Deposito del 30/07/2008 (dalla 305 alla 321) |
S.305/2008 del 29/07/2008 Camera di Consiglio del 11/06/2008, Presidente BILE, Redattore AMIRANTE Norme impugnate: Artt. 195, c. 4°, e 627, c. 3°, del codice di procedura penale. Oggetto: Processo penale - Ricorso per cassazione - Giudizio di rinvio dopo annullamento - Impossibilità per il giudice di rinvio di rilevare e di sollevare questione di costituzionalità con riferimento ai principi di diritto enunciati dalla Corte di cassazione nella sentenza di annullamento con rinvio, quando lo stesso giudice di legittimità, in data successiva a detta sentenza, ma anteriore alla sentenza del giudice di rinvio, abbia poi abbandonat o il principio di diritto enunciato nel giudizio rescindente. Processo penale - Prove - Testimonianza indiretta - Possibilità per gli appartenenti alla polizia giudiziaria di riferire circa notizie apprese da persone informate sui fatti, le cui dichiarazioni non siano state verbalizzate - Preclusione della testimonianza 'de relato' nel caso in cui la verbalizzazione sia avvenuta. Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale - manifesta infondatezza Atti decisi: ord. 19/2007 |
S.306/2008 del 29/07/2008 Udienza Pubblica del 24/06/2008, Presidente BILE, Redattore AMIRANTE Norme impugnate: Art. 80, c. 19°, della legge 23/12/2000, n. 388, in combinato disposto con l'art. 9, c. 1°, del decreto legislativo 25/07/1998, n. 286, come modificato dall'art. 9 della legge 30/07/2002, n. 189, in relazione all'art. 1 della legge 11/02/1980, n. 18. Oggetto: Straniero - Indennità di accompagnamento per inabilità - Condizione - Possesso della carta di soggiorno. Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale Atti decisi: ord. 615/2007 |
S.307/2008 del 29/07/2008 Udienza Pubblica del 12/02/2008, Presidente BILE, Redattore FINOCCHIARO Conflitto: Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati 17/04/2002. < strong>Oggetto: Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento penale a carico dell'on. Silvio Berlusconi per diffamazione nei confronti del dott. Carlo Caracciolo di Castagneto - Deliberazione di insindacabilità della Camera dei deputati. Dispositivo: inammissibile Atti decisi: confl. pot. mer. 33/2004 |
S.308/2008 del 29/07/2008 Camera di Consiglio del 07/05/2008, Presidente BILE, Redattore FINOCCHIARO Norme impugnate: Art. 155 quater del codice civile, aggiunto dall'art. 1 della legge 08/02/2006, n. 54; art. 4 della legge 08/02/2006, n. 54. Oggetto: Famiglia - Assegnazione della casa familia re: Appello avverso sentenza dichiarativa della cessazione degli effetti civili del matrimonio - Istanza di revoca dell'assegnazione della casa familiare al coniuge affidatario del figlio minorenne; Istanza di modifica delle condizioni di divorzio ; Ricorso per la revisione delle condizioni della separazione consensuale dei coniugi omologata dal tribunale - Istanza di revoca dell'assegnazione della casa familiare al coniuge convivente con figlia maggiorenne ma non ancora economicamente indipendente. Procedimento per lo scioglimento del matrimonio - Istanza di revoca dell'assegnazione della casa familiare al coniuge convivente con prole minorenne ovvero maggiorenne ma non ancora economicamente indipendente; Previsione legislativa della cessazione del diritto al godimento della casa familiare nel caso che l'assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva 'more uxorio' o contragga nuovo matrimonio - Omessa previsione della facoltà in capo a l giudice di valutare l'interesse dei figli ai fini della decisione sull'assegnazione della casa familiare. Dispositivo: non fondatezza Atti decisi: ord. 569, 573, 787 e 818/2007 |
S.309/2008 del 29/07/2008 Camera di Consiglio del 11/06/2008, Presidente BILE, Redattore AMIRANTE Norme impugnate: Art. 495 del codice di procedura civile e art. 2, c. 3° sexies, del decreto legge 14/03/2005, n. 35, conv. con mod. in legge 14/05/2005, n. 80, come sostituito dall'art. 1, c. 6°, della legge 28/12/2005, n. 263, e successivamente modificato dall'art. 39 quater del decreto legge 30/12/2005, n. 273, conv. con mod. in legge 23/02/2006, n. 51. Oggetto:< /strong> Procedimento civile - Espropriazione immobiliare - Giudizio di opposizione agli atti esecutivi - Ricorso avverso provvedimento del giudice dell'esecuzione recante declaratoria di inammissibilità dell'istanza di conversione del pignoramento presentata dal debitore esecutato nel giorno della redazione del verbale di vendita ad opera del notaio delegato - Ritenuta intempestività della detta istanza alla stregua del novellato art. 495 cod. proc. civ. che consente la conversione prima che sia disposta la vendita o l'assegnazione - Applicabilità della nuova disciplina anche alle procedure esecutive pendenti alla data di entrata in vigore della novella - Omessa previsione dell'ultrattività del previgente art. 495 cod. proc. civ. che ammetteva il debitore esecutato a chiedere la conversione del pignoramento in qualsiasi momento anteriore alla vendita, ivi compreso il giorno dell'udienza a ciò deputata e, secondo gli indirizzi della giurisprudenza d i legittimità, fino all'aggiudicazione definitiva. Dispositivo: non fondatezza Atti decisi: ord. 21/2008 |
S.310/2008 del 29/07/2008 Camera di Consiglio del 11/06/2008, Presidente BILE, Redattore SAULLE Norme impugnate: Artt. 701 e 704 del codice di procedura penale. Oggetto: Estradizione - Estradizione di minorenni - Competenza a decidere sulla richiesta di estradizione di soggetti minorenni all'epoca dei fatti per i quali l'estradizione è richiesta - Attribuzione della competenza alla Corte di appello e non alla "Sezione di Corte di appello per i minorenni" - Procedimento - Preclusione del riferimento alle norme d el d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448, in tema di giurisdizione minorile. Dispositivo: non fondatezza Atti decisi: ord. 772/2007 |
S.311/2008 del 29/07/2008 Udienza Pubblica del 24/06/2008, Presidente BILE, Redattore SAULLE Norme impugnate: Regolamento Regione Marche 15/11/2007, n. 4. Oggetto: Amministrazione pubblica - Cerimoniale - Regolamento Regione Marche n. 4 del 15 novembre 2007 recante la disciplina delle precedenze tra le cariche pubbliche nelle cerimonie a carattere locale - Applicazione residuale del D.P.C.M. 14 aprile 2006. Dispositivo: accoglie il ricorso Atti decisi: confl. enti 2/2008 |
O.312/2008 del 29/07/2008 Camera di Consiglio del 21/05/2008, Presidente BILE, Redattore AMIRANTE Norme impugnate: Art. 515, c. 3°, del codice di procedura civile, aggiunto dall'art. 4 della legge 24/02/2006, n. 52. Oggetto: Procedimento civile - Opposizione ad esecuzione forzata - Reclamo del debitore esecutato (nella specie, associazione culturale) avente ad oggetto la contestazione della legittimità del pignoramento di tutti i beni mobili presenti presso la sede associativa - Previsione legislativa del limite del quinto per il pignoramento di strumenti, oggetti e libri indispensabili per l'esercizio della professione, dell'arte o del mestiere del debi tore - Inapplicabilità del detto limite ai debitori costituiti in forma societaria e in ogni caso in cui risulti nelle attività del debitore una prevalenza del capitale investito sul lavoro. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 825/2007 |
O.313/2008 del 29/07/2008 Camera di Consiglio del 25/06/2008, Presidente BILE, Redattore AMIRANTE Norme impugnate: Art. 12 della legge 03/10/2001, n. 366; artt. da 2 a 17 del decreto legislativo 17/01/2003, n. 5. Oggetto: Società - Controversie in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria - Procedimento di primo grado dinanzi al tribun ale in composizione collegiale - Disciplina introdotta dal legislatore delegante. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 40 e 41/2008 |
O.314/2008 del 29/07/2008 Camera di Consiglio del 09/07/2008, Presidente BILE, Redattore FINOCCHIARO Norme impugnate: Art. 91, c. 1°, del codice di procedura civile; art. 75 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile. Oggetto: Procedimento civile - Spese processuali - Condanna della parte soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e liquidazione giudiziale comprensiva degli onorari di difesa - Presentazione della nota delle spese da parte d el difensore al momento del passaggio in decisione della causa - Omessa previsione del contraddittorio tra le parti sulle reciproche note delle spese e sugli importi ivi quantificati - Carattere di pronuncia 'inaudita altera parte' della condanna alle spese. Dispositivo: manifesta infondatezza Atti decisi: ord. 60/2008 |
O.315/2008 del 29/07/2008 Camera di Consiglio del 09/07/2008, Presidente BILE, Redattore GALLO Norme impugnate: Art. 10 della legge della Regione Liguria 07/05/2002, n. 20. Oggetto: Imposte e tasse - Tassa automobilistica regionale - Norme della Regione Liguria - Recupero delle tasse automobilistiche dovute per l 'anno 1999 - Proroga di un anno, al 31 dicembre 2003, del termine triennale stabilito dalla legge statale. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 71/2008 |
O.316/2008 del 29/07/2008 Camera di Consiglio del 09/07/2008, Presidente BILE, Redattore GALLO Norme impugnate: Art. 70 del decreto legislativo 31/12/1992, n. 546. Oggetto: Contenzioso tributario - Giudizio di ottemperanza agli obblighi derivanti dalla sentenza della commissione tributaria passata in giudicato - Ricorso proposto, in pendenza del termine per appellare, da contribuente vittorioso in primo grado, a seguito dell'infruttuosa messa in mora dell'ammi nistrazione finanziaria condannata con sentenza non ancora passata in giudicato a rimborsare un'imposta già riscossa - Omessa previsione dell'esperibilità del giudizio di ottemperanza per ottenere l'esecuzione, anche in pendenza di appello o di termine per proporre appello, della pronuncia di primo grado favorevole al contribuente. Dispositivo: manifesta infondatezza - manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 73/2008 |
O.317/2008 del 29/07/2008 Camera di Consiglio del 09/07/2008, Presidente BILE, Redattore SILVESTRI Norme impugnate: Art. 6 della legge 20/06/2003, n. 140. Oggetto: Parlamento - Intercettazioni "indi rette" o "casuali" di comunicazioni o conversazioni di parlamentari - Utilizzazione in procedimento penale - Diniego di autorizzazione della Camera di appartenenza - Distruzione immediata della documentazione - Inutilizzabilità in ogni stato e grado del procedimento dei verbali e delle registrazioni eventualmente acquisiti. Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens Atti decisi: ord. 1/2008 |
O.318/2008 del 29/07/2008 Camera di Consiglio del 09/07/2008, Presidente BILE, Redattore NAPOLITANO Norme impugnate: Artt. 511, 514 e 525, c. 2°, del codice di procedura penale. Oggetto: Processo penale - Dibattimento - Rinnov azione per mutamento del giudice persona fisica - Dichiarazioni già assunte nella precedente istruzione dibattimentale - Utilizzabilità per la decisione mediante lettura, dopo l'applicazione degli artt. 190 e 190-bis cod. proc. pen., quando l'esame del dichiarante possa aver luogo e sia stato richiesto da una delle parti - Mancata previsione, secondo l'interpretazione delle sezioni unite della Corte di cassazione. Dispositivo: manifesta infondatezza Atti decisi: ordd. 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11 e 12/2008 |
O.319/2008 del 29/07/2008 Camera di Consiglio del 09/07/2008, Presidente BILE, Redattore CASSESE Norme impugnate: Atto di citazio ne della Procura regionale presso la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Calabria, vert. n. 2006/00168/GRS del 25/10/2006. Oggetto: Responsabilità amministrativa e contabile - Regione Calabria - Delibere dell'Ufficio di Presidenza di acquisto di oggetti da destinare in omaggio ai consiglieri regionali in occasione delle festività natalizie - Citazione in giudizio davanti alla Sezione giurisdizionale della competente Corte dei conti dei componenti dell'Ufficio di Presidenza per sentirli condannare al risarcimento del danno. Dispositivo: inammissibile Atti decisi: confl. enti 3/2008 |
S.320/2008 del 29/07/2008 Udienza Pubblica del 08/07/2008, Presidente BILE, Redattore TESAURO Norme impugnate: Art. 20, c. 4°, della legge della Regione Calabria 11/05/2007, n. 9. Artt. 1 e 2 della legge della Regione Calabria 20/06/2007, n. 12. Oggetto: Appalti pubblici - Norme della Regione Calabria - Contratti concernenti la gestione dei servizi integrati del patrimonio immobiliare, della difesa dell'ambiente, del territorio e dell'amministrazione - Autorizzazione alla Giunta a prorogarli al fine di consentire l'espletamento delle procedure per la nuova gara riguardante l'esternalizzazione dei servizi; Proroga ex lege al fine di consentire l'espletamento delle procedure per la nuova gara riguardante l'esternalizzazione dei servizi - Proroga dei contratti per la gestione del servizio di elisoccorso regionale fino al 31 dicembre 2007. Dispositivo: illegittimità costituzionale - cessata materia del contendere < em>Atti decisi: ric. 33 e 35/2007 |
O.321/2008 del 29/07/2008 Camera di Consiglio del 09/07/2008, Presidente BILE, Redattore TESAURO Norme impugnate: Art. 26 del decreto legislativo 28/08/2000, n. 274. Oggetto: Processo penale - Procedimento davanti al giudice di pace - Ricorso immediato al giudice - Formulazione da parte del pubblico ministero di parere contrario alla citazione - Mancata previsione della possibilità per il giudice di emettere il decreto di citazione. Dispositivo: manifesta infondatezza Atti decisi: ord. 20/2008 |
ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 195, comma 4, e 627, comma 3, del codice di procedura penale, promosso dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di L. S., con ordinanza del 30 maggio 2006, iscritta al n. 19 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio dell'11 giugno 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante. Ritenuto in fatto 1.- Nel corso di un procedimento penale per associazione a delinquere di stampo mafioso e tentata estorsione aggravata, la Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 195, comma 4, 627, comma 3, e 628, comma 2, del codice di procedura penale. Premette, in punto di fatto, la Corte che l'imputato sottoposto al suo giudizio era stato ritenuto responsabile, dalla Corte d'assise di Reggio Calabria, di tutti i reati a lui ascritti e condannato alla pena di anni dodici di reclusione e lire 3.500.000 di multa; proposto appello, la Corte d'assise d'appello lo aveva assolto dal delitto di tentata estorsione aggravata, riducendo conseguentemente la pena. La Corte di cassazione, con sentenza del 14 febbraio 2002, aveva poi annullato la sentenza d'appello con rinvio al giudice di secondo grado, lim itatamente all'assoluzione per il delitto di tentata estorsione aggravata. La Corte d'assise d'appello di Reggio Calabria, chiamata ad un secondo giudizio, aveva quindi condannato l'imputato anche per il delitto in contestazione, confermando nella sostanza la sentenza di primo grado e ricalcolando la pena in anni undici e mesi nove di reclusione, convertendo la multa in quella di euro 1807,59. Rileva la Corte di cassazione che il giudice di primo grado aveva affermato la responsabilità penale dell'imputato anche per il delitto di tentata estorsione aggravata sulla base delle dichiarazioni di due funzionari di polizia giudiziaria, i quali avevano riferito che l'episodio era stato loro narrato da un terzo, con dichiarazioni rese "fuori verbale". Sul punto erano stati svolti, in dibattimento, i dovuti confronti, e la Corte d'assise di primo grado aveva ritenuto di riscontrare in tal modo le dichiarazioni non verbalizzate. Di diverso avviso era stato il giudice d'appello, secondo cui la natura informale del colloquio tra i funzionari di polizia ed il terzo erano motiv o di inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dai primi, con conseguente assoluzione dell'imputato sul punto. La Corte di cassazione, però, aveva annullato la sentenza d'appello sul rilievo che non fosse corretta la valutazione in termini di inutilizzabilità, affermando nel contempo che «le dichiarazioni non verbalizzate, rese dalla persona offesa potevano essere oggetto di testimonianza indiretta da parte di ufficiali di polizia giudiziaria». Il giudice di rinvio - pur dando atto del nuovo orientamento della medesima Corte di cassazione, rappresentato dalla sentenza n. 36747 del 2003 delle sezioni unite (Torcasio) - si è ritenuto vincolato, ai sensi dell'art. 627, comma 3, cod. proc. pen., al principio di diritto antecedentemente enunciato, ed ha quindi deciso nel senso della condanna dell'imputato valutando anche le testimonianze de relato dei due funzionari di polizia. Ciò premesso in ordine alla vicenda processuale, la Corte di cassazione riferisce che il difensore dell'imputato ha eccepito l'illegittimità costituzionale dell'art. 195, comma 4, cod. proc. pen., nella parte in cui non prevede che non siano utilizzabili le dichiarazioni acquisite da parte della polizia giudiziaria da persone informate sui fatti, anche senza le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b), del codice stesso. Il difensore ha ricordato, inoltre, che le sezioni unite della Cassazione, con la menzionata sentenza Torcasio, hanno stabilito che il divieto di testimonianza indiretta da parte degli ufficiali di po lizia giudiziaria vale tanto per le dichiarazioni da loro ritualmente documentate quanto per quelle non verbalizzate; tale interpretazione è stata ritenuta dalle sezioni unite come l'unica costituzionalmente accettabile, rendendo in tal modo incostituzionale quella resa dalla medesima Corte nel giudizio in corso, alla quale il giudice di rinvio si è adeguato. Dopo aver dato conto della linea seguita dalla difesa dell'imputato, il giudice a quo dichiara che la questione di legittimità costituzionale prospettata dalla parte è rilevante, perché «l'utilizzazione delle testimonianze de relato dei due ufficiali di polizia giudiziaria è il perno sul quale ruota l'intero apparato argomentativo esibito dal giudice di rinvio». In ordine alla non manifesta infondatezza, la remittente osserva che il giudice di rinvio, per pacifica giurisprudenza, può non uniformarsi al principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione ove la disposizione applicata sia stata, nel frattempo, modificata da una legge successiva. Nel caso specifico, però, la sentenza di annullamento è successiva alla modifica dell'art. 195, comma 4, cod. proc. pen., introdotta dalla legge 1° marzo 2001, n. 63 (Modifiche al codice penale e al codice di procedura penale in materia di formazione e valutazione della prova in attuazione della legge costituzionale di riforma dell' articolo 111 della Costituzione), norma della quale la sentenza stessa «deve, dunque, necessariamente aver tenuto conto nel fornire l'interpretazione imposta al giudice d i rinvio». Tuttavia, dopo l'annullamento della sentenza d'appello, ma prima che si pronunciasse il giudice di rinvio, la citata sentenza delle sezioni unite penali ha fissato il principio generale - da considerare come diritto vivente - del divieto di testimonianza indiretta da parte degli appartenenti alla polizia giudiziaria, affermando che questa è l'unica interpretazione conforme alla Costituzione. In sede di giudizio di rinvio, il principio affermato dalla sentenza di annullamento «in quanto immodificabile da parte del giudice e sottratto a ulteriori mezzi di impugnazione, acquista autorità di giudicato interno per il caso di specie», come risulta da numerose sentenze costituzionali e di legittimità. Al giudice remittente, peraltro, «sembra incongruo, irragionevole e iniquo che il giudice di rinvio debba ritenersi vincolato a un'interpretazione contra Constitutionem fornita dal giudice di legittimità e smenti ta da successiva sentenza delle Sezioni Unite». Di qui la necessità di sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 627, comma 3, e 628, comma 2, cod. proc. pen., poiché - osserva la Corte di cassazione - non ci si potrebbe, nella sede attuale, adeguare all'orientamento giurisprudenziale di cui alla sentenza Torcasio, in quanto il vincolo che la legge pone al giudice di rinvio necessariamente si riflette anche sul giudizio di legittimità avverso la sentenza dal medesimo pronunciata. D'altra parte, prosegue l'ordinanza di rimessione, se ci si adeguasse all'orientamento imposto al giudice di rinvio dalla precedente sentenza della Corte di cassazione, vi sarebbe anche una violazione del principio di uguaglianza, perché si verificherebbe un'irragionevole disparità di trattamento tra l'indagato/imputato a carico del quale siano state rese dichiarazioni verbalizzate dalla polizia giudiziaria e colui nei confronti del quale tale verbalizzazione non sia stata compiuta. In conclusione, la Corte di cassazione solleva questione di legittimità costituzionale: 1) dell'art. 627, comma 3, cod. proc. pen., per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui non consente al giudice di rinvio di rilevare e sollevare eventuale eccezione di incostituzionalità con riferimento ai principi di diritto impostigli dalla Corte di cassazione con la sentenza di annullamento, quando lo stesso giudice di legittimità, in data successiva a detta sentenza, ma anteriore alla sentenza del giudice di rinvio, abbia poi abbandonato, in quanto costituzionalmente incompatibile, il principio di diritto enunziato nel giudizio rescindente; 2) in via subordinata, sempre in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 Cost., dell'art. 195, comma 4, cod. proc. pen., nel testo successivo alla modifica apportata con la legge n. 63 del 2001, nella parte in cui consente agli appartenenti alla polizia giudiziaria di riferire circa notizie apprese da persone informate sui fatti, le cui dichiarazioni non siano state verbalizzate, mentre non consente tale testimonianza de relato nel caso in cui la verbalizzazione sia avvenuta. 2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le proposte questioni vengano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate. Osserva, in primo luogo, l'interveniente che la questione di legittimità costituzionale dell'art. 627, comma 3, cod. proc. pen. poteva essere sollevata dal giudice di rinvio, mentre la Corte di cassazione avrebbe potuto sollevare questione solo sull'art. 628, comma 2, cod. proc. pen., cosa che sembra aver fatto nel corpo dell'ordinanza di remissione ma non nel dispositivo. D'altra parte - come risulta anche dall'ordinanza n. 11 del 1999, riguardante la stessa norma - è consentito solo al giudice di rinvio sollevare questioni relative al principio di diritto, sicché la questione sull'art. 627, comma 3, cod. proc. pen. è priva di rilevanza. Residua, quindi, la sola questione sull'art. 195, comma 4, del codice di rito. Al riguardo l'Avvocatura rileva che, dopo le modifiche di cui alla legge n. 63 del 2001, il divieto di testimonianza indiretta da parte degli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria non è assoluto, ma vale solo nell'ipotesi in cui la deposizione sia stata formalmente raccolta con atti utilizzabili, sia pure limitatamente. E, d'altra parte, la Corte costituzionale, chiamata a pronunciarsi sul punto, ha dichiarato la questione non fondata (sentenza n. 32 del 2002). La sentenza delle sezioni unite indicata nell'ordinanza di rimessione è servita proprio a delimitare il campo di quegli "altri casi" nei quali gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria possono rendere testimonianza sul contenuto di dichiarazioni acquisite da persone informate sui fatti. Ne consegue - secondo l'Avvocatura - che dovrebbe essere ammessa la testimonianza de relato anche in ordine a dichiarazioni della persona offesa che, pur richiesta, non abbia voluto, per timore di ritorsioni, formalizzare per iscritto le dichiarazioni accusatorie in precedenza rese "fuori verbale". La questione, impostata in tali termini, sarebbe dunque infondata, perché il teste appartenente alla polizia giudiziaria sarà chiamato in dibattimento a rendere informazioni, in contraddittorio, sull'avvenuta raccolta delle stesse da parte della persona informata sui fatti. Considerato in diritto 1.-- Questa Corte è chiamata a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 24, e 111 della Costituzione, degli articoli: A) «195, comma 4 cod. proc. pen., come modificato dalla legge 63 del 2001, nella parte in cui non prevede che siano inutilizzabili le dichiarazioni acquisite da parte della polizia giudiziaria da persone informate sui fatti, senza le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b), cod. proc. pen.; B) 627, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui non consente di rilevare e sollevare questione di costituzionalità con riferimento ai principi di diritto enunciati dalla Corte di cassazione nella sentenza di annullamento con rin vio». 2.-- La remittente Corte di cassazione espone di essere stata adita con ricorso proposto avverso la sentenza di condanna di S.L. per il reato di tentata estorsione, emessa in sede di rinvio dopo che la stessa Corte aveva cassato la sentenza assolutoria di appello perché fondata sul presupposto, ritenuto erroneo, che l'art. 195, comma 4, cod. proc. pen. disponesse l'inutilizzabilità anche delle testimonianze de relato di ufficiali e agenti di polizia giudiziaria relative a circostanze da loro non verbalizzate. < /SPAN> Dall'ordinanza di rimessione risulta che, dopo la cassazione con rinvio e l'enunciazione del principio di diritto sull'inutilizzabilità delle testimonianze relative a dichiarazioni acquisite da agenti di polizia giudiziaria soltanto con le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b), le sezioni unite della stessa Corte di cassazione, in sede di composizione di contrasto di giurisprudenza, hanno affermato l'opposto principio secondo cui l'inutilizzabilità delle testimonianze indirette si riferisce «anche ai casi nei quali la polizia giudiziaria non abbia provveduto alla redazione del relativo verbale, con ciò eludendo proprio le modalità di acquisizione prescritte dalle norme medesime». Siffatta interpretazione, che le stesse sezioni unite definiscono l'unica costituzionalmente adeguata, non è stata seguita dal giudice di rinvio perché vincolato al principio di diritto enunciato nella sentenza di cassazione. Per la sua applicazione, secondo la remittente, è anzitutto necessaria la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell'art. 627, comma 3, cod. proc. pen. se considerato, come si afferma nella motivazione dell'ordinanza di rimessione, in connessione con l'art. 628, comma 2, del medesimo codice, il quale stabilisce che «in ogni caso la sentenza del giudice di rinvio può essere impugnata soltanto per motivi non riguardanti i punti già decisi dalla Corte di cassazione ovvero per inosservanza della disposizione dell'art. 627, comma 3». </ o:p> Secondo il ragionamento seguito dal giudice a quo, l'art. 627, comma 3, cod. proc. pen. vincola in modo ineludibile il giudice di rinvio ad uniformarsi alla sentenza della Corte di cassazione per ciò che concerne ogni questione di diritto con essa decisa. Tale vincolo, per quanto disposto dall'art. 628, comma 2, cod. proc. pen., si riflette anche sull'oggetto del giudizio di cassazione promosso contro la sentenza emessa in sede di rinvio, restringendolo al mero riscontro della sua rispondenza al principio di diritto enunciato con la sentenza di cassazione, senza alcuna possibilità di riscontrare la adeguatezza di quest'ultimo alle norme della Costituzione. 3.-- E' necessario premettere che, per il collegamento esistente tra il giudizio del giudice del rinvio e quello di impugnazione per la cassazione della sentenza emessa in quella sede, ai fini della legittimazione a sollevare questione di legittimità costituzionale, non vi è differenza tra il giudice del rinvio e la Corte di cassazione adita con ricorso avverso la sentenza da lui emessa. Nell'un caso e nell'altro, oggetto del giudizio è la norma sospettata di illegittimità, rispetto alla cui applicazione non può parlarsi di situazione esaurita. Ciò premesso, si osserva che la questione di legittimità costituzionale dell'art. 627, comma 3, cod. proc. pen. è manifestamente infondata, per erroneità del presupposto interpretativo. Infatti, questa Corte ha costantemente affermato il principio per cui in sede di rinvio la norma dichiarata applicabile dalla Corte di cassazione nella interpretazione da essa fornita può essere sospettata di illegittimità costituzionale, con la richiesta del relativo scrutinio da parte di questa Corte (v., ex plurimis, sentenze n. 130 del 1993 e n. 78 del 2007, nonché, con riguardo al giudizio di rinvio in sede civile, per quanto qui interessa avente struttura non dissimile dal giudizio penale di rinvio, sentenze n. 138 del 1977 e n. 349 del 2007). 4.-- L'infondatezza della suddetta questione non determina l'inammissibilità di quella relativa all'art. 195, comma 4, cod. proc. pen., in sostanza autonomamente sollevata. E' tuttavia necessario, prima di procedere al suo scrutinio, affermare che la circostanza che le sezioni unite, successivamente alla sentenza di cassazione con rinvio e in altro processo, abbiano adottato un'interpretazione della disposizione in oggetto difforme da quella che fonda il principio di diritto enunciato, nulla toglie alla vincolatività di questo, sicché lo scrutinio deve avere ad oggetto la disposizione così come interpretata dalla sentenza di cassazione con rinvio. In casi come quello in esame, infatti, la struttura del giudizio di cassazione con rinvio, vietando ai giudici che ancora debbano farne applicazione di dare alla disposizione in questione un significato diverso da quello ad essa attribuito con la determinazione del pri ncipio di diritto, impedisce l'interpretazione adeguatrice coerente all'orientamento di questa Corte, secondo il quale una disposizione non si dichiara illegittima perché suscettibile di un'interpretazione contrastante con i parametri costituzionali, ma soltanto se ne è impossibile altra a questi conforme. Ciò premesso, la questione è fondata. E' infatti irragionevole e, nel contempo, indirettamente lesivo del diritto di difesa e dei principi del giusto processo ritenere che la testimonianza de relato possa essere utilizzata qualora si riferisca a dichiarazioni rese con modalità non rispettose delle disposizioni degli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b), cod. proc. pen., pur sussistendo le condizioni per la loro applicazione, mentre non lo sia qualora la dichiarazione sia stata ritualmente assunta e verbalizzata. Si finirebbe per dare rilievo processuale - anche decisivo - come accadrebbe nel caso in esame, ad atti processuali compiuti eludendo obblighi di legge, mentre sarebbero in parte inutilizzabili que lli posti in essere rispettandoli. La disposizione impugnata va pertanto dichiarata illegittima nei soli limiti dell'oggetto con riguardo al quale lo scrutinio è stato condotto, e cioè se interpretata nel modo in cui lo è stato da parte della sentenza della Corte di cassazione e, conseguentemente, dal giudice di rinvio. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 195, comma 4, del codice di procedura penale, ove interpretato nel senso che gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono essere chiamati a deporre sul contenuto delle dichiarazioni rese dai testimoni soltanto se acquisite con le modalità di cui agli artt. 351 e 357, comma 2, lettere a) e b), cod. proc. pen., e non anche nel caso in cui, pur ricorrendone le condizioni, tali modalità non siano state osservate; dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 627, comma 3, del codice di procedura penale, in connessione con l'art. 628, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto dell'art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), e dell'art. 9, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dall'art. 9 della legge 30 luglio 2002, n. 189, in relazione all'art. 1 della legge 11 febbraio 1980, n. 18, promosso dal Tribunale di Brescia nel procedimento civile vertente tra S. T. e l'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) ed altro, con ordinanza del 15 genn aio 2007 iscritta al n. 615 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 36, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visto l'atto di costituzione dell'INPS nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 24 giugno 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante; udito l'avvocato Nicola Valente per l'INPS e l'avvocato dello Stato Pierluigi Di Palma per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.- Nel corso di una controversia in materia di assistenza obbligatoria, promossa da una cittadina albanese nei confronti dell'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) e del Ministero dell'Economia e delle Finanze, il Tribunale di Brescia, sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 10, 11, 32, 35, 38 e 117, primo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale del combinato disposto dell'art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), e dell'art. 9, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dall 'art. 9 della legge 30 luglio 2002, n. 189, in relazione all'art. 1 della legge 11 febbraio 1980, n. 18: a) in via principale, nella parte relativa all'inibizione della fruizione delle provvidenze assistenziali, e in particolare dell'indennità di accompagnamento, allo straniero, stabilmente e regolarmente presente nel territorio nazionale, ma privo della carta di soggiorno, in quanto in condizioni di salute che lo rendono totalmente inidoneo al lavoro e gli impediscono, quindi, di produrre un reddito sufficiente per mantenere se stesso e i suoi familiari; b) in via subordinata, nella parte relativa alla subordinazione dell'erogabilità allo straniero - regolarmente soggiornante nel territorio dello Stato da almeno sei anni e titolare di un permesso di soggiorno per un motivo che consente un numero indeterminato di rinno vi - alla condizione reddituale richiesta per la carta di soggiorno. Espone il giudice a quo che la ricorrente, coniugata con due figlie minori e presente nel territorio nazionale da più di sei anni, a seguito di un incidente stradale versa in stato di coma vegetativo e, conseguentemente, il 24 marzo 2005 ha presentato domanda per il riconoscimento del diritto all'indennità di accompagnamento la quale, in sede amministrativa, è stata respinta in quanto, pur essendole stato riconosciuto il possesso dei prescritti requisiti sanitari, si è rilevata la mancanza della titolarità della carta di soggiorno (della quale non può ottenere il richiesto rilascio per mancanza del requisito reddituale), che, a partire dal 1° gennaio 2001, il censurato art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000 richiede per l'attribuzione della provvidenza in oggetto. Conseguentemente, ha rinnovato la domanda in sede giudiziaria, previa proposizione della questione di legittimità costituzionale relativa alla richiamata disposizione, chiedendo, altresì, l'adozione di un provvedimento di urgenza ai sensi dell'art. 700 cod. proc. civ. al fine di ottenere, in via cautelare, la condanna dell'INPS al pagamento della prestazione in oggetto con decorrenza dalla data della domanda presentata in sede amministrativa. Il Tribunale adito, dopo aver accertato in via istruttoria il possesso da parte della ricorrente dei prescritti requisiti sanitari e l'onerosità del suo attuale ricovero presso una struttura sanitaria (la cui retta è a carico della famiglia dell'infortunata), ha accolto l'istanza cautelare e, con il medesimo provvedimento, ha sollevato le questioni di legittimità costituzionale di cui si tratta. Quanto alla rilevanza, il remittente osserva che, nella specie, il diniego della provvidenza costituisce un atto dovuto in applicazione del censurato art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000, sicché soltanto la declaratoria di illegittimità costituzionale di tale norma potrebbe consentire l'accoglimento della domanda giudiziale. In relazione al merito delle questioni, il giudice a quo sostiene, in primo luogo, che la normativa censurata viola gli artt. 2, 3 e 38 Cost. in quanto condiziona la fruizione di provvidenze di carattere universalistico, poste a tutela di diritti fondamentali della persona - quali sono quelle dell'assistenza sociale, tra le quali rientra l'indennità di accompagnamento - al possesso di un requisito - la titolarità della carta di soggiorno - inidoneo a fungere da elemento discriminante. Infatti, la principale diversità tra la carta e il permesso di soggiorno è rappresentata dalla dimostrazione - richiesta solo per la prima, ai sensi dell'art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, come modificato dall'art. 9 della legge n. 189 del 2002 - di un redd ito sufficiente per il sostentamento dello straniero e dei suoi familiari, sicché la scelta del legislatore appare non solo irrispettosa dei valori di solidarietà di cui all'art. 2 Cost., ma anche contraddittoria sul piano logico e contrastante con le finalità proprie dell'assistenza, quali emergono dall'art. 38 Cost., dal momento che comporta il riconoscimento delle relative provvidenze ai soggetti economicamente autosufficienti, mentre lo esclude proprio per le ipotesi nelle quali la situazione di bisogno è più intensa. Né tale scelta può fondarsi sul principio di reciprocità dei rapporti internazionali, visto che il legislatore italiano ha fatto propria le regola dell'universalità dei diritti umani, come si desume dall'art. 10, primo comma, Cost. (ove si afferma che l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute), dall'art. 11 Cost. (ove è stabilito che la Repubblica promuove e favorisce le organizzazioni rivolte allo scopo della costituzione di un ordinamento internazionale che assicuri la pace e la giustizia tra le Nazioni) e dall'art. 35 Cost. (secondo il quale la Repubblica promuove e fav orisce gli accordi e le organizzazioni internazionali intesi ad affermare e regolare i diritti del lavoro). Da questi tre parametri - e, in particolare, dagli ultimi due - si dovrebbe desumere che al nostro legislatore è inibito di introdurre norme che neghino l'esercizio di diritti riconosciuti dalle convenzioni internazionali in materia di lavoro, previdenza e assistenza sociale. Ciò, invece, si verifica nella specie, visto che l'art. 6 della Convenzione dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL) n. 97 del 1949 (ratificata e resa esecutiva dalla legge 2 agosto 1952, n. 1305) vincola gli Stati aderenti ad assicurare agli immigrati trattamenti in materia di sicurezza sociale non meno favorevoli di quelli riconosciuti ai propri cittadini e l'art. 10 della Convenzione OIL n. 143 del 1975 (ratificata e resa esecutiva dalla legge 10 aprile 1981, n. 158) garantisce ai lavoratori migranti parità di opportunità e di trattamento anche in materia di sicure zza sociale. Va, inoltre, considerato che, sulla base di quanto stabilito dai primi tre commi dell'art. 2 e dall'art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998, l'indennità di accompagnamento di cui all'art. 1 della legge n. 18 del 1980 - al pari del trattamento di inabilità civile di cui all'art. 12 della legge 30 marzo 1971, n. 118 - rientra tra le provvidenze che, in presenza dei relativi presupposti di carattere sanitario, devono essere riconosciute a chiunque, purché legittimamente presente in modo stabile sul territorio nazionale. 2.- Si è costituito dinanzi a questa Corte l'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile ovvero infondata. Ricorda l'Istituto che l'art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998 aveva previsto per gli stranieri titolari di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno per durata non inferiore all'anno l'equiparazione ai cittadini italiani ai fini della fruizione delle provvidenze e prestazioni di assistenza sociale, incluse quelle previste in favore di ciechi, sordomuti ed invalidi civili. Successivamente, l'art. 80, comma 19, della legge n. 388 del 2000 ha stabilito che le provvidenze economiche in favore dei minorati civili spettano soltanto agli stranieri titolari di carta di soggiorno, mentre nei confronti degli stranieri titol ari di permesso di soggiorno è fatto salvo esclusivamente il godimento delle altre prestazioni sociali, ivi compreso l'assegno di maternità. In tal modo il legislatore è intervenuto, a decorrere dalla data di entrata in vigore della legge n. 388 del 2000, nel senso di restringere le condizioni di accesso a determinate prestazioni assistenziali e di far venir meno, sulla base di un chiaro parametro di riferimento, l'equiparazione degli stranieri titolari di permesso di soggiorno ai cittadini italiani. Tale scelta, secondo l'INPS, non sarebbe di per sé incostituzionale, in quanto, come chiarito da questa Corte, al legislatore è consentito dettare norme che modificano in senso meno favorevole la disciplina dei rapporti di durata (sentenza n. 324 del 2006) e, quindi, mutare i requisiti per la percezione delle prestazioni previdenziali o assistenziali, tanto più che lo stesso fluire del tempo costituisce un elemento idoneo a giustificare l'applicazione di trattamenti diversi, in differenti momenti temporali, a soggetti appartenenti alla medesima categoria. D'altra parte, non vi sarebbe alcuna illegittimità nel differenziare le suddette prestazioni assumendo come criterio quello di favorire i soggetti che hanno una maggiore stabilità di residenza nel nostro Paese, tanto più che l'art. 80, comma 19, oggetto di contestazione, è stato dettato per evidenti finalità di contenimento della spesa pubblica. 3.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l'inammissibilità e la non fondatezza della questione. Alla prima conclusione potrebbe pervenirsi, in primo luogo, per il fatto che l'ordinanza di rimessione è carente di motivazione sulla rilevanza, non essendovi descritta in modo esauriente la fattispecie sub iudice. Infatti, il giudice a quo omette di riferire: a) se la ricorrente sia dotata di un titolo - diverso dalla carta di soggiorno - che ne legittimi la permanenza in Italia; b) se il coniuge della ricorrente sia o meno titolare di permesso o di carta di soggiorno; c) se, quindi, la ricorrente sia in condizione di ottenere la richiesta indennità in conseguenza del suo status di coniuge di soggetto regolarmente soggiornante in Italia, in applicazione di una norma diversa da quella oggetto della sollevata questione (cioè l'art. 30 del d.lgs. n. 286 del 1998). Alla medesima conclusione potrebbe giungersi anche sul rilievo che il remittente ha omesso di sperimentare la possibilità di concedere il beneficio sulla base di una diversa interpretazione della normativa censurata, come è stato fatto, per la stessa e consimili provvidenze, da altri giudici di merito. Inoltre, anche la motivazione sulla non manifesta infondatezza sarebbe carente, essendo generico il richiamo degli invocati parametri costituzionali, sicché, pure per questa ragione, si potrebbe arrivare ad un declaratoria di inammissibilità. Nel merito, la questione non sarebbe comunque fondata. In linea generale, la determinazione dei presupposti cui ricollegare la spettanza del beneficio in argomento è di competenza del legislatore, le cui scelte discrezionali, nella specie, non sono sindacabili in questa sede non essendo palesemente irragionevoli. Del resto, al legislatore è consentito limitare l'accesso dei cittadini extracomunitari a determinati benefici riconosciuti ai cittadini italiani - anche se, in ipotesi, ciò possa comportare una parziale compressione di diritti coperti da garanzia costituzionale - tutte le volte in cui sia necessario - principalmente per la scarsezza delle risorse disponibili - operare una scelta di prevalenza tra posizioni giuridiche concorrenti, tutte parimenti costituzionalmente tutelate. In questa ottica appare del tutto comprensibile che la platea dei beneficiari sia stata, nella specie, ridotta ai cittadini italiani e agli stranieri che abbiano un rapporto serio e duraturo con la Stato italiano, rapporto o ggi rappresentato dalla situazione che consente il rilascio del permesso di soggiorno per i soggiornanti di lungo periodo. Comunque, il riferimento all'art. 2 Cost. sarebbe - per l'interveniente - del tutto inconferente, visto che il riconoscimento dell'indennità in oggetto sicuramente non rientra tra i diritti inviolabili della persona ovvero tra i doveri inderogabili di solidarietà sociale, né pone in discussione un preteso diritto di reciprocità, in quanto si tratta di una provvidenza peculiare della legislazione italiana e che non trova riscontro nelle legislazioni di tanti altri Paesi. Altrettanto ultroneo sarebbe il richiamo all'art. 3 Cost., perché una differenza di trattamento tra diverse categorie di cittadini extracomunitari ben può essere giustificata dal possesso di differenti titoli di soggiorno, «espressione di una diversa affectio societatis». Impropria sarebbe anche l'invocazione degli artt. 32 e 35 Cost., che si occupano di diritti diversi da quello in contestazione, mentre il richiamo all'art. 38 Cost. (peraltro, non presente nel dispositivo dell'ordinanza di rimessione) sarebbe generico e, comunque, privo di fondamento, dal momento che la suddetta norma, di carattere programmatico, non comprende la pretesa ad ogni trattamento assistenziale, ma si limita a garantire una tutela minima, anche se adeguata alle esigenze di vita, nella quale non sembra rientrare l'indennità di accompagnamento. Neppure persuasivo sarebbe il riferimento alle disposizioni costituzionali disciplinanti l'adeguamento del nostro ordinamento agli accordi internazionali e, in particolare, alle convenzioni OIL, in quanto da tali atti non nascono posizioni soggettive direttamente tutelabili dinanzi al giudice nazionale. Considerato in diritto 1.- Il Tribunale di Brescia, in riferimento agli articoli 2, 3, 10, 11, 32, 35, 38 e 117, primo comma, della Costituzione, sospetta di illegittimità costituzionale l'articolo 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), e l'articolo 9, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come modificato dall'art. 9 della legge 30 luglio 2002, n. 189, in relazione all'art. l della legge 11 febbraio 1980, n. 18 (Indennit& agrave; di accompagnamento agli invalidi civili totalmente inabili). Il remittente espone di essere stato adito da una cittadina albanese, regolarmente soggiornante in Italia da oltre sei anni, coniugata con due figlie e totalmente inabile al lavoro, in stato di coma vegetativo a seguito di incidente stradale, per ottenere la condanna dell'INPS, convenuto in giudizio insieme con il Ministero dell'Economia e delle Finanze, a corrisponderle l'indennità di accompagnamento. Il remittente premette in fatto che, ad esclusione del possesso della carta di soggiorno, ricorrono tutte le condizioni perché la ricorrente possa fruire della indennità e che ella non può ottenere la suddetta carta soltanto per la carenza dei requisiti di reddito per il sostentamento proprio e dei suoi familiari. 2.- Motivata in tal modo la rilevanza della questione, il remittente afferma anzitutto l'illogicità delle norme e l'ingiustificata disparità di trattamento, relativamente ad una provvidenza assistenziale, degli stranieri extracomunitari rispetto ai comunitari e, quindi, il contrasto con gli artt. 2 e 3, con riguardo anche agli artt. 32 e 38 della Costituzione. Censura, inoltre, le disposizioni suindicate per violazione degli artt. 10, 11 e 117, primo comma, Cost., in particolare in riferimento alle Convenzioni OIL n. 97 del 1949 (ratificata e resa esecutiva dalla legge 2 agosto 1952, n. 1305) e n. 143 del 1975 (ratificata e resa esecutiva con legge 10 aprile 1981, n. 158), le quali garantiscono ai lavoratori migranti parità di condizioni in materia di sicurezza sociale e, quindi, di godimento di prestazioni previdenziali e assistenziali; sostiene, altresì, la violazione dell'art. 10, primo comma, Cost., disposizione che sancisce l'adeguamento automatico dell'ordinamento interno alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute. In subordine, richiamando gli stessi parametri, il remittente censura le medesime norme nella parte in cui subordinano la concessione dell'indennità di accompagnamento allo straniero extracomunitario, «regolarmente soggiornante in Italia da oltre sei anni, che sia in possesso di permesso di soggiorno che consente un numero indeterminato di rinnovi, alla condizione del possesso del reddito richiesto per la carta di soggiorno». 3.- L'INPS, costituitosi in giudizio, ha eccepito l'inammissibilità della questione o la sua infondatezza in quanto, secondo la giurisprudenza di questa Corte, il legislatore può intervenire sulla disciplina dei rapporti di durata, dettando norme peggiorative riguardo alle posizioni soggettive ad essi inerenti e, a tal proposito, ha invocato la sentenza n. 324 del 2006. 4.- L'Avvocatura dello Stato ha, a sua volta, eccepito l'inammissibilità della questione perché il remittente non avrebbe espressamente motivato sul possesso da parte della ricorrente di un titolo giustificativo della sua presenza in Italia, né sulla impossibilità di ottenere la carta di soggiorno in quanto coniuge di persona che potrebbe essere titolare di carta di soggiorno. 5.- Le eccezioni di inammissibilità non possono essere accolte. Quella dell'INPS non è sorretta da alcuna argomentazione, mentre quelle dell'Avvocatura dello Stato non tengono conto, da un lato, che nell'ordinanza di remissione si afferma espressamente che la disabile è regolarmente soggiornante in Italia da oltre sei anni e che la carta di soggiorno non può esserle rilasciata soltanto per carenza del requisito reddituale - circostanze che non risultano contestate specificamente nel giudizio a quo - dall'altro, che la disposizione prevedente il diritto alla carta di soggiorno per il coniuge di chi ne è titolare è stata soppressa con il sopravvenuto art. 2, comma l, del decreto-legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi te rzi soggiornanti di lungo periodo), anche a voler trascurare il rilievo che non è affermata, ma soltanto genericamente ipotizzata, la titolarità della carta di soggiorno in capo al marito della ricorrente. 6.- E' necessaria, in via preliminare, la precisazione che il remittente formalmente propone due questioni, la seconda in subordine al mancato accoglimento della prima, ma, in effetti, per l'identità delle disposizioni censurate e dei parametri evocati, ne solleva una sola, limitandosi esclusivamente a prospettare due possibili dispositivi, diversi soltanto nella loro ipotizzata formulazione letterale, ma non nella sostanza, essendo, in realtà, diretti entrambi ad escludere - per ricondurre la normativa a legittimità costituzionale, in base alle medesime ragioni - la necessità, per l'attribuzione del diritto all'indennità di accompagnamento, della ricorrenza della condizione di percettore di un reddito idoneo a soddisfare le esigenze di sostentamento proprie e dei familiar i. 7.- Ancora in via preliminare, va affermata la non implausibilità della motivazione sulla rilevanza. Non viene in questione il diritto comunitario e la sua diretta applicabilità, perché la vicenda non vede coinvolta una pluralità di Stati membri, come specificamente richiesto dall'art. 1 del Regolamento (CE) n. 859/2003 del Consiglio, in data 14 maggio 2003. A prescindere, quindi, dalla sua fondatezza, non è pertinente la tesi, pur seguita da alcuni giudici di merito, secondo la quale le disposizioni della CEDU che vietano discriminazioni tra cittadini e stranieri riguardo all'applicazione di norme inerenti alla sicurezza sociale, tra le quali rientrano quelle che prevedono prestazioni assistenziali, sarebbero entrate a far parte del diritto comunitario e sarebbero perciò direttamente applicabili. D'altra parte, la diretta applicazione delle disposizioni della CEDU, in quanto tali, è da escludere, secondo quanto ritenuto da questa Corte nelle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, nonché n. 39 del 2008. Né può pervenirsi ad un diverso risultato ipotizzando una diretta applicabilità delle convenzioni OIL, perché questa presuppone la condizione di lavoratore (o, quanto meno, di aspirante lavoratore, come si argomenta dalla richiamata sentenza n. 454 del 1998, oppure di familiare del lavoratore) dello straniero e, invece, nell'ordinanza di rimessione del Tribunale di Brescia non si fa menzione di tali condizioni. 8.- Per concludere l'esame dei profili preliminari, è necessario osservare che la sopravvenienza rispetto all'ordinanza di rimessione, depositata in cancelleria il 15 gennaio 2007, del d.lgs. n. 3 del 2007, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 30 gennaio 2007, n. 24, non ha mutato, nella sostanza, i termini della questione, né inciso sulla sua rilevanza nel giudizio di provenienza. Il provvedimento legislativo suddetto, infatti, per quanto qui interessa, nel novellare l'art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998, ha sostituito - con valenza generale ed immediata, ai sensi dell'art. 2, comma 3, dello stesso d.lgs. n. 3 del 2007 - il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo alla carta di soggiorno, riducendo da sei a cinque anni il periodo di permanenza in Italia e determinando, come requisiti reddituali, la titolarità di un reddito almeno non inferiore all'importo annuo dell'assegno sociale e la disponibilità di un alloggio idoneo «che rientri nei parametri minimi previsti dalla legge regionale per gli alloggi di edilizia residenziale pubblica ovvero che sia fornito dei requisiti di idoneit à igienico-sanitaria accertati dall'Azienda unità sanitaria locale competente per territorio» (art. 9, comma 1, citato). Poiché dalla descrizione della fattispecie contenuta nell'ordinanza di rimessione la titolarità del reddito suddetto in capo all'aspirante alla prestazione assistenziale è da escludere, non è necessario disporre la restituzione degli atti al giudice del giudizio di merito per un nuovo esame della rilevanza e dei termini della questione. 9.- Quest'ultima, da scrutinare quindi nel merito, è fondata. E' opportuno premettere che l'indennità di accompagnamento - spettante ai disabili non autonomamente deambulanti, o che non siano in grado di compiere da soli gli atti quotidiani della vita, per il solo fatto delle minorazioni e, quindi, indipendentemente da qualsiasi requisito reddituale - rientra nelle prestazioni assistenziali e, più in generale, anche nella terminologia adottata dalla Corte di Strasburgo, attiene alla "sicurezza o assistenza sociale". In tale ambito, questa Corte ha affermato che «le scelte connesse alla individuazione delle categorie dei beneficiari - necessariamente da circoscrivere in ragione della limitatezza delle risorse finanziarie - debbano essere operate, sempre e comunque, in ossequio al principio di ragionevolezza», ma anche che al legislatore è consentito «introdurre regimi differenziati, circa il trattamento da riservare ai singoli consociati, soltanto in presenza di una "causa" normativa non palesemente irrazionale o, peggio, arbitraria» (sentenza n. 432 del 2005). 10.- Tutto ciò premesso, la Corte ritiene che sia manifestamente irragionevole subordinare l'attribuzione di una prestazione assistenziale quale l'indennità di accompagnamento - i cui presupposti sono, come si è detto, la totale disabilità al lavoro, nonché l'incapacità alla deambulazione autonoma o al compimento da soli degli atti quotidiani della vita - al possesso di un titolo di legittimazione alla permanenza del soggiorno in Italia che richiede per il suo rilascio, tra l'altro, la titolarità di un reddito. Tale irragionevolezza incide sul diritto alla salute, inteso anche come diritto ai rimedi possibili e, come nel caso, parziali, alle menomazioni prodotte da patologie di non lieve importanza. Ne consegue il contrasto delle disposizioni censurate non soltanto con l'art. 3 Cost., ma anche con gli artt. 32 e 38 Cost., nonché - tenuto conto che quello alla salute è diritto fondamentale della persona (vedi, per tutte, le sentenze n. 252 del 2001 e n. 432 del 2005) - con l'art. 2 della Costituzione. Sotto tale profilo e per i medesimi motivi, la normativa censurata viola l'art. 10, primo comma, della Costituzione, dal momento che tra le norme del diritto internazionale generalmente riconosciute rientrano quelle che, nel garantire i diritti fondamentali della persona indipendentemente dall'appartenenza a determinate entità politiche, vietano discriminazioni nei confronti degli stranieri, legittimamente soggiornanti nel territorio dello Stato. Al legislatore italiano è certamente consentito dettare norme, non palesemente irragionevoli e non contrastanti con obblighi internazionali, che regolino l'ingresso e la permanenza di extracomunitari in Italia (da ultimo, sentenza n. 148 del 2008). E' possibile, inoltre, subordinare, non irragionevolmente, l'erogazione di determinate prestazioni - non inerenti a rimediare a gravi situazioni di urgenza - alla circostanza che il titolo di legittimazione dello straniero al soggiorno nel territorio dello Stato ne dimostri il carattere non episodico e di non breve durata; una volta, però, che il diritto a soggiornare alle condizioni predette non sia in discussione, non si possono discriminare gli stranieri, stabilendo, nei loro confronti, particolari limitazioni per il godimento dei diritti fondame ntali della persona, riconosciuti invece ai cittadini. Le disposizioni censurate sono, pertanto, illegittime nella parte in cui - oltre ai requisiti sanitari e di durata del soggiorno in Italia e comunque attinenti alla persona, già stabiliti per il rilascio della carta di soggiorno ed ora (per effetto del d.lgs. n. 3 del 2007) del permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo, non sospettati di illegittimità dal remittente - esigono, ai fini dell'attribuzione dell'indennità di accompagnamento, anche requisiti reddituali, ivi compresa la disponibilità di un alloggio, avente le caratteristiche indicate dal nuovo testo dell'art. 9, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 80, comma 19, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001), e dell'art. 9, comma 1, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) - come modificato dall'art. 9, comma 1, della legge 30 luglio 2002, n. 189 e poi sostituito dall'art. 1, comma 1, del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 - nella parte in cui escludono che l'indennità di accompagnamento, di c ui all'art. l della legge 11 febbraio 1980, n. 18, possa essere attribuita agli stranieri extracomunitari soltanto perché essi non risultano in possesso dei requisiti di reddito già stabiliti per la carta di soggiorno ed ora previsti, per effetto del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo) per il permesso di soggiorno CE per soggiornanti di lungo periodo. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai Signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati del 17 aprile 2002, n. 133 (Doc. IV-quater, n. 7), relativa alla insindacabilità, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dall'onorevole Silvio Berlusconi nei confronti di Carlo Caracciolo di Castagneto, promosso dalla Corte d'appello di Roma, sezione quarta penale, con ricorso notificato il 23 dicembre 2004, depositato in cancelleria il 31 dicembre 2004 ed iscritto al n. 33 del registro conflitti 2004. Visto l'atto di costituzione della Camera dei deputati; udito nell'udienza pubblica del 12 febbraio 2008 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro; udito l'avvocato Massimo Lucani per la Camera dei deputati. Ritenuto in fatto 1. - Con ordinanza-ricorso del 19 giugno 2003, la Corte d'appello di Roma, sezione quarta penale, ha promosso conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato, nei confronti della Camera dei deputati, in relazione alla delibera adottata il 17 aprile 2002 (Doc. IV-quater, n. 7), con la quale - in conformità alla proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere - è stato dichiarato che i fatti, per i quali il deputato Silvio Berlusconi è sottoposto a procedimento penale per il reato di diffamazione nei confronti di Carlo Caracciolo di Castagneto, riguardano opinioni espresse nell'esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione. La Corte ricorrente espone che l'onorevole Berlusconi è imputato «del reato di cui agli artt. 595 c.p., 13 e 21 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 e 30 della legge 6 agosto 1990 n. 223, per avere rilasciato, nel corso della trasmissione radiofonica "Radio anch'io", in onda il 30 novembre 1999, dichiarazioni che qui si devono intendere integralmente riportate, con le quali si offendeva, anche mediante l'attribuzione di fatti determinati, la reputazione di Carlo Caracciolo di Castagneto, in proprio e nella qualità di presidente del consiglio di amministrazione della "Gruppo Editoriale Espresso spa", di cui fa parte il quotidiano "La Repubblica", affermando, tra l'altro: "dispiace che naturalmente tutti i giornali che hanno barattato l'impunità, parlo esplicitamente della Repubblica, che anche oggi continua a intervenire modificando le cose, che hanno barattato l'impunità del loro editore offrendosi a questo partito dei giudici, dei giudici giacobini, come la gazzetta giustizialista che ha sempre sostenuto le loro posizioni, continuino a non raccontare ciò che gli italiani, invece, che sono saggi, sanno".» Ricorda la Corte che davanti a sé pende l'impugnazione, proposta dal pubblico ministero, avverso la sentenza emessa dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Roma, con la quale si è dichiarato non luogo a procedere nei confronti dell'onorevole Berlusconi, ai sensi dell'art. 68 Cost., ritenendo che le opinioni dallo stesso manifestate nella intervista radiofonica costituissero opinioni che «da tempo, formavano oggetto di doglianze espresse in molteplici atti di sindacato ispettivo, in Parlamento, da esponenti del suo partito e di quella opposizione parlamentare che lo riconosce come proprio leader». Nelle more del giudizio, è pervenuta la deliberazione della Camera dei deputati del 17 aprile 2002, secondo la quale i fatti concernono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni. La Corte ricorrente, richiamata la giurisprudenza costituzionale in materia, ha sottolineato: a) che, ai fini dell'applicazione dell'art. 68 Cost., non è sufficiente che le opinioni espresse fuori dalla sede parlamentare siano genericamente inerenti all'esercizio delle funzioni, né basta la semplice comunanza di argomenti o l'identità di contesto tra le dichiarazioni e gli atti tipici, ma è necessaria una identificabilità della dichiarazione quale espressione di attività parlamentare e non genericamente politica; con la conseguenza che gli atti extra moenia sono insindacabili solo in caso di corrispondenza sostanziale di contenuto con atti tipici e ove siano riproduttivi di opinione precedent emente (o contestualmente) espressa in sede parlamentare; b) che la questione dei rapporti anomali tra politica, magistratura e stampa è materia troppo vasta e indefinita e costituisce solo il quadro entro cui si inseriscono le esternazioni rilevanti nel processo; c) che non risulta che, in occasione dell'attività parlamentare tipica, l'on. Berlusconi (o altro parlamentare) abbia mai espresso l'opinione che "La Repubblica" (o altro giornale) abbia barattato l'impunità del suo editore aderendo al «partito dei giudici giacobini»; d) che gli atti parlamentari richiamati nella delibera della Camera (e prima dal GUP) non fanno riferimento a tale accordo criminoso, ma si inseriscono nel quadro generale suddetto; e) che una qualche comunanza di argomenti può rinvenirsi in una interrogazione presentata da altri parlamentari di "Forza Italia" in epoca successiva (20 gennaio 2000), pertanto irrilev ante secondo un principio già affermato dalla Corte costituzionale. Infine, il giudice a quo, richiamato l'orientamento della Corte di cassazione secondo cui la "comunicazione" è elemento essenziale della funzione parlamentare e il collegamento non può dipendere da criteri formali (sentenze n. 16195 del 2002 e n. 8742 del 1999), sostiene che la "comunicazione" non può confondersi con l'aggressione all'altrui reputazione al di fuori di ogni controllo, anche parlamentare, e che, essendo la "comunicazione" elemento strutturale del reato di diffamazione, è necessario un bilanciamento degli interessi attraverso l'individuazione del confine della liceità, anche con criteri formali, per non approdare alla irresponsabilità. La Corte d'appello conclude nel senso che la Camera, erroneamente esercitando il proprio potere con la delibera di insindacabilità adottata, ha leso le attribuzioni costituzionali dell'autorità giudiziaria, e, pertanto, chiede l'annullamento della suddetta delibera. 2. - Il conflitto è stato dichiarato ammissibile con ordinanza n. 397 del 2004, depositata il 21 dicembre 2004, e notificata, a cura del ricorrente, unitamente all'atto introduttivo del giudizio, alla Camera dei deputati in data 23 dicembre 2004. Il successivo 31 dicembre la stessa ricorrente ha provveduto ad effettuare il deposito presso la cancelleria di questa Corte. 3. - Si è costituita nel giudizio la Camera dei deputati, la quale, riservandosi di identificare compiutamente le ragioni di irricevibilità, inammissibilità e improcedibilità del conflitto, ha concluso, nel merito, per la sua infondatezza, rilevando il fondamento politico delle dichiarazioni in relazione alle quali si procede a carico del deputato e la sussistenza di nesso funzionale tra le stesse e gli atti tipici di funzione. In proposito, si richiamano una serie di interrogazioni ed interpellanze, presentate, a partire da un'epoca notevolmente anteriore, da deputati e senatori appartenenti allo stesso gruppo parlamentare dell'imputato, nelle quali si manifestava l'opinione di una indebita commistione tra mondo della carta stampata, con particolare riferimento al gruppo "L'Espresso", e settori della magistratura; e se ne fa discendere la sussistenza del nesso funzionale con le dichiarazioni rese dal deputato, relative a ritenuti illegittimi intrecci fra giornalismo e magistratura, ed al favor di quest'ultima nei confronti del quotidiano "La Repubblica", ricambiato dall'atteggiamento gius tizialista del predetto giornale. Il contenuto delle dichiarazioni per le quali si procede a carico del predetto deputato sarebbe, dunque, corrispondente, al di là della diversità di alcune delle parole adoperate, a quello degli atti tipici di funzione richiamati dalla difesa della Camera, a prescindere dalla identità del parlamentare dichiarante, avuto riguardo alla funzione oggettiva di tutela delle istituzioni rappresentative, e non dei singoli membri delle stesse, cui è preordinata la guarentigia di cui all'art. 68, primo comma, della Costituzione. Sotto tale profilo, si sollecita una revisione dell'indirizzo della giurisprudenza costituzionale in tema di nesso funzionale. In una successiva memoria, la Camera dei deputati ha richiesto la declaratoria di improcedibilità ovvero di inammissibilità per sopravvenuta carenza di interesse, in considerazione della entrata in vigore della legge 20 febbraio 2006, n. 46, che ha modificato il regime dei gravami contro le sentenze di proscioglimento, disponendo, tra l'altro, all'art. 10, comma 1, che l'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dall'imputato o dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della legge stessa viene dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile. Nel merito, la Camera insiste per la infondatezza del ricorso. 4. - Nell'imminenza della data fissata per la udienza pubblica, la difesa della Camera dei deputati ha depositato una memoria con la quale insiste nelle conclusioni già rassegnate, richiamando le argomentazioni svolte in merito alla improcedibilità del conflitto, che, peraltro, non tenevano, ovviamente, conto della sopravvenuta sentenza della Corte n. 26 del 2007, e ribadendo la infondatezza delle censure prospettate dalla ricorrente, alla luce della configurabilità del nesso funzionale tra gli atti tipici della funzione parlamentare già citati nella memoria di costituzione e le dichiarazioni in oggetto. In proposito, si sottolinea che, quando la manifestazione di opinione extra moenia si inserisce in un c ontesto politico-parlamentare, ed è espressione di politica parlamentare, non si tratterebbe di una generica manifestazione di opinione politica, ma di una più puntuale e giuridicamente qualificata opinione, specificamente legata alla discussione parlamentare. Nella memoria si aggiunge che la paternità delle dichiarazioni rese intra ed extra moenia non avrebbe alcun rilievo al fine dell'attivazione della garanzia di cui all'art. 68, primo comma, della Costituzione. La logica della guarentigia costituzionale, che tutela la istituzione e non il singolo, suggerirebbe di agganciare il nesso funzionale all'intera attività parlamentare di tutti i componenti le Assemblee rappresentative. Tale conclusione troverebbe conferma nell'art. 67 della Costituzione, secondo il quale ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato: proprio perché non vi è vincolo di mandato, sarebbe la Nazione intera ad avere in ciascuno dei parlamentari rappresentazione e rappresentanza. Infine, nella imminenza della data fissata per la udienza pubblica, a seguito di rinvio a nuovo ruolo, la difesa della Camera dei deputati ha depositato altra memoria, con la quale ribadisce le proprie conclusioni, in particolare insistendo per la declaratoria di inammissibilità del conflitto, alla stregua della ritenuta mancanza, nell'atto introduttivo del giudizio, di una compiuta esposizione dei presupposti di fatto del conflitto; e, nel merito, per la infondatezza dello stesso, in considerazione del nesso funzionale tra le dichiarazioni rese extra moenia dal deputato di cui si tratta ed alcuni atti tipici del mandato parlamentare, nesso ritenuto tanto più evidente in consid erazione del ruolo di leader dell'opposizione rivestito dal deputato medesimo all'epoca cui risalgono le dichiarazioni in questione. Considerato in diritto 1. - La Corte d'appello di Roma, sezione quarta - nel corso del giudizio di appello promosso dal pubblico ministero avverso la sentenza emessa dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Roma, con la quale si dichiarava non luogo a procedere nei confronti del deputato Berlusconi - ha sollevato conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato in relazione alla deliberazione della Camera dei deputati, adottata nella seduta del 17 aprile 2002 (Doc. IV-quater, n. 7), con la quale è stato dichiarato che i fatti per i quali è in corso il predetto procedimento penale per il reato di diffamazione aggravata nei confronti di Carlo Caracciolo di Castagneto, in proprio e nella qualità di Presidente del consiglio di amministrazione del Gruppo editoriale l'Espresso s.p.a, di cui fa parte il quotidiano "La Repubblica", riguardano opinioni espresse dal parlamentare nell'esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione. 2. - Preliminarmente, deve essere confermata l'ordinanza n. 397 del 2004, con la quale questa Corte ha ritenuto l'esistenza della materia di un conflitto, la cui soluzione spetta alla sua competenza, per la sussistenza dei requisiti soggettivo ed oggettivo, impregiudicata ogni ulteriore decisione, anche in punto di ammissibilità. 3. - Il ricorso è inammissibile. 3.1. - L'autorità giudiziaria, la quale propone il conflitto di attribuzione, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, ha l'onere, per il principio di completezza ed autosufficienza del ricorso, di riportare le dichiarazioni addebitate al parlamentare in modo tale da consentire a questa Corte di raffrontarle con il contenuto di atti tipici della funzione (sentenza n. 271 del 2007). Questa Corte, in altre occasioni, ha evidenziato che la mancanza di tale puntuale riproduzione determina il difetto di un requisito essenziale (sentenze nn. 368 e 305 del 2007). E' pur vero che è stata ritenuta sufficiente, a tali fini, la riproduzione delle dichiarazioni del deputato quali risultanti dal capo di imputazione (sentenza nn. 97 e 28 del 2008 e nn. 291, 97 e 53 del 2007); peraltro, con riguardo al caso di specie, il capo di imputazione, riportato nell'atto introduttivo del giudizio, rinvia, per la descrizione dei fatti, a dichiarazioni che «qui si intendono integralmente riportate», senza che le stesse risultino dagli atti. Lo stesso capo di imputazione si limita, poi, a riportare solo una fra le varie affermazioni che la rimettente ritiene offensive della reputazione del querelante. La Corte ricorrente non ha, pertanto, fornito gli elementi per accertare la sussistenza o meno del nesso funzionale fra dichiarazioni rese extra moenia e attività parlamentare, limitandosi a prospettare una ipotesi di offensività in ordine alle dichiarazioni medesime, senza enunciarle, e rendendo, così, impossibile a questa Corte di svolgere il compito ad essa riservato, in sede di decisione del conflitto di attribuzione, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione. Le carenze descritte comportano la non autosufficienza dell'atto introduttivo del presente giudizio che si traduce, a norma degli artt. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), e 26 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, nel difetto di un requisito essenziale del ricorso, che deve, conseguentemente, essere dichiarato inammissibile. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato proposto dalla Corte di appello di Roma, quarta sezione penale, nei confronti della Camera dei deputati, con l'atto indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Alfio FINOCCHIARO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai Signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 155-quater, primo comma, del codice civile, introdotto dall'art. 1, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), e dell'art. 4 della stessa legge promossi con ordinanze del 22 febbraio 2007 dalla Corte d'appello di Bologna, dell'11 gennaio 2007 dal Tribunale di Firenze, del 15 maggio 2007 dal Tribunale di Ragusa e del 9 giugno 2007 dal Tribunale di Firenze rispettivamente iscritte ai nn. 569, 573, 787 e 818 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 34 e 48, prima serie speciale, dell'anno 2007 e n. 1, prima serie speciale, dell'anno 2008. udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro. Ritenuto in fatto 1. - La Corte d'appello di Bologna - nel corso del giudizio originato dal gravame proposto da A.G. avverso la sentenza con la quale il Tribunale ordinario di Bologna, dichiarata la cessazione degli effetti civili del matrimonio tra lo stesso e C. C., aveva affidato il figlio minore alla madre, assegnandole la casa familiare, ed aveva posto a carico del padre un contributo per il mantenimento del figlio, avendo rilevato che era emerso, già nel giudizio di primo grado, che l'appellata aveva intrapreso una convivenza, avente carattere di stabilità, con il suo nuovo partner - con o rdinanza emessa il 22 febbraio 2007 (reg. ord. n. 569 del 2007), ha sollevato, in riferimento all'art. 30 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 155-quater, primo comma, del codice civile, introdotto dall'art. 1, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), nella parte in cui prevede la revoca, con carattere di automatismo, dell'assegnazione della casa familiare in caso di convivenza more uxorio o di nuovo matrimonio dell'assegnatario, precludendo qualunque valutazione dell'interesse del minore. Il Collegio rimettente richiama, al riguardo, la giurisprudenza costituzionale, che, osserva, ha costantemente sottolineato come la predisposizione e conservazione dell'ambiente domestico, realizzabile mediante l'assegnazione della casa, sia funzionale allo sviluppo armonico della personalità dei figli (sentenze n. 454 del 1989, n. 166 del 1998, n. 125 del 1999, n. 394 del 2005). La norma censurata non sarebbe, dunque, coerente col rilievo sistematico centrale che, nell'ordinamento dei rapporti di filiazione, fondato sull'art. 30 della Costituzione, assume l'esigenza di protezione dell'interesse dei minori. 2. - Il Tribunale ordinario di Firenze, nel corso del procedimento ex art. 9 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), vertente tra S.A. e V.C., ed avente ad oggetto la richiesta di modifica delle condizioni di divorzio relative al regime di affidamento dei figli, alla entità della contribuzione e alla assegnazione della casa familiare, rilevato che la convenuta aveva contratto nuovo matrimonio e risiedeva col coniuge ed i figli da lui avuti nella casa familiare, ha sollevato, con ordinanza dell'11 gennaio 2007 (reg. ord. n. 573 del 2007), questione di legittimità costituzionale del predetto art. 155-quater, primo comma, cod. civ. in combinato disposto con l'art. 4 della legge n. 54 del 2006, nella parte in cui prevede, nel caso di divorzio, che il nuovo matrimonio contratto dal genitore affidatario o "domiciliatario" di prole minorenne o maggiorenne, ma non economicamente autosufficiente, comporti la revoca del diritto di godimento della casa familiare, per contrasto con gli artt. 3 e 29 della Costituzione. Rileva il giudice a quo che, nel vigore della normativa antecedente la riforma, la assegnazione della casa familiare era direttamente ancorata alla valutazione dei bisogni dei figli minori di cui si mirava, col provvedimento in questione, a salvaguardare una esigenza di stabilità compromessa dalla crisi familiare intercorsa tra i genitori. Anche la valutazione introdotta all'art. 6 della legge n. 898 del 1970, come modificato dall'art. 11 della legge 6 marzo 1987, n. 74, recante «Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio» («in ogni caso ai fini dell'assegnazione il giudice dovrà valutare le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione e favorire il coniuge più debole») in ordine alla situazione economica del coniuge più debole è stata interpretata dalla giurisprudenza di legittimità come necessariamente ricollegata alla presenza di figli della coppia, i cui bisogni dovevano ritenersi prevalenti sulla tutela del diritto di proprietà del genitore proprietario della abitazione (in comunione legale o in proprietà esclusiva). Pertanto, anche nell'ipotesi in cui l'immobile sia di proprietà comune dei coniugi, la concessione del beneficio in questione resta subordinata, rileva il Collegio rimettente, all'imprescindibile presupposto dell'affidamento dei figli minori o della convivenza con i figli maggiorenni ma economicamente non autosufficienti. Tale finalità, si osserva nella ordinanza di rimessione, permane nella disciplina dell'art. 155-quater, primo comma, cod. civ., il quale dispone che «il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli. Dell'assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori considerato l'eventuale titolo di proprietà». L'interesse che si persegue è quindi l'interesse del figlio al mantenimento dell'originario habitat familiare: interesse che cede, tuttavia, nella previsione legislativa, al diritto di proprietà, qualora il genitore assegnatario conviva more uxorio o celebri nuove nozze. Tale disposto crea quindi, secondo il giudice a quo, una irragionevole disparità di trattamento tra figli di genitori separati o divorziati, a seconda che il rispettivo genitore collocatario intraprenda o meno una stabile convivenza con un nuovo partner: il figlio di genitore separato o divorziato ha sempre il medesimo interesse al mantenimento della propria abitazione familiare, a prescindere dalle vicende successive e dalle scelte di vita del genitore col quale convive. D'altra parte, la limitazione al diritto di proprietà dell'altro genitore è pienamente attuata anche nel vigente assetto normativo, là dove è tutt'ora prevista la assegnazione della casa familiare al genitore domiciliatario (non convivente o non nuovamente coniugato) in attuazione della funzione sociale della proprietà privata (sancita dall'art. 42, secondo comma, Cost.). Alla luce delle argomentazioni che precedono, appare al Collegio rimettente irragionevole privilegiare il diritto di proprietà del genitore non domiciliatario di prole solo nel caso di nuovo matrimonio o nuova convivenza del genitore domiciliatario (senza tenere conto della portata pratica di tale disposizione, che imporrà subprocedimenti all'interno dei procedimenti di separazione o divorzio, che si vogliono rapidi per intuibili esigenze di certezza dei rapporti familiari), in ulteriore contrasto con l'art. 29 Cost. che riconosce la libertà di matrimonio, la quale potrebbe venire compressa da valutazioni relative alla perdita della abitazione familiare. Gli abusi, che sicuramente sono rinvenibili nella pratica, relativi al mantenimento della assegnazione là dove in concreto non ve ne sia la necessità per le più varie ragioni, potrebbero trovare adeguata soluzione - osserva il rimettente - nella previsione di un potere discrezionale del giudice della separazione o del divorzio, nel disporre la revoca della assegnazione, e non nella imposizione, attualmente disposta, di una automatica revoca conseguente alla oggettività di una convivenza. 3. - Lo stesso Tribunale ordinario di Firenze, nel corso del procedimento avente ad oggetto lo scioglimento del matrimonio dei coniugi B.N. e A.I., con le conseguenti determinazioni inerenti l'affidamento della figlia minore E., il mantenimento della stessa e della figlia maggiorenne A., non autonoma dal punto di vista economico, e l'assegnazione della casa coniugale in comproprietà tra le parti, con ordinanza del 9 giugno 2007 (reg. ord. n. 818 del 2007), emessa nel corso di un procedimento in cui, con ordinanza presidenziale anteriore all'entrata in vigore della legge n. 54 del 2006, era stato stabilito, tra l'altro, l'affidamento della figlia minore E. (quindicenne) alla madre e l'assegnazione a questa della casa coniugale, nella sua veste di genitore affidatario di figlio minore, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 155-quater, primo comma, cod. civ., in combinato disposto con l'art. 4 della legge n. 54 del 2006, nella parte in cui prevede, nel caso di divorzio, che la convivenza more uxorio instaurata nella casa familiare dal genitore affidatario o domiciliatario di prole minorenne o maggiorenne ma non economicamente autosufficiente, comporti la revoca del diritto di godimento della casa familiare, per contrasto con l'art. 3 della Costituzione. Il giudice a quo premette di non ritenere praticabile la via dell'interpretazione costituzionalmente orientata della norma, a fronte della chiarezza ed inequivocità della formulazione letterale, che non sembra lasciare spazio a valutazioni del giudice in ordine all'interesse dei figli; e reputa, invece, sussistenti i presupposti per sollevare questione di costituzionalità della predetta norma sulla base di argomentazioni analoghe a quelle già riferite con riguardo alla precedente ordinanza di rimessione dello stesso Tribunale ordinario (con esclusione del richiamo all'art. 29 Cost.). 4. - Il Tribunale ordinario di Ragusa, nel corso del procedimento di revisione ex art. 710 del codice di procedura civile, promosso da C.M. nei confronti della moglie separata per la revoca della assegnazione della casa coniugale in favore di quest'ultima - questa, prevista dalle condizioni della separazione consensuale di essi coniugi già omologata - per effetto della sua convivenza more uxorio con altro uomo ai sensi dell'art. 155-quater cod. civ., ha sollevato, con ordinanza del 15 maggio 2007 (reg. ord. n. 787 del 2007), questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 2, 3 e 30, primo comma, della Costituzione, della citata norma, nella parte in cu i prevede l'automatica decadenza dall'assegnazione della casa coniugale, anche in caso di coabitazione di figli maggiorenni non economicamente autonomi, nel caso in cui il coniuge assegnatario «conviva more uxorio». Il giudice a quo, premesso - analogamente a quanto ritenuto dal Tribunale ordinario di Firenze - che la questione non risulta superabile in via di interpretazione costituzionalmente orientata, perché una opzione ermeneutica che limiti l'ambito di operatività della previsione alla sola ipotesi di mancata convivenza di figli non autosufficienti sotto il profilo economico non sarebbe consentita né dal tenore testuale della norma né dallo spazio operativo assegnatole dal diritto vivente, sospetta che tale nuova previsione si ponga in contrasto con il principio di ragionevolezza e di parità di trattamento di cui all'art. 3 della Costituzione, perché la decadenza dall'assegnazione della casa coniug ale, prevista come una sorta di punizione del coniuge che prenda a convivere in essa more uxorio con altro partner o passi a nuove nozze, prescinde totalmente dall'interesse del figlio convivente con detto genitore a continuare ad usufruire dell'ambiente domestico; vale a dire da quel valore, di rango costituzionale (art. 30, primo comma, della Costituzione), che il giudice deve avere presente, secondo lo stesso dettato normativo, in via prioritaria per l'assegnazione della casa coniugale e che è stato determinante per la individuazione dell'ascendente affidatario, o collocatario, della prole stessa (se di minore età) o con cui il figlio maggiorenne non autosufficiente abbia liberamente scelto di coabitare. Inoltre, secondo il giudice rimettente, la norma censurata introdurrebbe una vistosa disparità di trattamento tra la prole convivente con un genitore assegnatario che non abbia contratto nuovo vincolo coniugale, né abbia instaurato rapporti di convivenza con altra persona, e quella di un genitore che abbia invece optato per una nuova unione (de facto o coniugale), finendo così per penalizzare, senza alcuna ragionevole giustificazione, soggetti del tutto estranei alle scelte di vita del genitore affidatario (o collocatario) o con cui hanno scelto di convivere. Infine, la norma in questione recherebbe vulnus al diritto inviolabile di libera autodeterminazione e allo sviluppo della persona umana di cui all'art. 2 della Costituzione, in quanto costituirebbe un ostacolo alla libertà di contrarre nuovo matrimonio o intraprendere una stabile unione, essendo il coniuge assegnatario posto di fronte all'alternativa di rinunciare all'esercizio di tale fondamentale diritto oppure di perdere la casa coniugale e di arrecare indirettamente al figlio convivente un pregiudizio ancor più grave. Considerato in diritto 1. - La Corte d'appello di Bologna (reg. ord. n. 569 del 2007) e i Tribunali di Firenze (reg. ord. nn. 573 e 818 del 2007) e di Ragusa (reg. ord. n. 787 del 2007) dubitano della legittimità costituzionale dell'art. 155-quater, primo comma, del codice civile, introdotto dall'art. 1, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), anche in combinato disposto con l'art. 4 della stessa legge, nella parte in cui prevede la revoca automatica dell'assegnazione della casa familiare nel caso in cui l'assegnata rio conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio, per violazione: a) dell'art. 30 della Costituzione, per la incoerenza con il rilievo sistematico centrale che nell'ordinamento dei rapporti di filiazione, fondato su detta norma costituzionale, assume l'esigenza di protezione dell'interesse dei minori (questione sollevata dalla Corte d'appello di Bologna); b) degli artt. 3 e 29 della Costituzione, per la irragionevole disparità di trattamento tra figli di genitori separati o divorziati a seconda che il rispettivo genitore, con il quale convivono, intraprenda una stabile convivenza con un nuovo partner, ovvero contragga un nuovo matrimonio, o meno; c) del principio del riconoscimento della libertà di matrimonio, che potrebbe venire compressa da valutazioni relative alla perdita della abitazione familiare (questione sollevata dal Tribunale ordinario di Firenze con ordinanza dell'11 gennaio 2007, r.o. n. 573 del 2007, e dallo stesso Tribunale ordinario, in riferimento al solo art. 3 Cost., con ordinanza del 9 giugno 2007, r.o. n. 818 del 2007); d) degli artt. 2, 3, e 30, primo comma, Cost., per la violazione del principio di parità di trattamento, in quanto la decadenza dall'assegnazione della casa coniugale, prevista come una sorta di punizione del coniuge che prenda a convivere in essa more uxorio con altro partner o passi a nuove nozze, prescinde totalmente dall'interesse del figlio convivente con detto genitore a continuare ad usufruire dell'ambiente domestico, e, cioè, da quel valore di rango costituzionale (art. 30, primo comma, Cost .) che, secondo quanto esplicitato dallo stesso legislatore, il giudice deve avere presente in via prioritaria nell'assegnazione della casa coniugale, e che è stato determinante per la individuazione dell'ascendente affidatario, o collocatario, della prole (se di minore età) o con cui il figlio maggiorenne non autosufficiente abbia liberamente scelto di coabitare; e) per la introduzione di una ingiustificata disparità di trattamento tra la prole convivente con un genitore assegnatario che non abbia contratto nuovo vincolo coniugale, né abbia instaurato rapporti di convivenza con altra persona, e quella di un genitore che abbia invece optato per una nuova unione (de facto o coniugale), finendo così per penalizzare, senza alcuna ragionevole giustificazione, soggetti del tutto estranei alle scelte di vita del genitore affidatario (o collocatario) o con cu i hanno scelto di convivere; e, infine, f) per contrasto con il diritto inviolabile di libera autodeterminazione e con lo sviluppo della persona umana di cui all'art. 2 della Costituzione, in quanto costituirebbe un ostacolo alla libertà di contrarre nuovo matrimonio o intraprendere una stabile unione, essendo il coniuge assegnatario posto di fronte all'alternativa di rinunciare all'esercizio di tale fondamentale diritto oppure di perdere la casa coniugale e di arrecare indirettamente al figlio convivente un pregiudizio ancor più grave (questione sollevata dal Tribunale ordinario di Ragusa con ordinanza del 15 maggio 2007, r.o. n. 787 del 2007). 2. - Poiché le varie ordinanze prospettano, sotto diversi aspetti, la incostituzionalità della medesima norma, va disposta la riunione dei giudizi perché gli stessi siano decisi con unica pronuncia. 3. - La questione non è fondata, nei sensi di cui in motivazione. 3.1. - In sede di scrutinio di costituzionalità, la dichiarazione di illegittimità di una norma è giustificata dalla constatazione che non ne è possibile una interpretazione conforme alla Costituzione, ma non dalla mera possibilità di attribuire ad essa un significato che contrasti con parametri costituzionali (ex plurimis: sentenze n. 379 del 2007 e n. 356 del 1996, ordinanza n. 87 del 2007). L'art. 155-quater cod. civ., introdotto dall'art. 1, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54, esordisce con l'affermazione solenne secondo la quale «il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell'interesse dei figli». Prosegue la norma codicistica, nella nuova formulazione, stabilendo che «dell'assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l'eventuale titolo di proprietà». Quindi, la norma prevede al cune ipotesi di cessazione dell'assegnazione, disponendo che «il diritto al godimento della casa familiare viene meno nel caso che l'assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio». Il sospetto di illegittimità costituzionale sottoposto alla Corte riguarda le ultime due ipotesi di cessazione dell'assegnazione, quella della convivenza more uxorio dell'assegnatario con altro soggetto, e quella del nuovo matrimonio contratto dall'assegnatario. In realtà, mentre i primi due casi di revoca sono collegati ad eventi che fanno presupporre il venir meno della esigenza abitativa, non così può dirsi per gli altri due, sui quali si incentrano le censure dei giudici remittenti e che si sostanziano, soprattutto, sulla critica alla operatività automatica della revoca, senza alcuna possibilità per il giudice di valutare la rispondenza della revoca all'interesse della prole.</ SPAN> L'esame della questione deve partire dalla considerazione delle finalità che governano l'assegnazione della casa familiare. Al riguardo, deve rilevarsi che, già secondo il diritto vivente formatosi nella vigenza dell'art. 155, quarto comma, cod. civ., quale sostituito dall'art. 36 della legge 19 maggio 1975, n. 151, l'assegnazione della casa coniugale era strettamente legata all'affidamento della prole. E tale principio è stato ribadito da questa Corte, che, con le sentenze n. 166 del 1998 e 394 del 2005, ha riconosciuto che detta assegnazione è strettamente funzionale all'interesse dei figli, specificando che gli obblighi di mantenimento ed educazione della prole, derivanti dalla qualità di genitore, trovano fondamento nell'art. 30 Cost., che si richiama alla responsabilità genitoriale. Il concetto di mantenimento, come evidenziato nella menzionata sentenza n. 166 del 1998, comprende in via primaria il soddisfacimento delle esigenze materiali, connesse inscindibilmente alla prestazione dei mezzi necessari per garantire un corretto sviluppo psicologico e fisico del figlio, tra le quali assume profonda rilevanza quella relativa alla predisposizione e conservazione dell'ambiente domestico, considerato quale centro di affetti, interessi e consuetudini di vita, che contribuisce in misura fondamentale alla formazione armonica della personalità della prole. Sotto tale profilo, l'obbligo di mantenimento si sostanzia, quindi, nell'assicurare ai figli la idoneità della dimora, intesa quale luogo di formazione e sviluppo della personalità psico-fisica degli stessi. Nel nuovo regime, scomparso il "criterio preferenziale" per l'assegnazione della casa familiare costituito dall'affidamento della prole - una scomparsa coerente con il superamento, in linea di principio, dell'affidamento monogenitoriale - l'attribuzione dell'alloggio viene espressamente condizionata all'interesse dei figli. è poi da ricordare che la giurisprudenza di merito e di legittimità è concorde nel ritenere, sulla base del tenore originario del testo codicistico, nonché dell'art. 6 della legge 1 dicembre 1970, n. 898 (Disciplina dei casi di scioglimento del matrimonio), come modificato dall'art. 11 della legge 6 marzo 1987, n. 74 (Nuove norme sulla disciplina dei casi di scioglimento di matrimonio), che, anche per l'assegnazione della casa familiare, vale il principio generale della modificabilità in ogni tempo del provvedimento per fatti sopravvenuti. Tuttavia tale intrinseca provvisorietà non incide sulla natura e sulla funzion e della misura, posta ad esclusiva tutela della prole, con la conseguenza che anche in sede di revisione resta imprescindibile il requisito dell'affidamento di figli minori o della convivenza con figli maggiorenni non autosufficienti (ex plurimis: Cass. n. 13736 del 2003), nonché quello dell'accertamento dell'interesse prioritario della prole. Da tale contesto normativo e giurisprudenziale emerge il rilievo che non solo l'assegnazione della casa familiare, ma anche la cessazione della stessa, è stata sempre subordinata, pur nel silenzio della legge, ad una valutazione, da parte del giudice, di rispondenza all'interesse della prole. Ne deriva che l'art. 155-quater cod. civ., ove interpretato, sulla base del dato letterale, nel senso che la convivenza more uxorio o il nuovo matrimonio dell'assegnatario della casa sono circostanze idonee, di per se stesse, a determinare la cessazione dell'assegnazione, non è coerente con i fini di tutela della prole, per i quale l'istituto è sorto. La coerenza della disciplina e la sua costituzionalità possono essere recuperate ove la normativa sia interpretata nel senso che l'assegnazione della casa coniugale non venga meno di diritto al verificarsi degli eventi di cui si tratta (instaurazione di una convivenza di fatto, nuovo matrimonio), ma che la decadenza dalla stessa sia subordinata ad un giudizio di conformità all'interesse del minore. Tale lettura non fa altro che evidenziare un principio in realtà già presente nell'ordinamento, e consente di attribuire alla norma censurata un contenuto conforme ai parametri costituzionali, come, del resto, già ritenuto da diversi giudici di merito e dalla prevalente dottrina. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell'art. 155-quater, primo comma, del codice civile, introdotto dall'art. 1, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), anche in combinato disposto con l'art. 4 della stessa legge, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 29 e 30 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Bologna, dal Tribunale di Firenze e dal Tribuna le di Ragusa, con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Alfio FINOCCHIARO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 495 del codice di procedura civile e dell'art. 2, comma 3-sexies, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, come sostituito dall'art. 1, comma 6, della legge 28 dicembre 2005, n. 263, e successivamente modificato dall'art. 39-quater del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 273, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 febbraio 2006, n. 51, promosso dal giudice dell'esecuzione del Tribunale di Roma nei giudizi riuniti di opposizione agli atti esecutivi instaurati dalla Assimobil di Assennato Maria Laura & c. s.a.s. contro la Capitalia s.p.a. ed altri, iscritta al n. 21 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio dell'11 giugno 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante. Ritenuto in fatto 1.-- Nel corso di un giudizio di opposizione agli atti esecutivi (in cui l'opponente aveva impugnato il provvedimento con il quale era stato dichiarato inammissibile un suo precedente ricorso, volto alla revoca dell'aggiudicazione per avere egli presentato istanza di conversione del pignoramento) il giudice dell'esecuzione del Tribunale di Roma ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 495 del codice di procedura civile e 2, comma 3-sexies, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, come sostituito dall'art. 1, comma 6, della legge 28 dicembre 2005, n. 263, e successivamente modificato dall'art. 39-quater del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 273, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 febbraio 2006, n. 51. Tali disposizioni sono censurate nella parte in cui, fissando - a partire dal 1° marzo 2006 - in un momento anteriore all'emissione dell'ordinanza di vendita la preclusione alla presentazione dell'istanza di conversione, non fanno salvo il diritto del debitore a fare affidamento sulla posizione giuridica acquisita nel previgente regime, secondo cui egli avrebbe potuto presentare detta istanza fino al giorno dell'udienza in cui si teneva la vendita. Nel giudizio a quo l'opponente aveva depositato istanza di conversione lo stesso giorno (12 maggio 2006) in cui il notaio delegato aveva redatto il verbale di vendita . Precisa il remittente che il nuovo testo dell'art. 495 cod. proc. civ. consente la conversione del pignoramento soltanto prima che sia disposta la vendita e che il tenore letterale dettato nel regime transitorio - secondo cui «questa disposizione entra in vigore il 1° marzo 2006 e si applica anche alle procedure esecutive pendenti a tale data di entrata in vigore» - non lascia dubbi interpretativi sulla scelta retroattiva operata dal legislatore della riforma, tanto è vero che è fatta salva l'applicazione delle norme precedentemente in vigore solo per la fase relativa alla vendita, laddove già sia stata emanata la relativa ordinanza; è così, infatti, che testualmente ha dichiarato il legislatore «...nel prevedere che, quando è già stata ordinata la vendita, l a stessa ha luogo con l'osservanza delle norme precedentemente in vigore». La chiara espressione «la stessa», contenuta nella citata disposizione, non potrebbe che rivolgersi alla fase della sola vendita, vale a dire allo svolgimento di ognuna delle attività che conducono alla definizione del procedimento di vendita che avviene con l'emissione del decreto di trasferimento, con preclusione dell'applicazione della disciplina previgente ad ogni diversa attività processuale delle procedure pendenti. Osserva quindi il giudice a quo (il quale ricorda che il processo esecutivo è strutturato non come una sequenza di atti preordinati ad un unico provvedimento finale, secondo il modello del processo ordinario di cognizione, ma come una serie autonoma di atti ordinati a successivi e distinti provvedimenti) come l'ultrattività della disciplina previgente residui soltanto per la fase della vendita già disposta, mentre il nuovo regime risulta applicabile a tutte le procedure per le quali non sia stata emessa l'ordinanza di vendita ovvero, anche quando essa è stata emessa, per tutte le fasi anteriori alla vendita stessa. Ne consegue che, ogni volta che l'istanza di conversione venga proposta dal debitore esecutato in una procedura in cui la ve ndita sia già stata disposta, l'istanza medesima deve essere dichiarata inammissibile e ciò anche se l'immobile non sia stato venduto a causa delle vicende processuali concrete. Ciò appare al Tribunale lesivo dell'affidamento del debitore circa le posizioni giuridiche processuali acquisite, secondo cui egli avrebbe potuto presentare domanda di conversione del pignoramento, e così recuperare l'immobile, fino al giorno dell'udienza in cui si teneva la vendita. Infatti, secondo il previgente testo dell'art. 495 cod. proc. civ., il debitore poteva chiedere la conversione «in qualsiasi momento anteriore alla vendita», dove per vendita si intendeva l'udienza di vendita e non il provvedimento che la disponeva, anche sulla scorta dell'orientamento della Corte di cassazione. A parere del Tribunale, la mera applicazione della disciplina nuova alle procedure pendenti potrebbe risultare in conflitto con posizioni legittimamente acquisite dalle parti in virtù del vecchio regime, così dando luogo a problemi di legittimità costituzionale con riferimento agli artt. 3 e 24 Cost. Al legislatore della riforma il remittente riconosce ampia discrezionalità nel dettare un regime transitorio, purché esso si conformi ai fondamentali principi costituzionali sulla tutela dei diritti. Nel caso specifico, però, la distinzione tra le fasi soggette ad ultrattività della disciplina abrogata e quelle soggette a retroattività della disciplina di nuova introduzione non terrebbe conto dell'esigenza di ce rtezza che si pone per il cittadino non solo con riferimento al contenuto di una legge ma anche riguardo alla normativa processuale, dovendo egli conoscere, nella dinamica dei suoi diritti processuali, quali principi sono applicabili a tutela delle sue aspettative. Secondo il remittente - che richiama la giurisprudenza di questa Corte in tema di retroattività della legge - il cittadino ha il diritto alla ragionevole aspettativa che la corretta applicazione della norma, che ha consacrato una determinata modalità di difesa processuale, non verrà riconsiderata a posteriori a causa del cambiamento della legge che regola quell'atto e quella attività processuale: pur non essendo la regola dell'efficacia irretroattiva della legge intangibile per il legislatore - che può dettare apposita normativa transitoria in ragione delle sue insindacabili scelte politiche - tuttavia questi dovrà pur sempre creare tra i vari atti processuali un rapporto tale da consentire il rispetto dell'unità, de lla coerenza interna del sistema processuale nel rispetto dei diritti costituzionali di azione e di difesa. 2.-- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la non fondatezza della questione, preliminarmente osservando come la disciplina previgente, nel disporre che l'istanza di conversione potesse essere presentata «in qualsiasi momento anteriore alla vendita», avesse dato luogo a diverse discussioni interpretative che avevano trovato, infine, un punto di arrivo in quella giurisprudenza che individuava l'ultimo momento utile nell'aggiudicazione definitiva del bene. Interpretazione, questa, poco sollecita nei confronti della situazione dell'aggiudicatario alla cui posizione conferiva una connotazione di particolare precarietà, in quanto esposta al rischio della sospensione dell'emissione del prov vedimento di trasferimento del bene proprio in ragione di quegli eventi processuali indicati dal Tribunale rimettente (rinvio dell'udienza di vendita, differimento della vendita a causa dell'asta andata deserta ecc.). Con la modifica in esame, dunque, si conferisce certezza e stabilità al momento temporale entro il quale il debitore può presentare l'istanza di conversione del pignoramento, identificandolo con il provvedimento attraverso il quale il giudice dell'esecuzione, sentite le parti, dispone la vendita o l'assegnazione, autorizzando altresì la liberazione delle cose pignorate. La disposizione risponde perciò pienamente, secondo l'interveniente, alla ratio del processo esecutivo di attuare, con celerità e certezza, la pretesa del creditore ed è, d'altra parte, bilanciata, dal punto di vista dell'interesse del debitore a presentare istanza di conversione del pignoramento, dall'ulteriore modifica introdotta dalla novella del codice d i procedura civile sempre con riferimento all'art. 495 con cui, secondo la nuova formulazione del quarto comma, il termine per la rateizzazione delle somme versate dal debitore in sostituzione del bene pignorato è raddoppiato dai nove mesi di cui alla originaria formulazione agli attuali diciotto. Premesso che la Costituzione non impone un modello vincolante di processo, l'Avvocatura ricorda, con riferimento alla emanazione di norme transitorie volte a segnare il passaggio da un sistema processuale ad un altro, come sia stata più volte da questa Corte affermata la discrezionalità del legislatore, in ragione dei fini che intende perseguire, nel regolare il passaggio da una vecchia ad una nuova disciplina. Inoltre la doglianza, nei termini in cui è stata formulata dal remittente, potrebbe riguardare, secondo l'Avvocatura, tutte le norme di diritto transitorio che accompagnano il passaggio da un ordinamento processuale ad un altro, nella misura in cui dalle stesse discenda l'applicazione per un certo lasso di tem po di un regime processuale differenziato, allorché il legislatore - nell'ambito di un giudizio pendente alla data di entrata in vigore della nuova disciplina normativa - disponga che certe situazioni rimangono disciplinate dalle disposizioni previgenti ed altre possano già seguire la disciplina sopravvenuta. Con particolare riferimento alla parte della disposizione transitoria in esame che dispone l'ultrattività della disciplina anteriore alla novella (per la sola fase attinente alla vendita), la stessa si tradurrebbe in una sostanziale applicazione della regola generale secondo cui le disposizioni processuali rispondono al principio del tempus regit actum: disposta la vendita da parte del giudice prima dell'entrata in vigore della riforma in virtù del citato principio, non potrebbero che applicarsi le regole vigenti nel momento in cui la vendita è stata ordinata, l'effetto di tale decisione del giudice dell'esecuzione essendo quello di aprire una nuova e specifica fase del processo esecutivo (conformato in una serie di fasi, come sottolineato nell a stessa ordinanza di rimessione). In particolare, con l'ordinanza che dispone la vendita, si apre una fase subprocedimentale che, in base al principio menzionato, non può che essere regolata dalle norme vigenti al momento in cui detta fase sia stata dichiarata aperta. La prospettata violazione dell'art. 24 Cost. sarebbe infine esclusa ove si consideri che tale precetto non impone affatto - come chiarito da questa Corte in molteplici occasioni - che il cittadino possa conseguire la tutela giurisdizionale sempre nello stesso modo e con i medesimi effetti, purché non vengano imposti oneri o prescritte modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l'esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell'attività processuale. Del resto, le garanzie proprie delle parti del giudizio di esecuzione non sarebbero comparabili con quelle proprie del giudizio di cognizione. Considerato in diritto 1.-- Questa Corte è chiamata dal Tribunale di Roma, sezione delle esecuzioni immobiliari, a scrutinare, con riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, la legittimità costituzionale degli artt. 495 cod. proc. civ. e 2, comma 3-sexies, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, come sostituito dall'art. 1, comma 6, della legge 28 dicembre 2005, n. 263, e successivamente modificato dall'art. 39-quater del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 273, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 febbraio 2006, n. 51. Secondo il remittente le suddette disposizioni sono illegittime anche per violazione «dei principi costituzionali impliciti della ragionevolezza delle statuizioni legislative e dell'affidamento del soggetto processuale all'azione secondo la legge processuale vigente, nella parte in cui le censurate disposizioni non fanno salvo il diritto del debitore a fare affidamento sulla posizione giuridica processualmente acquisita secondo cui egli poteva presentare domanda di conversione del pignoramento, e così recuperare l'immobile, fino al giorno dell'udienza in cui si teneva la vendita». Il remittente espone che davanti a lui pende un procedimento esecutivo immobiliare nel corso del quale, in data 12 maggio 2006, il notaio delegato ha proceduto alla vendita dell'immobile pignorato e alla aggiudicazione provvisoria e la debitrice esecutata ha presentato istanza di conversione del pignoramento; che il 15 maggio 2006 il giudice ha dichiarato l'inmamissibilità di tale istanza; che la debitrice ha impugnato il 16 maggio l'aggiudicazione provvisoria e il 18 maggio il provvedimento dichiarativo dell'inammissibilità dell'istanza di conversione del pignoramento. Nell'ordinanza di rimessione si premette che il testo originario dell'art. 495 cod. proc. civ. consentiva al debitore assoggettato ad esecuzione di presentare l'istanza di conversione del pignoramento «in qualsiasi momento anteriore alla vendita», e che tale espressione era stata costantemente interpretata nel senso che neppure l'aggiudicazione provvisoria avesse effetti preclusivi. Si premette, altresì, che, secondo le norme censurate, l'istanza di conversione può essere presentata fino a che non sia «disposta la vendita o l'aggiudicazione a norma degli artt. 530, 552 e 569 cod. proc. civ.» e che esse, entrate in vigore il 1° marzo 2006, per espressa disposizione si applicano alla procedure esecutive in corso, con la precisazione che: «quando, tuttavia, è già stata ordinata la v endita, la stessa ha luogo con l'osservanza delle norme precedentemente in vigore». Siffatta ultima disposizione concerne soltanto le modalità di svolgimento della procedura di vendita, di per sé considerata, e non anche la fissazione del termine entro il quale può essere proposta l'istanza di conversione anche nell'ipotesi - implicitamente presupposta e pacificamente ricorrente nel caso in esame - di vendita disposta prima dell'entrata in vigore delle modifiche normative. Ritenuta, sulla base delle considerazioni e dei fatti esposti, la rilevanza della questione, il Tribunale remittente ne argomenta la non manifesta infondatezza, sostenendo che la discrezionalità che spetta al legislatore, in specie nel regolare il trapasso da un regime processuale ad un altro e nel dettare quindi le norme transitorie che ritiene opportune, non può essere mai esercitata in modo irragionevole e tale da compromettere l'affidamento delle parti nel rispetto delle posizioni legittimamente acquisite. Con specifico riferimento alla questione sollevata, il remittente afferma che il legislatore avrebbe dovuto, nelle ipotesi di procedure esecutive nelle quali la vendita era stata già disposta, come in quella davanti a lui pendente, stabilire l'applicabilità a tutti gli effe tti della previgente disciplina e non limitarla alle mere modalità dello svolgimento della vendita. Ciò per il principio secondo cui la validità e l'efficacia degli atti processuali devono essere stabilite alla stregua della legge vigente al momento del loro compimento. Nella specie, l'atto idoneo a identificare il regolamento delle facoltà delle parti era il provvedimento di disposizione della vendita. Intervenuto questo, la parte legittimamente poteva elaborare la propria condotta processuale secondo la originaria disciplina, che consentiva la conversione del pignoramento anche dopo l'aggiudicazione provvisoria. Si verificherebbe, quindi, una disparità di trattamento tra debitori esecutati in procedure in cui la vendita non era stata ancora disposta anteriormente all'entrata in vigore della nuova normativa e debitori assoggettati ad esecuzione nella quale il medesimo provvedimento era stato emesso precedentemente. 2.-- La motivazione sulla rilevanza della questione non è implausibile, sicché l'ammissibilità di questa non è dubbia. Nel merito, le argomentazioni del remittente sono da condividere soltanto per quanto concerne il richiamo al principio generale il quale esige che il passaggio da un previgente ad un nuovo regime processuale non sia regolato da norme manifestamente irragionevoli e lesive dell'affidamento nella tutela delle posizioni legittimamente acquisite, ma non con riguardo all'applicazione dei detti principi alla questione in esame. Ai fini della risoluzione della questione in scrutinio, non è il provvedimento che dispone la vendita dei beni pignorati l'atto con riguardo al quale va identificata la normativa applicabile nel passaggio dal previgente al nuovo regime processuale, secondo il principio tempus regit actum, bensì l'istanza di conversione del pignoramento. La tesi del remittente - secondo la quale, una volta disposta la vendita, il debitore poteva fare legittimo affidamento sul fatto che i tempi e le modalità da rispettare nell'esercitare il diritto alla conversione del pignoramento sarebbero rimasti quelli stabiliti dalla previgente disciplina e non dalla nuova - non ha un condivisibile fondamento. Il collegamento che la normativa stabilisce tra la fase cui è pervenuta la procedura esecutiva e la facoltà accordata al debitore di chiedere la conversione del pignoramento istituisce una preclusione all'esercizio di quest'ultima, i cui termini possono liberamente essere modificati dal legislatore, con il solo limite della non manifesta irragionevolezza della disciplina dettata e, quindi, della sua idoneità a non pregiudicare o graveme nte comprimere posizioni soggettive preesistenti. In tale valutazione si deve tener conto non soltanto del contenuto della nuova normativa, ma anche delle modalità e dei tempi della sua introduzione, riferiti all'atto processuale di cui si tratta, e cioè all'istanza di conversione del pignoramento e non alla vendita, come vorrebbe il remittente. Quest'ultima, infatti, nei vari momenti in cui la relativa procedura si svolge, ai fini che qui interessano, ha soltanto la funzione di fornire al legislatore i termini delle possibili opzioni riguardo alla suddetta preclusione. Tutto ciò premesso, si rileva che, nel caso in esame, la modifica, che ha anticipato al momento in cui la vendita viene disposta la preclusione per l'istanza di conversione del pignoramento rispetto alla previgente disciplina, è stata introdotta con l'art. 2, comma 3, del decreto-legge n. 35 del 2005, convertito dalla legge n. 80 del 2005, e la sua entrata in vigore era differita alla scadenza di centoventi giorni dalla pubblicazione della legge di conversione nella Gazzetta Ufficiale, avvenuta il 14 maggio 2005. Successivamente, la data di entrata in vigore è stata ulteriormente differita al 15 novembre 2005 (art. 8 del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115) e, poi, con la legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168, al 1° gennaio 2006, scadenza mantenuta nell'impugnato art. 1, comma 6, della legge n. 263 del 2005 e, infine, prorogata al 1° marzo 2006 dall'art. 39-quater del decreto-legge n. 273 del 2005, convertito dalla legge n. 51 del 2006). Da quanto esposto emerge che i debitori assoggettati a procedure esecutive, nelle quali la vendita era stata disposta prima della modifica legislativa, già dalla pubblicazione del primo provvedimento erano consapevoli di avere ancora centoventi giorni per fruire dell'allora vigente regime normativo, termine che poi, per i differimenti dell'entrata in vigore della nuova normativa, ha superato i nove mesi. Non vi è stata, quindi, alcuna compressione di posizioni soggettive processuali acquisite; né varrebbe obiettare che soltanto l'art. 1, comma 6, della legge n. 263 del 2005 contiene l'espressa previsione dell'applicazione della novella processuale alle procedure esecutive in corso. Con tale previsione, infatti, si è reso esplicito ci&o grave; che era già conseguenza dei principi generali in tema di passaggio dall'una ad altra disciplina processuale per quanto non regolato da disposizioni transitorie. Anche volendo ammettere che soltanto con il citato ultimo provvedimento del dicembre 2005 i debitori assoggettati a procedura esecutiva siano stati resi definitivamente edotti dell'applicabilità ad essi della nuova normativa, è innegabile che costoro abbiano pur sempre potuto disporre di un termine di circa due mesi, tale da non incidere gravemente sulla facoltà di presentare l'istanza di conversione del pignoramento (del resto proponibile subito dopo il pignoramento stesso). In realtà, la tesi del remittente si basa sul convincimento che, una volta che una procedura sia iniziata, le decadenze e le preclusioni processuali non possano che essere regolate dalla disciplina vigente al momento della sua instaurazione. Si tratta, però, di una tesi infondata alla stregua delle osservazioni svolte, costituente quindi una mera petizione di principio. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 495 del codice di procedura civile e dell'art. 2, comma 3-sexies, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80, come sostituito dall'art. 1, comma 6, della legge 28 dicembre 2005, n. 263, e successivamente modificato dall'art. 39-quater del decreto-legge 30 dicembre 2005, n. 273, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 febbraio 2006, n. 51, sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale di Roma con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 701 e 704 del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 12 luglio 2007 dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di V. G., iscritta al n. 772 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 46, prima serie speciale, dell'anno 2007. Udito nella camera di consiglio dell'11 giugno 2008 il Giudice relatore Maria Rita Saulle. Ritenuto in fatto 1. - La Corte di cassazione, con ordinanza del 12 luglio 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 25, 27, 31 e 32 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 701 e 704 del codice di procedura penale, nella parte in cui at tribuiscono «alla Corte di appello, e non alla "Sezione di Corte di Appello per i minorenni", la competenza a decidere sulla estradizione di soggetti minorenni all'epoca dei fatti per i quali l'estradizione è richiesta». Il giudizio principale ha ad oggetto l'impugnazione proposta da V. G. avverso la sentenza della Corte di appello di Firenze che ha accolto la richiesta di estradizione avanzata nei suoi confronti dall'autorità romena per l'esecuzione di sentenze del Tribunale di Iasi per i reati di danneggiamento e furto aggravato. La Corte rimettente, in punto di fatto, rileva che il ricorrente, tra i motivi del ricorso, ha dedotto la violazione dell'art. 606, comma 1, lettere b) e c), cod. proc. pen., ritenendo competente a decidere sulla richiesta di estradizione la sezione di Corte di appello per i minorenni, e non la Corte di appello, e ciò sul rilievo che egli, al momento della commissione dei fatti oggetto della suddetta richiesta, non aveva ancora compiuto il diciottesimo anno di età. Il giudice a quo, infine, riporta la circostanza secondo la quale, a parere dello stesso ricorrente, la richiesta estradizione sarebbe in con trasto con gli artt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma, della Costituzione in quanto non esiste in Romania un tribunale per i minorenni e la condizione dei minori sottoposti a procedimento penale non gode delle stesse tutele previste nel resto di Europa. Illustrati i motivi del ricorso, la Corte rimettente osserva che, in conformità a quanto disposto dagli artt. 701 e 704 cod. proc. pen., la decisione in tema di estradizione di V. G. è stata adottata dalla Corte di appello di Firenze, e ciò sebbene la stessa Corte di cassazione, abbia affermato che, con la sentenza n. 470 del 1983, in casi come quello in esame, la competenza a deliberare sulla domanda di estradizione appartiene alla sezione minorenni della Corte di appello. Il giudice a quo osserva che, nonostante tale isolata decisione (avvenuta peraltro nel periodo di vigenza del codice di procedura penale del 1930), le norme dell'attuale codice di procedura penale e il d.P.R. 22 settembre 1988, n. 448 (che reca disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni), non consentono di desumere in via interpretativa la competenza del giudice minorile, né di ritenere applicabili le disposizioni del citato d.P.R. alla procedura di estradizione nei confronti di soggetti minorenni all'epoca dei fatti per i quali essa è richiesta. Infatti, sempre secondo il rimettente, le norme del codice di procedura penale del 1988 - coeve alle norme sul processo penale a carico di imputati minorenni - assegnerebbero la competenza a decidere sulla estradizione alla Corte di appello, senza menzionare la sezione per i minorenni, e senza richiamare le disposizioni dettate in tema di processo penale riguardanti imputati minorenni, di talché, in conformità di quanto sancito dagli artt. 701 e 704 cod. proc. pen., «è la Corte di appello ad adottare tutte le decisioni in materia di estradizione senza alcuna distinzione tra imputati adulti o minorenni all'epoca dei fatti per i quali l'estradizione è richiesta». Il rimettente osserva poi che, a fronte della interpretazione sopra riportata, la giurisprudenza di legittimità ha sempre attribuito particolare tutela ai minori, negandone l'estradizione sia nelle ipotesi in cui l'ordinamento dello Stato richiedente prevedeva che il minorenne fosse giudicato come un adulto e che, pertanto, la pena fosse eseguita negli ordinari istituti per adulti, sia in presenza di una legislazione dello Stato richiedente che non assicurava, sul piano processuale e sostanziale, un trattamento differenziato e mitigato rispetto a quello riservato all'adulto. In punto di rilevanza, il giudice a quo sottolinea che dalla soluzione della sollevata questione «dipende la decisione di questa Corte sull'eccezione di incompetenza per materia della Corte di appello fiorentina sollevata dal ricorrente e l'adozione o meno di una pronuncia di annullamento della sentenza impugnata per ragioni attinenti alla competenza». Quanto alla non manifesta infondatezza, la Corte di cassazione osserva che la giurisprudenza della Corte costituzionale, a partire dalla sentenza n. 222 del 1983 (che dichiarò l'illegittimità costituzionale dell'art. 9 del r.d.l. n. 1404 del 1934, nella parte in cui prevedeva la competenza del tribunale minorile per tutti i procedimenti penali per reati commessi da minori di anni diciotto, salvo che nel procedimento vi fossero coimputati maggiori di anni diciotto, ha costantemente considerato le norme sulla competenza del giudice minorile e le disposizioni processuali applicabili nel processo penale a carico di imputati minorenni come norme imprescindibili, ai fini della attuazione dei fondamentali principi costituzionali di eguag lianza e di riconoscimento e garanzia dei diritti della persona. Il rimettente ritiene, pertanto, che le norme denunciate violino il principio di eguaglianza, sancito dall'art. 3 della Costituzione, e gli altri principi di cui agli artt. 25 e 27 della stessa, poiché − a differenza di quanto avviene nell'area della giurisdizione penale minorile − esse equiparano ingiustificatamente, nell'ambito del procedimento di estradizione, gli adulti ai minorenni, in tal modo sottraendo questi ultimi alle valutazioni di organi giudiziari che, in ragione della loro composizione (magistrati dotati di specifica attitudine preparazione ed esperienza ed «esperti»), sono particolarmente idonei ad effettuare accertamenti e ad adottare decisioni che facciano specifica attenzione alle modalità di espiazione della pena nel Paese richiedente ed al profilo delle sue fin alità rieducative. Inoltre, le disposizioni censurate confliggerebbero anche con gli artt. 2, 31 e 32 della Costituzione, in quanto la sezione di Corte di appello per i minorenni appare l'organo giurisdizionale realmente adeguato alle peculiari esigenze di garanzia del minorenne, dovendo la «protezione della gioventù e la salvaguardia della salute psicofisica dei minori» comunque prevalere sulla competenza attribuita dalle norme censurate alla Corte di appello. A sostegno di tale impostazione, la Corte di cassazione osserva che le norme del codice di procedura penale e quelle internazionali in tema di estradizione fanno costantemente riferimento alla garanzia dei diritti fondamentali della «persona» e quindi sembrano esigere «che a decidere sia il giudice minorile che nel nostro ordinamento è il giudice naturale della persona minorenne». Analoghe considerazioni, a parere del rimettente, valgono in ordine alle speciali regole processuali dettate per il processo minorile, che appaiono come il naturale quadro di riferimento nell'opera di interpretazione e di applicazione tanto delle disposizioni codicistiche quanto delle norme convenzionali in tema di estradizione (si pensi, ad esempio, alla possibile incidenza dell'istituto della irrilevanza del fatto sulla fondamentale regola estradizionale della doppia incriminazione). Del resto la specificità della posizione del minore, anche sotto il profilo delle procedure di consegna ad altri Stati, emergerebbe dalla recente legge 22 aprile 2005, n. 69, che, all'art. 18, lettera i), statuisce il «rifiuto della consegna» in tutta una serie di ipotesi rigu ardanti i minori, stabilendo che la consegna deve senz'altro essere rifiutata «se la persona oggetto del mandato di arresto europeo era minore di anni 14 al momento della commissione del reato» e subordinando a condizioni restrittive la consegna della persona minore degli anni 18 al momento dei fatti per i quali è stato emesso il mandato di arresto europeo. Considerato in diritto 1. - La Corte di cassazione, dubita, in riferimento agli artt. 2, 3, 25, 27, 31 e 32 della Costituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 701 e 704 del codice di procedura penale, nella parte in cui attribuiscono «alla Corte di Appello, e non alla "Sezione di Corte di Appello per i minorenni" la competenza a decidere sul la estradizione di soggetti minorenni all'epoca dei fatti per i quali l'estradizione è richiesta». 1.1 - La Corte rimettente ritiene che la mancata previsione, da parte delle norme censurate, della competenza della sezione di Corte di appello per i minorenni a decidere sulla domanda di estradizione concernente un imputato che, al momento della commissione del fatto, non aveva ancora compiuto il diciottesimo anno di età, violerebbe i parametri costituzionali evocati, poiché solo l'attribuzione del relativo procedimento al giudice minorile garantirebbe, stante la specifica preparazione di quest'ultimo, la piena tutela dei diritti fondamentali del minore. 2. - La questione non è fondata, in ragione della erroneità del presupposto interpretativo. Con la legge 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l'emanazione del nuovo codice di procedura penale), è stata conferita la delega al Governo ad emanare nuove norme in ambito processuale penale (art. 1) e a «disciplinare il processo a carico di imputati minorenni al momento della commissione del reato secondo i principi generali del nuovo processo penale, con le modificazioni ed integrazioni imposte dalle particolari condizioni psicologiche del minore, dalla sua maturità e dalle esigenze della sua educazione» (art. 3). In attuazione della suddetta delega è stato emanato il d.P.R. 22 settembre 1988, n. 449 (Approvazione delle norme per l'adeguamento dell'ordinamento giudiziario al nuovo processo penale ed a quello a carico degli imputati minorenni). L'art. 18 del citato d.P.R., modificando l'art. 58 del r.d. 30 gennaio 1941, n. 12 (Ordinamento giudiziario), nel disciplinare le funzioni della Corte di appello prevede che, nell'ambito della stessa, la sezione per i minorenni «giudica sulle impugnazioni dei provvedimenti del tribunale per i minorenni. Ad essa sono altresì demandate le altre funzioni della corte di appello previste dal codice di procedura penale, nei procedimenti a carico di imputati minorenni». Con l'attribuzione alla Corte di appello, sezione per i minorenni, di tutte le competenze di secondo grado nei procedimenti a carico di imputati minorenni, il legislatore ha ribadito la preminenza, nell'ambito del procedimento penale, dell'interesse del minore, il quale trova adeguata tutela proprio nella particolare composizione del giudice specializzato (magistrati ed esperti). È, infatti, grazie alle competenze scientifiche dei soggetti che compongono il collegio giudicante che viene svolta una corretta valutazione delle particolari situazioni dei minori, la cui evoluzione psicologica, non ancora giunta a maturazione, richiede l'adozione di particolari trattamenti penali che consentano il loro completo recupero, ponendosi, quest'ultimo, quale obiettivo primario, cui tende l'intero sistema penale minorile. Più in generale, la competenza attribuita alla Corte di appello, sezione per i minorenni, dall'art. 18, da un lato, soddisfa il precetto costituzionale di «protezione della gioventù» che trova fondamento nell'ultimo comma dell'art. 31 della Costituzione; dall'altro lato, rispetta i principi internazionali posti a tutela dei minori. Con riferimento a tale ultimo aspetto assume rilievo l'art. 14, par. 4, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, aperto alla firma a New York il 19 dicembre 1966, ratificato dall'Italia il 25 dicembre 1978 e reso esecutivo con la legge 25 ottobre 1977, n. 881, il quale sancisce che la procedura applicabile ai minorenni deve tener conto della loro età e dell'interesse a promuovere la loro riabilitazione, nonché gli artt. 3 e 40 della Convenzione sui diritti del fanciullo, ratificata da quasi tutti gli Stati del mondo e, quindi, resa esecutiva con la legge 27 maggio 1991, n. 176, i quali pongono come preminente l'interesse del minore. In ragione della generale previsione contenuta nell'art. 18 citato, le disposizioni censurate, nel riferirsi esplicitamente alla Corte di appello quale organo competente in materia di estradizione, devono essere interpretate - come del resto già fatto dall'autorità rimettente con la sentenza 21005/2008 - nel senso che, se il relativo procedimento riguarda un minore, la competenza di decidere è devoluta alla relativa sezione per i minorenni. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 701 e 704 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 25, 27, 31 e 32 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Maria Rita SAULLE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio per conflitto di attribuzione tra enti sorto a seguito del regolamento della Regione Marche del 15 novembre 2007, n. 4, recante la disciplina delle precedenze tra le cariche pubbliche nelle cerimonie a carattere locale, promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il 30 gennaio 2008, depositato in cancelleria il 5 febbraio 2008 ed iscritto al n. 2 del registro conflitti tra enti 2008. Visto l'atto di costituzione della Regione Marche; udito nell'udienza pubblica del 24 giugno 2008 il Giudice relatore Maria Rita Saulle; udito l'avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Stefano Grassi per la Regione Marche. Ritenuto in fatto 1. - Con ricorso notificato il 30 gennaio 2008 e depositato il successivo 5 febbraio, il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti della Regione Marche, in relazione al regolamento regionale 15 novembre 2007, recante la disciplina delle precedenze tra le cariche pubbliche nelle cerimonie a carattere locale, per contrasto con gli artt. 117, secondo comma, lettere a), c), f), g), p), e 118 de lla Costituzione, nonché con il principio di leale collaborazione. Il ricorrente chiede che la Corte dichiari che spetta «esclusivamente» allo Stato stabilire l'ordine delle precedenze tra le cariche pubbliche e conseguentemente che annulli il cennato regolamento regionale. Premette il ricorrente che «la determinazione dell'ordine delle precedenze tra le varie cariche pubbliche di qualunque livello» costituisce «una delle più antiche e tradizionali prerogative dello Stato», la cui disciplina è contenuta nel decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 14 aprile 2006. La difesa erariale, dopo aver ricordato che ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera a), della Costituzione, la disciplina delle relazioni internazionali e diplomatiche è di competenza esclusiva dello Stato, ritiene che la Regione Marche non possa disciplinare, con regolamento o con legge regionale, «la posizione protocollare delle cariche straniere e delle rappresentanze diplomatiche», in quanto l'intervento regionale incide «sugli indirizzi di politica estera e nelle relazioni internazionali e diplomatiche» e non consente al Governo «di assicurare l'uniformità di trattamento nel territorio nazionale delle autorità estere in visita o ospiti». Il regolamento impugnato, ad avviso del ricorrente, si porrebbe, altresì, in contrasto con l'art. 117, secondo comma, lettera c), della Costituzione, poiché individuerebbe «una posizione protocollare distinta da quella definita dal Governo per le cariche ecclesiastiche e per le altre figure religiose e del culto». Infine, l'atto impugnato, sempre secondo lo stesso ricorrente, sarebbe in contrasto con l'art. 117, secondo comma, lettere f), g) e p), della Costituzione, in quanto «effettua unilateralmente una parificazione tra Prefetti, Questori, Presidente della Corte d'Appello e Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte d'Appello», nonché ridisegna «la definizione protocollare data dal [.] D.P.C.M del 14 aprile 2006 alle cariche maggiormente rappresentative della Repubblica e delle Autonomie territoriali e locali». In particolare, ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, il regolamento «antepone [. ] il Sindaco in sede ai Ministri, pone sullo stesso piano Vice Ministri e Sottosegretari di Stato con Assessori regionali, equipara i parlamentari nazionali ed europei agli assessori e consiglieri regionali, stabilisce un ordine di precedenza tra distinzioni cavalleresche, onorifiche e ricompense, del tutto autonomo e diverso rispetto a quello stabilito dall'unico soggetto competente al conferimento». Il ricorrente rileva che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 496 del 1989, ha già riconosciuto la competenza esclusiva dello Stato in tema di disciplina dell'ordine delle precedenze fra alte cariche e fra queste e le altre istituzioni della Repubblica di vario livello; competenza che non sarebbe venuta meno anche dopo la riforma del titolo V della Costituzione. In proposito, il Presidente del Consiglio dei ministri, richiamando il principio di sussidiarietà e la finalità dell'esercizio unitario, previsti dall'art. 118, primo comma, della Costituzione, sottolinea che lo Stato sarebbe «l'unico soggetto in grado di adeguatamente ed opportunamente dosare ed apprezzare il confronto e l'intreccio dei poteri statali e costituzionali con quelli regionali e locali, con le autorità estere e con i rappresentanti di organismi comunitari e con le organizzazioni internazionali». Sul punto, il ricorrente, dopo aver precisato che le Regioni sono state invitate al procedimento di formazione del cennato d.P.C.m. del 2006 e che la disciplina generale in materia di protocollo in esso contenuta è stata adottata «sulla base di un testo elaborato con il continuo apporto di un tavolo tecnico Governo-Regioni e Consigli regionali», ritiene che la Regione Marche nel disciplinare «la materia già oggetto di trattazione unitaria» nel d.P.C.m. del 2006, abbia violato il principio di leale collaborazione. 2. - Con atto depositato il 19 febbraio 2008 si è costituita in giudizio la Regione Marche chiedendo il rigetto del ricorso. La difesa regionale assume, in via preliminare, che l'àmbito di applicazione dell'atto impugnato è limitato «esclusivamente» alle cerimonie a carattere locale. In particolare, la resistente, pur non dubitando della competenza dello Stato nello «stabilire quali cerimonie rivestano carattere nazionale o internazionale» e nel disciplinare «in via esclusiva le relative precedenze tra le cariche pubbliche», ritiene che la Regione avrebbe una competenza residuale nella disciplina dell'ordine delle precedenze nelle cerimonie, «prive del carattere nazionale o internazionale», che si svolgono ad iniziativa propria ovvero degli enti da essa dipendenti. In proposito, la Regione Marche ritiene che la sentenza n. 496 del 1989 non costituirebbe «di per sé un precedente in termini da applicare automaticamente al caso di specie» e sottolinea che la posizione protocollare non è prevista tra le materie elencate dall'art. 117, secondo comma, della Costituzione. Procedendo nella disamina delle singole censure prospettate dal ricorrente, la difesa regionale, con riferimento alla violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera a), della Costituzione ribadisce che il Regolamento impugnato non si applica né alle cerimonie nazionali né a quelle internazionali di cui al citato d.P.C.m. del 2006. Parimenti infondata sarebbe la censura relativa all'art. 117, secondo comma, lettera c), della Costituzione, poiché, precisa la Regione, il Regolamento non avrebbe introdotto alcuna disciplina distinta rispetto a quella prevista dal d.P.C.m. del 2006. Quanto all'asserita violazione dell'art. 117, secondo comma, lettere f), g) e p), della Costituzione, la difesa regionale, richiamando la sentenza n. 10 del 2008, ritiene infondate le censure poiché il Regolamento impugnato non inciderebbe «sulle attribuzioni [.] di organi e amministrazioni dello Stato». Ad avviso della Regione Marche, con riferimento all'art. 118 della Costituzione, contrariamente a quanto sostenuto dal ricorrente, la «chiamata in sussidiarietà» non potrebbe essere invocata nel presente conflitto, poiché mancherebbe «nel caso di specie l'attrazione allo Stato di una funzione amministrativa cui ricollegare la normazione ad essa strumentale». Da ultimo, sempre a parere della resistente, non vi sarebbe alcuna violazione del principio di leale collaborazione, in quanto il coinvolgimento delle Regioni nell'adozione del d.P.C.m., sarebbe avvenuto attraverso una consultazione «in sedi del tutto informali», nella specie "tavoli tecnici", che non potrebbero essere considerate «giuridicamente impegnative o [.] dispositive delle attribuzioni costituzionali spettanti alle autonomie regionali». 3. - In prossimità dell'udienza hanno depositato memorie sia la Regione Marche sia il Presidente del Consiglio dei ministri. 3.1. - La difesa regionale, nel ribadire le precedenti argomentazioni difensive, precisa che la disciplina delle cerimonie a carattere locale, attenendo «all'ordinamento e all'organizzazione amministrativa regionale», deve essere attribuita alle Regioni, poiché inciderebbe «su interessi esclusivamente locali». 3.2. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, nell'insistere nell'accoglimento del ricorso, precisa che la distinzione, contenuta nel citato d.P.C.m. del 2006, tra cerimonie nazionali e cerimonie territoriali non sarebbe fondata su «un criterio territoriale afferente al luogo di svolgimento della cerimonia», né sull'autorità che nel caso specifico assuma l'iniziativa dell'evento o che ospiti l'evento stesso. Detta distinzione si baserebbe piuttosto «sull'apprezzame nto del carattere della cerimonia, sul valore simbolico della stessa (nel caso di festività nazionale o di esequie di Stato) e sulla presenza delle cariche istituzionali». Ne consegue che, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, «a tali nozioni non può attribuirsi», come erroneamente riterrebbe la resistente, «il valore di discriminante tra ciò che è interesse dello Stato e ciò che si ritiene non lo sia». Considerato in diritto 1. - Il conflitto di attribuzione sollevato dal Presidente del Consiglio dei ministri nei confronti della Regione Marche, concerne il regolamento regionale 15 novembre 2007 recante la disciplina delle precedenze tra le cariche pubbliche nelle cerimonie a carattere locale, del quale viene chiesto l'annullamento. Ad avviso del ricorrente, l'atto impugnato sarebbe invasivo della competenza statale riguardo alla determinazione dell'ordine delle precedenze tra le varie cariche pubbliche e si porrebbe in contrasto con gli artt. 117, secondo comma, lettere a), c), f), g), p), e 118 della Costituzione, nonché con il principio di leale collaborazione. 2. - In via preliminare va dichiarata l'inammissibilità delle censure sollevate con riferimento ai parametri di cui all'art. 117, secondo comma, lettere a), c), f) e p), della Costituzione, poiché detti parametri non sono contenuti nella delibera di autorizzazione del Consiglio dei ministri (sentenza n. 275 del 2007). 3. - Nel merito, il ricorso deve essere accolto. 4. - La giurisprudenza di questa Corte (sentenza n. 496 del 1989), invocata anche dall'odierno ricorrente, secondo la quale la determinazione dell'ordine delle precedenze rientra tra le «più antiche e tradizionali prerogative dello Stato», non è di per sé sufficiente per risolvere il conflitto risalendo ad epoca precedente alla modifica del titolo V della parte seconda della Costituzione. 5. - Ciò nondimeno, il coinvolgimento di organi statali che, nell'individuazione e coordinamento del sistema delle precedenze nelle cerimonie pubbliche, viene in rilievo, comporta che ad essere implicata sia la materia «ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali»; materia che, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera g), della Costituzione, è attribuita alla competenza esclusiva dello Stato, per assicurarne l'esercizio unitario. 6. - Di conseguenza il regolamento impugnato, introducendo una apposita disciplina in tema di ordine delle precedenze tra le varie cariche pubbliche, ancorché riferita alle cerimonie di carattere locale, risulta invasivo della competenza esclusiva dello Stato. Pertanto, va accolto il ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri e annullato il regolamento della Regione Marche con il quale si è inteso disciplinare l'ordine delle precedenze tra le cariche pubbliche nelle cerimonie locali. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara che non spettava alla Regione Marche disciplinare l'ordine delle precedenze tra le cariche pubbliche nelle cerimonie a carattere locale; annulla, per l'effetto, il regolamento 15 novembre 2007 della Regione Marche. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Maria Rita SAULLE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 515, terzo comma, del codice di procedura civile, promosso dal Tribunale di Siena, nel procedimento civile vertente tra il Circolo di Cultura Musicale e Arti Multimediali Sing Sing e la Emi Music Italy s.p.a. ed altri, con ordinanza del 6 ottobre 2006, iscritta al n. 825 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 21 maggio 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante; Ritenuto che, nel corso di un procedimento di reclamo avverso un provvedimento di sospensione del processo esecutivo, il Tribunale di Siena, con ordinanza del 6 ottobre 2006, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3 e 18 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 515, terzo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui non estende il limite della impignorabilità relativa di strumenti, oggetti e libri indispensabili per la esistenza e sopravvivenza di associazioni nelle quali si svolgono diritti fondamentali della personalità di rilevanza costituzionale; che il remittente chiarisce come il pignoramento mobiliare di cui si tratta abbia ad oggetto tutti i beni mobili presenti presso la sede del debitore (trattasi di un circolo culturale) asseritamente «indispensabili» per lo svolgimento dell'attività culturale del circolo medesimo; che sarebbe così preclusa non solo la prosecuzione di una attività qualificata come illecita dalla sentenza in forza della quale i creditori procedono, ma anche lo svolgimento dell'attività più propriamente istituzionale dell'associazione culturale; che il giudice a quo, dopo aver escluso la possibilità di applicare estensivamente la norma impugnata, ne sospetta l'illegittimità costituzionale «nella parte in cui non prevede pari tutela (art. 3 Cost.) oltre il mondo del lavoro e dell'economia, in particolare a salvaguardia della esistenza stessa di associazioni (ex art. 18 ss., 36 ss. c.c.), e formazioni sociali ove si svolgono diritti fondamentali della personalità (art. 2 Cost.) e trova espressione realizzatrice il diritto di associazione (art. 18 Cost.)»; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la manifesta inammissibilità, ovvero per la manifesta infondatezza della questione, per difetto di ogni sviluppo argomentativo e di motivazione circa la comparabilità e l'asserita equivalenza di interessi e diritti fondamentali, quali la tutela del lavoro individuale e la salvaguardia delle formazioni sociali ove si svolgono i diritti fondamentali della personalità e si realizza il diritto di associazione; che, inoltre, sarebbe semplicistica la equiparazione, operata dal giudice a quo, tra i predetti diritti, al fine di giustificare un'estensione della impignorabilità relativa dei beni strumentali all'attività personale del debitore anche ai beni strumentali delle attività culturali o ludiche svolte dalle associazioni culturali. Considerato che il Tribunale di Siena dubita, in riferimento agli artt. 2, 3 e 18 Cost., della legittimità costituzionale dell'art. 515, terzo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui non estende il limite di un quinto (quando il presumibile valore degli altri beni non appaia sufficiente per la soddisfazione del credito) alla pignorabilità di strumenti, oggett i e libri indispensabili all'esercizio della professione, dell'arte o del mestiere del debitore anche alle associazioni nelle quali si svolgono diritti fondamentali della personalità di rilevanza costituzionale, allorché tali beni siano indispensabili per la esistenza e sopravvivenza delle associazioni medesime; che la questione è manifestamente inammissibile per molteplici carenze espositive ed argomentative dell'ordinanza di rimessione; che il giudice a quo, oltre a non precisare in quale forma giuridica sia costituito il circolo culturale attore in opposizione nel giudizio principale, neppure specifica quale sia l'attività istituzionale dello stesso in cui dovrebbe ravvisarsi l'esercizio di un diritto fondamentale della personalità, né chiarisce quali dei beni pignorati sarebbero nella specie, indispensabili per l'«esistenza e la sopravvivenza» del circolo medesimo; che, con riguardo al primo rilievo, la norma impugnata, se è senz'altro inapplicabile alle società, richiede invece, in ogni altro caso, una valutazione del rapporto tra lavoro e capitale investito, collegando alla prevalenza del primo sul secondo il beneficio dell'impignorabilità relativa; che il remittente non effettua tale necessaria e preliminare disamina delle condizioni poste dalla censurata disposizione, limitandosi ad affermare che esse sono pacificamente verificate in relazione alla natura giuridica del soggetto debitore; che, inoltre, il giudice a quo motiva la non manifesta infondatezza in modo insufficiente e tale da porre sullo stesso piano l'esercizio dei diritti fondamentali e la stessa libertà di associarsi e di riunirsi, come se in qualsiasi associazione fosse rinvenibile - e necessariamente tutelabile - una situazione giuridica di rilevanza costituzionale. Visti gli art. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 515, terzo comma, del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3 e 18 della Costituzione, dal Tribunale di Siena con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366 (Delega al Governo per la riforma del diritto societario), e, «per derivazione», degli articoli da 2 a 17 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366), promossi dal Tribunale di Napoli nei procedimenti civili vertenti tra E. D. L. ed altra e tra O. C. ed altri e il Monte dei Paschi di Siena s.p.a., con ordinanze del 31 e 29 gennaio 2007, rispettivamente iscritte ai nn. 40 e 41 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 25 giugno 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante. Ritenuto che, nel corso di due giudizi promossi da privati nei confronti di un istituto di credito, il Trib unale di Napoli, in composizione collegiale, con altrettante ordinanze di analogo contenuto, ha sollevato, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366 (Delega al Governo per la riforma del diritto societario), «nella parte in cui, in relazione al giudizio ordinario di primo grado in materia societaria, non indica i principi e criteri direttivi che avrebbero dovuto guidare le scelte del legislatore delegato» e, «per derivazione», degli articoli da 2 a 17 del decreto legislativo 17 ottobre 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'articolo 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366); che il giudice remittente - dopo aver ricordato come, secondo la giurisprudenza di questa Corte, i principi e criteri direttivi di cui all'art. 76 Cost. «non escludono la possibilità di lasciare al legislatore delegato un ampio margine di discrezionalità nell'individuazione delle modalità attraverso le quali realizzare gli obiettivi prefissati dalla legge delega» - sostiene il contrasto della norma di delega di cui al censurato art. 12 con l'invocato parametro in quanto - rispetto all'unico obiettivo dichiarato di voler assicurare una più rapida ed efficace definizione di procedimenti nelle materie ivi individuate - non ha fornito alcuna indicazione in ordine allo schema processuale da adottare, lasciando il legislatore delegato libero di creare a suo arbitrio - e, pertanto, travalicando il limite della discrezionalità - un modello di procedimento del tutto nuovo; che da ciò si fa derivare la non manifesta infondatezza della sollevata questione, rilevante in quanto dall'esito della decisione di questa Corte dipende l'applicabilità, o meno, dell'intera nuova disciplina processuale censurata alle controversie in corso; che, in entrambi i giudizi, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo, con atti di contenuto identico, la declaratoria di manifesta inammissibilità; che a tale soluzione dovrebbe pervenirsi, innanzitutto, in quanto le ordinanze di rimessione si appuntano «più su un sistema che su norme»; che, oltre a questo, l'interveniente ricorda come questioni identiche a quella attuale siano state oggetto di molteplici pronunce di questa Corte, tutte conclusesi nel senso della manifesta inammissibilità. Considerato che le ordinanze di rimessione sollevano questioni identiche, riguardanti la delega legislativa per la riforma dei procedimenti in materia di diritto societario, onde i relativi giudizi devono essere riuniti e decisi con unica pronuncia; che il Tribunale di Napoli, in composizione collegiale, ha sollevato, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366 (Delega al Governo per la riforma del diritto societario), nonché, per derivazione, degli articoli da 2 a 17 del decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 5 (Definizione dei procedimenti in materia di diritto societario e di intermediazione finanziaria, nonché in materia bancaria e creditizia, in attuazione dell'art. 12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366); che, secondo il remittente, l'indicazione della più rapida ed efficace definizione dei procedimenti, quale finalità da perseguire con la normativa da emettere in attuazione della delega, e l'indicazione della concentrazione del procedimento e della riduzione dei termini processuali quali principi e criteri direttivi, per la loro genericità, hanno reso «libero il legislatore delegato di creare un nuovo modello processuale che esula completamente dallo schema del procedimento ordinario disciplinato dal codice di procedura civile»; che la delega, pertanto, sarebbe carente dei requisiti di cui all'art. 76 Cost. e da ciò deriverebbe anche l'illegittimità degli articoli da 2 a 17 del d.lgs. n. 5 del 2003;< o:p> che la questione è manifestamente inammissibile per le ragioni già indicate nelle ordinanze n. 404 del 2007, n. 23 e n. 207 del 2008 di questa Corte, che hanno esaminato identiche questioni sollevate dal medesimo remittente; che, infatti, anche nel presente giudizio il remittente denuncia la genericità della delega, ma sembra soprattutto dolersi della possibilità per il legislatore delegato di creare un nuovo tipo di procedimento anzich&e acute; modificare, per le materie in oggetto, lo schema del processo civile ordinario;
che
riflesso di tale perplessità è l'esclusione
dalla richiesta di illegittimità dell'art.
1 e, inoltre, che, quindi, contrariamente a quanto espressamente enunciato dal Tribunale remittente, le suddette disposizioni della normativa delegata potrebbero essere illegittime per vizi propri e non per derivazione dall'illegittimità della delega; che il remittente non precisa di quali disposizioni del decreto delegato debba fare applicazione, essendosi questa Corte già pronunciata su alcune di esse - successivamente alla remissione delle presenti questioni - con le sentenze n. 54, n. 321, n. 340 del 2007 e n. 71 del 2008; che le rilevate contraddittorietà e carenze delle ordinanze di rimessione si risolvono in difetti della motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza della questione. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi,
dichiara la
manifesta inammissibilità della
questione
di legittimità costituzionale dell'articolo
12 della legge 3 ottobre 2001, n. 366 (Delega al Governo per la riforma
del diritto societario),
e, «per derivazione», degli articoli da Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Francesco AMIRANTE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai Signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 91, primo comma, del codice di procedura civile e dell'art. 75 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura civile, promosso con ordinanza del 26 aprile 2007 dal Giudice di pace di Milano nel procedimento civile vertente tra V. S. e B J. J. ed altra, iscritta al n. 60 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 9 luglio 2008 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro. Ritenuto che - nel corso di giudizio promosso da V. S. nei confronti di B J. J. e della compagnia assicuratrice Zurich Insurance Company per il risarcimento dei danni patrimoniali subiti a causa del sinistro stradale asseritamente cagionato dalla condotta del convenuto - il Giudice di pace di Milano, con ordinanza depositata il 26 aprile 2007, ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 91 del codice di procedura civile e 75 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura civile, nella parte in cui non prevedono il contraddittorio sul quantum delle spese processuali, per violazione dell'art. 111, secondo comma, della Costituzione, sotto il profilo della lesione al principio del contraddittorio; dell'art. 24, secondo comma, della Costituzione, per vulnus al diritto di difesa; dell'art. 3 della Costituzione, per irragionevolezza delle norme denunciate; che il rimettente, premesso che, nel corso dell'udienza di precisazione delle conclusioni e di discussione della causa, il difensore dell'attore aveva depositato nota spese, mentre il difensore dei convenuti, pur chiedendo il rimborso delle spese processuali, si era astenuto dal presentare la nota relativa, rimettendosi al giudice per la liquidazione, ha ritenuto che, allo stato, non potesse essere emessa sentenza, non avendo le parti convenute, in base alla vigente legislazione ordinaria, potuto esercitare il loro diritto di difesa, nel rispetto del principio del contraddittorio, sulla domanda dell'attore di una loro condanna per spese processuali; che - rileva il rimettente - il giudice, se e quando condanna al rimborso delle spese processuali, emette una pronuncia di condanna inaudita altera parte, e non di rado per importi che superano, e non di poco, il valore della stessa causa; che gli artt. 91 cod. proc. civ. e 75 disp. att. cod. proc. civ. non prevedono che ciascuna delle parti possa esaminare la nota spese dell'altra e possa, sia pure in un breve lasso di tempo, formulare al giudice osservazioni o riserve; che - prosegue il giudice a quo - la mancata previsione del contraddittorio sulle spese processuali, in particolare per quanto riguarda il quantum, è di dubbia legittimità costituzionale, non potendo l'espressione «nel contraddittorio tra le parti» non riferirsi a tutto lo svolgimento del processo, anche perché il giudice, in presenza di nota specifica prodotta dalla parte vittoriosa, ha l'onere di dare adeguata motivazione dell'eliminazione o della riduzione di voci da lui operata, allo scopo di consentire, attraverso il sindacato di legittimità, l'accertamento della conformità della liquidazione a quanto risulta dagli att i e alle tariffe; che in base alla normativa vigente, inoltre, le sentenze di condanna al rimborso delle spese processuali vengono emesse senza alcuna possibilità di difesa - da cui la ritenuta violazione dell'art. 24 Cost. - almeno per quanto riguarda il quantum; che l'esclusione del contraddittorio sulle spese processuali potrebbe quindi essere illegittima anche in relazione al principio di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost., quando entrambe le parti in causa sono costituite; che, sotto il profilo della rilevanza, il rimettente assume che, ai fini della definizione del giudizio a quo, la eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme denunciate comporterebbe che egli debba, prima di emettere la sentenza, sentire ciascuna delle parti sulla nota spese della parte avversaria e, quindi, sul quantum dei diritti e degli onorari; che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto dichiararsi l'infondatezza della questione proposta; che, secondo la difesa erariale, la determinazione del compenso professionale: a) rientra nel potere discrezionale del giudice, in relazione a limiti tabellari; b) è attività che non attiene al merito della controversia, e può essere compiuta d'ufficio; c) mira a tenere la parte vittoriosa indenne dagli oneri processuali; d) è attività accessoria, consequenziale alla decisione sul merito della causa e, per questo, non è assimilabile alla decisione attinente il merito delle questioni discusse dalle parti in contraddittorio. Considerato che il Giudice di pace di Milano dubita della legittimità costituzionale degli artt. 91 del codice di procedura civile e 75 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura civile, nella parte in cui prevedono che il giudice condanna la parte soccombente nel processo innanzi a sé al rimborso delle spese a favore dell'altra parte e ne liquida l'ammontare inaudita altera parte, sulla base della nota spese depositata dal difensore della parte vittoriosa al momento del passaggio in decisione della causa, per violazione dell'art. 111, secondo comma, della Costituzione, sotto il profilo della lesione al principio del contraddittorio; dell'art. 24, secondo comma, della Costituzione, per vulnus al diritto di difesa; dell'art. 3 della Costituzione, per irragionevolezza delle norme denunciate; che il giudice a quo considera la statuizione sulle spese come un capo autonomo della sentenza, corrispondente ad una domanda anch'essa autonoma, su cui dovrebbe, a suo parere, svilupparsi il contraddittorio tra le parti, come su ogni questione di merito sottoposta alla sua decisione; che il presupposto da cui muove il rimettente, nell'esporre le ragioni della ritenuta non manifesta infondatezza della questione, non è esatto; che la regolamentazione delle spese, cui è tenuto il giudice ogni volta che chiuda il giudizio davanti a sé, in base alla nota spese (non indefettibilmente) presentata dalle parti, non è assimilabile alla decisione di merito su un capo della domanda, dal momento che la natura accessoria della pronuncia sulle spese, non scindibile dalla decisione sul merito, esclude che sulla questione, ed in particolare sulla quantificazione delle spese stesse, sia necessario instaurare uno specifico contraddittorio; che, dovendosi allegare la nota spese al fascicolo di parte «al momento del passaggio in decisione della causa» (art. 75 disp. att. cod. proc. civ.), e dunque al momento del deposito della comparsa conclusionale (art. 169, secondo comma, cod. proc. civ.), la controparte può controdedurre, anche sulla eventuale nota spese, nei successivi venti giorni, attraverso la memoria di replica, o alla stessa udienza unificata, ex art. 281-quinquies, secondo comma, cod. proc. civ., ed ex art. 321 cod. proc. civ., nel giudizio davanti al giudice di pace;< /P> che la dipendenza della decisione sulle spese rispetto al capo della sentenza che dispone circa il diritto fatto valere in giudizio si basa su una serie di riscontri positivi; che la condanna alla rifusione delle spese è impugnabile o opponibile solo se è impugnabile o opponibile il provvedimento che dispone sul diritto principale, mentre non lo è se questo è passato in giudicato o comunque non è sottoponibile ad ulteriore controllo da parte di altri giudici; che il sistema processuale non ammette la proposizione di una domanda per conseguire il rimborso delle spese processuali, che sia formulata autonomamente e fuori della sede nella quale quelle spese furono prodotte, poiché il danno che una parte abbia subìto per far valere in giudizio un diritto o per resistere a una pretesa di altri, non può essere oggetto di autonomo processo e deve essere invocato all'interno del processo in cui si discuta del merito; che la condanna del soccombente alla rifusione delle spese può intervenire senza che il vincitore abbia spiegato domanda in tal senso, provvedendovi il giudice come conseguenza dovuta dell'accoglimento della domanda di merito; che la domanda di condanna nel merito contiene (salvo rinuncia) anche la richiesta di condanna alle spese; che da quanto precede consegue la marginalità del tema delle spese rispetto ai principi del giusto processo, e dunque l'estraneità di ogni questione ad esse relativa all'ambito di estensione del contraddittorio; che questa Corte ha ritenuto (ord. n. 117 del 1999) che il regolamento delle spese processuali comunque non incide sulla tutela giurisdizionale del diritto di chi agisce o si difende in giudizio, non potendosi sostenere che la possibilità di conseguire la ripetizione delle spese processuali (ovvero, dei diritti e degli onorari di avvocato) consenta alla parte di meglio difendere la sua posizione e di apprestare meglio le sue difese; che gli elementi, su cui si basa la condanna alle spese, che sono isolabili su un piano diverso dall'ambito delle prove e degli elementi dai quali muove la decisione sul merito della causa, evidenzia la natura "di risulta" (o accessoria) della statuizione sulle spese, che non è assimilabile, nel suo processo formativo, alla decisione sul merito della causa; che, con riguardo allo specifico profilo della quantificazione delle spese, la richiesta di liquidazione, connessa alla presentazione della nota delle spese (art. 75 disp. att. cod. proc. civ.), non muta i termini della questione, non inserendo alcun elemento contenzioso su cui si configuri la necessità di un contraddittorio, e in relazione al quale sia ipotizzabile la lesione del diritto di difesa o la violazione dei principi del giusto processo, ove il destinatario della futura condanna alle spese non sia stato in condizione di replicare alla nota spese della parte risultata vittoriosa; che la funzione della nota spese si limita ad un ausilio al magistrato, alla stregua di rendiconto, nel compimento di una mera operazione contabile, dal momento che la mancata presentazione della stessa non può procrastinare la decisione della controversia, e la condanna al pagamento delle spese di lite legittimamente può essere emessa, a carico della parte soccombente, anche d'ufficio, in mancanza di un'esplicita richiesta della parte vittoriosa, a meno che risulti l'esplicita volontà di quest'ultima di rinunziarvi; che la questione è, pertanto, manifestamente infondata. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 91 del codice di procedura civile e 75 delle disposizioni di attuazione al codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, dal Giudice di pace di Milano, con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Alfio FINOCCHIARO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Alfio FINOCCHIARO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge della Regione Liguria 7 maggio 2002, n. 20 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Liguria - Legge finanziaria 2002), promosso con ordinanza pronunciata il 9 marzo 2007 e depositata l'8 maggio successivo dalla Commissione tributaria regionale della Liguria nel giudizio vertente tra Stefano Riciputi e la Regione Liguria, iscritta al numero 71 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie special e, dell'anno 2008. Udito nella camera di consiglio del 9 luglio 2008 il Giudice relatore Franco Gallo. Ritenuto che, nel corso di un giudizio di appello riguardante il ricorso proposto da un contribuente avverso un avviso di accertamento e di irrogazione di sanzioni emesso dalla Regione Liguria per il mancato pagamento della tassa automobilistica regionale relativa all'anno 1999, la Commissione tributaria regionale della Liguria, con ordinanza depositata il 10 maggio 2007, ha sollevato questione di legittimità costituzion ale dell'art. 10 della legge della Regione Liguria 7 maggio 2002, n. 20 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Liguria - Legge finanziaria 2002), il quale prevede che «il recupero delle tasse automobilistiche dovute per l'anno 1999 alla Regione Liguria, viene effettuato, unitamente al recupero previsto per l'anno 2000, entro il 31 dicembre 2003»; che, secondo la Commissione tributaria rimettente, la norma censurata si pone in contrasto con l'art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, in relazione alla norma statale interposta di cui all'art. 5 [rectius: art. 5, cinquantunesimo comma, primo periodo] del decreto-legge 30 dicembre 1982, n. 953 (Misure in materia tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1983, n. 53, il quale fissa un termine triennale di "prescrizione" [recte: decadenza] per il recupero di dette tasse automobilistiche («L'azione dell'Am ministrazione finanziaria per il recupero delle tasse dovute dal 1° gennaio 1983 per effetto dell'iscrizione di veicoli o autoscafi nei pubblici registri e delle relative penalità si prescrive con il decorso del terzo anno successivo a quello in cui doveva essere effettuato il pagamento»); che il giudice a quo premette, in punto di fatto, che: a) il contribuente, con ricorso in data 16 novembre 2003, aveva chiesto l'annullamento del predetto avviso di accertamento ed irrogazione di sanzioni, deducendo l'intervenuta «prescrizione» triennale della pretesa impositiva; b) la Regione Liguria, costituitasi nel giudizio di primo grado, aveva affermato la tempestività della notificazione dell'avviso, perché la norma censurata aveva prorogato i termini per il recupero delle tasse automobilistiche; c) la Commissione tributaria provinciale d i Genova, in primo grado, aveva dichiarato inammissibile il ricorso, perché il contribuente non aveva fornito la prova di aver rispettato il termine per impugnare; d) dagli atti del giudizio di appello risulta, invece, la tempestività dell'impugnazione dell'avviso di accertamento; che, quanto alla non manifesta infondatezza della sollevata questione, la Commissione rimettente - dopo aver richiamato i princípi affermati da questa Corte nella sentenza di accoglimento n. 296 del 2003, avente ad oggetto una questione del tutto analoga e concernente una norma della Regione Piemonte sostanzialmente identica a quella censurata - afferma che le tasse automobilistiche non possono qualificarsi un tributo proprio della Regione, ai sensi dell'art. 119, secondo comma, Cost., con la conseguenza che «la pretesa della legge regionale della Liguria di modificare i termini di prescrizione dell'accertamento non è ammissibile in quanto lesiva della competenza sta tale esclusiva dello Stato ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione»; che, quanto alla rilevanza, la stessa Commissione rimettente osserva che il giudizio verte «proprio sul compimento della prescrizione del potere di recupero della tassa automobilistica da parte dell'Amministrazione regionale»; Considerato che la Commissione tributaria regionale della Liguria dubita - in riferimento all'art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione - della legittimità dell'art. 10 della legge della Regione Liguria 7 maggio 2002, n. 20 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Liguria - Legge finanziaria 2002), il quale prevede che «il recupero delle tasse automobilisti che dovute per l'anno 1999 alla Regione Liguria, viene effettuato, unitamente al recupero previsto per l'anno 2000, entro il 31 dicembre 2003»; che, secondo la Commissione rimettente, la norma regionale denunciata, avendo prorogato di un anno il termine previsto per l'esercizio dell'azione di accertamento delle tasse automobilistiche, avrebbe ecceduto il termine triennale stabilito per il recupero di dette tasse dalla norma statale interposta di cui all'art. 5, cinquantunesimo comma, primo periodo, del decreto-legge 30 dicembre 1982, n. 953 (Misure in materia tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1983, n. 53 («L'azione dell'Amministrazione finanziaria per il recupero delle tasse dovute dal 1° gennaio 1983 per effetto dell'iscrizione di veicoli o autoscafi nei pubblici registri e delle relative penalità si prescrive con il decorso del terzo anno successivo a quello in cui doveva essere effettuato il pagamento»); che, di conseguenza, la norma regionale censurata - in quanto non riguarda un tributo proprio della Regione, ai sensi dell'art. 119, secondo comma, Cost. - si porrebbe in contrasto con l'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., che attribuisce, invece, allo Stato la competenza esclusiva a legiferare in materia di tributi erariali; che, quanto alla rilevanza, la Commissione rimettente si limita ad affermare che l'avviso di accertamento ed irrogazione di sanzioni: a) è relativo alla tassa automobilistica regionale dell'anno 1999; b) è stato notificato allo stesso contribuente oltre il termine triennale (nella specie, scaduto il 31 dicembre 2002) stabilito dal menzionato art. 5, cinquantunesimo comma, primo periodo, del decreto-legge n. 953 del 1982; c) è stato tempestivamente impugnato dal contribuente il 16 novembre 2003; che, dopo l'instaurazione del giudizio principale e anteriormente all'ordinanza di rimessione, è entrato in vigore, il 1° gennaio 2004, l'art. 2, comma 22, della legge 24 dicembre 2003, n. 350 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2004), il quale ha disposto in via di sanatoria l'applicabilità, fino al 1° gennaio 2007, delle disposizioni legislative regionali sulla tassa automobilistica, anteriormente emanate, che non siano conformi alla normativa statale (senten za n. 455 del 2005; ordinanza n. 476 del 2005); che il giudice a quo, nel dedurre l'illegittimità costituzionale della norma censurata in ragione della sua non conformità alla legislazione statale, non ha tenuto conto dell'incidenza sulla stessa norma del citato art. 2, comma 22, della legge n. 350 del 2003, senza motivare al riguardo; che la questione è, pertanto, manifestamente inammissibile per carente motivazione sulla rilevanza, in relazione al mutamento del quadro normativo intervenuto nel corso del giudizio principale (ordinanze n. 74 del 2006 e n. 476 del 2005, pronunciate con riguardo a casi analoghi). Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 10 della legge della Regione Liguria 7 maggio 2002, n. 20 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale della Regione Liguria - Legge finanziaria 2002), sollevata, in riferimento all'art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, dalla Commissione tributaria regionale della Liguria con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Franco GALLO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Alfio FINOCCHIARO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 70 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), promosso con ordinanza depositata il 22 ottobre 2007 dalla Commissione tributaria provinciale di Milano, nel giudizio vertente tra Laura Brumgnach e l'Agenzia delle entrate, ufficio di Monza 1, iscritta al n. 73 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 9 luglio 2008 il Giudice relatore Franco Gallo. Ritenuto che, con ordinanza depositata il 22 ottobre 2007, la Commissione tributaria provinciale di Milano - nel corso di un giudizio promosso da una contribuente diretto ad ottenere l'ottemperanza dell'amministrazione finanziaria ad una sentenza di primo grado, non passata in giudicato - ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 76 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 70 del decreto legislativo 31 dicembre 199 2, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413); che la Commissione tributaria provinciale censura detta disposizione nella parte in cui non consente al contribuente vittorioso in primo grado di richiedere, in pendenza di appello o di termine per proporre appello, l'ottemperanza agli obblighi derivanti dalla sentenza non passata in giudicato emessa dalla Commissione tributaria provinciale; che il giudice a quo dichiara di muovere dalla premessa, in punto di diritto, che la sentenza tributaria di primo o di secondo grado, a differenza di quella emessa dal giudice ordinario, non è provvisoriamente esecutiva e che, pertanto, l'obbligo di rimborsare il contribuente sorge a carico dell'amministrazione finanziaria solo in forza del giudicato; che, per il medesimo giudice, la norma censurata, in base all'indicata premessa, víola: a) l'art. 76 Cost., perché non recepisce i princípi «della provvisoria esecutorietà delle sentenze di primo o secondo grado» e «di parità tra le parti» stabiliti dall'art. 30, comma 1, lettera g), della legge di delegazione 30 dicembre 1991, n. 413 (Disposizioni per ampliare le basi imponibili, per razionalizzare, facilitare e potenziare l'attività di accertamento; disposizioni per la rivalutazione obbligatoria dei beni immobili delle imprese, nonché per riformare il contenzioso e per la definizione agevolata dei rapporti tributari pendenti; delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnistia per reati tributari; istituzioni dei centri di assistenza fiscale e del conto fiscale), il quale, prescrivendo «l'adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile», ha inteso obbligare il Governo - sempre ad avviso del rimettente - a dare al processo tributario una struttura plasmata sul processo civile ordinario, anche per quanto attiene alla natura ed efficacia delle sentenze; b) l'art. 3 Cost., perché, in relazione agli effetti della sentenza tributaria non passata in giudicato, comporta un'ingiustificata disparità di trattamento tra il contribuente, il quale «non ha, in effetti, alcuno strumento per conseguire l'esecuzione della sentenza», e l'amministrazione finanziaria, la quale «può, invece, procedere al recupero delle somme dovute, in via esecutiva, anche sulla base della sentenza di primo grado»; e ciò pur non potendo addursi, nell'àmbito del processo, un diverso interesse, rispetti vamente privato e pubblico, per il contribuente e per l'amministrazione e pur essendo identico per entrambe tali parti processuali il rischio di una successiva riforma della sentenza di primo grado; c) l'art. 24 Cost., perché la pratica impossibilità di soddisfazione immediata degli interessi del contribuente, in forza della sentenza di primo grado, provoca un ingiustificato allungamento della durata del processo, con «pregiudizio, anche irreparabile, per il contribuente risultato vincitore in tutto o in parte, privato di un cespite patrimoniale che ha diritto di conseguire»; che, quanto alla rilevanza delle sollevate questioni, il giudice rimettente riferisce, in punto di fatto, che la contribuente, dopo aver ottenuto, in primo grado, sentenza di condanna dell'Agenzia delle entrate al rimborso dell'IRAP relativa al 1998, aveva instaurato giudizio per ottenere l'ottemperanza a detta sentenza, non ancora passata in giudicato, ed aveva dedotto, a tal fine, l'illegittimità costituzionale del citato art. 70 del d.lgs. n. 546 del 1992, nella parte in cui limita alle sentenze passate in giudicato il giudizio di ottemperanza; che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in giudizio, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate; che, per la difesa erariale, l'esecutività immediata delle sentenze delle Commissioni tributarie provinciali, richiesta dal rimettente, esigerebbe (pena la violazione del diritto di difesa garantito dall'art. 24 Cost.) la possibilità, per il soccombente, di chiedere al giudice di appello la sospensione degli effetti della pronuncia di primo grado; che, tuttavia - prosegue la difesa erariale -, tale possibilità non può essere introdotta con una sentenza additiva della Corte costituzionale, restando riservato alla discrezionalità del legislatore il potere di disciplinare termini e modalità di tale sospensione; che, quanto alla dedotta infondatezza delle questioni, la medesima difesa erariale rileva: a) con riguardo all'art. 3 Cost., che: a.1) è erronea l'affermazione del rimettente secondo cui le sentenze di primo grado sono esecutive (solo) in favore dell'amministrazione finanziaria; a.2) in realtà, nel corso del giudizio, permane l'efficacia esecutiva dell'atto impositivo, con la duplice conseguenza che «le imposte, i contributi ed i premi corrispondenti agli imponibili accertati dall'ufficio ma non ancora definitivi, nonché i relativi interessi, sono iscritti a titolo provvisorio nei ruoli, dopo la notifica dell'atto di accertamento, per la metà degli ammontari corrispondenti agli imponibili o ai maggiori imponibili a ccertati» (art. 15, comma 1, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, recante «Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito») e che, «Anche in deroga a quanto previsto nelle singole leggi d'imposta, nei casi in cui è prevista la riscossione frazionata del tributo oggetto di giudizio davanti alle commissioni, il tributo, con i relativi interessi previsti dalle leggi fiscali, deve essere pagato: [.] per i due terzi, dopo la sentenza della commissione tributaria provinciale che respinge il ricorso; [.] per il residuo ammontare determinato nella sentenza della commissione tributaria regionale. [.] Le imposte suppletive debbono essere corrisposte dopo l'ultima sentenza non impugnata o impugnabile solo con ricorso in cassazione» (art. 68 del d.lgs. n. 546 del 1992); a.3) la posizione del privato, il quale chiede un rimborso, e dell'amministrazione finanziaria, la quale esercita la potestà impositiva, non sono equiparabili; a.4) in riferimento al rischio di riforma de lla sentenza di primo grado, «mentre la solvibilità dell'Amministrazione è garantita, non altrettanto lo è quella di un privato»; a.5) il giudizio di ottemperanza, in quanto preordinato a rendere effettivo il comando contenuto nel giudicato (anche se sia privo dei caratteri di puntualità e precisione tipici del titolo esecutivo), non è equiparabile all'esecuzione forzata ordinaria; a.6) per regola generale (derogata solo, per il giudizio amministrativo, dall'art. 33, ultimo comma, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, concernente l'«Istituzione dei tribunali amministrativi regionali», nel testo introdotto dal comma 1 dell'art. 10 della legge 21 luglio 2000, n. 205, recante «Disposizioni in materia di giustizia amministrativa»), il giudizio di ottemperanza presuppone l'esistenza di una sentenza passata in giudicato; b) con riguardo all'art. 24 Cost., che l'ottemperanza è «solo uno strumento alternativo (ed aggiuntivo all'esecuzione ordinaria) di cui il contribuente si può avvalere, tanto che la sentenza di condanna dell'amministrazione finanziaria (o dell'ente locale o dell'agente per la riscossione) al pagamento di somme è rilasciata in copia esecutiva solo se passata in giudicato» (art. 69 del d.lgs. n. 546 del 1992); c) con riguardo all'art. 76 Cost., che: c.1) l'art. 30, comma 1, della legge di delegazione - prevedendo tra i criteri direttivi, alla lettera g), l'«adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile» e, alla lettera l), la «previsione dell'esecuzione coattiva delle decisioni anche a carico dell'Amministrazione soccombente» - non impone il principio dell'esecutività delle sentenze di primo grado; c.2) la Corte costituzionale ha costantemente escluso l'esistenza di un principio (costituzionalmente rilevante) di n ecessaria uniformità tra i vari tipi di processo, pur ribadendo la necessità di rispettare il generale criterio di ragionevolezza delle scelte legislative. Considerato che la Commissione tributaria provinciale di Milano dubita - in riferimento agli artt. 3, 24 e 76 della Costituzione - della legittimità dell'art. 70 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), nella parte in cui non consente al contribuente vittorioso in primo grado di richiedere, in pendenza di appello o di termine per proporre appello, l'ottemperanza agli obblighi deriv anti dalla sentenza non passata in giudicato emessa dalla Commissione tributaria provinciale; che, per il rimettente, la disposizione denunciata víola: a) l'art. 76 Cost., perché, non recepisce i princípi «della provvisoria esecutorietà delle sentenze di primo o secondo grado» e «di parità tra le parti» stabiliti dall'art. 30, comma 1, lettera g), della legge di delegazione 30 dicembre 1991, n. 413 (Disposizioni per ampliare le basi imponibili, per razionalizzare, facilitare e potenziare l'attività di accertamento; disposizioni per la rivalutazione obbligatoria dei beni immobili delle imprese, nonché per riformare il contenzioso e per la definizione agevolata dei rapporti tributari pendenti; delega al Presidente della Repubblica per la concessione di amnisti a per reati tributari; istituzioni dei centri di assistenza fiscale e del conto fiscale), il quale, prescrivendo «l'adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile», ha inteso obbligare il Governo a dare al processo tributario una struttura plasmata sul processo civile ordinario, anche per quanto attiene alla natura e all'efficacia delle sentenze; b) l'art. 3 Cost., perché comporta un'ingiustificata disparità di trattamento tra il contribuente, il quale «non ha, in effetti, alcuno strumento per conseguire l'esecuzione della sentenza», e l'amministrazione finanziaria, la quale «può, invece, procedere al recupero delle somme dovute, in via esecutiva, anche sulla base della sentenza di primo grado»; c) l'art. 24 Cost., perché l'impossibilità per il contribuente di far valere la sentenza di primo grado comporta un ingiustificato allungamento della durata del processo, con «pregiudizio, anche irreparabile, per il contribuente risultato vincitore»; che le sollevate questioni sono in parte manifestamente infondate ed in parte manifestamente inammissibili; che la questione riferita all'art. 76 Cost. è manifestamente infondata; che, infatti, la norma denunciata, nel disporre che il giudizio di ottemperanza da essa previsto si applica solo alle sentenze tributarie passate in giudicato, detta una regola identica a quella che - come affermato dal diritto vivente e come riconosciuto da questa Corte con le ordinanze n. 44 del 2006 e n. 122 del 2005 - vige per le sentenze emesse dal giudice civile, alle quali il giudizio di ottemperanza previsto dagli artt. 27, primo comma, numero 4), del regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, e 37 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, si applica solo se siano passate in giudicato; che l'applicabilità del giudizio di ottemperanza a sentenze non ancora passate in giudicato è prevista, con norma di carattere eccezionale, dal quarto comma dell'art. 33 della legge n. 1034 del 1971 (comma aggiunto dall'art. 10 della legge 21 luglio 2000, n. 205) esclusivamente per le sentenze emesse dal tribunale amministrativo regionale e non sospese dal Consiglio di Stato; che, pertanto, con la norma denunciata il legislatore delegato non è incorso nel dedotto eccesso di delega, ma si è uniformato sia al generale criterio direttivo dell'«adeguamento delle norme del processo tributario a quelle del processo civile», fissato dall'evocata lettera g) del comma 1 dell'art. 30 della legge di delegazione n. 413 del 1991, sia allo specifico criterio della «previsione dell'esecuzione coattiva delle decisioni anche a carico dell'Amministrazione soccombente», fissato dalla non evocata lettera l) del medesimo comma 1; che, inoltre, il rimettente trascura di considerare che - come piú volte sottolineato da questa Corte - il criterio direttivo di carattere generale dettato dal legislatore delegante nel citato art. 30, comma 1, lettera g), della legge n. 413 del 1991, è quello dell'adeguamento, e non dell'uniformità, delle norme del processo tributario a quelle del processo civile (ordinanze n. 303 del 2002, n. 330 del 2000 e n. 8 del 1999); che, in ogni caso, i princípi «della provvisoria esecutorietà delle sentenze di primo o secondo grado» e «di parità tra le parti» - la cui violazione da parte del legislatore delegato è parimenti denunciata dal rimettente -, oltre a non essere espressamente indicati nella suddetta evocata disposizione della legge di delegazione, non sono direttamente rilevanti in ordine all'applicazione del giudizio di ottemperanza, sia perché il legislatore, nella sua discrezionalità, può escludere detta applicazione per le sentenze di primo grado, anche se provvisoriamente esecutive (come questa Corte ha già osservato, con le citate ordinanze n. 44 del 2006 e n. 122 del 2005, a proposito delle sentenze di primo grado non ancora passate in giudicato emesse dall'autorità giudiziaria ordinaria), sia perché il giudizio di ottemperanza riguarda esclusivamente le sentenze che pongono obblighi a carico dell'autorità amministrativa e non quelle che pongono obblighi a carico del contribuente; che le questioni riferite agli artt. 3 e 24 Cost. sono manifestamente inammissibili; che, al riguardo, va preliminarmente osservato che il giudizio principale ha ad oggetto la richiesta di ottemperanza ad una sentenza tributaria di primo grado, non passata in giudicato e, in quanto tale, non provvisoriamente esecutiva, recante la condanna dell'amministrazione finanziaria a rimborsare al contribuente un tributo corrisposto mediante versamento diretto; che il giudice a quo solleva le suddette questioni al fine di ottenere una pronuncia di illegittimità costituzionale che consenta al contribuente vittorioso in primo grado di ottenere, in pendenza di appello o di termine per proporre appello, l'ottemperanza agli obblighi derivanti dalla indicata sentenza tributaria di condanna; che, tuttavia, l'accoglimento di tale petitum, con la conseguente applicabilità del giudizio di ottemperanza a sentenze tributarie di primo grado non passate in giudicato e non provvisoriamente esecutive, comporterebbe l'introduzione nel sistema processuale, ad opera della Corte costituzionale, di una disciplina inedita e non costituzionalmente necessitata del giudizio di ottemperanza, il quale risulterebbe applicabile a prescindere sia dal requisito della provvisoria esecutività della sentenza (richiesto dal quarto comma dell'art. 33 della legge n. 1034 del 1971 per l'ottemperanza alle pronunce del tribunale amministrativo regionale) sia da quello dell'intervenuto passaggio in cosa giu dicata (richiesto, secondo il diritto vivente, dagli artt. 27, primo comma, numero 4), del regio decreto n. 1054 del 1924, e 37 della legge n. 1034 del 1971 per l'ottemperanza alle sentenze del giudice ordinario); che tale prospettata disciplina del giudizio di ottemperanza sarebbe intrinsecamente contraddittoria, perché creerebbe uno strumento processuale diretto a consentire l'esecuzione di una sentenza alla quale l'ordinamento non attribuisce efficacia esecutiva; che dalla indicata contraddittorietà deriva la manifesta inammissibilità delle sollevate questioni; che detta pronuncia di manifesta inammissibilità non potrebbe essere evitata neppure con una pronuncia di questa Corte che attribuisca la provvisoria esecutività alle sentenze tributarie di primo grado, perché tale attribuzione - oltre a non essere costituzionalmente necessitata - comporterebbe necessariamente un'estesa e profonda riforma del complesso delle norme del processo tributario concernenti tanto la tutela cautelare quanto l'esecuzione delle sentenze, in pendenza di giudizio; che, in particolare, per esigenze di coerenza sistematica questa Corte dovrebbe, con la sua pronuncia, quantomeno garantire l'inibizione cautelare, in appello, della suddetta provvisoria esecutività, nonché modificare la vigente complessa disciplina relativa sia al rimborso d'ufficio di cui all'art. 68, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, sia alla riscossione frazionata del tributo in pendenza del giudizio di impugnazione degli atti impositivi; che una siffatta riforma di sistema, implicando la scelta tra una pluralità di soluzioni, tutte compatibili con la Costituzione, resta riservata alla discrezionalità del legislatore, con conseguente manifesta inammissibilità, anche sotto questo profilo, delle sollevate questioni; che tali rilievi in punto di inammissibilità valgono a prescindere dalla considerazione che, nel merito, le medesime questioni appaiono ictu oculi non fondate, sia con riferimento all'art. 3 Cost., perché il rimettente ha erroneamente posto a raffronto situazioni eterogenee (cioè, da un lato, quelle nelle quali si è in presenza di un atto impositivo ed il contenuto della sentenza di primo grado è costituito dal rigetto dell'impugnazione di tale atto e, dall'altro, quelle nelle quali, invece, manca il suddetto atto ed il contenuto della sentenza di primo grado è costituito dall'accoglimento del ricorso inteso ad ottenere il rimborso di un tributo corrisposto m ediante versamento o ritenuta diretti); sia con riferimento all'art. 24 Cost., perché la tutela del creditore mediante giudizio di ottemperanza di una sentenza non passata in giudicato e non provvisoriamente esecutiva certamente non è coessenziale alla tutela giudiziale dei diritti ed interessi legittimi e non è, pertanto, imposta dalla Costituzione. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 70 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), sollevata, in riferimento all'art. 76 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Milano con l'ordinanza indicata in epigrafe; dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale del medesimo art. 70 del decreto legislativo n. 546 del 1992 sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., dalla suddetta Commissione tributaria provinciale con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Franco GALLO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 6, commi 2, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l'attuazione dell'art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), promosso con ordinanza del 7 giugno 2007 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino, in funzione di Giudice dell'udienza preliminare, iscritta al n. 1 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 9 luglio 2008 il Giudice relatore Gaetano Silvestri. Ritenuto che il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino, con ordinanza del 7 giugno 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, commi 2, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l'attuazione dell'art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), nella parte in cui stabilisce che - nel caso di di niego dell'autorizzazione all'utilizzazione delle intercettazioni «indirette» o «casuali» di conversazioni, cui abbia preso parte un membro del Parlamento - la relativa documentazione debba essere immediatamente distrutta, e che i verbali, le registrazioni e i tabulati di comunicazioni, acquisiti in violazione del disposto dello stesso art. 6, debbano essere dichiarati inutilizzabili in ogni stato e grado del procedimento, anziché limitarsi a prevedere l'inutilizzabilità della predetta documentazione nei confronti del solo parlamentare indagato; che il rimettente, chiamato nel procedimento a quo a celebrare l'udienza preliminare, riferisce di come, durante la fase delle indagini preliminari, fossero state intercettate, per effetto di controlli in atto sulle utenze di altre persone, alcune conversazioni telefoniche intrattenute da un membro della Camera dei deputati; che il pubblico ministero, ritenendo necessaria l'utilizzazione processuale nei confronti del parlamentare delle risultanze acquisite con l'intercettazione, aveva sollecitato il giudice per le indagini preliminari a chiedere la relativa autorizzazione, secondo quanto disposto dall'art. 6 della legge n. 140 del 2003; che peraltro la Camera dei deputati, con delibera del 20 dicembre 2005, aveva stabilito di negare l'autorizzazione richiesta, restituendo gli atti al giudice in allora procedente; che tale ultimo giudice, chiamato dalla legge a disporre la immediata distruzione del materiale pertinente alle intercettazioni, aveva sollevato, con ordinanza del 9 gennaio 2006, questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, commi 2, 5 e 6, della legge n. 140 del 2003; che l'allora rimettente - come riferisce l'odierno giudice a quo mediante trascrizione integrale della relativa ordinanza - aveva sostenuto l'eccedenza della disciplina censurata (cioè della previsione di immediata distruzione del materiale probatorio in caso di diniego parlamentare dell'autorizzazione a farne uso nel procedimento) rispetto al «raggio di operatività delle guarentigie parlamentari, previste dall'art. 68 Cost.»; che dette guarentigie, infatti, riguarderebbero unicamente le intercettazioni «dirette» delle conversazioni dei membri del Parlamento, e non potrebbero estendersi a quelle «occasionali», neppure in forza della locuzione «in qualsiasi forma», impiegata nel terzo comma del citato art. 68 Cost., la quale si riferisce piuttosto alle differenti possibili modalità di captazione delle comunicazioni intrattenute dal parlamentare; che, secondo il primo rimettente, data l'eccedenza della garanzia rispetto alla «copertura» fornita dalla norma costituzionale, la disciplina censurata si sarebbe posta in contrasto con il principio di uguaglianza, sotto lo specifico profilo della parità di trattamento dei cittadini innanzi alla giurisdizione; che infatti il sistema delle immunità e delle prerogative dei membri del Parlamento assumerebbe carattere eccezionale, e potrebbe valere solo per i casi espressamente considerati dal Costituente, in quanto ritenuti idonei ad interferire sulla libera esplicazione della funzione parlamentare; che invece, sempre a parere del primo rimettente, la prescritta distruzione del materiale concernente intercettazioni «casuali» in danno del parlamentare, e la connessa regola di inutilizzabilità fissata nel comma 6 dell'art. 6 della legge n. 140 del 2003, non avrebbero avuto nulla «a che vedere» con la garanzia di libero esercizio del mandato elettivo; che infatti - notava in allora il giudice a quo - le disposizioni censurate riguardano indagini non mirate nei confronti del parlamentare, e le risultanze acquisite, per altro verso, sono comunque inutilizzabili contro l'interessato, per effetto diretto del diniego deliberato dalla Camera di appartenenza; che la prescritta distruzione avrebbe avuto, dunque, l'unico fine di tutelare «oltre modo» la riservatezza delle comunicazioni del parlamentare, con ingiustificata subordinazione del principio di eguaglianza; che la disciplina censurata, inoltre, avrebbe determinato una irragionevole disparità di trattamento fra gli indagati, a seconda che tra i rispettivi «interlocutori occasionali» vi fosse o non un membro del Parlamento, dato che, nel primo caso, la distruzione connessa al diniego dell'autorizzazione avrebbe precluso l'uso probatorio non soltanto nei confronti del parlamentare, ma anche, ed ingiustificatamente, in danno dei suoi interlocutori, privi del mandato elettivo; che, sempre secondo il primo rimettente, sarebbe stato violato anche l'art. 24 Cost., giacché la distruzione immediata della documentazione, con conseguente perdita irrimediabile delle conversazioni intercettate, avrebbe potuto penalizzare o compromettere il diritto di difesa degli indagati o di altre parti (prima fra tutte, la persona offesa); che la disciplina denunciata, da ultimo, sarebbe stata incompatibile con l'art. 112 Cost., giacché l'esercizio obbligatorio dell'azione penale sarebbe stato inevitabilmente frustrato dalla impossibilità di utilizzare le conversazioni in parola, allorché queste costituissero elemento di prova rilevante nei confronti di indagati privi delle guarentigie di cui all'art. 68 Cost.; che l'odierno rimettente - chiusa la citazione del provvedimento fin qui evocato - riferisce di come, nelle more del relativo giudizio di legittimità costituzionale, il procedimento a quo sia progredito fino alla formulazione della richiesta di rinvio a giudizio ed alla fissazione dell'udienza preliminare; che le conversazioni concernenti il parlamentare, del quale pure è stato chiesto il rinvio a giudizio, sono state indicate dal pubblico ministero quali fonti di prova nei confronti di ulteriori imputati; che il giudice a quo, aderendo pienamente agli argomenti sviluppati dal primo rimettente in punto di non manifesta infondatezza, ritiene che la questione sollevata assuma una rilevanza specifica e diversa nell'ambito della fase cui attualmente è pervenuto il procedimento; che infatti - secondo l'odierno rimettente - il primo giudice era chiamato a fare applicazione della norma che gli imponeva la distruzione del materiale probatorio, mentre al giudice dell'udienza preliminare spetta stabilire, nell'attuale disponibilità degli elementi de quibus, se gli stessi possano essere utilizzati per valutare la richiesta di rinvio a giudizio o per definire con sentenza eventuali riti alternativi; che l'incertezza sulla utilizzabilità in chiave di prova del materiale concernente le intercettazioni relative al parlamentare imputato, oltre che condizionare le valutazioni giudiziali circa la completezza delle indagini e lo stesso fondamento della richiesta di rinvio a giudizio, inciderebbe negativamente sulle scelte difensive in merito all'eventuale richiesta di accesso ai riti speciali; che dunque, secondo il rimettente, «la soluzione della questione di costituzionalità come prospettata dal Giudice delle indagini appare al riguardo imprescindibile»; che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 13 febbraio 2008, chiedendo che venga dichiarata l'inammissibilità della questione; che secondo la difesa erariale il rimettente, ove avesse inteso sindacare le conseguenze del diniego di autorizzazione deliberato dalla Camera, avrebbe dovuto promuovere conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, e non questione incidentale di legittimità costituzionale; che le censure del giudice a quo, se rivolte contro la previsione di un regime autorizzatorio per l'utilizzo delle intercettazioni «casuali» nei confronti di un parlamentare, dovrebbero considerarsi tardive, perché non sollevate al momento in cui l'autorizzazione è stata richiesta; che, infine, le censure concernenti la distruzione del materiale probatorio difetterebbero di rilevanza, trattandosi di atti e documenti comunque inutilizzabili. Considerato che il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino solleva, in riferimento agli artt. 3, 24 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, commi 2, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l'attuazione dell'art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato);
che il rimettente ha inteso censurare le norme
indicate nella parte in cui impongono - nel caso in cui la Camera di
appartenenza di un parlamentare neghi l'autorizzazione ad utilizzare nei
confronti di questi comunicazioni intercettate occasionalmente,
nell'ambito di controlli disposti a carico di altri soggetti - che la
relativa documentazione venga immediatamente distrutta, e che i verbali,
le registrazioni e i tabulati di comunicazioni, acquisiti in violazione
del disposto dello stesso art. 6, siano dichiarati inutilizzabili in
ogni stato e grado del procedimento, anziché limitarsi a prevedere
l'inutilizzabilità della predetta documentazione nei confronti del solo
parlamentare indagato; che l'ordinanza di rimessione non prospetta alcuna censura che riguardi il regime autorizzatorio per l'uso processuale delle intercettazioni nei confronti del parlamentare interessato, o le conseguenze del diniego di autorizzazione quanto alla posizione del parlamentare medesimo; che le eccezioni di inammissibilità prospettate dall'Avvocatura dello Stato sono dunque infondate; che, nelle more del presente giudizio, è intervenuta la sentenza di questa Corte n. 390 del 2007, con la quale è stata dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 6, commi 2, 5 e 6, della legge 140 del 2003, «nella parte in cui stabilisce che la disciplina ivi prevista si applichi anche nei casi in cui le intercettazioni debbano essere utilizzate nei confronti di soggetti diversi dal membro del Parlamento, le cui conversazioni o comunicazioni sono state intercettate»; che la conseguente modificazione delle norme poste ad oggetto dell'odierna questione di legittimità - intervenuta tra l'altro nel senso auspicato dal rimettente - impone che gli atti vengano restituiti al giudice a quo per una nuova valutazione di rilevanza della questione medesima. LA CORTE COSTITUZIONALE ordina la restituzione degli atti al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Torino. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Gaetano SILVESTRI, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 511, 514 e 525, comma 2, del codice di procedura penale, promossi con quattro ordinanze del 12 gennaio 2006, tre ordinanze del 26 gennaio 2006 e due ordinanze del 9 febbraio 2006 dal Tribunale di Genova, iscritte ai nn. da 4 a 12 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 7, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 9 luglio 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano. Ritenuto che il Tribunale di Genova, con nove ordinanze di identico tenore (r.o. nn. 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11 e 12 del 2008), ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 25, 101 e 111 della Costituzione, del combinato disposto degli artt. 511, 514 e 525, comma 2, del codice di procedura penale - come interpretati dalle sezioni unite dell a Corte di cassazione con sentenza del 15 gennaio 1999, n. 2 - nella parte in cui «non prevedono che, nel caso di mutamento totale o parziale del giudicante, le dichiarazioni assunte nella precedente istruzione dibattimentale, quando l'esame del dichiarante possa aver luogo e sia stato richiesto da una delle parti, siano utilizzabili per la decisione mediante semplice lettura, dopo l'applicazione degli artt. 190 e 190-bis cod. proc. pen.»; che il rimettente, in punto di non manifesta infondatezza, premette che le sezioni unite della Corte di cassazione hanno, con la sentenza 15 gennaio 1999, n. 2, affermato il principio che, nel caso di rinnovazione del dibattimento a causa del mutamento della persona del giudice monocratico o della composizione del giudice collegiale, la testimonianza raccolta dal giudicante nella sua originaria composizione, sebbene ritualmente trasfusa nei verbali agli atti del fascicolo per il dibattimento, non è utilizzabile per la decisione medi ante semplice lettura, quando l'esame del dichiarante possa aver luogo e sia stato (anche solo genericamente) richiesto da una parte; che, secondo il giudice a quo, l'interpretazione data dalla Cassazione non appare affatto imposta dalla lettera della norma, poiché la dizione «a meno che l'esame non abbia luogo», con la quale si conclude il comma 2 dell'art. 525 (recte art. 511) cod. proc. pen., può riferirsi anche all'ipotesi in cui, per qualsiasi motivo (tra cui l'esercizio dei poteri/doveri stabiliti dagli artt. 190 e 190-bis cod. proc. pen.), esso non abbia effettivamente luogo; che tale interpretazione, prosegue il rimettente, si risolve nell'esaltazione dell'oralità quale apodittico canone e fonte di legittimità della prova, in un contesto sistematico in cui, per contro, non solo manca alcuna norma che consenta una tale conclusione, ma, addirittura, vi sono «plurime, inequivoche e insuperabili indicazioni del carattere solo tendenziale del principio dell'oralità, quali l'incidente probatorio e, soprattutto, il giudizio di appello»; che, a suo dire, una conferma della possibile diversa lettura dell'art. 511, comma 2, cod. proc. pen. si ricaverebbe dal nuovo testo dell'art. 190-bis, comma 1, cod. proc. pen., come sostituito dall'art. 3 della legge n. 63 del 2001, in base al quale, quando le precedenti dichiarazioni siano state assunte nel contraddittorio con la parte nei cui confronti le dichiarazioni stesse devono essere utilizzate, «l'esame è ammesso solo se riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni ovvero se il giudice o taluna delle parti lo ritengono necessario sulla base di specifiche esigenze»;< /o:p> che, in definitiva, il rimettente ritiene che vi sia un'indicazione univoca e reiterata dell'oggettiva volontà del legislatore che siano pienamente utilizzati gli atti acquisiti al processo, nel rispetto delle norme e, in particolare, del contraddittorio, anche nel caso di mutamento della persona fisica del giudicante, in assenza di una precedente norma contraria; che, pertanto, la norma censurata, imponendo il riesame del teste già sentito nel pieno rispetto del contraddittorio, senza l'indicazione specifica di ragioni da sottoporre al vaglio previsto dagli artt. 190 e 190-bis cod. proc. pen., determina una evidente disparità di trattamento, in contrasto con l'art. 3 Cost., laddove tale obbligo di riesame è escluso per situazioni di maggiore rischio per «la genuinità e terzietà» dell'acquisizione della prova; che, a parere del Tribunale di Genova, l'integrale ripetizione di tutte le prove orali già assunte nella massima pienezza del contraddittorio, senza altra ragione che quella del garantire l'oralità quale mezzo necessario di conoscenza del giudice, concretizza una violazione anche degli artt. 25 e 101 Cost., parametri costituzionali che regolano l'esercizio della funzione giurisdizionale, consentendo di incidere negativamente anche sull'efficienza del processo (intesa quale necessaria attitudine del sistema processuale a conseguire, attraverso meccanismi normativi idonei allo scopo, l'accertamento dei fatti e delle responsabilità) costituente bene costituzionalmente tutelato; che, infine, risulterebbe violato anche l'art. 111, secondo comma, Cost., poiché si determina un evidente allungamento della durata del processo, senza che alcuna ragione di tutela di beni e interessi, individuali o collettivi, tutelati costituzionalmente o anche solo da legge ordinaria, lo giustifichi; che, quanto alla rilevanza della questione, in base all'attuale sistema si dovrebbe procedere alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale con relativa ingiustificata dilatazione dei tempi del processo; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile o infondata; che l'Avvocatura dello Stato evidenzia come identiche questioni di costituzionalità siano state già ampiamente affrontate dalla Corte costituzionale e dichiarate manifestamente infondate (vengono citate le ordinanze n. 67 del 2007, n. 418 del 2004 e n. 59 del 2002). che, inoltre, il principio del buon andamento dell'amministrazione della giustizia è applicabile esclusivamente agli aspetti organizzativi del servizio e non alla disciplina del processo; che, quanto al secondo profilo di illegittimità, a parere dell'Avvocatura dello Stato, non può essere condiviso il presupposto interpretativo da cui parte il rimettente, che porta a svalutare il principio del contraddittorio, inteso in termini oggettivi, nel senso cioè di metodo attraverso il quale il giudice, terzo ed imparziale, forma il proprio convincimento. Considerato che il Tribunale di Genova, con nove ordinanze di identico tenore (r.o. nn. 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11 e 12 del 2008), ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 25, 101 e 111 della Costituzione, del combinato disposto degli artt. 511, 514 e 525, comma 2, del codice di procedura penale - come interpretati dalle sezioni unite d ella Corte di cassazione con sentenza del 15 gennaio 1999, n. 2 - nella parte in cui «non prevedono che, nel caso di mutamento totale o parziale del giudicante, le dichiarazioni assunte nella precedente istruzione dibattimentale, quando l'esame del dichiarante possa aver luogo e sia stato richiesto da una delle parti, siano utilizzabili per la decisione mediante semplice lettura, dopo l'applicazione degli artt. 190 e 190-bis cod. proc. pen.»; che le ordinanze di rimessione sollevano la medesima questione di costituzionalità onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione; che una questione identica a quella odierna è già stata sottoposta dal medesimo Tribunale all'esame di questa Corte, che l'ha dichiarata manifestamente infondata con l'ordinanza n. 67 del 2007; che, in quell'occasione, la Corte ha avuto modo di ribadire che il legislatore, nel definire la disciplina del processo e la conformazione dei relativi istituti, gode di ampia discrezionalità, il cui esercizio è censurabile, sul piano della legittimità costituzionale, solo ove le scelte operate trasmodino nella manifesta irragionevolezza e nell'arbitrio (ex plurimis, sentenze n. 379 del 2005 e n. 180 del 2004; ordinanze n. 389 e n. 215 del 2005, n. 265 del 2004); che la disciplina ricavabile dalle disposizioni sottoposte a scrutinio viene a correlarsi al principio di immediatezza, che ispira l'impianto del codice di rito e di cui la tradizionale regola dell'immutabilità del giudice rappresenta strumento attuativo; principio il quale postula - salve le deroghe espressamente previste dalla legge - l'identità tra il giudice che acquisisce le prove e quello che decide (ordinanze n. 431 e n. 399 del 2001); che, inoltre, la norma censurata non può qualificarsi, di per sé, come manifestamente irrazionale ed arbitraria e che l'eventuale individuazione di presidi normativi volti a prevenirne il possibile uso strumentale e dilatorio è affidata alle scelte discrezionali del legislatore; che non si concretizza alcuna lesione del principio di «non dispersione dei mezzi di prova», quale aspetto del bene dell'«efficienza del processo», riconducibile all'area di tutela degli artt. 25 e 101 Cost., giacché in nessun caso la prova dichiarativa precedentemente assunta va "dispersa", essendo sempre possibile acquisirla tramite lettura del relativo verbale: con l'unica differenza che, nel caso in cui il riesame del dichiarante sia possibile e la parte ne abbia fatto richiesta, la lettura dovrà seguire tale riesame; mentre, in caso contrario, la prova verrà recuperata a mezzo della sola lettura; che il principio di ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.) deve essere contemperato con il complesso delle altre garanzie costituzionali, rilevanti nel processo penale: garanzie la cui attuazione positiva - che il legislatore avrebbe inteso operare, nella specie, tramite la previsione di un regime allineato al principio di immediatezza - non è sindacabile sul terreno costituzionale, ove frutto di scelte non prive di una valida ratio giustificativa (ordinanze n. 418 del 2004 e n. 399 del 2001); che non è ravvisabile neanche la violazione del principio di eguaglianza, avuto riguardo al diverso trattamento che - a parere dei rimettenti - la legge processuale riserverebbe a fattispecie identiche o similari, perchè l'art. 190-bis cod. proc. pen. non può essere utilmente evocato quale tertium comparationis, stante il suo carattere di eccezionalità (ordinanze n. 418 del 2004 e n. 73 del 2003); che le presenti ordinanze di rimessione non aggiungono, rispetto alla precedente, profili nuovi o diversi di censura; che, pertanto, la presente questione deve parimenti ritenersi manifestamente infondata. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli articoli 511, 514, 525, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 25, 101 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Genova, con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA
nel giudizio per
conflitto di attribuzione tra enti sorto a seguito dell'atto di
citazione del 25 ottobre 2006 n. 2006/00168/GRS della Procura regionale
presso la Sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione
Calabria nei confronti dei componenti dell'Ufficio di presidenza del
Consiglio regionale della stessa Regione promosso con ricorso della
Regione Calabria notificato il 6 e l'11 febbraio 2008, depositato in
cancelleria il 21 febbraio 2008 ed iscritto al n. 3 del registro
conflitti tra enti 2008. Udito nella camera di consiglio del 9 luglio 2008 il Giudice relatore Sabino Cassese. Ritenuto che, con ricorso notificato il 6 febbraio del 2008 presso l'Avvocatura generale dello Stato, e non anche presso la sede della Presidenza del Consiglio dei ministri, e depositato presso la cancelleria della Corte costituzionale il 21 febbraio del 2008, la Regione Calabria ha sollevato conflitto di attribuzi one nei confronti dello Stato, in relazione all'atto di citazione del 25 ottobre 2006, con il quale la Procura regionale presso la sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Calabria ha citato a comparire in giudizio i componenti pro tempore dell'Ufficio di presidenza del Consiglio regionale, per sentirli condannare al risarcimento del danno erariale, quantificato in Euro 54.921,25, provocato dalle delibere dell'Ufficio di presidenza n. 209 del 13 novembre del 2003 e n. 241 del 20 novembre del 2002, con le quali si provvedeva all'acquisto di vari oggetti da destinare in omaggio ai consiglieri regionali in occasione delle festività natalizie; che la Regione Calabria ritiene che i provvedimenti di spesa adottati dall'Ufficio di presidenza siano stati assunti nell'ambito dell'autonomia funzionale riconosciuta al Consiglio regionale e costituiscano, pertanto, «esercizio di funzioni che l'art. 122, quarto comma, della Costituzione tutela da interferenze e condizionamenti esterni, in quanto inerenti alla sfera di autonomia propria dell'organo regionale»; che, secondo la Regione ricorrente, fra le attribuzioni tutelate dall'immunità di cui all'art. 122, quarto comma, Cost., rientrano le funzioni di amministrazione attiva, quando siano assegnate all'organo regionale in via diretta ed immediata dalle leggi dello Stato; che, in particolare, ad avviso della Regione Calabria, le delibere di spesa adottate dall'Ufficio di presidenza del Consiglio regionale della Calabria, oggetto dell'indagine della Procura della Corte dei conti, costituiscono scelte gestionali assunte nell'esercizio di una funzione intestata al Consiglio regionale dall'art. 1 della legge 6 dicembre 1973, n. 853 (Autonomia contabile e funzionale dei Consigli regionali delle Regioni a Statuto ordinario), la quale prevede un apposito stanziamento per le spese di rappresentanza del Presidente del Consiglio regionale; che, conseguentemente, la Regione ricorrente assume che l'atto di citazione della Procura della Corte dei conti abbia illegittimamente invaso la sua sfera di attribuzioni e, pertanto, chiede che la Corte costituzionale dichiari che non spetta allo Stato, e per esso alla Procura regionale presso la sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Calabria, il potere di convenire in giudizio i consiglieri regionali componenti pro tempore dell'Ufficio di presidenza del Consiglio regionale e che, conseguentemente, annulli l'atto di citazione emesso nei loro confronti. Considerato che il conflitto è inammissibile perché il ricorso della Regione risulta notificato alla sola Avvocatura generale dello Stato e non anche al Presidente del Consiglio dei ministri; che, infatti, in base al costante principio affermato da questa Corte, secondo cui ai giudizi costituzionali non sono applicabili le norme sulla rappresentanza in giudizio dello Stato previste dall'art. 1 della legge 25 marzo 1958, n. 260 (Modificazioni alle norme sulla rappresentanza in giudizio dello Stato), è irrituale la notificazione del ricorso effettuata soltanto presso l'Avvocatura generale dello Stato (sentenze n. 138 del 2007, n. 135 del 1997 e n. 295 del 1993; ordinanze n. 42 del 2004 e n. 266 del 1995). La Corte Costituzionale dichiara inammissibile il conflitto di attribuzione proposto dalla Regione Calabria nei confronti dello Stato, in relazione all'atto di citazione del 25 ottobre 2006 emesso dalla Procura regionale presso la sezione giurisdizionale della Corte dei conti per la Regione Calabria. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Sabino CASSESE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 20, comma 4, della legge della Regione Calabria 11 maggio 2007, n. 9 (Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e finanziario - collegato alla manovra di finanza regionale per l'anno 2007, art. 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002) e degli artt. 1 e 2 della legge della Regione Calabria 20 giugno 2007, n. 12 (Modifica alla legge regionale 11 maggio 2007, n. 9, ed ulteriori disposizioni di carattere ordinamentale e finanziario), promossi con n. 2 ricorsi del Presidente del Consiglio dei ministri, notificati il 12 luglio ed il 2 agosto 2007, depositati in cancelleria il 21 luglio ed il 6 agosto 2007 ed iscritti ai nn. 33 e 35 del registro ricorsi 2007. Visti gli atti di costituzione della Regione Calabria; udito nell'udienza pubblica dell'8 luglio 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro; uditi l'avvocato dello Stato Carlo Sica per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Francesco Saverio Marini per la Regione Calabria. Ritenuto in fatto 1. - Con ricorso (n. 33 del 2007), notificato in data 12 luglio 2007 e depositato il successivo 21 luglio, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale dell'art. 20, comma 4, della legge della Regione Calabria 11 maggio 2007, n. 9 (Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e finanziario -collegato alla manovra di finanza regionale per l'anno 2007, art. 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002), in riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione in relazione con gli artt. 20, 28 e 35, par. 2, della direttiva 2004/18/CE, inerenti ai contratti «sopra soglia», e con gli artt. 43 e 49 del Trattato istitutivo CE relativi a tutti i tipi di contratto, nonché in ri ferimento all'art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione. Il ricorrente sostiene che la norma regionale impugnata, nella parte in cui autorizza la Giunta regionale a prorogare i contratti concernenti la gestione dei «servizi integrati del patrimonio immobiliare, della difesa dell'ambiente, del territorio e dell'amministrazione», viola l'art. 117, primo comma, della Costituzione, che impone anche alle Regioni l'osservanza dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, essendo in contrasto con i citati artt. 20, 28 e 35, par. 2, della direttiva 2004/18/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al coordinamento delle procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici di lavori, di forniture e di servizi), relativa ai contratti sopra soglia, e con gli artt. 43 e 49 del Trattato istitutivo CE, che trovano applicazione per tutti i tipi di contratti. Detta norma violerebbe, altresì, l'art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, in quanto disciplinerebbe una materia, la tutela della concorrenza, riservata alla competenza esclusiva statale, «ai sensi dell'art. 4 del decreto legislativo n. 163 del 2006 (recante il cd Codice dei contratti)». Nel giudizio si è costituita la Regione Calabria, chiedendo che la Corte costituzionale dichiari inammissibile ovvero infondata la questione sollevata; in subordine, che venga promosso rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, ai sensi dell'art. 234 del Trattato, avente ad oggetto l'interpretazione delle disposizioni comunitarie in materia di appalti pubblici ed in particolare degli artt. 20, 28 e 35 della direttiva 2004/18/CE. 1.2. - Con memoria depositata in data 4 marzo 2008, il Presidente del Consiglio dei ministri ha rinunciato all'impugnazione dell'articolo 20, comma 4, della legge regionale n. 9 del 2007, in considerazione dell'avvenuta modificazione della suddetta disposizione ad opera dell'art. 1 della legge della Regione Calabria 7 dicembre 2007, n. 24 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 11 maggio 2007, n. 9). 2. - Con ricorso (n. 35 del 2007), notificato in data 2 agosto 2007, depositato il successivo 6 agosto, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 della legge della Regione Calabria 20 giugno 2007, n. 12 (Modifica alla legge regionale 11 maggio 2007, n. 9, ed ulteriori disposizioni di carattere ordinamentale e finanziario), in riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione, in relazione con gli artt. 20, 28 e 35, par. 2, della direttiva 2004/18/CE, inerenti ai contratti «sopra soglia», e con gli artt. 43 e 49 del Trattato istitutivo CE, applicabili a tutti i tipi di contratto, nonché in riferimento all'art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione. 2.1. - Secondo il ricorrente, le predette norme, nella parte in cui, rispettivamente, autorizzano la proroga dei contratti concernenti la gestione dei «servizi integrati del patrimonio immobiliare, della difesa dell'ambiente, del territorio e dell'amministrazione» (art. 1), e dispongono la proroga dei contratti per la gestione del servizio di elisoccorso regionale fino al 31 dicembre 2007 (art. 2), sarebbero costituzionalmente illegittime in quanto disciplinerebbero una materia, la tutela della concorrenza, riservata alla competenza esclusiva statale, «ai sensi dell'art. 4 del decreto legislativo n. 163 del 2006 (recante il cd Codice dei contratti)». Esse determinerebbero, inoltre, una palese violazione del principio di concorrenza, pubblicità e parità di trattamento, di cui agli artt. 20, 28 e 35, par. 2, della direttiva 2004/18/CE, relativa ai contratti sopra soglia, nonché agli artt. 43 e 49 del Trattato istitutivo CE, che trovano applicazione per tutti i tipi di contratti, in contrasto con l'art. 117, primo comma, della Costituzione. 2.2. - Anche in tale giudizio si è costituita la Regione Calabria, che, in primo luogo, chiede che questa Corte dichiari il ricorso inammissibile per carenza di motivazione. Nel merito, la Regione deduce l'infondatezza della questione proposta, ritenendo le norme regionali impugnate riconducibili alla competenza legislativa regionale in materia di organizzazione e servizi regionali. Inoltre, esse non contrasterebbero con la disciplina comunitaria, ma mirerebbero proprio a favorirne l'applicazione e l'esecuzione, contemperandola con la necessità, per quanto riguarda l'art. 1, di non frustrare il buon andamento dell'amministrazione e, per quanto riguarda l'art. 2, di fornire in modo continuativo un servizio a tutela della salute. D'altro canto, la Regione osserva che, nel caso di dubbi in ordine all'interpretazione delle disposizioni comunitarie in materia di appalti pubblici, dovrebbe essere disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia ex art. 234, primo comma, lettere a) e b), e terzo comma, del Trattato CE. 2.3. - Con memoria depositata in data 4 marzo 2008, il Presidente del Consiglio dei ministri ha rinunciato in parte al ricorso, con riferimento esclusivamente all'impugnazione dell'articolo 1 della legge regionale n. 12 del 2007, in considerazione dell'avvenuta modificazione della suddetta disposizione ad opera dell'art. 1 della legge regionale n. 24 del 2007. 3. - All'udienza pubblica il Presidente del Consiglio dei ministri ha insistito per l'accoglimento delle conclusioni formulate nelle difese scritte. Considerato in diritto 1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, con due distinti ricorsi, ha promosso questioni di legittimità costituzionale, in via principale, di alcune disposizioni di leggi della Regione Calabria in tema di appalti di servizi pubblici. 1.1. - Con il primo ricorso, ha impugnato l'art. 20, comma 4, della legge della Regione Calabria 11 maggio 2007, n. 9 (Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e finanziario - collegato alla manovra di finanza regionale per l'anno 2007, art. 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002), nella parte in cui autorizza la Giunta regionale a prorogare i contratti concernenti la gestione dei «servizi integrati del patrimonio immobiliare, della difesa dell'ambiente, del territorio e dell'amministrazione». Tale norma, ad avviso del ricorrente, sarebbe costituzionalmente illegittima in quanto inciderebbe su una materia, la tutela della concorrenza, riservata alla competenza esclusiva statale e contrasterebbe con i già citati artt. 20, 28 e 35, par. 2, della direttiva 2004/18/CE, relativa ai contratti sopra soglia, e con gli artt. 43 e 49 del Trattato istitutivo CE, che trovano applicazione per tutti i tipi di contratti, in violazione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione, che impone anche alle Regioni l'osservanza dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. 1.2. - Con il secondo ricorso, sono stati impugnati gli artt. 1 e 2 della legge della Regione Calabria 20 giugno 2007, n. 12 (Modifica alla legge regionale 11 maggio 2007, n. 9, ed ulteriori disposizioni di carattere ordinamentale e finanziario), nella parte in cui, rispettivamente, autorizzano la proroga dei contratti concernenti la gestione dei «servizi integrati del patrimonio immobiliare, della difesa dell'ambiente, del territorio e dell'amministrazione» (art. 1), modificando il testo dell'art. 20, comma 4, della legge regionale n. 9 del 2007, e dispongono la proroga dei contratti per la gestione del servizio di elisoccorso regionale fino al 31 dicembre 2007 (art. 2). Secondo il ricorrente, le norme suindicate sarebbero lesive della competenza esclusiva statale in materia di tutela della concorrenza e si porrebbero in contrasto con il principio di concorrenza, pubblicità e parità di trattamento, di cui agli artt. 20, 28 e 35, par. 2, della direttiva 2004/18/CE, relativa ai contratti sopra soglia, nonché agli artt. 43 e 49 del Trattato istitutivo CE, che trovano applicazione per tutti i tipi di contratti, determinando in tal modo la violazione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione. 2. - Ponendo i predetti ricorsi questioni analoghe, deve essere disposta la riunione dei relativi giudizi ai fini di un trattazione unitaria e di un'unica decisione. 3. - In relazione alle censure sollevate nei confronti dell'art. 20, comma 4, della legge regionale 11 maggio 2007, n. 9, va rilevato che sono venute meno le ragioni della controversia. Infatti, successivamente alla proposizione del ricorso, è entrato in vigore l'art. 1, comma 1, della legge della Regione Calabria 7 dicembre 2007, n. 24 (Modifiche ed integrazioni della legge regionale 11 maggio 2007, n. 9), che ha espressamente sostituito l'articolo 20, comma 4, della legge regionale 11 maggio 2007, n. 9. Proprio in considerazione dell'intervenuta abrogazione della norma impugnata, il ricorrente ha rinunciato al ricorso, ritenendo che, adottando la nuova norma, il legislatore regionale si sia adeguato ai rilievi governativi. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la dichiarazione di rinuncia non accettata dalla controparte, pur non potendo comportare l'estinzione del processo, può fondare, unitamente ad altri elementi, una dichiarazione di cessazione della materia del contendere (ordinanza n. 345 del 2006). Nella specie, la norma impugnata è stata abrogata e non risulta che abbia avuto medio tempore applicazione. Pertanto, posto che il suindicato intervento normativo può ritenersi totalmente satisfattivo della pretesa avanzata con il ricorso, anche tenuto conto dell'inequivoco contenuto dell'atto di rinuncia, deve dichiararsi cessata la materia del contendere, in conformità con la giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, ordinanze n. 345 del 2006, n. 477 del 2005 e n. 428 del 2005). 4. - In relazione alle questioni sollevate nei confronti degli artt. 1 e 2 della legge regionale n. 12 del 2007, in via preliminare, devono essere dichiarate infondate le eccezioni di inammissibilità del ricorso proposte dalla Regione resistente per difetto di motivazione delle censure. Le argomentazioni svolte a sostegno delle censure, sebbene sintetiche, consentono, infatti, l'inequivoca determinazione dell'oggetto del giudizio e delle ragioni che fondano i dubbi di legittimità costituzionale sollevati, nonché il vaglio, in limine litis, attraverso l'esame della motivazione e del suo contenuto, della sussistenza dello specifico interesse a ricorrere in relazione alle disposizioni impugnate (sentenze n. 25 del 2008, n. 248 e n. 215 del 2006, n. 450 e n. 360 del 2005, n. 213 del 2003). 5. - Deve, tuttavia, essere dichiarata cessata la materia del contendere in relazione alle censure sollevate nei confronti dell'art. 1 della legge regionale n. 12 del 2007. Tale norma, che aveva modificato l'articolo 20, comma 4, della legge regionale 11 maggio 2007, n. 9, è stata sostituita dall'art. 1 della legge regionale n. 24 del 2007. In conseguenza di tale modifica, il ricorrente ha proposto rinuncia parziale al ricorso, ritenendola satisfattiva della pretesa avanzata con l'impugnazione. Pertanto, posto che la norma impugnata è stata modificata in conformità ai rilievi espressi dal ricorrente e che non risulta abbia avuto medio tempore applicazione, devono ritenersi venute meno le ragioni della controversia. 6. - Nel merito, le censure sollevate nei confronti dell'art. 2 della legge regionale n. 12 del 2007, in riferimento all'art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, sono fondate. L'art. 2 della legge regionale n. 14 del 2007 va ricondotto alla «tutela della concorrenza». Come questa Corte ha già rilevato, per l'identificazione della materia nella quale si collocano le norme impugnate, occorre fare riferimento all'oggetto ed alla disciplina stabilita dalle stesse, per ciò che esse dispongono, alla luce della ratio dell'intervento legislativo nel suo complesso e nei suoi punti fondamentali, tralasciando gli aspetti marginali e gli effetti riflessi delle norme medesime, così da identificare correttamente e compiutamente anche l'interesse tutelato (sentenza n. 165 del 2007). Sulla base di tali criteri, la disciplina delle procedure di gara e, in particolare, la regolamentazione della qualificazione e selezione dei concorrenti, delle procedure di affidamento e dei criteri di aggiudicazione, in quanto mirano a consentire la piena apertura del mercato nel settore degli appalti, sono state ricondotte all'àmbito della tutela della concorrenza (art. 117, secondo comma, lettera e, della Costituzione), di esclusiva competenza del legislatore statale. L'esclusività di tale competenza si traduce nella legittima adozione, da parte del legislatore statale, di una disciplina integrale e dettagliata delle richiamate procedure e nell'inderogabilità delle relative disposizioni, idonee ad incidere, nei limiti della loro specificità e dei contenuti normativi che di esse sono propri, sulla totalità degli àmbiti materiali entro i quali si applicano (sentenza n. 430 del 2007). La norma regionale impugnata, disponendo la proroga dei contratti di gestione dei servizi di elisoccorso regionale fino al 31 dicembre 2007, disciplina le procedure di affidamento dell'appalto di un servizio pubblico regionale, peraltro in deroga alle procedure di gara. Per ciò stesso, la disposizione invade la sfera di competenza esclusiva del legislatore statale, esercitata con il decreto legislativo n. 163 del 2006 (sentenza n. 401 del 2007), fra le cui disposizioni inderogabili si colloca l'art. 4, il quale espressamente stabilisce, fra l'altro, che «le Regioni, nel rispetto dell'articolo 117, comma secondo, della Costituzione, non possono prevedere una disciplina diversa da quella del presente codice in relazione: alla qualificazione e selezione dei concorrenti; alle procedure di affidamento [.] ; ai criteri di aggiudicazione [.]». L'art. 2 della legge regionale n. 14 del 2007, deve, quindi, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo per violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione. 2.5.- Restano assorbite le censure sollevate, nei confronti del medesimo art. 2, in riferimento all'art. 117, primo comma, della Costituzione. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 2 della legge della Regione Calabria 20 giugno 2007, n. 12 (Modifica alla legge regionale 11 maggio 2007, n. 9, ed ulteriori disposizioni di carattere ordinamentale e finanziario); dichiara cessata la materia del contendere relativamente alle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 20, comma 4, della legge della Regione Calabria 11 maggio 2007, n. 9 (Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e finanziario - collegato alla manovra di finanza regionale per l'anno 2007, art. 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002), sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione all'art. 117, primo e secondo comma, lettera e), della Costituzione, con il ricorso n. 33 del 2007; dichiara cessata la materia del contendere relativamente alle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1 della legge della Regione Calabria 20 giugno 2007, n. 12 (Modifica alla legge regionale 11 maggio 2007, n. 9, ed ulteriori disposizioni di carattere ordinamentale e finanziario), sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione all'art. 117, primo e secondo comma, lettera e), della Costituzione, con il ricorso n. 35 del 2007. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giuseppe TESAURO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 26 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza del giudice di pace, a norma dell'art. 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), promosso con ordinanza del 16 ottobre 2007 dal Giudice di pace di Napoli nel procedimento penale a carico di G.M., iscritta al n. 20 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 9 luglio 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro.
Ritenuto che il Giudice di pace di Napoli, con ordinanza del 16 ottobre 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 26 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza del giudice di pace, a norma dell'art. 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), nel la parte in cui prevede che, a seguito di ricorso immediato della persona offesa, «il giudice può provvedere autonomamente dal P.M. nei soli casi di inammissibilità, incompetenza e infondatezza, mentre, laddove egli ritenga fondata la richiesta di convocazione, in contrasto con il parere del P.M., non può emettere il decreto» di cui all'art. 27 del citato decreto delegato; che il giudice a quo è investito di un procedimento introdotto con ricorso della persona offesa, ai sensi dell'art. 21 del d. lgs. n. 274 del 2000, nel quale il pubblico ministero ha espresso parere contrario in ordine alla citazione a giudizio della persona cui è attribuito il reato; che egli, non condividendo il parere del pubblico ministero, lamenta che il giudice di pace, anche se ritiene fondata la richiesta della persona offesa, non possa convocare le parti in udienza, in mancanza di un'imputazione, e debba invece disporre la trasmissione del ricorso all'organo dell'accusa, affinché questi proceda, «ove vi siano i presupposti (quindi anche la querela)», nelle forme ordinarie; che, a suo avviso, dopo la trasmissione degli atti al pubblico ministero il procedimento non potrebbe proseguire nelle forme ordinarie, ove, come nella specie, il ricorrente avesse omesso di presentare la querela nei termini di legge, «con il conseguente grave e irreparabile vulnus della persona offesa»; che, dunque, il rimettente censura l'art. 26 del d. lgs. n. 274 del 2000, il quale, limitandosi a stabilire che il giudice di pace, anche se il pubblico ministero non ha avanzato richieste, adotta i soli «provvedimenti di segno negativo» di cui ai commi 2, 3 e 4, non consente la convocazione delle parti nell'ipotesi opposta, in cui il giudice, dissentendo dal parere negativo dell'organo dell'accusa, ritenga che l'iter del ricorso immediato debba proseguire; che tale norma violerebbe innanzitutto l'art. 3 Cost., poiché «le due parti non risultano avere eguali diritti, nella prevalenza del P.M.», nonché per l'irragionevolezza di una disciplina in base alla quale il giudice, mentre può «provvedere autonomamente dal P.M.» se ritiene il ricorso inammissibile, manifestamente infondato o presentato a giudice incompetente, «non può farlo nei casi in cui gli appare fondata la richiesta di convocazione» delle parti avanzata dalla persona offesa; che l'irragionevolezza del citato art. 26 sarebbe desumibile anche dal confronto con l'art. 17 del d. lgs. n. 274 del 2000, il quale prevede che il giudice investito della richiesta di archiviazione del procedimento possa, in piena autonomia, ordinare la formulazione dell'imputazione al pubblico ministero; che, inoltre, sarebbero violati l'art. 24 Cost., per l'irreparabile pregiudizio recato al diritto di difesa della persona offesa, ed il principio di imparzialità e terzietà del giudice, cui è impedito di discostarsi da un parere che «sembra errato, non convincente, distratto, irrazionale»; che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, deducendo la manifesta infondatezza della questione, perché basata sull'erroneo presupposto che, a seguito della trasmissione degli atti al pubblico ministero, la prosecuzione del procedimento sia impedita dalla mancata presentazione della querela ad opera della persona offesa. Considerato che il Giudice di pace di Napoli dubita, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 26 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza del giudice di pace, a norma dell'art. 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), nella parte in cui non consente al giudice di pace, adito con ricorso della persona offesa, di emettere il decreto di convocazione delle parti quando il pubblico ministero abbia espresso parere contrario alla citazione; che il rimettente si duole che il giudice sia obbligato a disporre la trasmissione del ricorso al pubblico ministero, per l'ulteriore corso del procedimento, anche nel caso in cui non condivida il parere sfavorevole da quest'ultimo espresso; che egli, nel prospettare la questione, muove da un erroneo presupposto interpretativo, secondo il quale, dopo la trasmissione del ricorso, in mancanza della querela della persona offesa, il procedimento non potrebbe aver corso; che, viceversa, ai sensi dell'art. 21, comma 5, del d. lgs. n. 274 del 2000, la presentazione del ricorso produce gli stessi effetti della presentazione della querela, per cui la trasmissione degli atti in nessun caso inibisce la prosecuzione del procedimento secondo l'iter ordinario; che, inoltre, questa Corte, pronunciandosi in ordine alla disciplina oggetto del presente giudizio, ha già affermato che la portata preclusiva del parere contrario dell'organo della pubblica accusa deriva quale conseguenza necessitata della configurazione dell'istituto del ricorso immediato della persona offesa come atto meramente propositivo, rispetto al quale è rimesso al pubblico ministero di aderire o meno, nell'esercizio delle funzioni connesse alla esclusiva titolarità dell'iniziativa penale (ordinanza n. 114 del 2008); che, pertanto, la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 26 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Giudice di pace di Napoli. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 luglio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Giuseppe TESAURO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA |