Deposito del 27/06/2008 (dalla 231 alla 239) |
S.231/2008 del 23/06/2008 Camera di Consiglio del 07/05/2008, Presidente BILE, Relatore MADDALENA Norme impugnate: Art. 3 della legge della Regione Siciliana 05/12/2006, n. 21. Oggetto: Contabilità pubbica - Regione Siciliana - Revisore contabile presso la Riscossione Sicilia S.p.A. - Potere di scelta attribuito all'Amministrazione regionale tra i magistrati della Corte dei conti in servizio presso gli Uffici della Corte dei conti aventi sede in Sicilia. Dispositivo: illegittimità costituzionale Atti decisi: ord. 759/2007 |
S.232/2008 del 23/06/2008 Udienza Pubblica del 20/05/2008, Presidente BILE, Relatore QUARANTA Norme impugnate: Art. 42 della legge della Regione Puglia 16/04/2007, n. 10, che aggiunge il c. 4° bis all'art. 11 della legge della Regione Puglia 23/06/2006, n. 17. Oggetto: Tutela del paesaggio - Norme della Regione Puglia - Aree costiere - Strutture precarie e amovibili, funzionali all'attività turistico-ricreativa, già autorizzate per il mantenimento stagionale - Mantenimento per l'intero anno anche in deroga ai vincoli previsti dalle normative in materia di tutela territoriale, paesaggistica, ambientale e idrogeologica. Dispositivo: illegittimità costituzionale Atti decisi: ric. 30/2007 |
S.233/2008 del 23/06/2008 Udienza Pubblica del 20/05/2008, Presidente BILE, Relatore AMIRANTE Norme impugnate: Art. 3, c. 6°, della legge 08/08/1995, n. 335. Oggetto: Assistenza e solidarietà sociale - Assegno sociale - Reddito rilevante ai fini della concessione - Cumulo dei redditi coniugali - Computo della rendita INAIL percepita dal coniuge inabile. Dispositivo: non fondatezza Atti decisi: ord. 528/2007 |
S.234/2008 del 23 /06/2008 Udienza Pubblica del 20/05/2008, Presidente BILE, Relatore MADDALENA Norme impugnate: Art. 2 del regio decreto legge 19/01/1939, n. 295, come sostituito dall'art. 2, c. 4°, della legge 07/08/1985, n. 428. Oggetto: Previdenza - Ratei pensionistici dovuti dallo Stato - Assoggettamento a prescrizione quinquennale - Esclusione dei ratei di pensione non ancora liquidi ed esigibili e, quindi, non ancora ammessi a pagamento - Mancata previsione. Dispositivo: non fondatezza Atti decisi: ord. 652/2007 |
S.235/2008 del 23/06/2008 Udienza Pubblica del 20/05/2008, Presidente BILE, Relatore TESAURO Oggetto: Sicurezza pubblica - Esercizi pubblici - Decreto del Questore della Provincia autonoma di Bolzano n. 11 - A/A.S./2007 del 28/9/2007 recante sospensione immediata per 5 giorni della licenza di esercizio relativa alla sala da ballo - night club "Riva", per motivi di ordine pubblico e sicurezza - Asserita spettanza alla Provincia in materia di esercizi pubblici delle attribuzioni spettanti all'autorità di pubblica sicurezza previste dalle leggi vigenti. Dispositivo: inammissibile Atti decisi: confl. enti 9/2007 |
S.236/2008 del 23/06/2008 Camera di Cons iglio del 21/05/2008, Presidente BILE, Relatore SILVESTRI Norme impugnate: Art. 14, c. 5° ter e 5° quinquies, del decreto legislativo 25/07/1998, n. 286, come sostituiti dall'art. 1, c. 5° bis e 6°, del decreto legge 14/09/2004, n. 241, convertito con modificazioni in legge 12/11/2004, n. 271. Oggetto: Straniero e apolide - Espulsione amministrativa - Delitto di trattenimento, senza giustificato motivo, nel territorio dello Stato, in violazione dell'ordine di allontanamento impartito dal questore - Previsione dell'arresto obbligatorio anziché facoltativo. Dispositivo: non fondatezza - inammissibilità Atti decisi: ordd. 413 e 578/2006; 540, 781 e 783/2007 |
O.237/2008 del 23/06/2008 Camera di Consiglio del 02/04/2008, Presidente BILE, Relatore TESAURO Norme impugnate: Art. 1 della legge della Regione Siciliana 02/08/2002, n. 7; art. 1, c. 6°, della legge della Regione Siciliana 29/11/2005, n. 16. Oggetto: Appalti pubblici - Regione Siciliana - Meccanismo di esclusione automatica delle offerte anomale negli appalti al di sotto della soglia comunitaria - Determinazione mediante sorteggio delle imprese da escludere che abbiano formulato il medesimo ribasso. Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens Atti decisi: ord. 749/2007 |
O.238/2008 del 23/06/2008 Camera di Consiglio del 21/05/2008, Presidente BILE, Relatore TESAURO Norme impugnate: Art. 34, c. 2° bis, del codice di procedura penale. Oggetto: Processo penale - Incompatibilità del giudice - Incompatibilità tra il giudice che abbia esercitato le funzioni di giudice per le indagini preliminari (nella specie, che abbia convalidato l'arresto dell'indagato e contestualmente applicato una misura cautelare) e il giudice che abbia successivamente emesso il decreto che dispone il giudizio immediato - Mancata previsione. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 207/2007 |
O.239/2008 del 23/06/2008 Camera di Consig lio del 11/06/2008, Presidente BILE, Relatore QUARANTA Norme impugnate: Art. 213, c. 2° sexies, del codice della strada (d.lgs. 30.4.1992, n. 285), come sostituito dall'art. 2, c. 169°, del decreto legge 03/10/2006, n. 262, convertito con modificazioni in legge 24/11/2006, n. 286. Oggetto: Circolazione stradale - Sanzioni accessorie per violazioni del codice della strada - Confisca obbligatoria del ciclomotore o motoveicolo adoperato per commettere un reato, in specie, guida sotto l'influenza dell'alcool. Dispositivo: manifesta infondatezza Atti decisi: ord. 25/2008 |
ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3 della legge della Regione siciliana 5 dicembre 2006, n. 21 (Provvedimenti urgenti per il funzionamento dell'Amministrazione regionale ed interventi finanziari), promosso con ordinanza del 20 giugno 2007 dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia sul ricorso proposto da Zingale Pino contro il Consiglio di presidenza della Corte dei conti ed altri, iscritta al n. 759 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 45, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visto l'atto di intervento della Regione siciliana; udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Paolo Maddalena. Ritenuto in fatto 1. ¾ Con ordinanza del 20 giugno 2007, il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia ha sollevato, in riferimento agli artt. 100, terzo comma, e 108, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 3 della legge della Regione siciliana 5 dicembre 2006, n. 21 (Provvedimenti urgenti per il funzionamento dell'Amministrazio ne regionale ed interventi finanziari), il quale dispone: «Al fine di garantire le finalità di cui al disposto dell'articolo 3, comma 3, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, recepito dall'articolo 2 della legge regionale 22 dicembre 2005, n. 19, il revisore contabile è scelto dall'Amministrazione regionale tra i magistrati della Corte dei conti, in servizio presso gli uffici della Corte dei conti aventi sede in Sicilia, in possesso, per tutta la durata del mandato, dei requisiti di cui all'articolo 2409-quinquies del codice civile». Il rimettente evidenzia, in punto di fatto, di dover decidere sul ricorso proposto da un consigliere della Corte dei conti in servizio presso la sezione giurisdizionale per la Regione siciliana, avverso la deliberazione del Consiglio di Presidenza della stessa Corte, assunta nell'adunanza del 17-18 gennaio 2007, che ha respinto l'istanza del magistrato di autorizzazione ad assumere l'incarico di revisore contabile presso la "Riscossione Sicilia" s.p.a. per la durata di tre anni, ed ha indetto una procedura concorsuale riservata ai magistrati della Corte in servizio presso gli uffici aventi sede in Sicilia. Nell'atto di promovimento dell'incidente di costituzionalità si precisa, altresì, che la predetta nomina era stata richiesta in forza del denunciato art. 3 della legge regionale siciliana n. 21 del 2006 (pubblicata nella G.U.R.S. n. 56 del 7 dicembre 2006, ed entrata in vigore, per disposizione dell'art. 8 della medesima legge, il giorno successivo a quello della sua pubblicazione) e che il relativo diniego è stato così motivato: «Considerato che il Consiglio di presidenza, nell'adunanza del 20 dicembre 2006, ha ritenuto - anche alla luce dei principi esplicitati nella sentenza della Corte costituzionale n. 224/1999, in particolare al punto 9 della parte normativa (recte: motiva) - che detto incarico non sia autorizzabile ai sensi dell'art. 2, comma 3, del d.P.R. n. 388/1995, e dei relativi criteri applicativi, appr ovati con deliberazione n. 227 in data 28 giugno 2002 e successive modificazioni (art. 6, comma 1, lettera c)». Il giudice a quo rammenta, poi, che, con ordinanza n. 191 del 6 febbraio 2007, ha emesso provvedimento cautelare con il quale, ritenuto che il ricorso dell'interessato presentava profili di fondatezza, si invitava il Consiglio di Presidenza della Corte dei conti ad un riesame del provvedimento impugnato. Detto organo pronunciava, però, un nuovo motivato diniego, che veniva impugnato dal ricorrente con la proposizione di motivi aggiunti all'impugnazione originaria, alla quale seguiva ulteriore ricorso anche contro il bando di concorso per il conferimento dell'incarico di revisore contabile della "Riscossione Sicilia" s.p.a. indetto dallo stesso Consiglio di pres idenza della Corte dei conti. Ciò posto, il rimettente, assumendo anzitutto di poter sollevare questione di costituzionalità anche in sede cautelare, sostiene che la rilevanza della questione medesima sarebbe «attestata, innanzitutto, dalla effettiva sussistenza dei profili di danno prospettati dal ricorrente», non essendo ristorabile per equivalente il pregiudizio «ravvisabile nella perdita dell'occasione, per il magistrato interessato, di arricchire la propria esperienza professionale mediante l'effettivo svolgimento di un incarico la cui assunzione riveste profili di alta responsabilità e di indiscutibile, primario, rilievo per la finanza regionale - specie ove si consideri che la «Riscossione Sicilia» S.p.a. è ente d i nuova costituzione; e che, di conseguenza, garantirebbe al consigliere Zingale l'accrescimento ulteriore della sua già ben nota qualità di esperto della materia della riscossione». Peraltro, sussisterebbe anche il fumus boni juris della pretesa, non potendosi condividere l'interpretazione del denunciato art. 3 della legge regionale n. 21 del 2006 seguita dal Consiglio di Presidenza della Corte dei conti, che lo stesso «definisce "costituzionalmente orientata" (in quanto essa sarebbe ispirata ai principi di cui alla sentenza della Corte costituzionale n. 224/1999), e che, alla - asserita - possibilità che l'indipendenza e l'imparzialità del magistrato siano vulnerate dalla designazione nominativa operata dall'amministrazione regionale, tende a contrapporre una lettura della norma tesa a privilegiare la sussistenza del potere del Consiglio di presidenza di indire una procedura selettiva di tipo concorsuale riserv ata ai magistrati operanti in Sicilia». Invero, prosegue il giudice a quo, la norma censurata «non sembra far residuare spazi di sorta per l'esercizio di poteri da parte di soggetti diversi dall'amministrazione regionale siciliana, alla quale, inoltre, pare demandare esclusivamente una scelta intuitu personae, svincolata da altri parametri che non quello - previsto dalla stessa norma - del possesso dei requisiti di cui all'art. 2409-quinquies del codice civile»; tant'è che quando il legislatore regionale ha inteso attribuire il compito di scegliere i revisori dei conti di un ente regionale alla magistratura del quale il soggetto designato avrebbe dovuto essere espressione, «lo ha fatto expressis verbis: è il caso, ad esempio, dell'art. 5 della legge regionale 6 marzo 1976, n. 25 (Disposizioni per i centri interazie ndali per l'addestramento professionale nell'industria)», peraltro dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui prevedeva che i magistrati della Corte nominati revisori dovessero essere scelti fra quelli in servizio in Sicilia, dalla sentenza n. 224 del 1999 della Corte costituzionale. Il rimettente sostiene, però, che la norma denunciata «contrasti con gli articoli 100, terzo comma, Cost., per il quale la legge assicura l'indipendenza della Corte e dei suoi componenti di fronte al Governo (e, ovviamente, anche di fronte all'esecutivo regionale), nonchè dell'art. 108, secondo comma, Cost., secondo cui la legge assicura l'indipendenza dei giudici delle giurisdizioni speciali». Nel rammentare i contenuti della citata sentenza n. 224 del 1999 e, segnatamente, quanto affermato in punto di affidamento di incarichi extragiudiziari, per cui la «delimitazione territoriale contrasta con le esigenze di salvaguardia e di indipendenza dei magistrati, e, dunque, risulta lesiva dell'art. 100, terzo comma, e 108, secondo comma, Cost. nel caso in cui - per il contesto norm ativo in cui si colloca e per le caratteristiche concrete degli incarichi - renda palese la contaminazione fra controlli interni agli enti (operati proprio dai revisori dei conti) e controlli esterni operati dalle sezioni siciliane della Corte dei conti», il giudice a quo assume che l'art. 3 della legge regionale n. 21 del 2006, «formulato nel senso che il revisore contabile "è scelto dall'amministrazione regionale" tra i magistrati della Corte dei conti in servizio preso gli uffici siciliani, contrasti con le norme costituzionali indicate in precedenza, proprio in quanto rende operante detta contaminazione». A tal riguardo, nell'ordinanza di rimessione si individuano quali siano le funzioni di controllo affidate dalla legge (art. 3 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, recante «Disposizioni in materia di giurisdizione e controllo della Corte dei conti») alle sezioni regionali della Corte dei conti e si precisa, inoltre, che, in base all'art. 2, comma 5, della legge della Regione siciliana 22 dicembre 2005, n. 19 (Misure finanziarie urgenti e variazioni al bilancio della Regione per l'esercizio finanziario 2005. Disposizioni varie), la Riscossione Sicilia S.p.A. svolge le attività previste dall'art. 3, comma 4, del decreto-le gge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, tra cui quelle di riscossione mediante ruolo, di riscossione spontanea, liquidazione ed accertamento delle entrate, tributarie o patrimoniali, degli enti pubblici, anche territoriali, e delle loro società partecipate, nonché altre attività, strumentali a quelle dell'Agenzia delle entrate. Il giudice a quo evidenzia, quindi, l'importanza particolare che riveste, nell'àmbito dell'organizzazione societaria, il revisore contabile, «essendo istituzionalmente preposto al controllo interno sulla gestione», secondo quanto previsto dall'art. 2409-ter del codice civile. Sicché, il rimettente sottolinea come le predette funzioni sarebbero «strettamente legate da un vincolo di necessaria complementarietà; e come, in particolare, la funzione del revisore contabile - che si esplica principalmente sui bilanci di una società dal valore strategico centrale per le finanze regionali e sui documenti ad esso correlati - si ponga a monte del controllo successivo sulla gestione demandato alla Corte ». Un vincolo che, come dimostrato anche dalla pronuncia adottata dalle sezioni riunite della Corte dei conti in sede di controllo nell'adunanza del 27 ottobre 2006, avente ad oggetto gli indirizzi e i criteri di riferimento programmatico del controllo sulla gestione per l'anno 2007, verrebbe ancor di più a risaltare, giacché «l'analisi condotta dalla Corte dovrebbe individuare ed evidenziare gli obiettivi perseguiti dai soggetti controllati quali evidenziati nei documenti di bilancio, al fine di valutare in concreto la coerenza delle scelte adottate dall'Ente controllato sulla base delle sue effettive disponibilità». Pertanto, secondo il TAR rimettente, la norma di cui al denunciato art. 3 della legge regionale n. 21 del 2006, nell'attribuire «all'amministrazione regionale controllata il potere di scegliere il revisore dei conti della società di riscossione delle entrate regionali proprio fra i soggetti istituzionalmente preposti ad effettuare il controllo sulla gestione della società medesima e, in generale, di tutto l'apparato amministrativo regionale, ossia fra i magistrati preposti agli uffici siciliani della Corte», violerebbe gli artt. 100, terzo comma, e 108, secondo comma, Cost., giacché essa sarebbe «idonea a vulnerare l'imparzialità e l'indipendenza del magistrato contabile sul quale cada la scelta ampiamente discrezionale dell'amministrazione regionale, proprio perché appare at ta a realizzare quella "linea di coinvolgimento istituzionale" di tali magistrati nell'attività di controllo interno nell'ambito dell'organizzazione delle amministrazioni, poi soggette ai poteri di controllo esterno delle sezioni siciliane della magistratura contabile». Peraltro, nel caso di specie, la disarmonia rispetto ai parametri costituzionali evocati risulterebbe ancor più evidente di quella apprezzata dalla citata sentenza n. 224 del 1999, in quanto, «alla delimitazione territoriale inderogabile (che rende imprescindibile la nomina di un magistrato operante in Sicilia) si affianca la scelta intuitu personae - e, quindi, non mediata neppure dalla selezione concorsuale operata dal Consiglio di presidenza - dell'amministrazione regionale della persona del revisore». 2. ¾ E' intervenuto in giudizio il Presidente della Regione siciliana, il quale ha chiesto che la sollevata questione venga dichiarata inammissibile o, comunque, infondata. Quanto alla dedotta inammissibilità, questa deriverebbe, secondo la difesa regionale, dall'esistenza, ammessa dallo stesso rimettente, di una interpretazione conforme a Costituzione della norma censurata, siccome fatta propria dallo stesso Consiglio di Presidenza della Corte dei conti nel reputare possibile, per il conferimento dell'incarico di revisore contabile della Riscossione Sicilia S.p.A., l'indizione di una «procedura selettiva fra i magistrati contabili adibiti agli uffici siciliani, in alternativa alla diretta investitura da parte dell'amministrazione regionale». La stessa difesa della Regione ritiene, in ogni caso, che la disposizione denunciata non confligga con i parametri evocati dal giudice rimettente. A tal riguardo, si osserva nella memoria che la Regione siciliana si è dovuta adeguare alla riforma del sistema della riscossione prevista dall'art. 3 del d.l. n. 203 del 2005, provvedendo anch'essa a riformare il servizio regionale di riscossione e, tramite l'art. 2 della legge regionale n. 19 del 2005, ha disposto l'applicazione nel territorio siciliano del citato art. 3 del d.l. n. 203 del 2005, stabilendo altresì, con la partecipazione della Agenzia delle Entrate, la «costituzione della Ris cossione Sicilia S.p.a., cui, per espressa e testuale previsione normativa, "devono intendersi riferiti" gli obblighi, i diritti ed i rapporti in campo nazionale riferiti alla Riscossione S.p.a.». Il modello di "governance" prescelto per la Riscossione Sicilia S.p.a., alla stregua delle norme recate dal decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6 (Riforma organica della disciplina delle società di capitali e società cooperative, in attuazione della legge 3 ottobre 2001, n. 366), è stato quello dualistico, nel cui àmbito il consiglio di sorveglianza «non può essere parificato al collegio sindacale cui tradizionalmente competeva il controllo gestionale ed il controllo contabile», e dove il controllo contabile «deve necessariamente essere esercitato da un revisore contabile o da una societ à di revisione». Sicché, prosegue la difesa regionale, si è provveduto ad affidare il controllo contabile di detta società «ad un revisore contabile da scegliersi, come specificato nei patti parasociali, tra i magistrati della Corte dei conti, con ciò non intendendosi tanto soddisfare l'esigenza di applicare pedissequamente» l'art. 3, comma 3, del d.l. n. 203 del 2005, che appunto prevede che il presidente del collegio sindacale della Riscossione S.p.a è scelto tra i magistrati della Corte dei conti, quanto invece «adeguare l'esigenza sottesa dalla richiamata previsione alla diversa realtà societaria conseguente alla scelta discrezionale effettuata in attuazione della normativa regionale» e, dunque, «per ovvie esigenze di imparzialità e garanzia, di doversi giovare della medesima figura di magistrato contabile, la cui professionalità certamente garantisce le sottese occorrenze». Ad avviso della difesa della Regione, posto che la disciplina in tema di incarichi extraistituzionali a magistrati della Corte dei conti, di competenza della legislazione statale, afferma il principio dell'ammissibilità di incarichi espressamente previsti da legge o da altre fonti normative, risulterebbe coerente con «il vigente ordinamento» la previsione della norma censurata che attribuisce all'Amministrazione regionale la scelta del revisore contabile della Riscossione Sicilia S.p.a. «tra una individuata platea di magistrati contabili», là dove, inoltre, essendo la carica di revisore prevista dal codice civile, sarebbe rispettato anche l'art. 3, comma 3, del d.P.R. 27 luglio 1995, n. 388 (Regolamento recante norme sugli incarichi dei magistrati della Corte di conti, ai sen si dell'art. 58, comma 3, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29), che contempla tra gli incarichi consentiti quelli «previsti da legge dello Stato». Peraltro, si precisa nella memoria, il comma 5 dello stesso art. 3 del citato Regolamento «esclude dalle vietate partecipazioni a collegi sindacali o di revisori dei conti [.] "i casi espressamente previsti da legge dello Stato e delle regioni"», risultando, quindi, solo una "astratta evenienza", concernente "situazioni patologiche", la «eventualità che la disposizione impugnata determini un vulnus all'imparzialità e all'indipendenza del magistrato», come tale non rilevante ai fini di una declaratoria di incostituzionalità. La difesa regionale evidenzia, ancora, che «la presenza di un magistrato della Corte fra i revisori di enti pubblici è, da sempre, prevista dall'ordinamento [.] in quanto funzionale al tempestivo esercizio della funzione di controllo già in fase di gestione dell'ente e non può dar luogo al conflitto di interessi rilevato» dal rimettente, conflitto che potrebbe, comunque, essere superato con l'esclusione dal collegio del magistrato revisore. Sicché, puntualizza la stessa difesa regionale, «la scelta rimessa dalla censurata norma all'Amministrazione regionale va correttamente intesa quale segnalazione di un ben individuato magistrato, assolutamente consentita dalle norme di riferimento ed in particolare dal più volte citato Regolamento emanato con il d.P.R. 27 luglio 1995, n. 3 88». Ne consegue che «l'indipendenza e l'imparzialità dei magistrati contabili è certamente salvaguardata dal potere-dovere del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti a provvedere - previo espletamento delle valutazioni di competenza ex articolo 13 della L. 27 aprile 1982, n. 186, ed articolo 2 del DPR 388/1995 - all'attribuzione dell'incarico in questione, sulla base di quella motivata richiesta nominativa, seppur priva di un effetto vincolante, formulata dalla Regione, in cui si sostanzia legittimamente quella "scelta" cui si riferisce il legislatore regionale». Considerato in diritto 1. ¾ Viene all'esame di questa Corte la questione di legittimità costituzionale, sollevata dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, dell'art. 3 della legge della Regione siciliana 5 dicembre 2006, n. 21 (Provvedimenti urgenti per il funzionamento dell'Amministrazione regionale ed interventi finanziari). La norma stabilisce: «Al fine di garantire le finalità di cui al disposto dell'articolo 3, comma 3, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, recepito dall'articolo 2 della legge regionale 22 dicembre 2005, n. 19, il revisore contabile è scelto dall'Amministrazione regionale tra i magistrati della Corte dei conti, in servizio presso gli uffici della Corte dei conti aventi sede in Sicilia, in possesso, per tutta la durata del mandato, dei requisiti di cui all'articolo 2409-quinquies del codice civile». Ad avviso del rimettente, la disposizione censurata contrasterebbe con gli artt. 100, terzo comma, e 108, secondo comma, Cost., giacché essa, nell'attribuire «all'amministrazione regionale controllata il potere di scegliere il revisore dei conti della società di riscossione delle entrate regionali proprio fra i soggetti istituzionalmente preposti ad effettuare il controllo sulla gestione della società medesima e, in generale, di tutto l'apparato amministrativo regionale, ossia fra i magistrati preposti agli uffici siciliani della Corte», sarebbe «idonea a vulnerare l'imparzialità e l'indipendenza del magistrato contabile sul quale cada la scelta ampiamente discrezionale dell'amministrazione regionale, proprio perché appare atta a realizzare quella "linea di coinvolgimento ist ituzionale" di tali magistrati nell'attività di controllo interno nell'ambito dell'organizzazione delle amministrazioni, poi soggette ai poteri di controllo esterno delle sezioni siciliane della magistratura contabile». 2. ¾ In via preliminare, deve essere respinta l'eccezione di inammissibilità della questione formulata dalla difesa della Regione siciliana sul presupposto che il rimettente non avrebbe sperimentato una interpretazione conforme a Costituzione della norma censurata, come, peraltro, avrebbe invece fatto lo stesso Consiglio di Presidenza della Corte dei conti, nel reputare possibile indire una procedura selettiva per il conferimento dell'incarico di revisore contabile della Riscossione Sicilia s.p.a. A tal riguardo, è sufficiente osservare che il giudice a quo pone in rilievo che la norma censurata «non sembra far residuare spazi di sorta per l'esercizio di poteri da parte di soggetti diversi dall'amministrazione regionale siciliana, alla quale, inoltre, pare demandare esclusivamente una scelta intuitu personae, svincolata da altri parametri che non quello - previsto dalla stessa norma - del possesso dei requisiti di cui all'art. 2409-quinquies del codice civile». Il rimettente fornisce, dunque, una esauriente e non implausibile motivazione circa le ragioni che lo hanno condotto a reputare l'opzione ermeneutica prescelta come l'unica praticabile , così da sottrarsi alla eccezione prospettata dalla Regione. 3. ¾ Nel merito, la questione è fondata. 3.1. ¾ Il denunciato art. 3 della legge regionale n. 21 del 2006 si colloca nell'àmbito della disciplina dettata dalla legge della Regione siciliana 22 dicembre 2005, n. 19 (Misure finanziarie urgenti e variazioni al bilancio della Regione per l'esercizio finanziario 2005. Disposizioni varie), il cui art. 2 prevede la costituzione (comma 3) della "Riscossione Si cilia s.p.a." da parte della Regione (che è tenuta a mantenere la partecipazione di maggioranza), con l'eventuale partecipazione dell'Agenzia delle entrate. La "Riscossione Sicilia S.p.A." è compagine sociale omologa alla "Riscossione S.p.A.", la quale ha rilievo nazionale ed è prevista dall'articolo 3 del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248. Difatti, alla società siciliana sono da riferirsi «gli obblighi, i diritti ed i rapporti» che la legge contempla per la "Riscossione S.p.A.", nonché le attività che il citato art. 3 del d.l. n. 203 del 2005 riserva, al comma 4, a quest'ultima e, tra ques te, le attività di riscossione mediante ruolo, quelle di riscossione spontanea, liquidazione ed accertamento delle entrate, tributarie o patrimoniali, degli enti pubblici, anche territoriali, e delle loro società partecipate, oltre ad attività strumentali a quelle dell'Agenzia delle entrate. Sicché, coerentemente con tale assetto, il comma 2 dell'art. 2 della legge regionale n. 19 del 2005 dispone che «a decorrere dal 1° ottobre 2006 è soppresso il sistema di affidamento in concessione del servizio regionale della riscossione e le funzioni relative alla riscossione in Sicilia sono esercitate dalla Regione mediante» la "Riscossione Sicilia S.p.A.". Quanto poi alla gestione di tale società di riscossione, il comma 4 del citato art. 2 prevede che sia la Regione ad esercitare i diritti "corporativi", anche nel contenuto dei patti parasociali, tramite il dipartimento finanze e credito dell'Assessorato per il bilancio e le finanze. In siffatto contesto assume, quindi, specifico rilievo il successivo comma 6, secondo cui: «L'Assessore regionale per il bilancio e le finanze rende annualmente all'Assemblea regionale siciliana una relazione sullo stato dell'attività di riscossione; a tal fine, il dipartimento finanze e credito dell'Assessorato regionale del bilancio e delle finanze fornisce allo stesso Assessore i risultati dei controlli sull'efficacia e sull'effi cienza dell'attività svolta dalla Riscossione Sicilia S.p.A.». 3.2. ¾ Sotto il diverso, ma correlato, profilo della disciplina del codice civile sul controllo contabile delle società di capitali, occorre evidenziare che l'art. 2409-bis affida detto controllo a un revisore contabile o ad una società di revisione iscritti nel registro istituito presso il Ministero della giustizia; se gnatamente, la società di revisione lo esercita necessariamente nelle società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio, mentre là dove non vi è ricorso al mercato del capitale di rischio e non vi sia l'obbligo alla redazione del bilancio consolidato, il controllo contabile può essere esercitato dal collegio sindacale (di cui all'art. 2403 cod. civ.), il quale deve pertanto essere «costituito da revisori contabili iscritti nel registro istituito presso il Ministero della giustizia». Le funzioni di controllo contabile del revisore o della società incaricata del controllo contabile sono elencate dall'art. 2409-ter cod. civ., il quale stabilisce, tra l'altro, che, secondo l'esito dell'attività - nel corso della quale «il revisore o la società incaricata del controllo contabile può chiedere agli amministratori documenti e notizie utili al controllo e può procedere ad ispezioni» - il revisore è tenuto ad esprimere «un giudizio sul bila ncio con rilievi, un giudizio negativo» ovvero a rilasciare «una dichiarazione di impossibilità di esprimere un giudizio», dovendo così redigere una relazione nella quale siano illustrati «analiticamente i motivi della decisione». 3.3. ¾ E' nel descritto quadro normativo che va letta, ai fini della presente decisione, la disciplina concernente gli incarichi extraistituzionali che possono ricoprire i magistrati della Corte dei conti ed al cui conferimento provvede il Consiglio di presidenza, in base al combinato disposto dell'art. 10 della legge 13 aprile 1988, n. 117 (Risarcimento dei dan ni cagionati nell'esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati) e dell'art. 13, secondo comma, numero 3, della legge 27 aprile 1982, n. 186 (Ordinamento della giurisdizione amministrativa e del personale di segreteria ed ausiliario del Consiglio di stato e dei tribunali amministrativi regionali). Detta disciplina, che ha trovato la propria originaria fonte nella generica previsione dell'art. 7, quinto e sesto comma, del testo unico approvato con regio decreto 12 aprile 1934, n. 1214 (Approvazione del testo unico delle leggi sulla Corte dei conti), è stata innovata dall'art. 58 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'articolo 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), il quale, in riferimento ai magistrati, demanda ad apposito regolamento l'emanazione di norme «dirette a determinare gli incarichi consentiti e quelli vietati» (comma 3), stabilendo altresì che, una volta scaduto il termine per l'emanazione del regolamento, « l'attribuzione degli incarichi è consentita nei soli casi espressamente previsti dalla legge o da altre fonti normative» (comma 4). Per i magistrati della Corte dei conti, il regolamento è stato emanato con il d.P.R. 27 luglio 1995, n. 388 (Regolamento recante norme sugli incarichi dei magistrati della Corte dei conti, ai sensi dell'art. 58, comma 3, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29), il quale, posta la disciplina di principio, include tra gli incarichi per i quali sussiste il divieto di conferimento anche la «partecipazione a collegi sindacali o di revisori dei conti», ma con salvezza dei «casi espressamente previsti da legge dello Stato o delle regioni» (art. 3, comma 6, lettera g). A tale specifico riguardo, in forza dell'art. 7 della Delibera n. 227/2002 del Consiglio di presidenza (adottata nell'adunanza del 4-5 giugno 2002), la partecipazione a collegi sindacali o di revisione «è consentita solo se espressamente prevista dalla legge, statale o regionale, o da regolamenti di delegificazione oppure da statuti di istituzioni ad autonomia costituzionalmente garantita». Lo stesso art. 7 stabilisce altresì: «Detti incarichi qualora si tratti di Amministrazioni, Enti o Istituzioni soggetti al controllo o alla giurisdizione della Corte dei conti, non possono essere autorizzati o conferiti nell'ambito della Regione nella quale ha sede l'ufficio cui il magistrato è assegnato [comma 2]. Fa eccezione la partecipazione a titolo gratuito ad organi di enti senza fine di lucro ed alle istituzioni di garanzia di cui all'art. 3, comma 3, lett. b) del D.P.R. 27 luglio 1995, n. 388 [comma 3]. I magistrati della Corte dei conti, nei limiti di cui al comma 2, possono svolgere l'incarico, autorizzato o conferito, di Presidente o componente dei collegi dei revisori delle Università o di Istituzioni universitarie, secondo quanto previsto dai relativi statuti di autonomia [comma 4]». 4. ¾ Questa Corte, con la sentenza n. 224 del 1999, ha già avuto modo di affrontare questioni di costituzionalità analoghe a quella attualmente oggetto di scrutinio, e riguardanti talune disposizioni di leggi della Regione siciliana (art. 5 della legge regionale 6 marzo 1976, n. 25; art. 2 2 della legge regionale 14 settembre 1979, n. 212), nella parte in cui prevedevano che anche i magistrati contabili chiamati a far parte di organi collegiali di controllo di enti pubblici regionali dovessero essere nominati tra quelli in servizio nel territorio della Regione. In detta occasione si è precisato, per quanto specificamente interessa in questa sede, che il vulnus all'indipendenza ed all'imparzialità dei magistrati contabili (artt. 100, terzo comma, e 108, secondo comma, Cost.), le quali «governano anche la materia degli incarichi extraistituzionali, e sono affidate, per la loro cura in concreto, alle determinazioni del Consiglio di presidenza della Corte dei conti», deriva, in particolare, dalla «delimitazione territoriale, per il contesto normativo in cui si colloca, e per le caratteristiche degli incarichi in questione». Ciò in quanto le «sezioni regionali siciliane della Corte dei conti svolgono, in posizione di indipendenza, nei confronti dell'amministrazione regionale, comprensiva degli e nti pubblici dipendenti dalla Regione, e degli amministratori e dei funzionari che operano presso di essa, tutte le funzioni di controllo e giurisdizionali proprie della Corte stessa», là dove i «collegi dei revisori dei conti degli enti regionali in questione svolgono le funzioni tipiche del controllo interno, essendo dunque a loro volta soggetti alle valutazioni "esterne" della Corte dei conti», rendendo, quindi, «palese il rischio di un intreccio fra i due ordini di funzioni, suscettibile di tradursi in una menomazione dell'indipendenza e dell'imparzialità dei magistrati delle sezioni regionali della Corte». Ed ancora, la medesima sentenza n. 224 del 1999 ha puntualizzato che, sebbene una «siffatta linea possa corrispondere all'intento del legislatore regionale, di per sé lodevole, di imprimere caratteri di serietà e di "neutralità" al controllo interno agli enti, attraverso la presenza della professionalità tipica dei magistrati contabili», essa, tuttavia, «non elimina la "contaminazione" fra controlli interni ed esterni, che si può realizzare attraverso la sistematica attribuzione di incarichi di controllo interno, conferiti e remunerati dalla Regione o da enti regionali, a molti degli stessi magistrati che per i compiti di istituto operano, nel medesimo ambito territoriale, nell'organo di controllo estern o». In definitiva, la «limitazione territoriale [.] si traduce in un ostacolo all'esercizio dei compiti di salvaguardia dell'indipendenza e dell'imparzialità dei magistrati, affidati al Consiglio di presidenza, cui spetta, proprio a questi fini, deliberare sugli incarichi, e che non potrebbe impedire, non tanto in singole occasioni (per le quali esso potrebbe sempre esercitare la sua potestà di rifiutare in concreto la designazione), ma sistematicamente, che si crei l'accennato rischio di intreccio, pericoloso per l'indipendenza della Corte e dei suoi magistrati». 5. ¾ Alla luce di quanto sopra, il censurato art. 3 della legge della Regione siciliana n. 21 del 2006 si presta, con più evidenza rispetto alle stesse norme scrutinate dalla richiamata sentenza n. 224 del 1999, ad infliggere un vulnus all'indipendenza ed all'imparzialità dei magistrati della Corte dei conti, giacché esso non solo limita nel territorio della Sicilia la scelta dei magistrati cui affidare l'incarico di revisore della "Riscossione Sicilia s.p.a.", ma attribuisce detta scelta all'esclusivo apprezzamento dell'amministrazione regionale siciliana. In tale ottica non può valere ad elidere il contrasto con i suddetti principi costituzionali quanto sostenuto dalla difesa della Regione siciliana in ordine alla specificità del modello di governo prescelto per la società di riscossione, giacché l'aver scelto il modello con unico revisore contabile aggrava, semmai, i profili di incostituzionalità posti in rilievo dalla citata pronuncia del 1999. Peraltro, l'esistenza reale di una "contaminazione" tra controlli interni ed esterni che si viene a determinare in forza della disposizione denunciata è posta in evidenza dalla norma (art. 2, comma 6, della legge regionale n. 19 del 2005) che prevede che l'Assessorato regionale per il bilancio e le finanze, nel redigere la relazione annuale all'Assemblea regionale «sullo stato dell'attività di riscossione», si avvale proprio dei «risultati dei controlli sull'efficacia e sull'efficienza dell'attività svolta dalla Riscossione Sicilia S.p.A.», effettuati dal revisore scelto tra i magistrati della Corte dei conti in servizio nella Regione siciliana. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 3 della legge della Regione siciliana 5 dicembre 2006, n. 21 (Provvedimenti urgenti per il funzionamento dell'Amministrazione regionale ed interventi finanziari). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 23 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Paolo MADDALENA, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 27 giugno 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale del comma 4-bis dell'art. 11 della legge della Regione Puglia 23 giugno 2006, n. 17 (Disciplina della tutela e dell'uso della costa), introdotto dall'art. 42 della legge della Regione Puglia 16 aprile 2007, n. 10 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione 2007 e bilancio pluriennale 2007-2009 della Regione Puglia), promosso con ri corso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 18 giugno 2007, depositato in cancelleria il successivo 23 giugno ed iscritto al n. 30 del registro ricorsi 2007. Visto l'atto di costituzione, fuori termine, della Regione Puglia; udito nell'udienza pubblica del 20 maggio 2008 il Giudice relatore Alfonso Quaranta; udito l'avvocato dello Stato Paola Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.- Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato in data 18 giugno 2007 - previa consegna all'ufficiale giudiziario il precedente giorno 16 - e depositato il successivo 23 giugno, ha promosso questione di legittimità costituzionale del comma 4-bis dell'art. 11 della legge della Regione Puglia 23 giugno 2006, n. 17 (Disciplina della tutela e dell'uso della costa), introdotto dall'art. 42 della legge della Regione Puglia 16 aprile 2007, n. 10 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione 2007 e bilancio pluriennale 2007-2009 della Regione Puglia), per contrasto con l'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione. 2.- Il citato art. 11 della legge regionale n. 17 del 2006 regolamenta, tra l'altro, il rilascio delle concessioni demaniali e gli obblighi del concessionario di aree demaniali per la gestione di stabilimenti balneari e di altre strutture connesse alle attività turistiche, ricadenti nelle suddette aree. Il comma 4 della suddetta norma stabilisce: «la gestione di stabilimenti balneari e di altre strutture connesse alle attività turistiche ricadenti su aree demaniali regolarmente concesse è consentita per l'intero anno, al fine di svolgere attività collaterali alla balneazione, con facoltà di mantenere le opere assentite, ancorché precarie, qualora, prima della scadenza della concessione, sia stata prodotta regolare istanza di rinnovo e, comunque, sino alle relative determinazioni dell'autorità competente». Il comma 4-bis, a sua volta, prevede che: «il mantenimento per l'intero anno delle strutture precarie e amovibili di facile rimozione, funzionali all'attività turistico-ricreativa e già autorizzate per il mantenimento stagionale, è consentito anche in deroga ai vincoli previsti dalle normative in materia di tutela territoriale, paesaggistica, ambientale e idrogeologica». 3.- Ad avviso del ricorrente, la citata disposizione, nel consentire che, in località sottoposte a tutela paesaggistica, siano indiscriminatamente realizzati o mantenuti interventi senza la necessaria autorizzazione, secondo quanto previsto dal decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), lederebbe la competenza legislativa esclusiva dello Stato prevista dall'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione. La difesa dello Stato si richiama alla disciplina statale di riferimento, in materia, sancita dagli artt. 142, 146 e 149 del suddetto d.lgs. n. 42 del 2004. La prima di tali disposizioni, al comma 1, lettera a), non modificata dal decreto legislativo 26 marzo 2008, n. 63 (Ulteriori disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione al paesaggio), prevede che «sono comunque di interesse paesaggistico e sono sottoposti alle disposizioni» del Titolo I della Parte terza del Codice − che ha ad oggetto «Tutela e valorizzazione» dei beni paesaggistici − «i territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia, anche per i terreni elevati sul mare». Sarebbe, in tal modo, introdotto un vincolo legislativo, poiché «la sottoposizione alla tutela paesaggistica, e di conseguenza, alle misure di salvaguardia che possano garantire la conservazione delle caratteristiche proprie di dette aree, viene attuata dal legislatore non già attraverso un provvedimento puntuale bensì ope legis». Il sottoporre le aree costiere al predetto vincolo di legge, ai sensi del successivo art. 146 del Codice − anche nel testo sostituito dall'art. 2, comma 1, lettera s), del d.lgs. n. 63 del 2008 − in relazione agli artt. 2 e 134, determina l'obbligo - per il proprietario, possessore o detentore delle aree e, per l'effetto, per lo stesso concessionario - di ottenere la relativa autorizzazione paesaggistica al fine di realizzare opere o eseguire lavori o, comunque, di modificare lo stato dei luoghi incidendo su tali aree, tutelate per la loro valenza paesaggistica ovvero per le caratteristiche morfologiche. L'art. 149, a sua volta, individua tassativamente le tipologie di intervento realizzabili, in area vincolata, anche in assenza della relativa autorizzazione paesaggistica, tra le quali, mette in luce il ricorrente, non rientra la situazione delineata dalla norma censurata. Quest'ultima, quindi, consentirebbe, implicitamente, una deroga alla disciplina contenuta nelle richiamate disposizioni statali, ledendo il riparto della potestà legislativa tra Stato e Regioni, come sancito dalla Carta fondamentale, nella materia «tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali». 4.- Pertanto, secondo il ricorrente, mentre è conforme alla disciplina statale in materia che le opere previste dalla norma impugnata siano assentite per la sola stagione balneare ovvero per un periodo di tempo temporalmente circoscritto, il loro mantenimento, oltre detto periodo e per tutto l'anno, rappresenta una deroga ex lege, illegittima, all'autorizzazione già concessa dall'Autorità competente alla tutela dei vincoli paesaggistici e ambientali. Di fatto, in tal modo, si consente il mantenimento permanente di quelle opere in deroga alle disposizioni statali che ne richiedono, in via obbligatoria, la necessaria autorizzazione temporanea, la cui disciplina compete allo Stato. 5.- L'Avvocatura dello Stato, a sostegno delle proprie argomentazioni, richiama, in particolare, la sentenza n. 182 del 2006 che ha ricondotto la tutela del paesaggio all'ambito materiale dell'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. 6.- Sulla base di tali argomentazioni il Presidente del Consiglio dei ministri chiede che sia dichiarata l'illegittimità costituzionale della disposizione censurata. 7.- Con memoria depositata in data 19 settembre 2007 si è costituita, fuori termine, la Regione Puglia. 8.- In data 7 maggio 2008, l'Avvocatura generale dello Stato ha depositato memoria con la quale, nel prospettare ulteriori argomentazioni a sostegno della dedotta illegittimità costituzionale, ha insistito nelle conclusioni già rassegnate. In particolare, la difesa statale deduce che l'attribuzione alla potestà legislativa esclusiva dello Stato della materia «tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali» trova fondamento nella esigenza di offrire adeguata protezione a beni giuridici di primario rilievo, come si può desumere dall'art. 9 Cost., che vale a conferire loro valore di princìpi fondamentali dell'ordinamento costituzionale. Infine, è ribadita la persistente lesione della disciplina statale, invocata come interposta, anche nel testo risultante dalle modifiche introdotte dal decreto legislativo n. 63 del 2008. Considerato in diritto 1.- Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questione di legittimità costituzionale del comma 4-bis dell'art. 11 della legge della Regione Puglia 23 giugno 2006, n. 17 (Disciplina della tutela e dell'uso della costa ), introdotto dall'art. 42 della legge della stessa Regione 16 aprile 2007, n. 10 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione 2007 e bilancio pluriennale 2007-2009 della Regione Puglia), secondo il quale «il mantenimento per l'intero anno delle strutture precarie e amovibili di facile rimozione, funzionali all'attività turistico-ricreativa e già autorizzate per il mantenimento stagionale, è consentito anche in deroga ai vincoli previsti dalle normative in materia di tutela territoriale, paesaggistica, ambientale e idrogeologica». Il ricorrente censura la disposizione in esame prospettando la lesione dell'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, in quanto essa invaderebbe la potestà legislativa esclusiva dello Stato nella materia della tutela dell'ambiente, alla quale è stata data attuazione, con riguardo ai beni paesaggistici, con le disposizioni contenute negli artt. 142, 146 e 149 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137). 2.- La questione è fondata. 3.- Per una compiuta disamina della censura proposta dalla difesa dello Stato occorre collocare la norma impugnata nel più ampio contesto normativo della legge regionale n. 17 del 2006. Detta legge disciplina, tra l'altro, l'esercizio delle funzioni amministrative connesse alla gestione del demanio marittimo e regola gli adempimenti ed il procedimento per il rilascio, il rinnovo e la variazione delle concessioni di aree o beni del demanio medesimo («concessione demaniale marittima», quale prevista dall'art. 10, comma 3, della medesima legge). La suddetta concessione, rilasciata per finalità turistico-ricreativa, ha la durata di sei anni, secondo quanto previsto dal comma 2 dell'art. 01 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 400, recante «Disposizioni per la determinazione dei canoni relativi a concessioni demaniali marittime», come convertito dalla legge 4 dicembre 1993, n. 494, nonché dall'art. 10, comma 6, della stessa legge regionale n. 17 del 2006. Ai sensi dell'art.11, comma 4, della legge regionale in esame, «la gestione di stabilimenti balneari e di altre strutture connesse alle attività turistiche ricadenti su aree demaniali regolarmente concesse è consentita per l'intero anno, al fine di svolgere attività collaterali alla balneazione, con facoltà di mantenere le opere assentite, ancorché precarie, qualora, prima della scadenza della concessione, sia stata prodotta regolare istanza di rinnovo e, comunque, sino alle relative determinazioni dell'autorità competente». In funzione, dunque, dello svolgimento, regolarmente autorizzato, per l'intero anno di attività collaterali alla balneazione, le opere precarie - quali gli stabilimenti balneari e le altre strutture connesse alle attività turistiche - destinate, ab origin e, a far fronte ad esigenze di carattere temporaneo nel periodo estivo, possono essere mantenute oltre il suddetto periodo, cioè in un arco temporale diverso da quello assentito. 4.- Nel contesto normativo sopra richiamato si inserisce la disposizione ora impugnata. Il comma 4-bis oggetto di censura stabilisce, infatti, che «il mantenimento per l'intero anno delle strutture precarie e amovibili di facile rimozione, funzionali all'attività turistico-ricreativa e già autorizzate per il mantenimento stagionale, è consentito anche in deroga ai vincoli previsti dalle normative in materia di tutela territoriale, paesaggistica, ambientale e idrogeologica». La disposizione sospettata di illegittimità costituzionale deve, pertanto, essere esaminata tenendo presente il complessivo regime giuridico delle opere di nuova costruzione, tra le quali rientra, ai sensi dell'art. 3, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), «l'installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di l avoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee», che siano realizzati su aree del demanio marittimo oggetto di concessione. È quindi evidente, da un lato, che la disciplina amministrativa dell'uso del territorio, come delineata nei principi generali sanciti dal legislatore statale, nella materia del governo del territorio, prevede il rilascio di titoli abilitativi ad edificare; dall'altro, che l'art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004, ai fini della salvaguardia del paesaggio e dell'ambiente, richiede che intervenga, da parte dell'Amministrazione, la positi va valutazione della compatibilità paesaggistica, mediante il rilascio della relativa autorizzazione. 5.- Così delineato il contesto normativo nel cui ambito si inserisce la norma regionale oggetto di censura, è fuor di dubbio che essa leda l'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione al citato art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004. Il suddetto art. 146, infatti, prevede che i proprietari, possessori o detentori a qualsiasi titolo di immobili ed aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla legge, a termini del precedente art. 142 (tra i quali rientrano i territori costieri compresi in una fascia della profondità di 300 metri dalla linea di battigia) non possono distruggerli, né introdurvi modificazioni che rechino pregiudizio ai valori paesaggistici oggetto di protezione ed hanno l'obbligo di pres entare alle amministrazioni competenti il progetto degli interventi che intendono intraprendere al fine di ottenere il rilascio della autorizzazione paesaggistica; quest'ultima costituisce atto autonomo da valere come presupposto rispetto al permesso di costruire e agli altri titoli legittimanti l'intervento urbanistico-edilizio. La norma sottoposta a scrutinio, invece, consente il mantenimento delle opere precarie in questione, oltre il periodo autorizzato in relazione alla durata della stagione balneare, in mancanza della necessaria positiva valutazione di compatibilità paesaggistica. Come questa Corte ha già avuto modo di affermare, la tutela ambientale e paesaggistica, la quale ha ad oggetto un bene complesso ed unitario, che costituisce un valore primario ed assoluto, rientra nella competenza legislativa esclusiva dello Stato (sentenze n. 367 del 2007 e n. 182 del 2006). Ciò, se non esclude la possibilità che leggi regionali, emanate nell'esercizio della potestà concorrente di cui all'art. 117, terzo comma, Cost., o di quella residuale di cui all'art. 117, quarto comma, Cost., possano assumere tra i propri scopi anche indirette finalità di tutela ambientale (sentenza n. 232 del 2005), non consente, tuttavia, che le stesse introducano deroghe agli istituti di protezione ambientale uniformi, validi in tutto il territorio nazionale, nel cui ambito deve essere annoverata l'autorizzazione paesaggistica. 6.- Deve, pertanto essere dichiarata l'illegittimità costituzionale del comma 4-bis dell'art. 11 della legge della Regione Puglia n. 17 del 2006, introdotto dall'art. 42 della legge della medesima Regione n. 10 del 2007.</ P> LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimità costituzionale del comma 4-bis dell'art. 11 della legge della Regione Puglia 23 giugno 2006, n. 17 (Disciplina della tutela e dell'uso della costa), introdotto dall'art. 42 della legge della medesima Regione 16 aprile 2007, n. 10 (Disposizioni per la formazione del bilancio di previsione 2007 e bilancio pluriennale 2007-2009 della Regione Puglia). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Alfonso QUARANTA, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 27 giugno 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), promosso dalla Corte d'appello di Torino, sezione lavoro, nel procedimento civile vertente tra G. C. e l'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), con ordinanza del 6 dicembre 2006, iscritta al n. 528 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti l'atto di costituzione dell'INPS nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 20 maggio 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante: uditi l'avvocato Nicola Valente per l'INPS e l'avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.-- La Corte d'appello di Torino, sezione lavoro, con ordinanza del 6 dicembre 2006, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), nella parte in cui stabilisce che, per la determinazione del limite di reddito rilevante ai fini della concessione dell'assegno sociale, si deve tenere conto anche della rendita INAIL del coniuge del beneficiario. La questione è sorta nell'ambito del giudizio di appello avverso la sentenza del Tribunale di Ivrea che aveva respinto il ricorso di G.C. volto ad ottenere l'accertamento del proprio diritto alla percezione dell'assegno sociale, la condanna dell'INPS al ripristino della corresponsione della provvidenza - sospesa in conseguenza del superamento del prescritto limite di reddito, dovuto al computo della rendita INAIL percepita dal coniuge della ricorrente - e la declaratoria di infondatezza della pretesa dell'Istituto di restituzione di quanto, al suddetto titolo, percepito. La Corte remittente riferisce che il giudice di primo grado è pervenuto alla suddetta decisione sul rilievo per cui, dalla lettura della disposizione in oggetto, si desume che il legislatore ha accolto una nozione di reddito rilevante molto ampia (comprensiva anche dei redditi esenti da imposte) ed ha specificato, in modo tassativo, le entrate escluse dal computo, sicché la rendita INAIL, non essendo stata esclusa, non può non essere conteggiata ai suddetti fini. Tale interpretazione, che trova riscontro anche nella successiva sentenza della Corte di cassazione 2 febbraio 2006, n. 2312, è condivisa dal giudice a quo che, sulla base di essa, solleva la questione, precisando, quanto alla rilevanza, che l'accoglimento dell'appello dipende esclusivamente dall'eventuale esclusione della rendita INAIL del coniuge dell'appellante dai redditi rilevanti per la concessione della provvidenza di cui si discute, non essendo in contestazione il fatto che, senza considerare tale entrata, il limite reddituale stabilito dalla legge non sia stato superato. Quanto al merito della questione, la Corte remittente sostiene che la disposizione censurata si pone in contrasto con l'art. 3 Cost. poiché, a parità di risorse patrimoniali e di grado di inabilità, riserva un trattamento deteriore al titolare di rendita INAIL con moglie a carico rispetto al titolare della suddetta rendita senza moglie a carico, essendo il primo obbligato a destinare al mantenimento del coniuge risorse che il secondo può, invece, riservare alla funzione, prevista dalla legge, di compensare il proprio stato di inabilità al lavoro. Ciò comporterebbe anche la violazione dell'art. 38 Cost., dato che, conseguentemente, la rendita in argomento non sarebbe più utilizzata, almeno in parte, per fornire al soggetto inabile al lavoro i mezzi necessari per vivere. Gli invocati parametri sarebbero anche violati sotto altro profilo e, cioè, perché verrebbe riservato al soggetto che si trova nelle condizioni di aspirare ad ottenere l'assegno sociale, il cui coniuge sia titolare di rendita INAIL in quanto inabile al lavoro (quale è l'attuale appellante), un trattamento penalizzante rispetto all'aspirante all'assegno sociale con il medesimo livello di reddito il cui coniuge non percepisca la suddetta rendita, non essendo invalido. 2.- Nel giudizio davanti alla Corte si è costituito INPS, concludendo per l'inammissibilità e l'infondatezza della questione. L'Istituto osserva che il legislatore, nel fissare per l'assegno sociale un presupposto reddituale di carattere generale e tendenzialmente comprensivo di ogni entrata, ha inteso attribuire alla suddetta provvidenza una specifica funzione di contrasto della situazione di indigenza dei cittadini ultrasessantacinquenni, accentuando l'analoga connotazione della pensione sociale. Anche per l'attribuzione di tale pensione era prevista, ai fini del requisito reddituale, la computabilità delle «rendite o prestazioni economiche previdenziali ed assistenziali [.] erogate con carattere di continuità dallo Stato o da altri enti pubblici o da Stati esteri». Tra queste prestazioni erano comprese anche le pensioni di guerra e questa Corte ha dichiarato l'infondatezza della relativa questione di legittimità costituzionale. È stata, inoltre, dichiarata la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale della disposizione che vietava il cumulo della pensione sociale con la rendita INAIL. In tutte queste occasioni è stato posto l'accento soprattutto sulla natura assistenziale della pensione sociale, evidenziata dal fatto di essere posta a carico dello Stato, e si è, inoltre, sottolineato che compete al legislatore, nell'ambito della propria discrezionalità, l'individuazione del relativo requisito reddituale e che, comunque, la percezione di rendite o prestazioni economiche previdenziali ed assistenziali rappresenta un elemento valido a differenziare, non irragionevolmente, chi ne beneficia rispetto a chi non può giovarsene e, quindi, a parità di altre condizioni, risulta maggiormente meritevole dell'intervento assistenziale. Questi stessi argomenti, validi anche per l'assegno sociale, inducono a ritenere la p resente questione - secondo l'INPS - inammissibile o infondata, in considerazione del fatto che le censure della Corte di appello remittente, sia pure formulate in modo originale e suggestivo, non prospettano argomenti nuovi rispetto a quelli già esaminati. 3.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che, ugualmente, ha chiesto la dichiarazione di inammissibilità e/o di non fondatezza della questione. L'interveniente sostiene, anzitutto, che la questione è stata formulata in termini generici, in quanto il remittente non ha specificato se ha inteso invocare il primo o il secondo comma dell'art. 38 Cost. e le due suddette norme costituzionali sono «totalmente diverse e autonome tra loro». Comunque, anche qualora il riferimento si intendesse effettuato al secondo comma dell'art. 38 Cost., la questione dovrebbe essere dichiarata infondata sulla base della giurisprudenza di questa Corte che ha esaminato la normativa secondo la quale la pensione di guerra é da computare ai fini della pensione sociale. Anche i profili di censura riferiti al principio di uguaglianza sarebbero da considerare privi di fondamento, data la diversità delle situazioni poste a confronto. Né, infine, si dovrebbe omettere di considerare che la disposizione di cui si discute è contenuta nella legge n. 335 del 1995 di riforma del sistema pensionistico la quale, come sottolineato anche dalla giurisprudenza costituzionale, si caratterizza, innanzitutto, per i dichiarati obiettivi di contenimento della spesa previdenziale. Considerato in diritto 1.- La Corte è a chiamata scrutinare, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare). Secondo la Corte di appello di Torino - davanti alla quale pende un giudizio per l'accertamento del diritto all'assegno sociale di una ultrasessantacinquenne la cui domanda in primo grado è stata rigettata per difetto del requisito reddituale in quanto, computando la rendita INAIL percepita dal marito della ricorrente, veniva superato il limite di legge - la disposizione impugnata contrasta con i parametri costituzionali evocati per diverse ragioni. Il giudice a quo premette che la disposizione impugnata è suscettibile soltanto dell'interpretazione fornita dal giudice di primo grado, di recente condivisa dalla Corte di cassazione, secondo la quale la rendita INAIL, non essendo compresa nel tassativo elenco dei redditi esclusi dal computo, deve essere considerata nella determinazione del reddito. La rilevanza della questione è motivata dalla circostanza che soltanto quello reddituale è il requisito mancante e ciò è dovuto all'inclusione della rendita INAIL del coniuge della ricorrente. Secondo la Corte remittente la suddetta inclusione comporta che la rendita INAIL, almeno in parte, sia distolta dalla funzione - conforme ai precetti dell'art. 38 Cost. - di compensare lo stato di inabilità al lavoro del soggetto che abbia subito un infortunio sul lavoro o abbia contratto una malattia professionale e, pertanto, contrasta con i suddetti precetti. Inoltre, la disposizione in oggetto viene censurata anche per violazione dell'art. 3 Cost., in ragione della discriminazione che determina ai danni dei fruitori della rendita INAIL con coniuge a carico rispetto ai titolari della suddetta prestazione che non si trovano in tale situazione e, di converso, tra gli aspir anti all'assegno sociale, a seconda che il coniuge sia o meno titolare della prestazione medesima. 2.- La motivazione sulla interpretazione della norma censurata e sulla rilevanza non è implausibile. Si deve, inoltre, osservare, sempre ai fini dell'ammissibilità della questione, che, valutando l'ordinanza nel suo complesso di motivazione e dispositivo, il prospettato dubbio, sia pure formalmente e letteralmente diretto all'intero comma 6 dell'art. 3 della legge n. 335 del 1995, in realtà va circoscritto ad una delle norme da esso desumibili, e, cioè, a quella concernente i requisiti reddituali e, specificamente, la ricomprensione, tra le entrate da computare, anche della rendita INAIL del coniuge dell'interessato. In particolare, nessuna doglianza viene mossa alla regola generale, la quale, ai fini della determinazione del requisito reddituale per l'attribuzione della prestazione assistenziale in argomento, stabilisce che, in caso di soggetto coniugato, è al reddito coniugale che occorre far riferimento. 3.- Individuati, in tal modo, i termini della questione, essa va dichiarata non fondata. E' opportuno premettere che la disposizione attualmente censurata è stata già oggetto di scrutinio alla stregua degli stessi parametri, anche se in riferimento al limite di reddito individuale dei soggetti divenuti invalidi dopo il compimento del sessantacinquesimo anno di età. La questione fu ritenuta non fondata con la sentenza n. 400 del 1999. In quell'occasione la Corte rilevò, anzitutto, che non era pertinente il richiamo alla sentenza n. 88 del 1992 - con la quale era stata dichiarata l'illegittimità costituzionale «dell'art. 26 della legge 30 aprile 1969, n. 153, [.] come modificato dall'art. 3 del decreto-legge 2 marzo 1974, n. 30, convertito nella legge 16 aprile 1974, n. 114 e dall'art. 3 della legge 3 giugno 1975, n. 160, nella parte in cui, nell'indicare il limite di reddito cumulato con quello del coniuge, ostativo al conseguimento della pensione sociale, non prevede un meccanismo differenziato di determinazione per gli ultrasessantacinquenni divenuti invalidi» - in quanto nella fattispecie all'origine del giudizio e della questione di costituzionalità venivano in rilievo c onsiderazioni non attinenti al reddito cumulato, ma altre pertinenti ed ancor valide nel caso in esame. In particolare, si sottolineò che, ad impedire di estendere all'assegno sociale le valutazioni della sentenza n. 88 del 1992, era - più ancora che l'attinenza delle stesse al limite di reddito cumulato - il quadro complessivo della riforma in cui s'inseriva la nuova prestazione assistenziale, prevista dall'ordinamento per coloro che versano in situazione di indigenza. Riforma, operata con la legge n. 335 del 1995 in attuazione dell'art. 38 Cost., caratterizzata, innanzitutto, dai dichiarati obiettivi di contenimento della spesa previdenziale, oggetto di un bilanciamento in parte discrezionalmente effettuato dal legislatore del 1995 e in parte demandato a provvedimenti delegati (si veda il punto 5 del Considerato in diritto). A siffatte considerazioni si può aggiungere che le argomentazioni dell'attuale remittente si fondano sull'implicito presupposto per cui la rendita INAIL non può che essere integralmente destinata ai bisogni personali dell'inabile e, più in particolare, a quelli che l'inabilità provoca, e che tale specifica destinazione è oggetto di garanzia costituzionale. Ma tale assunto non può essere condiviso. La rendita INAIL trova il proprio fondamento in particolari fattispecie e nei bisogni da queste sorti per l'inabilità al lavoro derivatane (si veda, per tutte, la sentenza n. 297 del 1999); in seguito, però, come le altre prestazioni previdenziali, può avere la destinazione che il titolare vuole o deve darle, anche in adempimento di doveri familiari, a seconda della concreta situazione che, in presenza di una condizione di non inabilità, sarebbero soddisfatti con i corrispettivi dell'attività lavorativa. Del resto, in più occasioni questa Corte ha affermato che il legislatore - sul presupposto che «a determinati e comuni bisogni di vita possa essere data soddisfazione con le risorse del coniuge, nel contesto della solidarietà familiare» - può, nel prevedere interventi di tipo previdenziale o assistenziale, far riferimento ai redditi del coniuge dell'interessato, purché l'importo dei redditi cumulati preso in considerazione ai fini dell'esclusione sia adeguatamente superiore a quello dei redditi propri del soggetto (sentenze n. 127 del 1997 e n. 395 del 1999, nonché ordinanza n. 204 del 1998). E ciò accade nel caso di specie, visto che l'art. 3, comma 6, di cui si discute, stabilisce che «se il soggetto possiede redditi propri l'assegno è attribuito in misura ridotta fino alla concorrenza» dell'importo stabi lito, se il soggetto non è coniugato, «ovvero fino al doppio del predetto importo», nel caso di soggetto coniugato. Va, inoltre, ribadito che compete al legislatore, nell'ambito della propria discrezionalità, determinare i requisiti reddituali che condizionano l'erogazione della prestazioni economiche assistenziali e previdenziali e che, soprattutto sul versante delle misure assistenziali, è auspicabile «il miglioramento e la razionalizzazione del sistema, al fine di rendere più efficace la tutela dei diritti di cui all'art. 38 Cost.» (ordinanza n. 98 del 2002). LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 6, della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 38 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Torino, sezione lavoro, con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 27 giugno 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, del regio decreto legge 19 gennaio 1939, n. 295 (Ricupero dei crediti verso impiegati e pensionati, e prescrizione biennale di stipendi, pensioni ed altri emolumenti) - convertito nella legge 2 giugno 1939, n. 739 -, nel testo sostituito dall'art. 2, quarto comma, della legge 7 agosto 1985, n. 428 (Semplificazione e snellimento delle procedure in materia di stipendi, pensioni ed altri assegni; riorganizzazione delle direzioni provinciali del tesoro e istituzione della Direzione generale dei servizi periferici del tesoro; adeguamento degli organici del personale dell'amministrazione centrale e del Ministero del tesoro e del personale amministrativo della Corte dei conti), promosso con ordinanza del 28 marzo 2007 dalla Corte dei conti, Sezione terza centrale d'appell o sul ricorso proposto da Ghezzi Armando contro il Ministero dell'Economia e delle Finanze, iscritta al n. 652 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 38, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti l'atto di costituzione di Ghezzi Armando nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 20 maggio 2008 il Giudice relatore Paolo Maddalena; uditi l'avvocato Dario Alessandro Ricciardi per Ghezzi Armando e l'avvocato dello Stato Giuseppe Nucaro per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. ¾ Con ordinanza del 28 marzo 2007, la Corte dei conti, Sezione terza centrale d'appello, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, del regio decreto legge 19 gennaio 1939, n. 295 (Ricupero dei crediti verso impiegati e pensionati, e prescrizione biennale di stipendi, pe nsioni ed altri emolumenti) - convertito nella legge 2 giugno 1939, n. 739 -, nel testo sostituito dall'art. 2, quarto comma, della legge 7 agosto 1985, n. 428 (Semplificazione e snellimento delle procedure in materia di stipendi, pensioni ed altri assegni; riorganizzazione delle direzioni provinciali del tesoro e istituzione della Direzione generale dei servizi periferici del tesoro; adeguamento degli organici del personale dell'amministrazione centrale e del Ministero del tesoro e del personale amministrativo della Corte dei conti), «nella parte in cui assoggetta a prescrizione quinquennale non solo i ratei di pensione liquidi ed esigibili ma anche i ratei di pensione non ancora liquidi ed esigibili e, quindi, non ancora ammessi a pagamento». Nel giudizio a quo si controverte sull'appello proposto da un pensionato avverso la sentenza del Giudice unico presso la sezione giurisdizionale per la Regione Campania n. 1703 del 6 dicembre 2004, la quale, «pur affermando e riconoscendo in capo al ricorrente il diritto alla 13ª mensilità e alla indennità integrativa speciale riscossa in costanza del rapporto di servizio prestato (dal 3 luglio 1967 al 28 agosto 1998) alle dipendenze di un datore di lavoro privato, ha però dichiarato prescritti i ratei aventi scadenza anteriore ai cinque anni computati a ritroso dell'atto interrut tivo della prescrizione». Il rimettente osserva, in punto di rilevanza della questione, che, «ove la norma denunciata fosse dichiarata incostituzionale, i ratei di pensione non ancora liquidi ed esigibili sfuggirebbero alla prescrizione quinquennale e resterebbero assoggettati alla prescrizione ordinaria decennale», con conseguente necessità di accogliere l'appello in tutto (se il termine prescrizionale «dovesse essere collocato, come vorrebbe l'appellante, alla data di pubblicazione delle sentenze della Corte costituzionale nn. 204 e 232 del 1992») o in parte («con una dichiarazione di prescrizione limitata ai ratei aventi scadenza anteriore al decennio, invece che al quinquennio, computato a ritroso dell'atto interruttivo della prescrizione posto in essere dall'interessato il 10 ottobre 2001, ove l' exordium praescriptionis dovesse essere collocato, come ritenuto dal giudice di primo grado, alla data di scadenza dei singoli ratei»). Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo rileva, anzitutto, «nell'ottica di una necessaria comparazione tra le normative dei vari settori previdenziali regolanti la stessa materia», che, in riferimento alle rate delle pensioni già a carico dalle Casse amministrate dai soppressi Istituti di previdenza presso il Ministero del tesoro e «oggi erogate anch'esse dall'I.N.P.D.A.P», la prescrizione breve «si applica soltanto per le rate già ammesse a pagamento», secondo quanto stabilito dall'art. 61 del regio decreto-legge 3 marzo 1938, n. 680 (Ordinamento della Cassa di previdenza per le pensioni agli impiegati degli enti locali), convertito nella legge 9 gennaio 1941, n. 41, dall'art. 55 della legge 6 luglio 1939 , n. 1035 (Approvazione dell'ordinamento della Cassa di previdenza per le pensioni dei sanitari), dall'art. 64 della legge 6 febbraio 1941, n. 176 (Ordinamento del Monte-pensioni per gli insegnanti elementari), e dall'art. 53 del regio decreto 12 luglio 1934, n. 2312 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative sull'ordinamento della Cassa di previdenza per le pensioni degli ufficiali giudiziari), e ciò «in virtù della norma di interpretazione autentica» di cui all'art. 23 della legge 4 febbraio 1958, n. 87 (Riforma del trattamento di quiescenza della Cassa per le pensioni ai sanitari e modifiche agli ordinamenti degli Istituti di previdenza presso il Ministero del tesoro). Analogamente, l'art. 129 del regio decreto-legge 4 ottobre 1935, n. 1827 (Perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale), convertito, con modificazioni, nella legge 6 aprile 1936, n. 1155, concernente i ratei delle pensioni erogate dall'I.N.P.S., prevede la prescrizione quinq uennale solo per i ratei già liquidati e posti in pagamento. A tal riguardo, argomenta ancora la Corte rimettente, «vi é stato, invero, con la norma anch'essa di interpretazione autentica» di cui all'art. 11 della legge 11 marzo 1988, n. 67 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 1988), «il tentativo di estendere il termine di prescrizione breve anche alle "rate di pensione comunque non poste in pagamento"», là dove però la Corte costituzionale, con la sentenza n. 283 del 1989, ne ha dichiarato l'incostituzionalità per contrasto con gli articoli 3 e 38 della Costituzione, rilevando la irrazionalità dell'intervento normativo dopo un cinquantennio di «incontroversa applicazione della norma circoscritta alle somme già in riscossione». Il giudice a quo sostiene, quindi, che anche il censurato primo comma dell'art. 2 del r.d.l. n. 295 del 1939, riguardante «le rate di stipendio e di assegni equivalenti» e «le rate di pensione e gli assegni [.] dovuti dallo Stato» siccome indicati nel decreto legge luogotenenziale 2 agosto 1917, n. 1278 (che comprende tra gli assegni personali soggetti a prescrizione biennale alcune indennità per il Regio esercito e la Regia marina ed in genere tutti gli assegni fissi), sarebbe stato «inizialmente interpretato, in prevalenza, nel senso che la prescrizione quinquennale trovasse applicazione esclusivamente nell'ipotesi di crediti liquidi ed esigibili», laddove, nel caso di crediti illiquidi o non agevolmente liquidabili o contestati da ll'amministrazione, «si riteneva ricorressero, [.] infatti, gli estremi per l'applicazione dell'ordinaria prescrizione decennale di cui all'art. 2946 c.c.». A séguito però dell'art. 2, quarto comma, della legge n. 428 del 1985, il quale «ha esteso la prescrizione anche alle rate e differenze arretrate», la giurisprudenza (del Consiglio di Stato, della Corte dei conti e, infine, anche della Corte di cassazione) «si é stabilizzata, [.] infatti, sull'orientamento che la prescrizione quinquennale si applica anche ai ratei di stipendio [.] e ai ratei di pensione [.] non ancora liquidi ed esigibili», sicché «appare difficilmente praticabile, in fattispecie, una diversa opzione interpretativa». Secondo la rimettente, anche il denunciato primo comma dell'art. 2 del r.d.l. n. 295 del 1939, nel testo sostituito dall'art. 2, quarto comma, della legge n. 428 del 1985, al pari dell'art. 11 della legge n. 67 del 1988, dichiarato incostituzionale dalla sentenza n. 283 del 1989, avrebbe «reso omogenee, identicamente disciplinandole, posizioni soggettive difformi e cioè i crediti pensionistici esigibili e liquidi da una parte e i crediti pensionistici illiquidi ed inesigibili dall'altra», e ciò «ancora una volta in stretta connessione (almeno sotto il profilo cronologico: cfr. Cass. civ., sez. lavoro, 22 maggio 1999, n. 5003; Cons. Stato, sez. IV, 12 marzo 2001, n. 1411) all'entrata in vigore di una norma di gran lunga successiva (anche se non di interpretazione autentica)». Di qui, appunto, l'ipotizzato vulnus all'art. 3 Cost., «con ovvi riflessi [.] sulle garanzie introdotte dal successivo art. 38, essendo evidenti, nei confronti dei soggetti interessati, il venir meno delle connotazioni di adeguatezza alle esigenze di vita, ivi tutelate». 2. ¾ Si è costituito in giudizio l'appellante del procedimento principale chiedendo una declaratoria di incostituzionalità del denunciato art. 2, primo comma, del r.d.l. n. 295 del 1939, nel testo sostituito dall'art. 2, quarto comma, della legge n. 428 del 1985, ovvero, in subordine, di manifesta infondatezza della sollevata questione «sussistendo tutti gli spa zi per un'interpretazione conforme a Costituzione della norma censurata». La difesa della parte privata, dopo aver rammentato i passaggi salienti della vicenda che ha dato origine all'incidente di costituzionalità, aderisce alle argomentazione sviluppate dalla rimettente in punto di incostituzionalità della suddetta disciplina, richiamando anch'essa la portata della citata sentenza n. 283 del 1989, che afferma essere relativa ad ipotesi di «palese sovrapponibilità» con quella attualmente oggetto di scrutinio. In subordine, la parte costituita sostiene che la rimettente non avrebbe «sperimentato la possibilità di un'interpretazione della norma conforme a Costituzione», con conseguente inammissibilità manifesta della proposta questione, che sarebbe volta, piuttosto, ad «ottenere un avallo a favore di una diversa interpretazione della norma rispetto a quella seguita dal prevalente indirizzo giurisprudenziale». Peraltro, nella memoria si assume che, nella specifica materia, non sussisterebbe un "diritto vivente", essendosi formato anche un orientamento giurisprudenziale, conforme alla stessa ratio ispiratrice della norma denunciata, secondo cui questa «si riferisce espressamente alla prescrizione dei ratei già posti in liquidazione», così «gi ungendo a negare la decorrenza stessa della prescrizione almeno fino a quando il credito non sia stato messo nella concreta disponibilità del percipiente». 3. ¾ E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per l'inammissibilità o, comunque, per l'infondatezza della questione. Secondo la difesa erariale, la norma censurata, sia nell'originaria che nella vigente formulazione, non farebbe «alcuna differenza tra ratei liquidi ed esigibili e ratei che non lo sono, dovendosi far risalire questa distinzione all'elaborazione giurisprudenziale in merito»; sicché, più che un dubbio di legittimità costituzionale, la rimettente, prospettando il dubbio di costituzionalità per la «presenza di un indirizzo giurisprudenziale che non si ritiene conforme a Costituzione», cercherebbe di ottenere un «improprio [.] avallo a favore di una determinata interpretazione della norma censurata», con conseguente manifesta inammissibilità della proposta questione. Nel merito, l'Avvocatura generale dello Stato, nel rammentare quanto affermato dalla Corte costituzionale con l'ordinanza n. 166 del 2006, sostiene che la questione sarebbe infondata, avendo il legislatore, in materia di fissazione del termine prescrizionale, ampi margini di discrezionalità che, nella specie, non sarebbero stati esercitati irragionevolmente, non avendo neppure la rimettente censurato la disposizione oggetto di scrutinio sotto il profilo della congruità del termine di prescrizione dalla medesima fissato. 4. ¾ La parte privata costituita e l'intervenuto Presidente del Consiglio dei ministri hanno depositato, in prossimità dell'udienza, memorie illustrative, con le quali ribadiscono le conclusioni rispettivamente formulate in precedenza. 4.1. ¾ La parte privata - oltre a sostenere nuovamente la manifesta inammissibilità della questione per essere la stessa prospettata al solo fine di ottenere un autorevole avallo interpretativo - insiste, in particolare, sulla "manifesta iniquità" della norma denunciata, che, con «effetti assolutamente ingiusti e paradossali», disciplinerebbe in modo uguale situ azioni tra loro distinte e cioè quella di un credito liquido ed esigibile e quella di un diritto che «ha potuto essere reclamato solo dopo espresso e specifico intervento» della Corte costituzionale. Peraltro, in siffatta ipotesi, sussisterebbe un contrato anche con la regola generale, desumibile dall'art. 2935 del codice civile, per cui «il termine di prescrizione non può decorrere nel caso di impedimento legale all'esercizio del diritto». 4.2. ¾ La difesa erariale evidenzia, in particolare, che il diritto all'indennità integrativa speciale, come quello alla tredicesima mensilità, non nascerebbe da un provvedimento formale della amministrazione competente, bensì direttamente dalla legge, «ed è proprio per questa ragione che il dies a quo di decorrenza della relativa prescrizione non è ancorato all a comunicazione di alcun apposito provvedimento, salvo quello pensionistico a norma dell'art. 143, ultimo comma, del d.P.R. n. 1092/1973», sicché «il mancato pagamento della stessa determina l'immediata azionabilità del diritto che si pretende leso». Nella memoria si argomenta, infine, sull'incidenza della declaratoria di incostituzionalità di una norma rispetto alla decorrenza della prescrizione del diritto dalla medesima norma riconosciuto. Considerato in diritto 1. ¾ La Corte dei conti, Sezione terza centrale d'appello, dubita della legittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, del regio decreto-legge 19 gennaio 1939, n. 295 (Ricupero dei crediti verso impiegati e pensionati, e prescrizione biennale di stipendi, pensioni ed altri emolumenti) - convertito nella legge 2 giugno 1939, n. 739 -, nel testo sostituito d all'art. 2, quarto comma, della legge 7 agosto 1985, n. 428 (Semplificazione e snellimento delle procedure in materia di stipendi, pensioni ed altri assegni; riorganizzazione delle direzioni provinciali del tesoro e istituzione della Direzione generale dei servizi periferici del tesoro; adeguamento degli organici del personale dell'amministrazione centrale e del Ministero del tesoro e del personale amministrativo della Corte dei conti), «nella parte in cui assoggetta a prescrizione quinquennale non solo i ratei di pensione liquidi ed esigibili ma anche i ratei di pensione non ancora liquidi ed esigibili e, quindi, non ancora ammessi a pagamento». Ad avviso della rimettente, la disposizione denunciata violerebbe gli artt. 3 e 38 Cost., in quanto avrebbe «reso omogenee, identicamente disciplinandole, posizioni soggettive difformi e cioè i crediti pensionistici esigibili e liquidi da una parte e i crediti pensionistici illiquidi ed inesigibili dall'altra», e ciò «ancora una volta in stretta connessione [.] all'entrata in vigore di una norma di gran lunga successiva (anche se non di interpretazione autentica)», comportando «ovvi riflessi [.] sulle garanzie introdotte dal successivo art. 38, essendo evidenti, nei confronti dei soggetti interessati, il venir meno delle connotazioni di adeguatezza alle esigenze di vita, ivi tutelate». 2. ¾ E' opportuno rammentare, ancor prima di esaminare le censure mosse dal giudice a quo alla norma sospettata di incostituzionalità, che, ad eccezione delle pensioni di guerra, in ragione della loro specifica natura (risarcitoria e non previdenziale), il diritto a pensione dei pubblici dipendenti è imprescrittibile e, quindi, può essere fatto valere in ogni tempo (art. 5 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092, recante «Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato»). Sono soggetti, invece, a prescrizione quinquennale i ratei di pensione e le differenze arretrate degli emolumenti pensionistici dovuti dallo Stato, e ciò in base al denunciato art. 2, primo comma, del r.d.l. 19 gennaio 1939, n. 295, come sostituito dall'art. 2, quarto comma, della legge n. 428 del 1985. La norma citata, infatti, così dispone: «Le rate di stipendio e di assegni equivalenti, le rate di pensione e gli assegni indicati nel decreto-legge luogotenenziale 2 agosto 1917, n. 1278, dovuti dallo Stato, si prescrivono con il decorso di cinque anni». Inoltre, la stessa norma, al secondo comma, precisa che: «Il termine di prescrizione quinquennale si applica anche alle rate e differenze arretrate degli emolumenti indicati nel comma precedente spettanti ai destinatari o loro aventi causa e decorre dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere». Seguono poi altri tre commi, di originaria formulazione e non fatti oggetto di alcun intervento di modifica, i quali dispongono rispettivamente: «Le indennità una volta tanto che tengono luogo di pensione e le indennità di licenziamento si prescrivono col decorso di 10 anni [terzo comma]. La prescrizione decorre dal giorno della scadenza della rata o assegno dovuti quando il diritto alla rata od assegno sorga direttamente da disposizioni di legge o di regolamento, anche se la Amministrazione debba provvedere di ufficio alla liquidazione e al pagamento. Nel caso invece che il diritto sorga in seguito e per effetto di un provvedimento amministrativo di nomina, di promozione e simili o comunque dopo una valutazione discrezionale dell'Amministrazione, la prescrizione decorre dal giorno in cui il provvedimento sia portato, a norma delle disposizioni in vigore, a conoscenza dell'interessato [quarto comma]. La prescrizione è interrotta soltanto da istanza o ricorso in via amministrativa o contenziosa o da atto giudiziale valevole a costituire in mora [quinto comma].». Quanto al momento di decorrenza della prescrizione occorre fare riferimento anche all'art. 143, ultimo comma, del d.P.R. 1092 del 1973, il quale stabilisce che, in ogni caso, il termine prescrizionale non decorre prima del giorno in cui il provvedimento di liquidazione della pensione sia portato a conoscenza dell'interessato. 3. ¾ L'orientamento consolidato della giurisprudenza pensionistica della Corte dei conti sulla portata della norma censurata è quello per cui la prescrizione quinquennale si applica a tutti i tipi di pensione riguardanti i dipendenti statali e riguarda non solo i ratei, ma anche gli accessori degli stessi, nonché l'attribuzione dell'indennità integrat iva speciale e della tredicesima mensilità. Non rileva, dunque, la distinzione, posta dall'art. 129 del r.d.l. 4 ottobre 1935, n. 1827 (Perfezionamento e coordinamento legislativo della previdenza sociale), circa la prescrizione delle sole rate non riscosse e cioè delle somme già poste in riscossione, giacché in forza dell'art. 2 censurato, secondo l'interpretazione assolutamente prevalente, la prescrizione dispiega i suoi effetti su tutte le fasi del procedimento di liquidazione ed attiene perciò anche al mancato pagamento delle rate, pur restando fermo che essa inizialmente decorre dalla data di conoscenza del provvedimento di liquidazione della pensione (e non già, quindi, dalla data di messa in pagamento delle rate o degli arretrati). Ed è consolidato anche l'orientamento secondo cui la prescrizione quinquennale dei ratei pensionistici (relativi anche all'indennità integrativa speciale ed alla tredicesima mensilità) decorre dalla data di scadenza di ciascuna rata (e cioè dalla da ta di inadempimento della prestazione) anche nel caso in cui la mancata prestazione trovi fondamento in una disposizione di legge successivamente dichiarata incostituzionale. Le posizioni innanzi evidenziate trovano supporto, altresì, nella giurisprudenza del Consiglio di Stato e della Corte cassazione, sebbene in questi casi si sia affrontato piuttosto il tema della prescrizione degli stipendi dei dipendenti statali, la cui disciplina, tuttavia, è la stessa di quella delle pensioni, in base proprio alla norma denunciata. Con ciò, è di tutta evidenza che non può trovare accoglimento l'eccezione di inammissibilità della questione, sollevata sia dalla parte privata che dalla difesa erariale, per il presunto avallo interpretativo che il rimettente cercherebbe attraverso la prospettazione del dubbio di costituzionalità, in asserita assenza di un "diritto vivente". 4. ¾ Nel merito, la questione non è fondata. La ingiustificata disparità di trattamento prospettata dal rimettente, in correlazione con il dedotto vulnus alla garanzia prevista dall'art. 38 Cost., come derivante dalla norma censurata, non trova conforto, anzitutto, nella comparazione con le disposizioni sul termine prescrizionale delle rate di pensioni già a carico dalle Casse amministrate dai soppressi Istituti di previdenza presso il Ministero del tesoro (tra queste, l'art. 61 del r.d.l. 3 marzo 1938, n. 680, recante «Ordinamento della Cassa di previdenza per le pensioni agli impiegati degli enti locali»; l'art. 55 della legge 6 luglio 1939, n. 1035, recante «Approvazione dell'ordinamento della Cassa di previdenza per le pensioni dei sanitari»; art. 64 della legge 6 febbraio 1941, n. 176, recante «Ordinamento del monte-pensioni per gli insegnanti elementari»; l'art. 53 del r.d. 12 luglio 1934, n. 2312, recante «Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative sull'ordinamento della Cassa di previdenza per le pensioni degli ufficiali giudiziari») ed attualmente erogate dall'I.N.P.D.A.P, giacché, sebbene per esse la prescrizione breve «si applica soltanto per le rate già ammesse a pagamento», secondo quanto previsto dalla norma di interpretazione autentica di cui all'art. 23 della legge 4 febbraio 1958, n. 87 (Riforma del trattamento di quiescenza della cassa per le pensioni ai sanitari e modifiche agli ordinamenti degli Istituti di previdenza presso il Ministero del tesoro), tuttavia il termine di prescrizione ivi contemplato è di 2 anni. Si tratta, dunque, di un termine differente da quello quinquennale stabilito dalla norma denunciata, così da rendere disomogenee le situazioni poste a raffronto. Peraltro, non può considerarsi un omogeneo termine di paragone la disciplina della prescrizione delle pensioni erogate dall'INPS, perché si tratta di regimi previdenziali diversi ed in particolare il regime pensionistico dei dipendenti statali prevede regole proprie in riferimento non solo alla liquidazione della pensione, ma anche alla stessa decorrenza della prescrizione della pensione, la quale, in ogni caso, non opera mai prima del giorno in cui il relativo provvedimento di liquidazione sia portato a conoscenza dell'interessato (art. 143 del d.P.R. 1092 del 1973). Non può, dunque, il raffronto tra regimi previdenziali diversi valere, di per sé, a dimostrare la lesione del principio di eguaglianza, soprattutto se la prospettazione medesima si limiti ad evidenziare isolati elementi di disparità di trattamento e non operi una globale comparazione tra i regimi previdenziali stessi (ex plurimis, sentenza n. 345 del 1999; ordinanza n. 133 del 2001). Né risulta decisivo l'argomento che il rimettente vorrebbe trarre dalla dichiarata incostituzionalità dell'art. 11 della legge 11 marzo 1988, n. 67 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 1988), che aveva interpretato l'art. 129, primo comma, r.d.l. n. 1827 del 1935, in forza del quale le rate di pensione dovute dall'INPS e non riscosse entro cinque anni dalla loro scadenza sono prescritte, «nel senso che la prescrizione prevista si applica anche alle rate di pensione comunque non poste in pagamento». In quell'occasione la sentenza n. 283 del 1989 ebbe ad affermare che l'intervento legislativo, affetto da «concreta irrazionalità», era stato «disposto peraltro a distanza d'oltre un cinquantennio da una incontroversa applicazione della norma circoscritta alle somme già in riscossione». Nel caso attualmente oggetto di scrutinio, la legge n. 428 del 1985, che ha introdotto la prescrizione quinquennale a séguito dell'intervento innanzi ricordato della sent. n. 50 del 1981, non è di interpretazione autentica (con effetti retroattivi), bensì di espressa modificazione della disciplina previgente con effetti dalla sua entrata in vigore. Pertanto, è su tale modificazione legislativa che si è venuto a consolidare un orientamento giurisprudenziale coeso, nei termini innanzi evidenziati, il quale ha, da sempre, accomunato, nei sensi sopra ricordati, le ipotesi di crediti pensionistici (o anche stipendiali) da riscuotere, con quelle di crediti non posti ancora in riscossione. Del resto, va ribadito che, in materia di fissazione del termine di prescrizione dei singoli diritti, il legislatore gode di ampia discrezionalità, con l'unico limite dell'eventuale irragionevolezza, qualora «esso venga determinato in modo da non rendere effettiva la possibilità di esercizio del diritto cui si riferisce, e di conseguenza inoperante la tutela voluta accordare al cittadino leso» (ex plurimis, ordinanze n. 16 del 2006 e n. 153 del 2000); limite che non risulta violato dalla norma di cui al denunciato art. 2, in quanto essa prevede un termine prescrizionale di 5 anni, che non può reputarsi incongruo rispetto ai suddetti fini. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, primo comma, del regio decreto-legge 19 gennaio 1939, n. 295 (Ricupero dei crediti verso impiegati e pensionati, e prescrizione biennale di stipendi, pensioni ed altri emolumenti) - convertito nella legge 2 giugno 1939, n. 739 - nel testo sostituito dall'art. 2, quarto comma, della legge 7 agosto 1985, n. 428 (Semplificazione e snellimento delle procedure in materia di stipendi, pensioni ed altri assegni; riorganizzazione delle direzioni provinciali d el tesoro e istituzione della Direzione generale dei servizi periferici del tesoro; adeguamento degli organici del personale dell'amministrazione centrale e del Ministero del tesoro e del personale amministrativo della Corte dei conti), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 38 della Costituzione, dalla Corte dei conti, Sezione terza centrale d'appello, con l'ordinanza in epigrafe indicata. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta il 23 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Paolo MADDALENA, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 27 giugno 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio per conflitto di attribuzione tra enti sorto a seguito del decreto del Questore della Provincia autonoma di Bolzano del 28 settembre 2007 n. 11-A/A.S./2007, recante sospensione per cinque giorni della licenza di esercizio n. 1.4/73.09684/07BA/f, rilasciata in data 12 aprile 2007 dalla Provincia autonoma di Bolzano alla sig.ra Ida Rosa Karlegger, legale rappresentante della "Riva GmbH/Srl", promosso con ricorso della Provincia autonoma di Bolzano notificato il 27 novembre 2007, depositato in cancelleria il 14 dicembre 2007 ed iscritto al n. 9 del registro conflitti tra enti 2007. Udito nell'udienza pubblica del 20 maggio 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro; uditi gli avvocati Giuseppe Franco Ferrari e Roland Riz per la Provincia autonoma di Bolzano. Ritenuto in fatto 1. - Con ricorso notificato il 27 novembre 2007 e depositato il 14 dicembre 2007, la Provincia autonoma di Bolzano ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato, in relazione al decreto del Questore di detta Provincia del 28 settembre 2007, n. 11-A/A.S./2007, che ha disposto la sospensione per cinque giorni, con effetto immediato a decorrere dalla data di notificazione del decreto medesimo, della licenza di esercizio n. 1.4/73.09684/07BA/f, avente ad oggetto la gestione di una sala da ballo. 2. - La ricorrente, nell'atto introduttivo e nella memoria depositata in prossimità dell'udienza pubblica, deduce che l'atto impugnato sarebbe stato adottato allo scopo di intervenire tempestivamente, in via cautelare, per evitare il verificarsi di situazioni atte a turbare l'ordine pubblico e la sicurezza, e richiama «nelle proprie premesse una serie di vicende avvenute in prossimità o all'interno dei locali della sala da ballo, che hanno reso necessario l'intervento della Polizia di Stato nei mesi precedenti l'adozione del decreto medesimo, per tentare di costruire un quadro fattuale idoneo a giustificare l'intervento del Questore». A suo avviso, il decreto violerebbe gli articoli 9, numero 7, 16 e 20 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), l'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 1° novembre 1973, n. 686 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige concernente esercizi pubblici e spettacoli pubblici), l'articolo 3, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 19 novembre 1987, n. 526 (Estensione alla regione Trentino-Alto Adige ed alle province autonome di Trento e Bolzano delle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616), anche in riferimento all'art. 59 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 14 dicembre 1988, n. 58 (Norme in materia di esercizi pubblici). L'atto realizzerebbe una illegittima invasione delle competenze provinciali in materia di «esercizi pubblici», in quanto l'art. 9, numero 7, dello statuto speciale attribuisce alla competenza legislativa di tipo concorrente della Provincia la materia degli esercizi pubblici, ad eccezione dei «poteri di vigilanza dello Stato ai fini della pubblica sicurezza», riservando al Ministero dell'interno il potere di «annullare d'ufficio, ai sensi della legislazione vigente, i provvedimenti adottati nella materia, anche se definitivi». L'art. 16 dello statuto speciale stabilisce poi che «nelle materie e nei limiti entro cui la regione o la provincia può emanare norme legislative, le relative potestà amministrative, che in base all'ordinamento preesistente erano attribuite allo Stato, sono esercitate rispettivamente d alla regione e dalla provincia». Ad avviso della ricorrente, nella materia «esercizi pubblici» l'art. 20 dello statuto speciale conferisce al Presidente della Provincia poteri di pubblica sicurezza, disponendo che questi esercita «le attribuzioni spettanti all'autorità di pubblica sicurezza, previste dalle leggi vigenti, in materia [...] di esercizi pubblici» (primo comma) e che, ai fini dell'esercizio di siffatte attribuzioni, si avvale degli organi di polizia statale, ovvero della polizia locale, urbana e rurale (secondo comma). I poteri di pubblica sicurezza spettanti agli organi statali sarebbero limitati e di natura residuale: l'art. 20, terzo comma, dello statuto di autonomia conferisce al questore le «altre attribuzioni» (concernenti materie diverse da quelle elencate nel primo comma dello stesso articolo) che le leggi di pubblica sicurezza demandano al prefetto, come risulterebbe confermato dall'art. 4 del d.P.R. n. 686 del 1973. Questa norma, nella lettera b), per quanto riguarda le attribuzioni dell'autorità locale di pubblica sicurezza, attribuisce, infatti, ai questori, nelle Province di Trento e Bolzano, le sole materie non di competenza di detti enti, diverse da quelle indicate nel primo comma del citato art. 20 dello statuto. Nella Provincia di Bolzano il riparto di competenze non sussisterebbe soltanto in riferimento alla bipartizione tra funzioni di polizia amministrativa e funzioni di pubblica sicurezza, ma interesserebbe anche quest'ultimo settore, al cui interno occorrerebbe distinguere tra le diverse competenze a questo riconducibili, come risulterebbe dall'art. 3, primo comma, del d.P.R. n. 686 del 1973, secondo il quale «nelle materie di cui all'art. 20, primo comma, dello statuto, i provvedimenti che le leggi attribuiscono all'autorità di pubblica sicurezza sono adottati, nell'ambito del rispettivo territorio, dal presidente della giunta provinciale». La limitazione ed il carattere tassativo delle funzioni riservate allo Stato sarebbero confortati dall'art. 7 del d.P.R. n. 686 del 1973, nella parte in cui stabilisce che i poteri di vigilanza dello Stato di cui al citato art. 9, numero 7, dello statuto speciale vanno intesi in senso stretto, come poteri di accesso nei locali. In definitiva, il Presidente della Provincia autonoma di Bolzano costituirebbe l'Autorità di pubblica sicurezza, titolare del potere di adottare i provvedimenti necessari a garantire l'ordinato svolgersi della vita civile. L'art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 526 del 1987 dispone, infatti, che, «in aggiunta a quanto previsto dal primo comma dell'art. 3 del decreto del Presidente della Repubblica 1° novembre 1973, n. 686, i presidenti delle giunte provinciali esercitano, ai sensi dell'art. 20, primo comma, dello statuto, le funzioni spettanti alle autorità di pubblica sicurezza previste dalle leggi vigenti, in ordine ai provvedimenti» di cui all'art. 19 del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616 (Attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382), che rientrano tra le materie di competenza provinciale di cui al comma 1, quindi, tra le altre, la materia degli esercizi pubblici, latamente intesa nei termini di cui agli artt. 9 e 20 dello statuto speciale. Pertanto, nella specie non risulterebbe applicabile il criterio di risoluzione del conflitto che riposa sulla contrapposizione della nozione di «pubblica sicurezza» a quella di «polizia amministrativa locale», che riguarderebbe soltanto il caso - non concernente la ricorrente - in cui non sia possibile operare una chiara separazione tra i compiti di polizia amministrativa locale e gli interventi di pubblica sicurezza diretti alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell'ordine pubblico. Secondo la ricorrente, l'individuazione del riparto di attribuzione richiederebbe di accertare se gli interessi o i beni oggetto di tutela mediante i poteri di pubblica sicurezza abbiano rilevanza esterna rispetto alla materia «esercizi pubblici» ed attengano in modo diretto e rilevante all'ordine pubblico, o se, invece, rientrino nell'àmbito della materia di competenza provinciale, delimitata non solo alla stregua del citato art. 9, numero 7, ma anche ai sensi dell'art. 20 dello statuto, il quale attribuisce al Presidente della Provincia le attribuzioni spettanti all'autorità di pubblica sicurezza previste dalle leggi vigenti in materia, tra l'altro, di esercizi pubblici. Nella specie, l'atto impugnato sarebbe espressione dell'esercizio di poteri di polizia la cui rilevanza si esaurisce all'interno delle attribuzioni provinciali dirette ad amministrare, in applicazione delle disposizioni statutarie e della normativa vigente, la materia degli «esercizi pubblici», senza toccare quegli interessi ulteriori che è compito dello Stato curare attraverso la preservazione dell'ordine pubblico. Questa conclusione sarebbe confortata dalla considerazione che, in virtù dell'art. 59, comma 1, lettera a), della legge provinciale n. 58 del 1988, nel territorio provinciale, a far data dall'entrata in vigore della medesima legge, non è più applicabile l'art. 100 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), con conseguente illegittimità dell'atto, fondato appunto sul richiamo di detta norma. 3. - Non ha svolto attività difensiva il Presidente del Consiglio dei ministri. Considerato in diritto 1. - La Provincia autonoma di Bolzano ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato, in relazione al decreto del Questore di detta Provincia del 28 settembre 2007, n. 11-A/A.S./2007, che ha disposto la sospensione per cinque giorni, con effetto immediato a decorrere dalla data di notificazione del decreto medesimo, della licenza di esercizio n. 1.4/73.09684/07BA/f, rilasciata dalla ricorrente, avente ad oggetto la gestione di una sala da ballo. Secondo la Provincia, il decreto richiama «nelle proprie premesse una serie di vicende avvenute in prossimità o all'interno dei locali della sala da ballo, che hanno reso necessario l'intervento della Polizia di Stato nei mesi precedenti l'adozione del decreto medesimo, per tentare di costruire un quadro fattuale idoneo a giustificare l'intervento del Questore». A suo avviso, l'atto impugnato violerebbe gli articoli 9, numero 7, 16 e 20 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), l'articolo 3 del decreto del Presidente della Repubblica 1° novembre 1973, n. 686 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige concernente esercizi pubblici e spettacoli pubblici), l'articolo 3, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 19 novembre 1987, n. 526 (Estensione alla regione Trentino-Alto Adige ed alle province autonome di Trento e Bolzano delle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616), nonché l'art. 59 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 14 dicembre 1988, n. 58 (Norme in materia di esercizi pubblici), e, conseguentemente, sarebbe lesivo delle competenze provinciali in materia di «esercizi pubblici», comprensive anche delle attribuzioni inerenti a detta materia e concernenti la pubblica sicurezza. 2. - Il conflitto è inammissibile. 2.1. - La Provincia autonoma di Bolzano, nel ricorso, premette che l'atto impugnato sarebbe stato emanato allo scopo di evitare il verificarsi di situazioni atte a turbare l'ordine pubblico e la sicurezza. La ricorrente espone, quindi, testualmente, che il decreto del Questore, nella premessa, richiama «una serie di vicende avvenute in prossimità o all'interno dei locali della sala da ballo, che hanno reso necessario l'intervento della Polizia di Stato nei mesi precedenti l'adozione del decreto medesimo, per tentare di costruire un quadro fattuale idoneo a giustificare l'intervento del Questore». A suo avviso, l'atto in esame indica, inoltre, quale norma in base alla quale è stato adottato, l'art. 100 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) e, perciò, sarebbe illegittimo, poiché violerebbe l'art. 59, comma 1, lettera a), della legge provinciale n. 58 del 1988, il quale stabilisce che, «a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge, cessano di avere applicazione nel territorio provinciale» una serie di norme, tra le quali anche il citato art. 100. Pertanto, secondo la stessa prospettazione svolta dalla ricorrente, l'atto impugnato sarebbe illegittimo, anzitutto, a causa della erronea identificazione dei presupposti che avrebbero potuto permetterne l'adozione, quindi dell'interesse oggetto di tutela; e, in secondo luogo, in quanto sarebbe stato emanato in violazione di una norma di una legge provinciale. La tesi si sostanzia, in linea preliminare, nella denuncia di una presunta violazione di legge da parte dell'atto impugnato, che ne comporterebbe l'illegittimità e la lesione costituzionale lamentata non sarebbe che il riflesso di tale violazione (sentenza n. 467 del 1997). Il denunciato pregiudizio sarebbe, infatti, riconducibile anzitutto al modo erroneo in cui sarebbe stata applicata la legge. Appunto per questo, però secondo la giurisprudenza di questa Corte, in siffatta ipotesi «non sussiste materia per un conflitto di attribuzione, restando aperta invece all'ente autonomo la strada della ordinaria tutela giurisdizionale al fine di far valere la illegittimità dell'atto impugnato» (tra le più recenti, sentenza n. 380 del 2007). LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibile il conflitto di attribuzione proposto dalla Provincia autonoma di Bolzano nei confronti dello Stato - in relazione al decreto del Questore di detta Provincia del 28 settembre 2007, n. 11-A/A.S./2007, recante la sospensione, per cinque giorni, della licenza di esercizio n. 1.4/73.09684/07BA/f, avente ad oggetto la gestione di una sala da ballo - con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giuseppe TESAURO, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 27 giugno 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 14, commi 5-ter e 5-quinquies, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) - come sostituiti dall'art. 1 della legge 12 novembre 2004, n. 271 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241, recante disposizioni urgenti in materia di immigrazione) -, promossi con ordinanze del 10 aprile 2006 dal Tribunale di Agrigento, sezione distaccata di Canicattì, del 6 maggio e del 5 settembre 2006 dal Tribunale di Agrigento, sezione distaccata di Licata, del 13 luglio (nn. 2 ordinanze) 2007 dal Tribunale di Paola, sezione distaccata di Scalea, rispettivamente iscritte ai nn. 413 e 57 8 del registro ordinanze 2006 e ai nn. 540, 781 e 783 del registro ordinanze 2007, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 42 e 51, prima serie speciale, dell'anno 2006 e nn. 32 e 47, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 21 maggio 2008 il Giudice relatore Gaetano Silvestri. Ritenuto in fatto 1.− Con tre ordinanze di analogo tenore, il Tribunale di Agrigento, sezioni distaccate di Canicattì (r.o. n. 413 del 2006) e di Licata (r.o. n. 578 del 2006 e n. 540 del 2007), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 10, 13, 27 e 136 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 14, commi 5-ter e 5-quinquies, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) - come sostituiti dall'art. 1 della legge 12 novembre 2004, n. 271 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241, recante disposizioni urgenti in materia di immigrazione) -, nella par te in cui, rispettivamente, configurano la fattispecie delittuosa dell'indebito trattenimento del cittadino extracomunitario nel territorio dello Stato (comma 5-ter) e l'arresto obbligatorio del soggetto responsabile di tale delitto (comma 5-quinquies). I rimettenti, chiamati a provvedere in merito alla convalida dell'arresto di cittadini extracomunitari inottemperanti all'ordine di allontanarsi dal territorio nazionale, emesso dal questore ai sensi dell'art. 14, comma 5-bis, del d.lgs. n. 286 del 1998, hanno disposto la scarcerazione degli arrestati con motivazione fondata sulla carenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine alla sussistenza del delitto contestato, e successivamente hanno sospeso i giudizi di convalida. Le censure prospettate concernono in primo luogo l'asserito contrasto della previsione dell'arresto obbligatorio con i principi sanciti dagli artt. 27 e 13 Cost. A parere dei rimettenti, il legislatore ha imposto l'applicazione della "misura eccezionale" di limitazione provvisoria della libertà nei confronti di soggetti i quali «non si trova[no] generalmente nelle condizioni materiali di adempiere spontaneamente l'ordine di espulsione», per mancanza di documenti, mezzi finanziari e capacità di procurarsi un regolare mezzo di trasporto per fare ritorno in patria, e dunque a fronte di situazioni nelle quali l'ottemperanza all'ordine di allontanamento può risultare inesigibile. I giudici a quibus si soffermano su tale aspetto del fenomeno, osservando come, in mancanza del trasferimento del cittadino extracomunitario fuori dal territorio dello Stato ad opera dell'autorità, e stante «l'impossibilità pratica da parte dello straniero di fare utilmente rientro da solo nel suo paese», non potrebbe «oggettivamente pretendersi che questi esegua spontaneamente un provvedimento a lui pregiudizievole». I rimettenti aggiungono l'ulteriore considerazione secondo cui l'ottemperanza all'ordine di espulsione potrebbe esporre il cittadino extracomunitario a conseguenze personali e giuridiche «perfino più gravi di quelle derivanti dalla sua permanenza illegale in Italia», ogni qual volta lo stesso, non potendo raggiungere il Paese d'origine, sia costretto a fare ingresso in altro Stato, con il rischio «certamente inesigibile» di subire ulteriori limitazioni della libertà. In un solo caso (r.o. n. 540 del 2007) è prospettato anche il contrasto della normativa censurata con l'art. 10 Cost., per violazione degli obblighi di tutela delle vittime del traffico internazionale di esseri umani. Le norme censurate, secondo i giudici a quibus, risulterebbero inoltre elusive della pronuncia della Corte costituzionale con la quale è stata dichiarata l'illegittimità costituzionale del previgente art. 14, comma 5-quinquies, del d.lgs. n. 286 del 1998, che stabiliva «identico congegno normativo». Al solo fine di ripristinare l'arresto obbligatorio, infatti, il legislatore avrebbe «surrettiziamente» trasformato la precedente fattispecie contravvenzionale in una previsione delittuosa, il cui rigore sanzionatorio non troverebbe giustificazione nel bilanciamento tra interesse protetto e inviolabilità della libertà personale. I rimettenti segnalano quindi il contrasto della normativa censurata con il principio di uguaglianza, rilevando come tale normativa realizzi «una indebita e arbitraria disparità di trattamento tra la condotta incriminata e altri fatti per i quali, invece, malgrado la loro obiettiva maggiore gravità, l'arresto è reso solamente facoltativo in base ai principi generali dettati dal Codice di procedura penale». Con riferimento alla rilevanza delle questioni, i giudici a quibus ne affermano la sussistenza, in quanto dall'accoglimento delle stesse discenderebbero effetti favorevoli in capo agli indagati. 1.1. - Con atti di identico tenore, in tutti i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso in via principale per la declaratoria di manifesta inammissibilità delle questioni e, in subordine, di non fondatezza. Quanto al profilo preliminare, la difesa erariale evidenzia la carenza di motivazione in ordine alla rilevanza delle questioni, affermata dai rimettenti con il generico riferimento agli «effetti favorevoli che deriverebbero, in capo all'indagato, dall'accoglimento delle questioni». Nel merito, l'Avvocatura generale osserva come la peculiare gravità della condotta del soggetto il quale, espulso dal territorio dello Stato, continui deliberatamente a soggiornarvi, rappresenti una costante della disciplina in materia di immigrazione, essendo stato l'arresto obbligatorio previsto già per l'originaria fattispecie contravvenzionale introdotta dalla legge 30 luglio 2002, n. 189 (Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo). Con la novella recata dalla legge n. 271 del 2004, di conversione del decreto-legge n. 241 del 2004, il legislatore è intervenuto per rimodulare il sistema sanzionatorio, diversificando le possibili condotte offensive e attribuendo natura delittuosa a quelle più gravi. All'esito di tale opera di risistemazione risultano infatti diversamente disciplinate l'ipotesi di ingresso illegale nel territorio dello Stato (equiparata all'omessa richiesta di permesso di soggiorno nel termine prescritto in assenza di cause di forza maggiore, nonché ai casi di revoca o di annullamento del permesso), e quella di espulsione disposta per scadenza del permesso di soggiorno superiore ai sessanta giorni in mancanza di richiesta di rinnovo. Alla prima ipotesi, ictu oculi più grave, il legislatore ha riservato il trattamento più severo, stabilendo la pena della reclusione da uno a quattro anni, mentre ha confermato, per la seconda e meno grave fattispecie, la natura contravvenzionale e la sanzione dell'arresto da sei mesi ad un anno.< /SPAN> Ritiene, pertanto, la difesa erariale che le scelte operate dal legislatore sotto il profilo della dosimetria della pena risultino rispettose del limite della ragionevolezza. Quanto, infine, alla «inesigibilità» dell'ottemperanza all'ordine di espulsione, prospettata dai rimettenti come conseguenza delle difficoltà che il cittadino extracomunitario incontrerebbe nel fare ritorno al Paese d'origine, l'Avvocatura generale si limita ad osservare che l'assunto non è comprensibile, e che, in ogni caso, «proverebbe troppo». 2. - Con due ordinanze di identico tenore (r.o. n. 781 e n. 783 del 2007) il Tribunale di Paola, sezione distaccata di Scalea, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 13 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 14, comma 5-quinquies, del d.lgs. n. 286 del 1998, come sostituito dalla legge n. 271 del 2004, nella parte in cui prevede l'arresto obbligatorio, anziché meramente facoltativo, per il delitto di cui all'art. 14, comma 5-ter, del medesimo decreto. Entrambi i giudizi principali riguardano la convalida dell'arresto di cittadini extracomunitari inottemperanti all'ordine di allontanarsi dal territorio nazionale, emesso dal questore ai sensi dell'art. 14, comma 5-bis, del testo unico in materia di immigrazione. Il giudice a quo riferisce che gli interessati - all'esito degli accertamenti dattiloscopici - risultano privi di precedenti penali e giudiziali, e mai segnalati alla polizia. Il rimettente, che ha sospeso i giudizi prima di pronunciarsi sulla convalida, censura la previsione dell'arresto obbligatorio per il reato di cui all'art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, evidenziando in premessa il carattere doppiamente eccezionale dei casi in cui la privazione della libertà personale avviene non solo al di fuori della riserva di giurisdizione, ma anche precludendo «ogni valutazione in ordine alla opportunità o necessità nel caso concreto di privare l'individuo della libertà personale». In tema di tutela della libertà personale, infatti, l'art. 13 Cost. consente la previsione della misura dell'arresto obbligatorio solo «in casi eccezionali di necessità ed urgenza», tra i quali non sarebbe ann overabile l'ipotesi delittuosa di cui all'art. 14, comma 5-ter, del testo unico in materia di immigrazione. La scelta legislativa di rendere obbligatorio l'arresto in flagranza per una fattispecie, come quella in esame, punita con la reclusione da uno a quattro anni, e che si sostanzia nell'inottemperanza ad un ordine impartito dall'autorità amministrativa, risulterebbe priva di ragionevolezza (sono richiamate le sentenze della Corte costituzionale n. 394 del 1994, n. 409 del 1989, n. 103 del 1982 e n. 26 del 1979), come dimostrerebbe il raffronto con analoghe fattispecie previste dall'ordinamento, alla luce dei criteri generali stabiliti nell'art. 380, commi 1 e 2, del codice di procedura penale, nei quali trovano positiva specificazione i limiti configurati dalla Costituzione ai fini dell'adozione della eccezionale misura privativa della libertà. L'arresto obbligatorio è infatti previsto dall'art. 380, comma 1, cod. proc. pen., per delitti puniti con l'ergastolo o con la reclusione non inferiore nel massimo a venti anni e nel minimo a cinque anni, e, al comma 2 del medesimo art. 380, per reati, tassativamente indicati, le cui pene edittali sono in ogni caso significativamente superiori, nel massimo, a quella prevista per il delitto di cui all'art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998. L'irragionevolezza della scelta legislativa, e la conseguente ingiustificata disparità di trattamento, deriverebbero proprio dall'avere il legislatore accomunato, ai fini della adozione della misura dell'arresto obbligatorio, fattispecie non comparabili sia avuto riguardo al trattamento sanzionatorio, sia sotto il diverso profilo dell'allarme sociale destato. A parere del rimettente, infatti, l'inottemperanza all'ordine del questore di lasciare il territorio nazionale non produce alcuna offesa diretta ad interessi costituzionalmente rilevanti per la collettività (si tratta di un "reato ostacolo"), e, per altro verso, nemmeno si può ritenere che il cittadino extracomunitario sia socialmente pericoloso in ragione dello stato di clandestinità o perché illegalmente presente nel territorio nazionale.< /FONT> Il giudice a quo istituisce quindi un ulteriore raffronto tra il reato in esame e altre fattispecie che, a suo dire, non solo presentano struttura analoga al primo, ma anche risultano direttamente o potenzialmente lesive di interessi collettivi, e per le quali, invece, l'arresto in flagranza è soltanto facoltativo. Il riferimento immediato è al reato di evasione, che si sostanzia nella violazione di un provvedimento emesso dall'autorità giudiziaria, e «non di un semplice provvedimento amministrativo», da parte di un soggetto il quale, per il solo fatto di essere detenuto per altra causa, deve presumersi socialmente pericoloso. Il raffronto prosegue con il richiamo al reato previsto dall'art. 9, comma 2, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione), che punisce l'inosservanza agli obblighi e alle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con la reclusione da uno a cinque anni, e per il quale il comma 3 della stessa disposizione prevede l'arresto soltanto facoltativo. Anche in questa ipotesi, evidenzia il rimettente, come nel reato di evasione, l'inosservanza riguarda un provvedimento dell'autorità giudiziaria e l'agente è soggetto la cui elevata pericolosità sociale è stata già accertata. Allo stesso modo, l'art. 8, comma 1-bis, della legge 13 dicembre 1989, n. 401 (Interventi nel settore del giuoco e delle scommesse clandestini e tutela della correttezza nello svolgimento delle manifestazioni sportive), prevede l'arresto facoltativo dei soggetti già resisi responsabili di fatti di violenza nel corso di manifestazioni sportive, e dunque sicuramente pericolosi. Quanto, infine, al trattamento riservato dal legislatore alle altre ipotesi di violazione o trasgressione di provvedimenti emessi dalla pubblica autorità (amministrativa o giurisdizionale), il rimettente richiama in via esemplificativa le fattispecie previste dagli artt. 388 e 650 del codice penale, nonché dagli artt. 9, comma 1, della legge n. 1423 del 1956 e 51 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio), per sottolineare come, in tali ipotesi, l'arresto non sia previsto, neppure in forma facoltativa. La disamina che precede renderebbe evidente, a parere del giudice a quo, che il legislatore ha trattato allo stesso modo situazioni affatto difformi, violando il principio di uguaglianza che, benché riferito testualmente ai «cittadini», deve ritenersi esteso agli stranieri, in quanto norma diretta alla tutela dei diritti inviolabili dell'uomo (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 104 del 1969). La dedotta lesione del principio sancito dall'art. 13, terzo comma, Cost., è argomentata previo richiamo ai rilievi già svolti, secondo cui il legislatore può stabilire restrizioni provvisorie alla libertà personale, al di fuori dell'intervento dell'autorità giudiziaria, solo «in casi eccezionali di necessità ed urgenza», laddove l'art. 14, comma 5-ter del d.lgs. n. 286 del 1998, che concerne la mancata osservanza dell'ordine di allontanamento disposto dal questore, configurerebbe un reato la cui struttura «non prevede né la lesione né la messa in pericolo diretta e immediata di un bene costituzionalmente protetto». Secondo il rimettente, la ratio della previsione risiederebbe, infatti, «unicamente nella scelta del legislatore di assicurare, mediante la minaccia di sanzioni penali, l'ottemperanza ad un provvedimento amministrativo, e quindi di garantire l'effettività dei meccanismi di espulsione degli stranieri "indesiderati"». Il giudice a quo si sofferma ancora sul profilo soggettivo dell'assenza di una condizione di pericolosità specifica dell'agente, evidenziando ulteriormente come, a fronte di soggetti mai condannati né giudicati per altri reati, non sia possibile formulare un giudizio di pericolosità sociale (sono richiamate le sentenze della Corte costituzionale n. 64 del 1977 e n. 126 del 1972). La permanenza clandestina dello straniero in Italia non costituisce di per sé reato - essendo invece condizione che legittima l'espulsione -, né la formale assenza di un titolo legittimante l'ingresso nel territorio dello Stato può essere considerata in sé indice di specifica pericolosità del soggetto. Il rimettente esamina quindi le conseguenze del censurato automatismo osservando come, in molti casi, gli organi di polizia siano costretti a procedere all'arresto di soggetti che non presentano alcun profilo di pericolosità sociale, e che sono talora perfino inseriti nel contesto locale di riferimento. In questi casi, rileva ancora il rimettente, l'adozione della misura precautelare prescinde dalla sua utilità (non apprezzabile né dalla polizia in fase di esecuzione, né dall'autorità giudiziaria in sede di convalida), senza trovare giustificazione nella gravità oggettiva del fatto ovvero nella pericolosità del soggetto agente. Sarebbe da escludere, infine, secondo il giudice a quo, qualsiasi strumentalità tra l'obbligatorietà dell'arresto e l'esigenza di garantire l'ottemperanza al provvedimento di allontanamento: l'effetto di deterrenza, attraverso il quale il legislatore intende assicurare l'efficacia del procedimento di espulsione, può legittimamente essere rappresentata dalla sanzione penale inflitta dall'autorità giudiziaria all'esito di un giusto processo, non anche da una misura precautelare alla quale la Costituzione e la legislazione penale assegnano altra funzione (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 223 del 2 004). Quanto alla rilevanza della questione, il rimettente evidenzia la maggiore ampiezza del controllo sull'operato della polizia giudiziaria che il giudice della convalida è chiamato ad effettuare nei casi di arresto facoltativo, come affermato costantemente dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui il controllo giudiziale si estende alla valutazione dei presupposti sostanziali della misura limitativa della libertà (gravità del fatto, pericolosità dell'agente), avuto riguardo agli elementi conosciuti o conoscibili al momento del fatto. Pertanto, in caso di accoglimento della questione, sarebbe restituita al giudice della convalida la possibilità di sindacare l'adozione della misura precautelare sotto tutti i profili sopra indicati e, in definitiva, di non convalidare l'arresto in ipotesi di carenza di detti presupposti. Ancora a proposito della rilevanza della questione, il giudice a quo ribadisce l'autonomia del giudizio di convalida rispetto al successivo giudizio direttissimo (obbligatorio nei casi di specie), e richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 54 del 1993, nella quale si è affermato che nel giudizio di convalida «la rilevanza della questione permane, trattandosi di stabilire se la liberazione dell'arrestato debba considerarsi conseguente all'applicazione dell'art. 391, settimo comma, ovvero più radicalmente, alla caducazione con effetto retroattivo della disposizione in base alla quale gli arresti furono eseguiti». 2.1. - Nel giudizio introdotto con l'ordinanza r.o. n. 783 del 2007 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata non fondata. Nell'atto di intervento la difesa erariale ripropone gli argomenti già prospettati negli omologhi atti riguardanti i giudizi introdotti con le ordinanze emesse dal Tribunale di Agrigento, già sintetizzati al paragrafo 1.1. Considerato in diritto 1. − Con tre distinte ordinanze di analogo tenore (r.o. n. 413 e n. 578 del 2006, n. 540 del 2007), il Tribunale di Agrigento, sezioni distaccate di Canicattì e di Licata, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 10, 13, 27 e 136 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 14, commi 5-ter e 5-quinquies, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come sostituiti dall'art. 1 della legge 12 novembre 2004, n. 271 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241, recante disposizioni urgenti in materia di immigrazione), nella parte in cui, rispettivamente, configurano la fattispecie delittuosa dell'indebito trattenimento del cittadino extracomunitario nel territorio dello Stato (comma 5-ter) e l'arresto obbligatorio del soggetto responsabile di tale delitto (comma 5-quinquies). Il Tribunale di Paola, sezione distaccata di Scalea, con le rimanenti ordinanze, di identico tenore (r.o. numeri 781 e 783 del 2007), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 13 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 14, comma 5-quinquies, del d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui prevede l'arresto obbligatorio, anziché meramente facoltativo, per il delitto di cui all'art. 14, comma 5-ter, del medesimo d.lgs. n. 286 del 1998. 2. - I giudizi possono essere riuniti e decisi con un'unica sentenza per la parziale coincidenza dell'oggetto delle singole questioni e dei parametri evocati. 3. - Preliminarmente deve essere dichiarata l'inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate con le ordinanze r.o. n. 413 del 2006 del Tribunale di Agrigento, sezione distaccata di Canicattì, e con le ordinanze r.o. numeri 578 del 2006 e 540 del 2007 dello stesso Tribunale di Agrigento, sezione distaccata di Licata. Dai suddetti atti introduttivi emerge che i giudici rimettenti hanno ordinato l'immediata liberazione degli arrestati per carenza del presupposto dei gravi indizi di colpevolezza in ordine alla consumazione del reato loro contestato. Poiché i giudici a quibus hanno già escluso la possibilità di convalidare gli arresti eseguiti, l'esito del presente giudizio incidentale di legittimità costituzionale non può spiegare alcun effetto nei giudizi principali. Da ciò discende la manifesta inammissibilità delle questioni sollevate, per difetto di rilevanza. 3.1. − La questione di legittimità costituzionale sollevata con le ordinanze r.o. numeri 781 e 783 del 2007 del Tribunale di Paola, sezione distaccata di Scalea, non è fondata. 3.2. − La previsione legislativa dell'arresto obbligatorio in flagranza di reato obbedisce all'intento del legislatore di contenere la discrezionalità della polizia giudiziaria in tutti i casi in cui lo stesso ritiene che sussistano indilazionabili esigenze di tutela della collettività. L'impianto del vigente codice di procedura penale è retto, nella materia de qua, da due criteri enunciati in modo distinto dalla legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale). Il primo ha natura quantitativa e si basa sulla gravità del reato, quale risulta dalle pene edittali, minima e massima, previste. Il secondo ha natura qualitativa e si basa su «speciali esigenze di tutela della collett ività». Al primo criterio si informa l'art. 380, comma 1, del codice di procedura penale, che prevede l'arresto obbligatorio in flagranza per reati puniti con la reclusione non inferiore nel minimo a cinque anni e nel massimo a venti anni. Al secondo criterio si informa il comma 2 dello stesso articolo, che contempla, accanto ai reati consumati, anche quelli tentati, per i quali, ai sensi dell'art. 56 del codice penale, la pena è diminuita da un terzo a due terzi. Tale diminuzione di pena porta il minimo e il massimo applicabile ai suddetti reati a valori molto vicini a quelli previsti dall'art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998. 3.3. − Dal dato sopra esposto si desume che rilevano, per questa seconda fascia di reati, non i valori della pena in sé e per sé considerati, ma le particolari esigenze di tutela della collettività, che vengono apprezzate dal legislatore in rapporto ad una serie molteplice di elementi, storicamente mutevoli e frutto di scelte di politica criminale non censurabili in sede di controllo di legittimità costituzionale delle leggi, a meno che non si tratti di opzioni manifestamente irragionevoli. La manifesta irragionevolezza può essere rilevata o a seguito di confronto con tertia comparationis omogenei o in esito alla constatazione di una contraddizione intrinseca della norma censurata. Nella fattispecie oggetto del presente giudizio non ricorrono né la prima né la seconda ipotesi. 3.4. − Non la prima, poiché, come già s'è rilevato, l'ordinamento conosce previsioni di arresto obbligatorio in flagranza per reati, consumati o tentati, le cui pene, minime e massime, sono fissate dal legislatore su valori analoghi a quelli del reato di ingiustificato trattenimento dello straniero nel territorio dello Stato. A puro titolo esemplificativo, in aggiunta a quanto detto sopra a proposito del reato tentato, si può citare l'art. 624-bis cod. pen., che prevede, per il furto in abitazione e per il furto con strappo, la reclusione da uno a sei anni. Tale fattispecie è stata inserita dall'art. 10, comma 2, della legge 26 marzo 2001, n. 128 (Interventi legislativi in materia di tutela della sicurezza dei cittadini), tra i casi di arresto obbligatorio in flagranza contemplati dall'art. 380, comma 2, cod. proc. pen.. Come nel caso oggetto del presente giudizio, si tratta di azioni delittuose che hanno provocato, in tempi successivi all'entrata in vigore del codice di procedura penale, un aumentato allarme sociale, cui il legislatore ha ritenuto di rispondere, tra l'altro, con la pre visione dell'arresto obbligatorio in flagranza. Quanto al rilievo concernente il rapporto tra l'arresto obbligatorio e la tenuità della pena edittale, questa Corte ha precisato, per un caso analogo, che «si tratta di una scelta di politica criminale di prevenzione sociale di spettanza del legislatore, il quale ha ritenuto di dover prescindere, nelle sue discrezionali determinazioni, dall'entità obiettiva del reato e della pena edittale» (sentenza n. 588 del 1989, conforme alla sentenza n. 211 del 1975; lo stesso principio esprime la sentenza n. 305 del 1996). Più in generale, questa Corte ha messo in rilievo l'insufficienza delle censure di legittimità costituzionale basate su «una comparazione tra norme concernenti misure cautelari, condotta sul solo piano dell'offensività piuttosto che su quello, più ampio, delle complessive esigenze che possono essere assicurate attraverso le misure in questione» (sentenza n. 22 del 2007). La scelta dell'arresto obbligatorio in flagranza per il reato oggetto dei giudizi a quibus è collegata ad una risposta politica che il Parlamento ha ritenuto di attuare, in questo come in altri casi, a fronte dell'aumentata percezione sociale della pericolosità di un fenomeno (nella specie, l'inottemperanza all'ordine di allontanamento conseguente ad un provvedimento di espulsione), ferma restando la garanzia del controllo del giudice sull'esistenza dei presupposti per l'applicazione della misura. Questa Corte infatti ha richiamato l'attenzione sul rilievo che «l'art. 385 cod. proc. pen. esclude in via generale l'arresto quando, tenuto conto delle circostanze, il fatto appare compiuto nell'adempimento di un dovere o nell'esercizio di una facoltà legittima, ovvero i n presenza di una causa di non punibilità: e la stessa regola non può non valere, a fortiori, quando si tratti, come nella specie, di elemento negativo interno allo stesso fatto tipico» (sentenza n. 5 del 2004). Non spetta a questa Corte esprimere valutazioni sull'efficacia della risposta repressiva penale rispetto a comportamenti antigiuridici che si manifestino nell'ambito del fenomeno imponente dei flussi migratori dell'epoca presente, che pone gravi problemi di natura sociale, umanitaria e di sicurezza. Al giudice delle leggi appartiene il compito di verificare che il legislatore non abbia introdotto ingiustificate disparità di trattamento all'interno di un quadro normativo storicamente dato. Per i motivi esposti, si deve ritenere che la previsione dell'arresto obbligatorio si collochi sulla stessa linea che ha indotto il legislatore a previsioni simili in altri casi. 3.5. - Non è riscontrabile neppure, nella norma censurata, una contraddizione intrinseca, che ne riveli la manifesta irragionevolezza. Non vale in proposito richiamare la sentenza n. 223 del 2004 di questa Corte, giacché tale pronuncia di illegittimità costituzionale si è fondata sulla contraddizione palese insita in una misura precautelare che non avrebbe mai potuto avere uno sbocco processuale, attesa la natura contravvenzionale del reato previsto dalla legge allora vigente, e la connessa inapplicabilità di misure cautelari da parte del giudice, rimanendo pertanto «fine a se stessa». Dopo la modifica legislativa, che ha trasformato la fattispecie di «indebito trattenimento» da contravvenzione in delitto, punito con la pena della reclusione da uno a quattro anni (e dunque suscettibile dell'applicazione di una misura cautelare personale), la contraddizione riscontrata dalla Corte nella citata pronuncia è venuta meno, fermi restando i rilievi sugli squilibri, le sproporzioni e le disarmonie del complessivo sistema sanzionatorio già segnalati dalla sentenza n. 22 del 2007, rimediabili solo da un intervento organico del legislatore. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 14, comma 5-quinquies, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come sostituito dall'art. 1 della legge 12 novembre 2004, n. 271 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 settembre 2004, n. 241, recante disposizioni urgenti in materia di immigrazione), sollevata in riferimento agli artt. 3 e 13 della Costituzione, dal Tribunale di P aola, sezione distaccata di Scalea, con le ordinanze indicate in epigrafe; dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 14, commi 5-ter e 5-quinquies, del d.lgs. n. 286 del 1998, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 10, 13, 27 e 136 Cost., dal Tribunale di Agrigento, sezioni distaccate di Canicattì e di Licata, con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Gaetano SILVESTRI, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 27 giugno 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge della Regione siciliana 2 agosto 2002, n. 7 (Norme in materia di opere pubbliche. Disciplina degli appalti di lavori pubblici, di fornitura, di servizi e nei settori esclusi) e dell'art. 1, comma 6, della legge della Regione siciliana 29 novembre 2005, n. 16 (Modifiche ed integrazioni alla normativa regionale in materia di appalti), promosso con ordinanza del 30 luglio 2007 dal Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia sul ricorso proposto da Icogen s.r.l. c/ l'Azienda Ospedaliera S. Antonio Abate ed altro iscritta al n. 749 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gaz zetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visto l'atto di intervento della Regione siciliana; udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro. Ritenuto che il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Palermo, con ordinanza del 30 luglio 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 41 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 21, comma 1-bis, della legge 11 febbraio 1994, n. 109 (Legge quadro in materia di lavori pubblici), introdotto dalla legge della Regione siciliana 2 agosto 2002, n. 7 (Norme in materia di opere pubbliche. Disciplina degli appalti di lavori pubblici, di fornitura, di servizi e nei settori esclusi), e successive modifiche ed integrazioni e, da ultimo, dall'art. 1, comma 6, della legge della Regione siciliana 29 novembre 2005, n. 16 (Modifiche ed integrazioni alla normativa regionale in materia di appalti) nella parte in cui, in relazione agli appalti di lavori pubblici di valore inferiore alla soglia comunitaria, introduce, nel meccanismo di esclusione automatica delle offerte di maggiore o minor ribasso, un fattore del tutto autonomo, sganciato da qualsiasi dato economico, desumibile in via presuntiva dalle offerte pervenute ed imponderabile quale quello del sorteggio; che il Tribunale rimettente, adito con ricorso avverso il verbale del 12 settembre 2006 di aggiudicazione della gara per l'affidamento dei lavori di abbattimento delle barriere architettoniche dell'Azienda Ospedaliera S. Antonio Abate di Trapani, dubita della legittimità costituzionale della predetta norma regionale, in quanto essa affiderebbe l'individuazione delle offerte da escludere, perché «anomale», ad un fattore sganciato da qualsiasi dato economico ed imponderabile quale il sorteggio, che ne determina il numero, indipendentemente dalla individuazione di soglie di anomalia, in violazione del principio di buon andamento ed imparzialità della pubblica amministrazione, di cui all'art. 97 Cost; che - secondo il giudice a quo - la norma regionale censurata sarebbe anche lesiva della libera manifestazione ed esplicazione delle capacità imprenditoriali delle imprese partecipanti alla gara, la cui eventuale esclusione dalla stessa non dipende da una valutazione di inaffidabilità dell'offerta, ma da un mero fattore numerico-casuale del tutto avulso dalle condizioni di mercato e dalla bontà dell'offerta formulata; che la medesima norma regionale violerebbe, infine, l'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui stabilisce un meccanismo di esclusione automatica delle offerte contraddittorio ed irragionevole, in quanto destinato a determinare l'esclusione di alcune offerte e la permanenza in gara di altre tra loro differenziate solo da scostamenti di qualche millesimo di percentuale di ribasso, ma tutte - almeno potenzialmente - economicamente inaffidabili ed anomale; che è intervenuta in giudizio la Regione siciliana, chiedendo che la Corte restituisca gli atti al giudice rimettente, dal momento che la questione attiene a normativa regionale in materia di lavori pubblici che ha recepito in Sicilia la legislazione statale in tema di appalti cosiddetti sottosoglia, ora all'esame della Corte di giustizia delle Comunità europee, in considerazione della incidenza della soluzione della questione di conformità della norma statale interna all'ordinamento comunitario sulla controversia pendente innanzi al medesimo giudice rimettente, o comunque dichiari infondata la questione sollevata. Considerato che il Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Palermo, dubita della legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge della Regione siciliana 2 agosto 2002, n. 7 (Norme in materia di opere pubbliche. Disciplina degli appalti di lavori pubblici, di fornitura, di servizi e nei settori esclusi), e successive modifiche ed integrazioni, nella parte in cui, stabilendo che si applica nel territorio della Regione siciliana la legge 11 febbraio 1994, n. 109 (Legge quadro in materia di lavori pubblici) «con le sostituzioni, modifiche ed integrazioni da essa apportate», ha introdotto l'art. 21, comma 1-bis, riportato all'appendice 1 della citata legge regionale, e successivamente modificato dall'art. 1, comma 6, della legge della Regione siciliana 29 novembre 2005, n. 16 (Modifiche ed integrazioni alla normativa regionale in materia di appalti), in quanto, in relazione agli appalti di lavori pubblici di valore inferiore alla soglia comunitaria, esso assegnerebbe, nell'ambito del meccanismo di esclusione automatica delle offerte di maggiore o minor ribasso, ad un fattore del tutto autonomo, sganciato da qualsiasi dato economico desumibile in via presuntiva dalle offerte pervenute, ed imponderabile, quale quello del sorteggio, il compito di determinare l'esclusione di alcune offerte e la permanenza in gara di altre, indipendentemente dalla individuazione di soglie di anomalia; che, successivamente all'ordinanza di rimessione, la norma censurata è stata modificata dall'art. 1, comma 10, della legge della Regione siciliana 21 agosto 2007, n. 20 (Modifiche ed integrazioni alla legge 11 febbraio 1994, n. 109, come introdotta dalla legge regionale 2 agosto 2002, n. 7 e successive modifiche e integrazioni, recante norme in materia di lavori pubblici. Disposizioni in materia di prevenzione e sicurezza dei lavoratori nei cantieri edili. Proroga di termini in materia di edilizia agevolata e convenzionata. Disposizioni in materia di finanziamenti agevolati e contributi del POR Sicilia 2007-2013), il quale ha introdotto una disciplina, in parte diversa, del meccanismo di esclusione automatica delle offerte di maggiore o minor ribasso, precisandone peraltro i criteri di applicazione; che, pertanto, alla luce di tale sopravvenienza normativa, si impone la restituzione degli atti al giudice rimettente, per una rinnovata valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione dallo stesso sollevata. LA CORTE COSTITUZIONALE ordina la restituzione degli atti al Tribunale amministrativo regionale per la Sicilia, sede di Palermo. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giuseppe TESAURO, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 27 giugno 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2-bis, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 23 giugno 2006 dal Tribunale di Venezia, sezione distaccata di San Donà di Piave, nel procedimento penale a carico di D.D.S., iscritta al n. 207 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell'anno 2007. Udito nella camera di consiglio del 21 maggio 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro. Ritenuto che il Tribunale di Venezia, sezione distaccata di San Donà di Piave, con ordinanza del 23 giugno 2006, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2-bis, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede «che vi si a una incompatibilità tra il giudice che svolge la funzione di giudice delle indagini preliminari e il giudice che emetterà, in un momento successivo, il decreto di citazione a giudizio nelle forme del rito immediato»; che il Tribunale di Venezia è chiamato a celebrare il dibattimento nell'àmbito di un procedimento in cui lo stesso giudice-persona fisica che, nella fase delle indagini preliminari, aveva provveduto alla convalida dell'arresto dell'imputato e all'applicazione di una misura cautelare ha emesso, in séguito, il decreto di giudizio immediato; che il rimettente lamenta che l'art. 34, comma 2-bis, cod. proc. pen. si limiti a stabilire, per il giudice che abbia esercitato funzioni di giudice per le indagini preliminari, l'incompatibilità alla trattazione dell'udienza preliminare, non anche l'incompatibilità all'emissione del decreto che dispone il giudizio immediato, nonostante tale ultima ipotesi sia assimilabile alla prima; che, infatti, a suo avviso, «i motivi d'incompatibilità sono i medesimi», dal momento che il giudice per le indagini preliminari che si pronuncia in ordine alla richiesta del rito immediato compie una valutazione analoga a quella spettante al giudice che tiene l'udienza preliminare; che il rimettente, escludendo la possibilità di un'interpretazione estensiva della denunciata norma, tale da consentirne l'applicazione al caso dedotto, prospetta la violazione dell'art. 3 della Costituzione, sul rilievo che, ove la questione non venisse accolta, situazioni analoghe rimarrebbero disciplinate in maniera diversa, nonché il contrasto con l'art. 24 della Costituzione, «per quanto concerne il diritto alla difesa, garantito all'indagato, prima, e all'imputato, poi». Considerato che il Tribunale di Venezia, sezione distaccata di San Donà di Piave, dubita della legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2-bis, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede l'incompatibilità ad emettere il decreto di giudizio immediato del giudice che, nel medesimo procedimento, ha esercitato funzioni di giudice per le indagini preliminari; che, come già rilevato da questa Corte, secondo il diritto vivente l'esistenza di cause d'incompatibilità, non incidendo sui requisiti di capacità del giudice, non determina la nullità dei provvedimenti adottati dal giudice ritenuto incompatibile, ma costituisce esclusivamente motivo di ricusazione, da far valere con la apposita procedura, nei termini e modi previsti dall'art. 38 cod. proc. pen. (ordinanze n. 346 del 2000 e n. 36 del 1999); che, malgrado ciò, nell'ordinanza di rimessione è omessa ogni motivazione sulla rilevanza della questione, sollevata dal giudice chiamato alla celebrazione del dibattimento per una incompatibilità riferita al giudice per le indagini preliminari che, in precedenza, aveva disposto il giudizio immediato; che, in particolare, il rimettente non chiarisce se la parte abbia tempestivamente attivato la procedura di ricusazione e, in ogni caso, non spiega in base a quale principio o regola processuale l'accoglimento della questione determinerebbe la regressione del procedimento alla fase anteriore all'emissione del decreto di giudizio immediato (ordinanza n. 346 del 2000); che, dunque, la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 34, comma 2-bis, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Venezia, sezione distaccata di San Donà di Piave, con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giuseppe TESAURO, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 27 giugno 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come modificato dall'art. 2, comma 169, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, della relativa legge di conversione, 24 novembre 2006, n. 28 6, promosso con ordinanza del 19 luglio 2007 dal Giudice di pace di Morbegno, nel procedimento civile vertente tra B. M. ed il Prefetto di Sondrio, iscritta al n. 25 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio dell'11 giugno 2008 il Giudice relatore Alfonso Quaranta. Ritenuto che il Giudice di pace di Morbegno, con l'ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato - in riferimento all'articolo 3 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale dell'art. 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui prevede - nel testo modificato dall'art. 2, comma 169, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, della relativa legge di conversione, 24 novembre 2006, n. 286 - che è «sempre disposta la confisca in tutti i casi in cui un ciclomotore o un motoveicolo sia stato adoperato per commettere un reato, sia che il reato sia commesso da un conducente maggiorenne, sia che sia stato commesso da un conducente minorenne»; che il rimettente - nel premettere di dover giudicare del ricorso proposto dal proprietario di un motociclo, sottoposto a sequestro in vista della successiva confisca, per essere stata contestata al conducente la realizzazione del reato di cui all'art. 186, comma 2, del medesimo codice della strada - deduce che la norma censurata «palesa una rilevante e non manifestamente infondata violazione dell'art. 3 della Costituzione, in quanto, disponendo la confisca obbligatoria nella sola ipotesi di violazione commessa con ciclomotore o motoveicolo, realizza una disparità di trattamento nei confronti dei conducenti di altri veicoli a motore»; che, in particolare, il giudice a quo contesta la scelta del legislatore di limitare la confisca - nel caso in cui si accerti la commissione del reato di guida in stato di ebbrezza - ai soli veicoli di cui alle lettere e) ed f) dell'art. 47 del codice della strada, escludendone, invece, l'applicazione quando la medesima fattispecie criminosa venga realizzata mediante un'autovettura, cioè un «mezzo di trasporto potenzialmente più pericoloso per massa e velocità che sviluppa»; che su tali basi, pertanto, il rimettente ha chiesto che venga dichiarata l'illegittimità costituzionale della disposizione suddetta «nei termini e per le ragioni sopra esposte»; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sollevata venga dichiarata manifestamente infondata, alla luce di quanto affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 345 del 2007. Considerato che il Giudice di pace di Morbegno, con l'ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato - in riferimento all'articolo 3 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale dell'art. 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui prevede - nel testo modificato dall'art. 2, comma 169, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, della relativa legge di conversione, 24 novembre 2006, n. 286 - che è «sempre disposta la confisca in tutti i casi in cui un ciclomotore o un motoveicolo sia stato adoperato per commettere un reato, sia che il reato sia commesso da un conducente maggiorenne, sia che sia stato commesso da un conducente minorenne»; che questione pressoché identica a quella in esame - come rilevato dall'Avvocatura generale dello Stato - è stata ritenuta non fondata da questa Corte con la sentenza n. 345 del 2007; che tale pronuncia - nel premettere che è da ritenere «non irragionevole la scelta del legislatore di prevedere una più intensa risposta punitiva, allorché un reato sia commesso mediante l'uso di ciclomotori o motoveicoli, con riferimento all'adozione di una sanzione accessoria, quale è la confisca, idonea a scongiurare la reiterata utilizzazione illecita del mezzo» (specie quando sussiste, «come avviene proprio nel caso contemplato dall'art. 186 del codice della strada», un «rapporto di necessaria strumentalità tra l'impiego del veicolo e la consumazione del reato») - ha escluso la fondatezza della censura di «disparità di trattamento tra utenti della strada», basata sul rilievo che «l'operatività della confisca è stata limitata ad una sola categoria di veicoli e non è stata invece prevista a carico dei conducenti degli altri mezzi»; che la citata sentenza, per un verso, ha evidenziato «che tale disparità non è neppure assoluta», in quanto, «per tutte le tipologie di veicoli, sempre adoperati per commettere un reato, l'applicazione della confisca» potrebbe «comunque avvenire ai sensi dell'art. 240 del codice penale» (sebbene «essa, in tal caso, operi solo facoltativamente ed alla stregua non di una sanzione accessoria, bensì di una misura di sicurezza reale»); che questa Corte, per altro verso, ha ribadito che «rimodellare il sistema della confisca, stabilendo alcuni canoni essenziali al fine di evitare che l'applicazione giudiziale della sanzione amministrativa produca disparità di trattamento» costituisce, in ogni caso, un intervento «riservato alla discrezionalità legislativa»; che non essendo stati prospettati dall'odierno rimettente argomenti nuovi e diversi rispetto a quelli già esaminati da questa Corte con la sentenza n. 345 del 2007 deve essere dichiarata la manifesta infondatezza della questione dal medesimo sollevata, non senza, peraltro, rilevare che il legislatore - con norma sopravvenuta nelle more del presente giudizio (art. 4, comma 1, lettera b, del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, recante «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica») - ha inteso novellare il testo dell'art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada, stabilendo che «è sempre disposta la confisca del veicolo con il quale è stato commesso il reato ai sensi dell'articolo 240, comma 2, del codice penale, salvo che il veicolo stesso appartenga a persona estranea al reato». Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui prevede - nel testo modificato dall'art. 2, comma 169, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, della relativa legge di conversione, 24 novembre 2006, n. 286 - che è «sempre disposta la confisca in tutti i casi in cui un ciclomotore o un motoveicolo sia stato adoperato per commettere un reato, sia che il reato sia commesso da un conducente maggiorenne, sia che sia stato commesso da un conducente minorenne», questione sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Giudice di pace di Morbegno, con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Alfonso QUARANTA, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 27 giugno 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA |