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Deposito del 23/05/2008 (dalla 166 alla 178)

 
S.166/2008 del 19/05/2008
Udienza Pubblica del 06/05/2008, Presidente BILE, Relatore SILVESTRI


Norme impugnate: Artt. 3, c. 1° e 2°, 4, c. 2°, e 5, c. 1°, della legge 08/02/2007, n. 9.

Oggetto: Edilizia e urbanistica - Edilizia residenziale pubblica - Onere imposto alle Regioni di predisposizione di un piano straordinario da inviare ai competenti ministeri e costituzione di apposite Commissioni con elevato grado di discrezionalità; Concertazione istituzionale per la predisposizione di un programma nazionale di natura ministeriale; Determinazione dei requisiti degli alloggi residenziali - Definizione attraverso atto ministeriale di alloggio sociale esente dall'obbligo di notifica degli aiuti di Stato.

Dispositivo: illegittimità costituzionale - non fondatezza - inammissibilità
Atti decisi: ric. 19/2007
S.167/2008 del 19/05/2008
Udienza Pubblica del 01/04/2008, Presidente BILE, Relatore SAULLE


Norme impugnate: Art. 2, c. 7° bis, del decreto legge 07/04/2004, n. 97, convertito in legge 04/06/2004, n. 143.

Oggetto: Istruzione pubblica - Esami di abilitazione all'insegnamento - Previsione, a decorrere dall'anno scolastico 2005-2006, della validità dell'abilitazione conseguita con il superamento degli esami finali da parte degli ammessi con riserva ai concorsi banditi con ordi nanza del Ministero della Pubblica istruzione 2 gennaio 2000, n. 1, purché abbiano maturato il requisito della durata del servizio prestato di cui all'art. 1, comma 6-bis, del d.l. n. 240/2000 conv. in legge n. 306/2000, entro la data di entrata in vigore della stessa legge n. 306/2000 - Estensione del beneficio, altresì, ai docenti abilitati con riserva, in seguito a procedura selettiva bandita con ordinanza ministeriale n. 153/1999, a parità di condizioni.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ord. 754 e 755/2007
S.168/2008 del 19/05/2008
Udienza Pubblica del 01/04/2008, Presidente BILE, Relatore GALLO


Norme impugnate: Legge 27/12/20 06, n. 296 (legge finanziaria 2007): discussione limitata all'art. 1, c. 362°, 363°, 364°, 365° e 1284°.

Oggetto: Energia - Norme della legge finanziaria 2007 - Istituzione del Fondo statale per la copertura di interventi di efficienza energetica e di riduzione dei costi della fornitura energetica per finalità sociali - Alimentazione del fondo attraverso quote prefissate del gettito fiscale derivante dall'IVA sui carburanti - Determinazione delle condizioni e modalità di utilizzo del fondo con atto ministeriale; Acque minerali e termali - Norme della legge finanziaria 2007 - Istituzione del Fondo di solidarietà per il maggior accesso alle risorse idriche - Istituzione del prelievo di 0,1 centesimi per bottiglia di acqua venduta quale contributo al fondo - Determinazione delle modalità di funzionamento e di erogazione del fondo con atti ministeriali.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale - non fondatezza - inammissibilità - altro
Atti decisi: ric. 14/2007
S.169/2008 del 19/05/2008
Camera di Consiglio del 02/04/2008, Presidente BILE, Relatore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Art. 4, c. 1°, della legge 01/12/1970, n. 898, come sostituito dall'art. 2, c. 3° bis, del decreto legge 14/03/2005, n. 35, convertito con modificazioni in legge 14/05/2005, n. 80.

Oggetto: Procedimento civile - Causa di divorzio - Competenza territoriale del tribunale del luogo di ultima residenza comune dei coniugi per i procedimenti contenziosi aventi ad oggetto lo scioglimento e/o la cessazione degli effetti civili del matrimonio - Deroga al foro generale delle persone fisiche.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ord. 586/2007
S.170/2008 del 19/05/2008
Udienza Pubblica del 15/04/2008, Presidente BILE, Relatore TESAURO


Norme impugnate: Art. 17 della legge 23/12/2000, n. 388.

Oggetto: Società - Società cooperative e loro consorzi - Fusione - Obbligo, stabilito con norma autoqualificata interpretativa ma a carattere innovativo, di devoluzione del patrimonio effettivo, dedotti il capitale versato e rivalutato e i dividendi eventualmente maturati, ai fondi mutualistici.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 779/2007
S.171/2008 del 19/05/2008
Udienza Pubblica del 15/04/2008, Presidente BILE, Relatore MAZZELLA


Conflitto: Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati 26/01/2005.

Oggetto: Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento civile promosso dalla dott.ssa Ilda Boccassini per il risarcimento dei danni per diffamazione a seguito delle dichiarazioni rese dall'on. Vittorio Sgarbi nel corso di una trasmissione televisiva - Deliberazione di insindacabilità della Camera dei deputati.

Dispositivo: accoglie il ricorso
Atti decisi: confl. pot. mer. 4/2007
S.172/2008 del 19/05/2008
Udienza Pubblica del 06/05/2008, Presidente BILE, Relatore MAZZELLA


Norme impugnate: Art. 1, c. 777°, della legge 27/12/2006, n. 296.

Oggetto: Previdenza - Contributi versati ad enti previdenziali di Paesi esteri in conseguenza di convenzioni ed accordi internazionali di sicurezza sociale - Previsione, con norma autoqualificata interpretativa, della determinazione della retribuzione pensionabile relativa al periodo di lavoro svolto all'estero moltiplicando l'importo dei contributi trasferiti per cento e dividendo il risultato per l'aliquota contributiva in vigore nel periodo cui si riferiscono i contributi stessi.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 507/2007
O.173/2008 del 19/05/2008
Camera di Consiglio del 27/02/2008, Presidente BILE, Relatore GALLO


Norme impugnate: Art. 51, c. 2°, n. 2, del decreto del Presidente della Repubblica 26/10/1972, n. 633, come modificato dll'art. 18 della legge 30/12/1991, n. 413.

Oggetto: Imposte e tasse - Accertamento della base imponibile IVA - Possibilità per l'Ufficio di avvalersi di presunzioni semplici ricavate dai movimenti attivi e passivi dei conti correnti del contribuente - Ritenuta applicabilità retroattiva di tale modalità di accertamento della base imponibile - Conseguente onere per il contribuente di allegazione di prove che non era tenuto a precostituirsi a ll'epoca dei fatti, con lesione del principio generale dell'ordinamento tributario della irretroattività delle disposizioni tributarie, nonché del principio della certezza del diritto e dell'affidamento del privato.

Dispositivo: manifesta infondatezza - manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 583/2007
O.174/2008 del 19/05/2008
Camera di Consiglio del 02/04/2008, Presidente BILE, Relatore MADDALENA


Norme impugnate: Art. 44 del decreto del Presidente della Repubblica 06/06/2001, n. 380.

Oggetto: Edilizia ed urbanistica - Reato edilizio sanzionato dall'art. 44 del d.P.R. n. 380/2001 - Rimessione in pristino prima della condanna - Mancata previsione dell'applicazione della causa di estinzione del reato di cui all' art. 181, comma 1-quinquies, del d.lgs. n. 42/2004.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 747/2007
O.175/2008 del 19/05/2008
Camera di Consiglio del 16/04/2008, Presidente BILE, Relatore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Art. 32 del regio decreto 28/04/1938, n. 1165.

Oggetto: Edilizia e urbanistica - Edilizia popolare, economica e sovvenzionata - Locazione di alloggi - Morosità del conduttore - Procedimento speciale di ingiunzione e di sfratto - Giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo - Eccepita inefficacia del decreto opp osto in conseguenza dell'asserita intempestività della sua notificazione all'opponente - Omessa previsione di un termine massimo per la notificazione del decreto ingiuntivo - Omesso rinvio all'art. 644 cod. proc. civ. che fissa, per l'ordinario procedimento monitorio, il termine di 60 giorni dalla pronuncia, a pena di inefficacia del decreto ingiuntivo.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 730/2007
O.176/2008 del 19/05/2008
Camera di Consiglio del 16/04/2008, Presidente BILE, Relatore GALLO


Norme impugnate: Art. 38 del decreto del Presidente della Repubblica 29/09/1973, n. 602.

Oggetto: Riscossione delle imp oste - Versamenti diretti - Istanza di rimborso dell'indebito - Termine di decadenza di diciotto mesi dalla data dell'eseguito versamento - Ritenuta inapplicabilità nei giudizi 'a quibus' del più favorevole 'jus superveniens' che ha previsto, anche per i soggetti percipienti somme assoggettate a ritenuta, il più elevato termine decadenziale di quarantotto mesi.

Dispositivo: manifesta infondatezza - manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 817/2007
O.177/2008 del 19/05/2008
Camera di Consiglio del 16/04/2008, Presidente BILE, Relatore MAZZELLA


Norme impugnate: Artt. 9 e 10 della legge 16/06/1927, n. 1766; artt. 25, 26 e 30 del regio decreto 26/02/1928, n. 332 ; artt. 8 e 11 della legge Regione Basilicata 12/09/2000, n. 57.

Oggetto: Procedimento civile - Azione negatoria di servitù esercitata da soggetti occupanti un terreno gravato da uso civico - Eccepito difetto di legittimazione attiva degli attori in quanto asseritamene privi della titolarità del diritto di proprietà sul fondo - Mancato accoglimento della domanda per la legittimazione dell'occupazione del fondo gravato da uso civico per causa non imputabile agli odierni attori (nella specie, per omessa conclusione delle operazioni di sistemazione demaniale) - Omessa previsione di termini certi per la definizione della detta procedura di legittimazione e di conseguenze determinate legate al silenzio serbato sull'istanza di legittimazione.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 740/2007
O.178/2008 del 19/05/2008
Camera di Consiglio del 07/05/2008, Presidente BILE, Relatore GALLO


Norme impugnate: Art. 25 del decreto del Presidente della Repubblica 29/09/1973, n. 602; art. 36 del decreto legislativo 26/02/1999, n. 46; come modificati dall'art. 1, c. 5° ter, del decreto legge 17/06/2005, n. 106, convertito con modificazioni in legge 31/07/2005, n. 156.

Oggetto: Imposte e tasse - Riscossione delle imposte - Ricorso avverso cartella di pagamento, notificata al contribuente, recante il ruolo derivante dalla liquidazione ex artt. 36-bis del D.P.R. n. 600/1973 e 54-bis del D.P.R. n. 633/1972 delle imposte dovute (nella specie, I.V.A. e I.R.A.P.) - Omessa previsione della decorrenza del termine per la notifica della cartella di pagamento dalla data in cui il ruolo è st ato reso esecutivo; Previsione del termine di decadenza del 31 dicembre del quinto anno successivo alla presentazione della dichiarazione con specifico riguardo alle dichiarazioni presentate fino al 31 dicembre 2001 - Riferimento alla sentenza della Corte Costituzionale n. 280/2005.

Dispositivo: inammissibilità - manifesta infondatezza
Atti decisi: ord. 733/2007

pronuncia successiva

SENTENZA N. 166

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        ESAURO            "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3, commi 1 e 2, 4, comma 2, e 5, comma 1, della legge 8 febbraio 2007, n. 9 (Interventi per la riduzione del disagio abitativo per particolari categorie sociali), promosso con ricorso della Regione Lombardia, notificato il 16 aprile 2007, depositato in cancelleria il 20 aprile 2007 ed iscritto al n. 19 del registro ricorsi 2007.

    Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 6 maggio 2008 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;

    uditi l'avvocato Giuseppe Franco Ferrari per la Regione Lombardia e l'avvocato dello Stato Francesco Lettera per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

    1. - La Regione Lombardia ha promosso, con ricorso notificato il 16 aprile 2007 e depositato il successivo 20 aprile, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, commi 1 e 2, 4, comma 2, e 5, comma 1, della legge 8 febbraio 2007, n. 9 (Interventi per la riduzione del disagio abitativo per particolari categorie sociali), in riferimento agli artt. 3, 97, 117, terzo, quarto, quinto e sesto comma, 118 e 119 della Costituzione.

    1.1. - L'art. 3 della legge impugnata, al comma 1, stabilisce: «Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano predispongono, su proposta dei comuni individuati nell'articolo 1, sulla base del fabbisogno di edilizia residenziale pubblica, con particolare riferimento a quello espresso dalle categorie di cui al medesimo articolo 1 già presenti nelle graduatorie per l'assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica e indicate dagli stessi comuni, un piano straordinario articolato in tre annualità da inviare ai Ministeri delle infrastrutture e della solidarietà sociale e al Ministro delle politiche per la famiglia».

    Il comma 2 del medesimo art. 3 prevede: «A decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, nei comuni individuati nell'articolo 1, comma 1, possono essere istituite apposite commissioni, con durata di diciotto mesi, per l'eventuale graduazione, fatte salve le competenze dell'autorità giudiziaria ordinaria, delle azioni di rilascio, finalizzate a favorire il passaggio da casa a casa per i soggetti di cui al medesimo articolo 1, nonché per le famiglie collocate utilmente nelle graduatorie comunali per l'accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica».

    1.1.1. - La Regione Lombardia ritiene che «la predisposizione da parte delle Regioni, imposta unilateralmente ai sensi del primo comma dell'articolo denunciato, di un piano straordinario articolato in tre annualità e l'istituzione, ai sensi del successivo comma, di apposite Commissioni, cui compete la graduazione [.] delle azioni di rilascio dell'immobile per particolari categorie di soggetti cui è diretta la legge in argomento» siano lesive delle «attribuzioni legislative e amministrative regionali in materia di assistenza e politiche sociali e dell'abitazione, edilizia residenziale pubblica, lavori pubblici di interesse regionale e locale e gestione del patrimonio i mmobiliare di edilizia residenziale pubblica, ex artt. 117, commi terzo e quarto, e 118 Cost.».

    La difesa regionale ricorda che ai sensi dell'art. 3 della legge 22 maggio 1971, n. 339 (Approvazione, ai sensi dell'art. 123 comma secondo, della Costituzione, dello Statuto della Regione Lombardia), la Regione è tenuta ad assicurare a tutti i cittadini i servizi sociali, con particolare riguardo a quelli inerenti l'abitazione, la salute e la sicurezza sociale.

    La ricorrente osserva, altresì, che «anche laddove, partendo da un'interpretazione estensiva della competenza legislativa statale di cui all'art. 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione, si volesse teorizzare una competenza legislativa e regolamentare statale estesa alla concreta e dettagliata disciplina dell'attività necessaria per garantire i livelli essenziali delle prestazioni, tale disciplina statale [.] non potrebbe investire i singoli e specifici profili organizzativi attinenti alle politiche sociali e dell'abitazione, di esclusiva competenza regionale (cfr. sent. Corte cost. 451/2006), senza ledere le attribuzioni legislative e l'autonomia amministrativa della ricorrente».

    A parere della ricorrente, l'imposizione alle Regioni e alle Province autonome di un piano straordinario da articolarsi in tre annualità (art. 3, comma 1, della legge n. 9 del 2007) «configura evidentemente un onere peculiare sia quanto alla scelta dello specifico modello organizzativo del servizio da assicurare sia quanto alle prescritte tempistiche da seguire», che eccede rispetto alla competenza statale in materia di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni, oltre che rispetto alla competenza legislativa statale di principio nella materia del governo del territorio.

    Analoghe considerazioni sono svolte dalla Regione Lombardia in relazione all'art. 3, comma 2, della legge n. 9 del 2007. In questo caso sarebbe evidente «l'ingerenza» delle costituende Commissioni, previste nel suddetto art. 3, comma 2, «nell'elaborazione della graduazione programmata e, in generale, nelle attribuzioni spettanti alla Regione in materia di assistenza e politiche sociali, oltre che di gestione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica». Questa ricostruzione sarebbe confermata dall'inciso, contenuto nell'art. 3, comma 2, in virtù del quale sono fatte «salve le competenze dell'autorità giudiziaria ordinaria»; secondo la difesa regionale, da ciò risulterebbe «in modo del tutto inequivoco, che la disciplina di cui si tratta è come tale estranea ai profili inerenti alla giurisdizione, investendo fattispecie di prioritaria spettanza degli enti territoriali riconducibili, pertanto, alle attribuzioni legislative - e in larga misura anche amministrative - della Regione ricorrente».

    La difesa regionale aggiunge che questa conclusione potrebbe essere messa in discussione «attraverso un'impropria e ingiustificata dilatazione del ruolo prefettizio e degli Uffici territoriali del Governo, o attraverso un'indebita estensione della competenza statale in materia di giurisdizione, norme processuali e ordinamento civile, che semmai riguarda il diverso e antecedente momento della sospensione delle procedure esecutive di rilascio».

    In definitiva, la Regione Lombardia ritiene che i commi 1 e 2 dell'art. 3 della legge n. 9 del 2007 siano illegittimi «in quanto introducono, in materia di edilizia residenziale pubblica e di politiche sociali e dell'abitazione, disposizioni puntuali sulla predisposizione del suddetto piano, sulle valutazioni concernenti la graduatoria e sui connessi requisiti per l'inserimento in essa dei soggetti interessati, in violazione dell'art. 117, terzo e quarto comma, della Costituzione, posto che allo Stato spetta unicamente la determinazione dei principi fondamentali in materia di governo del territorio e [.] dei livelli essenziali delle prestazioni nel settore del servizi o abitativo».

    1.1.2. - La difesa regionale ricostruisce, poi, l'evoluzione normativa e giurisprudenziale in materia di edilizia residenziale pubblica, ricordando come la Corte costituzionale, nella sentenza n. 94 del 2007, abbia ricondotto alla competenza legislativa regionale esclusiva, ex art. 117, quarto comma, Cost., «la gestione del patrimonio immobiliare di edilizia residenziale pubblica di proprietà degli Istituti autonomi per le case popolari o degli altri enti che a questi sono stati sostituiti ad opera della legislazione regionale».

    1.1.3. - Infine, la ricorrente sottolinea l'ampia discrezionalità concessa dal censurato comma 2 dell'art. 3 alle costituende Commissioni, «che andrebbe ad interferire con le competenze riconosciute alla Regione in materia di gestione dell'allocazione del patrimonio immobiliare di edilizia residenziale pubblica (nello specifico sotto il profilo della gestione delle azioni di rilascio)».

    È richiamato, in proposito, l'art. 3, comma 51, della legge della Regione Lombardia 5 gennaio 2000, n. 1, recante «Riordino del sistema delle autonomie in Lombardia. Attuazione del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dallo Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59)», che prevede il trasferimento ai Comuni di tutte le funzioni amministrative concernenti l'assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica.

    Pertanto, la Commissione di cui al censurato art. 3, comma 2, della legge n. 9 del 2007, «si troverebbe ad interferire pesantemente con attribuzioni regionali» in materia di «politiche sociali e di edilizia residenziale pubblica, con particolare riferimento all'aspetto assistenziale e di gestione del patrimonio immobiliare di edilizia residenziale pubblica», con conseguente violazione dell'art. 117, terzo e quarto comma, Cost., nonché del principio di sussidiarietà di cui all'art. 118 Cost. e del principio di buon andamento di cui all'art. 97 Cost.

    1.2. - Oggetto delle censure regionali è anche l'art. 4, comma 2, della legge n. 9 del 2007, il quale stabilisce quanto segue: «In relazione alle indicazioni emerse dal tavolo di concertazione di cui al comma 1, il Ministro delle infrastrutture, di concerto con i Ministri della solidarietà sociale, dell'economia e delle finanze, per le politiche giovanili e le attività sportive e delle politiche per la famiglia, d'intesa con la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, ai sensi dell'articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, predispone, entro due mesi dalla conclusione dei lavori de l medesimo tavolo di concertazione, un programma nazionale contenente:

    a) gli obiettivi e gli indirizzi di carattere generale per la programmazione regionale di edilizia residenziale pubblica riferita alla realizzazione, anche mediante l'acquisizione e il recupero di edifici esistenti, di alloggi in locazione a canone sociale sulla base dei criteri stabiliti dalle leggi regionali e a canone definito sulla base dei criteri stabiliti dall'articolo 2, comma 3, della legge 9 dicembre 1998, n. 431, e successive modificazioni, nonché alla riqualificazione di quartieri degradati;

    b) proposte normative in materia fiscale e per la normalizzazione del mercato immobiliare, con particolare riferimento alla riforma della disciplina della vendita e della locazione di immobili di proprietà dei soggetti di cui all'articolo 1, comma 3;

    c) l'individuazione delle possibili misure, anche di natura organizzativa, dirette a favorire la continuità nella cooperazione tra Stato, regioni ed enti locali prioritariamente per la riduzione del disagio abitativo per particolari categorie sociali;

    d) la stima delle risorse finanziarie necessarie per l'attuazione del programma nell'ambito degli stanziamenti già disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica».

    1.2.1. - La Regione Lombardia ritiene che, con l'«apparente finalità di indicare "gli obiettivi e gli indirizzi di carattere generale per la programmazione regionale di edilizia residenziale pubblica"», la previsione del programma nazionale di natura ministeriale di cui all'art. 4, comma 2, della legge n. 9 del 2007, introduca «in realtà disposizioni puntuali ed elementi di indirizzo per la Regione incompatibili, tra l'altro, con il superamento, a seguito della revisione costituzionale del 2001, della funzione statale di indirizzo e coordinamento dell'attività amministrativa delle Regioni, che le dispos izioni impugnate finiscono per riproporre».

    La ricorrente osserva che «la programmazione nazionale, secondo il censurato disposto normativo, per un verso contiene gli obiettivi e gli indirizzi per l'attuazione della programmazione regionale, per altro verso indica nel dettaglio le modalità di attuazione della politica abitativa regionale».

    Sarebbe, pertanto, «evidente l'interferenza statale in ambiti rimessi alla competenza regionale in tema di pianificazione urbanistica, lavori pubblici per la costruzione e la manutenzione dei fabbricati, gestione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica ed organizzazione e attività amministrativa in materia di gestione e assegnazione degli alloggi, tutte attribuzioni garantite dagli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost.».

    La difesa regionale aggiunge al riguardo che, trattandosi di materie di cui all'art. 117, terzo e quarto comma, Cost., la lesione delle competenze regionali non viene meno «per il fatto che detta programmazione presuppone un tavolo di concertazione e l'intesa della Conferenza unificata».

    Inoltre, l'art. 4 della legge n. 9 del 2007, «prescrivendo in modo dettagliato e puntuale le finalità da perseguire in sede di attuazione», finirebbe «col predeterminare il contenuto stesso e della programmazione regionale di edilizia residenziale pubblica e di ogni altro intervento legislativo regionale "attuativo"».

    1.2.2. - La Regione Lombardia esclude, poi, che nel caso di specie possa essere riconosciuta - in virtù dell'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. - «una competenza esclusiva statale in ordine alla determinazione ed individuazione dell'offerta minima di alloggi destinati a soddisfare le esigenze dei ceti meno abbienti, mediante la fissazione di linee guida e principi di carattere generale per garantire l'uniformità dei criteri di assegnazione su tutto il territorio nazionale».

    Per le ragioni sopra riportate, infatti, la normativa censurata «non corrisponderebbe [.] a tale ipotetica funzione, non determinando essa alcun livello di prestazione». In proposito, la ricorrente osserva che «il fine della disposizione in esame non è quello di dettare una disciplina generale in tema di assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica, bensì quello di regolare l'organizzazione e le procedure amministrative per arrivare ad una più rapida e conveniente offerta e cessione degli immobili».

    Si tratterebbe, quindi, «di un intervento normativo dello Stato nella gestione degli alloggi di proprietà di enti strumentali della Regione che esplicitamente viene motivato dalla legge statale con finalità di valorizzazione di un patrimonio immobiliare non appartenente allo Stato». Pertanto, nell'indicare il contenuto e le finalità della futura programmazione nazionale, l'art. 4, comma 2, della legge n. 9 del 2007 avrebbe, «in realtà, previsto indirizzi e limiti volti a circoscrivere l'esercizio della potestà programmatoria e, in violazione dell'art. 117, sesto comma, Cost., ha affidato la programmazione nella materia de qua ad un atto ministeriale».

    La ricorrente osserva, inoltre, che l'impossibilità di ricondurre la norma impugnata alla competenza statale in tema di determinazione dei livelli essenziali troverebbe una conferma nella sentenza n. 120 del 2005 della Corte costituzionale che ha escluso da siffatta attribuzione del legislatore statale «l'assetto organizzativo e gestorio».

    La Regione Lombardia richiama anche la sentenza n. 248 del 2006 nella parte in cui si afferma che la competenza statale in tema di livelli essenziali delle prestazioni può essere invocata «solo in relazione a specifiche prestazioni delle quali la normativa nazionale definisca il livello essenziale di erogazione».

    1.2.3. - La ricorrente passa, poi, ad esaminare la normativa regionale sottolineando come l'art. 3, comma 41, della legge reg. Lombardia n. 1 del 2000 abbia mantenuto in capo alla Regione le funzioni di programmazione e di coordinamento nella materia dell'edilizia residenziale pubblica.

    La denunciata disciplina statale, pertanto, disconoscerebbe «in radice» sia le attribuzioni costituzionalmente garantite della ricorrente, sia il ruolo della Regione come delineato dalla normativa regionale adottata nell'esercizio di tali attribuzioni.

    La difesa regionale esclude, inoltre, che ricorrano «le condizioni per l'assunzione in sussidiarietà di funzioni legislative a livello statale in conseguenza dell'accentramento di funzioni amministrative in materia di spettanza regionale». Sarebbe infatti difficile individuare «l'interesse unitario invocabile quale motivo di alterazione del riparto delle funzioni», posto che «il livello di governo regionale e locale si presenta allo stato pienamente rispondente ed adeguato alle finalità che si intendono raggiungere, specie se si considera che la materia in questione [.] investe la realtà locale, e che la direzione da assumere a livello legislativo deve indirizzarsi verso la stabilizzazione di un sistema locale».

    La ricorrente conclude sul punto rilevando come analoghe considerazioni valgano anche per le altre norme censurate di cui agli artt. 3 e 5.

    1.2.4. - Oggetto di specifica censura è, poi, la lettera d) dell'art. 4, comma 2, della legge n. 9 del 2007, per violazione dell'art. 119, quarto comma, Cost. In particolare, la Regione Lombardia ritiene che la norma in esame, «stabilendo che per tutto quanto verrà imposto in sede di programmazione alle Regioni e agli enti locali non sono previste risorse finanziarie», violi il «principio di certezza delle risorse finanziarie e di autonomia finanziaria regionale e locale sotteso all'art. 119, il quale disciplina un sistema di entrate regionali e locali destinato a finanziare "integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite"».

    1.3. - La Regione Lombardia impugna, infine, l'art. 5 della legge n. 9 del 2007 il quale prevede: «Al fine di ottemperare a quanto previsto in materia di aiuti di Stato a favore degli alloggi sociali dalla decisione 2005/842/CE, della Commissione europea, del 28 novembre 2005, il Ministro delle infrastrutture, entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, definisce con proprio decreto, di concerto con i Ministri della solidarietà sociale, delle politiche per la famiglia, per le politiche giovanili e le attività sportive e d'intesa con la C onferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, ai sensi dell'articolo 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, le caratteristiche e i requisiti degli alloggi sociali esenti dall'obbligo di notifica degli aiuti di Stato, ai sensi degli articoli 87 e 88 del Trattato istitutivo della Comunità europea».

    1.3.1. - Preliminarmente, la ricorrente richiama le censure mosse nei confronti degli artt. 3 e 4 della legge n. 9 del 2007, precisando che esse «valgono anche con riguardo alla disposizione di cui all'art. 5».

    1.3.2. - Passando alle specifiche ragioni di censura dell'art. 5, la difesa regionale ritiene che questa norma, «nell'attribuire al Ministero delle infrastrutture poteri regolamentari caratterizzati da elevata discrezionalità e rilevanza politica per la determinazione dei caratteri e dei requisiti degli alloggi sociali, cui è riconnessa la necessità o meno di notificazione degli aiuti di Stato», violi l'art. 117, sesto comma, Cost., «che limita la competenza della fonte regolamentare statale alle materie di cui al secondo comma dell'art. 117».

    La Regione Lombardia ritiene, inoltre, che il decreto previsto nella norma impugnata non riguardi gli «aspetti strettamente attinenti al regime fiscale, riferibile al sistema tributario e contabile dello Stato». La previsione di cui al censurato art. 5 darebbe luogo, piuttosto, ad una «pregiudizievole interferenza statale» nelle materie di potestà regionale residuale dei «lavori pubblici di interesse regionale e locale» e dell'«edilizia residenziale pubblica».

    D'altra parte, le competenze delle Regioni non potrebbero dirsi salvaguardate dalla prevista necessità di un'intesa con la Conferenza unificata, «giacché le procedure cooperative non possono alterare il rigido riparto risultante dal sesto comma dell'art. 117 Cost., che preclude alla potestà regolamentare statale di intervenire nella materia dell'edilizia residenziale pubblica, a fortiori se inerente, come nel caso di cui si verte, al terzo livello normativo, rientrante nella competenza residuale regionale».

    1.3.3. - La difesa della ricorrente sottolinea, inoltre, come l'art. 5 della legge n. 9 del 2007, «pur presentandosi [.] in apparenza attinente alla materia della tutela della concorrenza, sotto il profilo della disciplina comunitaria degli aiuti di Stato», consente al decreto del Ministro delle infrastrutture di «intervenire nel dettaglio della materia dell'edilizia residenziale pubblica, per i profili attinenti alle politiche sociali e dell'abitazione e ai lavori pubblici di interesse regionale e locale, mediante la fissazione delle caratteristiche e dei requisiti degli alloggi sociali esenti dalla notifica degli aiuti di Stato, cosicché il profilo concernente la tutela della concorrenza si appalesa del tutto pretestuoso e inidoneo a legittimare i poteri ministeriali di cui si tratta».</ SPAN>

    Del resto, aggiunge la ricorrente, «per i profili di rilevanza comunitaria l'art. 5 della legge n. 9 del 2007 appare altresì incompatibile con il quinto comma dell'art. 117 Cost., a norma del quale l'attuazione e l'esecuzione della normativa comunitaria spettano alle Regioni e alle Province autonome nelle materie di loro competenza».

    In particolare, la Regione Lombardia ritiene che nel caso di specie non sussistano i «presupposti per il legittimo esercizio, da parte dello Stato, della sua competenza trasversale in materia di tutela della concorrenza [.] essendo evidente che la materia oggetto del presente giudizio si caratterizza per essere funzionale ad esigenze tipicamente locali, e che la disciplina delle caratteristiche e dei requisiti degli alloggi sociali esula dalla materia di cui alla lettera e) dell'art. 117, secondo comma, come delineata dalla giurisprudenza costituzionale».

    Al riguardo, la difesa regionale osserva che la «rilevanza macroeconomica», che - secondo quanto affermato nella sentenza n. 14 del 2004 dalla Corte costituzionale - dovrebbe giustificare l'intervento dello Stato nella materia della tutela della concorrenza, «stride con il grado di dettaglio che la disciplina ministeriale può raggiungere nella definizione dei requisiti degli alloggi sociali esenti dalla notifica degli aiuti di Stato».

    Infine, la Regione Lombardia conclude rilevando che le disposizioni comunitarie in materia di aiuti di Stato non sono «idonee a fondare ex se delle competenze in capo agli Stati, ma semmai esse sono idonee a limitare e indirizzare l'esercizio delle competenze spettanti ai diversi livelli di governo».

    2. − Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, si è costituito in giudizio, chiedendo che il ricorso sia rigettato.

    2.1. - In merito alla questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l'art. 3, comma 1, della legge n. 9 del 2007, il resistente ritiene che la norma impugnata sia riconducibile alla competenza statale in tema di determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni di cui all'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto «viene a determinare, proprio attraverso la previsione del piano straordinario, i criteri di assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale pubblica».

    Quanto alla norma di cui al comma 2 dell'art. 3, l'istituzione delle Commissioni sarebbe «strumentale al passaggio degli interessati da casa a casa» e, comunque, atterrebbe alla materia dell'ordine pubblico di cui all'art. 117, secondo comma, lettera h), Cost.

    2.2. - Anche l'art. 4, comma 2, della legge n. 9 del 2007 sarebbe «immune da censure di incostituzionalità, considerata l'applicabilità delle intese di cui all'articolo 8 della legge n. 131 del 2003 alle materie di cui all'articolo 117, secondo comma, Cost.». In particolare, secondo il Presidente del Consiglio, la norma impugnata sarebbe riconducibile alla competenza esclusiva statale di cui all'art. 117, secondo comma, lettera m) («per ciò che riguarda gli obiettivi e gli indirizzi di carattere generale per la programmazione regionale di edilizia residenziale pubblica nonché l'individuazione di misure dirette a ridurre il disagio abitativo per particolari categorie sociali») e lettera e), Cost. («per quanto riguarda le pr oposte normative in materia fiscale e per la normalizzazione del mercato immobiliare nonché la stima delle risorse finanziarie necessarie per l'attuazione del programma»).

    2.3. - Infine, secondo la difesa erariale, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 della legge n. 9 del 2007 sarebbe infondata in quanto la norma impugnata «può agevolmente inquadrarsi nella previsione di cui all'art. 117, secondo comma, lettera a) in cui si fa espresso riferimento ai vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario».

    2.4. - In generale, con riferimento a tutte le censure mosse dalla Regione Lombardia, il resistente osserva che, alla luce della giurisprudenza della Corte costituzionale, «l'attività di programmazione degli interventi di edilizia residenziale pubblica rientra nella competenza statale concernente la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali». Pertanto, il legislatore statale, con le norme impugnate, avrebbe fatto un «"proporzionato uso" di siffatta competenza, di tipo trasversale, procedendo ad individuare la soluzione ritenuta idonea a risolvere una grave emergenza abitativa, non limitata ad una specifica parte del Paese, individuando livelli di assistenza tali da garan tire il diritto all'abitazione per i ceti meno abbienti».

    Secondo la difesa erariale, la stessa previsione di un piano straordinario costituisce «indice della circostanza che si è, nella fattispecie de qua, al di fuori dell'ordinaria programmazione degli interventi abitativi (attività che codesta Corte ha comunque riconosciuto alla competenza del legislatore statale)». In questo contesto, aggiunge il resistente, risulterebbe infondata la censura rivolta al comma 2 dell'art. 4 della legge n. 9 del 2007.

    Altrettanto infondata sarebbe la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 2, in relazione alla previsione dell'istituzione di apposite commissioni per l'eventuale graduazione delle azioni di rilascio. In proposito, la difesa erariale, oltre a richiamare quanto sopra riportato, rileva come si tratti di «attività concernente anche la competenza statale in materia di ordinamento civile», prevista dall'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.

    Con riferimento all'art. 5, il Presidente del Consiglio ritiene che la norma in esame «detti disposizioni volte alla tutela della concorrenza», di competenza esclusiva del legislatore statale. Pertanto, sarebbe «irrilevante la circostanza che la disciplina venga rimessa ad un atto regolamentare e non legislativo»

    Infine, sarebbero inconferenti le censure mosse alle norme impugnate in relazione agli artt. 3 e 97 Cost., «non ricorrendo, nel caso di specie alcun vulnus ai richiamati parametri».

    3. - In prossimità dell'udienza la Regione Lombardia ha depositato una memoria integrativa con la quale insiste nelle conclusioni già rassegnate nel ricorso.

    La ricorrente ritiene che le argomentazioni sviluppate dalla difesa erariale nell'atto di costituzione non siano idonee a «dissolvere e superare» le censure mosse alla legge n. 9 del 2007. In particolare, secondo la Regione, non sarebbe possibile ricondurre la normativa impugnata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato nelle materie di cui all'art. 117, secondo comma, lettere m), h) ed e), Cost.

    Inoltre, non sarebbe pertinente il richiamo alla competenza statale di cui all'art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in relazione alla questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto l'art. 3, comma 2, della legge n. 9 del 2007. La norma in esame, infatti, non investirebbe la materia delle norme processuali, bensì riguarderebbe «il diverso e antecedente momento della sospensione delle procedure esecutive di rilascio».

    Infine, non potrebbe essere richiamata l'esigenza di uniformità della disciplina sull'intero territorio nazionale per giustificare «l'ampliamento delle potestà legislative statali [.], in conseguenza dell'assunzione in sussidiarietà delle relative funzioni amministrative secondo il meccanismo derogatorio ed eccezionale di cui alla sentenza n. 303 del 2003».

Considerato in diritto

    1. - La Regione Lombardia ha promosso, con ricorso notificato il 16 aprile 2007 e depositato il successivo 20 aprile, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, commi 1 e 2, 4, comma 2, e 5, comma 1, della legge 8 febbraio 2007, n. 9 (Interventi per la riduzione del disagio abitativo per particolari categorie sociali), in riferimento agli artt. 3, 97, 117, terzo, quarto, quinto e sesto comma, 118 e 119 della Costituzione.

    2. - Preliminarmente deve essere rilevata l'inammissibilità della questione avente ad oggetto l'art. 4, comma 2, della legge n. 9 del 2007, per violazione dell'art. 97 Cost., in quanto la suddetta censura è priva di un'adeguata motivazione.

    Inammissibili per la medesima ragione sono pure le questioni relative all'art. 5 della legge n. 9 del 2007, in relazione agli artt. 3 e 97 Cost.

    3. - La questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, della legge n. 9 del 2007 non è fondata.

    Il piano straordinario previsto dalla norma censurata è finalizzato ad identificare il fabbisogno di edilizia residenziale pubblica, con particolare riferimento alle categorie indicate nell'art. 1 della stessa legge. Si tratta, a tenore della disposizione da ultimo richiamata, di conduttori con reddito annuo lordo complessivo familiare inferiore a 27.000 euro, che siano o abbiano nel proprio nucleo familiare persone ultrasessantacinquenni, malati terminali o portatori di handicap con invalidità superiore al 66 per cento, purché non siano in possesso di altra abitazione adeguata nella Regione di residenza. Per le suddette categorie, la medesima norma dispone la sospensione delle procedure esecutive di rilascio per finita locazione, limitatamente ai Comuni capoluoghi di provincia, ai Comuni con essi confinant i con popolazione superiore ai 10.000 abitanti ed ai Comuni ad alta densità abitativa, di cui alla delibera CIPE n. 87/03 del 13 novembre 2003.

    La norma censurata mira a predisporre interventi per alleviare il disagio abitativo di categorie di soggetti particolarmente deboli, sia mediante la facilitazione del passaggio «da casa a casa» sia mediante una programmazione nazionale di edilizia residenziale pubblica prioritariamente orientata in favore delle suddette categorie sociali.

    Questa Corte ha precisato che, anche dopo la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione, continua a spettare allo Stato, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera m), «la determinazione dell'offerta minima di alloggi destinati a soddisfare le esigenze dei ceti meno abbienti» (sentenza n. 94 del 2007). Del pari, questa Corte ha statuito che la programmazione degli insediamenti di edilizia residenziale pubblica, in quanto ricadenti nella materia «governo del territorio», appartiene alla competenza legislativa concorrente di cui al terzo comma dell'art. 117 Cost. (sentenza n. 451 del 2006).

    Alla luce degli indirizzi giurisprudenziali prima richiamati, si può stabilire che gli spazi normativi coperti dalla potestà legislativa dello Stato sono da una parte la determinazione di quei livelli minimali di fabbisogno abitativo che siano strettamente inerenti al nucleo irrinunciabile della dignità della persona umana e dall'altra parte la fissazione di principi generali, entro i quali le Regioni possono esercitare validamente la loro competenza a programmare e realizzare in concreto insediamenti di edilizia residenziale pubblica o mediante la costruzione di nuovi alloggi o mediante il recupero e il risanamento di immobili esistenti. L'una e l'altra competenza (la prima ricadente nella potestà legislativa esclusiva dello Stato, la seconda in quella concorrente) si integrano e si completano a vicenda, g iacché la determinazione dei livelli minimi di offerta abitativa per specifiche categorie di soggetti deboli non può essere disgiunta dalla fissazione su scala nazionale degli interventi, allo scopo di evitare squilibri e disparità nel godimento del diritto alla casa da parte delle categorie sociali disagiate.

    La norma censurata rispetta i suddetti confini di intervento della legislazione statale. Infatti essa si limita a richiedere alle Regioni la predisposizione, in base alle proposte dei Comuni interessati, di un piano straordinario, articolato in tre annualità, destinato a soddisfare il fabbisogno di edilizia residenziale pubblica, con particolare riferimento a quello espresso dalle categorie che sono state prima menzionate. Da una parte emerge lo scopo di provvedere al bisogno minimo abitativo di precise categorie di soggetti che si trovano in condizioni disagiate, dall'altra si predispone una procedura a carattere generale perché le Regioni possano esercitare la propria competenza legislativa concorrente in materia di insediamenti di edilizia residenziale pubblica. Lo Stato, per mezzo della norma impugnata, si limita a richiedere un intervento organico, rapido e preferenziale, con riferimento a particolari categorie di soggetti, che si trovano in condizioni oggettivamente deteriori rispetto alla generalità dei cittadini e che possono vantare pertanto un diritto fondamentale, da garantirsi in modo uniforme su tutto il territorio nazionale.

    La finalizzazione complessiva dell'intervento statale risulta più chiara alla luce dell'art. 21 del successivo decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159 (Interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l'equità sociale), convertito, con modificazioni, dall'art. 1 della legge 29 novembre 2007, n. 222. In tale disposizione, non impugnata da alcuna Regione, è previsto un programma straordinario di edilizia residenziale pubblica, con relativo stanziamento, per l'anno 2007, della somma di 550 milioni di euro, diretto a rendere disponibili, con vari mezzi, alloggi da destinare prioritariamente alle categorie di soggetti sottoposti a procedure di rilascio e aventi i requisiti di cui al già citato art. 1 della legge n. 9 del 2007. L'individuazione del fabbisogno abitativo, secondo l'art. 21 del menzionato decreto-legge n. 159 del 2007 ed in coerenza con quanto disposto dalla disposizione censurata, è affidata alle Regioni ed alle Province autonome, sulla base degli esiti del «tavolo di concertazione» di cui all'art. 4 della legge n. 9 del 2007, al quale partecipano anche i rappresentanti delle Regioni.

    In definitiva, la norma censurata si presenta come la prima fase di un programma generale di interventi nel settore dell'edilizia residenziale pubblica, nell'ambito del quale lo Stato, da una parte, si riserva il potere di individuare le categorie particolarmente disagiate, da considerare con priorità su tutto il territorio nazionale, dall'altra parte, detta i principi fondamentali che dovranno presiedere all'elaborazione dei piani specifici, di competenza delle Regioni. A queste ultime spetta sia l'individuazione del fabbisogno abitativo, sia l'articolazione degli interventi e delle realizzazioni conseguenti. Per entrambi i profili, l'estensione della competenza statale non supera i limiti di cui all'art. 117, secondo comma, lettera m), e terzo comma, Cost. La det erminazione dei livelli minimi di offerta abitativa per categorie di soggetti particolarmente disagiate, da garantire su tutto il territorio nazionale, viene concretamente realizzata attribuendo a tali soggetti una posizione preferenziale, che possa assicurare agli stessi il soddisfacimento del diritto sociale alla casa compatibilmente con la effettiva disponibilità di alloggi nei diversi territori, resa palese dai piani straordinari previsti dalla norma censurata.

    4. - La questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 2, della legge n. 9 del 2007 è fondata.

    La norma suddetta riconosce ai Comuni la possibilità di istituire «apposite commissioni», con durata di diciotto mesi, per l'eventuale graduazione, fatte salve le competenze dell'autorità giudiziaria ordinaria, delle azioni di rilascio, allo scopo di favorire il passaggio «da casa a casa» per le categorie individuate all'art. 1, nonché per le famiglie collocate utilmente nelle graduatorie comunali per l'accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica.

    Attribuire ai Comuni la possibilità di istituire tali commissioni lede la competenza residuale delle Regioni in materia di politiche sociali. Né si può ritenere che la norma censurata si limiti a conferire ai Comuni una semplice facoltà, giacché ciò non è consentito in materie riservate alla competenza regionale. La possibilità di istituire queste commissioni, qualora esercitata dai Comuni, si risolverebbe in una sottrazione di funzioni costituzionalmente spettanti alle Regioni. In altre parole, con la norma censurata, si attribuisce ai Comuni la facoltà, ove lo ritengano, di ledere la sfera di competenza costituzionalmente garantita delle Regioni. Il fatto che gli stessi Comuni non siano obbligati a farlo non elimina l'illegittimità di tale previsione.

    Non condivisibile è, poi, l'assunto dell'Avvocatura dello Stato, secondo cui la disposizione in questione ricadrebbe nelle materie dell'ordinamento civile o dell'ordine pubblico, entrambe di competenza esclusiva dello Stato. Si tratta infatti di norme che incidono, non sulla procedura di rilascio, ma solo sulla graduazione degli aventi diritto ai fini di agevolare il passaggio «da casa a casa», nell'intento di attutire il loro disagio abitativo. Finalità eminentemente sociale, che non può neppure essere ridotta a mera questione di ordine pubblico, giacché quest'ultimo potrebbe venire semmai in rilievo solo con riferimento a problemi concreti nascenti dall'esasperazione del disagio abitativo, che appunto gli interventi di carattere sociale mirano ad evitare. Ogni acuto problema sociale, se non risolto per lu ngo tempo, può provocare turbative dell'ordine pubblico. Non per questo tutti gli interventi pubblici in materia sociale si risolvono in misure di ordine pubblico, secondo una concezione del tutto estranea alla Costituzione italiana vigente.

    In definitiva, trattandosi di materia sociale e non potendosi configurare nella specie alcuna competenza statale costituzionalmente consentita, la norma censurata è illegittima per violazione dell'art. 117, quarto comma, Cost.

    5. - La questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 2, della legge n. 9 del 2007 non è fondata.

    La disposizione censurata prevede che «il Ministro delle infrastrutture, di concerto con i Ministri della solidarietà sociale, dell'economia e delle finanze, per le politiche giovanili e le attività sportive e delle politiche per la famiglia, d'intesa con la Conferenza unificata di cui all'art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, ai sensi dell'art. 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131, predispone, entro tre mesi, un programma nazionale contenente:

    a) gli obiettivi e gli indirizzi di carattere generale per la programmazione regionale di edilizia residenziale pubblica riferita alla realizzazione, anche mediante l'acquisizione e il recupero di edifici esistenti, di alloggi in locazione a canone sociale sulla base dei criteri stabiliti dalle leggi regionali e a canone definito sulla base dei criteri stabiliti dall'articolo 2, comma 3, della legge 9 dicembre 1998, n. 431, e successive modificazioni, nonché alla riqualificazione di quartieri degradati; b) proposte normative in materia fiscale e per la normalizzazione del mercato immobiliare, con particolare riferimento alla riforma della disciplina della vendita e della loca zione di immobili di proprietà dei soggetti di cui all'articolo 1, comma 3; c) l'individuazione delle possibili misure, anche di natura organizzativa, dirette a favorire la continuità nella cooperazione tra Stato, regioni ed enti locali prioritariamente per la riduzione del disagio abitativo per particolari categorie sociali; d) la stima delle risorse finanziarie necessarie per l'attuazione del programma nell'ambito degli stanziamenti già disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica».

    Occorre ricordare che gli artt. 59 e 60 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), stabiliscono che sono mantenute allo Stato le funzioni e i compiti relativi al concorso, unitamente alle Regioni ed agli enti locali interessati, all'elaborazione di programmi di edilizia residenziale pubblica aventi interesse a livello nazionale (art. 59, comma 1, lettera c) ed alla definizione dei criteri per favorire l'accesso al mercato delle locazioni dei nuclei familiari meno abbienti e agli interventi concernenti il sostegno finanziario al reddito (art. 59, comma 1, lettera e). Sono invece conferite alle Regioni e agli enti locali tutte le funzioni amministrative non espressamente elencate tra quelle trattenute dallo Stato e, in particolare, quelle relative alla programmazione delle risorse finanziarie riservate al settore (art. 60, comma 1, lettera b), alla gestione e all'attuazione degli interventi anche attraverso programmi integrati, di recupero urbano e di riqualificazione urbana (art. 60, comma 1, lettere c e d), alla fissazione dei criteri per l'assegnazione degli alloggi di edilizia residenziale destinati all'assistenza abitativa, nonché alla determinazione dei relativi canoni (art. 60, comma 1, lettera e).

    Dalle norme prima citate emerge l'esigenza di un momento unitario, che deve precedere la programmazione regionale in materia di edilizia residenziale pubblica. In tale momento unitario devono essere coinvolti tutti i soggetti istituzionali interessati (Stato, Regioni, enti locali).

    In base a quanto detto, si può ritenere che sussistano tutte le condizioni ritenute necessarie da questa Corte (sentenze n. 303 del 2003 e n. 6 del 2004) perché possa verificarsi la «attrazione in sussidiarietà» da parte dello Stato della competenza legislativa in tema di «programmi di edilizia residenziale pubblica aventi interesse a livello nazionale». Esiste infatti l'interesse unitario, stante la necessità del coordinamento, allo scopo di individuare le linee generali della programmazione regionale e di evitare forti squilibri territoriali nella politica sociale della casa. La deroga al riparto delle competenze legislative risulta proporzionata, giacché lo Stato non interferisce nella predisposizione dei programmi regionali, ma si limita a fissare le linee generali indispensabili per l'armonizzazione de i programmi su scala nazionale. Infine, la norma censurata prevede che il programma nazionale sia predisposto dal Ministro delle infrastrutture, di concerto con altri Ministri, «d'intesa con la Conferenza unificata», entro due mesi dalla conclusione dei lavori del tavolo di concertazione generale sulle politiche abitative, previsto nel comma 1 del medesimo art. 4, al quale partecipano, tra gli altri, anche i rappresentanti delle Regioni e dell'Associazione nazionale dei comuni italiani (ANCI). Come si vede, le Regioni sono coinvolte in due distinte fasi del procedimento: in sede di concertazione generale e nel momento della predisposizione del programma nazionale, tramite l'intesa necessaria con la Conferenza unificata.

    Per i motivi sopra esposti, la norma in questione è immune dalle censure avanzate dalla Regione ricorrente.

    6. - La Regione Lombardia censura altresì la lettera d) del comma 2 dell'art. 4 della legge n. 9 del 2007, poiché, stabilendo che per tutto quanto verrà imposto in sede di programmazione alle Regioni e agli enti locali non sono previste risorse finanziarie, violerebbe il principio di certezza delle risorse finanziarie e di autonomia finanziaria regionale e locale sotteso all'art. 119 Cost., il quale disciplina un sistema di entrate regionali e locali destinato a finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite.

    La questione non è fondata.

    La norma impugnata prevede che il programma nazionale, predisposto d'intesa con la Conferenza unificata, debba contenere «la stima delle risorse necessarie per l'attuazione del programma nell'ambito degli stanziamenti già disponibili a legislazione vigente e senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica». Pertanto, resta fermo quanto stabilisce il già citato art. 60, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 112 del 1998, che attribuisce alle Regioni la programmazione delle risorse finanziarie destinate al settore.

    7. - La questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 della legge n. 9 del 2007 non è fondata.

    Tale norma attribuisce al Ministro delle infrastrutture il compito di definire, di concerto con altri Ministri e d'intesa con la Conferenza unificata, le caratteristiche e i requisiti degli alloggi sociali esenti dall'obbligo di notifica degli aiuti di Stato ai sensi degli artt. 87 e 88 del Trattato istitutivo della Comunità europea.

    Lo Stato, nel determinare le caratteristiche e i requisiti degli alloggi sociali, in sostanza determina i livelli essenziali delle prestazioni concernenti il diritto all'abitazione. Questa Corte ha stabilito che «la determinazione dell'offerta minima degli alloggi destinati a soddisfare le esigenze dei ceti meno abbienti» appartiene alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. (sentenza n. 94 del 2007). Tale determinazione ovviamente non può essere solo quantitativa, ma anche qualitativa, nel senso che, nel momento in cui si determina l'offerta minima destinata alle categorie sociali economicamente disagiate, occorre stabilire anche le caratteristiche di questi alloggi.

    Alla luce di quanto detto, non sono condivisibili né l'assunto della Regione ricorrente, che riconduce la normativa impugnata alla competenza legislativa residuale delle Regioni, né la tesi dell'Avvocatura dello Stato, secondo cui la norma censurata ricadrebbe nella competenza legislativa statale in materia di tutela della concorrenza.

    Si deve aggiungere che, anche ai fini dell'osservanza della normativa comunitaria, la determinazione delle caratteristiche degli alloggi sociali esenti dall'obbligo di notificazione degli aiuti di Stato non può che essere uniforme su tutto il territorio nazionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 3, comma 2, della legge 8 febbraio 2007, n. 9 (Interventi per la riduzione del disagio abitativo per particolari categorie sociali);

    dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 2, della legge n. 9 del 2007, promossa, in riferimento all'art. 97 Cost., dalla Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe;

    dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 della legge n. 9 del 2007, promossa, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., dalla Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe;

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 1, della legge n. 9 del 2007, promossa, in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost., dalla Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe;

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 2, della legge n. 9 del 2007, promossa, in riferimento agli artt. 117, terzo, quarto e sesto comma, e 118 Cost., dalla Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe;

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 2, lettera d), della legge n. 9 del 2007, promossa, in riferimento all'art. 119 Cost., dalla Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe;

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 5 della legge n. 9 del 2007, promossa, in riferimento agli artt. 117, terzo, quarto, quinto e sesto comma, e 118 Cost., dalla Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 167

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco            BILE      Presidente

- Giovanni Maria    FLICK       Giudice

- Francesco         AMIRANTE       "

- Ugo                  DE SIERVO        "

- Paolo             MADDALENA      "

- Alfio             FINOCCHIARO    "

- Alfonso           QUARANTA       "

- Franco            GALLO          "

- Luigi             MAZZELLA       "

- Gaetano           SILVESTRI      "

- Sabino            CASSESE        "

- Maria Rita        SAULLE         "

- Giuseppe          TESAURO        "

- Paolo Maria       NAPOLITANO     "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 7-bis, del decreto-legge 7 aprile 2004, n. 97 (Disposizioni urgenti per assicurare l'ordinato avvio dell'anno scolastico 2004-2005, nonché in materia di esami di Stato e di Università), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 4 giugno 2004, n. 143, promossi con due ordinanze del 27 dicembre 2006 dal Tribunale amministrativo regionale per la Toscana sui ricorsi proposti da B. L. e da T.F. nei confronti del Ministero dell'istruzione, università e ricerca scientifica ed altro, iscritte ai nn. 754 e 755 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visto l'atto di costituzione di B. L. ed altra;

    udito nell'udienza pubblica del 1° aprile 2008 il Giudice relatore Maria Rita Saulle;

    udito l'avvocato Carlo Brucoli per B. L. ed altra.

Ritenuto in fatto

    1. - Il Tribunale amministrativo regionale per la Toscana, sezione prima, con due distinte ordinanze di contenuto sostanzialmente identico, depositate entrambe in data 27 dicembre 2006, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, comma 7-bis, del decreto-legge 7 aprile 2004, n. 97 (Disposizioni urgenti per assicurare l'ordinato avvio dell'anno scolastico 2004-2005, nonché in materia di esami di Stato e di Università), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 4 giugno 2004, n. 143, in riferimento agli articoli 3 e 97 della Costituzione.

    La disposizione censurata prevede che, a decorrere dall'anno scolastico 2005-2006, «è valida l'abilitazione all'insegnamento conseguita con il superamento dell'esame finale da parte di coloro che sono stati ammessi con riserva ai concorsi banditi con ordinanza del Ministro della pubblica istruzione 2 gennaio 2001, n. 1, [.] purché abbiano maturato il requisito sulla durata del servizio prestato» entro la data del 29 ottobre 2000 (data di entrata in vigore della legge 27 ottobre 2000, n. 306).

    1.1. - Il giudice a quo premette che entrambe le ricorrenti dei giudizi principali sono state ammesse con riserva alla sessione riservata di esami indetta - in base all'art. 2, comma 4, della legge 3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico) - con ordinanza del Ministro per la pubblica istruzione 15 giugno 1999, n. 153, al fine di conseguire l'idoneità all'insegnamento nella scuola elementare. Pur avendo superato la relativa prova d'esame, le medesime ricorrenti sono state inserite, sempre con riserva, nelle rispettive graduatorie per difetto del requisito di servizio, consistente nell'aver svolto attività di insegnamento negli istituti indicati dalla legge, per almeno 360 giorni nel periodo compreso tra l'anno scolastico 1989-1990 e la data di entrata in vigore della stessa legge n. 124 del 1999 (25 maggio 1999), di cui almeno 180 giorni a decorrere dall'anno scolastico 1994-1995. Entro tale data, infatti, le ricorrenti avevano svolto attività di insegnamento esclusivamente presso una «scuola elementare privata autorizzata», istituto non ricompreso fra quelli espressamente indicati dalla legge.

    1.2. - Riferisce sempre il rimettente che, avendo entrambe le ricorrenti maturato medio tempore il prescritto requisito di servizio alla data di entrata in vigore dell'art. 2, comma 7-bis, del d.l. n. 97 del 2004, le stesse hanno impugnato i provvedimenti con i quali l'Amministrazione scolastica ha rigettato la loro istanza di scioglimento positivo della riserva, comunicando che l'art. 2, comma 7-bis, del d.l. n. 97 del 2004, «deve intendersi tassativamente previsto solo per coloro che sono stati ammessi con riserva ai concorsi banditi con ordinanza ministeriale 2 gennaio 2001, n. 1».

    1.3. - Il giudice a quo precisa che il motivo di doglianza prospettato dalle ricorrenti si fonda sulla pretesa illegittimità dell'interpretazione, offerta dall'Amministrazione, del citato art. 2, comma 7-bis, del d.l. n. 97 del 2004, deducendo al riguardo che le sessioni di esame indette con le ordinanze ministeriali n. 153 del 1999, n. 33 del 2000 e n. 1 del 2001, costituirebbero, in realtà, un'unica sessione riservata di esami bandita in base alla legge n. 124 del 1999. Pertanto, ad avviso delle ricorrenti, sarebbe contrario all'intento del legislatore limitare il beneficio dell'ultima proroga a una soltanto delle tre sessioni riservate di esami, anziché estenderlo a tutte.

    2. - Il TAR per la Toscana osserva, al riguardo, che il termine di maturazione del requisito di servizio richiesto ai fini della partecipazione alla sessione riservata di esami per l'inserimento nelle graduatorie permanenti, «originariamente fissato alla data del 18 maggio 1999» (recte: 25 maggio 1999), «è stato poi prorogato al 27 aprile 2000 e, successivamente al 27 ottobre 2000» (recte: 29 ottobre 2000), «con l'art. 2, comma 7-bis, del d.l. n. 97 del 2004, aggiunto in sede di conversione dalla legge n. 143 del 2004».

    Per il giudice a quo in particolare, al fine di consentire l'ammissione alla sessione riservata anche di coloro che medio tempore fossero entrati in possesso del requisito dei 360 giorni di servizio, l'art. 1, comma 6-bis, del decreto-legge 28 agosto 2000, n. 240 (Disposizioni urgenti per l'avvio dell'anno scolastico 2000-2001), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 27 ottobre 2000, n. 306, avrebbe «differito il termine finale per il computo del predetto requisito alla data del 27 aprile 2000».

    Successivamente, e per le medesime finalità, detto termine sarebbe stato ulteriormente differito al 29 ottobre 2000, dall'art. 2, comma 7-bis, del d.l. n. 97 del 2004.

    2.1. - Alla luce di tale ricostruzione del quadro normativo, ad avviso del collegio rimettente, emergerebbe il chiaro intento del legislatore di «sanare mediante inserimento nelle graduatorie permanenti il personale docente precario, con le proroghe progressivamente disposte del termine di maturazione del requisito del servizio», intento che risulterebbe contraddetto dall'esclusione dal beneficio dell'ultima proroga degli insegnanti che, come le ricorrenti, pur avendo nel frattempo maturato tale requisito, non hanno partecipato alla sessione di esami indetta con o.m. n. 1 del 2001.

    2.2. - Il TAR per la Toscana ritiene, pertanto, rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità dell'art. 2, comma 7-bis, del decreto-legge 7 aprile 2004 n. 97, comma aggiunto in sede di conversione, dalla legge 4 giugno 2004, n. 143, per violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione, nella parte in cui prevede la limitazione del beneficio dell'ulteriore proroga del termine per la maturazione del requisito sulla durata del servizio prestato «solo a favore di coloro che sono stati ammessi con riserva ai concorsi banditi con o.m. n. 1 del 2 gennaio 2001, con esclusione di coloro i quali [.] siano stati ammessi con riserva al concorso bandito con o.m. n. 153 del 1999, superandone l'esame finale». La norma in ques tione si porrebbe in contrasto con i parametri costituzionali evocati, dal momento che risulterebbe «irragionevole e contrario al buon andamento ed imparzialità dell'amministrazione» il trattamento differenziato che le ricorrenti verrebbero a subire rispetto a chi, pur vantando il medesimo requisito previsto dalla legge, avrebbe titolo al beneficio solo in forza della partecipazione alla sessione d'esami indetta con l'o.m. n. 1 del 2001, costituendo, quest'ultima, «solo una mera riapertura dei termini di partecipazione alle sessioni riservate» d'esame.

    3. - Con due distinte memorie, depositate entrambe in data 10 dicembre 2007, si sono costituite in giudizio le parti ricorrenti dei giudizi a quibus, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia accolta.

    3.1. - In particolare, le parti private, dopo aver ribadito la ricostruzione dei fatti operata dal TAR rimettente, osservano che la sessione di esami indetta con o.m. n. 1 del 2001 rappresenterebbe una mera riapertura dei termini di quella indetta con o.m. n. 153 del 1999 e successivamente modificata con o.m. n. 33 del 2000. Conseguentemente, la natura unitaria «della sessione di esami» prevista della legge n. 124 del 1999, realizzatasi in concreto con le citate ordinanze ministeriali, non consentirebbe di assoggettare a trattamenti differenziati i partecipanti alle singole procedure concorsuali che abbiano maturato il prescritto requisito di servizio.

    3.2. - Ad ulteriore supporto del dubbio di costituzionalità sollevato, la difesa delle ricorrenti deduce altresì che l'o.m. n. 1 del 2001 ha espressamente escluso dall'ammissione alla sessione di esami indetta in base a tale ordinanza il personale che avesse già partecipato ai corsi per il conseguimento dell'abilitazione o idoneità attivati ai sensi delle ordinanze ministeriali n. 153 del 1999 e n. 33 del 2000, sostenendo l'esame finale (art. 2, comma 3, o. m. n. 1 del 2001). Risulterebbe, pertanto, contrario al principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost. e ai criteri di buon andamento ed imparzialità dell'amministrazione (art. 97 Cost.) il trattamento differenziato che, in applicazione della disposizione censurata, verrebbe riservato alle ricorrenti rispetto a coloro ch e, pur essendo in possesso del medesimo requisito di servizio previsto dalla legge, avrebbero titolo al beneficio solo in forza della partecipazione alla sessione d'esami indetta con l'o.m. n. 1 del 2001, partecipazione che alle ricorrenti risultava espressamente vietata.

Considerato in diritto

    1. - Il Tribunale amministrativo regionale per la Toscana, con due distinte ordinanze di contenuto sostanzialmente identico, dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dell'art. 2, comma 7-bis, del decreto-legge 7 aprile 2004, n. 97 (Disposizioni urgenti per assicurare l'ordinato avvio dell'anno scolastico 2004-2005, nonché in materia di esami di Stato e di Università), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 4 giugno 2004, n. 143, nella parte in cui prevede la limitazione del beneficio dell'ulteriore proroga del termine per la maturazione del requisito sulla durata del servizio prestato «solo a favore di coloro che sono stati ammessi con riserva ai concorsi banditi con o.m. n. 1 del 2 gennaio 2001, con esclusione di coloro i quali [.] siano stati ammessi con riserva al concorso bandito con o.m. n. 153 del 1999 superandone l'esame finale».

    1.2. - Ad avviso del rimettente, la norma censurata si porrebbe in contrasto con i parametri costituzionali evocati, in quanto limiterebbe del tutto irragionevolmente il beneficio del differimento al 29 ottobre 2000 del termine per il computo del requisito sulla durata del servizio prestato solo a favore di coloro che abbiano partecipato alla procedura concorsuale attivata con ordinanza ministeriale 2 gennaio 2001, n. 1, anziché estenderlo anche a coloro che siano stati ammessi con riserva alla sessione riservata di esame indetta in base all'o.m. n. 153 del 1999.

    2. - Le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche quanto all'oggetto e ai parametri costituzionali evocati, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con un'unica decisione.

    2. - La questione è fondata.

    2.1. - L'istituzione della sessione riservata di esami cui fa riferimento la norma oggetto dello scrutinio di costituzionalità trova fondamento nella legge 3 maggio 1999, n. 124 (Disposizioni urgenti in materia di personale scolastico), diretta a consentire agli insegnanti precari − come già rilevato da questa Corte − «un accesso agevolato nelle neoistituite graduatorie permanenti» (sentenza n. 136 del 2006).

    L'art. 2, comma 4, della legge n. 124 del 1999 ha indicato fra i requisiti necessari per l'accesso a detta sessione quello dell'effettiva prestazione del servizio di insegnamento per almeno 360 giorni nel periodo compreso tra l'anno scolastico 1989-1990 e il 25 maggio 1999 (data di entrata in vigore della stessa legge n. 124 del 1999), di cui almeno 180 giorni a decorrere dall'anno scolastico 1994-1995.

    L'indizione della sessione riservata è stata disposta con l'ordinanza del Ministro della pubblica istruzione 15 giugno 1999, n. 153.

    Successivamente è intervenuta (ad integrazione e modificazione della precedente) l'ordinanza ministeriale 7 febbraio 2000, n. 33, con la quale è stata ammessa la partecipazione alla sessione riservata, indetta con l'ordinanza ministeriale n. 153 del 1999, anche per il conseguimento di più idoneità o abilitazioni all'insegnamento, consentendo agli interessati di presentare domanda per fruire delle nuove disposizioni entro il 27 aprile 2000.

    L'art. 1, comma 6-bis, del decreto-legge 28 agosto 2000, n. 240 (Disposizioni urgenti per l'avvio dell'anno scolastico 2000-2001), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 27 ottobre 2000, n. 306, ha altresì attribuito la possibilità di essere ammessi alla sessione riservata anche agli insegnanti precari che avessero maturato il requisito del servizio prestato entro il 27 aprile 2000. Lo stesso termine è stato, poi, riprodotto nell'art. 1 dell'ordinanza ministeriale 2 gennaio 2001, n. 1, rubricato «riapertura termini di partecipazione alle sessioni riservate».

    A coronamento di tale vicenda normativa, è intervenuto l'art. 2, comma 7-bis, del decreto-legge 7 aprile 2004, n. 97, che ha ulteriormente differito (al 29 ottobre 2000) il termine finale per la maturazione del requisito di servizio, limitando detto beneficio solo a favore di coloro che erano stati ammessi con riserva ai concorsi banditi con l'ordinanza ministeriale n. 1 del 2001.

    2.2. - Alla luce di tale evoluzione normativa, appare evidente il carattere unitario delle procedure concorsuali attivate sulla base delle ordinanze ministeriali n. 153 del 1999, n. 33 del 2000 e n. 1 del 2001, tutte espressive del medesimo criterio di reclutamento, introdotto dalla legge n. 124 del 1999, al fine di creare un percorso selettivo agevolato a beneficio di una determinata categoria di docenti.

    Conseguentemente, anche gli ulteriori differimenti del termine per il computo del requisito di servizio − intervenuti, dapprima, con l'art. 1, comma 6-bis, del d.l. n. 240 del 2000 e, da ultimo, con la disposizione censurata − partecipano della medesima ratio legis unitaria, confermata, d'altronde, dall'espresso divieto contenuto all'art. 2, comma 3, dell'ordinanza ministeriale n. 1 del 2001, di ammettere a tale ultima sessione riservata di esami il personale che avesse già partecipato ai corsi per il conseguimento dell'abilitazione o idoneità attivati ai sensi delle ordinanze ministeriali n. 153 del 1999 e n. 33 del 2000, sostenendo l'esame finale.

    2.3. − Anche nel presente giudizio deve essere ribadito quanto questa Corte ha già avuto modo di osservare proprio in relazione allo scrutinio di costituzionalità della norma contenuta nell'art. 1, comma 6-bis, del d.l. n. 240 del 2000, in tutto analoga a quella che oggi viene in considerazione, ossia che «la normativa inerente le sessioni riservate d'esame di idoneità o abilitazione all'insegnamento ha carattere eccezionale e di favore e quindi le singole disposizioni non possono essere estese al di là dei casi espressamente previsti a meno che le esclusioni che ne conseguono siano prive di giustificazioni e perciò irragionevoli» (sentenza n. 136 del 2004). Tuttavia, nel caso deciso con la sentenza appena richiamata, l'irragio nevolezza delle scelte operate dal legislatore aveva potuto essere esclusa in ragione della palese non omogeneità delle situazioni poste a raffronto dal giudice rimettente, venendo allora in considerazione la disciplina specifica concernente l'ammissione alle sessioni riservate di esami degli insegnanti delle accademie e dei conservatori di musica.

    Tale disomogeneità non è invece riscontrabile nel caso che oggi è posto all'esame di questa Corte, avendo esso ad oggetto esclusivamente la disciplina delle sessioni riservate indette per gli insegnanti delle scuole diverse dai conservatori e dalle accademie. La rilevata unitarietà di tale disciplina rende palesemente irragionevole la scelta del legislatore di assoggettare a trattamenti differenziati soggetti che, pur in possesso dei medesimi requisiti, si diversificherebbero esclusivamente per il dato formale di aver partecipato a procedure concorsuali attivate con ordinanze ministeriali differenti ma fondate su un unico contesto normativo di riferimento.

    Pertanto, va dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 7-bis, del decreto-legge 7 aprile 2004 n. 97 (Disposizioni urgenti per assicurare l'ordinato avvio dell'anno scolastico 2004-2005, nonché in materia di esami di Stato e di Università), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 4 giugno 2004, n. 143, nella parte in cui non prevede l'applicazione del beneficio dell'ulteriore proroga del termine per la maturazione del requisito sulla durata del servizio prestato anche a coloro i quali siano stati ammessi con riserva, superandone l'esame finale, ai concorsi banditi con le ordinanze ministeriali n. 153 del 1999 e n. 33 del 2000, emanate in attuazione della legge n. 124 del 1999.< /o:p>

      per questi motivi

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, comma 7-bis, del decreto-legge 7 aprile 2004 n. 97 (Disposizioni urgenti per assicurare l'ordinato avvio dell'anno scolastico 2004-2005, nonché in materia di esami di Stato e di Università), convertito in legge, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 4 giugno 2004, n. 143, nella parte in cui non prevede l'applicazione del beneficio dell'ulteriore proroga del termine per la maturazione del requisito sulla durata del servizio prestato anche a coloro i quali siano stati ammessi con riserva, superandone l'esame finale, ai concorsi banditi con le ordinanze ministeriali 15 giugno 1999, n. 153, e 7 febbraio 2000, n. 33, emanate in attuazione della legge 3 maggio 1999, n. 124.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Maria Rita SAULLE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 168

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Franco                    BILE         Presidente

-  Giovanni Maria            FLICK          Giudice

-  Francesco                 AMIRANTE          "

-  Ugo                       DE SIERVO         "

-  Paolo                     MADDALENA         "

-  Alfio                     FINOCCHIARO       "

-  Alfonso                   QUARANTA          "

-  Franco                    GALLO             "

-  Luigi                     MAZZELLA          "

-  Gaetano                   SILVESTRI         "

-  Sabino                    CASSESE           "

-  Maria Rita                SAULLE            "

-  Giuseppe                  TESAURO           "

-  Paolo Maria               NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi da 362 a 365 e 1284, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), promosso con ricorso della Regione Lombardia, notificato il 26 febbraio 2007, depositato in cancelleria il 7 marzo 2007 ed iscritto al n. 14 del registro ricorsi 2007.

    Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 1° aprile 2008 il Giudice relatore Franco Gallo;

    uditi l'avvocato Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Lombardia e l'avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

    1. - Con ricorso notificato il 26 febbraio 2007 e depositato il successivo 7 marzo, la Regione Lombardia ha promosso questioni di legittimità costituzionale di diverse disposizioni della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), tra cui i commi 362, 363, 364, 365 e 1284 dell'art. 1.

    1.1. - Il comma 362 dispone che il «maggiore gettito fiscale derivante dall'incidenza dell'imposta sul valore aggiunto sui prezzi di carburanti e combustibili di origine petrolifera, in relazione ad aumenti del prezzo internazionale del petrolio greggio, rispetto al valore di riferimento previsto nel Documento di programmazione economico-finanziaria per gli anni 2007-2011, è destinato, nel limite di 100 milioni di euro annui, alla costituzione di un apposito Fondo da utilizzare a copertura di interventi di efficienza energetica e di riduzione dei costi della fornitura energetica per finalità sociali».

    Tale fondo è istituito nello stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico ed ha, per il triennio 2007-2009, una dotazione iniziale di 50 milioni di euro annui (comma 363).

    Il successivo comma 364 stabilisce che le condizioni, le modalità e i termini per l'utilizzo della dotazione di detto Fondo sono stabiliti con «decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, da adottare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge». Il medesimo comma precisa, altresí, che il fondo deve essere destinato al finanziamento, da parte dei comuni, sia di interventi di carattere sociale «per la riduzione dei costi delle forniture di energia per usi civili a favore di clienti economicamente disagiati, anziani e disabili», sia, limitatamente ad una somma di 11 milioni di euro annui per il biennio 2008-2009, degli interventi di efficienza energetica previsti dai commi da 353 a 361 (e cioè ad interventi relativi, da un lato, alla sostituzione dei frigoriferi e dei congelatori, degli apparecchi di illuminazione utilizzati dalle attività commerciali, del parco apparecchi televisivi in vista del passaggio alla trasmissione con tecnica cosiddetta "digitale terrestre"; dall'altro, all'acquisto ed all'installazione di motori ad elevata efficienza di potenza elettrica e di variatori di velocità - inverter - su impianti aventi determinati requisiti tecnici).

    Il comma 365 prevede, infine che, «per dare efficace attuazione a quanto previsto al comma 364, sono stipulati accordi tra il Governo, le regioni e gli enti locali che garantiscano la individuazione o la creazione, ove non siano già esistenti, di strutture amministrative, almeno presso ciascun comune capoluogo di provincia, per la gestione degli interventi di cui al comma 364». Il comma 365 precisa altresí che i costi delle strutture amministrative a tal fine costituite «possono in parte essere coperti dalle risorse del Fondo di cui al comma 362».

    1.2. - Il comma 1284 prevede l'istituzione, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, di un fondo di solidarietà «finalizzato a promuovere il finanziamento esclusivo di progetti ed interventi, in ambito nazionale e internazionale, atti a garantire il maggior accesso possibile alle risorse idriche secondo il principio della garanzia dell'accesso all'acqua a livello universale». Detto comma istituisce altresí un contributo - che va a confluire nel medesimo fondo - pari a «0,1 centesimi di euro per ogni bottiglia di acqua minerale o da tavola in materiale plastico venduta al pubblico» e demanda l'indicazione delle modalità di funzionamento e di erogazione delle risorse del fondo ad u n «decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro degli affari esteri, sentito il parere delle competenti Commissioni parlamentari e della Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281». Infine, il medesimo comma 1284 autorizza il Ministro dell'economia e delle finanze ad emanare i regolamenti attuativi necessari.

    2. - Le questioni di legittimità costituzionale dei commi 362, 363, 364, 365 e 1284 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, sono state promosse dalla Regione ricorrente in riferimento (complessivamente) agli articoli 117, 118, 119 della Costituzione, ai princípi di ragionevolezza (art. 3 Cost.), di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.) e di leale collaborazione (art. 120 Cost.).

    2.1. - La ricorrente premette che: a) il Titolo V della Parte II della Costituzione, a séguito della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), «individua una stretta correlazione tra gli artt. 119 e 117»; b) in forza di tale relazione, «le funzioni pubbliche relative a materie di competenza regionale piena o concorrente debbono essere finanziate con le risorse proprie cui si riferisce l'art. 119, comma 4, della Costituzione»; b) la giurisprudenza costituzionale ha già affermato che «deve ritenersi preclusa la possibilità di interventi finanziari statali non coerenti con il vigente riparto di competenze tra Stato e regioni» ed, in particolare, «la previsione di fondi a destinazione vincolata, relativi ad ambiti di competenza regionale»; d) alla luce della medesima giurisprudenza, «il tipo di ripartizione delle materie fra Stato e regioni di cui all'art. 117 Cost. vieta comunque che in una materia di competenza legislativa regionale, in linea generale, si prevedano interventi finanziari statali seppur destinati a soggetti privati, poiché ciò equivarrebbe a riconoscere allo Stato potestà legislative e amministrative sganciate dal sistema costituzionale di riparto delle rispettive competenze» (sentenze n. 16 e n. 320 del 2004; n. 370 del 2003). Su tali premesse, la Regione deduce, con un primo motivo di censura, che i commi 362, 363, 364 e 365 víolano gli artt. 117, 118 e 119 Cost. ed il principio di leale collaborazione, perché - incidendo «in maniera inequivocabile» su un àmbito di competenza legislativa concorrente previsto dall'art. 117, terzo comma, Cost. («produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia») - non «contengono alcuna previsione relativa a forme di codeterminazione con la regione delle misure ivi contemplate», ed, in particolare, non prevedono «un'intesa "forte" con la Conferenza Stato-regioni». Da ciò consegue, per la Regione, una lesione dell'«autonomia finanziaria di entrata e di spesa» della Regione, non potendo detto fondo essere incluso nel complesso delle risorse che, secondo le norme costituzionali, devono consentire alle Regioni ed agli altri enti locali «di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite» (sentenza n. 423 del 2004). In particolare, secondo la ricorrente, tale fondo non può essere qualificato come un «intervento speciale» consentito dall'art. 119, quinto comma, Cost., perché i soggetti utilizzatori delle risorse ivi stanziate sono individuati nella generalità dei Comuni e non già in «determinati» Comuni, come richiesto da detta disposizione costituzionale (sentenza n. 16 del 2004).

    2.2. - Le previsioni impugnate - prosegue la Regione Lombardia, prospettando un secondo motivo di censura - si pongono, poi, «in esplicita contraddizione, rilevante [.] sotto il profilo del buon andamento dell'amministrazione e della ragionevolezza, con le disposizioni in tema di risparmio energetico che assegnano un ruolo cruciale alle regioni» (sentenza n. 133 del 2006).

    2.3. - La ricorrente deduce, quale terzo motivo di censura, che il comma 365 víola gli artt. 117 e 118 Cost. ed il principio di leale collaborazione, perché il medesimo comma - demandando a semplici accordi ex post la individuazione o la creazione di strutture amministrative per la gestione degli interventi di cui al comma 364 - si riferisce con tutta evidenza all'esercizio di funzioni amministrative di competenza regionale e quindi, in assenza di «forme partecipative ben piú intense, quali le "intese forti"», lede «con tutta evidenza» materie di competenze legislativa regionale, «in aperta lesione del riparto di competenze previsto dagli artt. 117 e 118 Cost.».

    2.4. - Con riguardo al comma 1284, la ricorrente deduce che detto comma víola gli artt. 117, 118 e 119 Cost., nonché il generale principio di leale collaborazione, perché quanto stabilisce un finanziamento nella materia di competenza legislativa residuale «acque minerali» senza prevedere un «pieno coinvolgimento» della Regione «attraverso lo strumento dell'intesa».

    2.5. - Secondo la Regione Lombardia, il medesimo comma 1284 lede i parametri suddetti (gli artt. 117, 118 e 119 Cost., nonché il generale principio di leale collaborazione) anche perché, «intervenendo in un settore di competenza residuale delle regioni» - e cioè, a suo avviso, nella materia "acque minerali" -, «istituisce un prelievo, senza prevedere, né sull'an né sul quantum, né sulla destinazione delle risorse, un coinvolgimento forte, almeno nella forma della intesa preventiva con la Conferenza Stato Città Regioni», della Regione, cosí come richiesto, sempre secondo la ricorrente, dalla giurisprudenza costituzionale sul punto (sentenza n. 213 del 2006; n. 242, n. 231 e n. 222, del 2005; n. 424 del 2004).

    3. - Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate infondate.

    Quanto alle censure relative ai commi 362, 363, 364 e 365, la difesa erariale afferma che la materia regolata da tali commi, date le finalità sociali dell'intervento legislativo, attiene alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e, pertanto, ad un àmbito rimesso alla potestà legislativa esclusiva statale dall'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. In subordine, il resistente eccepisce che, «quand'anche la qualificazione suggerita dalla ricorrente fosse corretta» - e cioè che i commi 362, 363, 364 e 365 attenessero alla materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia», di cui all'art. 117, terzo comma, Cost . -, nella fattispecie potrebbero ravvisarsi le condizioni perché lo Stato possa legittimamente "chiamare in sussidiarietà" l'esercizio delle funzioni regionali (sentenza n. 303 del 2003). Secondo l'Avvocatura, infatti: a) l'intervento non è sproporzionato né irragionevole; b) sussiste «un interesse generale per il quale è indispensabile la uniformità di regime in tutto il territorio nazionale»; c) «viene garantita la compartecipazione delle Regioni alle statuizioni che saranno concretamente adottate in materia per l'utilizzo della dotazione del fondo, con conseguente assicurazione della leale collaborazione». Inoltre - ricorda l'Avvocatura - gli stanziamenti ordinari di cui gode la Regione «non vengono minimamente intaccati» dall'istituzione del fondo, che utilizza risorse "nuove".

    Quanto alle censure relative al comma 1284, la difesa erariale afferma che la materia regolata da tale comma attiene alla «tutela dell'ambiente che l'art. 117, comma 2, lett. s) devolve alla competenza statale, ma, prima ancora, a diritti fondamentali, inviolabili e personalissimi da inquadrare nell'ambito dei principi fondamentali di cui all'art. 2 della Costituzione». Inoltre, stante l'esistenza di precisi obblighi internazionali, l'istituzione del fondo troverebbe titolo, secondo l'Avvocatura, nella competenza legislativa esclusiva statale in materia di "politica estera e rapporti internazionali dello Stato" (art. 117, primo comma, lettera a, Cost.).

    Infine, quanto alla dedotta violazione del principio di leale collaborazione, la difesa erariale rileva che il comma 1284 ha comunque previsto «il parere della Conferenza unificata».

    4. - In prossimità della pubblica udienza, la Regione Lombardia ha depositato una memoria in cui, ribadendo le argomentazioni già svolte, ha dato atto delle modifiche normative e della giurisprudenza costituzionale successive alla proposizione del ricorso (sentenze nn. 45 e 50 del 2008).

    In particolare, per quanto riguarda il «Fondo per la copertura di interventi di efficienza energetica e di riduzione dei costi della fornitura energetica per finalità sociali (commi 362, 363, 365, 365)», la Regione richiama la sentenza n. 1 del 2008, con cui la Corte costituzionale - pronunciandosi sulle «modalità di intervento nel settore della produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia» - «ha evidenziato come i relativi aspetti organizzativi, programmatori e gestori debbano essere determinati con il sostanziale coinvolgimento delle Regioni».

    Per quanto riguarda, invece, il fondo di solidarietà per il maggior accesso alle risorse idriche (comma 1284), la ricorrente ritiene che le sopraggiunte modifiche legislative della disposizione impugnata - sostituita ad opera dell'art. 2, comma 334, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008) - «non abbiano inciso in maniera significativa sulla struttura del Fondo di solidarietà per il maggior accesso alle risorse idriche, né abbiano comportato una riforma della disposizione impugnata tale da far venir meno l'oggetto delle censure mosse al comma 1284 nel ricorso introduttivo del presente giudizio».

Considerato in diritto

    1. - La Regione Lombardia ha promosso questioni di legittimità di numerose disposizioni dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007).

    Nell'àmbito di tali questioni, vanno separate quelle concernenti i commi da 362 a 365 e 1284 del citato art. 1, per le quali è opportuno procedere ad un esame distinto.

    2. - La ricorrente censura i commi da 362 a 365 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, nel loro complesso, in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione, nonché ai princípi di leale collaborazione, di buon andamento dell'amministrazione (art. 97 Cost.) e di ragionevolezza (art. 3 Cost.). Censura, altresí, specificamente il comma 365, sotto un diverso profilo, in riferimento agli stessi artt. 117 e 118 Cost., nonché al principio di leale collaborazione.

    I denunciati commi 362, 363, 364 e 365 istituiscono e disciplinano un fondo, nell'àmbito dello stato di previsione del Ministero dello sviluppo economico, destinato al finanziamento di «interventi di efficienza energetica e di riduzione dei costi della fornitura energetica per finalità sociali» nel limite di 100 milioni di euro annui (comma 362). Il fondo ha una dotazione iniziale di 50 milioni di euro annui per il «triennio 2007-2009» (comma 363) ed è utilizzato sia per interventi di carattere sociale, da parte dei Comuni, aventi ad oggetto «la riduzione dei costi delle forniture di energia per usi civili a favore di clienti economicamente disagiati, anziani e disabili», sia, limitatamente ad una somma di 11 milioni di euro annui relativa al biennio 2008 -2009, per gli interventi di efficienza energetica previsti dai commi da 353 a 361 del medesimo art. 1 della legge n. 296 del 2006 (comma 364). In particolare, il comma 365 stabilisce che «Per dare efficace attuazione a quanto previsto al comma 364, sono stipulati accordi tra il Governo, le regioni e gli enti locali che garantiscano la individuazione o la creazione, ove non siano già esistenti, di strutture amministrative, almeno presso ciascun comune capoluogo di provincia, per la gestione degli interventi di cui al comma 364, i cui costi possono in parte essere coperti dalle risorse del Fondo di cui al comma 362».

    3. - Secondo la ricorrente, i commi censurati víolano, nel loro complesso: a) gli artt. 117, terzo comma, e 119 Cost., perché detto fondo - in quanto incide nella materia della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia», di competenza legislativa concorrente - lede «l'autonomia finanziaria di entrata e di spesa» della Regione, non potendo essere incluso nel complesso delle risorse che devono consentire alle Regioni ed agli altri enti locali «di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite»; b) gli artt. 117, 118 e 119 Cost. e il principio di leale collaborazione, perché non «contengono alcuna previsione relativa a forme di codeterminazione con la regione delle misure ivi contemplate» ed, in particolare, non prevedono «un'intesa "forte" con la Conferenza Stato-regioni»; c) il principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. e il principio di buon andamento della pubblica amministrazione di cui all'art. 97 Cost., perché «si pongono in esplicita contraddizione [.] con le disposizioni in tema di risparmio energetico che assegnano un ruolo cruciale alle regioni».

    3.1. - Le questioni promosse in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. sono inammissibili, per genericità della prospettazione.

    Il ricorso, infatti, è privo di motivazione in punto di non manifesta infondatezza, perché non indica le ragioni per le quali l'asserita violazione di tali parametri costituzionali - i quali non afferiscono al riparto delle competenze tra Stato e Regioni - ridonderebbe in una lesione di competenze costituzionali della Regione ricorrente, lesione che, sola, potrebbe legittimare l'evocazione di detti parametri (ex plurimis, sentenze n. 50 del 2008 e n. 430 del 2007).

    3.2. - Nel merito, le questioni relative ai commi 362, 363, 364 e 365, promosse in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 Cost. ed al principio di leale collaborazione, vanno interpretate come aventi ad oggetto i soli commi da 362 a 364, perché, in concreto, le sollevate censure non prendono in considerazione il comma 365, denunciato sotto altri profili che saranno esaminati successivamente.

    Tali censure sono parzialmente fondate.

    3.2.1. - Questa Corte ha piú volte affermato che l'art. 119 Cost. vieta al legislatore statale di prevedere, in materie di competenza legislativa regionale residuale o concorrente, nuovi finanziamenti a destinazione vincolata, anche a favore di soggetti privati. Tali misure, infatti, «possono divenire strumenti indiretti, ma pervasivi, di ingerenza dello Stato nell'esercizio delle funzioni delle Regioni e degli enti locali, nonché di sovrapposizione di politiche e di indirizzi governati centralmente a quelli legittimamente decisi dalle Regioni negli ambiti materiali di propria competenza» (ex multis, sentenze nn. 63, 50 e 45 del 2008; n. 137 del 2007; n. 160, n. 77 e n. 51 del 2005).

    La Corte ha, inoltre, precisato che il titolo di competenza statale che permette l'istituzione di un fondo con vincolo di destinazione non deve necessariamente identificarsi con una delle materie espressamente elencate nel secondo comma dell'art. 117 Cost., ma può consistere anche nel fatto che detto fondo incida su materie oggetto di "chiamata in sussidiarietà" da parte dello Stato, ai sensi dell'art. 118, primo comma, Cost.; il che si verifica quando sia necessario attribuire con legge funzioni amministrative a livello centrale, per esigenze di carattere unitario, e regolare al tempo stesso l'esercizio di tali funzioni - nel rispetto dei princípi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza - mediante una d isciplina «che sia logicamente pertinente e che risulti limitata a quanto strettamente indispensabile a tali fini» (sentenza n. 6 del 2004, nonché, ex plurimis, sentenze n. 155 e n. 31 del 2005; n. 303 del 2003).

    Ha ulteriormente precisato che, nel caso in cui un fondo istituito con legge statale incida su àmbiti non riconducibili ad un'unica materia, devono distinguersi due ipotesi. Se una materia è nettamente prevalente sulle altre, essa determina la competenza legislativa e, qualora questa sia statale, determina anche la legittimità del fondo con vincolo di destinazione. Se, invece, non vi è una materia sicuramente prevalente, riconducibile alla competenza dello Stato, si applica il principio di leale collaborazione, che impone alla legge statale di predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni, a salvaguardia delle loro com petenze (sentenze n. 63 e n. 50 del 2008; n. 201 del 2007; n. 211 e n. 133 del 2006); strumenti che possono assumere, rispettivamente, la forma di intese o pareri, a seconda del maggiore o minore impatto dell'intervento finanziario statale sulle competenze regionali (sentenza n. 6 del 2004).

    3.2.2. - La legittimità del fondo disciplinato dai commi impugnati deve essere valutata alla luce dei criteri sopra esposti. È necessario, perciò, procedere alla previa individuazione delle materie su cui le disposizioni impugnate effettivamente incidono.

    Come si è osservato, i menzionati commi da 362 a 364 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006 prevedono l'istituzione di un fondo da destinare al finanziamento di una pluralità di interventi: alcuni, di carattere sociale, relativi alla riduzione dei costi delle forniture di energia per usi civili a favore di clienti economicamente disagiati, anziani e disabili; altri, limitatamente alla somma di 11 milioni di euro annui per il biennio 2008-2009, concernenti le specifiche misure di efficienza energetica previste dai commi da 353 a 361 del medesimo art. 1. Questi ultimi interventi, in particolare, sono finalizzati alla riduzione dei consumi energetici e riguardano: a) la sostituzione dei frigoriferi e dei congelatori (comma 353), degli apparecchi di illuminazione utilizzati dai soggetti esercenti attività d'impresa rientrante nel settore del commercio (comma 354), nonché del parco apparecchi televisivi in vista del passaggio alla trasmissione con tecnica "digitale terrestre" (comma 357); b) l'acquisto e l'installazione di motori ad elevata efficienza di potenza elettrica (comma 358) e di variatori di velocità - inverter - su impianti aventi determinati requisiti tecnici (comma 359).

    3.2.3. - Secondo la difesa erariale, la materia regolata dai commi in esame appartiene alla competenza legislativa statale, perché: a) in via principale, stanti le finalità sociali dell'intervento legislativo, attiene alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e, dunque, ad un àmbito rimesso alla potestà legislativa esclusiva statale dall'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost.; b) in via subordinata, anche nel caso in cui i commi da 362 a 365 attenessero - come sostenuto dalla ricorrente - alla materia «produzi one, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia» di cui all'art. 117, terzo comma, Cost., sussisterebbero comunque le condizioni perché lo Stato possa legittimamente "chiamare in sussidiarietà" l'esercizio delle funzioni regionali.

    Tali assunti non possono essere condivisi.

    Quanto al primo, va premesso che, secondo la giurisprudenza costituzionale in tema di art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. «l'attribuzione allo Stato della competenza esclusiva e trasversale di cui alla citata disposizione costituzionale si riferisce alla determinazione degli standard strutturali e qualitativi di prestazioni che, concernendo il soddisfacimento di diritti civili e sociali, devono essere garantiti, con carattere di generalità, a tutti gli aventi diritto» (sentenza n. 50 del 2008; nello stesso senso, sentenze n. 387 del 2007 e n. 248 del 2006). Le norme censurate in esame, invece, non determinano alcun livello di prestazione, ma prevedono soltanto meri finanziamenti di spesa e, pertanto, non possono trovare il loro fondamento costituzionale nella citata lettera m) dell'art. 117, secondo comma, Cost.

    Quanto al secondo assunto, va rilevato che, nel caso di specie, la finalità di operare interventi volti al risparmio energetico - finalità che, peraltro, connota solo alcuni degli interventi finanziati dal fondo - non sottende un'esigenza di esercizio unitario, a livello statale, delle funzioni amministrative tramite cui detta finalità trova attuazione, essendo ben possibili interventi di risparmio energetico mirati alle specifiche realtà regionali e, dunque, frutto di autonome decisioni delle singole Regioni nell'àmbito dei princípi fondamentali della materia stabiliti dalla legge dello Stato. Non sussistono, pertanto, le condizioni per l'invocata "chiamata in sussidiarietà."

    3.2.4. - Ciò posto, deve rilevarsi che il fondo in esame, che ha natura unitaria e indivisa, è destinato alla copertura di interventi diversi a seconda degli anni di riferimento. In particolare, per l'anno 2007, esso ha una dotazione di 50 milioni di euro destinati esclusivamente alla «riduzione dei costi della fornitura energetica per finalità sociali» (comma 363). Per il biennio 2008-2009 esso ha una dotazione di 50 milioni di euro annui destinati alla copertura di interventi: a) «per la riduzione dei costi delle forniture di energia per usi civili a favore di clienti economicamente disagiati, anziani e disabili», nel limite di 39 milioni di euro annui; b) di efficienza energetica di cui ai menzionati commi da 353 a 361 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, nel limite di 11 milioni di euro annui (comma 364). Per gli anni successivi al 2009, per i quali è prevista una dotazione «nel limite di 100 milioni di euro annui», il censurato comma 362 stabilisce che il fondo è utilizzato a copertura di «interventi di efficienza energetica e di riduzione dei costi della fornitura energetica per finalità sociali».

    Lo scrutinio di costituzionalità deve essere condotto distintamente per ciascuno dei suddetti periodi.

    3.2.4.1. - Per quanto riguarda l'anno 2007, il fondo incide esclusivamente su una materia di competenza legislativa regionale. Esso finanzia, infatti, interventi, di carattere sociale, relativi alla riduzione dei costi delle forniture di energia per usi civili a favore di clienti economicamente disagiati, anziani e disabili (commi 363 e 364), ed interviene, perciò, nella materia, di potestà legislativa residuale delle Regioni, dei "servizi sociali", inerendo ad attività riguardanti la «predisposizione ed erogazione di servizi, gratuiti e a pagamento, o di prestazioni economiche destinate a rimuovere e superare le situazioni di bisogno e di difficoltà che la persona umana incontra nel corso della sua vita» (sentenza n. 50 del 2008).

    Con riferimento a tale anno, pertanto, la questione è fondata, non sussistendo alcun titolo di competenza esclusiva statale che giustifichi il vincolo di destinazione del fondo in tale materia. Il censurato combinato disposto dell'articolo 1, commi 362, 363 e 364, della legge n. 296 del 2006 è, dunque, lesivo dell'autonomia finanziaria e legislativa delle Regioni, nella parte in cui, per l'anno 2007, pone il vincolo di destinazione specifica del fondo per interventi di riduzione dei costi della fornitura energetica per finalità sociali e dispone che, per il medesimo anno, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, sono stabiliti le condizioni, le modalità e i termini per l'utilizzo della d otazione del fondo stesso. Da tale pronuncia di illegittimità costituzionale consegue che a ciascuna Regione dovrà essere assegnata genericamente, per il perseguimento di finalità sociali, la quota parte del fondo loro spettante, senza il suindicato vincolo di destinazione specifica (sentenze n. 118 del 2006 e n. 423 del 2004).

    3.2.4.2. - Per il biennio 2008-2009, in forza del denunciato comma 364, il suddetto fondo interviene su una pluralità di materie riconducibili sia alla competenza legislativa statale sia a quella regionale.

    In particolare, nella misura in cui il fondo finanzia riduzioni dei costi della fornitura energetica per finalità sociali («riduzione dei costi delle forniture di energia per usi civili a favore di clienti economicamente disagiati, anziani e disabili»), esso interviene, come si è rilevato, nella materia dei "servizi sociali", di potestà legislativa residuale delle Regioni. Per la parte in cui il fondo finanzia, invece, interventi concernenti le specifiche misure di efficienza energetica previste dai citati commi 353, 354, 358 e 359 (e dalle strumentali previsioni attuative di cui ai commi 355, 356 e 360) del medesimo art. 1 della legge n. 296 del 2006, esso interviene nella materia, di potestà legislativa concorrente, della «produzione, trasporto e distri buzione nazionale dell'energia», che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, deve essere interpretata in senso ampio (sentenze n. 383 del 2005; nn. 8, 7 e 6 del 2004) e, dunque, anche nel senso di ricomprendere interventi di efficienza energetica. Nella misura, poi, in cui il medesimo fondo finanzia interventi concernenti l'acquisto di apparecchi televisivi dotati di decoder in vista del passaggio alla trasmissione con tecnica "digitale terrestre" (commi 357 e 361), esso interviene in un àmbito nel quale, secondo la sentenza n. 151 del 2005, vengono in rilievo una pluralità di materie e interessi particolarmente qualificati, riconducibili alla competenza legislativa esclusiva o concorrente dello Stato (nello stesso senso anche le sentenze n. 312 del 2003 e n. 29 del 1996). In tale situazione, l'evidente esigenza di un esercizio unitario delle funzioni amministrative relative alla diffusione, in tutto il territorio nazionale, della suddetta tecnica di trasmissione televisiva giustifica l'assunzione diretta di dette funzioni da parte dello Stato, nella forma dell'erogazione di un contributo economico in favore degli utenti.

    Cosí individuati gli àmbiti di competenza per materia su cui il fondo interviene, questa Corte ritiene che la peculiarità dei diversi e non omogenei interessi sottesi alle suddette competenze e funzioni non consente, nella specie, di riscontrare una competenza legislativa statale o regionale sicuramente prevalente sulle altre. Si configura, dunque, un'ipotesi in cui, secondo la richiamata giurisprudenza di questa Corte, è necessario fare applicazione del principio di leale collaborazione, che impone alla legge statale di predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni, a salvaguardia delle loro competenze.

    Su queste premesse, va osservato che il fondo unitario disciplinato dalle norme censurate, pur essendo destinato a soddisfare anche l'interesse dello Stato all'attuazione del pluralismo informativo esterno, ha tuttavia un forte impatto sulle competenze legislative regionali nelle materie dei servizi sociali e della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia». La rilevanza di questo impatto è tale da imporre al legislatore statale di stabilire la destinazione ed effettuare il riparto delle risorse tra i diversi interventi adottando, quale adeguato strumento di coinvolgimento delle Regioni, l'intesa "forte" (sentenza n. 6 del 2004). In particolare, dovrà essere oggetto di intesa anche la determinazione della quota del fondo da utilizzare per finalità sociali e di quella da utilizzare per finalità di efficienza energetica, senza che possano valere i limiti, rispettivamente di 39 milioni di euro e di 11 milioni di euro annui, unilateralmente posti dal legislatore statale con le norme censurate.

    Ne consegue che il comma 364 - il quale prevede che «Con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, da adottare entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, sono stabiliti le condizioni, le modalità e i termini per l'utilizzo della dotazione del Fondo di cui al comma 362, da destinare al finanziamento di interventi di carattere sociale, da parte dei comuni, per la riduzione dei costi delle forniture di energia per usi civili a favore di clienti economicamente disagiati, anziani e disabili e, per una somma di 11 milioni di euro annui per il biennio 2008-2009, agli interventi di efficienza energetica di cui ai commi da 353 a 361» - deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo: a) nella parte in cui non contiene, dopo le parole «da adottare», le parole «d'intesa con la Conferenza unificata» (attualmente disciplinata dall'art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281); b) nella parte in cui contiene l'inciso: «per una somma di 11 milioni di euro annui per il biennio 2008-2009».

    3.2.4.3. - Negli anni successivi al 2009, per i quali è prevista una dotazione «nel limite di 100 milioni di euro annui», il censurato comma 362 stabilisce che il fondo è utilizzato indistintamente a copertura di «interventi di efficienza energetica e di riduzione dei costi della fornitura energetica per finalità sociali» e, quindi, di interventi che - come già rilevato con riguardo al biennio 2008-2009 - incidono su piú materie, riconducibili sia alla competenza legislativa statale che a quella regionale. Valgono, pertanto, le considerazioni di cui al punto precedente e, conseguentemente, deve dichiararsi l'illegittimità costituzionale del comma in esame, nella parte in cui, in riferimento agli anni successivi al 2009, non prevede l'intesa con l'indicata Conferenza unificata per determinare la concreta destinazione di tali finanziamenti.

    3.2.5. - La dichiarazione di parziale illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 364, della legge n. 296 del 2006 per violazione del principio di leale collaborazione comporta - ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 - la dichiarazione di illegittimità costituzionale consequenziale del comma 356 del medesimo art. 1. E ciò, per le seguenti ragioni.

    Il comma 356 fissa, per il finanziamento degli interventi di efficienza energetica per l'illuminazione indicati dai commi 354 e 355, il limite di 11 milioni di euro per ciascuno degli anni 2008 e 2009, «a valere sulle risorse del Fondo di cui al comma 362», senza prevedere - al pari del comma 364 - alcuna forma di coinvolgimento della Regione. Tuttavia, gli stessi interventi sono posti a carico del medesimo fondo anche dal successivo comma 364, il quale appunto stabilisce il limite - già dichiarato costituzionalmente illegittimo - di 11 milioni di euro annui per il biennio 2008-2009 per tutti gli interventi di efficienza energetica di cui ai commi da 353 a 361 e, quindi, anche per quel li di cui ai commi 354 e 355, richiamati dal comma 356.

    La ricomprensione di questi ultimi interventi nella piú ampia categoria di quelli disciplinati dal comma 364, impone, quindi, di estendere la pronuncia di illegittimità costituzionale del comma 364 al comma 356.

    Vale, infatti, anche per il comma 356, la ragione posta a fondamento della dichiarata illegittimità costituzionale del combinato disposto dei commi 362, 363 e 364 e, cioè, il fatto che il fondo ha natura unitaria e interviene su una pluralità di materie che non consente di riscontrare una competenza statale o regionale sicuramente prevalente. Anche la determinazione della quota del fondo da utilizzare per gli interventi di efficienza energetica per l'illuminazione nel biennio 2008-2009 deve essere, pertanto, oggetto di intesa  con le Regioni. Di conseguenza, la disposizione in esame - secondo la quale «All'onere di cui ai commi 354 e 355, pari a 11 milioni di euro per ciascuno degli anni 2008 e 2009, si provvede a valere sulle risorse del Fondo di cui al comma 362» - deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima: a) nella parte in cui non contiene, dopo le parole «si provvede», le parole «d'intesa con la Conferenza unificata» (attualmente disciplinata dall'art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281); b) nella parte in cui contiene l'inciso: «pari a 11 milioni di euro».

    4. - La ricorrente censura in modo specifico il comma 365 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, perché tale disposizione: 1) víola gli artt. 117 e 118 Cost., in quanto incide sull'esercizio di funzioni amministrative di competenza regionale; 2) comunque, víola il principio di leale collaborazione, in quanto demanda a «semplici accordi ex post» e non a «forme partecipative ben piú intense, quali le "intese forti"», l'individuazione o la creazione di strutture amministrative per la gestione degli interventi di cui al comma 364.

    Le questioni non sono fondate.

    La disposizione in esame, infatti, non riguarda solo materie di competenza della Regione, ma anche materie di competenza esclusiva dello Stato. Essa ha ad oggetto l'organizzazione amministrativa della gestione degli interventi a carico del fondo e, pertanto, opera nelle stesse materie su cui incide il fondo, e cioè in materie di competenza esclusiva dello Stato ovvero residuale o concorrente delle Regioni, senza che nessuna di esse possa considerarsi sicuramente prevalente (come già osservato al punto 3.2.4.2.).

    Inoltre, il denunciato comma 365 già contempla un "accordo" tra i soggetti coinvolti nella gestione dei suddetti interventi, tale da soddisfare pienamente le esigenze della leale collaborazione prospettate dalla ricorrente. Come sopra ricordato, l'accordo interviene, infatti, in un contesto caratterizzato dalla coesistenza di materie di competenza dello Stato e delle Regioni, nonché da un forte impatto della disciplina statale su specifiche funzioni regionali e locali. Situazione questa che impone di interpretare detto accordo come "intesa forte", in quanto solo questa modalità di partecipazione collaborativa consente un'adeguata composizione dei rilevanti e diversificati interessi sottesi alla suddetta pluralità di materie.

    5. - La ricorrente censura, sotto il profilo della violazione degli artt. 117, 118 e 119 Cost., nonché del principio di leale collaborazione, il comma 1284 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006.

    Detto comma, nel denunciato testo originario: a) istituisce, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, un fondo di solidarietà «finalizzato a promuovere il finanziamento esclusivo di progetti ed interventi, in ambito nazionale e internazionale, atti a garantire il maggior accesso possibile alle risorse idriche secondo il principio della garanzia dell'accesso all'acqua a livello universale»; b) istituisce un contributo - che va a confluire nel medesimo fondo - pari a «0,1 centesimi di euro per ogni bottiglia di acqua minerale o da tavola in materiale plastico venduta al pubblico»; c) demanda l'indicazione delle modalità di funzionamento e di erogazione delle risorse del fondo ad un «decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro degli affari esteri, sentito il parere delle competenti Commissioni parlamentari e della Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281»; d) demanda, altresí, al Ministro dell'economia e delle finanze l'emanazione dei regolamenti attuativi necessari.

    Secondo la ricorrente, la disposizione impugnata lede gli evocati parametri costituzionali, perché, intervenendo nella materia "acque minerali", e cioè «in un settore di competenza residuale delle regioni»: a) stabilisce un finanziamento con vincolo di destinazione senza che vi sia un «pieno coinvolgimento» della Regione «attraverso lo strumento dell'intesa»; b) «istituisce un prelievo, senza prevedere, né sull'an né sul quantum, né sulla destinazione delle risorse, un coinvolgimento forte, almeno nella forma della intesa preventiva con la Conferenza Stato Città Regioni», della Reg ione.

    In proposito, va preliminarmente rilevato che, successivamente alla proposizione del ricorso, l'impugnato comma 1284 è stato sostituito, con effetto dal 1° gennaio 2008, dai commi 1284, 1284-bis e 1284-ter, introdotti dal comma 334 dell'art. 2 della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008). Tuttavia, il resistente Presidente del Consiglio non ha dedotto che il denunciato comma 1284 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, nel testo originario, non ha mai avuto applicazione. Ne consegue che non vi sono elementi per dichiarare cessata la materia del contendere, per effetto del suddetto ius superveniens, in o rdine alle due censure in esame, le quali, pertanto, debbono essere esaminate nel merito.

    5.1. - Con la prima censura, la ricorrente lamenta, come si è visto, la violazione del principio di leale collaborazione per la mancata previsione di un'intesa con la Regione.

    La censura è, nella sostanza, fondata.

    Al riguardo, va rilevato che il fondo de quo non interviene né nella materia, indicata dalla ricorrente, «acque minerali e termali», di competenza legislativa residuale delle Regioni, né in quella, indicata dalla difesa erariale, dei «diritti fondamentali, inviolabili e personalissimi», riconducibile - secondo la medesima difesa erariale - alla competenza esclusiva dello Stato. Esso interviene, invece, in un plesso di altre materie attribuite dalla Costituzione alla potestà legislativa statale e regionale, senza che sia individuabile un àmbito materiale che possa considerarsi sicuramente prevalente sugli altri.

    In particolare, deve escludersi che a carico del fondo in esame siano previsti finanziamenti a destinazione vincolata nella materia «acque minerali e termali», di competenza legislativa residuale delle Regioni. Al contrario, come si è già osservato, detto fondo è espressamente «finalizzato a promuovere il finanziamento esclusivo di progetti ed interventi, in ambito nazionale e internazionale, atti a garantire il maggior accesso possibile alle risorse idriche secondo il principio della garanzia dell'accesso all'acqua a livello universale». Tali progetti, proprio perché diretti a garantire il maggior accesso possibile alle risorse idriche, non si riferiscono alle acque minerali e termali, per le quali invece, almeno in àmbito nazionale, è previsto un regime regolamentato e limitato di accesso. Le "acque minerali" rilevano, nella norma censurata, solo per il finanziamento del fondo, realizzato mediante la confluenza in esso del contributo dovuto «per ogni bottiglia di acqua minerale o da tavola in materiale plastico venduta al pubblico» (secondo periodo del comma 1284, nel testo originario), e, dunque, per un profilo del tutto estraneo a quello del titolo di competenza all'istituzione di un fondo con vincolo di destinazione.

    Deve, poi, escludersi che il fondo attenga ad un'asserita «materia dei diritti fondamentali, inviolabili e personalissimi da inquadrare nell'ambito dei principi fondamentali di cui all'art. 2 della Costituzione», che, secondo la difesa erariale, spetterebbe alla competenza esclusiva dello Stato. Va, infatti, ricordato che «i suddetti diritti, di natura costituzionale, non rappresentano [.] una materia in senso tecnico, come tale riconducibile ad una specifica competenza dello Stato o delle Regioni, ma costituiscono situazioni soggettive le quali possono eventualmente inerire ad ambiti materiali contemplati dall'art. 117, nei commi secondo, terzo e quarto, della Costituzione» (sentenza n. 50 del 2008).

    Il fondo in esame, invece, ha un àmbito di intervento complesso, riguardando una pluralità di materie, tra le quali, in particolare, quelle: a) della «tutela dell'ambiente», di competenza esclusiva statale (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.), in quanto, avendo il fine di finanziare progetti diretti a favorire l'accesso alle risorse idriche, incide sulle interazioni e gli equilibri fra le diverse componenti della "biosfera" e, quindi, dell'ambiente, inteso «come "sistema" [.] nel suo aspetto dinamico» (sentenze n. 378 e n. 144 del 2007); b) della «cooperazione internazionale», ricompresa - come ribadito da questa Corte con la sentenza n. 211 del 2006 - nella materia «politica estera nazionale», di competenza esclusiva dello Stato (art. 117, secondo comma, lettera a, Cost.), in quanto è diretto a finanziare progetti destinati a offrire vantaggi socio-economici alle popolazioni e agli Stati beneficiari e, quindi, anche in àmbito internazionale; c) della «tutela della salute», dell'«alimentazione» e del «governo del territorio», tutte di competenza regionale concorrente (art. 117, terzo comma, Cost.), in quanto finanzia progetti che incidono sia sulla qualità e quantità delle acque destinate al consumo umano, al fine di proteggere la salute e di consentire un'adeguata alimentazione delle popolazioni, sia sulla corretta programmazione degli insediamenti nel territorio e di opere finalizzate alla fruizione delle risorse idriche.

    Le disposizioni censurate, dunque, istituiscono un fondo di natura unitaria ed indivisa, la cui disciplina si pone all'incrocio di materie attribuite dalla Costituzione alla potestà legislativa statale e regionale, senza che nessuna di tali materie possa considerarsi nettamente prevalente sulle altre. Poiché, secondo la richiamata giurisprudenza di questa Corte, in tale ipotesi la concorrenza di competenze giustifica l'applicazione del principio di leale collaborazione, ne consegue che il denunciato comma 1284, nel testo originario, deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui prevede che le modalità di funzionamento e di erogazione delle risorse del fondo sono indicate «Con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro degli affari esteri, sentito il parere delle competenti Commissioni parlamentari e della Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281», anziché «Con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro degli affari esteri, da adottare d'intesa con la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sentito il parere delle competenti Commissioni parlamentari».

    5.2. - Con la seconda censura, la ricorrente afferma che il comma 1284 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, víola gli artt. 117, 118 e 119 Cost., nonché il principio di leale collaborazione, perché detta disposizione istituisce «un prelievo, senza prevedere, né sull'an né sul quantum, né sulla destinazione delle risorse, un coinvolgimento forte» della Regione.

    La censura non è fondata.

    Al di là del nomen juris utilizzato («contributo»), la norma statale denunciata istituisce un prelievo che ha le caratteristiche essenziali dell'imposizione tributaria, e cioè «la doverosità della prestazione e il collegamento di questa ad una pubblica spesa» (sentenze n. 64 del 2008; n. 334 del 2006; n. 73 del 2005). Il «contributo» previsto dal comma 1284 va qualificato, pertanto, come "tributo proprio" dello Stato (per tale nozione, ex plurimis, sentenze n. 102 del 2008 e n. 451 del 2007), con la conseguenza che detto comma risulta emanato nell'esercizio della competenza legislativa esclusiva statale in materia di «sistema tributario [.] dello Stato», prevista dall'art. 117, secondo comma, lettera e< /I>), Cost., senza che sia necessaria alcuna previa intesa con le Regioni.

    6. - Come sopra rilevato, l'impugnato comma 1284 è stato sostituito, con effetto dal 1° gennaio 2008, dai commi 1284, 1284-bis e 1284-ter, introdotti dal comma 334 dell'art. 2 della legge n. 244 del 2007, recanti una disciplina sostanzialmente identica (salvo alcuni dettagli non rilevanti ai fini del presente giudizio) a quella sostituita. Si pone pertanto il quesito se le censure prospettate dalla ricorrente possano ritenersi estese a detto ius superveniens. Questa Corte ritiene che al quesito debba darsi risposta positiva.

    6.1. - Il novellato comma 1284 istituisce «un fondo di solidarietà, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, finalizzato a promuovere il finanziamento esclusivo di progetti e interventi, in ambito nazionale e internazionale, atti a garantire il maggior accesso possibile alle risorse idriche secondo il principio della garanzia dell'accesso all'acqua a livello universale». Tale fondo «è alimentato dalle risorse di cui al comma 1284-ter», mentre «le modalità di funzionamento e di erogazione delle risorse del fondo» sono stabilite «Con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministro degli affari esteri, sentito il parere delle competenti Commissioni parlamentari e della Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni».

    Il comma 1284-bis, al fine di «tutelare le acque di falda, di favorire una migliore fruizione dell'acqua del rubinetto, di ridurre il consumo di acqua potabile e la produzione di rifiuti, nonché le emissioni di anidride carbonica», istituisce nello stato di previsione del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare «un fondo a favore della potabilizzazione, microfiltrazione e dolcificazione delle acque di rubinetto, del recupero delle acque meteoriche e della permeabilità dei suoli urbanizzati». Anche quest'ultimo fondo «è alimentato, nel limite di 5 milioni di euro, per ciascuno degli anni 2008, 2009 e 2010, dalle maggiori entrate di cui al comma 1284-ter», mentre «gli interventi ai quali sono destinati i contributi a v alere sul fondo medesimo» sono individuati «Con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare».

    Il comma 1284-ter, infine: a) istituisce «un contributo di 0,5 centesimi di euro per ogni bottiglia di acqua minerale o da tavola in materiale plastico venduta al pubblico»; b) dà una definizione della locuzione «materiale plastico»; c) ripartisce le entrate derivanti dal medesimo contributo, destinandole «per un decimo ad alimentare il fondo di cui al comma 1284 e per nove decimi ad alimentare il fondo di cui al comma 1284-bis».

    Dal testo delle disposizioni sopravvenute risulta con tutta evidenza che esse riproducono, nella sostanza, la norma già censurata dalla ricorrente, in quanto continuano a prevedere sia l'istituzione del fondo finalizzato a promuovere progetti nazionali ed internazionali atti «a garantire il maggior accesso possibile alle risorse idriche», sia l'istituzione del contributo - che va a confluire nel medesimo fondo - gravante su «ogni bottiglia di acqua minerale o da tavola in materiale plastico venduta al pubblico». Viene modificata solo la misura del contributo ed esclusa l'emanazione dei regolamenti attuativi del Ministro dell'economia e delle finanze, previsti nel testo originario del comma 1284. Per quanto qui rileva, dunque, anche il nuovo testo del comm a 1284 non prevede alcuna intesa con le Regioni in ordine all'utilizzazione del fondo.

    6.2. - Secondo la giurisprudenza di questa Corte, il principio di effettività della tutela costituzionale delle parti nei giudizi in via di azione non tollera che, attraverso l'uso distorto della potestà legislativa, uno dei contendenti possa introdurre nel corso del giudizio di costituzionalità, una proposizione normativa di contenuto sostanzialmente identico a quella impugnata, ottenendo l'effetto pratico di vanificare l'eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale di quest'ultima. Si impone pertanto, in simili casi, l'estensione della questione alla norma che, sebbene posta da un atto legislativo diverso da quello oggetto di impugnazione, sopravvive nel suo sostanzialmente immutato contenuto precettivo (sentenza n. 533 del 2002). Nella speci e, ricorrono tali condizioni e, pertanto, le censure proposte nei confronti del testo originario debbono ritenersi trasferite ai vigenti commi 1284, 1284-bis e 1284-ter.

    6.3. - Di conseguenza, la pronuncia di illegittimità costituzionale dell'originario testo del comma 1284 va estesa, per le stesse ragioni e negli stessi limiti sopra visti, al nuovo testo dello stesso comma.

       per questi motivi

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    riservata a separate pronunce la decisione delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), promosse dalla Regione Lombardia con il ricorso indicato in epigrafe,

    1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 1, commi 362, 363, 364 e 365, della legge n. 296 del 2006, promosse, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dalla Regione Lombardia, con il ricorso indicato in epigrafe;

    2) dichiara l'illegittimità costituzionale del combinato disposto dell'articolo 1, commi 362, 363 e 364, della legge n. 296 del 2006, nella parte in cui, in riferimento all'anno 2007, pone il vincolo di destinazione specifica del fondo di cui al comma 362 per interventi di riduzione dei costi della fornitura energetica per finalità sociali e dispone che, per il medesimo anno, con decreto del Ministro dell'economia e delle finanze, di concerto con il Ministro dello sviluppo economico, sono stabiliti le condizioni, le modalità e i termini per l'utilizzo della dotazione del fondo stesso;

    3) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 362, della legge n. 296 del 2006, nella parte in cui, in riferimento agli anni successivi al 2009, non prevede l'intesa con le Regioni per determinare la concreta destinazione dei finanziamenti a carico del fondo istituito dallo stesso comma;

    4) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 364, della legge n. 296 del 2006: a) nella parte in cui, in riferimento al biennio 2008-2009, non contiene, dopo le parole «da adottare», le parole «d'intesa con la Conferenza unificata»; b) nella parte in cui contiene, in riferimento al biennio 2008-2009, l'inciso: «per una somma di 11 milioni di euro annui per il biennio 2008-2009»;

    5) dichiara, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87, l'illegittimità costituzionale consequenziale dell'articolo 1, comma 356, della legge n. 296 del 2006: a) nella parte in cui non contiene, dopo le parole «si provvede», le parole «d'intesa con la Conferenza unificata»; b) nella parte in cui contiene l'inciso: «pari a 11 milioni di euro»;

    6) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 365, della legge n. 296 del 2006, promosse in riferimento agli artt. 117 e 118 Cost., nonché al principio di leale collaborazione, dalla Regione Lombardia, con il ricorso indicato in epigrafe;

    7) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 1284, della legge n. 296 del 2006, nella parte in cui prevede che le modalità di funzionamento e di erogazione delle risorse del fondo sono indicate «Con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro degli affari esteri, sentito il parere delle competenti Commissioni parlamentari e della Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281», anziché «Con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro degli affari esteri, da adottare d'intesa con la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sentito il parere delle competenti Commissioni parlamentari»;

    8) dichiara l'illegittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 1284, della legge n. 296 del 2006, nel testo sostituito dall'art. 2, comma 334, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008), nella parte in cui prevede che le modalità di funzionamento e di erogazione delle risorse del fondo sono indicate «Con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro degli affari esteri, sentito il parere delle competenti Commissioni parlamentari e della Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni », anziché «Con decreto del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare di concerto con il Ministro degli affari esteri, da adottare d'intesa con la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, sentito il parere delle competenti Commissioni parlamentari»;

    9) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 1284, della legge n. 296 del 2006, promosse, in riferimento agli artt. 117, 118 e 119 Cost., nonché al principio di leale collaborazione, dalla Regione Lombardia, con il ricorso indicato in epigrafe.

    Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

SENTENZA N. 169

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

-         Franco               BILE               Presidente

-         Giovanni Maria       FLICK                Giudice

-         Francesco            AMIRANTE                "

-         Ugo                  DE SIERVO               "

-         Paolo                MADDALENA               "

-         Alfio                FINOCCHIARO             "

-         Alfonso              QUARANTA                "

-         Franco               GALLO                   "

-         Luigi                MAZZELLA                "

-         Gaetano              SILVESTRI               "

-         Sabino               CASSESE                 "

-         Maria Rita           SAULLE                  "

-         Giuseppe             TESAURO                 "

-         Paolo Maria          NAPOLITANO        & nbsp;     "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 1, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nel testo sostituito dall'art. 2, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), inserito dalla relativa legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato non ché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), promosso con ordinanza del 16 febbraio 2007 dal Tribunale   ordinario  di   Pisa  nel   procedimento  civile  vertente  tra  Cerulli  Sergio  e

 

Cifariello Cira, iscritta al n. 586 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro.

Ritenuto in fatto

    1. - Il Tribunale ordinario di Pisa, nel corso del procedimento promosso con ricorso depositato in data 17 marzo 2007 per la dichiarazione della cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario contratto tra il ricorrente e la resistente, ha sollevato, con l'ordinanza in epigrafe, questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 1, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nel testo sostituito dall'art. 2, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), comma inserito dalla relativa legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 marz o 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), «nella parte in cui individua come foro dei procedimenti contenziosi, aventi ad oggetto lo scioglimento e/o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il luogo dell'ultima residenza comune dei coniugi».

    Il giudice a quo riferisce che il Presidente del Tribunale di Pisa ha rilevato d'ufficio la incompetenza territoriale di detto Tribunale, la cui competenza per territorio non coincide con il luogo dell'ultima residenza comune dei coniugi, che è, come risulta dalle allegazioni delle parti, Napoli, mentre il ricorrente risiede attualmente in Misano Adriatico (Rimini) e la resistente, unitamente al figlio minore, in S. Giuliano Terme (Pisa).

    Aggiunge il rimettente che le parti hanno insistito per trattare la causa dinanzi al Tribunale di Pisa, e che il ricorrente ha eccepito la illegittimità costituzionale del censurato art. 4, comma 1, della legge n. 898 del 1970, per violazione del diritto al giusto processo (art. 111 della Costituzione), del diritto al giudice naturale precostituito per legge (art. 25 della Costituzione), del principio di uguaglianza (art. 3 della Costituzione).

    Ciò posto, il Tribunale rimettente ritiene la questione di costituzionalità non manifestamente infondata in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione. Osserva, al riguardo, il giudice a quo che la disposizione denunciata pone un criterio di competenza territoriale inderogabile che, come accade nel caso di specie, può risultare privo di un effettivo collegamento con le parti e con i figli minorenni eventualmente coinvolti nel procedimento, e che, di conseguenza, essa appare del tutto irragionevole, pregiudizievole per l'esercizio del diritto di difesa e suscettibile di creare una ingiustificata disparità di trattamento rispetto ad altre situazioni analoghe, tenuto conto dei diversi criteri di competenza territoriale previsti da l medesimo art. 4, comma 1, della legge n. 898 del 1970 (con riferimento ai procedimenti instaurati dai coniugi con domanda congiunta e/o con riferimento ai procedimenti contenziosi tra coniugi che non abbiano mai avuto una residenza comune) e dall'art. 709-ter, primo comma, del codice di procedura civile (con riferimento ad altri procedimenti che coinvolgono i minori).

    Né, ad avviso del giudice a quo, stante il chiaro ed inequivoco tenore letterale della disposizione in questione, vi sarebbe spazio per una diversa interpretazione costituzionalmente orientata.

Considerato in diritto

    1. - Il Tribunale ordinario di Pisa, investito di un ricorso per la dichiarazione della cessazione degli effetti civili del matrimonio, dubita della legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 1, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nel testo sostituito dall'art. 2, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), comma inserito dalla relativa legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modif ica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), «nella parte in cui individua come foro dei procedimenti contenziosi, aventi ad oggetto lo scioglimento e/o la cessazione degli effetti civili del matrimonio, il luogo dell'ultima residenza comune dei coniugi», per violazione: a) dell'art. 3 della Costituzione, sia sotto il profilo della irragionevolezza della disposizione, la quale pone un criterio di competenza territoriale inderogabile che, come accade nel caso di specie, può risultare privo di un effettivo collegamento con le parti e con i figli minorenni eventualmente coinvolti nel procedimento, sia sotto il profilo della ingiustificata disparità di trattamento  rispetto  ad  altre  situazioni  analoghe,  tenuto  conto  dei  diversi  criteri  di

competenza territoriale previsti dal medesimo art. 4, comma 1, della legge n. 898 del 1970 (con riferimento ai procedimenti instaurati dai coniugi con domanda congiunta e/o con riferimento ai procedimenti contenziosi tra coniugi che non abbiano mai avuto una residenza comune) e dall'art. 709-ter, primo comma, del codice di procedura civile (con riferimento ad altri procedimenti che coinvolgono i minori); b) dell'art. 24 della Costituzione, per il pregiudizio all'esercizio del diritto di difesa.

    2. - La questione sollevata in riferimento all'art. 3 della Costituzione è fondata.

    2.1. - L'art. 2, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, comma inserito dalla relativa legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80, ha sostituito, a decorrere dal 1° marzo 2006, l'art. 4 della legge 1° dicembre 1970, n. 898 già riportato, fissando, tra l'altro, nuove regole per la individuazione del giudice territorialmente competente in ordine ai procedimenti concernenti lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio.

    Il richiamato art 4, primo comma, della legge n. 898 del 1970, nella sua formulazione originaria, individuava, quale foro dei procedimenti di cui si tratta, il tribunale del luogo in cui il convenuto aveva la residenza, oppure, nel caso di irreperibilità o di residenza all'estero, quello del luogo di residenza del ricorrente. L'art. 8 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), nel sostituire l'intero art. 4 della legge n. 898 del 1970, aveva, poi, introdotto, quale criterio alternativo alla residenza quello del domicilio (del convenuto, come del ricorrente), contemplando, altresì, l'ipotesi di residenza all'estero di entrambi i coniugi e prevedendo, in tal caso, che la domanda per ottenere lo scioglimento o la cessaz ione degli effetti civili del matrimonio potesse essere proposta innanzi a qualunque tribunale della Repubblica.

    La novella del 2005 ha introdotto un diverso criterio, fissando quale foro competente il «tribunale del luogo dell'ultima residenza comune dei coniugi, ovvero, in mancanza, del luogo in cui il coniuge convenuto ha residenza o domicilio», e mantenendo, per il resto, gli altri criteri di competenza individuati dal richiamato art. 8 della legge n. 74 del 1987.

    I criteri di individuazione di tale competenza per territorio sono inderogabili e successivi, nel senso che non è consentito al ricorrente fare riferimento ad uno di essi se non nell'ipotesi in cui il precedente non ricorra.

    Pertanto, perché il ricorrente possa proporre la domanda innanzi al tribunale del luogo in cui il convenuto  abbia residenza o domicilio, non è sufficiente che la residenza

comune dei coniugi sia venuta meno, ma è necessario che essa non sia mai esistita, non potendosi interpretare l'espressione «in mancanza» come equivalente a quella «qualora sia successivamente venuta meno», sia perché vi osta il dato letterale, che allude, inequivocabilmente, ad una situazione mai realizzatasi, sia perché è pacifico, in dottrina e in giurisprudenza, che i coniugi possano anche non avere mai avuto una residenza comune - e questa è la fattispecie ipotizzata dal legislatore - dal momento che l'art. 144, primo comma, del codice civile, nel prevedere l'obbligo della fissazione della residenza della famiglia, non esclude che, in concreto, i coniugi, per motivi legittimi, possano non procedere a tale fissazione.

    Da quanto precede deriva che, qualora i coniugi abbiano avuto, per il passato, una residenza comune, occorre fare capo, ai fini della individuazione del giudice competente sulla domanda di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, al tribunale del luogo ove detta residenza si trovava, e ciò anche nella ipotesi - ricorrente nella specie - che, al momento dell'introduzione del giudizio, nessuna delle parti abbia alcun rapporto con quel luogo.

    L'individuazione di tale criterio di competenza è manifestamente irragionevole, non sussistendo alcuna valida giustificazione della adozione dello stesso, ove si consideri che, in tema di scioglimento o cessazione degli effetti civili del matrimonio, nella maggioranza delle ipotesi, la residenza comune è cessata, quanto meno dal momento in cui i coniugi, in occasione della domanda di separazione - giudiziale o consensuale - sono stati autorizzati a vivere separatamente, con la conseguenza che, tenute presenti le condizioni per proporre la successiva domanda di divorzio, non è ravvisabile alcun collegamento fra i coniugi e il tribunale individuato dalla norma.

    Seppure è vero che rientra nella discrezionalità del legislatore la determinazione della competenza territoriale, è però necessario che tale discrezionalità sia esercitata nel rispetto del criterio di ragionevolezza che, nella specie, risulta, per quanto esposto, palesemente violato.

    Va, pertanto, dichiarata l'illegittimità costituzionale della norma denunciata limitatamente alle parole «del luogo dell'ultima residenza comune dei coniugi ovvero, in mancanza,».

    L'accoglimento della questione in riferimento all'art. 3 della Costituzione comporta l'assorbimento della censura di incostituzionalità proposta con riferimento all'art. 24 della Costituzione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 4, comma 1, della legge 1° dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), nel testo sostituito dall'art. 2, comma 3-bis, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35 (Disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale) comma inserito dalla relativa legge di conversione 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, socia le e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), limitatamente alle parole «del luogo dell'ultima residenza comune dei coniugi ovvero, in mancanza,».

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


SENTENZA N. 170

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

    - Franco            BILE               Presidente

    - Giovanni Maria    FLICK                Giudice

    - Francesco         AMIRANTE                "

    - Ugo               DE SIERVO               "

    - Paolo             MADDALENA               "

    - Alfio             FINOCCHIARO             "

    - Alfonso           QUARANTA                "

    - Franco            GALLO                   "

    - Luigi             MAZZELLA                "

    - Gaetano           SILVESTRI               "

    - Sabino            CASSESE                 "

    - Maria Rita        SAULLE                  "

    - Giuseppe          TESAURO                 "

    - Paolo             Maria NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 17 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), promosso con ordinanza del 12 giugno 2007 dal Tribunale di Treviso nel procedimento civile vertente tra la Fondosviluppo s.p.a. e la Veneto Banca Soc. Coop. a r.l. iscritta al n. 779 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visti gli atti di costituzione della Fondosviluppo s.p.a., della Veneto Banca Soc. Coop. a r.l. nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 15 aprile 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;

    uditi gli avvocati Massimo Malvestio e Antonella Lillo per la Veneto Banca Soc. Coop. a r.l., Livia Salvini, Massimo Luciani ed Ermanno Belli per la Fondosviluppo s.p.a., e l'avvocato dello Stato Diego Giordano per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

    1. - Il Tribunale ordinario di Treviso, con ordinanza del 12 giugno 2007, ha sollevato, in riferimento agli articoli 101, 102 e 104 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 17, comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), nella parte in cui stabilisce che le disposizioni di cui all'articolo 26 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577 (Provvedimenti per la cooperazione), ratificato, con modificazioni, dalla legge 2 aprile 1951, n. 302 (Ratifica, con modificazioni, del decreto legis lativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577, recante provvedimenti per la cooperazione, e modificazione della legge 8 maggio 1949, n. 285), all'articolo 14 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 601 (Disciplina delle agevolazioni tributarie), ed all'articolo 11, comma 5, della legge 31 gennaio 1992, n. 59 (Nuove norme in materia di società cooperative), si interpretano nel senso che all'obbligo delle società cooperative e loro consorzi di devolvere il patrimonio effettivo ai fondi mutualistici di cui al citato articolo 11, comma 5, «si intendono soggette le stesse società cooperative e loro consorzi nei casi di fusione e di trasformazione, ove non vietati dalla normativa vigente, in enti diversi dalle cooperative per le quali vigono le clausole di cui al citato articolo 26, nonché in caso di decadenza dai benefici fiscali».

    2. -  Il rimettente premette che Fondosviluppo s.p.a. ha convenuto in giudizio Veneto Banca s.c.p.a.r.l. (già Banca Popolare di Asola e Montebelluna s.c.a.r.l.; infra, Veneto Banca), chiedendone la condanna a pagare una somma di denaro corrispondente al patrimonio della Banca di Credito Cooperativo del Piave e Livenza, incorporata nella Veneto Banca, a séguito di delibere delle assemblee straordinarie delle società in data 30 ottobre e 6 novembre 1999.

    Fondosviluppo s.p.a. è una società costituita dalla Confederazione Cooperative Italiane e dalla Federazione Italiana delle Banche di Credito Cooperativo, ai sensi dell'art. 11, comma 1, della legge n. 59 del 1992, che prevede la possibilità di costituire «fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione», i quali possono essere gestiti senza scopo di lucro da s.p.a. o da associazioni. Il citato art. 11, comma 5, recepito nell'art. 50 dello statuto sociale della Banca di Credito Cooperativo del Piave e Livenza, dispone che deve «essere devoluto ai fondi di cui al comma 1 il patrimonio residuo delle cooperative in liquidazione, dedotti il capitale versato e rivalutato ed i dividendi eventualmente maturati, di cui al primo comma, lettera c), dell'articolo 26» del d.lgs. C.p.S. n. 1577 del 1947.

    La norma impugnata ha stabilito che detti artt. 11, comma 5, e 26 «si interpretano nel senso che la soppressione da parte di società cooperative o loro consorzi delle clausole di cui al predetto articolo 26», ovvero la fusione o la trasformazione dei medesimi «in enti diversi dalle cooperative per le quali vigono le clausole di cui al citato art. 26», nonché la decadenza dai benefici fiscali, comportano «comunque per le stesse l'obbligo di devolvere il patrimonio effettivo in essere alla data della soppressione, dedotti il capitale versato e rivalutato ed i dividendi eventualmente maturati, ai fondi mutualistici di cui al citato art. 11, comma 5».

    Pertanto, poiché la Banca di Credito Cooperativo del Piave e Livenza e Veneto Banca (già Banca Popolare di Asola e Montebelluna), con delibere assembleari del 30 ottobre e del 6 novembre 1999, hanno deliberato la fusione per incorporazione in Veneto Banca, secondo l'attrice, sussiste l'obbligo di quest'ultima di versare ad essa istante, ai sensi del citato art. 11, comma 5, una somma corrispondente al patrimonio di detta Banca di Credito Cooperativo.

    Nel giudizio si è costituita Veneto Banca, contestando la legittimazione attiva dell'attrice e, nel merito, la fondatezza della domanda, eccependo altresì l'illegittimità costituzionale del citato art. 17, comma 1, della legge n. 388 del 2000, in riferimento agli artt. 3, 47, 101, 102 e 104 Cost.

    2.1. - Posta questa premessa, il rimettente deduce che, secondo la convenuta, la norma censurata avrebbe innovato il contenuto dell'art. 11, comma 5, della legge n. 59 del 1992, in quanto «allarga la fattispecie di cui al comma 5 anche alle ipotesi di fusione e di trasformazione» e fa riferimento al patrimonio effettivo, anziché al patrimonio residuo.

    Ad avviso del Tribunale, l'eccezione di illegittimità costituzionale sollevata dalla convenuta è non manifestamente infondata, poiché la giurisprudenza costituzionale ritiene ammissibili le norme interpretative, retroattive, in materia diversa da quella penale, sempre che siano coerenti con la funzione «di chiarire il senso di norme preesistenti, ovvero di imporre una delle possibili varianti di senso compatibili col tenore letterale, sia al fine di eliminare eventuali incertezze interpretative, sia per rimediare ad interpretazioni giurisprudenziali divergenti».

    Pertanto, qualora la lettera della norma interpretata sia chiara, al punto da non avere mai dato adito a dubbi interpretativi ed a contrasti nella giurisprudenza, la stessa qualificazione della disposizione come interpretativa conforterebbe l'inesistenza di detto carattere, facendo emergere il reale intento del legislatore, di attribuirle efficacia retroattiva.

    Secondo il rimettente, tanto si riscontrerebbe nella specie, in quanto la lettera del citato art. 11, comma 5, non avrebbe fatto sorgere dubbi in ordine alla sua irriferibilità ai casi «di fusione e di trasformazione, ove non vietati dalla normativa vigente, in enti diversi dalle cooperative per le quali vigono le clausole di cui al citato articolo 26». La liquidazione della società è, infatti, fattispecie differente dalla fusione e la norma censurata introduce anche il nuovo concetto di «patrimonio effettivo», in luogo di quello di «patrimonio residuo».

    Inoltre, non risulterebbe che la norma interpretata avesse dato luogo a contrasti nella giurisprudenza, dato che le uniche pronunce al riguardo sono state emanate nella vigenza della legge n. 388 del 2000 ed hanno ritenuto il carattere interpretativo della disposizione, senza affrontare la questione della possibilità di intendere la liquidazione anche come fusione.

    Pertanto, il citato art. 17, comma 1, inciderebbe retroattivamente su diritti acquisiti e la autoqualificazione come interpretativa rivelerebbe l'intento di produrre questo effetto che, tuttavia, ne determinerebbe il contrasto con gli artt. 101, 102 e 104 Cost. La norma violerebbe, altresì, i limiti entro i quali possono essere emanate norme aventi efficacia retroattiva, che attengono alla salvaguardia dei fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, fra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza e di eguaglianza, la tutela dell'affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto ed il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario.

    3. - Nel giudizio innanzi a questa Corte si è costituita Fondosviluppo s.p.a., attrice nel processo principale, chiedendo, anche nella memoria depositata in prossimità dell'udienza pubblica, che la questione sia dichiarata non fondata.

    A suo avviso, l'art. 26 del d.lgs. C.p.S. n. 1577 del 1947 tutela il requisito della mutualità "pura"; la fusione delle società, in virtù di una risalente configurazione, costituiva una causa di scioglimento e comportava l'estinzione della società incorporata; inoltre, l'art. 14 della legge 17 febbraio 1971, n. 127 (Modifiche al decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577, modificato con legge 18 maggio 1949, n. 285, e ratificato con ulteriori modificazioni dalla legge 2 aprile 1951, n. 302, concernente provvedimenti per la cooperazione), vietava la trasformazione delle società cooperative in società lucrative, con conseguente divieto anche della fusione cosiddetta eterogenea.

    L'art. 11, comma 5, della legge n. 59 del 1992, integrando il citato art. 26, lettera c), ha utilizzato la formula «cooperative in liquidazione», appunto perché la fusione eterogenea era vietata dall'art. 14 della legge n. 127 del 1971.

    Tuttavia, le elaborazioni della prassi (quindi, l'ammissibilità della trasformazione della società cooperativa in associazione) e nuove norme (in particolare, l'art. 35 del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante «Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia»), che hanno autorizzato la fusione tra banche di credito cooperativo e banche popolari, avevano indebolito la tutela del fine mutualistico.

    Pertanto, benché la dottrina, il Consiglio di Stato ed il Ministero delle finanze avessero ritenuto applicabile il citato art. 26 anche nel caso di fusione, parte della giurisprudenza aveva privilegiato una diversa interpretazione.

    Dunque, sussisteva una situazione di incertezza che conforterebbe il carattere interpretativo della norma censurata. Inoltre, le nozioni di «patrimonio residuo» (posta dal citato art. 11, comma 5) e di «patrimonio effettivo» (contenuta nella norma censurata) sarebbero sostanzialmente coincidenti, poiché anche la seconda identifica il patrimonio che risulta una volta dedotti il capitale versato e rivalutato e i dividendi eventualmente maturati.

    Peraltro, anche ritenendo che la lettera della norma interpretata non permetteva l'esegesi sopra sintetizzata, questa risulterebbe plausibile in forza del criterio sistematico ed alla luce dell'art. 45 Cost., che impegna il legislatore ordinario a favorire lo sviluppo della mutualità, preservandone i caratteri tipici.

    Finalità della norma censurata sarebbe stata quella di garantire un'interpretazione costituzionalmente orientata delle disposizioni che ne costituiscono oggetto, allo scopo di assicurare la devoluzione ai fondi mutualistici del patrimonio delle società cooperative in tutti i casi in cui viene meno il carattere della mutualità.

    Siffatta finalità è stata perseguita anche con la novellazione delle norme del codice civile che disciplinano le società, dato che l'art. 2545-decies permetterebbe la trasformazione delle sole società cooperative diverse da quelle a mutualità prevalente, mentre l'art. 2545-undecies chiarisce che la trasformazione comporta la devoluzione del valore effettivo del patrimonio ai fondi mutualistici.

    Infine, la considerazione che la norma non ha inciso sul giudicato condurrebbe ad escludere che il citato art. 17, comma 1, vulneri i parametri costituzionali evocati dal rimettente.

    4. - Nel giudizio si è costituita altresì Veneto Banca s.c.p.a.r.l., parte convenuta nel giudizio principale chiedendo che la questione sia accolta.

    A suo avviso, l'art. 11, comma 5, della legge n. 59 del 1992 si riferiva al solo caso dello scioglimento della società, mentre il fine mutualistico era garantito dalla sanzione prevista dal comma 10, che operava sul piano tributario. La considerazione che mai sarebbe stata sostenuta l'applicabilità di detta norma al caso della fusione conforterebbe il carattere innovativo della disposizione, dimostrato anche dalla circostanza che introduce la nuova nozione di «patrimonio effettivo», in luogo di quella di «patrimonio residuo».

    La parte privata sostiene che la norma denunciata realizzerebbe una invasione della sfera delle attribuzioni spettanti al potere giudiziario, secondo quanto sarebbe desumibile dalle pronunce di questa Corte richiamate nell'atto di costituzione. In ogni caso, la norma sarebbe iniqua, poiché imporrebbe a poche società di pagare somme alla Fondoviluppo s.p.a., che nulla ha fatto, per operazioni che mai sarebbero state realizzate, se si fosse avuta contezza del prezzo che avrebbero comportato.

    Nella memoria depositata in prossimità dell'udienza pubblica, la parte deduce che, sebbene l'ordinanza di rimessione abbia formalmente indicato quali parametri costituzionali soltanto gli artt. 101, 102 e 104 Cost., la questione deve ritenersi proposta anche in relazione all'art. 3 Cost., poiché il rimettente ha richiamato anche i princípi di ragionevolezza e di tutela dell'affidamento.

    Veneto Banca ripercorre, quindi, la disciplina delle Casse rurali ed artigiane, deducendo che l'art. 14 della legge n. 127 del 1971 non concerneva queste ultime, alle quali era riferibile l'art 30 del regio decreto 26 agosto 1937 n. 1706 (Testo unico delle leggi sull'ordinamento delle Casse rurali e artigiane); inoltre, una disciplina speciale della fusione era stabilita dall'art. 7 del regio decreto-legge 12 marzo 1936, n. 375 (Disposizioni per la difesa del risparmio e per la disciplina della funzione creditizia), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 marzo 1938, n. 141, specialità confermata dall'art. 35 del d.lgs. n. 385 del 1993.

    La parte privata dà atto che l'art. 11 della legge n. 59 del 1992 era stato applicato alle banche di credito cooperativo e, tuttavia, a suo avviso, esso concernerebbe il solo caso della società posta in liquidazione. La disciplina della fusione eterogenea, per dette banche, prevede invece l'autorizzazione della Banca d'Italia, che potrebbe essere concessa soltanto se strumentale a garantire i creditori della banca, obiettivo questo coerente con la tutela della cooperazione, quindi con l'art. 45 Cost.

    Secondo Veneto Banca, il dubbio interpretativo sarebbe originato da un quesito proposto dalla Confederazione Italia delle Cooperative, che avrebbe ottenuto pronta risposta dal Ministero del lavoro e della previdenza sociale prima, quindi dall'Agenzia delle entrate, con la circolare 30 ottobre 2000, n. 195/E, che ha, tuttavia, chiarito di non affrontare il profilo civilistico della questione.

    La considerazione che una pronuncia di primo grado, che aveva ritenuto la norma censurata interpretativa, è stata riformata in grado di appello conforterebbe la fondatezza delle proprie conclusioni.

    5. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile e, comunque, infondata.

    La difesa erariale richiama la giurisprudenza di questa Corte, secondo la quale, nella materia diversa da quella penale, sono ammissibili norme retroattive, qualora non sia vulnerato il principio di ragionevolezza, con la conseguenza che non sussiste il denunciato vulnus degli artt. 101, 102, 104 Cost, non avendo il rimettente neppure esplicitato le ragioni che dovrebbero dimostrare che la norma censurata incide sulla funzione giurisdizionale.

    La questione sarebbe, comunque, non fondata, poiché la norma denunciata mira a favorire la mutualità, preservandone caratteri e finalità e, in coerenza con i princípi stabiliti dall'art. 45 Cost., è strumentale ad assicurare la devoluzione ai fondi mutualistici del patrimonio della società cooperativa in tutti i casi nei quali è soppressa la struttura cooperativistica.

    6. - All'udienza pubblica la difesa erariale e le parti private hanno insistito per l'accoglimento delle conclusioni svolte nelle difese scritte.

Considerato in diritto

    1. - La questione sollevata dal Tribunale ordinario di Treviso investe l'art. 17, comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), nella parte in cui stabilisce che le disposizioni di cui all'articolo 26 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577 (Provvedimenti per la cooperazione), ratificato, con modificazioni, dalla legge 2 aprile 1951, n. 302 (Ratifica, con modificazioni, del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577, recante provvedimenti per la cooperazione, e modificazione della legge 8 maggio 1949, n. 285), all'articolo 14 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 601 (Disciplina delle agevolazioni tributarie), e all'articolo 11, comma 5, della legge 31 gennaio 1992, n. 59 (Nuove norme in materia di società cooperative), si interpretano nel senso che all'obbligo delle società cooperative e loro consorzi di devolvere il patrimonio effettivo ai fondi mutualistici di cui al citato articolo 11, comma 5, «si intendono soggette le stesse società cooperative e loro consorzi nei casi di fusione e di trasformazione, ove non vietati dalla normativa vigente, in enti diversi dalle cooperative per le quali vigono le clausole di cui al citato articolo 26, nonché in caso di decadenza dai benefici fiscali».

    1.1. - Secondo il rimettente, la norma censurata, nonostante si autoqualifichi come interpretativa, sarebbe priva di tale carattere e, conseguentemente, inciderebbe retroattivamente su diritti acquisiti, ponendosi in contrasto con gli artt. 101, 102 e 104 della Costituzione.

    Inoltre, la disposizione violerebbe i limiti entro i quali possono essere emanate norme aventi efficacia retroattiva, che attengono alla salvaguardia dei «fondamentali valori di civiltà giuridica posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, fra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza e di eguaglianza, la tutela dell'affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto e il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario».

    2. - In linea preliminare, va osservato che il rimettente ha motivato non implausibilmente in ordine all'applicabilità della norma censurata nel giudizio principale, anche se, in considerazione dell'oggetto del medesimo, come individuato nell'ordinanza di rimessione, la questione deve ritenersi rilevante esclusivamente in riferimento alla parte della disposizione concernente l'obbligo di devoluzione nel caso di fusione.

    Inoltre, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la questione deve essere scrutinata avendo riguardo anche ai parametri costituzionali non formalmente evocati, ma desumibili in modo univoco dall'ordinanza di rimessione (sentenza n. 69 del 1999), qualora tale atto faccia ad essi chiaro riferimento, sia pure implicito (sentenze n. 26 del 2003; n. 99 del 1997), mediante il richiamo dei principi da questi enunciati.

    Nella specie, sebbene il giudice a quo abbia espressamente indicato quali parametri costituzionali soltanto gli artt. 101, 102 e 104 Cost., ha censurato il citato art. 17, comma 1, anche in riferimento all'art. 3 Cost., tenuto conto che dal tenore complessivo dell'ordinanza di rimessione risulta palese il riferimento a detta norma, operato mediante il richiamo dei principi di ragionevolezza e di tutela dell'affidamento.

    3. - Nel merito, la questione non è fondata.

    4. - I dubbi di legittimità costituzionale sono stati sollevati dal rimettente muovendo dalla considerazione che la norma censurata non avrebbe carattere interpretativo e, appunto per questo, si porrebbe in contrasto con i parametri costituzionali sopra indicati.

    Ai fini del presente giudizio occorre quindi stabilire anzitutto la natura della norma.

    La disposizione, come questa Corte ha affermato, è interpretativa qualora, esistendo una oggettiva incertezza del dato normativo (ordinanza n. 400 del 2007) ed un obiettivo dubbio ermeneutico (sentenza n. 29 del 2002), sia diretta a chiarire il contenuto di preesistenti norme, ovvero ad escludere o ad enucleare uno dei significati tra quelli plausibilmente ascrivibili a queste.

    Tuttavia, il legislatore può emanare norme che precisino il significato di preesistenti disposizioni anche se non siano insorti contrasti giurisprudenziali (sentenza n. 123 del 1988; ordinanza n. 480 del 1992), ma sussista comunque una situazione di incertezza nella loro applicazione (sentenze n. 291 del 2003; n. 374 del 2002; n. 525 del 2000), essendo sufficiente che la scelta imposta rientri tra le possibili varianti di senso del testo interpretato e sia compatibile con la sua formulazione (sentenze n. 409 del 2005; n. 168 del 2004; n. 292 del 2000), fermo restando che non spetta a questa Corte esprimere valutazioni sulla fondatezza delle differenti esegesi (sentenza n. 229 del 1999).

    5. - Nel caso in esame, una delle disposizioni interpretate dalla norma censurata che assumono rilievo,  l'art. 26, primo comma, lettera c), del d.lgs. C.p.S. n. 1577 del 1947, stabilisce che, agli effetti tributari, la sussistenza dei requisiti mutualistici si presume quando negli statuti delle cooperative sono contenute le clausole che, tra l'altro, prevedono, in caso di scioglimento della società, l'obbligo di devolvere l'intero patrimonio sociale - dedotto soltanto il capitale versato e i dividendi eventualmente maturati - «a scopi di pubblica utilità conformi allo spirito mutualistico».

    Successivamente, l'art. 11 della legge n. 59 del 1992  ha specificato il contenuto di detto obbligo, individuando i beneficiari del medesimo nei fondi mutualistici per la promozione e lo sviluppo della cooperazione (comma 5) e sanzionando la sua violazione con la decadenza sia dai benefici fiscali, sia da quelli di «altra natura concessi ai sensi della normativa vigente» (comma 10).

    La finalità di dette norme è stata concordemente identificata in quella di garantire che i benefici conseguiti grazie alle agevolazioni previste per incentivare lo scopo mutualistico non siano destinati allo svolgimento di un'attività priva di tale carattere e, comunque, non siano fatti propri da coloro che ne hanno fruito.

    L'interpretazione di dette disposizioni, in particolare della seconda, non è stata invece univoca in ordine alla natura dell'obbligo dalle stesse previsto; ad un orientamento della giurisprudenza e della dottrina, secondo il  quale all'obbligo di devoluzione corrispondeva il diritto dei citati fondi mutualistici di vedersi attribuire il patrimonio residuo di liquidazione, si contrapponeva, infatti, un diverso indirizzo, che riteneva desumibile dalle norme la prescrizione di un onere avente rilievo esclusivamente sotto il profilo fiscale.

    5.1. - Un'altra questione controversa aveva ad oggetto l'interpretazione del divieto di trasformazione delle società cooperative in società ordinarie (art. 14 della legge 17 febbraio 1971, n. 127, recante «Modifiche al decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 14 dicembre 1947, n. 1577, modificato con legge 18 maggio 1949, n. 285, e ratificato con ulteriori modificazioni dalla legge 2 aprile 1951, n. 302, concernente provvedimenti per la cooperazione»), e l'identificazione dei limiti di questa modificazione dell'atto costitutivo.

    Secondo un orientamento, il divieto non era, infatti, riferibile alla trasformazione in enti diversi dalle società lucrative; questa esegesi non era condivisa da un differente indirizzo, il quale aveva, invece, negato l'ammissibilità di detta trasformazione, ma soprattutto valorizzando i profili della incompatibilità causale e di scopo, nonché la diversità della natura degli enti e del tipo di rapporto associativo.

    Un importante argomento per la risoluzione della questione era stato apportato dalla Corte di cassazione, che aveva individuato la ratio del divieto dell'art. 14 della legge n. 127 del 1971, nell'esigenza di «prevenire possibili forme fraudolente di accesso ai benefici previsti per l'esercizio di attività mutualistiche da parte di chi, dopo averli conseguiti, voglia destinarli ad un'attività lucrativa» (sentenza 14 luglio 1997, n. 6349). Siffatta finalità poneva in luce la relazione esistente tra tale divieto - giustificato da ragioni diverse da quelle di ordine concettuale, inerenti alla natura e struttura degli enti - e l'obbligo di devoluzione, permettendo di ritenerlo operante in tutti i casi nei quali la modificazione dell'atto costitutivo ne comportava l'elus ione e di escluderne, invece, la violazione, qualora detto obbligo risultasse comunque osservato.

    In tal senso, sostanzialmente, si era orientato anche il Consiglio di Stato che, proprio nell'affrontare la questione dei limiti della trasformazione della società cooperativa, aveva appunto affermato che, «ove siano rispettate le disposizioni sostanziali di cui al citato articolo 11, comma 5, della legge n. 59 del 1992, la società cooperativa può senz'altro trasformarsi in associazione riconosciuta o fondazione senza passare attraverso la fase della liquidazione effettiva» (parere della sezione I, 31 luglio 1996, n. 1443/96).

    Una parte della giurisprudenza di merito e della dottrina aveva, quindi, valorizzato proprio la finalità del suindicato divieto, per ritenere consentita la trasformazione della società cooperativa in enti diversi dalle società, purché non avesse comportato la violazione dell'obbligo di devoluzione. In tal modo, mediante l'interpretazione logico-sistematica e tenendo conto della ratio dell'art. 11, comma 5, della legge n. 59 del 1992, la modificazione dell'atto costitutivo era ammissibile, secondo un orientamento, qualora risultasse soddisfatta la finalità dell'obbligo di devoluzione, che quindi assumeva contenuto più ampio di quello desumibile dalla mera lettera delle norme in esame.

    5.2. - Siffatte questioni si erano poste anche in relazione alla fattispecie della fusione cosiddetta eterogenea.

    Una parte della dottrina e della giurisprudenza di merito, anche anteriormente alla riforma delle norme del codice civile sulle società (decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6, recante «Riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366»), configurava la fusione quale mera modificazione dell'atto costitutivo, non riconducibile alla successione a titolo universale. Secondo questa concezione, la fusione - nel caso di enti aventi causa diversa, ovvero differenti schemi organizzativi - implicava la trasformazione della società in vista della compenetrazione degli atti costitutivi e, conseguentemente, l'obbligo di devoluzione avrebbe potuto essere ritenuto sussistente alla luce della ratio < /I>del divieto sopra richiamato, sebbene non comportasse la liquidazione e l'estinzione della società incorporata.

    A conclusioni non dissimili poteva pervenirsi anche aderendo alla tesi - prevalente nella giurisprudenza di legittimità - che enfatizzava l'effetto estintivo della fusione, ritenendo che essa desse luogo ad una successione a titolo universale. Questa configurazione era, infatti, compatibile con l'affermazione dell'obbligo di devoluzione, quale enucleabile alla luce della ratio della norma e delle finalità sopra richiamate, ferma restando la diversità tra le fattispecie della liquidazione e dello scioglimento della società e quella dell'estinzione della medesima, conseguente appunto alla fusione.

    Analoghe considerazioni potevano essere svolte anche in riferimento alla fattispecie oggetto del giudizio principale. Il decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), benché avesse disciplinato la fusione eterogenea delle banche di credito cooperativo, modificando anche l'art. 21 della legge n. 59 del 1992, non aveva, infatti, introdotto innovazioni in ordine all'applicabilità a queste dell'obbligo di devoluzione (non implausibilmente ritenuta dal rimettente), mantenendo ferma la diversità di disciplina rispetto a quella stabilita per le banche popolari (art. 21, commi 3 ed 8, della legge n. 59 del 1992). Ciò era in armonia con la complessa evoluzione della normativa di settore, caratterizzata dalla distinta regolamentazione di dette banche da part e del legislatore ordinario, in considerazione della configurabilità delle banche cooperative come categoria autonoma ed a sé stante.

    L'inesistenza di ogni interferenza tra autorizzazione alla fusione (art. 36 del d.lgs. n. 385 del 1993) ed obbligo di devoluzione è, peraltro, confortata, sul piano storico-sistematico, dalla circostanza che, anche a séguito delle innovazioni introdotte nel testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia, rese necessarie dalle modifiche delle norme del codice civile sulle società, è stato espressamente mantenuto fermo detto obbligo (art. 150-bis, comma 5, del d.lgs. n. 385 del 1993), con una previsione anteriormente già desumibile dalle norme di detto testo unico e della legge n. 59 del 1992.

    Infine, il riferimento alla nozione di «patrimonio effettivo» contenuto nella norma censurata può essere ritenuto una precisazione, conseguente alla necessità di operare nel caso di fusione una valutazione anche della parte dinamica del patrimonio. Tale precisazione era, tuttavia, rilevabile già in via interpretativa, una volta ritenuto applicabile l'obbligo di devoluzione anche nel caso in cui la società non si estingueva, ma continuava ad esistere come soggetto diverso da quello che fruiva dei benefici delle mutualità.

    5.3. - In questo dibattito, agli inizi dello stesso anno nel quale è stata promulgata la norma censurata, erano intervenuti il Ministero del lavoro e della previdenza sociale (12 aprile 2000, "Risposta a quesito scritto dalla Confederazione Cooperative italiane") ed il Ministero delle finanze (Agenzia delle entrate, circolare 30 ottobre 2000, n. 195/E), offrendo un'interpretazione ampia del contenuto dell'obbligo di devoluzione, comprensiva di tutti i casi nei quali sussisteva l'esigenza di evitare che benefici conseguiti grazie alle agevolazioni stabilite in favore dell'attività mutualistica fossero eterodestinati rispetto a questo scopo. Pertanto, risultava incrementata quella situazione di incertezza che - come affermato da questa Corte in riferimento ad un caso, sotto certi profili, omologo a quello in esame (sentenze n. 291 del 2003; n. 374 del 2002) - costituisce il presupposto per l'emanazione di norme interpretative.

    6. - Di questi dibattiti, delle questioni sopra sintetizzate e della plausibilità delle divergenti interpretazioni offerte di parti delle disposizioni sopra richiamate, costituisce testimonianza la molteplicità di orientamenti espressi dalla giurisprudenza e dalla dottrina, anche in ordine alla questione della natura della norma censurata, così da rendere chiara la complessità dell'esegesi delle norme.

    Pertanto, risulta palese che l'art. 17, comma 1, della legge n. 388 del 2000 è intervenuto in una situazione di incertezza del dato normativo e che i criteri legali di ermeneutica rendevano possibile desumere dalle disposizioni interpretate la variante di senso che il legislatore ha inteso privilegiare, senza incidere né su orientamenti a tal punto consolidati da far ritenere implausibile la soluzione accolta, né su sentenze passate in cosa giudicata.

    Il carattere interpretativo della disposizione censurata comporta che essa si è saldata «a norme precedenti intervenendo sul significato normativo di queste, dunque lasciandone intatto il dato testuale ed imponendo una delle possibili opzioni ermeneutiche già ricomprese nell'ambito semantico della legge interpretata» (tra le molte, sentenze n. 425 del 2000; n. 397 del 1994), in modo che il suo sopravvenire non ha fatto venire meno le norme interpretate, in quanto le disposizioni si sono congiunte, dando luogo ad un precetto unitario (sentenze n. 311 del 1995; n. 94 del 1995; n. 397 del 1994).

    Siffatta configurazione conduce ad escludere che il citato art. 17, comma 1, sia sostanzialmente innovativo, con effetti retroattivi, ed assume importanza sotto il profilo del controllo di ragionevolezza, in relazione al quale rileva la funzione di interpretazione autentica che una disposizione sia in ipotesi chiamata a svolgere, in deroga al principio per cui la legge non dispone che per l'avvenire (sentenze n. 234 del 2007; n. 374 del 2002).

    La circostanza che la norma censurata, in quanto interpretativa, si è limitata ad assegnare alle disposizioni interpretate un significato in esse già contenuto, riconoscibile come una delle loro possibili varianti di senso, influisce, quindi, sul positivo apprezzamento sia della sua ragionevolezza (sentenza n. 234 del 2007; n. 274 del 2006; n. 135 del 2006; n. 409 del 2005; n. 291 del 2003), sia della non configurabilità di una lesione dell'affidamento dei destinatari (sentenza n. 229 del 1999; si veda anche sentenza n. 26 del 2003). Questo affidamento deve reputarsi, evidentemente, attenuato, e comunque non vulnerato, perché il testo originario rendeva plausibile una lettura diversa da quella che i destinatari stessi avevano ritenuto di privilegiare.

    L'art. 17, comma 1, della legge n. 388 del 2000, avendo natura interpretativa, ha dunque operato sul piano delle fonti, senza toccare la potestà di giudicare, poiché si è limitato a precisare la regola astratta ed il modello di decisione cui l'esercizio di tale potestà deve attenersi (ex plurimis, sentenze n. 274 del 2006; n. 282 del 2005; n. 15 del 2005; ordinanza n. 240 del 2007), definendo e delimitando la fattispecie normativa oggetto della medesima. Pertanto, la norma censurata non ha vulnerato le attribuzioni del potere giudiziario e la sua formulazione rende chiaro che neppure ha violato l'intangibilità del giudicato (sentenze n. 234 del 2007; n. 282 del 2005), mentre, anche in considerazione delle interpretazioni rese plausibili dalle norme, difetta ogni el emento per potere desumere che sia stata diretta ad incidere sui giudizi in corso, per determinarne gli esiti (sentenze n. 15 del 1995; n. 397 del 1994).

       PER QUESTI MOTIVI

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 17, comma 1, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001) sollevata, in riferimento agli artt. 3, 101, 102 e 104 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Treviso con l'ordinanza in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

SENTENZA N. 171

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-     Franco            BILE         Presidente

-     Giovanni Maria    FLICK          Giudice

-     Francesco         AMIRANTE          "

-     Ugo               DE SIERVO         "

-     Paolo             MADDALENA         "

-     Alfio             FINOCCHIARO       "

-     Alfonso           QUARANTA          "

-     Franco            GALLO             "

-     Luigi             MAZZELLA          "

-     Gaetano           SILVESTRI         "

-     Sabino            CASSESE           "

-     Maria Rita        SAULLE            "

-     Giuseppe          TESAURO           "

-     Paolo Maria       NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati del 26 gennaio 2005 (Doc. IV-quater, n. 52) relativa alla insindacabilità, ai sensi dell'art. 68, primo comma, Cost., delle opinioni espresse dal deputato Vittorio Sgarbi nei confronti della dottoressa Ilda Boccassini, promosso con ricorso della Corte di Appello di Roma - Sezione I civile, notificato il 19 giugno 2007, depositato in cancelleria il 21 giugno 2007 ed iscritto al n. 4 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2007, fase merito.

    Udito nell'udienza pubblica del 15 aprile 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella.

Ritenuto in fatto

    1. Con ricorso depositato il 21 giugno 2007, la Corte di appello di Roma ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati, in relazione alla delibera adottata dalla stessa il 26 gennaio 2005 (Doc. IV - quater, n. 52), con la quale - in difformità dalla proposta della Giunta per le autorizzazioni - è stato dichiarato che i fatti per i quali il magistrato Ilda Boccassini aveva promosso azione risarcitoria contro il deputato Vittorio Sgarbi riguardano opinioni espresse da quest'ultimo nell'esercizio delle sue funzioni parlamentari, come tali insindacabili ai sensi dell'art. 6 8, primo comma, della Costituzione.

    L'attrice aveva convenuto dinanzi al Tribunale di Roma l'on. Sgarbi e la società R.T.I. titolare della rete televisiva Canale 5, per sentirli condannare al risarcimento per la diffamazione subíta nel corso della trasmissione "Sgarbi quotidiani" del 2 gennaio 1998.

    Nel corso di tale trasmissione, l'on. Sgarbi aveva dichiarato che « [...] dalle vicende Boccassini dipende anche la morte di uno dei magistrati più seri d'Italia, Michele Coiro. Michele Coiro è stato ucciso. E' stato cacciato, il CSM ha stabilito che non poteva essere più procuratore e quindi lui ha scelto prontamente di andare al Ministero e poi è morto. Morto di crepacuore. Questa è la conseguenza di un'azione iniqua di cui la Boccassini potrebbe essere perseguita non solo per abuso, ma anche come stimolatrice di una conseguenza tragica, come chi tenendo in carcere taluno lo induca al suicidio, fra chi porta un tale male nel cuore di un uomo, con la volontà di inquisire e opprimere un potere che è quello simboleggiato dalla Procura di Ro ma, che in quel caso il Procuratore era Coiro [...]».

    Il Tribunale adíto accoglieva la domanda, condannando i convenuti, in solido, al pagamento, in favore dell'attrice, di lire 50 milioni, oltre alla rifusione delle spese di lite. rifusione delle spese di lite;

      Tale decisione veniva impugnata dall'on. Sgarbi, il quale eccepiva l'insindacabilità delle opinioni espresse e comunque la loro inoffensività, chiedendo, in subordine, la riduzione della somma liquidata dal Tribunale.

      A sua volta, la società R.T.I. proponeva appello incidentale, chiedendo la riforma della sentenza di primo grado, con il rigetto della domanda, o, in subordine, la riduzione della somma liquidata.

    La relazione di maggioranza della Giunta per le autorizzazioni della Camera dei deputati (Doc. IV-quater n. 52 del 10 febbraio 2003), dopo aver ricordato che l'interpretazione eccessivamente ampia data in altri casi dalla Camera alla regola dell'insindacabilità, aveva trovato censure anche dalla Corte europea dei diritti dell'uomo la quale aveva statuito, in più occasioni, che può conciliarsi con l'art. 6 della Convenzione dei diritti dell'uomo «solo un'applicazione assai ristretta dell'insindacabilità, intesa come completa esenzione della responsabilità per le affermazioni rese nell'esercizio del mandato parlamentare, altrimenti l'impedimento alla conoscibilità giurisdizionale delle dichiarazioni dei membri diventerebbe un salvacondotto incontrollabile lesivo del diritto dell'uomo a chiedere sulle sue cause un giudizio equo», aveva riconosciuto a maggioranza, «pienamente valide le argomentazioni del giudice del Tribunale di Roma» (il quale, con sentenza del 28 maggio 2001, aveva condannato l'on. Sgarbi al risarcimento dei danni nei confronti della dr.ssa Boccassini), concludendo nel senso che i fatti per i quali era in corso il procedimento di appello «non concernono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni».

    Su questa proposta, però, la Camera, in esito alla votazione svoltasi in data 26 gennaio 2005, deliberava, a maggioranza, «nel senso che i fatti oggetto del procedimento concernono opinioni espresse dal deputato Sgarbi nell'esercizio delle sue funzioni». Tale delibera veniva depositata nel corso del giudizio di appello.

      Secondo il giudice ricorrente, l'on. Sgarbi, nella conduzione della trasmissione televisiva che portava il suo nome, non ha esercitato alcuna funzione parlamentare, nemmeno sub specie di attività connessa, ma ha esercitato un'attività professionale di conduttore ed opinionista televisivo, nell'ambito di un rapporto d'opera, retribuito in forza di un contratto concluso con una parte privata: di qui l'inapplicabilità, nel caso concreto, dell'art. 68 Cost.

      2. - Il conflitto è stato dichiarato ammissibile con l'ordinanza di questa Corte n. 197 del 2007, depositata il 14 giugno 2007.

      3. - La Corte di appello di Roma ha provveduto a notificare tale ordinanza ed il ricorso introduttivo alla Camera dei deputati il 19 giugno 2007 e li ha depositati il 21 giugno 2007.

      4. La Camera dei deputati non si è costituita in giudizio.

Considerato in diritto

    1.- La Corte di appello di Roma ha sollevato, con ricorso depositato il 19 giugno 2007, conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati, in relazione alla deliberazione, assunta dall'Assemblea in data 26 gennaio 2005 (Doc. IV-quater,  n. 52) con la quale è stato dichiarato che i fatti per i quali il magistrato Ilda Boccassini aveva intrapreso azione risarcitoria contro il deputato Vittorio Sgarbi, concernono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzio ne.

    Secondo la Corte ricorrente, la delibera costituisce invasione nella propria sfera di attribuzioni costituzionali, in quanto le opinioni del deputato sono state da lui manifestate in veste di opinionista e di conduttore televisivo e senza alcuna corrispondenza con l'attività parlamentare.

    In particolare, la Corte d'appello lamenta il non corretto uso, da parte della Camera dei deputati, del potere di decidere sulla sussistenza dei presupposti per l'applicabilità alla fattispecie dell'art. 68, primo comma, della Costituzione e chiede, di conseguenza, l'annullamento della deliberazione adottata dalla stessa il 26 gennaio 2005.

    2.- Preliminarmente, dev'essere confermata l'ammissibilità del conflitto, sussistendone i presupposti soggettivo ed oggettivo come già ritenuto da questa Corte con l'ordinanza n. 197 del 2007.

    3. Nel merito, il ricorso è fondato.

      3.1.- Questa Corte ha più volte precisato che l'insindacabilità, di cui al primo comma dell'art. 68 Cost., copre le opinioni espresse extra moenia dai membri delle Camere solo quando le stesse costituiscano riproduzione sostanziale, ancorché non letterale, di atti tipici nei quali si estrinsecano le diverse funzioni parlamentari. Deve esistere un nesso funzionale tra queste ultime e le eventuali loro proiezioni esterne (ex plurimis, sentenze n. 260 del 2006, e n. 416 del 2006, quest'ultima riguardante le medesime parti e il medesimo contesto del giudizio a quo).

    Non è sufficiente, dunque, una generica identità di argomento o di contesto politico, ma è necessario un legame specifico tra l'atto parlamentare e la dichiarazione esterna, volta a renderlo noto ai cittadini. In altri termini, non deve mai mancare una «sostanziale corrispondenza tra le dichiarazioni rese extra moenia e quelle rese intra moenia» (sentenza n. 193 del 2005).

    Nel caso di specie, non è provato il nesso funzionale tra le dichiarazioni rese dal deputato in una trasmissione televisiva, nella sua qualità di conduttore ed opinionista televisivo, e gli atti parlamentari del medesimo. Condizione quest'ultima necessaria per sostenere la validità della delibera di insindacabilità assunta in data 26 gennaio 2005 e impugnata dal giudice confliggente (in questi termini, si veda anche la sentenza n. 53 del 2007, riguardante lo stesso parlamentare, in un contesto del tutto identico).

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

      dichiara che non spettava alla Camera dei deputati deliberare che le dichiarazioni rese dal deputato Vittorio Sgarbi, oggetto del procedimento civile pendente davanti alla Corte d'appello di Roma, costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione;

      annulla, per l'effetto, la deliberazione di insindacabilità adottata dalla Camera dei deputati nella seduta del 26 gennaio 2005 (Doc. IV- quater, n. 52).

      Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

SENTENZA N. 172

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-     Franco            BILE         Presidente

-     Giovanni Maria    FLICK          Giudice

-     Francesco         AMIRANTE          "

-     Ugo               DE SIERVO         "

-     Paolo             ADDALENA          "

-     Alfio             FINOCCHIARO       "

-     Alfonso           QUARANTA          "

-     Franco            GALLO             "

-     Luigi             MAZZELLA          "

-     Gaetano           SILVESTRI         "

-     Sabino            CASSESE           "

-     Maria Rita        SAULLE            "

-     Giuseppe          TESAURO           "

-     Paolo Maria       NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 777, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), promosso con ordinanza del 5 marzo 2007 dalla Corte di cassazione nel procedimento civile vertente tra Valerio Morettini e l'INPS iscritta al n. 507 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 27, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visti l'atto di costituzione dell'INPS nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 6 maggio 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella;

    uditi l'avvocato Nicola Valente per l'INPS e l'avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

      1. - Nel corso di un giudizio civile promosso da Valerio Morettini contro l'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), la Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 35, quarto comma, e 38, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 777, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007).

    La rimettente premette che il Morettini, titolare di pensione di anzianità liquidata sulla base sia di contributi versati in Svizzera, sia di contributi versati in Italia, ha proposto ricorso per cassazione contro la sentenza d'appello che ha respinto la domanda di accertamento del suo diritto al ricalcolo della pensione tenendo conto della retribuzione effettivamente percepita in Svizzera negli ultimi cinque anni di lavoro ed ha statuito (accogliendo la tesi sostenuta dall'INPS) che tale retribuzione deve essere riparametrata secondo le aliquote contributive vigenti nell'assicurazione generale obbligatoria.

    Il giudice a quo aggiunge che, nelle more del giudizio di cassazione, è sopravvenuta la legge n. 296 del 2006, la quale, all'art. 1, comma 777, prevede che «L'articolo 5, secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1968, n. 488, e successive modificazioni, si interpreta nel senso che, in caso di trasferimento presso l'assicurazione generale obbligatoria italiana dei contributi versati ad enti previdenziali di Paesi esteri in conseguenza di convenzioni ed accordi internazionali di sicurezza sociale, la retribuzione pensionabile relativa ai periodi di lavoro svolto nei Paesi esteri è determinata moltiplicando l'importo dei contributi trasferiti per cento e dividendo il risultato per l'aliquota contributiva per l'invalidità, vecchiaia e supers titi in vigore nel periodo cui i contributi si riferiscono. Sono fatti salvi i trattamenti pensionistici più favorevoli già liquidati alla data di entrata in vigore della presente legge».

    Ad avviso della Corte di cassazione, tale disposizione, applicabile nel giudizio principale, ancorché si autoqualifichi come interpretativa, ha invece carattere innovativo.

    Infatti, sul regime dei contributi trasferiti in forza della convenzione italo-svizzera del 14 dicembre l962, resa esecutiva con la legge 31 ottobre 1963, n. 1781 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione tra l'Italia e la Svizzera relativa alla sicurezza sociale col Protocollo finale e Dichiarazioni comuni, conclusa a Roma il 14 dicembre 1962), non sussisteva alcun contrasto di giurisprudenza, ma si era invece affermato un orientamento unico ed ormai consolidato, secondo il quale, ai sensi dell'art. 1 dell'accordo aggiuntivo alla predetta convenzione del 14 dicembre 1962, concluso a Berna il 4 luglio 1969, reso esecutivo con la legge 18 maggio 1973, n. 283 (Ratifica ed esecuzione dell'Accordo aggiuntivo alla Convenzione tra l'Italia e la Svizzera relativa alla sicurezza sociale del 14 dicembre 1962, conclu so a Berna il 4 luglio 1969), il lavoratore italiano può chiedere il trasferimento all'INPS dei contributi versati in Svizzera in suo favore, al fine di conseguire i vantaggi derivanti dalla legislazione italiana sull'assicurazione invalidità, vecchiaia e superstiti e, tra questi, quello della determinazione della pensione con il metodo retributivo. Sicché, non essendo state adottate dal legislatore italiano disposizioni particolari per regolare l'effetto del trasferimento dei contributi, nella determinazione del trattamento previdenziale in favore del lavoratore doveva farsi riferimento alla retribuzione da questi percepita, a nulla rilevando che i contributi accreditati in Svizzera e trasferiti in Italia fossero stati calcolati sulla base dell'aliquota prevista dalla legislazione elvetica.

    Quindi, prosegue la rimettente, la norma censurata ha introdotto un nuovo criterio contabile non ricavabile dalla disposizione interpretata, il quale, nei casi cui si applica la menzionata convenzione italo-svizzera, è peggiorativo per il pensionato, perché, essendo l'aliquota contributiva vigente in Svizzera sensibilmente inferiore a quella vigente in Italia nel periodo rilevante per il calcolo della pensione, anche la retribuzione pensionabile è proporzionalmente minore di quella computabile secondo il diverso criterio affermato dalla citata giurisprudenza di legittimità.

    Inoltre, la nuova disposizione trova applicazione anche nel caso in cui il lavoratore abbia maturato il diritto alla pensione di anzianità e ne abbia già chiesto la corresponsione, ancorché non abbia ottenuto la liquidazione della stessa per aver l'INPS opposto l'applicabilità di un criterio di calcolo diverso (e meno favorevole) rispetto a quello affermato dalla giurisprudenza di legittimità. Pertanto, un lavoratore (come quello ricorrente nel giudizio principale), pur avendo già maturato il diritto ad un trattamento pensionistico calcolato sulle retribuzioni effettivamente percepite in Svizzera senza alcuna riparametrazione in base alle aliquote contributive vigenti nell'assicurazione generale obbligatoria in Italia, si trova a subire ex tunc una decurtazione di tale trattamento già entrato nel suo patrimonio.

    Ad avviso della rimettente, la riduzione ex post di un trattamento previdenziale già maturato ridonda in lesione dell'art. 38, secondo comma, Cost., giacché priva il pensionato di mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita. Inoltre, è leso l'affidamento riposto nella certezza dei rapporti giuridici dal pensionato che, avendo operato scelte di vita collocandosi in quiescenza sulla base della normativa all'epoca vigente, si vede ridimensionato un diritto già maturato ed anche esercitato, con conseguente irragionevolezza intrinseca dell'efficacia retroattiva dell'art. 1, comma 777, della legge n. 296 del 2006, in violazione dell'art. 3, primo comma, della Costituzione.

    La Corte di cassazione sostiene, poi, che la norma censurata collide anche con il principio costituzionale della tutela del lavoro all'estero (art. 35, quarto comma, Cost. in combinato disposto con l'art. 3, primo comma, Cost.), perché - a parità di retribuzione percepita in Italia e all'estero - svantaggia il lavoratore emigrato rispetto al lavoratore rimasto in Italia, in quanto riparametra retroattivamente la retribuzione pensionabile del primo in termini ingiustificatamente riduttivi e penalizzanti.

    A parere del giudice a quo, è violato, infine, il principio di eguaglianza enunciato dall'art. 3, primo comma, Cost., poiché l'efficacia retroattiva dell'art. 1, comma 777, della legge n. 296 del 2006 si arresta di fronte all'avvenuta liquidazione della pensione che costituisce una circostanza contingente e casuale, inidonea di per sé a giustificare un regime differenziato.

      2. - Nel giudizio si è costituito l'INPS, il quale chiede che la questione di illegittimità costituzionale sia dichiarata infondata.

    Ad avviso dell'istituto previdenziale non sussiste violazione dell'art. 38 della Costituzione, non essendo vulnerato il principio dell'adeguatezza del trattamento pensionistico.

      Né la retroattività della norma lede l'affidamento nutrito dai lavoratori circa i criteri di computo della pensione, perché sussisteva un'obiettiva incertezza in ordine alle modalità di determinazione della retribuzione pensionabile, incertezza causata dalla contrapposizione fra la costante prassi amministrativa e l'orientamento giurisprudenziale della Corte di cassazione.

      L'INPS sostiene che la questione è infondata anche con riferimento all'art. 35, quarto comma, Cost., perché l'art. 1, comma 777, della legge n. 296 del 2006 non introduce alcuna discriminazione a danno del lavoratore impiegato all'estero, ma, al contrario, elimina la rilevante disparità di trattamento che si verifica a danno dei lavoratori che non possono avvalersi del trasferimento, i quali, applicando il criterio di calcolo affermato dalla giurisprudenza di legittimità, si troverebbero, a parità di retribuzione percepita, ad usufruire dello stesso trattamento pensionistico di chi ha trasferito all'INPS i contributi versati in Svizzera, nonostante che, a causa della rilevantissima differenza delle aliquote vigenti nei due Paesi, abbiano versato una contribuzione molto maggiore.

      Infine, a parere dell'istituto previdenziale, la norma censurata non víola neppure il principio di eguaglianza laddove individua nell'avvenuta liquidazione del trattamento pensionistico il limite alla sua efficacia retroattiva, poiché una simile clausola di salvezza non è irragionevole, valendo solamente ad escludere il ricalcolo in peius delle pensioni costituite in forza di sentenze passate in giudicato ovvero dei pochissimi trattamenti pensionistici liquidati in conformità all'orientamento espresso dalla Corte di cassazione a seguito dell'accoglimento di ricorsi amministrativi da parte dei comitati centrali dell'INPS.

      3. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso nel senso dell'infondatezza della questione.

      Ad avviso della difesa erariale, la norma censurata enuncia una delle possibili varianti di senso del testo della disposizione interpretata e non lede il principio della tutela dei lavoratori italiani all'estero, perché il sistema di calcolo della retribuzione pensionabile sulla base del trasferimento dei contributi versati in Svizzera, rimasto in vigore fino al 2002, è comunque maggiormente favorevole rispetto a quello in vigore per i lavoratori italiani occupati nei Paesi dell'Unione europea.

Considerato in diritto

    1. - La Corte di cassazione dubita, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 35, quarto comma, e 38, secondo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 777, della legge 27 dicembre 2006 n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), a norma del quale «L'articolo 5, secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1968, n. 488, e successive modificazioni, si interpreta nel senso che, in caso di trasferimento presso l'assicurazione generale obbligatoria italiana dei contributi versati ad enti previdenziali di Paesi esteri in conseguenza di convenzioni ed accordi internazionali di sicurezza sociale, la retribuzione pensionabile relativa ai periodi di lavoro svolto nei Paesi esteri è determ inata moltiplicando l'importo dei contributi trasferiti per cento e dividendo il risultato per l'aliquota contributiva per l'invalidità, vecchiaia e superstiti in vigore nel periodo cui i contributi si riferiscono. Sono fatti salvi i trattamenti pensionistici più favorevoli già liquidati alla data di entrata in vigore della presente legge».

    Ad avviso del giudice a quo, tale disposizione ha carattere innovativo, perché, quanto al regime dei contributi trasferiti in Italia in forza di convenzioni ed accordi conclusi con la Svizzera, si era già affermato un orientamento giurisprudenziale incontrastato, secondo il quale il lavoratore italiano che chiede il trasferimento all'INPS dei contributi versati in Svizzera in suo favore ha diritto di conseguire i vantaggi derivanti dalla legislazione previdenziale italiana, in particolare quello della determinazione della pensione con il metodo retributivo sulla base della retribuzione effettivamente percepita in Svizzera, a nulla rilevando che i contributi accreditati in Svizzera e trasferiti in Italia siano stati versati secondo l'aliquota prevista dalla legislaz ione elvetica, di gran lunga inferiore a quella stabilita dalla legislazione italiana.

    La norma censurata avrebbe quindi introdotto un nuovo criterio contabile non ricavabile dalla disposizione interpretata, con conseguente violazione dell'art. 3, primo comma, Cost., poiché sarebbe leso l'affidamento riposto nella certezza dei rapporti giuridici dai titolari di pensione, i quali, essendosi collocati in quiescenza sulla base della normativa all'epoca vigente, si vedrebbero ridimensionati diritti già maturati, e perché l'efficacia retroattiva della norma censurata, arrestandosi di fronte all'avvenuta liquidazione della pensione (che costituisce una circostanza contingente e casuale), lederebbe il principio di eguaglianza

    Sarebbero poi violati il principio della tutela del lavoro all'estero (enunciato dall'art. 35, quarto comma, Cost.), perché - a parità di retribuzione percepita in Italia e all'estero - la norma censurata svantaggerebbe il lavoratore emigrato rispetto a quello rimasto in Italia, e l'art. 38, secondo comma, Cost., poiché la riduzione ex post di un trattamento previdenziale già maturato priverebbe il pensionato di mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita.

    2. - La questione non è fondata.

    In base al sistema «retributivo» di computo delle pensioni erogate dall'assicurazione generale obbligatoria, introdotto dal d. P. R. 27 aprile 1968, n. 488 (Aumento e nuovo sistema di calcolo delle pensioni a carico dell'assicurazione generale obbligatoria), e valevole per l'assicurato attore del giudizio principale, la pensione si calcola applicando un coefficiente (proporzionato al numero complessivo di settimane di contribuzione vantate dall'interessato) alla retribuzione annua pensionabile, vale a dire alla retribuzione annua media percepita dal lavoratore durante un certo periodo di riferimento.

    Interventi legislativi succedutisi nel tempo hanno definito in maniera diversa i criteri di determinazione della retribuzione pensionabile: si vedano, in particolare, l'art. 5, secondo comma, del d. P. R. n. 488 del 1968, l'art. 14 della legge 30 aprile 1969, n. 153 (Revisione degli ordinamenti pensionistici e norme in materia di sicurezza sociale), l'art. 3 della legge 29 maggio 1982, n. 297 (Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica), l'art. 3 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell'articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), l'art. 1 del decreto legislativo 11 agosto 1993, n. 373 (Attuazione dell'art. 3, comma 1, lettera o), della legge 23 ottobre 1992, n. 421, recante calcolo delle pensioni per i nuovi assunti).

    Caratteristica comune di tutte le menzionate norme di definizione della retribuzione pensionabile è che esse si collocano nell'àmbito di un sistema previdenziale tendente alla corrispondenza fra le risorse disponibili e le prestazioni erogate. E ciò anche in ossequio al vincolo imposto dall'art. 81, quarto comma, della Costituzione. Difatti, lo stesso passaggio dal criterio «contributivo» a quello «retributivo» nel calcolo delle pensioni, non è avvenuto a discapito dell'esigenza della sostenibilità finanziaria del sistema. Il principio secondo il quale la pensione deve essere calcolata applicando alla retribuzione mediamente percepita dal lavoratore in un determinato arco di tempo una certa percentuale direttamente proporzionale al numero di settimane coperte da contribuzione ha sempre avuto per presupposto la circostanza che le aliquote contributive vigenti fossero tali da garantire l'equilibrio finanziario di un tale sistema.

    Se, dunque, le previsioni espresse dall'art. 5, secondo comma, del d. P. R. n. 488 del 1968 e dalle successive disposizioni in materia, implicano che il rapporto tra la retribuzione pensionabile e la massa dei contributi disponibili sia quello espresso dalle aliquote contributive previste in Italia, non è affatto incompatibile con tali norme una loro applicazione, secondo la quale, nei casi in cui occorra calcolare la retribuzione pensionabile di chi abbia versato i contributi secondo sistemi diversi da quello italiano, si proceda ad una riparametrazione della retribuzione percepita all'estero che consenta di rendere il rapporto tra retribuzione pensionabile e contributi versati omogeneo a quello vigente in Italia nello stesso periodo di tempo. Ed è ciò che ha stabilito l'art. 1, comma 777, della legge n. 2 96 del 2006, disponendo che la retribuzione percepita all'estero, da porre a base del calcolo della pensione, sia riproporzionata al fine di stabilire lo stesso rapporto percentuale previsto per i contributi versati nel nostro Paese nel medesimo periodo. In altri termini, la norma ha reso esplicito un precetto già contenuto nelle disposizioni oggetto dell'interpretazione autentica. Sotto tale profilo essa non è quindi irragionevole (sentenze n. 274 e n. 135 del 2006).

      La norma censurata, inoltre, assegnando alla disposizione interpretata un significato rientrante nelle possibili letture del testo originario, non determina alcuna lesione dell'affidamento del cittadino nella certezza dell'ordinamento giuridico, anche perché nella fattispecie l'ente previdenziale ha continuato a contestare l'interpretazione sostenuta dalle controparti private - ed accolta dalla giurisprudenza - rendendo così reale il dubbio ermeneutico.

    Né sussiste violazione del principio di eguaglianza, anch'esso sancito dall'art. 3, primo comma, Cost., perché la salvezza delle posizioni dei lavoratori, cui già sia stato liquidato il trattamento pensionistico secondo un criterio più favorevole, risponde, questo sì, all'esigenza di rispettare il principio dell'affidamento ed i diritti ormai acquisiti di detti lavoratori.

    Non è leso neppure l'art. 35, quarto comma, Cost., perché l'art. 1, comma 777, della legge n. 296 del 2006 non attribuisce al lavoro prestato all'estero un trattamento deteriore rispetto a quello svolto in Italia, ma anzi assicura la razionalità complessiva del sistema previdenziale, evitando che, a fronte di una esigua contribuzione versata nel Paese estero, si possano ottenere le stesse utilità che chi ha prestato attività lavorativa esclusivamente in Italia può conseguire solo grazie ad una contribuzione molto più gravosa.

    Infine, non è ravvisabile un contrasto con l'art. 38, secondo comma, Cost., perché la norma censurata non determina alcuna riduzione ex post del trattamento previdenziale spettante ai lavoratori. Essa, in definitiva, non fa altro che imporre per legge un'interpretazione già desumibile dalle disposizioni interpretate. Né la rimettente offre elementi per far ritenere che la norma determini un trattamento pensionistico addirittura insufficiente al soddisfacimento delle esigenze di vita del lavoratore.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 777, della legge 27 dicembre 2006 n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 35, quarto comma, e 38, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l'ordinanza indicata in epigrafe.

      Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

ORDINANZA N. 173

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Franco               BILE         Presidente

-  Giovanni Maria       FLICK          Giudice

-  Francesco            AMIRANTE          "

-  Ugo                  DE SIERVO         "

-  Alfio                FINOCCHIARO       "

-  Alfonso              QUARANTA          "

-  Franco               GALLO             "

-  Luigi                MAZZELLA          "

-  Gaetano              SILVESTRI         "

-  Sabino               CASSESE           "

-  Maria Rita           SAULLE            "

-  Giuseppe             TESAURO           "

-  Paolo Maria          NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 51, secondo comma, numero 2), del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto), come sostituito dall'art. 18, comma 2, lettera a), della legge 30 dicembre 1991, n. 413 (Disposizioni per ampliare le basi imponibili, per razionalizzare, facilitare e potenziare l'attività di accertamento; disposizioni per la rivalutazione obbligatoria dei beni immobili delle imprese, nonché per riformare il contenzioso e per la definizione agevolata dei rapporti tributari pendenti; delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia per reati tributari; istituzioni dei centri di assistenza fiscale e del conto fiscale), promosso con ordinanza del 5 marzo 2007 dalla Commissi one tributaria regionale della Toscana nel giudizio vertente tra Mirco Genovesi e l'Agenzia delle entrate, ufficio di Massa, iscritta al n. 583 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell'anno 2007.

      Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

      udito nella camera di consiglio del 27 febbraio 2008 il Giudice relatore Franco Gallo.

      Ritenuto che, nel corso di un giudizio di appello, riassunto a séguito della cassazione con rinvio - pronunciata dalla Corte di cassazione con sentenza n. 4732 del 2006 - della originaria sentenza di secondo grado ed avente ad oggetto la sentenza con cui il giudice di primo grado aveva rigettato il ricorso proposto da un contribuente avverso l'avviso di accertamento dell'IVA relativa all'anno 1991, la Commissione tributaria regionale della Toscana, con ordinanza pronunciata e depositata il 5 marzo 2007, ha sollevato - in riferimento agli artt. 2, 23, 53 e 97 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale dell'art. 51, secondo comma, numero 2), del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto), come sostituito dall'art. 18, comma 2, lettera a), della legge 30 dicembre 1991, n. 413 (Disposizioni per ampliare le basi imponibili, per razionalizzare, facilitare e potenziare l'attività di accertamento; disposizioni per la rivalutazione obbligatoria dei beni immobili delle imprese, nonché per riformare il contenzioso e per la definizione agevolata dei rapporti tributari pendenti; delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia per reati tributari; istituzioni dei centri di assistenza fiscale e del conto fiscale), entrata in vigore il 1° gennaio 1992;

    che la Commissione rimettente premette che la Corte di cassazione, con la suddetta pronuncia, ha fissato il seguente principio di diritto, al quale la stessa Commissione deve uniformarsi quale giudice di rinvio: «la legge 30 dicembre 1991, n. 413, art. 18, il quale, modificando il d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, ha rimosso limitazioni e reso piú agevole la facoltà degli uffici dell'imposta sul valore aggiunto o della guardia di finanza di assumere notizie e copie di documenti presso gli istituti di credito, non interferisce sul rapporto tributario, non introduce infrazioni o sanzioni prima non previste, né incide sull'onere dell'Amministrazione di provare la pretesa impositiva, ma disciplina soltanto le attività di indagine ed accertamento. Ne consegue che malgrado la portata innovativa e la carenza di una previsione di retroattività è consentito all'amministrazione finanziaria, in applicazione della norma, di assumere le relative iniziative ispettive e di accertamento anche se in relazione a periodi d'imposta anteriori»;

    che il giudice a quo, dopo avere constatato la ritualità della riassunzione del giudizio davanti a sé e, quindi, la sussistenza del vincolo interpretativo cui è astretto in base al sopra enunciato principio di diritto, solleva questione di legittimità della denunciata disposizione, quale interpretata dalla Corte di cassazione;

    che il medesimo giudice a quo, quanto alla non manifesta infondatezza della questione, afferma che la «retroattività» della norma denunciata «consente all'Ufficio di avvalersi di presunzioni semplici ricavate dai movimenti attivi e passivi dei conti correnti del contribuente, ai fini dell'accertamento della base imponibile IVA, anche per il periodo anteriore all'entrata in vigore della legge n. 413/91 cit., cosí da onerare il contribuente dell'allegazione di prove che all'epoca dei fatti, stante il dettato normativo in vigore, egli non era tenuto a precostituirsi»;

    che, per il giudice rimettente, ciò comporta il contrasto di detta norma con: a) l'art. 3 Cost., perché crea una disparità di trattamento rispetto ad «altre imposte di natura indiretta», per le quali, non applicandosi la norma denunciata, non operano gli stessi meccanismi presuntivi; b) gli artt. 23 e 53 Cost., perché il meccanismo presuntivo da essa previsto, in quanto retroattivamente applicabile, può rendere difficile al contribuente la prova del suo effettivo debito d'imposta; c) l'art. 97 Cost., perché prevede, per gli anni anteriori al 1992, «una presunzione legale, che è, in molti casi, sostanzialmente assoluta, ai fini dell'accertamento della base imponibile IVA», creando una indebita situazione di privilegio per la pubblica amministrazione e compromettendo il buon andamento di questa; d) l'art. 2 Cost. (parametro evocato solo nel dispositivo dell'ordinanza di rimessione); e) i princípi di certezza del diritto e di tutela dell'affidamento del cittadino, perché impone a quest'ultimo l'onere di giustificare i movimenti del proprio conto corrente bancario con l'allegazione di prove che, per gli anni anteriori al 1992, non era tenuto a precostituirsi; f) il criterio interpretativo posto dall'art. 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente) - costituente principio generale dell'ordinamento tributario, ai sensi dell'art. 1 della medesima legge -, secondo cui «le disposizioni tributarie non hanno effetto retroattivo»; g) i princípi di correttezza e buona fede che debbono informare i rapporti tra amministrazione e finanziaria e contribuenti, come risulta dalla complessiva disciplina degli artt. 5, 6, 7 e 10 della citata legge n. 212 del 2000 e come riconosciuto, altresí , dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, della Corte costituzionale, della Corte di giustizia CE e della Corte europea dei diritti dell'uomo;

    che, per il giudice a quo, l'ordinanza n. 260 del 2000 della Corte costituzionale non costituisce ostacolo alla proposizione della questione, perché tale pronuncia non afferma che l'applicazione degli accertamenti di cui all'art. 51, secondo comma, numero 2), del d.P.R. n. 633 del 1972 anche ad annualità d'imposta anteriori all'entrata in vigore della legge n. 413 del 1991 è conforme al dettato costituzionale, ma si limita a chiarire che le risultanze degli accertamenti bancari fondano presunzioni solo relative, superabili dal contribuente con la dimostrazione che dette risultanze non si riferiscono ad operazioni imponibili o che di esse ha tenuto conto nelle dichiarazioni presentate;

    che infine, quanto alla rilevanza, il giudice rimettente afferma che l'interpretazione della norma denunciata fa parte del thema decidendum del giudizio di appello portato al suo esame;

    che è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate;

    che, in particolare, secondo la difesa erariale: a) le norme dello statuto dei diritti del contribuente non costituiscono parametro costituzionale; b) il rimettente muove dall'inesatta premessa ermeneutica che la norma denunciata abbia efficacia retroattiva;

    che, a quest'ultimo riguardo, l'Avvocatura generale dello Stato - invocando a sostegno varie sentenze della Corte di cassazione (n. 1728 del 1999; n. 9611 del 2000; n. 26692 del 2005; n. 14023 del 2007) - rileva che la disposizione denunciata va interpretata come riguardante non già l'imposizione, ma il potere di accertamento, con la conseguenza che, in applicazione del principio tempus regit actum, la disciplina degli accertamenti fiscali è regolata dalla legge vigente al momento in cui viene eseguita la verifica, anche se questa concerne periodi di imposta anteriori al 1992;

    che, per la difesa erariale, tale interpretazione della disposizione denunciata non è lesiva dei princípi di ragionevolezza e di tutela dell'affidamento del contribuente, perché, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione: a) anche prima delle innovazioni introdotte dall'art. 18, comma 2, lettera a), della legge n. 413 del 1991, le indagini su conti correnti bancari, a fini tributari, non erano precluse ed erano, perciò, legittimi gli accertamenti basati su dette indagini (sentenza n. 2668 del 1996); b) l'aspettativa di una maggiore probabilità di sottrarsi alla scoperta di irregolarità od infrazioni non integra un diritto tutelabile (sentenza n. 1728 del 1999); c) la norma censurata non ha operato alcuna inversione dell'onere della prova in relazione ai dati emergenti dagli accertamenti bancari, ma ha solo reso "legali" le presunzioni che in precedenza dovevano considerarsi "semplici" (sentenza n. 11778 del 2001);

    che l'Avvocatura generale dello Stato, infine, con riferimento ai parametri costituzionali evocati, osserva: 1) quanto all'art. 3 Cost., che il rimettente, da un lato, non ha indicato le situazioni analoghe che sarebbero sottoposte a differente disciplina e, dall'altro, non ha considerato le norme aventi un contenuto sostanzialmente analogo a quello della norma denunciata (come l'art. 32, primo comma, numero 2 e numero 7, del d.P.R. n. 600 del 1973); 2) quanto all'art. 23 Cost, che tale articolo non solo riguarda esclusivamente le norme tributarie impositive o sostanziali e non quelle aventi ad oggetto il potere di accertamento (come la norma censurata), ma, comunque, risulta pienamente rispettato, nella specie; 3) quanto all'art. 53, primo comma, C ost., che l'accertamento presuntivo (suscettibile di prova contraria) consentito dalla norma censurata  costituisce uno strumento diretto proprio ad attuare il principio di capacità contributiva; 4) quanto alla dedotta violazione del principio dell'imparzialità e del buon andamento dell'attività della pubblica amministrazione, che la censura è oscura e l'art. 97 Cost. non è conferente.

    Considerato che la Commissione tributaria regionale della Toscana dubita, in riferimento agli artt. 2, 3, 23, 53 e 97 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 51, secondo comma, numero 2), del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto), come sostituito - con effetto dal 1° gennaio 1992 - dall'art. 18, comma 2, lettera a), della legge 30 dicembre 1991, n. 413 (Disposizioni per ampliare le basi imponibili, per razionalizzare, facilitare e potenziare l'attività di accertamento; disposizioni per la rivalutazione obbligatoria dei beni immobili delle imprese, nonché pe r riformare il contenzioso e per la definizione agevolata dei rapporti tributari pendenti; delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia per reati tributari; istituzioni dei centri di assistenza fiscale e del conto fiscale), e come interpretato, con la sentenza n. 4732 del 2006, dalla Corte di cassazione nel formulare il principio di diritto cui deve uniformarsi la medesima Commissione quale giudice di rinvio;

    che la Commissione tributaria rimettente precisa che la suddetta norma censurata consente all'amministrazione finanziaria di assumere iniziative ispettive e di accertamento della base imponibile dell'IVA presso istituti di credito e di porre a base delle rettifiche e degli accertamenti i dati e gli elementi risultanti da tali indagini (se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto nelle dichiarazioni o che non si riferiscono ad operazioni imponibili), anche in relazione a periodi d'imposta anteriori a quello in corso alla data di entrata in vigore della suddetta legge n. 413 del 1991 (1° gennaio 1992);

    che, secondo il giudice a quo, la disposizione denunciata, cosí interpretata, si pone in contrasto con gli evocati parametri costituzionali e, in particolare, con: a) l'art. 2 Cost.; b) l'art. 3 Cost., perché crea una disparità di trattamento rispetto ad «altre imposte di natura indiretta», per le quali, non applicandosi la norma denunciata, non operano gli stessi meccanismi presuntivi, senza che a tale rilievo possa opporsi l'esistenza di «disposizioni corrispondenti in materia di accertamento delle imposte sui redditi», trattandosi di disposizioni non aventi carattere generale; c) gli artt. 23 e 53 Cost., perché il meccanismo presuntivo da essa previsto, in quanto retroattivamente applicabile, «può rendere impossibile od estremamente diffic ile al contribuente la prova della effettività del suo debito d'imposta, nonché della sussistenza e della dimensione delle operazioni imponibili», onerando il contribuente dell'allegazione di prove che all'epoca dei fatti, stante il dettato normativo in vigore, egli non era tenuto a precostituirsi; d) l'art. 97 Cost., perché prevede, per gli anni anteriori al 1992, «una presunzione legale, che è, in molti casi, sostanzialmente assoluta, ai fini dell'accertamento della base imponibile IVA» e, pertanto, «si traduce in una indebita situazione di privilegio» per la pubblica amministrazione, compromettendo il buon andamento di questa;

    che, come costantemente affermato da questa Corte, il regime delle preclusioni proprio del giudizio di rinvio non impedisce di sollevare questione di legittimità costituzionale della norma dalla quale è tratto il "principio di diritto" enunciato dalla Corte di cassazione con la sentenza di cassazione con rinvio (ex plurimis: sentenze nn. 349 e 78 del 2007; n. 224 del 1996; n. 58 del 1995; n. 257 del 1994; n. 138 del 1993; ordinanze n. 153 del 2007; n. 501 del 2000; n. 11 del 1999);

    che, sotto questo profilo, le sollevate questioni - aventi ad oggetto l'interpretazione risultante dal "principio di diritto" stabilito dalla Corte di cassazione - sono ammissibili;

    che, come risulta dal dispositivo e dalla motivazione dell'ordinanza di rimessione, il rimettente non ha inteso evocare quali parametri costituzionali né i «princípi di certezza del diritto e di tutela dell'affidamento del cittadino», né l'«art. 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212», né gli «artt. 5, 6, 7 e 10 della citata legge n. 212 del 2000», perché tali princípi e disposizioni sono stati da lui menzionati al solo fine di sottolineare la gravità del contrasto della norma denunciata con i parametri costituzionali evocati;

    che la questione proposta con riferimento all'art. 2 Cost. è manifestamente inammissibile, perché il rimettente non indica le ragioni della ritenuta non manifesta infondatezza della questione medesima con riferimento a tale parametro, indicato soltanto nel dispositivo dell'ordinanza di rimessione;

    che la questione relativa all'asserita violazione del principio di eguaglianza sancito dall'art. 3 Cost. è manifestamente infondata, perché: a) «è formulata dal rimettente senza alcuna indicazione delle situazioni asseritamente analoghe che sarebbero sottoposte a differente disciplina; [.] al contrario, norme sostanzialmente analoghe a quelle denunciate sono previste ai fini dell'accertamento, nei confronti di tutti i contribuenti, delle imposte sui redditi (cfr. art. 32, primo comma, numeri 2 e 7, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, come modificati, anch'essi, dal medesimo art. 18 della legge 30 dicembre 1991, n. 413 [.])» (ordinanza n. 260 del 2000 citata dallo stesso giudice a quo, che ha già dichiarato manifestamente infondata una quest ione identica a quella in esame); b) il rimettente non solo non precisa i tertia comparationis da lui genericamente richiamati, ma nemmeno spiega la ragione per cui le disposizioni in materia di accertamento delle imposte sui redditi corrispondenti a quella censurata non avrebbero carattere generale;

    che anche le questioni relative all'asserita violazione degli artt. 23 e 53 Cost. sono manifestamente infondate, perché il giudice a quo muove dall'erroneo presupposto che la norma denunciata abbia efficacia retroattiva;

    che tale presupposto è infondato, perché la suddetta norma  è dettata con riferimento non già agli anni d'imposta oggetto delle indagini degli uffici tributari, ma all'acquisizione, da parte degli uffici stessi, di dati relativi ai conti correnti bancari e simili, concernenti qualsiasi periodo d'imposta e, quindi, anche i periodi - come quello al quale si riferisce il giudizio principale - anteriori al 1992, anno di entrata in vigore della suddetta legge n. 413 del 1991;

    che, pertanto, la norma denunciata non ha efficacia retroattiva ed esplica i suoi effetti solo sul piano istruttorio, con la conseguenza che - contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente - il contribuente non può subire alcun pregiudizio, rilevante ai fini del giudizio di costituzionalità, in caso di applicazione di detta norma ad anni d'imposta anteriori al 1992, in quanto: a) sul piano sostanziale, la pretesa impositiva erariale e gli obblighi tributari del contribuente non mutano per effetto dell'applicazione del censurato art. 51, secondo comma, numero 2), del d.P.R. n. 633 del 1972; b) il contribuente non può vantare alcun legittimo affidamento ad evitare che l'accer tamento relativo agli anni d'imposta anteriori al 1992 sia effettuato in base alla norma censurata, successivamente al 1° gennaio 1992 (come si è verificato nella specie); c) la presunzione basata sui dati bancari è suscettibile di prova contraria e, comunque, si fonda ragionevolmente sul carattere oggettivo delle risultanze (ordinanze n. 33 del 2002 e n. 260 del 2000), oltre che sulla natura e consistenza degli elementi in concreto utilizzati dall'amministrazione (come chiarito anche dalla sentenza della Corte di cassazione n. 11778 del 2001);

    che, dunque, la norma medesima, in quanto si limita ad integrare i poteri istruttori esercitabili dall'amministrazione finanziaria ai fini dell'accertamento, riguarda il solo profilo probatorio e, perciò, non vulnera il principio della capacità contributiva di cui all'art. 53 Cost.(come già precisato dalla citata ordinanza di questa Corte n. 260 del 2000);

    che, inoltre, il principio della riserva di legge di cui all'art. 23 Cost. risulta pienamente rispettato, sia perché la norma denunciata è posta da una legge ordinaria non avente efficacia retroattiva, sia perché, comunque, l'evocato art. 23 Cost. non stabilisce alcun principio di irretroattività della legge tributaria (ordinanza n. 428 del 2006);

    che tali conclusioni coincidono con il diritto vivente in materia (ivi compresa la sentenza che ha formulato il "principio di diritto" vincolante per il giudice rimettente), secondo cui la norma denunciata non ha efficacia retroattiva, attiene alle sole operazioni di acquisizione dei dati bancari (cioè ad un piano "processuale" ed istruttorio) e, quindi, può essere applicata ad anni d'imposta anteriori al 1992, in piena coerenza con il principio tempus regit actum (ex plurimis, Corte di cassazione, sentenze n. 14023 del 2007; n. 19613 del 2006; n. 4732 del 2006);

    che anche la questione relativa alla asserita violazione dell'art. 97 Cost. è manifestamente infondata, perché la norma denunciata non compromette né l'imparzialità né il buon andamento della pubblica amministrazione, limitandosi a chiarire quali presunzioni (oggettive, ragionevoli e relative) possono essere poste a base delle rettifiche e degli accertamenti tributari di cui agli artt. 54 e 55 del d.P.R. n. 633 del 1972.

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

      per questi motivi

    La Corte costituzionale

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 51, secondo comma, numero 2), del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto), come sostituito dall'art. 18, comma 2, lettera a), della legge 30 dicembre 1991, n. 413 (Disposizioni per ampliare le basi imponibili, per razionalizzare, facilitare e potenziare l'attività di accertamento; disposizioni per la rivalutazione obbligatoria dei beni immobili delle imprese, nonché per riformare il contenzioso e per la definizione agevolata dei rapporti tributari pendenti; delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia per reati tributari; istituzioni dei centri di assistenza fiscale e del conto fiscale), sollevata, con riferimento all'art. 2 della Costituzione, dalla Commissione tributaria regionale della Toscana con l'ordinanza indicata in epigrafe;

    dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale del medesimo art. 51, secondo comma, numero 2), del d.P.R. n. 633 del 1972, come sostituito dall'art. 18, comma 2, lettera a), della legge n. 413 del 1991, sollevate, con riferimento agli artt. 3, 23, 53 e 97 Cost., dalla stessa Commissione tributaria regionale della Toscana con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

ORDINANZA N. 174

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

- Franco          BILE        Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 44 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia - Testo A), promosso con ordinanza del 21 marzo 2007 dal Tribunale di Ancona - sezione distaccata di Jesi nel procedimento penale a carico di Felicetti Italo ed altri, iscritta al n. 747 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visti l'atto di costituzione di Felicetti Italo ed altro, nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Paolo Maddalena.

    Ritenuto che il Tribunale ordinario di Ancona, sezione distaccata di Jesi, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 44 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia - Testo A), nella parte in cui non prevede la causa di estinzione del reato prevista dall'art. 181, comma 1-quinquies, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Co dice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137);

    che il censurato art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede le sanzioni penali conseguenti alle violazioni della disciplina urbanistica ed edilizia (sostituendo quelle già introdotte dall'art. 20 della legge 28 febbraio 1985, n. 47 recante «Norme in materia di controllo dell'attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere edilizie»);

    che l'art. 181, comma 1-quinquies, del decreto legislativo n. 42 del 2004 prevede le sanzioni penali conseguenti alle violazioni della disciplina paesistica (sostituendo quelle già introdotte dall'art. 163 del decreto legislativo 29 ottobre 1999, n. 490 recante «Testo unico delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, a norma dell'art. 1 della legge 8 ottobre 1997, n. 352»);

    che il comma 1-quinquies del predetto art. 181 (comma aggiunto dall'art. 1, comma 36, della legge 15 dicembre 2004, n. 308 recante «Delega al Governo per il riordino, il coordinamento e l'integrazione della legislazione in materia ambientale e misure di diretta applicazione») prevede l'estinzione del reato paesistico, in caso di rimessione in pristino delle aree o degli immobili soggetti a vincoli paesaggistici da parte del trasgressore, prima che venga disposta d'ufficio dalla autorità amministrativa, e comunque prima che intervenga la condanna, mentre analogo effetto estintivo non è previsto dal censurato art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001;

    che il giudice rimettente, con ordinanza del 21 marzo 2007, solleva la delineata questione, "recependo" la stessa «come da memoria ora prodotta da considerarsi parte integrante del presente provvedimento»;

    che la memoria allegata all'ordinanza di rimessione è la memoria di cui all'art. 121 del codice di procedura penale presentata dagli imputati Felicetti Italo ed Alessandro nella medesima data del 21 marzo 2007;

    che con tale memoria viene censurata la irragionevolezza dell'art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 e la ingiustificata disparità di trattamento rispetto alla previsione dell'art. 181 del d.lgs. n. 42 del 2004, sull'assunto che entrambe le norme sanzionino l'abuso edilizio e che sia irragionevole che il trattamento sanzionatorio più lieve sia riservato alla fattispecie più grave ovvero all'abuso commesso in una zona o su di un bene vincolato paesisticamente;

    che, in ordine alla rilevanza della questione, nella memoria si precisa: a) che «[g]li imputati, in ossequio alla diffida a demolire (all'ingiunzione proposta dal Comune ex art. 31, comma I, DPR 380/2001) e dunque ben prima che venisse disposta la demolizione d'ufficio (con ordinanza di cui all'art. 31 comma V, DPR 380/2001 [mai adottata nel caso di specie]), hanno demolito il fabbricato abusivo, ripristinando lo status ex quo ante»; b) che si sarebbe dunque verificata quella causa di estinzione del reato prevista dall'art. 181, comma 1-quinquies, del d.lgs. n. 42 del 2004, «di cui avrebbero beneficiato ove avessero commesso l'abuso in una zona vincolata»; c) che «[a]llo stato attuale gli imputati pe rò, non avendo costruito in zona vincolata, non possono godere di tale disposizione di legge»; d) che, qualora la Corte costituzionale decidesse di adottare una pronuncia "additiva", estendendo tale causa estintiva anche al reato previsto dal censurato art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001, essi dovrebbero essere assolti, anziché condannati;

    che la memoria allegata all'ordinanza di remissione sostiene, infine, la novità della questione, l'impossibilità di una interpretazione che valga a superare la stessa e la assenza di conflitti giurisprudenziali sul punto;

    che Italo ed Alessandro Felicetti, imputati nel giudizio a quo, si sono costituiti, «rinviando, per le argomentazioni da sottoporre al vaglio» della Corte «alla memoria depositata nel giudizio a quo dichiarata parte integrante dell'ordinanza» di rimessione;

    che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con una memoria, nella quale chiede che la questione sia dichiarata manifestamente infondata;

    che l'Avvocatura rileva che analoga questione è già stata ritenuta manifestamente infondata dalla Corte costituzionale con ordinanza n. 144 del 2007 e richiama gli argomenti essenziali di tale decisione.

    Considerato che il Tribunale ordinario di Ancona, sezione distaccata di Jesi, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 44 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), nella parte in cui non prevede la causa di estinzione del reato prevista dall'art. 181, comma 1-quinquies, del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice de i beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137);

    che analoga questione è stata ritenuta manifestamente infondata da questa Corte con le ordinanze numeri 144 e 439 del 2007;

    che, peraltro, la questione è manifestamente inammissibile perché il rimettente (il quale si limita a rinviare ad una allegata memoria di parte), non descrive in alcun modo la fattispecie sottoposta al suo giudizio (ex plurimis, ordinanze n. 308 e n. 450 del 2007 e n. 82 del 2008);

    che, nella specie, tale insufficiente descrizione della fattispecie impedisce la stessa precisa individuazione dei termini della questione sollevata, atteso che la carenza di elementi di fatto non consente di individuare con certezza nemmeno quale delle tre distinte ipotesi di contravvenzioni edilizie previste dal censurato art. 44 del d.P.R. n. 380 del 2001 sia stata contestata agli imputati.

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 44 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia - Testo A), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale penale di Ancona, sezione distaccata di Jesi, con l'ordinanza in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

ORDINANZA N. 175

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

-         Franco         BILE               Presidente

-         Giovanni Maria FLICK                Giudice

-         Francesco      AMIRANTE                "

-         Ugo            DE SIERVO               "

-         Paolo          MADDALENA               "

-         Alfio          FINOCCHIARO             "

-         Alfonso        QUARANTA                "

-         Franco         GALLO                   "

-         Luigi          MAZZELLA                "

-         Gaetano        SILVESTRI               "

-         Sabino         CASSESE                 "

-         Maria Rita     SAULLE                  "

-         Giuseppe       TESAURO                 "

-         Paolo Maria    NAPOLITANO              "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 32 del regio decreto 28 aprile 1938, n. 1165 (Approvazione del testo unico delle disposizioni sull'edilizia popolare ed economica) promosso con ordinanza dell'11 luglio 2007 dal Tribunale ordinario di Belluno nel procedimento civile vertente tra Dal Pont Christian e l'Azienda Territoriale per l'Edilizia Residenziale della Provincia di Belluno, iscritta al n. 730 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2008 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro.

    Ritenuto che nel corso di un giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, il Tribunale ordinario di Belluno ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 32 del regio decreto 28 aprile 1938, n. 1165 (Approvazione del testo unico delle disposizioni sull'edilizia popolare ed economica), per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione;

    che il giudizio di opposizione è stato promosso da Christian Dal Pont, contro il decreto emesso il 15 aprile 2005, con cui, su ricorso dell'A.t.e.r. di Belluno, gli era stato ingiunto il pagamento della somma di ? 7.404,47, a titolo di canoni ed oneri accessori relativi all'alloggio sito in Belluno, via Caduti del lavoro 29, locatogli dall'A.t.e.r.;

    che l'opponente ha eccepito l'inefficacia del decreto ingiuntivo opposto, per essere stato lo stesso notificato il 29 novembre 2005, ben oltre il termine di sessanta giorni, previsto in via generale dall'art. 644 del codice di procedura civile, dalla data di emissione del decreto;

    che il giudice a quo rileva che l'art. 32 del regio decreto n. 1165 del 1938 non prevede alcun termine massimo per la notifica del decreto, e non richiama l'art. 644 cod. proc. civ.;

    che, sotto il profilo della rilevanza, il Tribunale di Belluno assume che, ove la questione fosse fondata, l'eccezione dell'opponente dovrebbe essere accolta, con conseguente declaratoria d'inefficacia del decreto;

    che, sotto il profilo della non manifesta infondatezza, il rimettente richiama la sentenza n. 159 del 1969, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità del richiamato art. 32, per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui la norma fissava, per il pagamento dei canoni scaduti e per l'opposizione al decreto ingiuntivo, termini diversi da quelli previsti in via ordinaria dall'art. 641 cod. proc. civ., nonché la successiva sentenza n. 203 del 2003 che, ricollegandosi alla precedente, ha affermato essere estesa al giudizio in esame la disciplina codicistica sui termini per le opposizioni ad ingiunzione;

    che, secondo il rimettente, in assenza di specifica previsione normativa in contrario, però, il precedente non è sufficiente a supportare l'applicazione dell'art. 644 cod. proc. civ., al procedimento speciale previsto in materia di edilizia residenziale;

    che la mancata previsione di un termine per la notifica del decreto comporta che l'ingiunto possa vedersi notificato il decreto anche molto tempo dopo la sua emissione, con ingiustificata disparità di trattamento rispetto al destinatario di ordinario decreto ingiuntivo, soggetto invece a precise cadenze processuali, senza che tale trattamento possa essere spiegato in virtù della specialità del procedimento o per garantire il perseguimento degli scopi di pubblico interesse dell'istituto creditore;

    che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo dichiararsi la manifesta inammissibilità della questione, per non avere il Tribunale rimettente evidenziato le ragioni per cui la disciplina del codice di procedura civile non sarebbe applicabile al giudizio di opposizione all'ingiunzione emessa ai sensi dell'art. 32 del regio decreto n. 1165 del 1938, con ciò rendendosi inottemperante al dovere di ricercare un'opzione interpretativa della norma conforme a Costituzione, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale che, in materia, ha dichiarato applicabili i princípi generali;

    che, in ogni caso, secondo la difesa erariale, la questione è manifestamente infondata sulla base dell'interpretazione adeguatrice desumibile dalla sentenza n. 159 del 1969 della Corte costituzionale.

    Considerato che il Tribunale ordinario di Belluno dubita della legittimità costituzionale dell'art. 32 del regio decreto 28 aprile 1938, n. 1165 (Approvazione del testo unico delle disposizioni sull'edilizia popolare ed economica), nella parte in cui non prevede un termine massimo per la notificazione, al conduttore moroso di alloggio di edilizia economica e popolare, del decreto ingiuntivo per il pagamento dei canoni, a pena di inefficacia dello stesso, per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione;

    che il giudice rimettente assume che la mancata previsione del termine comporta che l'ingiunto, nello speciale procedimento di cui all'art. 32 del regio decreto citato, possa vedersi notificato il decreto anche molto tempo dopo la sua emissione, con ingiustificata disparità di trattamento rispetto al destinatario di ordinario decreto ingiuntivo, soggetto invece a precise cadenze processuali, senza che tale trattamento possa essere spiegato in virtù della specialità del procedimento o per garantire il perseguimento degli scopi di pubblico interesse dell'Istituto creditore;

    che lo stesso giudice aggiunge testualmente che «non appare che la pronuncia del 1969 attinente ai termini per l'opposizione sia da sola sufficiente a supportare un'interpretazione che conduca all'applicazione dell'art. 644 cod. proc. civ. al procedimento speciale previsto per l'edilizia residenziale pubblica, in assenza di una specifica previsione normativa»;

    che tale proposizione resta al livello di mera affermazione e il remittente non si dà carico di esaminare le stesse precisazioni offerte da questa Corte, con la successiva giurisprudenza, che partono dalle affinità della procedura oggi in esame, con la disciplina generale del procedimento per ingiunzione;

    che questa Corte - pur nel soffermarsi sulle peculiarità del procedimento di cui all'art. 32 del regio decreto n. 1165 del 1938, in comparazione con l'ordinario procedimento per convalida di sfratto - ha sottolineato le maggiori affinità di tale procedura con quella per ingiunzione, tanto che ha dichiarato l'illegittimità dell'art. 32, nelle parti in cui, per il pagamento dei canoni scaduti e per l'opposizione al decreto ingiuntivo, fissa termini diversi e notevolmente più brevi di quelli stabiliti dall'art. 641 del codice di procedura civile per l'ordinario procedimento ingiuntivo (sentenz a n. 159 del 1969);

    che l'affinità con il procedimento di ingiunzione ha indotto la Corte, in altre occasioni, ad invitare i giudici rimettenti ad interpretazioni costituzionalmente orientate dell'art. 32, anche alla luce dei propri precedenti arresti, in ordine, ad esempio, alla revocabilità del decreto ingiuntivo in presenza dell'adempimento effettuato nel corso del giudizio di opposizione e all'estensione quanto più possibile della revoca della provvisoria esecuzione (sentenza n. 419 del 1991), nonché riguardo alla proponibilità dell'opposizione tardiva (sentenza n. 203 del 2003 e ordinanza n. 227 del 2006);

    che con la richiamata sentenza n. 203 del 2003 questa Corte ha enunciato che «l'affermazione secondo cui contro il decreto previsto dalla norma impugnata non sarebbero proponibili le opposizioni tardive di cui agli art. 650 e 668 cod. proc. civ. è del tutto priva di motivazione» ed ha aggiunto che «il rimettente non esplora la possibilità di pervenire invece ad una soluzione positiva del problema, nella prospettiva dischiusa dalla sentenza n. 159 del 1969, che ha esteso al giudizio in esame la disciplina del codice di procedura civile relativa ai termini per le opposizioni ad ingiunzione»;

    che il giudice a quo aveva l'onere di interrogarsi se la ritenuta applicabilità dei termini della procedura d'ingiunzione al procedimento speciale previsto dall'art. 32 del regio decreto n. 1165 del 1938, anche a preferenza dei più ristretti termini previsti dalla norma speciale, non comportasse, quasi di conseguenza necessaria, l'applicabilità di termini non previsti da quest'ultimo, come quello della notificazione del decreto ingiuntivo previsto a pena d'inefficacia dall'art. 644 cod. proc. civ., specie ove sia da salvaguardare - a preferenza di ogni peculiarità della materia della edilizia sociale - l'esigenza di certezza in merito al diritto del creditore ed alla soggezione del debitore ad un pro vvedimento che incide nella propria sfera giuridica, tanto più che, nel meccanismo dell'art. 32, al mancato pagamento delle somme riportate dal decreto ingiuntivo segue lo sfratto;

    che, in presenza di tali precedenti giurisprudenziali, va dichiarata la manifesta inammissibilità della questione, per non avere il giudice rimettente adempiuto l'obbligo di ricercare una interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata (ordinanze n. 343 e n. 70 del 2007).

    Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 32 del regio decreto 28 aprile 1938, n. 1165 (Approvazione del testo unico delle disposizioni sull'edilizia popolare ed economica), sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Belluno, con l'ordinanza in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

ORDINANZA N. 176

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Franco               BILE         Presidente

-  Giovanni Maria       FLICK          Giudice

-  Francesco            AMIRANTE          "

-  Ugo                  DE SIERVO         "

-  Paolo                MADDALENA         "

-  Alfio                FINOCCHIARO       "

-  Alfonso              QUARANTA          "

-  Franco               GALLO             "

-  Luigi                MAZZELLA          "

-  Gaetano              SILVESTRI         "

-  Sabino               CASSESE           "

-  Maria Rita           SAULLE            "

-  Giuseppe             TESAURO           "

-  Paolo Maria          NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale del primo comma dell'art. 38 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), promosso con ordinanza depositata il 9 maggio 2003 dalla Commissione tributaria regionale della Toscana nei giudizi riuniti vertenti tra l'Agenzia delle entrate, uffici di Montepulciano e di Firenze 1, Franco Fontani ed Emanuele Francesco Reali, iscritta al n. 817 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell'anno 2008.

      Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

      udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2008 il Giudice relatore Franco Gallo.

    Ritenuto che, nel corso di due giudizi d'appello riuniti, aventi ad oggetto sentenze riguardanti l'impugnazione del silenzio-rifiuto formatosi sull'istanza avanzata da due contribuenti per ottenere il rimborso dell'IRPEF da essi corrisposta mediante versamento diretto, la Commissione tributaria regionale della Toscana, con ordinanza depositata il 9 maggio 2003, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, questioni di legittimità dell'art. 38 [rectius : del solo primo comma di tale articolo] del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), nel testo anteriore alle modifiche introdotte dall'art. 1, comma 5, della legge 13 maggio 1999, n. 133 (Disposizioni in materia di perequazione, razionalizzazione e federalismo fiscale);

    che la Commissione rimettente, con riguardo ad uno dei due giudizi di appello, dichiara di proporre, in riferimento ai suddetti parametri costituzionali, la medesima questione di legittimità costituzionale già sollevata nello stesso giudizio, in riferimento a parametri parzialmente diversi (cioè gli artt. 3 e 24 Cost.), con una precedente ordinanza di rimessione;

    che, in relazione a tale ordinanza, la Corte costituzionale, con ordinanza n. 68 del 2002, aveva disposto la restituzione degli atti al giudice a quo perché motivasse sull'eventuale perdurare della rilevanza della questione anche dopo la sopravvenienza dei commi 6 e 5 dell'art. 34 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), i quali avevano rispettivamente modificato: a) il secondo comma dell'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, elevando da diciotto a quarantotto mesi il termine decadenziale, decorrente dalla data di effettuazione della ritenuta, previsto per la richiesta di rimborso da parte dei percipienti delle somme assoggettate a ritenuta med esima; b) l'art. 37 del d.P.R. n. 602 del 1973, assunto dal rimettente quale tertium comparationis, sostituendo all'originario termine prescrizionale decennale previsto dall'articolo 2946 del codice civile il termine di decadenza di quarantotto mesi, per la richiesta di rimborso da parte del contribuente assoggettato a ritenuta diretta;

    che la medesima Commissione tributaria, con riferimento ad un secondo giudizio di appello, nelle more riunito al primo, dichiara di sollevare una questione di legittimità costituzionale identica a quella proposta nell'altro giudizio riunito;

    che il predetto giudice a quo espone che, con la precedente ordinanza di rimessione, aveva sollevato, in relazione agli artt. 3 e 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, perché detta norma irragionevolmente sottopone il diritto al rimborso degli importi corrisposti all'erario con versamento diretto, al breve termine decadenziale di 18 mesi, mentre il diritto al rimborso delle somme assoggettate a ritenuta diretta, disciplinato dall'art. 37 dello stesso decreto, è invece sottoposto al ben piú ampio termine di prescrizione ordinaria decennale di cui all'art. 2946 cod. civ.;

    che il giudice rimettente aggiunge che, con la suddetta ordinanza di rimessione, aveva già precisato che la denunciata irragionevole disparità di trattamento non era venuta meno neppure con l'ampliamento del termine decadenziale previsto dal primo comma dell'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973 da 18 a 48 mesi - ampliamento disposto dall'art. 1, comma 5, della legge 13 maggio 1999, n. 133 - perché, anche dopo tale modifica della norma censurata, permaneva pur sempre una rilevante differenza, in danno dell'avente diritto al rimborso, tra il termine decadenziale di 48 mesi e quello prescrizionale di 10 anni;

    che la Commissione tributaria regionale, nel richiamare per entrambi i giudizi di appello riuniti, le suddette censure, evoca a parametro, oltre all'art. 3 Cost., anche l'art. 25 Cost., senza addurre al riguardo ulteriori motivazioni;

    che il rimettente, dopo aver preso atto della citata ordinanza della Corte costituzionale n. 68 del 2002, ripropone sostanzialmente le censure già a suo tempo proposte ed afferma la rilevanza delle sollevate questioni osservando che le sopravvenute modificazioni apportate dall'art. 1, comma 5, della legge n. 133 del 1999 al primo comma dell'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973, nonché quelle apportate dall'art. 34, comma 6, della legge n. 388 del 2000 al secondo comma dello stesso art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973 non hanno efficacia retroattiva e, pertanto, non sono applicabili ai rapporti dedotti in ciascun giudizio di appello, nei quali si è già verificata in tutto o in parte, per effetto del decorso del termine di diciotto mesi, la decadenza prev ista dalla disposizione denunciata;

    che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo una pronuncia di inammissibilità o comunque di manifesta infondatezza delle sollevate questioni;

    che, in rito, la difesa erariale eccepisce l'inammissibilità delle questioni poste con riferimento all'art. 25 Cost., sia perché tale parametro «pare all'evidenza indicato erroneamente», sia perché, anche ove il rimettente avesse inteso evocare l'art. 24 Cost., resterebbe comunque immotivata la non manifesta infondatezza;

    che, nel merito, l'Avvocatura afferma: a) con riferimento all'art. 24 Cost., che «il parametro risulta inconferente perché attinente all'aspetto processuale della tutela dei diritti e non all'aspetto sostanziale della disciplina del rapporto (qual è quella dettata dal censurato art. 38)»; b) con riferimento all'art. 3 Cost., che le «fattispecie disciplinate dagli articoli 37 e 38 del DPR 602/73 non sono omogenee e, dunque, non sussiste alcuna irragionevolezza nella diversità di disciplina»;

    Considerato che la Commissione tributaria regionale della Toscana dubita, in riferimento agli artt. 3 e 25 della Costituzione, della legittimità dell'art. 38 [rectius: del solo primo comma di tale articolo] del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), nel testo anteriore alle modifiche introdotte dall'art. 1, comma 5, della legge 13 maggio 1999, n. 133 (Disposizioni in materia di perequazione, razionalizzazione e federalismo fiscale);

    che il primo comma della disposizione denunciata stabilisce che «Il soggetto che ha effettuato il versamento diretto può presentare all'intendente di finanza nella cui circoscrizione ha sede l'esattoria presso la quale è stato eseguito il versamento istanza di rimborso, entro il termine di decadenza di diciotto mesi dalla data del versamento stesso, nel caso di errore materiale, duplicazione ed inesistenza totale o parziale dell'obbligo di versamento»;

    che, secondo la Commissione rimettente, detta disposizione víola gli evocati parametri costituzionali, perché irragionevolmente sottopone il diritto al rimborso degli importi corrisposti all'erario con versamento diretto al breve termine decadenziale di 18 mesi, mentre il diritto al rimborso delle somme assoggettate a ritenuta diretta, disciplinato dal primo comma dell'art. 37 del d.P.R. n. 602 del 1973, è invece sottoposto al piú ampio termine di prescrizione ordinaria decennale di cui all'art. 2946 del codice civile;

    che le questioni prospettate in riferimento all'art. 25 Cost sono manifestamente inammissibili per difetto di motivazione, perché il giudice rimettente non svolge alcuna argomentazione in ordine alla affermata non manifesta infondatezza delle questioni medesime, ma si limita a dedurre la violazione di tale articolo della Costituzione;

    che alla stessa conclusione di manifesta inammissibilità si perverrebbe anche se si ritenesse che il rimettente ha indicato l'art. 25 Cost. per mero errore materiale, intendendo invece evocare (come nell'ordinanza di rimessione da lui precedentemente emessa in uno dei due giudizi a quibus riuniti) l'art. 24 Cost.;

    che, infatti, la Commissione tributaria non ha fornito alcuna motivazione circa la non manifesta infondatezza della questione con riferimento all'art. 24 Cost. né nell'attuale né nella richiamata precedente ordinanza di rimessione;

    che il giudice a quo ha adeguatamente motivato sulla rilevanza delle questioni prospettate con riferimento all'art. 3 Cost.;

    che dette questioni sono, tuttavia, manifestamente infondate;

    che infatti, come più volte affermato da questa Corte, la norma denunciata - nel prevedere il breve termine decadenziale di 18 mesi per l'esercizio del diritto al rimborso delle imposte corrisposte mediante versamento diretto - non comporta un'ingiustificata disparità di trattamento rispetto al primo comma dell'art. 37 del d.P.R. n. 602 del 1973, evocato dal rimettente quale tertium comparationis, il quale prevede solo un termine prescrizionale decennale per l'esercizio del diritto al rimborso delle imposte corrisposte mediante assoggettamento a ritenuta diretta;

    che, in particolare, il rimborso disciplinato dal primo comma dell'art. 37 del d.P.R. n. 602 del 1973, per il caso di ritenuta diretta, e il rimborso disciplinato dal primo comma dell'art. 38 dello stesso decreto, per il caso di versamento diretto, afferiscono «a meccanismi di riscossione del tributo aventi spiccata autonomia e caratteristiche del tutto peculiari», perché «la procedura di rimborso viene a trarre origine, nell'un caso (ritenuta diretta) da un comportamento erroneo riconducibile al solo ente creditore del tributo, senza alcun concorso del debitore, il quale perciò ha diritto di ripetere quanto indebitamente trattenuto; nell'altro caso (versamento diretto), da un comportamento ascrivibile allo ste sso contribuente (eventualmente a mezzo di un sostituto d'imposta), sul quale grava dunque l'onere di richiedere la restituzione di quanto non dovuto entro un termine di decadenza, così operandosi un contemperamento del diritto alla restituzione con l'interesse pubblicistico di garantire la necessaria celerità di un gettito fiscale certo» (ordinanza n. 430 del 2000);

    che la rilevata non omogeneità delle situazioni poste a raffronto dal giudice a quo esclude la necessità di una disciplina unitaria delle fattispecie disciplinate, rispettivamente, dal primo comma dell'art. 37 e dal primo comma dell'art. 38 del d.P.R. n. 602 del 1973 ed esclude, quindi, che la disciplina censurata arrechi il denunciato «vulnus al principio di uguaglianza» (ordinanza n. 430 del 2000; nonché ordinanze n. 545 del 1987 e n. 305 del 1985);

    che la circostanza che il legislatore ha successivamente e gradatamente introdotto per i rimborsi delle imposte corrisposte mediante assoggettamento a ritenuta diretta (primo comma dell'art. 37 del d.P.R. n. 602 del 1973) ovvero mediante versamento diretto, personale o tramite sostituto d'imposta (primo e secondo comma dell'art. 38 dello stesso decreto), un unico termine decadenziale di quarantotto mesi (art. 1, comma 5, della legge n. 133 del 1999; art. 34, commi 5 e 6, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001») è effetto di una sua scelta discrezionale diretta a unificare i termini per esercitare il diritto al rimborso, che non elimina la r iscontrata non omogeneità delle situazioni comparate dal rimettente;

    che, al riguardo, il rimettente non prospetta profili diversi da quelli già presi in esame con le citate pronunce, o, comunque, tali da indurre questa Corte a modificare il precedente orientamento.

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale del primo comma dell'art. 38 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) - nel testo anteriore alle modifiche introdotte dall'art. 1, comma 5, della legge 13 maggio 1999, n. 133 (Disposizioni in materia di perequazione, razionalizzazione e federalismo fiscale) - sollevate, in riferimento all'art. 25 della Costituzion e, dalla Commissione tributaria regionale della Toscana, con l'ordinanza indicata in epigrafe;

    dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale del medesimo primo comma dell'art. 38 del d. P.R. n. 602 del 1973 - nel testo anteriore alle modifiche introdotte dall'art. 1, comma 5, della legge n. 133 del 1999 - sollevate, in riferimento all'art. 3 Cost., dalla Commissione tributaria regionale per la Toscana, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

ORDINANZA N. 177

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-     Franco            BILE         Presidente

-     Giovanni Maria    FLICK          Giudice

-     Francesco         AMIRANTE          "

-     Ugo               DE SIERVO         "

-     Paolo             MADDALENA         "

-     Alfio             FINOCCHIARO       "

-     Alfonso           QUARANTA          "

-     Franco            GALLO             "

-     Luigi             MAZZELLA          "

-     Gaetano           SILVESTRI         "

-     Sabino            CASSESE           "

-     Maria Rita        SAULLE            "

-     Giuseppe          TESAURO           "

-     Paolo Maria       NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 9 e 10 della legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del r. decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del r. decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l'art. 26 del r. decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del r. decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del r. decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751), 25, 26 e 30 del regio decreto 26 febbraio 1928, n. 332 (Approvazione del regolamento per la esecuzione della legge 16 giugno 1927, n. 1766, sul riordinamento degli usi civici del Regno), 8 ed 11 della legge della Regione Basilicata 12 settembre 2000, n. 57 (Usi civici e loro gestione in attuazione della legge n. 1766/1927 e r. d. n. 332/1928), promosso con ordinanza del 10 maggio 2007 dal T ribunale di Potenza nel procedimento civile vertente tra Ottorino Laginestra ed altri e Antonia Claps, iscritta al n. 740 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella.

    Ritenuto che nel corso di un giudizio civile promosso da Ottorino Laginestra ed altri contro Antonia Claps per la chiusura di alcune luci e vedute aperte dalla convenuta sulla proprietà degli attori, il Tribunale ordinario di Potenza ha sollevato, in riferimento al «principio-valore della certezza del diritto» e agli artt. 2, 3, 24, 28, 42, 97 e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 9 e 10 della legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del r. decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del r. decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l'art. 26 del r. decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del r. decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del r. decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751), 25, 26 e 30 del regio decreto 26 febbraio 1928, n. 332 (Approvazione del regolamento per la esecuzione della legge 16 giugno 1927, n. 1766, sul riordinamento degli usi civici del Regno), 8 ed 11 della legge della Regione Basilicata 12 settembre 2000, n. 57 (Usi civici e loro gestione in attuazione della legge n. 1766/1927 e r. d. n. 332/1928), «nella parte in cui non prevedono ulteriori tempi certi ma soprattutto conseguenze determinate di definizione della procedura di legittimazione»;

      che il rimettente premette che, nel corso del giudizio a quo, sono state sollevate eccezioni sulla legittimazione attiva e passiva delle parti in causa, fondate sulla effettiva titolarità sia del terreno sul quale insistono le luci e le vedute, sia di quello sul quale è stato costruito il fabbricato nel quale tali luci e vedute sono state aperte, poiché entrambi i terreni risultano gravati da usi civici rispetto ai quali gli attori e la convenuta hanno avanzato a suo tempo istanze di legittimazione che però non sono mai state definite per motivi non imputabili alle parti;

    che, ad avviso del Tribunale di Potenza, sussisterebbe una distonia tra la previsione generale di termini per la conclusione del procedimento amministrativo contenuta nella legge 7 agosto 1990 n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), e in particolare nell'art. 2 di tale legge, e la totale incertezza circa i tempi di definizione delle istanze di legittimazione riguardanti la materia degli usi civici, con conseguente violazione dell'art. 97 Cost., dei princìpi di buon andamento, trasparenza ed efficienza dell'azione amministrativa e degli artt. 24 e 111 Cost., sotto il profilo «della garanzia del giusto processo connesso ad un giusto procedimento, non solo normativo ma anche amministrativo»;

    che il giudice a quo aggiunge che l'art. 11 della legge reg. Basilicata n. 57 del 2000 (secondo il quale «gli atti amministrativi derivanti dall'applicazione della legge n. 1766/1927 e della presente normativa hanno carattere complesso e, come tali, hanno la temporizzazione stabilita da apposito Regolamento») contrasterebbe con il principio di legalità consacrato dall'art. 97 Cost;

    che, secondo il rimettente, nella maggior parte dei casi le istanze di legittimazione resterebbero ignorate ovvero non definite, con conseguente ingiustificata disparità «rispetto alla tutela di altre situazioni giuridiche soggettive, più o meno corrispondenti», violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost. e pregiudizio «sulla configurazione esatta del diritto di proprietà ex art. 42 Cost. e sulla sua difesa ex art. 24 Cost.»;

    che, ad avviso del Tribunale, sarebbe dunque necessario «stabilire sì un termine finanche maggiore rispetto ai canonici 90 giorni (e quindi non necessariamente parificato o ridotto), operando con i parametri della legge sul procedimento amministrativo, ma soprattutto idonee conseguenze per la mancata adozione del provvedimento, se dovuto, al solo fine di porre rimedio ad una situazione di stallo amministrativo del non-decidere, che risulta diffusa in ambito nazionale e genera incomprensione in sede giudiziaria, per il soddisfacimento di tali diritti inviolabili, storicamente determinatisi, riconducibili indubbiamente nel novero dell'art. 2 Cost., violato al pari degli artt. 3, 24, 97 e 111 Cost.»;

    che il giudice a quo aggiunge che la mancata definizione del procedimento di legittimazione comporta anche l'impossibilità di riscossione, da parte dell'ente competente, del relativo canone, con conseguente violazione dell'art. 28 della Costituzione;

    che il rimettente afferma che la rilevanza della questione discende dalla situazione di incertezza che si determina con riferimento ad istanze di legittimazione non definite, incertezza che comporterebbe l'adozione - nel giudizio principale - di una pronuncia di difetto di legittimazione;

      che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che, in via preliminare, eccepisce l'inammissibilità della questione per mancanza di motivazione con riferimento sia alla rilevanza (poiché, sul punto, il rimettente si è limitato a dedurre che sono pendenti numerose istanze di legittimazione non definite in tempi certi per situazioni imputabili alla pubblica amministrazione), sia alla non manifesta infondatezza (perché il giudice a quo non ha motivato sui profili di contrasto delle norme censurate con i parametri costituzionali evocati);

      che, nel merito, il Presidente del Consiglio dei ministri conclude nel senso dell'infondatezza della questione, sostenendo che la Corte costituzionale l'ha già dichiarata inammissibile con la sentenza n. 46 del 1995 e con le ordinanze n. 117 del 1995 e n. 391 del 1998 e che il rimettente non ha dedotto nuovi profili di illegittimità costituzionale.

    Considerato che il Tribunale ordinario di Potenza dubita, in riferimento al «principio-valore della certezza del diritto» e agli artt. 2, 3, 24, 28, 42, 97 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 9 e 10 della legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del r. decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del r. decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l'art. 26 del r. decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del r. decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del r. decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751), 25, 26 e 30 del regio decreto 2 6 febbraio 1928, n. 332 (Approvazione del regolamento per la esecuzione della legge 16 giugno 1927, n. 1766, sul riordinamento degli usi civici del Regno), 8 ed 11 della legge della Regione Basilicata 12 settembre 2000, n. 57 (Usi civici e loro gestione in attuazione della legge n. 1766/1927 e r. d. n. 332/1928), «nella parte in cui non prevedono ulteriori tempi certi ma soprattutto conseguenze determinate di definizione della procedura di legittimazione»;

    che il giudice a quo ritiene che le predette norme, disciplinanti il procedimento amministrativo di legittimazione delle terre di uso civico, contrastino con gli evocati precetti costituzionali, perché esse non prevedono né termini per la conclusione della procedura, né conseguenze «di definizione» nel caso in cui il procedimento si protragga oltre un certo termine;

    che il rimettente, non individuando il termine di durata massima del procedimento che sarebbe costituzionalmente imposto, né specificando quali dovrebbero essere le conseguenze della mancata tempestiva adozione del provvedimento conclusivo della procedura da parte dell'amministrazione, non precisa quale intervento della Corte, tra i molti astrattamente concepibili, potrebbe assicurare la compatibilità di tale disciplina con le norme costituzionali evocate;

      che, sia nell'individuare il termine entro il quale deve essere necessariamente concluso il procedimento amministrativo di legittimazione, sia nello stabilire le conseguenze dell'inerzia dell'amministrazione, il legislatore gode di un'ampia discrezionalità;

      che la questione è dunque manifestamente inammissibile, sia perché con essa si richiede alla Corte una pronuncia manipolativa non costituzionalmente vincolata in materia riservata alla ragionevole discrezionalità del legislatore, sia per la genericità del petitum.

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

      dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 9 e 10 della legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del r. decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del r. decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l'art. 26 del r. decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del r. decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall'art. 2 del r. decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751), 25, 26 e 30 del regio decreto 26 febbraio 1928, n. 332 (Approvazione del regolamento per la esecuzione della legge 16 giugno 1927, n. 1766, sul riordinamento degli usi civici del Regno), 8 ed 11 della legge della Regione Basilicata 12 settembre 2000, n. 57 (Usi civici e loro gestione in attuazione della legge n. 1766/1927 e r. d. n. 332/1928), sollevata, in riferimento al «principio-valore della certezza del diritto» e agli artt. 2, 3, 24, 28, 42, 97 e 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Potenza con l'ordinanza in epigrafe.

      Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

ORDINANZA N. 178

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Franco               BILE         Presidente

-  Giovanni Maria       FLICK          Giudice

-  Francesco            AMIRANTE          "

-  Ugo                  DE SIERVO         "

-  Paolo                MADDALENA         "

-  Alfio                FINOCCHIARO       "

-  Alfonso              UARANTA           "

-  Franco               GALLO             "

-  Luigi                MAZZELLA          "

-  Gaetano              SILVESTRI         "

-  Sabino               CASSESE           "

-  Maria Rita           SAULLE            "

-  Giuseppe             TESAURO           "

-  Paolo Maria          NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 25, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), come modificato dal comma 5-ter, lettera a), numero 2), dell'art. 1 del decreto-legge 17 giugno 2005, n. 106 (Disposizioni in materia di versamenti dell'imposta regionale sulle attività produttive, di riscossione e di notifica delle cartelle di pagamento), comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, della legge di conversione 31 luglio 2005, n. 156, e dell'art. 36, comma 2, del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell'articolo 1 della legge 28 settembre 1998, n. 337), come modificato dal comma 5-ter, lettera b), nume ro 2), dell'art. 1 del citato decreto-legge n. 106 del 2005, comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, della legge di conversione n. 156 del 2005, promosso con ordinanza del 23 giugno 2007 dalla Commissione tributaria provinciale di Campobasso nel giudizio vertente tra la s.a.s. S.M.A.P. di Antonio D'Aversa e l'Agenzia delle entrate, ufficio di Campobasso, iscritta al n. 733 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell'anno 2007.

      Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

      udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Franco Gallo.

    Ritenuto che, nel corso di un giudizio promosso da un contribuente ed avente ad oggetto l'impugnazione di una cartella di pagamento emessa a séguito di controllo automatizzato ai sensi dell'art. 36-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), e dell'art. 54-bis del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto), la Commissione tributaria provinciale di Campobasso, con ordinanza depositata il 23 giugno 2007, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale: a) dell'art. 25, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), come modificato dal comma 5-ter, lettera a), numero 2), dell'art. 1 del decreto-legge 17 giugno 2005, n. 106 (Disposizioni in materia di versamenti dell'imposta regionale sulle attività produttive, di riscossione e di notifica delle cartelle di pagamento), comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, della legge di conversione 31 luglio 2005, n. 156; b) dell'art. 36, comma 2, del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell'art. 1 della legge 28 settembre 1998, n. 337), come modificato dal comma 5-ter, lettera b), numero 2), dell'art. 1 del citato decreto-legge n. 106 del 2005, comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, della leg ge di conversione n. 156 del 2005;

    che il giudice rimettente premette che la cartella di pagamento impugnata è relativa all'IRAP ed all'IVA dell'anno 2001 ed è stata notificata al contribuente il 25 gennaio 2006, sulla base di un ruolo dichiarato esecutivo il 10 novembre 2005;

    che, quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni concernenti l'art. 25, comma 1, del d.P.R. n. 602 del 1973, il medesimo rimettente afferma che tale disposizione - nello stabilire che la notificazione delle cartelle di pagamento derivanti dalla liquidazione delle dichiarazioni è effettuata, a pena di decadenza, «entro il 31 dicembre [.] del terzo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, per le somme che risultano dovute a seguito dell'attività di liquidazione prevista dall'articolo 36-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600» - víola: a) l'art. 3 Cost., perché comporta «una ingiustificata disparità di trattamento tra il contribuente soggetto all'accertamento ordinario (per il q uale l'art. 43, primo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 prevede un termine di notifica, a pena di decadenza, dell'avviso d'accertamento entro il 31 dicembre del quarto anno successivo alla presentazione della dichiarazione) ed il contribuente soggetto all'accertamento ai sensi dell'art. 36-bis» del d.P.R. n. 600 del 1973 (per il quale la norma censurata prevede un termine di notifica, a pena di decadenza, della cartella di pagamento entro il 31 dicembre del terzo anno successivo alla presentazione della dichiarazione); b) l'art. 23 Cost., perché non fissa «alcun termine dalla data in cui il ruolo è stato reso esecutivo per la notifica della cartella di pagamento», e pertanto impone una prestazione patrimoniale che non può considerarsi legittima, in quanto non precisa «il tempo, inteso come momento determinativo o arco temporale delimitato, nel quale essa deve essere resa»; c) l'art. 24 Cost., in quanto non fissa «alcun termine dalla data in cui il ruolo è stato reso esecutivo per la notifica della cartella di pagamento» e, pertanto, comporta «una violazione del diritto di difesa, imponendo al contribuente, per un tempo indeterminato, l'obbligo di conservazione della documentazione relativa»; d) gli artt. 31, 41 e 47 Cost., perché non fissa «alcun termine dalla data in cui il ruolo è stato reso esecutivo per la notifica della cartella di pagamento» e, pertanto, data l'assenza di tempi definiti, «rende incerta la disponibilità e, quindi, impedisce l'impiego di mezzi finanziari liquidi in favore della famiglia o nelle attività economiche o nel risparmio e nell'acquisto dell'abitazione»; e) l'art. 53 Cost., in quanto contrasta con il principio della capacità contributiva; f) l'art. 97 Cost., perché «viene violato il principio del buon andamento e dell'imparzialità dell'amministrazione pubblica»; g) altre norme costituzionali «eventualmente rinvenienti»;

    che, quanto alla non manifesta infondatezza della questione concernente l'art. 36, comma 2, del decreto legislativo n. 46 del 1999, il giudice a quo afferma che tale disposizione - nello stabilire che la notificazione delle cartelle di pagamento derivanti dalla liquidazione delle dichiarazioni è effettuata, a pena di decadenza, «entro il 31 dicembre [.] del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, relativamente alle dichiarazioni presentate negli anni 2002 e 2003» - víola l'art. 3 Cost., per l'«irrazionale ed ingiustificato contrasto con il termine triennale ordinariamente previsto, anche alla luce della elevata automazione delle procedure di riscossione esistenti e delle esigenze di certezza del diritto»;

    che, quanto alla rilevanza, la Commissione tributaria provinciale afferma che le sollevate questioni sono pregiudiziali ad una pronuncia sul merito della controversia oggetto del giudizio principale, «dal momento che, alla luce dell'attuale formulazione degli artt. 25, d.P.R. n. 602/1973 e 36, d.lgs. n. 46/1999, il ricorso andrebbe rigettato»;

    che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in giudizio, chiedendo dichiararsi la manifesta inammissibilità e la manifesta infondatezza delle questioni sollevate;

    che, in particolare, la difesa erariale eccepisce la manifesta inammissibilità delle questioni concernenti l'art. 25, comma 1, del d.P.R. n. 602 del 1973, perché: a) il giudizio principale ha ad oggetto cartelle di pagamento emesse in base a dichiarazioni - relative all'anno d'imposta 2001 - presentate nell'anno 2002 e, pertanto, a tale fattispecie è applicabile l'art. 36, comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 46 del 1999, il quale fissa i termini per la notificazione delle cartelle di pagamento emesse per il controllo automatizzato delle dichiarazioni presentate negli anni 2002 e 2003, con la conseguenza che il giudice a quo non è chiamato a fare applicazione della disposizione denunciata; b) il giudice rimettente non ha addotto alcun ar gomento a sostegno dell'asserita violazione - ad opera della norma censurata - degli evocati artt. 23, 24, 31, 41, 47, 53 e 97 Cost., «al di là della non pertinenza del richiamo»; c) il medesimo giudice rimettente, lamentando che la norma censurata «non fissa alcun termine dalla data in cui il ruolo è stato reso esecutivo per la notifica della cartella di pagamento», non tiene conto delle norme successive alla sentenza della Corte costituzionale n. 280 del 2005, le quali hanno fissato termini perentori entro i quali la cartella deve essere notificata ai contribuenti, con decorrenze differenziate a seconda della data di presentazione della dichiarazione;

    che l'Avvocatura generale dello Stato deduce, poi, la manifesta infondatezza della questione concernente l'art. 36, comma 2, del d.lgs. n. 46 del 1999, perché il legislatore «ha rispettato» l'indicazione contenuta nella citata sentenza della Corte costituzionale n. 280 del 2005 di tener conto del termine per la notificazione degli avvisi di accertamento ed ha, perciò, fissato i seguenti termini differenziati di decadenza per la notificazione delle cartelle di pagamento emesse ai sensi dell'art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973: a) entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, per la disciplina "a regime" prevista dall'art. 25 del d.P.R. n. 602 del 1973 nel testo modificato dall'art. 1, comma 5- ter, del decreto-legge n. 106 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 156 del 2005; b) termini diversi per la disciplina transitoria, con riferimento alle dichiarazioni già presentate alla data di entrata in vigore della suddetta legge di conversione (entro il 31 dicembre 2007, per le dichiarazioni presentate nel 2004 e nel 2003; entro il 31 dicembre 2006, per le dichiarazioni presentate nel 2002 e nel 2001; entro il 31 dicembre 2005, per le dichiarazioni presentate nel 2000; e cosí via);

    che, per la medesima Avvocatura generale, la normativa transitoria applicabile nel caso di specie è ragionevole, perché - concedendo agli uffici «il termine di circa 1 anno e 4 mesi per iscrivere a ruolo e notificare le cartelle dirette al recupero delle somme risultanti dalle dichiarazioni presentate nell'anno 2002» - contempera «l'esigenza di prevedere (come imposto dalla sentenza della Corte) un unico termine perentorio per la notifica della cartella» con l'esigenza di concedere agli uffici (nonché ai concessionari della riscossione) un termine tale da impedire «l'immediata perdita per l'erario di somme risultanti dovute sulla base della dichiarazione di contribuenti»;< o:p>

    che, secondo la difesa erariale, non può nemmeno ritenersi che nella fattispecie vi sia «un affidamento del contribuente che sia stato violato dal momento che [.] sulla base della legislazione vigente alla data di emanazione della sentenza n. 280/2005 egli era soggetto alla prescrizione decennale».

    Considerato che la Commissione tributaria provinciale di Campobasso, con ordinanza depositata il 23 giugno 2007, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale relative: a) all'art. 25, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), come modificato dall'art. 1, comma 5-ter, lettera a), numero 2), del decreto-legge 17 giugno 2005, n. 106 (Disposizioni in materia di versamenti dell'imposta regionale sulle attività produttive, di riscossione e di notifica del le cartelle di pagamento), comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, della legge di conversione 31 luglio 2005, n. 156; b) all'art. 36, comma 2, del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell'articolo 1 della legge 28 settembre 1998, n. 337), come modificato dall'art. 1, comma 5-ter, lettera b), numero 2), del citato decreto-legge n. 106 del 2005, comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, della legge di conversione n. 156 del 2005;

    che, con riguardo alle questioni concernenti l'art. 25, comma 1, del d.P.R. n. 602 del 1973, il giudice rimettente dubita della legittimità della norma denunciata, in riferimento agli artt. 3, 23, 24, 31, 41, 47, 53 e 97 della Costituzione, «salvo altre norme costituzionali ritenute violate» ed «eventualmente rinvenienti»;

    che, ad avviso del giudice a quo, detta norma - disponendo che la notificazione delle cartelle di pagamento derivanti dalla liquidazione delle dichiarazioni è effettuata, a pena di decadenza, «entro il 31 dicembre [.] del terzo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, per le somme che risultano dovute a seguito dell'attività di liquidazione prevista dall'art. 36-bis del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600» - víola: a) l'art. 3 Cost., perché comporta una ingiustificata disparità di trattamento tra il contribuente soggetto all'accertamento ordinario (per il quale l'art. 43, primo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 prevede un termine di notifica, a pena di decadenza, dell'avviso d'accerta mento entro il 31 dicembre del quarto anno successivo alla presentazione della dichiarazione) ed il contribuente soggetto all'accertamento ai sensi dell'art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973 (per il quale la norma censurata prevede un termine di notifica, a pena di decadenza, della cartella di pagamento entro il 31 dicembre del terzo anno successivo alla presentazione della dichiarazione); b) l'art. 23 Cost., perché non fissa «alcun termine dalla data in cui il ruolo è stato reso esecutivo per la notifica della cartella di pagamento» e, pertanto, impone una prestazione patrimoniale che non può considerarsi legittima, non precisando «il tempo [.] nel quale essa deve essere resa»; c) l'art. 24 Cost., perché non fissa «alcun termine dalla data in cui il ruolo è stato reso esecutivo per la notifica della cartella di pagamento» e, pertanto, comporta «una violazione del diritto di difesa, imponendo al contribuente, per un tempo indeterminato, l'obbligo di conservazione della docume ntazione relativa»; d) gli artt. 31, 41 e 47 Cost., perché non fissa «alcun termine dalla data in cui il ruolo è stato reso esecutivo per la notifica della cartella di pagamento» e, pertanto, data l'assenza di tempi definiti, «rende incerta la disponibilità e, quindi, impedisce l'impiego di mezzi finanziari liquidi in favore della famiglia o nelle attività economiche o nel risparmio e nell'acquisto dell'abitazione»; e) l'art. 53 Cost., perché non rispetta il principio della capacità contributiva; f) l'art. 97 Cost., perché è in contrasto con il «principio del buon andamento e dell'imparzialità dell'amministrazione pubblica»; g) altre norme costituzionali «eventualmente rinvenienti»;

    che tali questioni sono manifestamente inammissibili per difetto di rilevanza nel giudizio a quo;

    che lo stesso giudice rimettente riferisce che il giudizio principale ha ad oggetto l'impugnazione di una cartella di pagamento derivante dalla liquidazione delle dichiarazioni relative all'IRAP e all'IVA dell'anno 2001, presentate nell'anno 2002;

    che per tale fattispecie il termine di notificazione della cartella emessa ai sensi dell'art. 36-bis del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), e dell'art. 54-bis del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (Istituzione e disciplina dell'imposta sul valore aggiunto), non è stabilito dal denunciato art. 25, comma 1, del d.P.R. n. 602 del 1973 - applicabile solo dal 10 agosto 2005 per le cartelle relative alle dichiarazioni presentate a decorrere dall'anno 2004 - ma dall'art. 36, comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 46 del 1999;

    che, in particolare, quest'ultima disposizione prevede, proprio «in deroga all'art. 25, comma 1, lettera a), del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602», che la notificazione delle cartelle di pagamento derivanti dalla liquidazione delle dichiarazioni è effettuata, a pena di decadenza, «entro il 31 dicembre [.] del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, relativamente alle dichiarazioni presentate negli anni 2002 e 2003»;

    che, dunque, il giudice a quo non deve fare applicazione della norma censurata, con conseguente manifesta inammissibilità, per difetto di rilevanza, delle questioni concernenti detta disposizione (ex plurimis, ordinanze n. 384 e n. 294 del 2007);

    che il giudice rimettente dubita, altresí, in riferimento all'art. 3 Cost., della legittimità dell'art. 36, comma 2, del d.lgs. n. 46 del 1999, come modificato dall'art. 1, comma 5-ter, lettera b), numero 2), del decreto legge n. 106 del 2005, comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, della legge di conversione n. 156 del 2005;

    che, ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata - nello stabilire, con disciplina transitoria, che la notificazione delle cartelle di pagamento derivanti dalla liquidazione delle dichiarazioni è effettuata, a pena di decadenza, «entro il 31 dicembre [.] del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, relativamente alle dichiarazioni presentate negli anni 2002 e 2003» - víola l'art. 3 Cost., per l'«irrazionale ed ingiustificato contrasto con il termine triennale ordinariamente previsto, anche alla luce della elevata automazione delle procedure di riscossione esistenti e delle esigenze di certezza del diritto»;

    che una questione del tutto analoga a quella sollevata dal rimettente è stata già dichiarata non fondata da questa Corte con la sentenza n. 11 del 2008, successiva all'ordinanza di rimessione;

    che, in particolare, con la suddetta pronuncia si è escluso che la disciplina transitoria dei termini per la notificazione delle cartelle di pagamento emesse ai sensi dell'art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, introdotta dal decreto-legge n. 106 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 156 del 2005, víoli l'art. 3 Cost., perché, tale disciplina «trova giustificazione nell'obiettivo perseguito dal legislatore di garantire non solo l'interesse del contribuente (evidenziato dalla sentenza n. 280 del 2005 di questa Corte [.]) a non essere assoggettato all'azione esecutiva del fisco per un tempo indeterminato, ma anche l'interesse dell'erario - parimenti meritevole di tu tela - di evitare che, nella fase transitoria, un termine decadenziale eccessivamente ristretto possa precludere od ostacolare la notificazione delle cartelle relative alle dichiarazioni presentate anteriormente all'entrata in vigore della suddetta legge di conversione n. 156 del 2005 e, quindi, pregiudicare la riscossione dei tributi»;

    che, come si è rilevato nella medesima pronuncia, «L'applicazione del termine a regime», previsto dal vigente art. 25, comma 1, lettera a), del d.P.R. n. 602 del 1973, cioè il piú ristretto termine del 31 dicembre del terzo anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, «anche agli indicati rapporti pendenti alla data di entrata in vigore della citata legge n. 156 del 2005 avrebbe comportato [.] la consumazione, in tutto o in gran parte, del termine decadenziale di notificazione della cartella ancor prima dell'entrata in vigore della suddetta legge che tale termine introduce»;

    che, pertanto, secondo quanto affermato da questa Corte nella citata sentenza, «non è irragionevole una disciplina transitoria dei termini di decadenza per la notificazione» delle cartelle di cui all'art. 36-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, «divergente dalla disciplina a regime»;

    che tali argomentazioni valgono anche per la questione avente ad oggetto la norma censurata dalla Commissione tributaria provinciale di Campobasso, perché, «se il termine decadenziale triennale fissato per la disciplina "a regime" fosse stato previsto anche per le cartelle relative alle dichiarazioni presentate fino al 2003, l'erario avrebbe perso la possibilità o di notificare tempestivamente dette cartelle (con riferimento a quelle relative alle dichiarazioni presentate fino al 31 dicembre 2001) o di fruire di un lasso di tempo adeguato per la notificazione delle stesse (con riferimento a quelle relative alle dichiarazioni presen tate negli anni 2002 e 2003)» (citata sentenza n. 11 del 2008);

    che il rimettente non prospetta profili diversi da quelli già presi in esame con la citata sentenza n. 11 del 2008 o comunque tali da indurre questa Corte a modificare il precedente orientamento;

    che, dunque, la questione relativa all'art. 36, comma 2, del d.lgs. n. 46 del 1999, come modificato dall'art. 1, comma 5-ter, lettera b), numero 2), del decreto-legge n. 106 del 2005, comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, della legge di conversione n. 156 del 2005, deve essere dichiarata manifestamente infondata.

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

La Corte costituzionale

    dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 25, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), come modificato dall'art. 1, comma 5-ter, lettera a), numero 2), del decreto-legge 17 giugno 2005, n. 106 (Disposizioni in materia di versamenti dell'imposta regionale sulle attività produttive, di riscossione e di notifica delle cartelle di pagamento), comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, della legge di conversione 31 luglio 2005, n. 156, sollevate, con riferimento agli artt. 3, 23, 24, 31, 41, 47, 53 e 97 della Costituzione, «salvo altre norme costituzionali ritenute violate», dalla Commissione tributaria provinciale di Campobasso con l'ordinanza indicata in epigrafe;

    dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 36, comma 2, del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell'articolo 1 della legge 28 settembre 1998, n. 337), come modificato dall'art. 1, comma 5-ter, lettera b), numero 2), del decreto-legge n. 106 del 2005, comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, della legge di conversione n. 156 del 2005, sollevata, in riferimento all'art. 3 Cost., dalla stessa Commissione tributaria provinciale di Campobasso con l'ordinanza indicata in epigrafe.< /SPAN>

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA



 
    I testi delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale, trasmessi dalla newsletter "Palazzo della Consulta" sono offerti alla consultazione per fini esclusivamente di informazione.

    Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16 marzo 1956).

   Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale su quello sopra riportato, in caso di divergenza.