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Deposito del 25/07/2008 (dalla 296 alla 304)

 
S.296/2008 del 09/07/2008
Udienza Pubblica del 24/06/2008, Presidente BILE, Relatore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Art. 15, c. 1°, dell'allegato al regio decreto legge 11/10/1934, n. 1948, convertito in legge 04/04/1935, n. 911, e riprodotto dall'art. 17 del decreto ministeriale del 13/12/1956.

Oggetto: Trasporto - Trasporto di persone sulle ferrovie dello Stato - Azioni giudiziarie derivanti dal contratto di trasporto - Obbligo di preventivo reclamo all'amministrazione ferroviaria.

Dispositivo: illegittimità costituzionale
Atti decisi: ord. 34/2008
S.297/2008 del 09/07/2008
Udienza Pubblica del 06/05/2008, Presidente BILE, Relatore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Art. 327 del codice di procedura civile.

Oggetto: Controversie in materia di lavoro e previdenza - Appello con riserva dei motivi avverso la sentenza pronunciata dal giudice di prime cure - Dedotta inammissibilità del gravame per tardiva integrazione dei motivi a seguito dell'avvenuto decorso del termine annuale di impugnazione previsto dall'art. 327 cod. proc. civ. - Decorrenza dalla pubblicazione della sentenza mediante deposito in cancelleria anziché dalla comunicazione del deposito.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 794/2007
S.298/2008 del 09/07/2008
Camera di Consiglio del 25/06/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Artt. 9, c. 2°, e 10, c. 2°, della legge 20/02/2006, n. 46.

Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento emesse dal giudice di pace - Preclusione.

Dispositivo: non fondatezza - manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 85/2008
O.299/2008 del 09/07/2008
Camera di Consiglio del 11/06/2008, Presidente BILE, Relatore SAULLE


Norme impugnate: Artt. 13, c. 2°, lett. b), e 14 del decreto legislativo 25/07/1998, n. 286.

Oggetto: Straniero - Espulsione amministrativa - Divieto di rientro nel territorio nazionale per un periodo minimo di cinque anni - Applicazione anche agli extracomunitari entrati legittimamente e non informati dei diritti e doveri relativi all'ingresso e soggiorno in Italia - Automaticità della sanzione applicabile anche agli stranieri extracomunitari, pur in assenza della possibilità di accesso alle fonti di cognizione.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 585/2007
O.300/2008 del 09/07/2008
Camera di Consiglio del 25/06/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20/02/2006, n. 46; art. 36, c. 1°, del decreto legislativo 28/08/2000, n. 274, come modificato dall'art. 9, c. 2°, della legge 20/02/2006, n. 46; art. 10 della legge 20/02/2006, n. 46.

Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento emesse dal giudice di pace - Preclusione.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 459/2006
O.301/2008 del 09/07/2008
Camera di Consiglio del 25/06/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20/02/2006, n. 46.

Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative recate dalla legge n. 46/2006 - Possibilità per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento - Preclusione.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 599/2006
O.302/2008 del 09/07/2008
Camera di Consiglio del 25/06/2008, Presidente BILE, Relatore FLICK


Norme impugnate: Art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20/02/2006, n. 46; art. 10, c. 1°, della legge 20/02/2006, n. 46.

Oggetto: Processo penale - Appello - Modifiche normative - Disciplina transitoria - Appello proposto dalla parte civile prima dell'entrata in vigore della novella ai soli effetti della responsabilità civile contro la sentenza di proscioglimento, emessa anche dal giudice di pace - Inammissibilità dell'appello oppure qualificazione di esso come ricorso in cassazione.
Processo penale - Appello - Modifiche normative - Possibilità per la parte civile di proporre appello nei casi di cui all'art. 576 cod. proc. pen. - Mancata previsione.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 545/2006; 375/2007
O.303/2008 del 09/07/2008
Camera di Consiglio del 25/06/2008, Presidente BILE, Relatore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Art. 119, c. 2°, del regio decreto 16/03/1942, n. 267.

Oggetto: Fallimento e procedure concorsuali - Reclamo avverso decreto di chiusura del fallimento pronunciato dal tribunale - Previsione, nell'originario testo dell'art. 119, comma secondo, del R.D. n. 267 del 1942, del termine di quindici giorni decorrente dalla data di affissione dell'estratto del decreto alla porta esterna del tribunale - Ritenuta tardività del reclamo proposto un mese dopo la detta affissione da un creditore della massa non integralmente soddisfatto - Omessa previsione della decorrenza del termine per la p roposizione del reclamo, per i soggetti legittimati agevolmente identificabili sulla base degli atti della procedura fallimentare, dalla data della comunicazione agli stessi dell'estratto del decreto, anziché dalla data di affissione alla porta esterna del tribunale.

Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens
Atti decisi: ord. 45/2008
O.304/2008 del 09/07/2008
Camera di Consiglio del 25/06/2008, Presidente BILE, Relatore SAULLE


Norme impugnate: Art. 31, c. 2°, del disegno di legge n. 665-721-724, approvato con deliberazione legislativa dell'Assemblea Regionale Siciliana il 26/01/2008.

Oggetto: Trasporto pubblico - Norme d ella Regione siciliana - Contratti di affidamento provvisorio di servizio pubblico di trasporto su strada - Proroga ope legis del termine di durata di oltre il triplo dell'originaria durata, indipendentemente dall'espletamento di procedure di evidenza pubblica.

Dispositivo: cessata materia del contendere
Atti decisi: ric. 11/2008

pronuncia successiva

SENTENZA N. 296

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

-         Franco         BILE         Presidente

-         Giovanni Maria FLICK          Giudice

-         Francesco      AMIRANTE          "

-         Ugo            DE SIERVO         "

-         Paolo          MADDALENA         "

-         Alfio          FINOCCHIARO       "

-         Alfonso        QUARANTA          "

-         Franco         GALLO             "

-         Luigi          MAZZELLA          "

-         Gaetano        SILVESTRI         "

-         Sabino         CASSESE           "

-         Maria Rita     SAULLE            "

-         Giuseppe       TESAURO           "

-         Paolo Maria        NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 15, primo comma, dell'allegato al regio decreto-legge 11 ottobre 1934, n. 1948 (Nuovo testo delle condizioni e tariffe per il trasporto delle persone sulle ferrovie dello Stato), convertito in legge 4 aprile 1935, n. 911 (Conversione in legge del r.d.l. 11 ottobre 1934, n. 1948, concernente l'approvazione di nuove «Condizioni e tariffe per il trasporto delle persone sulle Ferrovie dello Stato») e riprodotto dall'art. 17 del decreto ministeriale del 13 dicembre 1956 (Approvazione del nuovo testo delle Condizioni e Tariffe per i trasporti delle persone sulle ferrovie dello Stato), promosso con ordinanza del 31 luglio 2007 dal Giudice di pace di Roma nel procedimento civile vertente tra Raguso Girolamo e Trenitalia s.p.a. ed altra, iscritta al n. 34 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell'anno 2008.

    Visti l'atto di costituzione di Trenitalia s.p.a. nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 24 giugno 2008 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro;

    uditi l'avvocato Fabio Cintioli per Trenitalia s.p.a. e l'avvocato dello Stato Luca Ventrella per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

    1. - Con ordinanza del 31 luglio 2007, il Giudice di pace di Roma - nel corso di giudizio per il risarcimento dei danni materiali subiti in conseguenza di un furto avvenuto a bordo di una vettura letto sulla tratta Lecce-Milano - ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, primo comma, dell'allegato al regio decreto-legge 11 ottobre 1934, n. 1948 (Nuovo testo delle condizioni e tariffe per il trasporto delle persone sulle ferrovie dello Stato), convertito in legge 4 aprile 1935, n. 9 11 (Conversione in legge del r.d.l. 11 ottobre 1934, n. 1948, concernente l'approvazione di nuove «Condizioni e tariffe per il trasporto delle persone sulle Ferrovie dello Stato»), e riprodotto nell'art. 17 del decreto ministeriale 13 dicembre 1956 (Approvazione del nuovo testo delle Condizioni e Tariffe per i trasporti delle persone sulle ferrovie dello Stato), per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione.

    Riferisce il remittente che la norma citata - subordinando obbligatoriamente la proposizione dell'azione giudiziaria alla preventiva presentazione del reclamo in via amministrativa - imporrebbe la necessità di accogliere l'eccezione di inammissibilità della domanda, sollevata da Trenitalia s.p.a., per avere l'attore omesso di presentare il preventivo reclamo amministrativo nelle forme previste, ma che tale norma è incostituzionale in quanto «costituisce una condizione di proponibilità fortemente lesiva del diritto di difesa, nonché un ingiustificato privilegio dell'Ente (tanto più che oggi questo è stato privatizzato) in relazione al principio di uguaglianza delle parti del contratto, considerata la natura tipicamente privatistica del rapporto instaurato con il contratto di t rasporto ferroviario».

    La questione di costituzionalità, non superabile per via interpretativa, sarebbe inoltre rilevante in quanto la norma denunciata, ove venisse dichiarata incostituzionale, non potrebbe essere applicata nel giudizio a quo, con conseguente reiezione dell'eccezione preliminare avanzata dalla difesa di Trenitalia s.p.a. e prosieguo dell'esame del merito del giudizio stesso.

    2. - Si è costituita in giudizio Trenitalia s.p.a., chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile o infondata.

    La questione sarebbe innanzitutto inammissibile per avere il rimettente indicato la norma di legge impugnata in maniera perplessa e priva di congrua motivazione, nonché per essere state impugnate una norma di rango legislativo ed una di rango regolamentare, senza una precisa indicazione del rapporto intercorrente tra esse.

    La questione sarebbe altresì infondata in quanto la Corte costituzionale ha affermato che il diritto di difesa non è un valore assoluto, essendo sottoposto al contemperamento con altri valori costituzionali. Pertanto, il previo esperimento di un reclamo non si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 24 della Costituzione, purché se ne dimostri la ragionevolezza e purché sia sorretto da corrispondenti ragioni di ordine costituzionale, quali ragioni di economia processuale e la salvaguardia di interessi generali non contrastanti con i diritti costituzionali di azione e di difesa.

    Nel caso di specie, l'onere di esperire il reclamo preventivo sarebbe coerente con la finalità di livello costituzionale di assicurare la ragionevole durata del processo, perché eviterebbe un sovraccarico dell'apparato giudiziario, sarebbe imperniato su limiti e modalità assolutamente ragionevoli e non gravose, non essendo soggetto a termini di decadenza, sarebbe strumentale ad un interesse generale impersonato dal concessionario del servizio pubblico di trasporto ferroviario che è gravato dagli oneri del servizio universale, e sarebbe altresì strumentale alla tutela del consumatore, al quale viene offerta la possibilità della soddisfazione immediata delle sue ragioni senza dover attendere i tempi lunghi del processo. Il giudice rimettente avrebbe dunque dovuto procedere ad u n'interpretazione costituzionalmente orientata della norma e rendersi conto che si trattava semplicemente di una condizione di mera procedibilità dell'azione. Inoltre, al legislatore sarebbe consentito di regolare in modo non rigorosamente uniforme i modi della tutela giurisdizionale a condizione che non siano vulnerati i principi fondamentali di garanzia ed effettività della tutela medesima, come anche la più recente legislazione, sia italiana che dell'Unione europea, starebbe a testimoniare. Inoltre, la disciplina impugnata, dando vita ad un istituto avente finalità deflattiva, andrebbe altresì favorevolmente valutata alla luce del fondamentale canone della ragionevole durata del processo di cui all'art. 111 della Costituzione.

    3. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

    Secondo la difesa erariale, la questione sarebbe innanzitutto inammissibile per avere il rimettente descritto in maniera insufficiente la fattispecie, non risultando se il viaggiatore abbia riportato un danno alla persona.

    La questione sarebbe altresì infondata in quanto l'onere di preposizione del reclamo preventivo non si tradurrebbe in uno svantaggio per la parte privata, risolvendosi, al contrario, in una modalità di soddisfazione della pretesa sostanziale più pronta e meno dispendiosa. Inoltre, la natura di servizio pubblico propria dell'attività di trasporto ferroviario non sarebbe contraddetta dall'assunzione da parte dell'ente esercente della forma di società per azioni e renderebbe non irragionevole la scelta discrezionale del legislatore di prevedere a carico della parte privata il previo esperimento del reclamo amministrativo.

Considerato in diritto

    1. - Il Giudice di pace di Roma dubita della legittimità costituzionale dell'art. 15, comma primo, dell'allegato al regio decreto-legge 11 ottobre 1934, n. 1948 (Nuovo testo delle condizioni e tariffe per il trasporto delle persone sulle ferrovie dello Stato), convertito in legge 4 aprile 1935, n. 911 (Conversione in legge del R.D.L. 11 ottobre 1934, n. 1948, concernente l'approvazione di nuove «Condizioni e tariffe per il trasporto delle persone sulle Ferrovie dello Stato»), nella parte in cui, salvo il caso di danno alla persona del viaggiatore, non prevede che possono essere promosse contro l'Amministrazione le azioni basate sulle disposizioni dello stesso regio decreto se l'avente diritto, non abbia presentato reclamo in via amministrativa e non siano trascorsi 120 giorni dalla presentazione del reclamo stesso, per violazione dell'art. 3 della Costituzione, in relazione al principio di uguaglianza delle parti, considerata la natura tipicamente privatistica del contratto di trasporto ferroviario; nonché per violazione dell'art. 24 della Costituzione, in quanto, come rilevato dalla Corte costituzionale con la sentenza di accoglimento n. 40 del 1993, tale norma costituirebbe una condizione di proponibilità fortemente lesiva del diritto di difesa.

    2. - L'eccezione, sollevata da Trenitalia s.p.a., di inammissibilità della questione per avere il remittente impugnato un regolamento e non la legge, non è fondata. Il giudice a quo, infatti, ha impugnato l'art. 15, primo comma, dell'allegato al regio decreto legge n. 1948 del 1934, ed ha solo aggiunto e precisato che tale disposizione è riprodotta da un successivo regolamento del 1956 (che è esattamente identico alla legge del 1934), senza in alcun modo esporre di voler impugnare il regolamento, o la legge e il regolamento congiuntamente.

    3. - Parimenti non fondata è l'eccezione proposta dalla difesa erariale secondo cui il rimettente avrebbe descritto in maniera insufficiente la fattispecie, non risultando se il viaggiatore abbia riportato un danno alla persona. Il rimettente dice chiaramente che l'attore ha citato in giudizio Trenitalia «al fine di ottenere il risarcimento dei danni materiali subiti in conseguenza di un furto ad opera di ignoti»: è dunque evidente che l'attore chiede solo i danni relativi al furto del bagaglio, non altro.

    4. - Nel merito, la questione è fondata.

    4.1. - Questa Corte, con la sentenza n. 40 del 1993, ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell'art. 58 del d.P.R. 30 marzo 1961, n. 197 (Revisione delle condizioni per il trasporto delle cose sulle ferrovie dello Stato), nella parte in cui, in tema di trasporto ferroviario delle merci, non prevedeva l'esperibilità dell'azione avanti gli organi della giurisdizione ordinaria in mancanza del preventivo reclamo in via amministrativa.

    A sostegno della pronuncia - nel richiamare la diversità esistente fra la norma impugnata e l'art. 443, primo comma, del codice di procedura civile, secondo cui la domanda relativa alle controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie non è procedibile se non quando siano stati esauriti i procedimenti prescritti dalle leggi speciali per la composizione in sede amministrativa o siano decorsi i termini ivi fissati per il componimento dei procedimenti stessi - la Corte ha affermato che l'art. 58 del d.P.R. citato integra «una condizione di proponibilità che menoma fortemente il diritto di difesa garantito dall'art. 24 della Costituzione», nonché «un privilegio ingiustificato, come tale lesivo del prin cipio di uguaglianza stabilito dall'art. 3 della Costituzione». Ed ha concluso che «l'adeguamento della norma impugnata ai principi costituzionali, secondo quanto ampiamente motivato nella sentenza n. 15 del 1991, non può non seguire il modello già tratteggiato con la sentenza n. 530 del 1989, rimettendo all'interessato la scelta tra il preventivo esperimento del reclamo in via amministrativa (fatta salva, nel contempo, la successiva attivazione dell'impugnativa innanzi al magistrato) oppure l'immediato ricorso all'azione giudiziaria».

    Queste stesse considerazioni stanno alla base della dichiarazione d'illegittimità costituzionale dell'art. 15, primo comma, allegato al r.d.l. 11 ottobre 1934, n. 1948, convertito in legge 4 aprile 1935, n. 911, attesa l'identità sostanziale tra il trasporto di cose spedite (disciplinato dalle norme in tema di trasporto di cose) e il trasporto di cose portate dal viaggiatore con sé, (disciplinato dalle norme in tema di trasporto di persone).

    Siffatte conclusioni sono, peraltro, conformi alle altre decisioni di questa Corte in tema di cosiddetta "giurisdizione condizionata", dalle quali emerge che il principio generale è quello dell'accesso immediato alla giurisdizione ordinaria, che può essere ragionevolmente derogato da norme ordinarie, di stretta interpretazione (sentenza n. 403 del 2007), solo in presenza di "interessi generali" o di pericoli di abusi (sentenze nn. 403 del 2007 e 82 del 1992) o di interessi sociali (sentenza n. 251 del 2003) o di superiori finalità di giustizia (sentenza n. 406 del 1993); circostanze che sono state ravvisate nel caso di controversie nascenti da rapporti di lavoro (sentenza n. 82 del 1992) o di assicurazioni obbligatorie (sentenza n. 251 del 2003), ma che non possono certo ravv isarsi nel caso di controversie con le Ferrovie, come non sono stati ravvisati in tema di attivazione di linea telefonica (sentenza n.403 del 2007) e in tema di ricorsi alle poste (sentenza n. 15 del 1991).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 15, primo comma, dell'allegato al regio decreto-legge 11 ottobre 1934, n. 1948 (Nuovo testo delle condizioni e tariffe per il trasporto delle persone sulle ferrovie dello Stato), convertito in legge 4 aprile 1935, n. 911 (Conversione in legge del r.d.l. 11 ottobre 1934, n. 1948, conce rnente l'approvazione di nuove «Condizioni e tariffe per il trasporto delle persone sulle Ferrovie dello Stato»).

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
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SENTENZA N. 297

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

-         Franco         BILE              Presidente

-         Giovanni Maria FLICK               Giudice

-         Francesco      AMIRANTE                "

-         Ugo            DE SIERVO               "

-         Paolo          MADDALENA               "

-         Alfio          FINOCCHIARO             "

-         Alfonso        QUARANTA                "

-         Franco         GALLO                   "

-         Luigi          MAZZELLA                "

-         Gaetano        SILVESTRI               "

-         Sabino         CASSESE                 "

-         Maria Rita     SAULLE                  "

-         Giuseppe       TESAURO                 "

-         Paolo Maria        NAPOLITANO              "< o:p>

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 327, primo comma, del codice di procedura civile, promosso con ordinanza del 10 luglio 2007 dalla Corte d'appello di Venezia nel procedimento civile vertente tra l'Azienda Ospedaliera di Padova e Cavatton Gianni, iscritta al n. 794 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visti l'atto di costituzione dell'Azienda Ospedaliera di Padova nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 6 maggio 2008 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro;

    uditi gli avvocati Giovanni Sala e Luigi Manzi per l'Azienda Ospedaliera di Padova e l'avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

    1. - La Corte d'appello di Venezia - in sede di gravame avverso sentenza del Tribunale di Padova, giudice del lavoro, pronunciata nella controversia fra G. C. e l'Azienda Ospedaliera di Padova, depositata il 18 ottobre 2005, proposto con riserva dei motivi ex art. 433, secondo comma, del codice di procedura civile, presentati il 29 novembre 2006 - ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 327 cod. proc. civ., in riferimento all'art. 24 della Costituzione.

    Secondo il giudice rimettente, il citato art. 327, facendo decorrere il termine per la proposizione dell'impugnazione dalla data del deposito e non da quella della comunicazione della sentenza, non garantisce il diritto di difesa costituzionalmente riconosciuto alle parti costituite, non essendo per le stesse certo il godimento per intero del termine decadenziale.

    L'eventuale accoglimento della questione di legittimità costituzionale dell'art. 327 cod. proc. civ., in relazione all'art. 430 cod. proc. civ., non incide, secondo il giudice a quo, sulla coerenza del sistema delle impugnazioni, posto che la decorrenza del termine suddetto dalla comunicazione della sentenza invece che dalla sua pubblicazione, non appare lesiva del principio secondo cui, dopo un certo lasso di tempo, la cosa giudicata si forma indipendentemente dalla notificazione della sentenza, importando tale soluzione unicamente un modestissimo differimento temporale di entità predeterminata, (non più di cinque giorni ai sensi dell'art. 133, secondo comma, cod. proc. civ.), del passaggio in giudicato della sentenza.

    Tale soluzione assicurerebbe poi - prosegue il collegio rimettente - il pieno diritto di difesa delle parti, garantito costituzionalmente dall'art. 24 Cost., ponendole in condizione di utilizzare per intero il tempo normativamente assegnato, a pena di decadenza, per l'impugnazione della sentenza, concretizzando il presupposto processuale della conoscenza della stessa, innegabilmente necessario per la sua reale definitività entro l'anno dalla pubblicazione, ed ancora assicurando il pieno diritto di difesa ove la parte poi materialmente voglia effettivamente avvalersene.

    Né l'accoglimento della questione sollevata creerebbe disparità di trattamento rispetto alle parti contumaci, per le quali la decorrenza del termine dalla comunicazione della sentenza non potrebbe trovare applicazione, considerata la peculiare loro posizione, frutto di una libera scelta, che comporta che in caso di comprovata non conoscenza del processo (nullità della citazione o della notificazione della stessa), siano posti specifici rimedi proprio relativamente al termine lungo di impugnazione (art. 327, secondo comma, cod. proc. civ.).

    La prospettata questione di costituzionalità è rilevante - osserva la Corte rimettente - nel procedimento a quo, per il carattere preliminare ed eventualmente assorbente della eccezione di tardività dell'appello, proposta dall'appellato.

    2. - Nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituita l'Azienda ospedaliera di Padova, appellante nel giudizio a quo, chiedendo l'accoglimento della questione sulla base dei motivi addotti dal giudice rimettente.

    L'esigenza cui sovrintende l'art. 327 cod. proc. civ., di evitare che il passaggio in giudicato della sentenza possa essere protratto indefinitamente ad arbitrio delle parti, non può far obliterare l'altra esigenza a tutela del diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento, che comporta, nel caso in cui le parti debbano rispettare termini previsti a pena di decadenza, che il tempo assegnato dalla norma sia utilizzato nella sua interezza.

    Il giudice potrebbe contemperare le esigenze citate sulla base di una diversa lettura che risulti aderente ai principi costituzionali asseritamente violati, e, dunque, ritenere che il termine per l'impugnazione decorra dalla comunicazione del dispositivo da parte della cancelleria. La comunicazione conclude il procedimento, a formazione progressiva, del deposito della sentenza, tanto più che, nel processo del lavoro, la legge non ne concepisce un momento distinto, imponendo al cancelliere di darne "immediata comunicazione alle parti".

    La previsione del diritto di difesa, costituzionalmente garantito, in ogni stato e grado del procedimento, non si realizza ove il termine per l'impugnazione decorra da un momento anteriore a quello in cui la parte abbia avuto possibilità di conoscere la sentenza da impugnare.

    A sostegno della incostituzionalità, la parte privata richiama una serie di interventi manipolativi della Corte, soprattutto in materia fallimentare, in cui il termine per reclami e impugnazioni è stato fatto decorrere dal momento della effettiva conoscenza dell'atto.

    Il diritto di difesa deve essere assicurato in modo effettivo ed adeguato, indipendentemente dal fatto che la parte voglia valersene, giacché non si tratta - come pare doversi cogliere dalla pregressa giurisprudenza della Corte - di discrezionalità nella fissazione del termine, ma di decorrenza, ove questa cominci da un evento di cui il soggetto non è in grado di conoscere l'avverarsi.

    Non sembra motivo di discriminazione far decorrere il termine dalla comunicazione, per la parte rimasta contumace, attesa la diversità della posizione del contumace, alla quale il termine lungo non si applica, quando essa dimostra di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della citazione o della notificazione degli atti. Al di fuori di tali ipotesi, le conseguenze sfavorevoli di una decorrenza del termine dalla comunicazione, che al contumace non è dovuta, deriverebbero unicamente da una sua libera scelta. E comunque, una sentenza additiva potrebbe far decorrere il termine dell'impugnazione dalla comunicazione della sentenza, anche per la parte rimasta contumace.

    3. - Nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilità e comunque per l'infondatezza della questione, sostenendo che la rimozione della norma denunciata non comporterebbe automaticamente l'applicabilità del diverso meccanismo opinato dalla Corte d'appello, non essendo nei poteri della Corte costituzionale sostituirla con altra disposizione.

    Il diverso regime, da sostituire all'esistente - si tratterebbe solo di una diversa possibile soluzione, comunque rimessa alla discrezionalità del legislatore - sarebbe tutt'altro che conforme a Costituzione, discriminando la parte rimasta contumace, e rendendo assolutamente incerta per la controparte e i terzi la data del passaggio in giudicato della sentenza non notificata, e così vulnerando il fondamentale principio della certezza delle situazioni giuridiche.

    Nel merito, non sarebbe ravvisabile lesione del diritto di difesa, poiché l'individuazione del termine annuale opera un equo bilanciamento tra l'indispensabile esigenza di tutela della certezza delle situazioni giuridiche e il diritto di difesa. La soluzione sarebbe ragionevole e non graverebbe di oneri eccessivi il difensore, che deve recarsi saltuariamente in cancelleria per aver notizia della decisione. Il lasso di tempo di un anno consentirebbe di adottare ogni determinazione in merito all'eventuale impugnazione.

    Ancorare il dies a quo del termine di impugnazione ad un unico momento certo, costituisce elemento irrinunciabile per la certezza dei rapporti giuridici: la soluzione prospettata dalla Corte d'appello di Venezia, di far decorrere il termine dalla comunicazione di cancelleria, determinerebbe un passaggio in giudicato differenziato per le parti presenti e per quelle non costituite, a parte l'eventualità che, per disguido, l'incombente di cancelleria non venga effettuato, con la conseguenza che la sentenza non passerebbe mai in giudicato.

    La congruità del termine annuale porrebbe al riparo la disposizione in esame da dubbi in ordine alla conoscibilità della pronuncia, riferendosi gli interventi demolitivi della Corte solo alla ristrettezza di particolari termini, ad esempio in materia fallimentare.

    4. - Nell'imminenza dell'udienza pubblica l'Avvocatura generale dello Stato e l'Azienda ospedaliera di Padova hanno depositato memorie.

    La difesa erariale, nel confermare le conclusioni esposte, deduce che l'inammissibilità della questione deriva: a) dall'erronea indicazione della norma oggetto di censura conseguendo la prospettata lesione del diritto di difesa non dall'art. 327 cod. proc. civ., ma dall'art. 133 dello stesso codice; b) dalla richiesta di un provvedimento rimesso alla discrezionalità del legislatore.

    Con riferimento alla infondatezza si osserva: a) che il deposito della sentenza non è evento imprevedibile per la parte costituita tramite un difensore tecnico; b) che in materia fallimentare le pronunce di incostituzionalità si giustificavano per l'estrema brevità dei termini.

    La difesa dell'Azienda ospedaliera di Padova deduce: a) che si potrebbe giungere ad una interpretazione adeguata ai principi costituzionali; b) che la giurisprudenza in tema di incostituzionalità delle norme in materia fallimentare può applicarsi anche con riferimento all'art. 327 cod. proc. civ.; c) che la dichiarazione d'incostituzionalità richiesta dal giudice remittente non inciderebbe sulla certezza dei rapporti giuridici; d) che la previsione di un termine lungo è adeguata ove sussista la conoscibilità del deposito; e) che è irrilevante la posizione del contumace.

Considerato in diritto

    1. - La Corte d'appello di Venezia dubita della legittimità costituzionale dell'art. 327 del codice di procedura civile, nella parte in cui prevede la decorrenza del termine annuale per l'impugnazione dalla pubblicazione della sentenza, anziché dalla sua comunicazione a cura della cancelleria, per violazione dell'art. 24 della Costituzione, in quanto non sarebbe assicurato alle parti il diritto di difesa costituzionalmente garantito, per non essere alle stesse assicurato il godimento per intero del termine per impugnare.

    2. - La questione non è fondata.

    3. - Questa Corte ha già scrutinato identica questione dichiarandola, una prima volta, inammissibile (sentenza n. 584 del 1990) e, una seconda volta, manifestamente inammissibile (ordinanza n. 129 del 1991). Le ragioni per cui la questione fu disattesa in passato risiedevano nel considerare il termine annuale di decadenza ex art. 327 cod. proc. civ. logico corollario del principio di formazione del giudicato indipendentemente dalla notificazione della sentenza, e che lo spostamento della decorrenza del termine annuale alla data di comunicazione della sentenza avrebbe sconvolto la coerenza del sistema delle impugnazioni e postulato modifiche del sistema normativo, riguardo alla posizione del contumace, non consentite alla Corte.

    Preliminarmente all'individuazione delle conseguenze che una pronuncia di illegittimità determinerebbe sulla legge processuale, occorre interrogarsi se nella norma denunciata sia ravvisabile un contrasto con il diritto di difesa, tutelato dall'art. 24 Cost..

    L'art. 327, primo comma, cod. proc. civ., - il quale prevede la decadenza dalla impugnazione dopo il decorso di un anno dalla pubblicazione della sentenza, indipendentemente dalla notificazione di questa - opera un non irragionevole bilanciamento tra l'indispensabile esigenza di tutela della certezza delle situazioni giuridiche e il diritto di difesa. L'ampiezza del termine annuale consente al soccombente di informarsi tempestivamente della decisione che lo riguarda, facendo uso della diligenza dovuta in rebus suis. La decorrenza fissata con riferimento alla pubblicazione, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, è un corollario del principio secondo cui, dopo un certo lasso di tempo, la cosa giudicata si forma indipendentemente dalla notificazione della sent enza ad istanza di parte: sicché lo spostamento del dies a quo dalla data di pubblicazione a quella di comunicazione non solo sarebbe contraddittorio con la logica del processo, ma restringerebbe irrazionalmente il campo di applicazione del termine lungo di impugnazione alle parti costituite in giudizio, alle quali soltanto la sentenza è comunicata ex officio.

    E' bensì vero che questa Corte, con molteplici decisioni, emesse in materia fallimentare, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di norme sulla decorrenza di termini processuali per l'impugnazione di un atto da un determinato evento (ex plurimis: sentenza n. 201 del 1993; n. 881 del 1988; nn. 156 e 102 del 1986; n. 303 del 1985) o dall'affissione (ex plurimis: sentenze n. 224 del 2004; n. 211 del 2001; nn. 152 e 151 del 1980) anziché dalla comunicazione dello stesso. Tuttavia, il principio è stato enunciato in riferimento ad ipotesi, in cui i termini fissati dal legislatore, a parte l'incertezza e inconoscibilità della loro decorrenza, erano oggettivamente esigui: si trattava comunque di ipotesi ontologicamente diverse da quella prevista dall'art. 327 cod. proc. civ., dal momento che solamente per quest'ultima ipotesi - e non anche per le altre di cui alle richiamate pronunce - l'interessato è posto in condizione di conoscere la decorrenza iniziale del termine decadenziale, senza l'imposizione di oneri eccedenti la normale diligenza (ordinanza n. 56 del 2005).

    Da quanto precede deriva che il principio di cui all'art. 327 cod. proc. civ. non è in contrasto con l'art. 24 Cost. e, quindi, la questione proposta non è fondata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 327, primo comma, del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento all'art. 24 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Venezia, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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SENTENZA N. 298

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco         BILE       Presidente

- Giovanni Maria FLICK        Giudice

- Francesco      AMIRANTE        "

- Ugo            DE SIERVO       "

- Paolo          MADDALENA       "

- Alfio          FINOCCHIARO     "

- Alfonso        QUARANTA        "

- Franco         GALLO           "

- Luigi          MAZZELLA        "

- Gaetano        SILVESTRI       "

- Sabino         CASSESE         "

- Maria Rita     SAULLE          "

- Giuseppe       TESAURO         "

- Paolo Maria    NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 9, comma 2, e 10, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), promosso con ordinanza del 21 gennaio 2008 dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di S. M. ed altro, iscritta al n. 85 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell'anno 2008.

    Udito nella camera di consiglio del 25 giugno 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

Ritenuto in fatto

    Con l'ordinanza indicata in epigrafe la Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale:

    a) dell'art. 9, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui - modificando l'art. 36, comma 1, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468) - non consente al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento del giudice di pace;

    b) dell'art. 10, comma 2, della citata legge n. 46 del 2006, nella parte in cui prevede che l'appello proposto dal pubblico ministero contro una di dette sentenze, prima della data di entrata in vigore della medesima legge, sia dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile.

    La Corte rimettente premette di essere investita del ricorso per cassazione proposto il 10 marzo 2006 dal Procuratore generale presso la Corte d'appello di Genova, avverso la sentenza del Giudice di pace di Voltri - emessa il 25 novembre 2005 e depositata il 31 gennaio 2006 - che aveva assolto due imputati dal reato di lesioni colpose «gravi e aggravate dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale»: sentenza censurata dal ricorrente sotto i profili della mancata ammissione di una prova decisiva, nonché della mancanza e della manifesta illogicità della motivazione in ordine all'omessa ammissione di una perizia, volta ad accertare le modalità del sinistro.

    La Corte rimettente evidenzia come il ricorso sia stato proposto il giorno successivo alla data di entrata in vigore della legge n. 46 del 2006, mentre la sentenza e il deposito della motivazione sono precedenti ad essa. In simile situazione, potrebbe porsi un problema di individuazione della disciplina applicabile: infatti, è pacifico, nella giurisprudenza di legittimità, che il principio tempus regit actum opera anche in rapporto alle impugnazioni; tuttavia, si registrano divergenti indirizzi in ordine al momento rilevante ai fini dell'applicazione di detto principio (proposizione dell'impugnazione, pronuncia della sentenza o deposito della motivazione).

    Nella specie, peraltro, il problema risulterebbe risolto dalla disposizione transitoria di cui all'art. 10, comma 2, della legge n. 46 del 2006, tuttora vigente nelle parti non incise dalle declaratorie di illegittimità costituzionale di cui alle sentenze n. 26 e n. 320 del 2007: disposizione in forza della quale «l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento [.] dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della [.] legge viene dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile». Alla luce di tale previsione, il momento discriminante ai fini dell'individuazione della disciplina applicabile, infatti, sarebbe - univocamente - quello della proposizione dell'impugnazione: proposizione che, nel caso di specie, è avvenuta sotto il vigore della novel la.

    Sotto un diverso profilo, e per quanto concerne la qualificazione giuridica dell'impugnazione proposta, la Corte rimettente ricorda come, secondo la propria costante giurisprudenza - stante il rinvio operato dall'art. 2 del d.lgs. n. 274 del 2000 alle norme generali del codice di rito, in materia di impugnazione - avverso le sentenze del giudice di pace sia ammesso il ricorso per cassazione «per saltum»; nel qual caso il giudice di rinvio si identifica nel tribunale in composizione monocratica, indicato quale giudice competente per il giudizio d'appello dall'art. 39 del citato decreto legislativo. Di qui, peraltro, l'applicabilità anche dell'art. 569, comma 3, del codice di procedura penale, che prevede la conversione del ricorso «per saltum» in appello, qualora venga con esso dedotto un vizio di motivazione o l'omessa assunzione di una prova decisiva (art. 606, lettere d ed e, cod. proc. pen.).

    Nella specie, il ricorso proposto dal pubblico ministero si fonda proprio sui motivi di cui alle lettere d) ed e) dell'art. 606 cod. proc. pen. Perciò - ove non fosse intervenuta la legge n. 46 del 2006, rendendo inappellabili dal pubblico ministero le sentenze di proscioglimento del giudice di pace - l'impugnazione andrebbe qualificata come ricorso «per saltum» e, conseguentemente, convertita in appello ai sensi del citato art. 569 cod. proc. pen.; con individuazione del giudice competente nel tribunale in composizione monocratica.

    Desunta da tali considerazioni la rilevanza della questione, la Corte rimettente osserva - quanto alla non manifesta infondatezza - come le sentenze n. 26 e n. 320 del 2007 abbiano dichiarato l'illegittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui non consentono al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio ordinario o di giudizio abbreviato; nonché dell'art. 10, comma 2, della medesima legge, in riferimento alla prevista declaratoria di inammissibilità degli appelli proposti dal pubblico ministero avverso le predette sentenze anteriormente alla data di entrata in vigore della riforma.

    Tali pronunce di incostituzionalità - prosegue il giudice a quo - si fondano sul rilievo che il principio di parità delle parti (riferibile anche al regime delle impugnazioni) non comporta necessariamente l'identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e dell'imputato. Tuttavia, le alterazioni della simmetria fra tali poteri debbono trovare comunque una giustificazione razionale, legata ad una esigenza di complessivo riequilibrio delle posizioni delle parti o al ruolo istituzionale del pubblico ministero. Tale giustificazione, per contro, non è ravvisabile - in termini di adeguatezza e proporzionalità - rispetto alle norme dianzi citate, tenuto conto del carattere radicale, generale e unilaterale della sperequazione genera ta da tali alterazioni.

    Ad avviso della Corte rimettente, le medesime considerazioni indurrebbero a ritenere contrastante con gli artt. 3 e 111 Cost. anche l'esclusione dell'appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento del giudice di pace, disposta dalle norme censurate.

    I peculiari caratteri del procedimento davanti al giudice di pace - più volte posti in luce nella giurisprudenza costituzionale - potrebbero giustificare, infatti, deviazioni «sensibili» della relativa disciplina rispetto al modello ordinario, ma non «il completo stravolgimento del regime delle impugnazioni»: e ciò tanto più a fronte della natura non sempre "bagatellare" dei reati attribuiti alla competenza del giudice di pace. Nei procedimenti relativi ai reati di più accentuato disvalore - quale, in specie, il delitto di lesioni personali colpose aggravate dalla violazione delle norme sulla circolazione stradale, oggetto del giudizio a quo - le esigenze di una verifica piena della correttezza delle valutazioni del giudice di primo grado assumerebbero, in effetti, una particolare pregnanza. Sarebbe, perciò, ancora più evidente il carattere radicale dell'asimmetria racchiusa nella disciplina censurata, in quanto «estesa a qualsiasi tipologia di processo e anche ai casi di totale soccombenza» della parte pubblica.

    Sussisterebbe, in ogni caso, il connotato della «unilateralità». L'eliminazione dell'appello del pubblico ministero avverso il proscioglimento non avrebbe, infatti, «alcuna vera contropartita». Ne essa risulterebbe giustificabile solo perché limitata a determinate categorie di reati, stante il particolare «impatto sociale» di alcuni di essi; mentre apparirebbe contraddittorio il mantenimento del potere di appello della parte pubblica contro le sentenze di condanna a pena diversa da quella pecuniaria.

    La disciplina denunciata non potrebbe essere giustificata neppure in una prospettiva di riequilibrio dei poteri delle parti, avuto riguardo ai più ridotti poteri di impugnazione di cui l'imputato fruirebbe, rispetto al rito ordinario, nel caso di sentenza di condanna alla sola pena pecuniaria. Ciò in quanto tale sentenza è appellabile dall'imputato ove sia stata pronunciata condanna, anche generica, al risarcimento del danno (art. 37 del d.lgs. n. 274 del 2000); mentre, secondo parte della dottrina, nel procedimento davanti al giudice di pace non sarebbe applicabile al pubblico ministero nemmeno il nuovo dettato dell'art. 593, comma 2, cod. proc. pen., che consente di appellare la sentenza di proscioglimento nell'ipotesi - sia pure marginale - di sopravvenienza o di scoperta di nuove prove decisive dopo la sentenza di primo grado.

    Sotto diverso profilo, poi, il collegamento esistente - in forza dell'art. 38 del d.lgs. n. 274 del 2000 - tra il potere di impugnazione del pubblico ministero e quello della parte offesa che abbia proposto ricorso immediato al giudice ai sensi dell'art. 21 del medesimo decreto legislativo, finirebbe per ridimensionare «drasticamente» il ruolo di detta parte, in contrasto con un connotato tipico del procedimento davanti al giudice di pace. Stante, infatti, l'interdipendenza - sottolineata anche dalla relazione al d.lgs. n. 274 del 2000 - tra la disciplina della citazione diretta dell'imputato, «strumento propulsivo nelle mani della persona offesa», e il diritto di impugnazione della stessa, ogni limitazione di quest'ultimo diritto verrebbe a riverberarsi sulla specifica funzi one annessa alla giurisdizione del giudice di pace, «tesa a valorizzare le prevalenti esigenze di tutela della vittima del reato, stravolgendo, quindi, uno dei pilastri di quel giudizio».

    Un ulteriore profilo di irragionevolezza emergerebbe all'interno dello stesso disposto dell'art. 9 della legge n. 46 del 2006. Infatti, per un verso, con il comma 1 di tale articolo, si sarebbe ricondotto il danneggiato «entro una dimensione prettamente civilistica», mediante l'abrogazione dell'art. 577 cod. proc. pen. (che consentiva alla persona offesa costituita parte civile di proporre impugnazione, anche agli effetti penali, contro le sentenze di condanna e di proscioglimento per i reati di ingiuria e diffamazione). Per un altro verso, si sarebbe fatto invece permanere - nel procedimento davanti al giudice di pace - «un ampio potere in capo alla parte offesa», consentendole di proporre ricorso per cassazione, anche agli effetti penali, avverso la sentenza di proscioglime nto.

    Alla radice della disciplina censurata non potrebbe scorgersi neppure un'esigenza di semplificazione processuale; al contrario, la riforma avrebbe determinato un incremento dei «passaggi» necessari per pervenire alla decisione definitiva. In precedenza, infatti, all'assoluzione ingiusta potevano seguire l'appello e il ricorso per cassazione; invece, attualmente, per giungere al medesimo risultato occorrerebbero, «nella migliore delle ipotesi», quattro «passaggi»: ricorso per cassazione del pubblico ministero, nuovo giudizio di primo grado, appello contro la decisione di condanna e ricorso per cassazione avverso la sentenza confermativa. Donde una dilatazione dei tempi processuali atta ad incidere negativamente, quanto alle contravvenzioni, sulla prescrizione del reato e, per tutti i reati, sulla ragionevole durata del processo.

    Né, da ultimo, varrebbe invocare il contenuto del messaggio del Presidente della Repubblica, con il quale - in sede di rinvio della legge di riforma alle Camere - si era evidenziato, come profilo di incongruenza, il fatto che al principio informatore della legge stessa (quello, cioè, dell'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento) fosse originariamente sfuggito il procedimento penale davanti al giudice di pace: non essendo la segnalata incongruenza più ravvisabile dopo le dichiarazioni di incostituzionalità degli artt. 1, 2 e 10 della legge n. 46 del 2006.

Considerato in diritto

    1. - La Corte di cassazione dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dell'art. 9, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui - modificando l'art. 36, comma 1, del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 - non consente al pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento del giudice di pace; nonché dell'art. 10, comma 2, della citata legge n. 46 del 2006, nella parte in cui prevede che l'appello proposto dal pubblico ministero contro una di dette sentenze, prima della data di entrata in vigore della medesima legge, venga dichiarato inammissibile.

    Ad avviso della Corte rimettente, in rapporto alle norme censurate, varrebbero le medesime rationes che hanno indotto questa Corte a dichiarare costituzionalmente illegittimi sia gli artt. 1 e 2 della legge n. 46 del 2006, nella parte in cui sopprimevano il potere di appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio ordinario e di giudizio abbreviato; sia la disposizione transitoria di cui all'art. 10, comma 2, della stessa legge, per la parte corrispondente (sentenze n. 26 e n. 320 del 2007).

    Infatti, anche le norme denunciate genererebbero, tra i poteri di impugnazione delle parti, una asimmetria priva di adeguata giustificazione, avuto riguardo al suo carattere asseritamente radicale, generalizzato e unilaterale. Tale giustificazione non potrebbe essere rinvenuta né nelle particolarità del procedimento davanti al giudice di pace, che non legittimerebbero un «completo stravolgimento del regime delle impugnazioni», tanto più a fronte della natura non sempre "bagatellare" dei reati attribuiti alla competenza di detto giudice; né in una esigenza di riequilibrio dei poteri delle parti, tra i quali non era ravvisabile, in precedenza, alcuna significativa sperequazione. Mentre, per altro verso, apparirebbe contraddittorio il mantenimento del potere di appello del pubbl ico ministero contro le sentenze di condanna a pena diversa da quella pecuniaria.

    Ulteriori profili di irragionevolezza della disciplina censurata si connetterebbero al depotenziamento del ruolo della persona offesa che abbia proposto ricorso immediato al giudice ai sensi dell'art. 21 del d.lgs. n. 274 del 2000, i cui poteri di impugnazione riflettono quelli del pubblico ministero (art. 38 del d.lgs. n. 274 del 2000); nonché al fatto che la persona offesa mantenga, comunque, il potere di proporre ricorso per cassazione, anche agli effetti penali: e ciò ancorché il comma 1 dello stesso art. 9 della legge n. 46 del 2006 - abrogando l'art. 577 cod. proc. pen. - abbia inteso ricondurre il danneggiato dal reato «in una dimensione prettamente civilistica».

    Da ultimo, l'esclusione dell'appello della parte pubblica contro le sentenze di proscioglimento non risponderebbe neppure ad una esigenza di semplificazione. Al contrario, nel caso di assoluzione ingiusta, essa provocherebbe un aumento dei gradi di giudizio occorrenti onde pervenire alla decisione definitiva; con conseguente compromissione anche del principio di ragionevole durata del processo.

    2. - La questione relativa all'art. 9, comma 2, della legge n. 46 del 2006 non è fondata.

    3. - Contrariamente a quanto sostenuto dal giudice a quo, le precedenti argomentazioni di questa Corte - sulla base delle quali essa ha dichiarato costituzionalmente illegittima la soppressione dell'appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento, emesse nel giudizio ordinario e nel giudizio abbreviato, per violazione dell'art. 111, secondo comma, Cost. - non impongono la medesima conclusione in rapporto alla norma oggi sottoposta a scrutinio.

    3.1. - Con la sentenza n. 26 del 2007, questa Corte ha ribadito - a conferma della propria costante giurisprudenza - che, nel processo penale, il principio di parità delle parti non comporta necessariamente l'identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell'imputato. Infatti - sulla base delle «fisiologiche differenze che connotano le posizioni delle parti necessarie del processo penale, correlate alle diverse condizioni di operatività e ai differenti interessi dei quali [.] le parti stesse sono portatrici» - sono compatibili con il principio costituzionale in questione delle disparità di trattamento tra le parti medesime: purché tali disparità siano sorrette da un'adeguata ratio giustificatrice, connessa al ruo lo istituzionale del pubblico ministero o ad esigenze di funzionale e corretta esplicazione della giustizia penale, anche in un'ottica di complessivo riequilibrio dei poteri dei contendenti; e purché, comunque, esse siano contenute nei limiti della ragionevolezza.

    Tali enunciati - ha ulteriormente precisato la citata sentenza n. 26 del 2007 - risultano riferibili anche alla disciplina delle impugnazioni, che non può reputarsi in alcun modo estranea all'ambito di operatività del principio di parità delle parti. Ciò pur avendo la Corte evidenziato - in assenza di un riconoscimento costituzionale della garanzia del doppio grado di giurisdizione - che il potere di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado, da parte del pubblico ministero, non è configurabile come proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell'azione penale, di cui all'art. 112 Cost.; e che tale potere presenta, a fronte di esigenze contrapposte, dei margini di «cedevolezza» più ampi ris petto a quelli che connotano il simmetrico potere dell'imputato, il quale, invece, si correla anche al fondamentale valore espresso dal diritto di difesa (art. 24 Cost.).

    Di qui, dunque, la conclusione che, «per quanto attiene alla disciplina delle impugnazioni - ferma restando la possibilità per il legislatore [.] di una generale revisione del ruolo e della struttura dell'appello - non contraddice, comunque, il principio di parità l'eventuale differente modulazione dell'appello medesimo per il l'imputato e per il pubblico ministero, purché essa avvenga nel rispetto del canone della ragionevolezza», con i relativi «corollari di adeguatezza e proporzionalità».

    3.2. - La sentenza n. 26 del 2007 ha escluso che le condizioni dianzi ricordate ricorressero con riguardo al nuovo testo dell'art. 593 cod. proc. pen., come sostituito dall'art. 1 della legge n. 46 del 2006, concernente l'appello nel giudizio ordinario: essendosi in quell'occasione al cospetto di una dissimmetria estrema, che non avrebbe potuto essere reputata compatibile con il principio di parità delle parti, senza svuotare di significato l'affermata riferibilità di detto principio anche alla materia delle impugnazioni.

    La sperequazione indotta dalla citata disposizione - per effetto della quale una sola delle parti perdeva la facoltà di proporre doglianze di merito avverso la sentenza che avesse integralmente respinto le proprie istanze (salva l'ipotesi, del tutto marginale, della sopravvenienza o della scoperta di nuove prove decisive dopo il giudizio di primo grado) - si presentava, difatti, oltre che radicale, anche «generalizzata e "unilaterale"». A fronte dell'intatto potere dell'imputato di appellare le sentenze di condanna - anche per reati bagatellari (salva la preesistente eccezione relativa alle sentenze di condanna alla sola pena dell'ammenda) - il pubblico ministero veniva privato del simmetrico potere di appello avverso il proscioglimento, non in riferimento «a talune categorie di reati, ma [.] indistintamente a tutti i processi»: ivi compresi quelli relativi ai «delitti più severamente puniti e di maggiore allarme sociale». Al tempo stesso, detta rimozione non trovava «alcuna specifica "contropartita" in particolari modalità di svolgimento del processo».

    In questa situazione, l'alterazione del trattamento paritario dei contendenti non poteva essere giustificata, in termini di «adeguatezza e proporzionalità», alla luce delle rationes addotte a fondamento della riforma (vale a dire: l'asserita impossibilità di considerare colpevole «al di là di ogni ragionevole dubbio» l'imputato prosciolto in primo grado; l'esigenza di uniformare l'ordinamento italiano alle previsioni di determinati atti internazionali; l'opportunità di evitare che la sentenza di proscioglimento emessa da un giudice che ha assistito alla formazione della prova venga ribaltata da un giudice che ha una cognizione prevalentemente "cartolare" del materiale probatorio).

    4. - È agevole rilevare, peraltro, come le connotazioni dianzi indicate - ravvisabili, mutatis mutandis, anche in relazione alla soppressione dell'appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio abbreviato (art. 2 della legge n. 46 del 2006, modificativo dell'art. 443, comma 1, cod. proc. pen.: si veda la sentenza n. 320 del 2007) - non siano invece riscontrabili nell'ipotesi oggetto dell'odierno scrutinio.

    4.1. - La limitazione del potere di appello del pubblico ministero, stabilita dal novellato art. 36 del d.lgs. n. 274 del 2000, non è affatto «generalizzata». Essa concerne, al contrario, i soli reati di competenza del giudice di pace, ossia un circoscritto gruppo di figure criminose di minore gravità e di ridotto allarme sociale: figure espressive, in buona parte, di conflitti a carattere interpersonale e per le quali è comunque esclusa l'applicabilità di pene detentive.

    La validità di questo rilievo non è inficiata dall'asserto della Corte rimettente, stando al quale non tutti i reati attribuiti alla competenza del giudice di pace - e, tra essi, in specie, il reato di lesioni personali colpose commesse con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale (oggetto del giudizio a quo) - potrebbero essere qualificati, in realtà, come "bagatellari". Tale asserto si risolve, infatti, in un personale apprezzamento del giudice a quo circa il merito di scelte legislative in sé latamente discrezionali (quali quelle relative alla valutazione della gravità e dell'allarme sociale generato dai singoli reati).

    Al tempo stesso, la limitazione censurata viene ad innestarsi su un modulo processuale (il procedimento davanti al giudice di pace), che - come reiteratamente rilevato da questa Corte e come lo stesso giudice a quo riconosce - presenta caratteristiche assolutamente peculiari. Esso risulta improntato a finalità di snellezza, semplificazione e rapidità, che lo rendono non comparabile con il procedimento davanti al tribunale, e comunque tali da giustificare sensibili deviazioni rispetto al modello ordinario (ex plurimis, ordinanze n. 28 del 2007, n. 85 e n. 415 del 2005, n. 349 del 2004).

    Inoltre, la modifica normativa denunciata è intervenuta su una disciplina che - con specifico riguardo al regime delle impugnazioni - vedeva l'imputato, per certi versi, sfavorito rispetto al pubblico ministero. In base al previgente art. 36 del d.lgs. n. 274 del 2000, difatti, la parte pubblica era abilitata ad appellare sia le sentenze di condanna del giudice di pace che applicano una pena diversa da quella pecuniaria; sia le sentenze di proscioglimento per reati puniti con pena alternativa. Per contro, ai sensi dell'art. 37 del medesimo decreto legislativo, l'imputato era - ed è - ammesso ad appellare le sentenze di condanna a pena diversa da quella pecuniaria; nonché le sentenze di condanna a quest'ultima pena, ma solo ove venga congiuntamente impugnato il capo di condann a, anche generica, al risarcimento del danno.

    Ne derivava che, prima della riforma, il pubblico ministero fruiva del potere di appello, a certe condizioni, in rapporto ad entrambi gli epiloghi decisori del processo di primo grado (condanna e proscioglimento); mentre l'imputato fruiva dell'omologo potere, a certe condizioni, in rapporto ad uno soltanto di detti epiloghi (la condanna). Non solo: l'imputato non poteva (né può) proporre appello contro le sentenze di condanna per reati puniti con pena alternativa, allorché sia stata concretamente applicata la sola pena pecuniaria (salvo che impugni l'eventuale capo di condanna al risarcimento dei danni); invece, il pubblico ministero poteva appellare in ogni caso le sentenze di proscioglimento relative alla medesima categoria di reati.

    4.2. - In simile situazione, la scelta del legislatore di escludere la proponibilità di censure di merito, da parte del pubblico ministero, avverso le sentenze di proscioglimento del giudice di pace - a dispetto del mantenimento di un (circoscritto) potere di appello dell'imputato avverso le sentenze di condanna - non può ritenersi eccedente i limiti di compatibilità con il principio di parità delle parti. Tale scelta trova, infatti, una sufficiente ratio giustificatrice sia nella ritenuta opportunità di evitare un secondo giudizio di merito, ad iniziativa della parte pubblica, nei confronti di soggetti già prosciolti per determinati reati "di fascia bassa", all'esito di un procedimento improntato a marcata rapidità e semplificazione di forme; sia - almeno in parte - nell'ottica del riequilibrio dei poteri rispetto ad un assetto nel quale ad essere collocato in posizione di svantaggio era, sotto certi aspetti, l'imputato: ossia, proprio la parte il cui diritto d'appello ha una maggiore "forza di resistenza" rispetto a spinte di segno soppressivo.

    L'eventualità, allegata dalla Corte rimettente, che - in contrasto con la «esigenza semplificativa o di ragionevole durata del processo» - l'intervento normativo censurato determini, in caso di assoluzione ingiusta, un aumento dei gradi di giudizio occorrenti onde pervenire alla decisione definitiva (stante il carattere, di regola, solo rescindente del giudizio di cassazione), costituisce, per l'appunto, una semplice eventualità: ed in tali termini essa era stata evocata, in un'ottica contrapposta, dalla sentenza n. 320 del 2007 di questa Corte, citata dal giudice a quo. D'altronde, è indubbio che, sotto altri versanti, l'esclusione del giudizio di appello su iniziativa della parte pubblica comporti, viceversa, un risparmio di attivi tà processuali.

    Analogamente, resta irrilevante, ai fini considerati, che la compressione dei poteri di impugnazione del pubblico ministero si riverberi - stante il collegamento istituito dall'art. 38 del d.lgs. n. 274 del 2000 - anche sui corrispondenti poteri del ricorrente che ha chiesto la citazione a giudizio dell'imputato, ai sensi dell'art. 21 del medesimo decreto legislativo. Contrariamente a quanto afferma la Corte rimettente, il semplice fatto che - sullo specifico versante considerato - i poteri riconosciuti alla persona offesa, che agisce in veste di "accusatore privato", subiscano una contrazione riflessa, non può essere qualificato come «stravolgimento» di «uno dei pilastri» su cui poggia la giurisdizione del giudi ce di pace (la centralità del ruolo della vittima). Né, in ogni caso, detta contrazione può essere elevata ad indice della irrazionalità dell'intervento novellistico: infatti, è evidente come l'"accusatore privato" non possa fruire, sul piano del principio di parità delle parti, di poteri processuali, agli effetti penali, più estesi di quelli riconosciuti all'accusatore pubblico.

    Del tutto inconferente rispetto al thema decidendum (la configurazione dei poteri di appello del pubblico ministero) - oltre che contraddittoria rispetto alla doglianza dianzi esaminata - è, poi, l'ulteriore censura prospettata dal giudice a quo: cioè la supposta discrepanza tra l'abrogazione dell'art. 577 cod. proc. pen., disposta dal comma 1 dello stesso art. 9 della legge n. 46 del 2006 (nella quale dovrebbe scorgersi l'intento di ricondurre il danneggiato dal reato «in una dimensione prettamente civilistica»), da un lato, e il mantenimento, nel procedimento davanti al giudice di pace, del potere della persona offesa (che abbia proposto ricorso immediato ai sensi dell'art. 21 del d.lgs. n . 274 del 2000) di ricorrere per cassazione avverso la sentenza di proscioglimento, anche agli effetti penali, dall'altro lato.

    Quanto, infine, alla denunciata incongruenza intrinseca alla disciplina dell'impugnazione della parte pubblica, conseguente alla conservazione del suo potere di appello avverso le sentenze di condanna a pena diversa da quella pecuniaria - e, cioè, contro sentenze che accolgono, anche se solo in parte, le istanze dell'accusa, mentre sono rese inappellabili le sentenze che disattendono in toto la pretesa punitiva (si vedano, al riguardo, le sentenze n. 26 e n. 320 del 2007) - detta incongruenza, una volta escluso che la disposizione impugnata possa ritenersi di per sé contrastante con il principio di parità delle parti, non necessariamente dovrebbe essere rimossa nel senso auspicato dalla Corte rimettente: e, cioè, tramite l'ablazione della norma modificativa e il ripristino del regime pregresso. Sarebbe ipotizzabile, infatti, anche un intervento che incida sulla perdurante (e, peraltro, di fatto assai circoscritta) appellabilità, da parte del pubblico ministero, delle sentenze di condanna: intervento che non può essere peraltro preso in considerazione nella presente sede, sia perché di segno opposto al petitum; sia perché comunque irrilevante nel giudizio a quo.

    5. - L'accertata insussistenza di un vulnus all'art. 111, secondo comma, Cost. - sotto il profilo della non configurabilità di una disparità di trattamento tra le parti eccedente i limiti della ragionevolezza - vale altresì, e conseguentemente, ad escludere la lesione dell'art. 3 Cost., dedotta dalla Corte congiuntamente a quella dell'art. 111 Cost. e sulla base delle stesse considerazioni.

    6. - La questione relativa alla norma transitoria di cui all'art. 10, comma 2, della legge n. 46 del 2006 - che, ove scrutinata nel merito, non potrebbe evidentemente che seguire la medesima sorte della questione relativa alla norma "a regime" - è manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza.

    Secondo quanto si riferisce nell'ordinanza di rimessione, difatti, nel caso oggetto del giudizio a quo l'impugnazione è stata proposta in data successiva all'entrata in vigore della novella: sicché difetta, nella specie, il presupposto di applicabilità della norma transitoria censurata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    1) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 9, comma 2, della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l'ordinanza indicata in epigrafe;

    2) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, comma 2, della citata legge 20 febbraio 2006, n. 46, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con la medesima ordinanza.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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ORDINANZA N. 299

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE       Presidente

- Giovanni Maria  FLICK        Giudice

- Francesco       AMIRANTE        "

- Ugo               DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA       "

- Alfio           FINOCCHIARO     "

- Alfonso         QUARANTA        "

- Franco          GALLO           "

- Luigi           MAZZELLA        "

- Gaetano         SILVESTRI       "

- Sabino          CASSESE         "

- Maria Rita      SAULLE          "

- Giuseppe        TESAURO         "

- Paolo Maria     NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto dei commi 2, lettera b), e 14 dell'art. 13 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), promosso con ordinanza del 22 marzo 2007 dal Giudice di pace di Udine sul ricorso proposto da C. V. contro il Prefetto di Udine, iscritta al n. 585 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio dell'11 giugno 2008 il Giudice relatore Maria Rita Saulle.

    Ritenuto che il Giudice di pace di Udine, con ordinanza del 22 marzo 2007, ha sollevato questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dei commi 2, lettera b), e 14 dell'art. 13 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), in riferimento ag li artt. 2, 3, 10 e 27 della Costituzione, «nella parte in cui prevede l'automatica irrogazione della sanzione del divieto di rientro nel territorio nazionale per un periodo minimo di 5 anni anche per gli extracomunitari entrati legittimamente e non informati dei diritti e doveri relativi all'ingresso e al soggiorno in Italia»;

    che, in punto di fatto, il rimettente riferisce che una cittadina bielorussa ha proposto ricorso avverso il decreto di espulsione emesso nei suoi confronti dal prefetto di Udine, in data 26 agosto 2006, ai sensi dell'art. 13, comma 2, lettera b), del d.lgs n. 286 del 1998, per essere «entrata in Italia con un visto turistico rilasciato dall'Ambasciata greca in Bielorussia della durata di 10 giorni», ed essersi ivi trattenuta «senza chiedere il permesso di soggiorno entro il termine di 8 giorni»;

    che, in particolare, nell'ordinanza di rimessione si precisa che, con il primo motivo del ricorso, la ricorrente si duole del fatto che, nonostante l'espressa previsione di cui all'art. 4, comma 2, del d.lgs n. 286 del 1998, non sarebbe stata informata dei diritti e doveri dello straniero in ordine all'ingresso e al soggiorno nel territorio nazionale; mentre, con il secondo motivo, lamenta che «la sanzione, comminata con il provvedimento impugnato, di non fare ritorno in Italia per 5 anni» si rivelerebbe «non solo spropositata e irrazionale vista la legittimità dell'ingresso nel territorio nazionale, ma soprattutto ingiusta se rapportata al medesimo trattamento riservato ai cittadini entrati clandestinamente»;

    che, sulla base di tali doglianze, riferisce sempre il giudice a quo, la ricorrente ha insistito «per il parziale annullamento del decreto di espulsione limitatamente alla parte sanzionatoria», eccependo, contestualmente, la questione di legittimità costituzionale «dell'art. 13, comma 14, del d.lgs n. 286 del 1998 in riferimento agli artt. 2, 3, 10 e 16 Cost. e al principio della ragionevolezza e proporzionalità della sanzione»;

    che il giudice rimettente, affermando che la causa oggetto di giudizio postula «l'applicazione degli artt. 4 e 13, comma 2, lettera b), e comma 14, del d.lgs n. 286 del 1998», ritiene fondati i dubbi di costituzionalità manifestati dalla difesa della ricorrente, sul presupposto secondo il quale, in base a detta normativa, «il Prefetto è tenuto [.] ad emettere il decreto di espulsione dello straniero che si è trattenuto nel territorio dello Stato Italiano senza aver richiesto il permesso di soggiorno entro il termine di 8 giorni, salvo che il ritardo sia dipeso da "forza maggiore"», giacché tale esimente «deve connotarsi [.] come "vis cui resisti non potest"» ;

    che, in particolare, osserva il rimettente, nella fattispecie concreta, «la ricorrente non ha invocato la "forza maggiore"», quale fattore esteriore ed indipendente dalla volontà del soggetto, ma l'ignorantia legis «determinata da comportamento colpevole dell'Amministrazione e costituente l'antecedente logico-fattuale della stessa "forza maggiore"»;

    che, sempre ad avviso del rimettente, infatti, sarebbe «indubbio che il comportamento omissivo della P.A. determina in capo al cittadino extracomunitario il difetto dell'elemento psicologico idoneo, non già ad impedire l'adozione del provvedimento di espulsione, che, com'è noto, dipende dal fatto oggettivo dell'assenza di permesso di soggiorno, ma ad integrare un valido [recte: una valida] esimente all'irrogazione della sanzione del divieto di rientro sul territorio nazionale per un periodo compreso tra i 5 e i 10 anni»;

    che, sotto altro profilo, osserva ancora il rimettente, l'espulsione dal territorio dello Stato «per il solo fatto di non aver incolpevolmente chiesto il permesso di soggiorno entro il termine di 8 giorni», risulterebbe assoggettata alla sanzione del «divieto di farvi ritorno per un periodo minimo di 5 anni al pari del cittadino extracomunitario entrato clandestinamente», con la conseguenza che «due comportamenti diversi» sono «assoggettati alla stessa sanzione» in «patente violazione del principio di ragionevolezza e di uguaglianza»;

    che, con atto depositato in data 25 settembre 2007, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata;

    che la difesa erariale ritiene, in particolare, non conferente il parametro costituzionale di cui all'art. 27 della Costituzione, posto che «la comminatoria della sanzione del divieto di rientrare nel territorio nazionale al cittadino extracomunitario» che vi sia entrato legittimamente e che «incolpevolmente non abbia chiesto il rilascio del permesso di soggiorno nei termini di legge», costituirebbe «una misura di carattere amministrativo che non incide sulla libertà personale del cittadino extracomunitario destinatario di tale misura», ma solo sulla libertà di circolazione;

    che, peraltro, osserva sempre la difesa erariale, «anche a voler ammettere il carattere sanzionatorio del divieto di rientro nel territorio nazionale», il mancato rispetto dell'obbligo imposto dall'art. 4, comma 2, del d.lgs. n. 286 del 1998 non varrebbe ad escludere la colpevolezza della violazione, da parte del cittadino straniero entrato legalmente nel territorio nazionale, dell'obbligo di chiedere - nei termini di legge - il rilascio del permesso di soggiorno, posto che graverebbe comunque sul medesimo «l'onere di informarsi sulla disciplina del soggiorno in Italia dei cittadini extracomunitari».

    Considerato che il Giudice di pace di Udine dubita della legittimità costituzionale del combinato disposto dei commi 2, lettera b), e 14 dell'art. 13 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), in riferimento agli artt. 2, 3, 10 e 27 della Costituzione, «nella parte in cui prevede l'automatica irrogazione della sanzione del divieto di rientro nel territorio nazionale per un periodo minimo di 5 anni anche pe r gli extracomunitari entrati legittimamente e non informati dei diritti e doveri relativi all'ingresso e al soggiorno in Italia»;

    che, tuttavia, il denunciato automatismo dell'irrogazione della sanzione de qua non discende direttamente dal suddetto combinato disposto oggetto di censura, bensì dal comma 13 del medesimo art. 13 del d.lgs. n. 286 del 1998;

    che, peraltro, dal tenore dell'ordinanza di rimessione non risulta chiaro se l'intervento di questa Corte dovrebbe coinvolgere il citato automatismo in quanto tale o, in alternativa, l'entità del periodo minimo del divieto di rientro che il rimettente giudica sproporzionato;

    che, in ogni caso, alla assenza di chiarezza del petitum si accompagna il difetto di una soluzione costituzionalmente obbligata nell'ambito di quelle astrattamente possibili, che consentirebbe di superare tale automatismo o la suddetta sproporzione: soluzione, la cui scelta è riservata alla discrezionalità del legislatore;

    che, per tali ragioni, la questione è manifestamente inammissibile.

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle Nome integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dei commi 2, lettera b), e 14 dell'art. 13 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), sollevata dal Giudice di pace di Udine, in riferimento agli artt. 2, 3, 10 e 27 della Costituzione, con l'ordinanza in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Maria Rita SAULLE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
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ORDINANZA N. 300

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE       Presidente

- Giovanni Maria  FLICK        Giudice

- Francesco       AMIRANTE        "

- Ugo             DE SIERVO       "

- Paolo           MADDALENA       "

- Alfio           FINOCCHIARO     "

- Alfonso         QUARANTA        "

- Franco          GALLO           "

- Luigi           MAZZELLA        "

- Gaetano         SILVESTRI       "

- Sabino          CASSESE         "

- Maria Rita      SAULLE          "

- Giuseppe        TESAURO         "

- Paolo Maria     NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento); dell'art. 36, comma 1, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), come modificato dall'art. 9, comma 2, della citata legge n. 46 del 2006; e dell'art. 10 della medesima legge, promosso con ordinanza del 10 maggio 2006 dal Tribunale di Trieste nel procedimento penale a carico di F. S., iscritta al n. 459 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell'anno 2006.

    Udito nella camera di consiglio del 25 giugno 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che, con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Trieste ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento); dell'art. 36, comma 1, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 nove mbre 1999, n. 468), come modificato dall'art. 9, comma 2, della citata legge n. 46 del 2006; e dell'art. 10 della medesima legge;

    che il rimettente premette, in punto di rilevanza della questione, che - in forza della sopravvenuta disciplina di cui all'art. 10 della legge n. 46 del 2006, in riferimento all'art. 593 cod. proc. pen. e all'art. 36, comma 1, del d. lgs. n. 274 del 2000 - «dovrebbe definire il grado di giudizio mediante pronuncia di ordinanza non impugnabile di inammissibilità, di talché verrebbe ad essere precluso l'esame delle questioni di merito proposte con l'interposto gravame»;

    che, quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo dichiara di recepire «integralmente le motivazioni di analoga ordinanza della Corte d'appello di Trieste, che condivide in toto»;

    che il Tribunale rimettente rileva, in particolare, come, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la previsione di limiti al potere di impugnazione del pubblico ministero - di per sé non incompatibile con il principio di parità delle parti nel processo - debba comunque trovare una ragionevole giustificazione nella peculiare posizione istituzionale della parte pubblica, nella funzione alla stessa affidata e in esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia;

    che nei lavori preparatori della legge n. 46 del 2006, e segnatamente nella relazione di accompagnamento alla proposta di legge, le ragioni dell'intervento normativo sarebbero ricondotte esclusivamente alla necessità di dare attuazione all'art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98, con riferimento al diritto, ivi sancito, «al doppio grado di giurisdizione in materia penale per chiunque venga dichiarato colpevole di una infrazione penale da un tribunale»;

    che tali ragioni si paleserebbero, peraltro, non solo diverse da quelle che, secondo la giurisprudenza costituzionale richiamata, potrebbero legittimare una limitazione dei poteri di impugnazione del pubblico ministero, ma anche prive di fondamento; infatti - come questa Corte ha ripetutamente affermato - il doppio grado di giurisdizione di merito non forma oggetto di garanzia costituzionale, e l'art. 2 del Protocollo addizionale dianzi menzionato «non legittima una interpretazione per cui il riesame ad opera di un tribunale superiore debba coincidere con un giudizio di merito»;

    che la limitazione del potere di impugnazione del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento non sarebbe giustificata neppure dalla circostanza che l'appello sia formalmente precluso anche all'imputato, «ben diverso essendo il rispettivo interesse sostanziale a proporre impugnazione avverso una sentenza di proscioglimento»;

    che, pertanto, la disciplina censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 111 Cost., poiché introduce una limitazione dei poteri di appello del pubblico ministero priva di idonee ragioni giustificative;

    che sarebbe violato, inoltre, il principio della durata ragionevole del processo sancito dall'art. 111, secondo comma, Cost., giacché la legge n. 46 del 2006 - eliminando l'appello avverso le sentenze di proscioglimento e ampliando i motivi di ricorso per cassazione - avrebbe determinato un aumento dei gradi di giudizio; con conseguente allungamento dei tempi processuali e rischio di prescrizione dei reati;

    che ciò risulterebbe tanto più evidente in relazione alla disciplina transitoria dettata dall'art. 10 della legge n. 46 del 2006, poiché la previsione di una indiscriminata declaratoria di inammissibilità degli appelli proposti prima dell'entrata in vigore della legge - derogando al principio tempus regit actum che governa la materia processuale - non solo sacrificherebbe «un atto di gravame tempestivamente proposto, costringendo la parte interessata a presentarne un altro»; ma comporterebbe, altresì, l'inevitabile differimento della presentazione della nuova impugnazione «all'eseguita notifica del provvedimento di inammissibilità e, pertanto, ad un termine futuro ed incerto».

    Considerato che il Tribunale di Trieste ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento); dell'art. 36, comma 1, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), come modificato dall'art. 9, comma 2, della citata legge n. 46 del 2006; e dell'art. 10 della medesima legge;

    che il giudice a quo - nel sottoporre a scrutinio di costituzionalità le disposizioni censurate, nella parte in cui limitano l'appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento - omette ogni descrizione della fattispecie concreta sottoposta al suo esame, limitandosi ad affermare apoditticamente la rilevanza della questione;

    che nell'ordinanza di rimessione non risulta esplicitata, in particolare, la circostanza se il giudizio a quo origini effettivamente dall'appello proposto dal pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento (e, segnatamente, da un appello proposto prima dell'entrata in vigore della legge n. 46 del 2006 avverso una sentenza di proscioglimento emessa dal giudice di pace, avuto riguardo al coinvolgimento nell'impugnativa anche dell'art. 36, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000 e dell'art. 10 della legge n. 46 del 2006): non consentendo, con ciò, a questa Corte la verifica in ordine alla rilevanza della questione;

    che a siffatta omissione consegue, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la manifesta inammissibilità della questione (con riferimento a questioni analoghe, ordinanze n. 216 e n. 207 del 2007).

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento); dell'art. 36, comma 1, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), come modificato dall'art. 9, comma 2, della citata legge n. 46 del 2006; e dell'art. 10 della medesima l egge, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Trieste con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
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ORDINANZA N. 301

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE       Presidente

- Giovanni Maria  FLICK        Giudice

- Francesco       AMIRANTE        "

- Ugo             DE SIERVO       "

- Paolo           MADDALENA       "

- Alfio           FINOCCHIARO     "

- Alfonso         QUARANTA        "

- Franco          GALLO           "

- Luigi           MAZZELLA        "

- Gaetano         SILVESTRI       "

- Sabino          CASSESE         "

- Maria Rita      SAULLE          "

- Giuseppe        TESAURO         "

- Paolo Maria     NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), promosso con ordinanza dell'11 aprile 2006 dal Tribunale di Tempio Pausania nel procedimento penale a carico di U. A., iscritta al n. 599 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Udito nella camera di consiglio del 25 giugno 2008 il Giudice relatore Giovanni Maria Flick.

    Ritenuto che, con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale di Tempio Pausania ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento);

    che il rimettente premette di essere investito dell'appello proposto dal pubblico ministero avverso la sentenza emessa dal Giudice di pace di Tempio Pausania, che aveva assolto una persona imputata del reato di lesioni colpose;

    che, entrata in vigore nelle more del giudizio la legge n. 46 del 2006 − il cui art. 1, novellando l'art. 593 cod. proc. pen., ha introdotto limitazioni alla facoltà dell'organo d'accusa di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento − l'appello dovrebbe essere dichiarato inammissibile, in forza dell'art. 10 della medesima legge;

    che, su eccezione del Procuratore della Repubblica, il rimettente ritiene tuttavia di dover sollevare questione di legittimità costituzionale dell'art. 593 cod. proc. pen., come sostituito dalla citata legge n. 46 del 2006, in riferimento a diversi parametri costituzionali;

    che la norma censurata − consentendo al pubblico ministero di appellare le sentenze di proscioglimento solo nell'ipotesi di sopravvenienza o scoperta di nuove prove decisive dopo il giudizio di primo grado - contrasterebbe, anzitutto, con il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale (art. 112 Cost.), «funzionale all'attuazione del principio di legalità di cui all'art. 25 della Costituzione, il quale postula che alla commissione ed all'accertamento di un reato faccia seguito l'irrogazione di una pena»;

    che la incisiva limitazione del potere di impugnazione della pubblica accusa si porrebbe in contrasto anche con l'art. 24 Cost., sotto il profilo della violazione del diritto delle vittime del reato ad ottenere giustizia, «a prescindere dalla tutela a queste accordata in sede civile»;

    che sarebbe violato, altresì, il principio di parità delle parti nel processo, sancito dall'art. 111 Cost.: principio riferibile a tutte le fasi processuali, ivi compresa dunque quella di appello, quale «garanzia della maggiore approssimazione possibile al raggiungimento della verità, scopo cui il processo deve necessariamente tendere»;

    che risulterebbe compromesso, infine, il principio di ragionevolezza, di cui all'art. 3 Cost.: e ciò sia perché la disparità introdotta tra i poteri dell'accusa e quelli dell'imputato non risulterebbe giustificata dalla necessità di tutelare «altri prevalenti valori costituzionali»; sia perché il nuovo art. 593 cod. proc. pen., nell'impedire all'organo dell'accusa di appellare le sentenze di assoluzione, gli consente tuttavia di appellare quelle di condanna: col risultato di apprestare «una tutela preminente ad un interesse di rango inferiore».

    Considerato che il Tribunale di Tempio Pausania dubita, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 112 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui pone rilevanti limitazioni al potere di appello del pubblico ministero avverso le sentenze di proscioglimento;

    che lo stesso rimettente riferisce, peraltro, di essere investito, quale giudice d'appello, dell'impugnazione proposta dal pubblico ministero avverso una sentenza di proscioglimento emessa dal Giudice di pace di Tempio Pausania;

    che l'art. 593 cod. proc. pen., oggetto di censura, disciplina l'appello del pubblico ministero e dell'imputato avverso le sentenze emesse, all'esito del dibattimento, nel procedimento ordinario davanti al tribunale e alla corte d'assise;

    che l'impugnazione del pubblico ministero contro le sentenze emesse dal giudice di pace è regolata, per contro, in modo autonomo, dall'art. 36 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468):  disposizione che - a seguito della modifica operata dall'art. 9, comma 2, della legge n. 46 del 2006 - prevede che la parte pubblica possa proporre appello solo contro le sentenze di condanna che applicano una pena diversa da quella pecuniaria;

    che il rimettente censura, dunque, una norma diversa da quella di cui è chiamato a fare applicazione nel giudizio a quo: il che comporta, per costante giurisprudenza di questa Corte, la manifesta inammissibilità della questione (ex plurimis, ordinanze n. 42, n. 187 e n. 461 del 2007).

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

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LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 593 del codice di procedura penale, come sostituito dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 111 e 112 della Costituzione, dal Tribunale di Tempio Pausania con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 9 luglio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giovanni Maria FLICK, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 25 luglio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


 

ORDINANZA N. 302