni ben più rilevanti di quelle civili e amministrative. 6. - Nel giudizio dinanzi alla Corte è intervenuta, per il Presidente del Consiglio dei ministri, l'Avvocatura generale dello Stato. La difesa statale eccepisce preliminarmente tre ragioni di inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 63, comma 1, numero 4), del d. lgs. n. 267 del 2000. In primo luogo, difetterebbe il requisito della rilevanza della questione sotto il profilo dell'attualità, che dipenderebbe da un evento futuro e incerto, quale l'accoglimento della questione relativa all'art. 69, comma 5, dello stesso decreto legislativo. In secondo luogo, il Tribunale rimettente non si sarebbe dato carico di verificare la possibilità di interpretare la disposizione impugnata in senso conforme a Co stituzione: possibilità che pur vi sarebbe stata, in considerazione di quanto sostenuto dal ricorrente nel giudizio a quo, in ordine all'insussistenza della causa di incompatibilità per via della connessione della lite con l'esercizio del mandato. In terzo luogo, l'ordinanza sarebbe volta a sindacare la discrezionalità del legislatore, che non irragionevolmente avrebbe previsto l'incompatibilità dell'amministratore locale per lite pendente con l'ente. Nel merito, l'Avvocatura generale dello Stato afferma l'infondatezza della questione, osservando che l'opzione tra rinuncia al diritto di difesa e rinuncia al diritto di elettorato passivo non è irragionevole. Infatti, prosegue la difesa statale, «o trattasi di lite bagatellare ed allora la compressione del diritto di difesa appare perfettamente congruente con la razionalità del bilanciamento oppure trattasi di lite di rilevante importanza ed allora appare legittimo il sacrificio del diritto di elettorato essendo legittimo il sospetto che l'interesse privato in gioco possa interferire con il corretto esercizio della funzione pubblica». Considerato in diritto 1. - Il Tribunale amministrativo regionale della Puglia ha sollevato, con riferimento agli articoli 3, 24, 101, 103, 111 e 113 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 69, comma 5, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), «nella parte in cui devolve al Tribunale ordinario la tutela giurisdizionale avverso la delibera di decadenza dalla carica di consigliere, per incompatibilità», nonché, con riferimento agli artt. 3, 24 e 51 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 63, comma 1, numero 4), dello stesso decreto legislativo, «nella parte in cui prevede, anche agli effetti di cui al successivo art. 68, comma 2, che, colui il qua le ha una lite pendente, in quanto parte di un procedimento civile (od amministrativo) con il comune, è incompatibile con la carica di consigliere comunale». Per quanto riguarda la censura relativa all'art. 69, comma 5, del citato decreto legislativo, il rimettente ritiene che l'attribuzione della giurisdizione al giudice ordinario non è conforme al criterio costituzionale di riparto, basato sulla dicotomia tra diritti soggettivi e interessi legittimi, in quanto in materia elettorale vi sono solo situazioni soggettive di interesse legittimo, che impongono l'attribuzione della giurisdizione al giudice amministrativo. Aggiunge che, anche se si ritenesse che vi è una compresenza di diritti soggettivi e interessi legittimi, i principi di effettività e pienezza della tutela imporrebbero al legislatore di devolvere le relative controversie alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. In ordine alla censura relativa all'art. 63, comma 1, numero 4), il rimettente ritiene che la previsione dell'incompatibilità per lite pendente sia, almeno per i consiglieri comunali, irrazionale e sproporzionata rispetto al fine di assicurare il corretto esercizio delle funzioni elettive e lesiva del diritto di difesa giurisdizionale di cui all'art. 24 Cost., in quanto l'opzione per la conservazione della carica elettiva impone all'interessato un pregiudizio definitivo. L'irragionevolezza della norma deriverebbe anche dall'esclusione della rilevanza delle liti tributarie pendenti. 2. - La questione relativa all'art. 69, comma 5, del d. lgs. n. 267 del 2000, sollevata con riferimento agli artt. 101, 111 e 113 Cost., è inammissibile, in quanto i parametri costituzionali evocati sono inconferenti e le relative censure sono prive di motivazione. 3. - La questione relativa allo stesso art. 69, comma 5, del d. lgs. n. 267 del 2000, sollevata con riferimento agli artt. 3, 24 e 103 Cost., non è fondata. Le scelte del legislatore in materia di riparto della giurisdizione possono essere censurate se contrastanti con i criteri desumibili dalle previsioni costituzionali o se irragionevoli. Né il contrasto con il dettato costituzionale né l'irragionevolezza possono essere affermate per la disposizione impugnata. Non è convincente, in primo luogo, l'affermazione secondo la quale, in materia elettorale, possono essere fatte valere soltanto situazioni soggettive di interesse legittimo, con esclusione di diritti soggettivi. Le considerazioni di ordine generale del Tribunale amministrativo rimettente sulla distinzione tra diritti soggettivi e interessi legittimi, sulla pienezza della tutela offerta dal giudice amministrativo e sull'ammissibilità della giurisdizione amministrativa in presenza di provvedimenti amministrativi vincolati non sono idonee a suffragare l'affermazione secondo la quale, nella particolare materia elettorale, vi sono solo interessi legittimi. Né il fatto che venga emanato un provvedimento amministrativo, per dichiarare la decadenza dell'amministr atore locale, è sufficiente a escludere la sussistenza di diritti soggettivi, sui quali detto provvedimento possa incidere. Al contrario, secondo un costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, i provvedimenti che dichiarano la decadenza dell'amministratore locale incidono sul diritto di elettorato passivo. Non è condivisibile neanche l'affermazione secondo la quale i principi di effettività e pienezza della tutela richiedono che il legislatore devolva tutte le controversie in materia elettorale alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo. Innanzitutto, questi principi non impongono certo di attribuire allo stesso giudice controversie aventi oggetti diversi e suscettibili di insorgere in momenti differenti, quali quelle relative alle operazioni elettorali e quelle relative alla decadenza dell'amministratore locale. In secondo luogo, non vi è comunque una soluzione costituzionalmente obbligata, spettando alla legge la scelta in ordine all'eventuale concentrazione della tutela e all'individuazione del giudice competente. Questa Corte ha più volte riconosciuto che la Costituzione lascia al legislatore un margine di apprezzamento in materia di riparto della giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo (sentenze n. 240 del 2006, n. 301 del 2004 e n. 414 del 2001). Occorre dunque escludere che l'attribuzione delle controversie in materia di incompatibilità e decadenza dell'amministratore locale alla giurisdizione amministrativa sia imposta dall'art. 103 Cost. e che la scelta del legislatore di affidare dette controversie alla giurisdizione ordinaria sia irragionevole in base all'art. 3 Cost. Anche le censure relative all'art. 24 Cost. non sono fondate. Le argomentazioni del Tribunale amministrativo rimettente, volte a sostenere la pienezza della tutela del giudice amministrativo, non possono certo indurre ad affermare che la tutela offerta dal giudice ordinario sia inadeguata. Nè, quindi, si può ritenere che l'attribuzione delle controversie in materia di diritto di elettorato passivo al giudice ordinario comporti una lesione del diritto di difesa. 4. - La questione relativa all'art. 63, comma 1, numero 4), del d. lgs. n. 267 del 2000 è inammissibile. L'inammissibilità deriva dall'infondatezza della questione relativa all'art. 69, comma 5, dello stesso decreto legislativo. Il collegio rimettente rileva che avrebbe giurisdizione sulla controversia al suo esame solo se fosse dichiarata l'illegittimità costituzionale della norma che radica la giurisdizione davanti al giudice ordinario. Difettando di giurisdizione sulla controversia, il Tribunale amministrativo rimettente non deve fare applicazione della disposizione dell'art. 69, comma 5, del d. lgs. n. 267 del 2000. Ne deriva l'irrilevanza della questione nel giudizio a quo. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 63, comma 1, numero 4), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 51 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale della Puglia con l'ordinanza indicata in epigrafe; dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 69, comma 5, dello stesso decreto legislativo sollevata, in riferimento agli artt. 101, 111 e 113 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale della Puglia con l'ordinanza indicata in epigrafe; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 69, comma 5, dello stesso decreto legislativo sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 103 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale della Puglia con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 novembre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Sabino CASSESE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 novembre 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 26, comma 7-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), promosso dal Giudice di pace di Viterbo sul ricorso proposto da P. A. contro l'Ufficio Territoriale del Governo di Viterbo, con ordinanza del 1° dicembre 2005, iscritta al n. 113 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 22 ottobre 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante. Ritenuto che, nel corso di un giudizio avente ad oggetto l'opposizione avverso un decreto di espulsione del Prefetto di Viterbo in data 23 settembre 2005, il Giudice di pace locale ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13 e 25, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 26, comma 7-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nella parte in cui prevede l'automatica espulsione del cittadino straniero, condannato con provvedimento irrevocabile (anche in seguito a p atteggiamento) per alcuno dei reati previsti dalle disposizioni del titolo III, capo III, sezione II, della legge 22 aprile 1941, n. 633 e dagli artt. 473 e 474 del codice penale; che - precisa il remittente - il ricorrente - il quale ha censurato anche l'illegittimità dell'omissione della preventiva revoca del permesso di soggiorno - è stato espulso dal territorio nazionale, in applicazione degli artt. 4, 5 e 26, comma 7-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998 (come modificati dalla legge 30 luglio 2002, n. 189, e dal decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 novembre 2004, n. 271), in quanto, con sentenza in data 16 dicembre 2004 del Tribunale di Viterbo, sezione distaccata di Montefiascone, divenuta definitiva, era stato condannato, in seguito a patteggiamento, per i reati di cui all'art. 171 della legge n. 633 d el 1941 e all'art. 648 cod. pen.; che, quanto al merito della questione, il Giudice di pace, dopo aver rilevato che l'espulsione come conseguenza di una condanna penale è, in linea generale, configurata come una misura di sicurezza da disporre in sede giurisdizionale previa valutazione della pericolosità sociale dell'interessato, sostiene che il denunciato contrasto con gli invocati parametri deriverebbe, in primo luogo, dal fatto che la disposizione censurata attribuisce, invece, all'autorità amministrativa il potere di irrogare automaticamente l'espulsione in assenza di qualsiasi pronuncia al riguardo da parte dell'autorità giudiziaria; che, in secondo luogo, la disposizione stessa, da un lato, comporterebbe una irragionevole parità di trattamento tra stranieri espulsi per effetto di condanne per reati di scarsissimo allarme sociale (come quelli conseguenti all'attività dei venditori ambulanti) e stranieri espulsi in seguito a condanne per reati ben più rilevanti e, dall'altro lato, determinerebbe una discriminazione dei cittadini extracomunitari rispetto ai cittadini italiani riconosciuti colpevoli dei medesimi reati, i quali sono assoggettati esclusivamente alla relativa sanzione penale: e ciò ancorché, in base all'art. 2 del d.lgs. n. 286 del 1998, allo straniero, anche irregolarmente presente nel territorio dello Stato, sia garantita «parità di trattamento con il cittadino relativamente alla tutela giurisdizionale dei diritti»; che, inoltre, la disposizione in oggetto creerebbe una ulteriore disparità di trattamento tra stranieri economicamente indipendenti - e, quindi, in grado di affrontare il giudizio ordinario e di proporre le previste impugnazioni, procrastinando per anni l'espulsione - e stranieri che vivono in condizioni di povertà e che, pertanto, sono indotti a chiedere il patteggiamento e a scontare subito la pena; che, infine, ad avviso del remittente, la norma censurata, del tutto irragionevolmente, discriminerebbe coloro che, in conseguenza della scelta del rito del patteggiamento, possono usufruire di una pena diminuita per il commesso reato; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per l'infondatezza della questione. Considerato che il Giudice di pace di Viterbo - con ordinanza del 1° dicembre 2005, pervenuta a questa Corte il 25 marzo 2008 - dubita, in riferimento agli artt. 3, 13 e 25, terzo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 26, comma 7-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nella parte in cui prevede l'automatica espulsione del cittadino straniero, condannato con provvedimento irrevocabile (anche in seguito a patteggiamento) per alcuno dei reati previsti dalle disposizioni de l titolo III, capo III, sezione II, della legge 22 aprile 1941, n. 633 e dagli artt. 473 e 474 cod. pen.; che il giudice remittente non solo omette qualsiasi motivazione sulla rilevanza della questione, ma non descrive adeguatamente la fattispecie sub iudice, limitandosi a riferire che il ricorrente ha censurato anche l'illegittimità dell'omissione della preventiva revoca del permesso di soggiorno (che, peraltro, costituisce l'atto presupposto del provvedimento di espulsione impugnato), senza specificare di che tipo di permesso di soggiorno si tratti; che, comunque, dopo l'emissione dell'ordinanza di remissione il quadro normativo di riferimento ha subito considerevoli modifiche, soprattutto - per quanto interessa nella specie - per effetto del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 5, che ha dato attuazione alla direttiva 2003/86/CE del Consiglio, del 22 settembre 2003, relativa al diritto al ricongiungimento familiare; che tale decreto (recentemente integrato e modificato dal decreto legislativo 3 ottobre 2008, n. 160) ha, fra l'altro, aggiunto un periodo finale al comma 5 dell'art. 5 del d.lgs. n. 286 del 1998 - ove si afferma che per il rifiuto del rilascio, ovvero per la revoca o il diniego di rinnovo del permesso di soggiorno, nel caso di straniero che abbia esercitato il diritto al ricongiungimento familiare o di familiare ricongiunto, «si tiene conto anche della natura e della effettività dei vincoli familiari dell'interessato e dell'esistenza di leg ami familiari e sociali con il suo Paese di origine, nonché, per lo straniero già presente sul territorio nazionale, anche della durata del suo soggiorno nel medesimo territorio nazionale» - ed ha apportato analoga modifica, per quel che riguarda il provvedimento di espulsione, all'art. 13 del d.lgs. n. 286 del 1998, con l'inserimento del comma 2-bis; che, di conseguenza, appare opportuno restituire gli atti al giudice remittente affinché proceda - anche ai fini della verifica delle condizioni di ammissibilità - ad una nuova valutazione in merito alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza della sollevata questione. LA CORTE COSTITUZIONALE ordina la restituzione degli atti al Giudice di pace di Viterbo. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 novembre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 novembre 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai Signori: - Giovanni Maria FLICK &nbs p; Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO ; " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 276, primo comma, del codice civile, promosso con ordinanza del 21 dicembre 2007 dal Tribunale di Cagliari nel procedimento civile vertente tra Maxia Speranza e Tronci Efisio in persona del curatore speciale avv. Maurizio Sequi, iscritta al n. 145 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 21, prima serie speciale, dell'anno 2008. Udito nella camera di consiglio del 22 ottobre 2008 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro. Ritenuto che, con ordinanza del 21 dicembre 2007, il Tribunale di Cagliari ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 276, primo comma, del codice civile nella parte in cui non prevede, nel caso di morte del genitore e degli eredi diretti di questo, la possibilità, per colui che voglia far accertare la propria paternità o maternità naturale, di agire comunque nei confronti di un curatore speciale nominato dal giudice, per contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione; che il rimettente afferma che l'attrice, deducendo di essere figlia naturale di genitore defunto, e manifestando l'intenzione di proporre domanda di accertamento del rapporto di filiazione ai sensi degli artt. 269 e seguenti cod. civ., aveva chiesto la nomina, in assenza degli eredi, di un curatore speciale che potesse essere convenuto in giudizio in luogo del defunto ed il Tribunale aveva provveduto in conformità; che l'attrice ha quindi convenuto davanti al Tribunale il predetto curatore speciale, chiedendo l'accertamento del rapporto di filiazione naturale; che il curatore si è opposto all'accoglimento della domanda proposta per la dichiarazione giudiziale della paternità naturale, chiedendo che ne venga dichiarata l'improcedibilità per inesistenza in vita degli eredi diretti del defunto; che il giudice rimettente ritiene inapplicabile in via analogica l'art. 274 cod. civ., per l'insussistenza di lacune normative, poiché il codice civile prevede la nomina di un curatore speciale per l'azione di disconoscimento di paternità in caso di premorienza del legittimato passivo (art. 274, comma 4, cod. civ.), ma non anche per l'azione di riconoscimento di paternità (art. 276 cod. civ.); che - secondo il rimettente - la formulazione dell'art. 276 cod. civ., nella parte in cui limita la determinazione dei soggetti passivamente legittimati nell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità al genitore ed ai suoi eredi senza ammettere, in caso di morte di tali soggetti, la possibilità della nomina di un curatore speciale indicato dal giudice, si porrebbe in contrasto con il principio di cui all'art. 3 Cost., poiché determinerebbe una disparità di trattamento rispetto a fattispecie simili (quale l'azione di disconoscimento della paternità) e si porrebbe altresì in contrasto con il principio di cui all'art. 24 Cost., in quanto porrebbe limiti alla possibilità di far valere in giudizio il riconoscimento della paternità o maternità naturale; che il rimettente ritiene di dover aderire all'interpretazione della norma adottata dalle sezioni unite civili della Corte di cassazione con la sentenza n. 21287 del 2005, secondo cui i contraddittori necessari passivamente legittimati in ordine all'azione per dichiarazione giudiziale di paternità naturale sono, ex art. 276 cod. civ., in caso di morte dal genitore, esclusivamente i «suoi eredi», e non anche gli eredi degli eredi di lui od altri soggetti, comunque portatori di un interesse contrario all'accoglimento della domanda, cui è invece riconosciuta la sola facoltà di intervenire in giudizio a tutela dei rispettivi interessi; che, inoltre, secondo il giudice a quo, l'azione in esame, in mancanza di eredi del defunto genitore si consumerebbe, e, pertanto, pur in presenza di esigenze di tutela dell'interesse del figlio naturale all'accertamento della genitorialità, non sarebbe ammissibile la nomina di un curatore nominato dal giudice se non in forza di un intervento legislativo ovvero di una pronunzia additiva della Corte costituzionale; che a favore di tale scelta interpretativa deporrebbe l'inequivoco dato letterale che riporta solo il termine «i suoi eredi» (a differenza di quanto espressamente previsto dall'ultimo comma dell'art. 247 cod. civ., che comprende tra i legittimati passivi anche il curatore nominato dal giudice), né potrebbe ritenersi che la norma dettata in materia di azione di disconoscimento sia connessa, sotto un profilo ermeneutico, a quella in materia di dichiarazione giudiziale della paternità e maternità naturale, che la questione sarebbe non manifestamente infondata in quanto la giurisprudenza costituzionale, già con la sentenza n. 70 del 1965, avrebbe messo in evidenza, con riguardo all'art. 30 Cost., come la ricerca della paternità debba essere considerata una forma fondamentale di tutela giuridica dei figli nati fuori del matrimonio, ed ha poi confermato la rilevanza costituzionale della tutela di diritti fondamentali attinenti allo status e alla identità biologica (sentenze n. 112 del 1997 e n. 50 del 2006); che, conseguentemente, in tema di filiazione, la Corte avrebbe sempre privilegiato il favor veritatis, in funzione di un'imprescindibile esigenza di certezza delle situazioni giuridiche soggettive ed in attuazione del diritto della persona ad uno stato corrispondente alla realtà biologica; che l'accertamento della identità biologica, infatti, costituirebbe un aspetto fondamentale per l'individuo, contribuendo, al pari di altri fattori, a formarne la personalità; che, pertanto, nell'azione per la dichiarazione giudiziale di paternità, l'esclusione della possibilità per il legittimato attivo di chiedere la nomina di un curatore speciale in caso di morte dei soggetti legittimati passivi determinerebbe un'irragionevole disparità di trattamento rispetto a posizioni soggettive simili, come quella del legittimato attivo all'azione di disconoscimento della paternità; che, inoltre, la scelta del legislatore di non prevedere la nomina del curatore speciale nel disposto dell'art. 276 cod. civ. si risolverebbe in un sostanziale e definitivo impedimento all'esercizio del diritto di azione garantito dall'art. 24 Cost., in relazione ad azioni volte alla tutela di diritti fondamentali attinenti allo status e all'identità biologica, dal momento che la mancata previsione della nomina del curatore sarebbe suscettibile di determinare l'impossibilità di esercitare un diritto fondamentale attinente alla propria identità biologica. Considerato che il Tribunale di Cagliari dubita della legittimità costituzionale dell'art. 276, primo comma, del codice civile, nella parte in cui non prevede la possibilità di nominare un curatore speciale nei cui confronti promuovere l'azione di riconoscimento di paternità o maternità naturale, in caso di premorienza sia del presunto padre o madre che degli eredi; che il giudice a quo ravvisa nella disposizione censurata un vulnus all'art. 3 della Costituzione, poiché essa determinerebbe una disparità di trattamento rispetto alla fattispecie analoga dell'azione di disconoscimento della paternità; e perché essa sarebbe irragionevole, in quanto la ricerca della paternità dovrebbe essere considerata una forma fondamentale di tutela giuridica dei figli nati fuori del matrimonio, soprattutto in considerazione della rilevanza costituzionale della tutela di diritti fondamentali attinenti allo status e all'identità biologica; che, inoltre, la norma censurata si porrebbe in contrasto con l'art. 24 Cost., in quanto impedirebbe al figlio naturale la possibilità di adire l'autorità giudiziaria per far accertare il proprio status di figlio naturale; che, contrariamente all'assunto del giudice a quo, la richiesta di pronuncia additiva non è costituzionalmente obbligata, ma rientra nella discrezionalità del legislatore ordinario, dal momento che lo stesso, allo scopo di realizzare la pretesa del ricorrente, potrebbe sia indicare quale legittimato passivo della domanda di dichiarazione giudiziale di paternità, in caso di premorienza del genitore e dei suoi eredi, un curatore speciale, sia individuare i legittimati negli eredi degli eredi del preteso genitore; che la questione così come proposta deve, quindi, essere dichiarata manifestamente inammissibile (ordinanze n. 299 e n. 81 del 2008; n. 299 del 2006). Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 276, primo comma, del codice civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Cagliari con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 novembre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Alfio FINOCCHIARO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 novembre 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 18 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), promosso con ordinanza del 29 marzo 2008 dal Giudice di pace di Sorgono nel procedimento civile vertente tra Casula Mario Massimo e la Prefettura di Nuoro, iscritta al n. 172 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 22 ottobre 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella. Ritenuto che, con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Giudice di pace di Sorgono ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 18 della legge 24 novembre l981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), con riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, nella parte in cui non prevede espressamente un termine diverso e più breve di quello di prescrizione delle sanzioni, di cui al successivo art. 28, per l'emissione dell'ordinanza-ingiunzione; che, riferisce il giudice a quo, in un procedimento di opposizione ad ordinanza-ingiunzione del prefetto di Nuoro n. 4847/05 del 27 febbraio 2008, con la quale era stata inflitta una sanzione amministrativa pecuniaria al padre del contravventore minorenne, per violazione dell'art. 116, comma 13, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), per guida senza patente, commessa in data 12 agosto 2005, l'opponente ha chiesto l'annullamento del provvedimento prefettizio in quanto emesso oltre il termine prescritto dall'art. 2 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi); che, a giudizio del rimettente, l'infrazione contestata riguarda una violazione amministrativa inclusa tra quelle per le quali, non essendo ammesso il pagamento nella misura ridotta del minimo edittale, non si prevede la proposizione di un ricorso al prefetto, in quanto la determinazione della sanzione pecuniaria per tale infrazione è rimessa al prefetto medesimo, al quale il verbale di contestazione va trasmesso d'ufficio, per l'emissione della necessaria ordinanza-ingiunzione. che, di conseguenza, secondo il rimettente, il procedimento sanzionatorio per il disposto dell'art. 194 del nuovo codice della strada, «sembra soggetto alla disciplina generale prevista dall'art. 18 della legge n. 689 del 1981», non essendo applicabile la disciplina speciale, prevista dall'art. 204 del codice della strada, per le ordinanze emesse a seguito di «ricorso» del trasgressore;
che tuttavia - prosegue il
rimettente -
l'applicabilità, ai procedimenti sanzionatori previsti dalla legge n.
689 del 1981, del termine stabilito dall'art. 2, comma 3, della legge n.
241 del 1990 è stata esclusa dalle Sezioni unite della Corte di
cassazione, con sentenza n. 9591 del che, pertanto, non potendo trovare applicazione, in base a tale ultimo orientamento interpretativo, neppure quel termine, l'art. 18 della legge n. 689 del 1981 sarebbe incostituzionale in quanto, non prevedendo alcun termine alla durata del procedimento sanzionatorio, de facto farebbe coincidere tale durata con il periodo quinquennale di prescrizione delle sanzioni amministrative, di cui all'art. 28 della legge stessa; che, secondo il rimettente, privo di ragionevolezza sarebbe imporre al trasgressore l'onere di inviare scritti difensivi entro il termine di trenta giorni dalla contestazione, secondo la prescrizione dell'art. 18, primo comma, della legge n. 689 del 1981, mentre l'Autorità procedente potrebbe disporre del temine, ben più lungo, di quasi cinque anni; che in questi termini, l'art. 18 si porrebbe, quindi, in contrasto sia con gli artt. 24 e 111 Cost. - i quali assicurano alle parti la parità di diritti e la ragionevole durata del processo - sia con l'art. 3 Cost., che riconosce ai cittadini pari garanzie e trattamento, siano essi trasgressori del codice della strada o di altre norme amministrative, di natura diversa; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, deducendo anzitutto l'inammissibilità della questione là dove si chiede alla Corte di adeguare l'art. 18 della legge n. 689 del 1981 ai principi costituzionali «con formulazione di un espresso richiamo all'obbligo delle Pubbliche amministrazioni di osservare, anche in sede di emissione di ordinanza ingiunzione, il termine autodeterminato per la conclusione del procedimento (art. 2 comma 2 della legge sul procedimento) o, in difetto, quello legale di novanta giorni (art. 2 citato, comma terzo), come da ribadita previsione dell'art. 29»; in tal modo prospettando una soluzione di carattere alternativo, inammissibil e in questa sede; che, nel merito, l'Avvocatura sottolinea l'infondatezza della questione, in riferimento all'art. 3 Cost., per la disomogeneità del tertium comparationis, e, in riferimento agli artt. 24 e 111 Cost., per l'inidoneità della normativa censurata, pur se intesa nel senso prospettato dal rimettente, a ledere il principio di difesa e quello del giusto processo. Considerato che il Giudice di pace di Sorgono dubita, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 18 della legge 24 novembre l981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui non prevede espressamente un termine (diverso e più breve di quello di prescrizione delle sanzioni, di cui al successivo art. 28) per l'emissione dell'ordinanza-ingiunzione; che il rimettente ha ritenuto inapplicabile alla fattispecie prevista dall'art. 116, comma 13, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada) - oggetto del giudizio a quo - il termine per l'emissione dell'ordinanza-ingiunzione prevista dall'art. 204, commi 1 e 1-bis, del medesimo codice, argomentando dal fatto che per detta infrazione non è ammesso il pagamento in misura ridotta; che l'inapplicabilità di tale termine è stata ritenuta dal giudice a quo nonostante l'esistenza di numerose pronunce di segno contrario della giurisprudenza di legittimità; che, in particolare, il rimettente ha omesso di considerare che la giurisprudenza di legittimità appena richiamata ha più volte sostenuto che l'ordinanza-ingiunzione relativa ad infrazioni al codice della strada per le quali non è ammesso il pagamento in misura ridotta, pur in assenza di un termine specifico previsto dalla legge, ma in perfetta analogia con quanto previsto dall'art. 204 del nuovo codice della strada, vada comunque emanata nel termine ivi previsto, decorrente (in assenza di un ricorso amministrativo da cui far decorrere i centoventi giorni di cui all'art. 204, comma 1, del codice della strada) dalla scadenza del termine per proporre ricorso amministrativo, ai sensi del precedente art. 203, con esclusione dell'applicazione dell'art. 18 de lla legge n. 689 del 1981 (in tal senso Cassazione, 22 maggio 2007, n. 11823; Cassazione, 16 ottobre 2006, n. 22120, e Cassazione, 4 novembre 2005, n. 21361); che, sulla scorta di tale giurisprudenza, il giudice a quo avrebbe potuto esplorare una soluzione adeguatrice conforme a Costituzione: del resto, il richiamo analogico al termine perentorio previsto dall'art. 204 del codice della strada, per l'emanazione dell'ordinanza-ingiunzione, certamente più ristretto di quello di cinque anni di cui alla norma censurata, risponderebbe anche alla natura "speciale" che caratterizza il suo ambito rispetto a quello, più generale, delle sanzioni amministrative cui si riferisce la legge n. 689 del 1981 (si veda Cassazione, sezioni unite, 27 aprile 2006, n. 9591); che, inoltre, il rimettente, affidando a questa Corte l'individuazione in concreto di un termine di decadenza senza indicarlo, sollecita l'esercizio di un potere discrezionale riservato al legislatore (si veda, da ultimo, l'ordinanza n. 58 del 2008) e allo stesso tempo, lasciando indeterminato il possibile intervento della Corte, omette di formulare un petitum specifico (si vedano, da ultimo, le ordinanze n. 35 e n. 279 del 2007); che, pertanto, la questione deve ritenersi, sotto gli indicati profili, manifestamente inammissibile. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 18 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Giudice di pace di Sorgono, con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 novembre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Luigi MAZZELLA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 novembre 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 157, primo e quinto comma, del codice penale, come sostituito dall'art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promossi con ordinanze del 7 aprile 2007 dal Giudice di pace di Mantova, del 2 marzo 2007 dal Tribunale di Trento, sezione distaccata di Tione di Trento, del 5 febbraio 2007 dal Giudice di pace di La Spezia, del 23 febbraio 2007 dal Giudice di pace di Cagliari, del 20 febbraio 2007 dal Tribunale di Biella, del 18 aprile e del 5 giugno 2007 dal Tribunale di Varese, del 22 maggio 2007 dal Giudice di pace di Firenze, del 18 gennaio 2007 dal Tribunale di Bari, del 12 aprile 2007 dal Giudice di pace di Benevento, del 17 aprile 2007 dal Tribunale di Biella, dell'8 (n. 2 ordinanze) e del 14 maggio dal Tribunale di Reggio Emilia, del 19 giugno 2007 dal Giudice di pace di Firenze, del 6 dicembre 2007 dal Giudice di pace di Benevento e dell'8 maggio 2007 dal Tribunale di Reggio Emilia, rispettivamente iscritte ai nn. 577, 584, 608, 614, 634, 677, 678, 680, 711, 716, 727, 734, 786, 735 e 804 del registro ordinanze 2007 ed ai nn. 114 e 155 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 34, 36, 37, 39, 41, 42, 43, 48 e 49, prima serie speciale, dell'anno 2007 e nn. 18 e 22, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 22 ottobre 2008 il Giudice relatore Gaetano Silvestri. Ritenuto che il Giudice di pace di Mantova, con ordinanza del 7 aprile 2007 (r.o. n. 577 del 2007), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, del codice penale, come sostituito dall'art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), n ella parte in cui prevede un termine prescrizionale di tre anni quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria; che il rimettente procede per reati di lesioni personali (art. 582 cod. pen.), ingiuria (art. 594 cod. pen.) e minaccia non aggravata (art. 612 cod. pen.), in relazione ai quali - secondo le prospettazioni difensive - sarebbe decorso, per quanto prorogato, il termine triennale di prescrizione previsto dal quinto comma dell'art. 157 cod. pen.; che lo stesso rimettente riferisce di non condividere la tesi - enunciata dal pubblico ministero - secondo la quale dovrebbero applicarsi, per tutti i reati di competenza del giudice di pace, i più ampi termini prescrizionali fissati nel primo comma dell'art. 157 cod. pen., osservando che tale soluzione lascerebbe priva di contenuto precettivo la disposizione del successivo quinto comma, da intendersi riferita, quindi, ai reati di competenza del giudice di pace puniti con le cosiddette sanzioni paradetentive; che il giudice a quo, ricostruita in tal senso la portata della norma oggetto di censura, dubita della sua corrispondenza al canone di razionalità desumibile dall'art. 3 Cost., in quanto ne deriverebbe, nell'ambito dei reati attribuiti alla competenza del giudice onorario, la previsione per i fatti di maggior gravità (puniti, appunto, con le sanzioni «paradetentive») di un termine più breve di quello stabilito per i fatti di minor rilievo (tali dovendosi considerare quelli puniti con la sola sanzione pecuniaria); che il Tribunale di Trento, sezione distaccata di Tione di Trento, con ordinanza del 2 marzo 2007 (r.o. n. 584 del 2007), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede un termine prescrizionale di tre anni quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria; che nel giudizio principale si procede nei confronti di persona accusata del delitto di diffamazione (art. 595 cod. pen.), commesso, secondo la contestazione, fino all'ottobre del 2001; che il giudice a quo rileva come risulti applicabile nella specie, trattandosi di reato punibile con le cosiddette sanzioni paradetentive, il termine di prescrizione triennale previsto dal quinto comma dell'art. 157 cod. pen., già ampiamente decorso prima della citazione a giudizio dell'imputato; che peraltro, secondo il rimettente, la norma da applicare introdurrebbe un grave elemento di irrazionalità nel sistema dei reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, ripartiti dall'art. 52 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), secondo la seguente summa divisio: quelli già puniti con la sola sanzione pecuniaria, per i quali continuano ad applicarsi le pene della multa o dell'ammenda, e quelli ulteriori, per i quali, con una previsione articolata, sono state introdotte le pene della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità; < /P> che la norma censurata, in particolare, fisserebbe un termine prescrizionale di soli tre anni proprio per i reati puniti con le citate pene «paradetentive», mentre lo stesso termine, per il disposto del primo comma dell'art. 157 cod. pen., sarebbe pari a quattro anni (per le contravvenzioni) ed a sei anni (per i delitti) con riguardo alle fattispecie meno gravi, punite con la sola sanzione pecuniaria; che tale disciplina, secondo il rimettente, introduce nel sistema un'aporia non giustificabile alla luce di valori od esigenze riconducibili alla nuova normativa in materia di prescrizione, od alla sua stessa ratio, ed è dunque priva di corrispondenza alla «causa» di tale normativa, così da risultare intrinsecamente irrazionale e contraria al principio di ragionevolezza (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 89 del 1996); che il Giudice di pace di La Spezia, con ordinanza del 5 febbraio 2007 (r.o. n. 608 del 2007), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui non dispone che il termine triennale di prescrizione previsto per i reati puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria si applichi, inoltre, a tutti gli ulteriori reati di competenza del giudice di pace, ovvero nella parte in cui prevede un termine prescrizionale di tre anni quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria; che nel giudizio principale si procede per un delitto di minaccia non aggravato (art. 612 cod. pen.), sanzionabile con la sola pena pecuniaria, per il quale, secondo il rimettente, il termine prescrizionale sarebbe pari a sei anni, in applicazione del primo comma dell'art. 157 cod. pen. (come sostituito dalla legge n. 251 del 2005), oppure a cinque anni, considerando più favorevole la disciplina della prescrizione vigente all'epoca del fatto; che peraltro, secondo il giudice a quo, il novellato quinto comma dell'art. 157 cod. pen., fissando in soli tre anni la durata del termine prescrizionale per i reati puniti con le sanzioni cosiddette paradetentive, avrebbe indotto nel sistema una situazione di grave irrazionalità; che infatti, nell'ambito dei reati di competenza del giudice di pace, la prescrizione maturerebbe più rapidamente per i fatti più gravi, mentre sarebbe ingiustificatamente dilazionata per i reati sanzionati con sola pena pecuniaria; che sarebbero vulnerati, in tale situazione, il criterio della razionalità intrinseca ed il principio di uguaglianza, con conseguente violazione dell'art. 3 Cost; che il rimettente osserva, in punto di rilevanza, come l'eventuale accoglimento della questione sollevata possa condurre, nel giudizio a quo, ad una declaratoria di estinzione del reato altrimenti non (ancora) consentita; che peraltro, nel dispositivo del provvedimento di rimessione, il quinto comma dell'art. 157 cod. pen. è censurato, in senso alternativo, nella parte in cui non estende il termine triennale in esso previsto a tutti i reati di competenza del giudice di pace, ovvero nella parte in cui prevede un termine triennale per i reati puniti con pene diverse da quella detentiva o da quella pecuniaria; che il Giudice di pace di Cagliari, con ordinanza del 23 febbraio 2007 (r.o. n. 614 del 2007), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157 cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede «termini di prescrizione diversi» per i reati puniti con pene differenti da quella detentiva e da quella pecuniaria; che nel giudizio principale si procede nei confronti di persona accusata del delitto di diffamazione (art. 595 cod. pen.), in relazione al quale, secondo il rimettente, dovrebbero applicarsi i termini di prescrizione introdotti dalla citata legge n. 251 del 2005; che, a parere del giudice a quo, l'art. 157 cod. pen., nel testo riformato, viola «il principio di razionalità e di uguaglianza», in quanto, per i reati più gravi tra quelli attribuiti alla competenza del giudice di pace, «come quello di specie», prevede un termine prescrizionale più breve che per i reati di minor gravità; che, dunque, lo stesso art. 157 cod. pen. dovrebbe essere dichiarato illegittimo «nella parte in cui prevede termini di prescrizione diversi per i reati puniti con pene diverse da quelle pecuniarie e detentive»; che il Tribunale di Biella, con ordinanza del 20 febbraio 2007 (r.o. n. 634 del 2007), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui non dispone che il termine triennale di prescrizione previsto per i reati puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria si applichi, inoltre, a tutti gli ulteriori reati di competenza del giudice di pace; che nel giudizio a quo si procede nei confronti di persona accusata dei reati di lesioni personali (art. 582 cod. pen.) e ingiuria (art. 594 cod. pen.), commessi il 17 novembre 2000; che il rimettente - premesso che per entrambi i fatti in contestazione sono applicabili le sanzioni introdotte dall'art. 52 del d.lgs. n. 274 del 2000 - osserva come il più grave tra detti reati, quello di lesioni personali, debba essere dichiarato estinto per prescrizione a norma del quinto comma dell'art. 157 cod. pen., mentre la meno grave fattispecie di ingiuria sarebbe ulteriormente perseguibile, in quanto assoggettata ai più lunghi termini fissati nel primo comma dello stesso art. 157 cod. pen.; che in particolare, secondo il giudice a quo, la previsione di un termine triennale per la prescrizione dei reati puniti con «pene diverse da quelle detentive o pecuniarie» deve essere riferita agli illeciti di competenza del giudice di pace per i quali siano comminate le cosiddette sanzioni paradetentive, anche perché, ove «diversamente intesa, la norma risulterebbe inapplicabile, in quanto priva di qualsivoglia concreto riferimento»; che la prevista possibilità dell'irrogazione di una pena pecuniaria in alternativa alla sanzione «diversa», nei singoli casi concreti, non escluderebbe l'applicazione della norma censurata ai reati di competenza del giudice di pace, poiché detta norma si riferisce, in astratto, alle previsioni sanzionatorie edittali; che dunque, nell'ambito degli illeciti rimessi alla competenza del giudice onorario, il termine di prescrizione per i reati puniti con la sanzione pecuniaria sarebbe pari a quattro anni o addirittura a sei (a seconda che si tratti di contravvenzioni o delitti), mentre gli illeciti più gravi, per i quali è applicabile anche (o solo) una sanzione coercitiva della libertà personale (ancorché non detentiva), sarebbero suscettibili di estinzione già nell'arco di un triennio; che un tale assetto, secondo il rimettente, sarebbe «platealmente irragionevole», perché contrastante con l'aspettativa di un «oblio sociale dell'illecito» più o meno tempestivo a seconda della portata dell'offesa, e comunque con il criterio di un più marcato interesse punitivo per i fatti di maggior gravità; che la denunciata irrazionalità risulterebbe particolarmente evidente considerando sequenze criminose di progressione nell'offesa ad un medesimo bene: la prescrizione del reato di percosse (fatto punibile, a norma dell'art. 581 cod. pen., con la sola pena pecuniaria) matura in sei anni, e tuttavia, nel caso in cui l'agente giunga a provocare lesioni personali lievi (punibili, a norma dell'art. 582 cod. pen., anche con la permanenza domiciliare o il lavoro sostitutivo), il termine per l'estinzione del reato scende a tre anni; che l'aporia dovrebbe essere eliminata, secondo il giudice a quo, estendendo a tutti i reati di competenza del giudice di pace la regola dettata dal quinto comma dell'art. 157 cod. pen., posto che la soluzione d'un allineamento del termine sui valori più elevati sarebbe preclusa dal divieto di manipolazione in malam partem della disciplina, e considerata, per altro verso, la congruenza d'una prescrizione particolarmente sollecita con quel sistema di «diritto mite» che segnerebbe la giurisdizione penale di pace; che il Tribunale di Varese, con ordinanza del 18 aprile 2007 (r.o. n. 677 del 2007), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, primo e quinto comma, cod. pen., come sostituiti dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui, nell'ambito dei reati di competenza del giudice di pace, è previsto per le condotte punite con sanzione pecuniaria un termine prescrizionale più lungo di quello stabilito per i fatti punibili con sanzioni «paradetentive»; che nel giudizio a quo, pendente in fase di appello, si procede per un reato non aggravato di lesioni personali colpose (art. 590 cod. pen.); che il rimettente osserva come, nella specie, il termine prescrizionale indicato nel novellato primo comma dell'art. 157 cod. pen. non sia ancora decorso, mentre sarebbe già maturato quello triennale, fissato nel successivo quinto comma; che il termine più breve - sempre secondo il rimettente - sarebbe stato applicabile nel giudizio a quo se il fatto fosse stato più grave di quello commesso, implicando la contestazione delle aggravanti previste dall'art. 590 cod. pen. e dunque l'applicabilità delle sanzioni «paradetentive»; che il Tribunale ritiene irragionevole una siffatta disciplina, essendosi previsto un trattamento deteriore proprio per i reati che, tra quelli rimessi alla competenza del giudice di pace, meritano le sanzioni più lievi; che il Tribunale di Varese, con ordinanza del 5 giugno 2007 (r.o. n. 678 del 2007), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui non dispone che il termine triennale di prescrizione previsto per i reati puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria si applichi, inoltre, a tutti gli ulteriori reati di competenza del giudice di pace; che nel giudizio principale si procede per i reati di ingiuria (art. 594 cod. pen.), minaccia (art. 612 cod. pen.) e lesioni personali (art. 582 cod. pen.), l'ultimo dei quali, a norma dell'art. 52 del decreto legislativo n. 274 del 2000, è punibile con le sanzioni cosiddette paradetentive; che la norma censurata, secondo il rimettente, si riferirebbe proprio ai più gravi reati di competenza del giudice di pace, cioè quelli sanzionati anche da pene che incidono sulla libertà personale, stabilendo per essi un termine prescrizionale più breve di quello previsto per i fatti puniti meno severamente; che tale disciplina, a parere del Tribunale, implicherebbe «una ingiustificata disparità di trattamento rilevante ai sensi dell'art. 3 della Carta costituzionale»; che la questione sollevata sarebbe rilevante nel giudizio a quo in quanto più di un triennio sarebbe trascorso tra l'epoca di commissione dei reati (fino all'aprile 2003) e la data del primo atto interruttivo del decorso della prescrizione (maggio del 2006); che il Giudice di pace di Firenze, con ordinanza del 22 maggio 2007 (r.o. n. 680 del 2007), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede un termine prescrizionale di tre anni quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria; che nel giudizio principale si procede nei confronti di persone accusate dei delitti di ingiuria (art. 594 cod. pen.) e di lesioni personali (art. 582 cod. pen.); che per la seconda delle contestazioni, concernente un reato punito con le cosiddette sanzioni paradetentive, il giudice a quo ritiene applicabile il termine prescrizionale previsto dal novellato quinto comma dell'art. 157 cod. pen., con la conseguenza che lo stesso reato sarebbe estinto, essendo trascorsi più di tre anni, al momento del giudizio, dall'ultimo atto interruttivo della prescrizione; che peraltro la norma censurata, secondo il rimettente, introdurrebbe un grave elemento di irrazionalità nel sistema dei reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, ripartiti dall'art. 52 del d. lgs. n. 274 del 2000 secondo la seguente «summa divisio»: quelli già puniti con la sola sanzione pecuniaria, per i quali continuano ad applicarsi le pene della multa o dell'ammenda, e quelli ulteriori, per i quali, con una previsione articolata, sono state introdotte le pene della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità; che, in particolare, il testo riformato del quinto comma dell'art. 157 cod. pen. fisserebbe un termine prescrizionale di soli tre anni proprio per i reati puniti con pene limitative della libertà, da considerarsi per questo più gravi, mentre lo stesso termine, per il disposto del primo comma della norma citata, sarebbe pari a quattro anni (per le contravvenzioni) ed a sei anni (per i delitti) con riguardo alle fattispecie meno rilevanti, perché punite con la sola sanzione pecuniaria; che, a parere del giudice a quo, nella disposizione censurata difetterebbe una corrispondenza rispetto alla «causa» della normativa sulla prescrizione, essendosi generata un'aporia non giustificabile alla luce di valori od esigenze riconducibili alla nuova disciplina introdotta dal legislatore, od alla stessa ratio dell'intervento di riforma (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 89 del 1996); che il Tribunale di Bari, con ordinanza del 18 gennaio 2007 (r.o. n. 711 del 2007), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui non dispone che il termine triennale di prescrizione previsto per i reati puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria si applichi, inoltre, a tutti gli ulteriori reati di competenza del giudice di pace; che nel giudizio a quo si procede, a seguito di decreto di citazione risalente al maggio del 2005, per un reato di lesioni personali colpose (art. 590 cod. pen.), commesso nel giugno del 1999; che, secondo il rimettente, il reato in contestazione sarebbe punibile con le cosiddette sanzioni paradetentive, e dovrebbe quindi considerarsi estinto alla luce del tempo trascorso dall'ultimo atto interruttivo, ben superiore al termine di tre anni indicato al quinto comma dell'art. 157 cod. pen.; che infatti - osserva il giudice a quo - la previsione di un termine triennale per la prescrizione dei reati puniti con «pene diverse da quelle detentive o pecuniarie» deve essere riferita agli illeciti di competenza del giudice di pace per i quali siano comminate le pene della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità, anche perché, ove «diversamente intesa, la norma risulterebbe inapplicabile, in quanto priva di qualsivoglia concreto riferimento»; che la prevista possibilità dell'irrogazione di una pena pecuniaria in alternativa alla sanzione «diversa», nei singoli casi concreti, non escluderebbe l'applicazione della norma censurata ai reati di competenza del giudice di pace, poiché detta norma si riferisce, in astratto, alle previsioni sanzionatorie edittali; che la previsione del quinto comma dell'art. 157 cod. pen., secondo il rimettente, violerebbe il principio di ragionevolezza, introducendo un termine prescrizionale breve proprio per i più gravi tra i reati attribuiti alla competenza del giudice onorario; che il giudice a quo, rilevato quanto precede, ribadisce che il reato in contestazione sarebbe soggetto «al più favorevole trattamento sanzionatorio dettato dall'art. 52 del d.lvo n. 274/2000», e che «in relazione al tipo di sanzione prevista, risulterebbe corrispondentemente applicabile anche il nuovo termine di prescrizione di tre anni aumentabile di un quarto in caso di ritenuta fondatezza della questione di legittimità costituzionale»; che in effetti, nel dispositivo del provvedimento di rimessione, il quinto comma dell'art. 157 cod. pen. risulta censurato nella parte in cui non estende il termine triennale di prescrizione a tutti i reati di competenza del giudice di pace; che il Giudice di pace di Benevento, con ordinanza del 12 aprile 2007 (r.o. n. 716 del 2007), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede un termine prescrizionale di tre anni quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria; che nel giudizio a quo si procede per i reati di ingiuria (primo e quarto comma dell'art. 594 cod. pen.) e di diffamazione (art. 595 cod. pen.); che, secondo il rimettente, dovendosi fare nella specie applicazione delle nuove disposizioni dell'art. 157 cod. pen., il termine prescrizionale per il reato di ingiuria (ancora punibile con la sola pena pecuniaria) sarebbe pari a sei anni, mentre l'analogo termine sarebbe pari a tre anni per il delitto di diffamazione, punibile anche con le sanzioni cosiddette paradetentive; che la norma censurata, a parere del giudice a quo, determina una violazione dell'art. 3 Cost., in relazione ai principi di ragionevolezza ed uguaglianza, in quanto il trattamento introdotto per i reati di maggior gravità, tra quelli assegnati alla competenza del giudice di pace, risulterebbe in punto di prescrizione più favorevole di quello riservato agli illeciti meno gravi; che la questione sollevata sarebbe rilevante, nel giudizio principale, «attesa la possibilità di un'avvenuta prescrizione del reato di diffamazione di cui all'atto di citazione a giudizio in data 25 febbraio 2002»; che il Tribunale di Biella, con ordinanza del 17 aprile 2007 (r.o. n. 727 del 2007), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui non dispone che il termine triennale di prescrizione previsto per i reati puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria si applichi, inoltre, a tutti gli ulteriori reati di competenza del giudice di pace; che nel giudizio a quo si procede nei confronti di persona accusata del reato di lesioni personali colpose (art. 590 cod. pen.), commesso il 30 giugno 2001; che, secondo il Tribunale, ai fatti in contestazione sono applicabili le sanzioni introdotte dal d.lgs. n. 274 del 2000, e per altro verso le nuove disposizioni dettate in materia di prescrizione con la riforma dell'art. 157 cod. pen.; che, pertanto, il termine prescrizionale per il reato contestato, punibile solo con la pena della multa, sarebbe pari a sei anni, e non sarebbe ancora maturato (primo comma dell'art. 157 cod. pen.); che tale circostanza pare incongrua al rimettente, posto che fatti analoghi di aggressione all'altrui incolumità personale, e però più gravi (perché produttivi di conseguenze più serie o perché commessi dolosamente), sarebbero assoggettati ad un termine prescrizionale ben più breve, in quanto punibili con le cosiddette sanzioni paradetentive (quinto comma dello stesso art. 157); che infatti - osserva il giudice a quo - la previsione di un termine triennale per la prescrizione dei reati puniti con «pene diverse da quelle detentive o pecuniarie» deve essere riferita agli illeciti di competenza del giudice di pace per i quali siano comminate le pene della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità, anche perché, ove «diversamente intesa, la norma risulterebbe inapplicabile, in quanto priva di qualsivoglia concreto riferimento»; che la possibile irrogazione di una pena pecuniaria in alternativa alla sanzione «diversa», nei singoli casi concreti, non escluderebbe l'applicazione della norma censurata ai reati di competenza del giudice di pace, poiché detta norma si riferisce, in astratto, alle previsioni sanzionatorie edittali; che il Tribunale, alla luce di quanto precede, ritiene che la disciplina della prescrizione per i reati di competenza del giudice di pace sia «platealmente irragionevole», fissando un termine pari a quattro anni o addirittura a sei (a seconda che si tratti di contravvenzioni o delitti) per i reati puniti unicamente con la sanzione pecuniaria, e prevedendo invece un termine triennale per gli illeciti da considerare più gravi, in quanto punibili anche (o solo) con una sanzione coercitiva della libertà personale (ancorché non detentiva); che un tale assetto, secondo il rimettente, contrasterebbe con l'aspettativa di un «oblio sociale dell'illecito» più o meno tempestivo a seconda della portata dell'offesa, e comunque con il criterio di un più marcato interesse punitivo per i fatti di maggior gravità; che l'irrazionalità della disciplina, secondo il giudice a quo, dovrebbe essere eliminata attraverso una parificazione dei termini prescrizionali per i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, in particolare estendendo a tutti la previsione del quinto comma dell'art. 157 cod. pen.; che la contraria soluzione dell'allineamento del termine sui valori più elevati, infatti, sarebbe preclusa dal divieto di manipolazione in malam partem della disciplina, e d'altronde, a parere del rimettente, una prescrizione particolarmente sollecita sarebbe congrua con il sistema di «diritto mite» che caratterizza, appunto, la giurisdizione penale di pace; che il Tribunale di Reggio Emilia, con ordinanza dell'8 maggio 2007 (r.o. n. 734 del 2007), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, primo comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui assoggetta ai più lunghi termini di prescrizione in esso previsti, anziché ad un termine triennale, i reati di competenza del giudice di pace puniti con la sola pena pecuniaria; che nel giudizio a quo si procede per i reati di ingiuria (art. 594 cod pen.), minaccia (art. 612 cod. pen.) e lesioni personali (art. 582 cod. pen.); che, secondo il rimettente, la previsione del quinto comma dell'art. 157 cod. pen. sarebbe riferibile alle sanzioni della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità, in quanto «diverse» da quelle detentive e da quelle pecuniarie; che le sanzioni appena citate, in particolare, non potrebbero essere assimilate alle pene detentive (con conseguente inapplicabilità del termine prescrizionale breve) in base a quanto disposto dal primo comma dell'art. 58 del d.lgs. n. 274 del 2000, secondo cui «per ogni effetto giuridico la pena dell'obbligo di permanenza domiciliare e il lavoro di pubblica utilità si considerano come pena detentiva della specie corrispondente a quella della pena originaria»; che la previsione del quinto comma dell'art. 157 cod. pen., infatti, sarebbe norma «successiva e speciale», come tale derogatrice, ai fini della prescrizione, della regola, generale ed antecedente, di analogo trattamento tra sanzioni detentive e sanzioni cosiddette paradetentive; che dunque, a parere del rimettente, i reati di competenza del giudice di pace puniti con la permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità si prescriverebbero in tre anni, mentre i reati puniti con la sola pena pecuniaria, riconducibili alla previsione del primo comma dell'art. 157 cod. pen., sarebbero suscettibili di prescrizione in un tempo pari almeno a quattro anni; che tale disciplina, per la sua palese irrazionalità, e per il trattamento più sfavorevole ingiustificatamente riservato ai reati meno gravi, violerebbe l'art. 3 Cost.; che infine, in punto di rilevanza, il rimettente osserva come solo l'eventuale dichiarazione di illegittimità della norma censurata, nel senso auspicato dallo stesso rimettente, possa implicare un immediato effetto estintivo per i reati di minaccia ed ingiuria contestati nel giudizio a quo, che altrimenti resterebbero perseguibili, a differenza del più grave reato di lesioni personali, già prescritto; che il Tribunale di Reggio Emilia, con ordinanza del 14 maggio 2007 (r.o. n. 735 del 2007), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, primo comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui assoggetta ai più lunghi termini di prescrizione in esso previsti, anziché ad un termine triennale, i reati di competenza del giudice di pace puniti con la sola pena pecuniaria; che, secondo quanto riferito dal rimettente, nel giudizio a quo si procede per i reati di ingiuria (art. 594 cod pen.) e minaccia (art. 612 cod. pen.), in ordine ai quali sarebbe applicabile un termine prescrizionale pari a sei anni, nella specie non ancora decorso; che peraltro - osserva il giudice a quo - ulteriori e più gravi reati di competenza del giudice di pace, punibili con le sanzioni della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità, sarebbero suscettibili di prescrizione nel termine di soli tre anni, secondo quanto disposto al quinto comma dell'art. 157 cod. pen.; che infatti la disposizione appena citata, riguardante pene «diverse» da quelle detentive e da quelle pecuniarie, andrebbe riferita proprio alle sanzioni «paradetentive» applicabili dal giudice di pace, per le ragioni illustrate dal medesimo rimettente anche in altra ordinanza, già sopra riassunta (r.o. n. 734 del 2007); che dunque, a parere del Tribunale, i reati di competenza del giudice di pace puniti con la permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità si prescriverebbero in tre anni, mentre i reati puniti con la sola pena pecuniaria, riconducibili alla previsione del primo comma dell'art. 157 cod. pen., sarebbero suscettibili di prescrizione in un tempo pari almeno a quattro anni; che tale disciplina, per la sua palese irrazionalità e per il trattamento più sfavorevole ingiustificatamente riservato ai reati meno gravi, violerebbe l'art. 3 Cost.; che infine il rimettente osserva, in punto di rilevanza, come solo l'eventuale dichiarazione di illegittimità della norma censurata, nel senso auspicato dallo stesso rimettente, possa implicare un immediato effetto estintivo per i reati contestati nel giudizio a quo; che il Tribunale di Reggio Emilia, con ordinanza dell'8 maggio 2007 (r.o. n. 786 del 2007), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, primo comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui assoggetta ai più lunghi termini di prescrizione in esso previsti, anziché ad un termine triennale, i reati di competenza del giudice di pace puniti con la sola pena pecuniaria; che, secondo quanto riferito dal rimettente, nel giudizio a quo si procede per il reato di ingiuria (art. 594 cod. pen.), in ordine al quale sarebbe applicabile un termine prescrizionale pari a sei anni, nella specie non ancora decorso; che a parere dello stesso rimettente - il quale riprende rilievi sviluppati in analoghe e già considerate ordinanze di rimessione (r.o. numeri 734 e 735 del 2007) - i reati di competenza del giudice di pace puniti con la permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità, cui si riferisce il quinto comma dell'art. 157 cod. pen., si prescriverebbero in tre anni, mentre i reati puniti con la sola pena pecuniaria, riconducibili alla previsione del primo comma dello stesso art. 157, sarebbero suscettibili di prescrizione in un tempo pari almeno a quattro anni; che a parere del giudice a quo tale disciplina, per la sua palese irrazionalità e per il trattamento più sfavorevole ingiustificatamente riservato ai reati meno gravi, violerebbe l'art. 3 Cost.; che il Tribunale osserva, in punto di rilevanza, come solo l'eventuale dichiarazione di illegittimità della norma censurata, nel senso auspicato dallo stesso Tribunale, possa implicare un immediato effetto estintivo per il reato contestato nel giudizio a quo; che il Giudice di pace di Firenze, con ordinanza del 19 giugno 2007 (r.o. n. 804 del 2007), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede un termine prescrizionale di tre anni quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria; che nel giudizio principale si procede nei confronti di persona accusata del delitto di lesioni personali (art. 582 cod. pen.), commesso il 26 gennaio 2003 e, secondo il rimettente, già estinto per prescrizione; che infatti, trattandosi di reato punito con le cosiddette sanzioni paradetentive, il giudice a quo ritiene applicabile il termine prescrizionale di tre anni previsto dal novellato quinto comma dell'art. 157 cod. pen.; che peraltro tale ultima norma, a parere del rimettente, introduce un grave elemento di irrazionalità nel sistema dei reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, fissando il termine triennale proprio per i reati puniti con le pene della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità, da considerarsi per questo più gravi, mentre il tempo necessario alla prescrizione delle fattispecie meno rilevanti, in quanto punite con la sola sanzione pecuniaria, sarebbe pari a quattro anni (per le contravvenzioni) ed a sei anni (per i delitti), secondo il disposto del primo comma dell'art. 157 cod. pen.; che nella disposizione censurata difetterebbe, in particolare, una corrispondenza rispetto alla «causa» della normativa sulla prescrizione, essendosi generata un'aporia non giustificabile alla luce di valori od esigenze riconducibili alla nuova disciplina introdotta dal legislatore, od alla stessa ratio dell'intervento di riforma (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 89 del 1996); che il Giudice di pace di Benevento, con ordinanza del 6 dicembre 2007 (r.o. n. 114 del 2008), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede un termine prescrizionale di tre anni quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria; che nel giudizio a quo si procede per il reato di lesioni personali (art. 582 cod. pen.), in relazione al quale - dovendosi nella specie fare applicazione delle nuove disposizioni dell'art. 157 cod. pen. e trattandosi di fattispecie punibile anche con le sanzioni della permanenza domiciliare o del lavoro di pubblica utilità - il termine prescrizionale sarebbe pari a tre anni; che il rimettente, richiamando senza trascriverli analoghi provvedimenti con il medesimo oggetto, osserva come la norma censurata determini una violazione dell'art. 3 Cost., in relazione ai principi di ragionevolezza ed uguaglianza; che lo stesso rimettente rileva, infine, che «la questione di applicabilità o meno della norma sui nuovi termini appare rilevante . attesa la possibilità di un'avvenuta prescrizione del reato in capo all'imputato»; che il Tribunale di Reggio Emilia, con ordinanza dell'8 maggio 2007 (r.o. n. 155 del 2008), ha sollevato - in riferimento all'art. 3 Cost. - questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, primo comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui assoggetta ai più lunghi termini di prescrizione in esso previsti, anziché ad un termine triennale, i reati di competenza del giudice di pace puniti con la sola pena pecuniaria; che nel giudizio a quo si procede per il reato di minaccia (art. 594 cod. pen.), in ordine al quale sarebbe applicabile, a parere del rimettente, un termine prescrizionale pari a sei anni, nella specie non ancora decorso; che secondo lo stesso rimettente - il quale riprende rilievi sviluppati in analoghe e già considerate ordinanze di rimessione (r.o. numeri 734, 735 e 786 del 2007) - i reati di competenza del giudice di pace puniti con la permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità, cui si riferisce il quinto comma dell'art. 157 cod. pen., si prescriverebbero in tre anni, mentre i reati puniti con la sola pena pecuniaria, riconducibili alla previsione del primo comma dello stesso art. 157, sarebbero suscettibili di prescrizione in un tempo pari almeno a quattro anni; che a parere del giudice a quo tale disciplina, per la sua palese irrazionalità, e per il trattamento deteriore ingiustificatamente riservato ai reati meno gravi, violerebbe l'art. 3 Cost.; che il Tribunale osserva, in punto di rilevanza, come solo l'invocata dichiarazione di illegittimità della norma censurata possa implicare un immediato effetto estintivo per il reato contestato nel giudizio a quo; che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto, con atti di identico tenore, in tutti i giudizi indicati; che, secondo la difesa erariale, le questioni sollevate sarebbero infondate; che, infatti, il quinto comma dell'art. 157 cod. pen. si riferirebbe a tutti i reati di competenza del giudice di pace, compresi quelli puniti con la sola sanzione pecuniaria, e che dunque non sussisterebbe, nel relativo ambito, alcuna irrazionale difformità di trattamento. Considerato che, mediante le ordinanze di rimessione indicate in epigrafe, sono state sollevate varie questioni concernenti la disciplina della prescrizione per i reati attributi alla competenza del giudice di pace; che alcuni dei giudici a quibus censurano in particolare - con riferimento all'art. 3 della Costituzione - il primo comma dell'art. 157 del codice penale, come sostituito dall'art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), nella parte in cui assoggetta ai più lunghi termini di prescrizione in esso previsti, anziché ad un termine triennale, i reati di competenza del giudice di pace puniti con la sola pena pecuniaria (r.o. numeri 734, 735 e 786 del 2007, n. 155 del 2008); che altri rimettenti censurano, sempre in riferimento all'art. 3 Cost., il quinto comma dell'art. 157 cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui non dispone che il termine triennale di prescrizione previsto per i reati puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria si applichi, inoltre, a tutti gli ulteriori reati di competenza del giudice di pace (r.o. numeri 634, 678, 711 e 727 del 2007); che viene sollevata anche, sempre con riguardo all'art. 3 Cost., una questione di legittimità riferita tanto al primo che al quinto comma dell'art. 157 cod. pen, come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, denunciandone l'irragionevolezza nella parte in cui, nell'ambito dei reati di competenza del giudice di pace, prevedono per le condotte punite con sanzione pecuniaria un termine prescrizionale più lungo di quello fissato per i fatti punibili con sanzioni «paradetentive» (r.o. n. 677 del 2007); che una parte ulteriore delle ordinanze di rimessione - sul contrario assunto che l'allineamento dei tempi di prescrizione (asseritamente necessario alla luce dell'art. 3 Cost.) dovrebbe realizzarsi mediante l'applicazione generalizzata dei termini più lunghi - prospetta l'illegittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede un termine prescrizionale di tre anni quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria (r.o. numeri 577, 584, 680, 716 e 804 del 2007, n. 114 del 2008); che il Giudice di pace di Cagliari solleva, con riferimento all'art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 157 cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, nella parte in cui prevede, per i reati puniti con pene diverse da quelle detentive e da quelle pecuniarie, termini di prescrizione «diversi» da quelli previsti per i reati puniti con le sole pene pecuniarie (r.o. n. 614 del 2007); che, infine, il Giudice di pace di La Spezia, sempre con riguardo all'art. 3 Cost., dubita della legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, per la parte in cui non dispone che il termine triennale di prescrizione previsto per i reati puniti con pena diversa da quella detentiva e da quella pecuniaria si applichi a tutti gli ulteriori reati di competenza del giudice di pace, ovvero per la parte in cui prevede un termine prescrizionale di tre anni quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria (r.o. n. 608 del 2007); che tutte le questioni sollevate riguardano l'attuale disciplina della prescrizione per i reati di competenza del giudice di pace, cosicché appare opportuna la riunione dei relativi giudizi; che la questione sollevata dal Giudice di pace di Mantova (r.o. n. 577 del 2007), relativamente al novellato quinto comma dell'art. 156 cod. pen., è manifestamente inammissibile; che infatti l'ordinanza di rimessione - pur mirata ad un'ablazione della norma censurata - esprime solo una generica doglianza per il trattamento asseritamente diversificato dei reati di competenza del giudice di pace, ed è inoltre priva, in punto di rilevanza, di una motivazione anche soltanto implicita, posto che nel giudizio a quo si procede, secondo l'interpretazione adottata dallo stesso rimettente, per reati riconducibili sia al primo sia al quinto comma dell'art. 157 cod. pen; che anche la questione sollevata dal Giudice di pace di La Spezia (r.o. n. 608 del 2007), sempre con riguardo al quinto comma dell'art. 157 cod. pen., è manifestamente inammissibile, poiché, tra l'altro, il dispositivo del provvedimento sollecita indifferentemente, in termini di alternativa irrisolta, un intervento di ablazione mirato ad allineare i termini di prescrizione verso l'alto ed una decisione additiva che, invece, varrebbe a generalizzare il termine di tre anni previsto dalla norma censurata; che, del pari, risulta manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Giudice di pace di Cagliari (r.o. n. 614 del 2007), ove l'art. 157 cod. pen. è censurato in quanto prevede termini prescrizionali «diversi» per i più gravi tra i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace, senza l'indicazione dell'intervento mediante il quale questa Corte dovrebbe rimuovere la denunciata situazione di irrazionalità, così dando luogo ad un petitum sostanzialmente indeterminato; che analoga situazione si riscontra per la questione sollevata, in relazione al primo ed al quinto comma dell'art. 157 cod. pen. dal Tribunale di Varese (r.o. n. 677 del 2007), posto che il rimettente, pur orientato a sollecitare un allineamento verso il basso dei termini prescrizionali, si limita ad investire questa Corte affinché «valuti la conformità» delle norme censurate al dettato costituzionale; che va dichiarata, ancora, la manifesta inammissibilità della questione sollevata dal Tribunale di Bari (r.o. n. 711 del 2007), posto che la relativa motivazione non ne chiarisce i presupposti di rilevanza, trascurando il disposto del comma 2 dell'art. 10 della legge n. 251 del 2005 e mirando comunque il rimettente, almeno nell'enunciato formale, alla generalizzazione di quel termine triennale che già dovrebbe applicarsi nel giudizio a quo, ove si procede per un reato punibile con le pene cosiddette paradetentive; che risulta manifestamente inammissibile, infine, anche la questione sollevata dal Giudice di pace di Benevento (r.o. n. 114 del 2008), per l'incompleta descrizione del fatto e per la carenza, comunque, di un'autonoma ed adeguata motivazione in ordine alle ragioni dell'asserito contrasto della norma censurata con i principi di ragionevolezza ed uguaglianza desunti dall'art. 3 Cost.; che le ulteriori questioni di legittimità costituzionale cui si riferisce il presente giudizio - sollevate dal Tribunale di Trento, sezione distaccata di Tione di Trento (r.o. n. 584 del 2007), dal Tribunale di Biella (r.o. numeri 634 e 727 del 2007), dal Tribunale di Varese (r.o. n. 678 del 2007), dal Giudice di pace di Firenze (r.o. numeri 680 e 804 del 2007), dal Giudice di pace di Benevento (r.o. n. 716 del 2007), dal Tribunale di Reggio Emilia (r.o. numeri 734, 735 e 786 del 2007, n. 155 del 2008) - sono manifestamente infondate, in quanto prospettate in base ad un erroneo presupposto interpretativo; che infatti - come questa Corte ha chiarito dichiarando non fondate «nei sensi di cui in motivazione» questioni analoghe a quelle odierne, poste sia con riguardo al primo che con riferimento al quinto comma dell'art. 156 cod. pen. (sentenza n. 2 del 2008) - deve essere esclusa l'attuale vigenza di un termine triennale di prescrizione per i reati di competenza del giudice di pace punibili mediante le cosiddette sanzioni paradetentive; che con la citata pronuncia è stata esclusa, in particolare, la riferibilità della norma contenuta nel quinto comma dell'art. 157 cod. pen. a fattispecie incriminatrici che non prevedano in via diretta ed esclusiva pene diverse da quelle pecuniarie o detentive, ed è stata altresì rilevata la perdurante equiparazione, «per ogni effetto giuridico», tra le pene dell'obbligo di permanenza domiciliare e del lavoro socialmente utile, irrogabili dal giudice di pace in alternativa alle pene pecuniarie, e le sanzioni detentive originariamente previste per i reati che le contemplano (art. 58, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000); che l'opzione appena descritta è stata confermata, da questa Corte, in occasione del vaglio di ulteriori questioni sollevate con riguardo alla disciplina della prescrizione per i reati di competenza del giudice di pace (ordinanza n. 223 del 2008); che non si rinvengono, nella motivazione dei provvedimenti dai quali origina il presente giudizio, argomenti che inducano a modificare le valutazioni appena richiamate; che la ritenuta applicabilità delle disposizioni previste nel primo comma dell'art. 157 cod. pen. a tutti i reati di competenza del giudice di pace esclude l'incongrua diversità di trattamento denunciata da ciascuno dei rimettenti. Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi innanzi alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, del codice penale, come sostituito dall'art. 6 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circ ostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), sollevate, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Giudice di pace di Mantova (r.o. n. 577 del 2007), dal Giudice di pace di La Spezia (r.o. n. 608 del 2007), dal Tribunale di Bari (r.o. n. 711 del 2007) e dal Giudice di pace di Benevento (r.o. n. 114 del 2008), con le ordinanze indicate in epigrafe; dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 157 cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., dal Giudice di pace di Cagliari (r.o. n. 614 del 2007), con l'ordinanza indicata in epigrafe; dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 157, primo e quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., dal Tribunale di Varese (r.o. n. 677 del 2007), con l'ordinanza indicata in epigrafe; dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 157, quinto comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, sollevate, in riferimento all'art. 3 Cost., dal Tribunale di Trento, sezione distaccata di Tione di Trento (r.o. n. 584 del 2007), dal Tribunale di Biella (r.o. numeri 634 e 727 del 2007), dal Tribunale di Varese (r.o. n. 678 del 2007), dal Giudice di pace di Firenze (r.o. numeri 680 e 804 del 2007), dal Giudice di pace di Benevento (r.o. n. 716 del 2007), con le ordinanze indicate in epigrafe; dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 157, primo comma, cod. pen., come sostituito dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, sollevate, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Reggio Emilia (r.o. numeri 734, 735 e 786 del 2007, n. 155 del 2008), con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 novembre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Gaetano SILVESTRI, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 novembre 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Puglia 28 maggio 2007, n. 13 (Istituzione del Parco naturale regionale "Litorale di Ugento"), promosso con ordinanza del 20 dicembre 2007 dal Tribunale amministrativo regionale della Puglia, sezione staccata di Lecce, sul ricorso proposto da Labbate Ettore contro la Regione Puglia ed altri, iscritta al n. 128 del registro ordinanze 2008 e pu bblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di costituzione di Labbate Ettore, della Provincia di Lecce, del Comune di Ugento e della Regione Puglia; udito nella camera di consiglio del 22 ottobre 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano. Ritenuto che, con ordinanza depositata il 20 dicembre 2007, il Tribunale amministrativo regionale della Puglia, sezione staccata di Lecce, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Puglia 28 maggio 2007, n. 13 (Istituzione del Parco naturale regionale "Litorale di Ugento"); che il giudice rimettente, dopo aver premesso che i ricorsi, proposti da soggetti proprietari di beni immobili siti in zona interessata dalla istituzione del Parco naturale, hanno ad oggetto il verbale della conferenza dei servizi del 24 novembre 2006 inerente la istituzione del Parco naturale in questione, nonché ogni altro atto connesso relativo al procedimento per la predetta istituzione, precisa che la legge Regione Puglia 24 luglio 1997, n. 19 (Norme per l'istituzione delle aree naturali protette nella Regione Puglia), ha previsto per la creazione delle aree naturali protette di interesse regionale un articolato procedimento, suddiviso in due fasi da sv olgersi in sequenza: l'una, di natura amministrativa, diretta a «realizzare la partecipazione ed il concorso dei soggetti pubblici e privati portatori dei molteplici interessi coinvolti», l'altra, di carattere legislativo, che inizia con la presentazione al Consiglio regionale, da parte della Giunta, dello schema definitivo di disegno di legge per l'approvazione della legge-provvedimento; che, chiarisce il rimettente, tale duplicità risulta conservata anche a seguito della intervenuta modifica dell'art. 6 della legge reg. Puglia n. 19 del 1997 - realizzata tramite l'art. 22 della legge della Regione Puglia 19 luglio 2006, n. 22 (Assestamento e prima variazione al bilancio di previsione per l'esercizio finanziario 2006) - il quale, prescrivendo la pubblicazione nel Bollettino ufficiale della Regione Puglia dello schema di disegno di legge, richiede, se correttamente interpretato, che, dopo questo adempimento, si tenga un'ulteriore conferenza dei servizi, per la valutazione degli «apporti partecipativi» conseguenti a tale pubblicazione; che, tanto premesso, il TAR rimettente osserva che gli originari ricorsi dovrebbero essere dichiarati improcedibili poiché, durante il giudizio, è stata approvata, promulgata ed è entrata in vigore la legge reg. Puglia n. 13 del 2007, istitutiva del ricordato Parco naturale. Infatti, sopravvenuta la legge-provvedimento, il sindacato del giudice amministrativo trova un limite insormontabile nell'avvenuta legificazione del preesistente provvedimento amministrativo; che, prosegue l'ordinanza, tale fenomeno non comporta, peraltro, il sacrificio degli interessi dei cittadini, trasferendosi la tutela di questi dal piano della giurisdizione amministrativa a quello della giustizia costituzionale; che, esaminate perciò le eccezioni di legittimità costituzionale sollecitate dalla parte privata ricorrente, il rimettente ritiene che sia rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della legge regionale n. 13 del 2007; che detta legge regionale sarebbe, infatti, irragionevole poiché «la stessa non ha tenuto conto del mancato rispetto delle regole dettate [dal suddetto] T.A.R. (nelle sentenze nn. 1184, 1185, 1186 e 1187/2006) in relazione alla fase del propedeutico procedimento amministrativo, in particolare per ciò che attiene al (corretto) contraddittorio con gli interessati»; che, riguardo alla rilevanza della questione, il rimettente richiama la problematica connessa alla garanzia giurisdizionale in caso di legge-provvedimento di approvazione, connotata sia dal vincolo funzionale che lega questa a precedenti provvedimenti amministrativi, sia dal concorso della volontà legislativa con quella amministrativa nella definizione del contenuto dispositivo sostanziale, contenuto in cui confluiscono gli atti amministrativi assorbiti nell'atto legislativo, di cui acquistano valore e forza; che, aggiunge, pertanto, il rimettente, per un verso l'incidente di costituzionalità è l'unico strumento di tutela nei confronti dei provvedimenti amministrativi impugnati e assorbiti dalla legge regionale, per altro verso, solo ove la legge censurata fosse dichiarata incostituzionale, il giudizio a quo non sarebbe improcedibile; che, quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente premette, riguardo alle leggi-provvedimento, che il riconoscimento in capo al legislatore di un vasto ambito di discrezionalità deve essere bilanciato dalla sua sottoposizione ad un controllo di costituzionalità - tanto più rigoroso quanto più marcata è la natura provvedimentale dell'atto - sotto il profilo della non arbitrarietà e ragionevolezza; controllo che investe anche gli atti amministrativi che sono il presupposto di quello legislativo; che, sulla base di ciò, il TAR della Puglia, sezione staccata di Lecce, ritiene che la legge regionale n. 13 del 2007 sia in contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione in quanto il Consiglio regionale, nell'approvarla, non avrebbe tenuto conto del mancato rispetto delle regole dettate dallo stesso TAR, con le quattro sentenze prima ricordate, in relazione alla fase del procedimento amministrativo propedeutico alla adozione degli atti legislativi; che ciò si sarebbe verificato riguardo alla non corretta attivazione del «contraddittorio con gli interessati», in quanto, ad avviso del rimettente, non sarebbe stata data adeguata pubblicità a tale fase del procedimento onde consentire ai soggetti interessati di partecipare ad esso; che, in particolare, non sarebbe stato chiarito né che, prima della convocazione della conferenza dei servizi del 24 novembre 2006, vi era la possibilità per gli interessati di formulare osservazioni, né il termine entro cui queste dovevano essere presentate; che si è costituito in giudizio l'originario ricorrente, Ettore Labbate, eccependo preliminarmente la manifesta irrilevanza della questione di legittimità costituzionale e chiedendone, pertanto, la dichiarazione di inammissibilità; che, ad avviso della costituita difesa, la quale richiama le precedenti sentenze numeri 225 e 226 del 1999 della Corte costituzionale, la legge censurata, pur caratterizzandosi come legge provvedimento, non è una legge "in sanatoria o in approvazione", che si sostituisce, assorbendoli, a precedenti provvedimenti amministrativi, ma sarebbe una legge di mera "copertura politica", costituendo elemento di sola integrazione dell'efficacia degli atti amministrativi presupposti, per i quali rimarrebbe integro il potere di sindacato del giudice amministrativo; che ciò si verificherebbe ogni qual volta sia lo stesso legislatore a riconoscere in capo alla Amministrazione la funzione amministrativa, riservando a sé «esclusivamente il ruolo (di copertura politica e) di istituzione e quindi di integrazione dell'efficacia alle determinazioni assunte in sede amministrativa»; che siffatta ipotesi ricorrerebbe nella fattispecie in quanto la legge regionale n. 19 del 1997, all'art. 6, prevede che il procedimento per la istituzione e la definizione delle aree naturali protette si articoli in una fase amministrativa tesa alla individuazione dei confini dell'area e alla sua regolamentazione, ed in una successiva fase legislativa volta alla «finale copertura politica con mera determinazione istitutiva»; che la difesa della parte privata prosegue rilevando che, se è vero che nelle ipotesi tipiche di legge provvedimento a contenuto sostitutivo gli strumenti di tutela del cittadino si spostano sul versante della giustizia costituzionale, ciò non può valere nelle ipotesi, quale quella in esame, in cui è lo stesso legislatore a riconoscere le particolari attribuzioni del potere amministrativo, riservando a sé un compito di sola copertura politica, in quanto escludere in tali casi la giustiziabilità della fase amministrativa verrebbe a contraddire la stessa volontà del legislatore, che, nel riconoscere la autonomia di questa, ne ha escluso la sottrazione al controllo di legittimità; che, diversamente ragionando, soggiunge la difesa privata, l'art. 6 della legge regionale n. 19 del 1997 avrebbe un contenuto contraddittorio poiché da un lato assegnerebbe alla Amministrazione un determinato potere, soggetto agli ordinari controlli, dall'altro, prevedendo un successivo intervento legislativo, consentirebbe l'azzeramento di ogni garanzia procedimentale e di verifica della precedente fase; che, diversamente da quanto ritenuto dal rimettente, nel caso in questione gli atti amministrativi prodromici alla determinazione legislativa non sono stati posti nel nulla da questa, così rimanendo integra la giurisdizione del giudice amministrativo su di essi; che, qualora la questione non sia ritenuta inammissibile, la difesa della parte privata conclude, in via subordinata, nel senso della fondatezza della questione sollevata; che, in particolare, è dedotta la contrarietà della legge censurata al principio di eguaglianza e a quello di imparzialità e buon andamento dell'agere amministrativo nonché la irrazionalità della medesima; che l'art. 3 della Costituzione sarebbe violato in quanto il legislatore regionale avrebbe «fatto proprio» un procedimento espressione di discrezionalità arbitraria e, perciò, discriminatoria, mentre l'art. 97 della Costituzione sarebbe violato in quanto la mancata attivazione del contraddittorio fra le parti, indice di scarsa trasparenza della azione amministrativa, si tradurrebbe, in quanto in contrasto con la regola del giusto procedimento, nel vizio di parzialità e cattivo andamento della amministrazione; che si è, altresì, costituita la Regione Puglia, concludendo, in via preliminare, per la inammissibilità e, nel merito, per l'infondatezza della questione; che, per la difesa regionale, infatti, la questione sarebbe inammissibile per difetto di motivazione in quanto nelle ordinanze con la quali la medesima è stata sollevata non si rinviene alcun riferimento a violazioni da parte delle disposizioni regionali censurate sia dell'art. 97 che dell'art. 3 della Costituzione: il richiamo alle norme costituzionali sarebbe svolto, difatti, con estrema genericità senza alcuna analisi «dei profili di rilevanza costituzionali sollevati»; che, aggiunge la medesima difesa, la questione sarebbe anche inammissibile per difetto di rilevanza in quanto, essendo stati i provvedimenti impugnati emanati in base a disposizioni legislative, non oggetto di autonome censure, le quali non prevedono la partecipazione dei cittadini interessati alla fase amministrativa della procedura, anche se le norme censurate dovessero essere dichiarate incostituzionali, la amministrazione dovrebbe adottare nuovamente gli atti impugnati reiterandone i medesimi contenuti; che, quanto al merito della questione, la Regione Puglia contesta la sussistenza di qualsivoglia vizio procedimentale nella fase a monte della adozione della legge censurata, in particolare osservando come, a mente di quanto previsto dall'art. 13 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e diritto di accesso ai documenti amministrativi), in caso di atti generali di pianificazione e programmazione territoriale (ambito nel quale sono compresi quelli aventi ad oggetto la istituzione di Parchi naturali), sono derogate le disposizioni contenute nella medesima legge in tema di partecipazione degli interessati al procedimento, esse ndo, viceversa, a tale fine applicabili le particolari discipline di settore, discipline che, aggiunge la Regione, sono state nel caso di specie rispettate; che, escluso il vizio presupposto, risulterebbe in tal modo l'infondatezza delle censure formulate dal rimettente quanto alla violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione; che si è costituita in giudizio la Provincia di Lecce, la quale ha preliminarmente eccepito la inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, stante il difetto assoluto di giurisdizione del rimettente; che a tale conclusione la difesa provinciale è giunta sulla base di quanto stabilito dalla Corte di cassazione, con l'ordinanza n. 2439 del 1° febbraio 2008, allorché affermò che gli atti del tipo di quelli impugnati «in quanto espressione di esercizio della potestà legislativa dell'ente Regione, sono sottratti al sindacato giurisdizionale, sia del giudice ordinario che di quello amministrativo»; che la medesima difesa deduce un ulteriore motivo di irrilevanza della questione sulla scorta di quanto affermato dalla Corte costituzionale nelle già menzionate sentenze n. 225 e n. 226 del 1999: potendo, infatti, i giudizi a quibus essere definiti indipendentemente dalla risoluzione del quesito sottoposto alla Corte, la relativa questione sarebbe inammissibile; che la difesa provinciale contesta, altresì, la ammissibilità della questione per non aver il rimettente indicato con precisione quali disposizioni della legge regionale si assumono essere costituzionalmente illegittime; che, ad avviso della provincia, il rimettente, utilizzando la locuzione del tutto generica «artt. 1 e seguenti della legge regionale pugliese 28 maggio 2007, n. 13», viene ad identificare, in definitiva, l'oggetto della censura col testo della intera legge; che altro profilo di inammissibilità concerne il vizio della motivazione sulla non manifesta infondatezza, non essendo sul punto le argomentazioni del rimettente sostenute da un adeguato corredo motivazionale sia per ciò che concerne l'asserita violazione dell'art. 3 della Costituzione sia per ciò che riguarda la violazione dell'art. 97 della medesima; che la difesa della Provincia di Lecce ritiene che la questione sarebbe comunque priva di rilevanza, poiché il suo accoglimento non recherebbe alcun concreto vantaggio ai ricorrenti, stanti le misure di salvaguardia previste dagli artt. 6 e 8 della legge regionale n. 19 del 1997, le quali inibiscono qualsiasi trasformazione del territorio; che, infine, nel merito la questione sarebbe infondata, attesa la legittimità della fase amministrativa del procedimento, la quale si è svolta nel rispetto dei principi fissati sia dalla legge n. 394 del 1991 che dalla legge regionale n. 19 del 1997, che non prevedono la partecipazione dei privati alla conferenza dei servizi; che si è, infine, costituito nel giudizio di fronte alla Corte anche il Comune di Ugento il quale, richiamando anch'esso l'ordinanza della Corte di cassazione n. 2439 del 1 febbraio 2008, ha preliminarmente eccepito la inammissibilità della questione stante il difetto assoluto di giurisdizione del giudice a quo; che la questione sarebbe, anche per altri motivi, inammissibile e, comunque, infondata; che l'inammissibilità sarebbe motivata dalla circostanza che il rimettente non avrebbe chiarito in quale modo dal difetto di partecipazione degli interessati al procedimento amministrativo sarebbe scaturita una violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione da parte della successiva legge regionale n. 13 del 2007; che ulteriore profilo di inammissibilità deriverebbe dal difetto di rilevanza della questione di legittimità costituzionale rispetto alla decisione da assumere nel giudizio a quo. Infatti, al di là del dedotto vizio formale, il rimettente non avrebbe indicato alcuna lesione sostanziale alla posizione del ricorrente in tale giudizio che possa essere sanata attraverso l'eventuale declaratoria di incostituzionalità della legge censurata: peraltro tale declaratoria non comporterebbe alcun concreto risultato in favore di questo, attesa la persistenza delle misure di salvaguardia dettate dagli artt. 6 e 8 della legge regionale n. 19 del 1997 in forza delle quali è, comunque, preclusa ogni attività di trasformazione del territorio; che, quanto al merito, il Comune di Ugento fa derivare l'infondatezza della questione dalla insussistenza dei vizi procedimentali lamentati dal rimettente: in particolare rileva che, data la tipologia del provvedimento da assumere, volto alla istituzione di un'area naturale protetta, non vi era alcuna necessità di coinvolgere in esso i proprietari dei terreni inclusi nel perimetro dell'area stessa; che l'insussistenza del vizio procedimentale escluderebbe la sussistenza del vizio di costituzionalità; che, nell'imminenza della data fissata per la trattazione della causa in camera di consiglio, la difesa della Regione Puglia ha fatto pervenire una memoria illustrativa nella quale, richiamata le recente sentenza n. 241 del 2008 di questa Corte e i principi in essa contenuti, ha chiesto che la questione di legittimità costituzionale sollevata dal TAR salentino sia dichiarata, in applicazione di tali principi, manifestamente inammissibile o, comunque, manifestamente infondata; che, in via subordinata, la predetta difesa ha chiesto che la questione, difettando sostanzialmente in essa il requisito della incidentalità, posto che il giudizio a quo avrebbe come suo unico effettivo oggetto il dubbio di costituzionalità sollevato dal rimettente, sia in ogni caso dichiarata inammissibile. Considerato che il Tribunale amministrativo regionale della Puglia, sezione staccata di Lecce, con ordinanza depositata il 20 dicembre 2007 ha sollevato, con riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Puglia 28 maggio 2007, n. 13 (Istituzione del Parco naturale regionale "Litorale di Ugento"); che il TAR salentino, essendo stati impugnati di fronte a lui atti pertinenti al procedimento amministrativo prodromico alla adozione della indicata legge regionale, dubita della legittimità costituzionale della medesima, sospettandone il contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, essendo la stessa viziata da irragionevolezza e lesiva del principio di buona amministrazione poiché approvata da parte del Consiglio regionale pugliese senza che si fosse adeguatamente tenuto conto di quanto, in precedenza, stabilito dal medesimo TAR, con taluni provvedimenti giurisdizionali, in merito alle modalità di attivazione, nel corso delle fasi amministrative preordinate alla istituzione del Parco naturale, del contraddittorio c on i soggetti interessati; che il TAR rimettente, con altre ordinanze pronunziate nel corso di separati giudizi promossi da diversi soggetti titolari anch'essi, come il ricorrente nell'attuale giudizio a quo, di diritti su beni immobili ricadenti nel perimetro dell'istituito Parco naturale, ha sollevato, in base profili identici a quelli ora in esame, questione di legittimità costituzionale della medesima legge reg. Puglia n. 13 del 2007; che tali ordinanze già sono state vagliate da questa Corte la quale, con la recente sentenza n. 241 del 2008 - rigettate le eccezioni di inammissibilità formulate dalle parti costituite - ha dichiarato la infondatezza dei sollevati dubbi di costituzionalità relativi alla predetta legge regionale; che, non risultando addotti profili o argomenti diversi o ulteriori rispetto a quelli già valutati nella citata sentenza n. 241 del 2008, la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Puglia 28 maggio 2007, n. 13 (Istituzione del Parco naturale regionale "Litorale di Ugento"), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo della Puglia, sezione staccata di Lecce, con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 novembre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 novembre 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio per la correzione di errore materiale contenuto nella sentenza n. 192 del 21 maggio - 6 giugno 2008. Udito nella camera di consiglio del 22 ottobre 2008 il Giudice relatore Sabino Cassese. Considerato che, a causa dell'erronea indicazione dell'articolo contenente le disposizioni impugnate da parte del rimettente Tribunale amministrativo regionale della Calabria - sebbene lo stesso Tribunale, con annotazione in calce alla medesima ordinanza, dava conto di aver corretto l'errore materiale - in tre passaggi della sentenza n. 192 del 2008 si fa riferimento a un articolo diverso da quello oggetto del giudizio di legittimità costituzionale; considerato che, peraltro, in altre parti della stessa sentenza le disposizioni impugnate sono ben individuate, come mostrato dalla corretta indicazione dell'articolo, contenuta nell'epigrafe e nel paragrafo 5, terzo capoverso, del Ritenuto in fatto, nonché dal tenore della motivazione, che fa riferimento a dette disposizioni e non a quelle contenute nell'articolo erroneamente indicato; ravvisata la necessità di correggere l'errore materiale suddetto, nonostante si tratti di una pronuncia di non fondatezza, che non incide quindi sull'efficacia delle disposizioni impugnate. Visto l'art. 21 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dispone che nella sentenza n. 192 del 2008 sia corretto il seguente errore materiale: nel paragrafo 5 primo capoverso, del Ritenuto in fatto e nel paragrafo 2, primo capoverso, del Considerato in diritto, dopo il numero «153», è inserita l'espressione «(recte, 152)» e nel dispositivo il numero «153» è sostituito dal numero «152». Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 novembre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Sabino CASSESE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 novembre 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " - Giuseppe FRIGO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), promosso con ordinanza del 31 maggio 2006 dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Trieste nel procedimento penale a carico di C. G., iscritta al n. 149 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell'anno 2007. Udito nella camera di consiglio del 5 novembre 2008 il Giudice relatore Alfonso Quaranta. Ritenuto che il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Trieste ha sollevato - in riferimento all'articolo 3 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio d i comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), «nella parte in cui non esclude l'applicazione dei termini di prescrizione più brevi ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, ove sia stato disposto o ammesso il giudizio abbreviato»; che il remittente premette, in punto di fatto, di essere chiamato a giudicare - in sede di rito abbreviato, la cui celebrazione veniva disposta all'udienza del 20 settembre 2005 - una fattispecie di reato prevista dagli artt. 81, secondo comma, 609-quater, 609-ter, numero 5) (in riferimento, quoad poenam, all'art. 521), e 61, numero 5), del codice penale, asseritamente posta in essere dall'imputato, in danno della figlia minore, in un periodo di tempo compreso tra una data anteriore al 1990 ed il 26 gennaio 1995; che, sempre in via preliminare, il giudice a quo deduce che in forza delle «nuove disposizioni sulla prescrizione del reato», introdotte dall'art. 6 della legge n. 251 del 2005, il delitto oggetto del giudizio principale, essendo ormai assoggettato ad un termine prescrizionale di sei anni ed otto mesi (e non più di dieci anni), deve ritenersi estinto, con conseguente necessità di pronunciare una sentenza di non doversi procedere; che ai sensi dell'art. 10, comma 3, della stessa legge - si rileva nell'ordinanza di rimessione - «la modificazione in melius per l'imputato» della disciplina relativa alla prescrizione del reato è priva di effetto soltanto «se al momento dell'entrata in vigore della legge n. 251 del 2005 è già intervenuta la dichiarazione di apertura del dibattimento, ovvero se si verte in un giudizio di impugnazione»; che, pertanto, secondo il remittente, «le linee che demarcano l'efficacia delle nuove norme», attribuendo rilievo all'espletamento dell'incombente di cui all'art. 492 del codice di procedura penale, ovvero all'eventuale pendenza delle fasi d'impugnazione del processo penale, «non toccano il presente giudizio a quo, trattandosi di giudizio abbreviato»; che, difatti, «la lampante peculiarità strutturale» che caratterizza quest'ultimo, risultando esso privo di «una fase di istruzione dibattimentale in contraddittorio» e basato su di una «mutazione funzionale del materiale investigativo» (materiale assunto, nonostante «la sua provenienza unilaterale», quale «supporto per una decisione sulla responsabilità dell'imputato»), non consente «di parlare correttamente di "apertura del dibattimento" in seno al giudizio abbreviato»; che di conseguenza, per tale tipo di giudizio, troverebbe sicura applicazione l'incipit del citato art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, secondo cui, qualora, «per effetto delle nuove disposizioni, i termini di prescrizione risultano più brevi, le stesse si applicano ai procedimenti e ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge»; che il remittente - dopo avere motivato, con gli argomenti appena illustrati, la rilevanza della sollevata questione di costituzionalità (diretta, in definitiva, ad estendere l'area della deroga che il censurato art. 10, comma 3, ha introdotto rispetto alla regola generale dell'efficacia retroattiva dell'intervento in mitius, con richiesta di includervi anche i giudizi abbreviati già pendenti alla data di entrata in vigore della legge n. 251 del 2005) - censura l'irragionevolezza della scelta del legislatore di dare vita ad un diritto intertemporale che «accomuna tutte le forme di "giudizio sull'accusa", con l'unica eccezione del giudizio abbreviato»; che egli muove, difatti, dal presupposto che la «ratio della riserva all'applicazione immediata dei nuovi termini prescrizionali consiste nel realizzare un equilibrio tra l'interesse degli accusati ad avvantaggiarsi immediatamente della nuova disciplina favorevole e l'interesse alla conservazione dell'attività di indagine e processuale già espletata al momento di entrata in vigore della legge», e ciò «al fine di salvaguardare la funzione di accertamento dei reati e, in ultima istanza, la tutela dei beni fondamentali che la repressione penale è volta a realizzare»; che tale equilibrio, tuttavia, non risulterebbe garantito nel caso dei reati oggetto di giudizio abbreviato, il cui trattamento differenziato non può ritenersi giustificato in ragione delle esigenze di economia processuale che connotano tale procedimento speciale, atteso che le medesime esigenze hanno un'incidenza «ben più marcata» - osserva sempre il remittente - «in altri meccanismi processuali», quali, in particolare, il rito direttissimo (caratterizzato da «un'istruzione rapida e concludente, giusta la pregressa confessione o il fatto di aver colto in flagranza il reo»; è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 102 del 1991), il giudizio immediato (giacché, in questo caso, «il carattere di "evidenza" d elle prove raccolte ante iudicium lascia preconizzare un rapido e pieno riscontro in dibattimento»), il processo a citazione diretta innanzi al tribunale in composizione monocratica (ispirato alla massima semplificazione della forme; sentenza n. 175 del 1992) ed, infine, quello innanzi al giudice di pace; che, d'altra parte, l'applicazione alle fattispecie oggetto di giudizio abbreviato della nuova (e più favorevole per l'imputato) disciplina sulla prescrizione del reato neppure potrebbe essere giustificata - osserva sempre il giudice a quo - «ove si volesse dare rilevanza alla gravità dei reati che vengono in considerazione», dal momento che non si comprende «perché vengano fatti salvi i termini prescrizionali rispetto a reati bagatellari (com'è tipico ove si proceda con la citazione diretta davanti al giudice di pace)», e non invece qualora ricorrano fattispecie criminose - quali possono essere quelle oggetto del procedimento di cui all'art. 438 cod. proc. pen. (e quali s ono quelle oggetto del giudizio a quo) - che destano «massimo allarme sociale»; che, ciò premesso, il remittente - pur affermando di non ignorare che la costante giurisprudenza della Corte costituzionale ha escluso che spetti a quest'ultima «far prevalere un proprio punto di vista, sovrapponendolo ai criteri di valore assunti dal legislatore» - evidenzia il «forte grado di irrazionalità» che presenta la scelta, compiuta dalla norma censurata, di «sancire che nel rito abbreviato valgano i termini prescrizionali ridotti» (cioè quelli operanti in forza dell'art. 6 della medesima legge n. 251 del 2005), sebbene gli stessi siano stati, invece, «banditi dai giudizi direttissimo, immediato, e a citazione diretta davanti ai giudici monocratici»; che, pertanto, l'intervento richiesto alla Corte - nella misura in cui «otterrebbe l'effetto di equiparare le varie forme di "giudizio sull'accusa" previste dall'attuale legge processuale, scongiurando l'ipotesi che irragionevolmente una soltanto venga trattata in modo difforme» - dovrebbe ritenersi consentito, giacché esso «non involge la scelta, riservata alla discrezionalità del legislatore, di modulare diversamente la prescrizione del reato, bensì la regolamentazione attraverso cui questa scelta è stata resa operativa»; che, difatti, osserva il giudice a quo, se è vero che ogni intervento legislativo che regoli gli effetti intertemporali, derivanti sia dalla creazione di nuovi istituti che dalla modifica di istituti preesistenti, presenta un ampio contenuto discrezionale, è pur vero che ogni «disciplina intertemporale deve rispondere al canone della ragionevolezza» (è citata la sentenza della Corte costituzionale n. 219 del 2004); che, oltretutto, nel caso di specie l'accoglimento della sollevata questione di legittimità costituzionale - conclude il remittente - «non comporta la creazione da parte della Corte costituzionale di una nuova norma contenente un regime prescrizionale risultante da un'autonoma operazione di bilanciamento», ma soltanto «l'applicazione all'imputato di termini di prescrizione già previsti dal precedente regime codicistico e vigenti al momento della commissione del fatto di reato», con la conseguenza che sarebbe «rispettato il principio di legalità dei delitti e delle pene sancito dall'art. 25 della Costituzione». Considerato che il Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Trieste ha sollevato - in riferimento all'articolo 3 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 3, della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione), «nella parte in cui non esclude l'appli cazione dei termini di prescrizione più brevi ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge, ove sia stato disposto o ammesso il giudizio abbreviato»; che l'iniziativa assunta dal remittente mira a conseguire una pronuncia che sottragga all'applicazione retroattiva delle nuove (e più favorevoli per l'imputato) disposizioni in tema di prescrizione del reato, contenute nell'art. 6 della medesima legge n. 251 del 2005, anche le fattispecie criminose oggetto dei procedimenti di primo grado destinati a svolgersi nelle forme del giudizio abbreviato; che l'incidente di costituzionalità si propone, pertanto, di estendere l'area della deroga che la norma censurata ha disposto all'applicazione del principio della retroattività della lex mitior, sancito dall'art. 2, quarto comma, del codice penale, deroga ab origine limitata dalla legge n. 251 del 2005, quanto ai procedimenti di primo grado, a quelli per i quali fosse già stato compiuto, prima dell'entrata in vigore della legge stessa, l'incombente della dichiarazione di apertura del dibattimento (art. 492 del codice di procedura penale), incombente non previsto per il giudizio abbreviato; che questa Corte, però, con sentenza n. 393 del 2006 - pronunciata successivamente all'adozione della ordinanza di rimessione qui in esame - ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, limitatamente alle parole «dei processi già pendenti in primo grado ove vi sia stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, nonché», con l'effetto, pertanto, di estendere a tutti i procedimenti di primo grado - indipendentemente dall'avvenuto espletamento dell'adempimento processuale consistente nella dichiarazione di apertura del dibattimento - l'applicazione retroattiva delle nuove (e più favorevoli per l'imputato) disposizioni sulla prescrizione del reato; che la citata sentenza - muovendo dal presupposto che «lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma penale più favorevole al reo deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole» - ha escluso la ragionevolezza della scelta, compiuta dall'art. 10, comma 3, della legge n. 251 del 2005, «di individuare il momento della dichiarazione di apertura del dibattimento come discrimine temporale per l'applicazione delle nuove norme sui termini di prescrizione del reato nei processi in corso di svolgimento in primo grado alla data di entrata in vigore della legge n. 251 del 2005»; che questa Corte, nella sentenza n. 393 del 2006, ha rilevato come l'apertura del dibattimento non sia «in alcun modo idonea a correlarsi significativamente ad un istituto di carattere generale come la prescrizione, e al complesso delle ragioni che ne costituiscono il fondamento», e cioè al fatto «che il decorso del tempo da un lato fa diminuire l'allarme sociale» originato dal reato, e «dall'altro rende più difficile l'esercizio del diritto di difesa»; che, infatti, l'apertura del dibattimento «non connota indefettibilmente tutti i processi penali di primo grado (in particolare i riti alternativi - e, tra essi, il giudizio abbreviato - che hanno la funzione di "deflazionare" il dibattimento)», né tale incombente «è incluso tra quelli ai quali il legislatore attribuisce rilevanza ai fini dell'interruzione del decorso della prescrizione ex art. 160 cod. pen., il quale richiama una serie di atti, tra cui la sentenza di condanna e il decreto di condanna, oltre altri atti processuali anteriori»; che, pertanto, la sopravvenuta declaratoria di illegittimità, seppure in parte qua, della norma censurata impone la restituzione degli atti all'odierno remittente, perché valuti la perdurante rilevanza e non manifesta infondatezza della questione sollevata. LA CORTE COSTITUZIONALE ordina la restituzione degli atti al Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Trieste. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 novembre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Alfonso QUARANTA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 novembre 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Giovanni Maria FLICK Presidente - Francesco AMIRANTE Giudice - Ugo DE SIERVO " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " - Giuseppe FRIGO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), promosso con ordinanza del 3 luglio 2007 dal Giudice di pace di Fano nel procedimento civile vertente tra M. M. ed il Comune di Fano, iscritta al n. 91 del registro ordinanze 2008 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 5 novembre 2008 il Giudice relatore Alfonso Quaranta. Ritenuto che il Giudice di pace di Fano ha sollevato - in riferimento all'articolo 3 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale dell'art. 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazion e», nel testo risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui prevede - nel testo modificato dall'art. 2, comma 169, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, della relativa legge di conversione, 24 novembre 2006, n. 286 - che è «sempre disposta la confisca del veicolo in tutti i casi in cui un ciclomotore o un motoveicolo sia stato adoperato per commettere un reato, sia che il reato sia stato commesso da un conducente maggiorenne, sia che sia stato commesso da un conducente minorenne»; che il remittente - nel premettere di dover giudicare del ricorso proposto dal proprietario di un motociclo, sottoposto a sequestro in vista della successiva confisca, per essere stata contestata al conducente la realizzazione del reato di cui all'art. 186, comma 2, del medesimo codice della strada - deduce che la norma censurata, nel prevedere una sanzione («ossia il sequestro e la successiva confisca») che colpisce esclusivamente ciclomotori e motoveicoli, «crea un'ingiustificata disparità di trattamento tra i proprietari di tali mezzi e quelli di autoveicoli»; che in base alla norma censurata, infatti, «a parità di violazione» (ed esattamente quella sanzionata dall'art. 186 del codice della strada), «solo i primi perdono la disponibilità ed in seguito la proprietà del mezzo»; che, inoltre, la sanzione della confisca - sempre secondo il giudice a quo - «appare ed è sproporzionata in relazione alle conseguenze economiche, che colpiscono spesso chi, come il proprietario non conducente, non concorre minimante nel reato», e ciò anche in relazione al fatto che ciclomotori e motoveicoli hanno «un costo ed un valore normalmente inferiori a quello degli autoveicoli»; che in forza di tali rilievi, pertanto, egli ha chiesto che venga dichiarata l'illegittimità costituzionale della disposizione suddetta; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sollevata venga dichiarata manifestamente inammissibile o infondata; che la difesa statale - nel dedurre, previamente, che il giudice a quo non avrebbe motivato le ragioni della rilevanza della sollevata questione - evidenzia che, in ogni caso, la questione sarebbe già stata dichiarata manifestamente infondata dalla Corte costituzionale, con la sentenza n. 345 del 2007. Considerato che il Giudice di pace di Fano ha sollevato - in riferimento all'articolo 3 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale dell'art. 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministraz ione», nel testo risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui prevede - nel testo modificato dall'art. 2, comma 169, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, della relativa legge di conversione, 24 novembre 2006, n. 286 - che è «sempre disposta la confisca del veicolo in tutti i casi in cui un ciclomotore o un motoveicolo sia stato adoperato per commettere un reato, sia che il reato sia stato commesso da un conducente maggiorenne, sia che sia stato commesso da un conducente minorenne»; che, tuttavia, con sentenza n. 345 del 2007, questa Corte - dopo aver premesso che, in via generale, è da ritenersi «non irragionevole la scelta del legislatore di prevedere una più intensa risposta punitiva, allorché un reato sia commesso mediante l'uso di ciclomotori o motoveicoli, con riferimento all'adozione di una sanzione accessoria, qual è la confisca, idonea a scongiurare la reiterata utilizzazione illecita del mezzo» (specie quando sussiste, «come avviene proprio nel caso contemplato dall'art. 186 del codice della strada», un «rapporto di necessaria strumentalità tra l'impiego del veicolo e la consumazione del reato») - ha escluso la fondatezza della censura di «disparità di trattamento tra u tenti della strada», proposta anche dall'odierno remittente e basata sul rilievo che «l'operatività della confisca è stata limitata ad una sola categoria di veicoli e non è stata invece prevista a carico dei conducenti degli altri mezzi»; che la citata sentenza, per un verso, ha evidenziato «che tale disparità non è neppure assoluta», in quanto, «per tutte le tipologie di veicoli, sempre adoperati per commettere un reato, l'applicazione della confisca» potrebbe «comunque avvenire ai sensi dell'art. 240 del codice penale», sebbene in tal caso essa operi «alla stregua non di una sanzione accessoria, bensì di una misura di sicurezza reale», misura, oltretutto, divenuta obbligatoria - salvo il caso che «il veicolo stesso appartenga a persona estranea al reato» - proprio nell'ipotesi in cui il reato commesso sia quello previsto dall'art. 186 del codice della strada (e ciò in ragione della modificazione apportata al testo di tale articolo dall'art. 4, comma 1, lettera b, del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, recante «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica», come modificato, a sua volta, dall'art. 1, comma 1, della relativa legge di conversione, 24 luglio 2008, n. 125); che, per altro verso, questa Corte - sempre nella menzionata decisione - ha ribadito come, in ogni caso, il «rimodellare il sistema della confisca, stabilendo alcuni canoni essenziali al fine di evitare che l'applicazione giudiziale della sanzione amministrativa produca disparità di trattamento» costituisce, comunque, un intervento «riservato alla discrezionalità legislativa»; che, pertanto, non essendo stati prospettati dall'odierno remittente argomenti nuovi e diversi rispetto a quelli già esaminati dalla Corte (con la sentenza n. 345 del 2007 e con la successiva ordinanza n. 239 del 2008), si impone nel caso di specie una declaratoria di manifesta infondatezza della questione sollevata; che, difatti, tale non può ritenersi quello fondato sul differente valore economico dei veicoli a due o a quattro ruote, giacché esso si risolve nella prospettazione di una disparità di mero fatto; che secondo la costante giurisprudenza di questa Corte «le cosiddette disparità di mero fatto - ossia quelle differenze di trattamento che derivano da circostanze contingenti ed accidentali, riferibili non alla norma considerata nel suo contenuto precettivo, ma semplicemente alla sua concreta applicazione - non danno luogo a un problema di costituzionalità, nel senso che l'eventuale funzionamento patologico della norma stessa non può costituire presupposto per farne valere una illegittimità riferita alla lesione (...) del principio di uguaglianza» (da ultimo, ex multis, sentenza n. 86 del 2008); che, d'altra parte, neanche la denuncia dell'irrazionalità della norma, laddove non escluderebbe l'applicazione della confisca a carico del proprietario che sia un soggetto diverso dal conducente del mezzo responsabile della violazione, costituisce un argomento del tutto nuovo, essendo già stato affrontato da questa Corte con l'ordinanza n. 125 del 2008; che tale pronuncia - nello scrutinare la legittimità costituzionale dell'art. 213, comma 2-sexies, del codice della strada, nella parte in cui prevedeva (nel suo testo originario, e cioè anteriore alle modifiche apportate dall'art. 2, comma 169, del decreto-legge n. 262 del 2006) l'applicazione della confisca di ciclomotori e motoveicoli quale sanzione accessoria anche per le infrazioni amministrative di cui agli artt. 169, commi 2 e 7, 170 e 171 del codice della strada - ha affermato che «la responsabilità del proprietario di un veicolo per le violazioni commesse da chi si trovi alla guida costituisce, nel sistema delle sanzioni amministrative previste per le violazioni delle no rme relative alla circolazione stradale, un principio di ordine generale»; che la citata pronuncia, inoltre, ha precisato come a detto principio sia costituzionalmente obbligatorio derogare soltanto per quelle sanzioni che presentino contenuto «afflittivo personale», tale però non essendo «il caso della sanzione accessoria della confisca prevista dal censurato art. 213, comma 2-sexies, giacché essa mantiene i suoi effetti in un ambito puramente "patrimoniale"» (ordinanza n. 125 del 2008); che alla luce delle suddette considerazioni deve dichiararsi la manifesta infondatezza della questione sollevata. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo risultante dalla relativa legge di conv ersione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui prevede - nel testo modificato dall'art. 2, comma 169, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, della relativa legge di conversione, 24 novembre 2006, n. 286 - che è «sempre disposta la confisca del veicolo in tutti i casi in cui un ciclomotore o un motoveicolo sia stato adoperato per commettere un reato, sia che il reato sia stato commesso da un conducente maggiorenne, sia che sia stato commesso da un conducente minorenne», sollevata, in riferimento all'articolo 3 della Costituzione, dal Giudice di pace di Fano, con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 17 novembre 2008. F.to: Giovanni Maria FLICK, Presidente Alfonso QUARANTA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 novembre 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA |