Ultime pronunce pubblicate deposito del 30/05/2008
 
179/2008 pres. BILE, rel. CASSESE   visualizza pronuncia 179/2008
180/2008 pres. BILE, rel. MADDALENA   visualizza pronuncia 180/2008
181/2008 pres. BILE, rel. NAPOLITANO   visualizza pronuncia 181/2008
182/2008 pres. BILE, rel. CASSESE   visualizza pronuncia 182/2008
183/2008 pres. BILE, rel. CASSESE   visualizza pronuncia 183/2008
184/2008 pres. BILE, rel. SAULLE   visualizza pronuncia 184/2008
185/2008 pres. BILE, rel. FINOCCHIARO   visualizza pronuncia 185/2008
186/2008 pres. BILE, rel. FINOCCHIARO   visualizza pronuncia 186/2008
187/2008 pres. BILE, rel. CASSESE   visualizza pronuncia 187/2008
188/2008 pres. BILE, rel. GALLO   visualizza pronuncia 188/2008
189/2008 pres. BILE, rel. DE SIERVO   visualizza pronuncia 189/2008

 
 

Deposito del 30/05/2008 (dalla 179 alla 189)

 
S.179/2008 del 19/05/2008
Camera di Consiglio del 02/04/2008, Presidente BILE, Relatore CASSESE


Norme impugnate: Art. 34 della legge della Regione Liguria 05/02/2002, n. 6.

Oggetto: Professioni - Regione Liguria - Istituzione di corsi di formazione biennale per il conseguimento dell'attestato di massaggiatore sportivo, rilasciato dal Presidente della Giunta regionale.

Dispositivo: illegittimità costituzionale
Atti decisi: ord. 729/2007
S.180/2008 del 19/05/2008
Udienza Pubblica del 15/04/2008, Presidente BILE, Relatore MADDALENA


Norme impugnate: Art. 12, c. 2°, della legge della Regione Piemonte 19/02/2007, n. 3.

Oggetto: Tutela del paesaggio - Norme della Regione Piemonte - Parchi e riserve naturali - Istituzione del Parco fluviale Gesso e Stura - Piano d'area - Attribuzione della valenza anche di piano per la salvaguardia del paesaggio del territorio del Parco agli effetti dell'art. 143 del d.lgs. 42/2004 e dell'art. 2 della legge regionale n. 20/1989.

Dispositivo: illegittimità costituzionale
Atti decisi: ric. 20/2007
S.181/2008 del 19/05/2008
Camera di Consiglio del 16/04/2008, Presidente BILE, Relatore NAPOLITANO


Norme impugnate: Art. 143 del regio decreto 16/03/1942, n. 267, come sostituito dall'art. 128 del decreto legislativo 09/01/2006, n. 5.

Oggetto: Fallimento e procedure concorsuali - Procedimento di esdebitazione - Reclamo alla Corte di appello avverso decreto del tribunale che ha rigettato l'istanza di esdebitazione presentata da persona fisica dichiarata fallita anteriormente all'entrata in vigore del decreto legislativo n. 5 del 2006 di riforma della legge fallimentare - Omessa previsione, nell'ipotesi che il procedimento per la liberazione dai debiti non integralmente soddisfatti sia attivato da istanza prodotta dal debitore entro un anno dalla pronuncia del decreto di chiusura del fallimento, della necessaria partecipazione dei creditori non soddisfatti, nonché di formalità i donee a consentire ai creditori medesimi di avere contezza della pendenza del procedimento di esdebitazione.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ord. 760/2007
S.182/2008 del 19/05/2008
Camera di Consiglio del 16/04/2008, Presidente BILE, Relatore CASSESE


Norme impugnate: Art. 20 del decreto del Presidente della Repubblica 25/10/1981, n. 737.

Oggetto: Impiego pubblico - Procedimento disciplinare a carico di agente di P.S. - Obbligo dell'incolpato di avvalersi esclusivamente di un difensore appartenente all'Amministrazione della P.S. - Ingiustificato deteriore trattamento degli agenti di P.S. rispetto a i magistrati, a seguito della sentenza della Corte n. 497/2000 che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale di una norma di analogo contenuto riguardante i magistrati stessi.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 756/2007
S.183/2008 del 19/05/2008
Camera di Consiglio del 07/05/2008, Presidente BILE, Relatore CASSESE


Norme impugnate: Art. 17 della legge 28/07/1999, n. 266.

Oggetto: Impiego pubblico - Trasferimento d'autorità del personale delle Forze armate e delle Forze di polizia presso una nuova sede di servizio - Previsione legislativa del diritto del coniuge, che conviva con il soggetto trasferito e che sia altre sì dipendente di una delle pubbliche amministrazioni di cui all'art. 1, comma 2, del d. lgs. n. 165 del 2001, ad essere impiegato presso l'amministrazione di appartenenza o, per comando o distacco, presso altre amministrazioni nella sede di servizio del coniuge o, in mancanza, nella sede più vicina.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 824/2007
O.184/2008 del 19/05/2008
Udienza Pubblica del 11/03/2008, Presidente BILE, Relatore SAULLE


Norme impugnate: Art. 2 della legge 05/04/1985, n. 135, interpretato dall'art. 1, c. 5°, della legge 29/01/1994, n. 98.

Oggetto: Previdenza e assistenza - Beni perduti all'estero - Disposi zioni sulla corresponsione di indennizzi a cittadini ed imprese italiane per beni perduti all'estero in territori già soggetti alla sovranità italiana e all'estero - Concorso statale dell'8% costante quindicennale sugli interessi da pagarsi per mutui contratti con enti, istituti e aziende di credito (fino a concorrenza dell'indennizzo utilizzato) dai soggetti che hanno inteso reimpiegare, in tutto o in parte, in attività produttive industriali, agricole, commerciali e artigianali gli indennizzi previsti dalla vigente normativa in materia di beni perduti all'estero - Previsione del concorso statale sugli interessi passivi dei mutui in misura fissa, anziché variabile in dipendenza del tasso effettivo.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 223/2007
O.185/2008 del 19/05/2008
Camera di Consiglio del 12/03/2008, Presidente BILE, Relatore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Art. 4, c. 2°, della legge 08/02/2006, n. 54.

Oggetto: Minori - Figli naturali - Istanza di genitore non coniugato per l'affidamento esclusivo del figlio convivente, per la condanna del genitore non convivente al versamento di un assegno mensile per il mantenimento del figlio, e per l'inibizione o la limitazione del potere di vigilanza e del diritto di visita spettanti al genitore non convivente - Normativa applicabile ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, con particolare riguardo al profilo della competenza del Tribunale dei minorenni - Estensione ai detti procedimenti della disciplina dettata dalla legge n. 54 del 2006, recante disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei f igli.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 667/2007
O.186/2008 del 19/05/2008
Udienza Pubblica del 15/04/2008, Presidente BILE, Relatore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Art. 2471 del codice civile; art. 538 del codice di procedura civile.

Oggetto: Procedimento civile - Esecuzione forzata - Espropriazione della partecipazione detenuta dal debitore in società a responsabilità limitata - Sussistenza di limiti statutari alla libera circolazione delle quote societarie - Previsione, in caso di mancato accordo tra creditore, debitore e società partecipata, di vendita all'incanto della partecipazione pignorata - Aggiudi cazione al miglior offerente, salvo che la società presenti, entro dieci giorni dall'aggiudicazione, un altro acquirente che offra lo stesso prezzo - Omessa previsione del potere, in capo al giudice dell'esecuzione, di disporre, nel caso di mancata vendita della partecipazione anche dopo un secondo incanto e nel difetto di altri beni del debitore utilmente pignorabili, un nuovo incanto a prezzo ribassato fino ad un quinto, escludendo nel contempo la facoltà della società partecipata di designare un nuovo acquirente.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 725/2007
O.187/2008 del 19/05/2008
Camera di Consiglio del 07/05/2008, Presidente BILE, Relatore CASSESE


Conflitto: Ammissibilità di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione del Senato della Repubblica 18/03/2004.

Oggetto: Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento penale per il reato di diffamazione a mezzo della stampa a carico del senatore Cesare Previti per le opinioni espresse nei confronti di David Maria Sassoli - Deliberazione di insindacabilità del Senato della Repubblica.

Dispositivo: ammissibile
Atti decisi: confl. pot. amm. 1/2008
S.188/2008 del 19/05/2008
Udienza Pubblica del 11/03/2008, Presidente BILE, Relatore GALLO


Norme impugnate: Nota Agenzia de lle entrate, Direzione regionale della Sicilia, prot. n. 2005/3.0/L/25079 del 31/03/2005; Nota Agenzia delle entrate, Direzione regionale della Sicilia, prot. n. 2005/4.2/30927 del 21/04/2005.

Oggetto: Imposte e tasse - Agevolazioni fiscali in materia fondiaria - Interpretazione autentica dell'art. 60 legge Regione Siciliana 26 marzo 2002 n. 2 come norma avente "natura di misura fiscale di carattere generale" - Difformità di interpretazione manifestata con Nota della Agenzia delle entrate del 31 marzo 2005.

Dispositivo: inammissibile
Atti decisi: confl. enti 21/2005
O.189/2008 del 19/05/2008
Camera di Consiglio del 07/05/2008, Presidente BILE, Relatore DE SIERVO


Conflitto: Ammissibilità di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito di ordinanza dell'Ufficio Centrale per il Referendum presso la Corte di cassazione 02/10/2007 e di decreto del Presidente della Repubblica 21/12/2007 di convocazione dei comizi elettorali.

Questione di legittimità costituzionale degli artt. 12, 43 e 45 della legge 25/05/1970, n. 352; artt. 1, c. 1° e 2°, e 5, c. 1°, della legge 27/12/2001, n. 459; art. 4, lett. d), n. 4, della legge 27/10/1988, n. 470.

Oggetto: Regioni - Variazioni territoriali - Referendum per il distacco del Comune di Pedemonte (VI) dalla Regione Veneto e la sua aggregazione alla Regione Trentino-Alto Adige - Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal delegato comunale supplente e dal rappresentante del Comitato promotore del referendum nei confronti dell'Ufficio centrale per il referendum, del Presidente della Repubblica e del Governo - Richiesta alla Corte di sollevare dinanzi a se stessa questione di legittimità costituzionale di alcune disposizioni della legge n. 352/1970, anche in combinato disposto con il d.P.R. n. 23/1967, della legge n. 459/2001 e della legge n. 470/1988.

Dispositivo: inammissibile
Atti decisi: confl. pot. amm. 2/2008

pronuncia successiva

SENTENZA N. 179

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 34 della legge della Regione Liguria 5 febbraio 2002, n. 6 (Norme per lo sviluppo degli impianti e delle attività sportive e fisico-motorie), promosso con ordinanza del 12 aprile 2007 dal Tribunale amministrativo regionale per la Liguria sul ricorso proposto dall'A.I.F.I., Associazione Italiana Fisioterapisti - Regione Liguria nei confronti della Regione Liguria, iscritta al n. 729 del registro ordinanze del 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Sabino Cassese.

Ritenuto in fatto

    1. - Il Tribunale amministrativo regionale della Liguria, sede di Genova, con ordinanza del 12 aprile 2007, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 34 della legge della Regione Liguria 5 febbraio 2002, n. 6 (Norme per lo sviluppo degli impianti e delle attività sportive e fisico-motorie), per violazione dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione.

    La disposizione impugnata prevede che: «Le province, nel rispetto del Programma triennale delle Politiche attive del lavoro di cui alla L.R. n. 52/1993, approvano, in sede di Piano annuale di formazione professionale, appositi corsi biennali diretti al conseguimento dell'attestato di massaggiatore sportivo; tali corsi sono organizzati dalle Province. La Giunta regionale emanerà indirizzi per i contenuti minimi dei corsi» (comma 1); «Per coloro che, alla data di entrata in vigore della presente legge, esercitino di fatto da almeno cinque anni l'attività di massaggiatore sportivo presso società o associazioni sportive affiliate o riconosciute dal C.O.N.I. o che abbiano conseguito un attestato di massaggiatore rila sciato, previa frequenza di corsi di almeno 150 ore, da scuole affiliate ad Enti sportivi di livello nazionale, è organizzato un apposito corso di durata non superiore a sei mesi» (comma 2); «L'attestazione della qualifica di massaggiatore sportivo è rilasciata dal Presidente della Giunta regionale a coloro che abbiano superato con profitto l'esame conclusivo dei corsi di cui ai commi 1 e 2» (comma 3).

    Riferisce il Tribunale rimettente che il giudizio in via principale ha ad oggetto l'impugnazione, da parte dell'Associazione Italiana Fisioterapisti (A.I.F.I.), sezione regionale, della delibera della Giunta regionale della Liguria n. 1413 del 14 novembre 2003, recante la «definizione delle figure professionali di operatore sportivo, istruttore sportivo e massaggiatore sportivo. Approvazione dei contenuti minimi dei corsi», emanata in applicazione dell'art. 34 della legge della Regione Liguria n. 6 del 2002.

    Osserva il Tribunale che «con unico motivo di ricorso» l'associazione ricorrente deduce l'illegittimità costituzionale della menzionata legge regionale per violazione del parametro costituzionale di cui all'art. 117, comma terzo, in materia di professioni.

    Riferisce altresì che nel giudizio principale si è costituita la Regione Liguria, contestando in via preliminare la legittimazione ad agire dell'associazione ricorrente e chiedendo, nel merito, il rigetto del ricorso.

    Tanto premesso, il Tribunale, in punto di rilevanza, osserva che dall'accoglimento della questione di costituzionalità discenderebbe l'accoglimento della domanda proposta nel giudizio principale, tenuto conto che la norma censurata «costituisce la fonte del potere esercitato con la delibera di giunta regionale», della quale si chiede l'annullamento.

    Inoltre, in merito all'eccezione di difetto di legittimazione dell'associazione ricorrente, sollevata dalla difesa regionale, il Tribunale osserva che, «per costante giurisprudenza», un'associazione può essere legittimata ad agire in giudizio per la difesa di interessi collettivi di categoria e che, nel caso di specie, l'associazione ricorrente, in base al proprio statuto, si propone, tra l'altro, la tutela della categoria dei fisioterapisti prevista a norma dell'art. 6, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421).

    In punto di non manifesta infondatezza, il Tribunale ritiene che la norma regionale in esame abbia introdotto nell'ordinamento regionale la specifica qualifica professionale di «massaggiatore sportivo». Osserva, inoltre, che l'attestato di massaggiatore sportivo viene attribuito dal Presidente della Giunta regionale a coloro che abbiano superato con profitto appositi corsi da istituirsi a cura delle Province, demandando a successivi provvedimenti amministrativi l'individuazione del profilo professionale e la regolamentazione delle modalità di accesso, attraverso l'istituzione di appositi corsi. Ad avviso del Tribunale rimettente, proprio la deliberazione della Giunta darebbe specifica attuazione alla norma regionale mediante l'individuazione della figura professionale del mas saggiatore sportivo e del relativo ordinamento didattico.

    Al riguardo, il Tribunale rammenta che l'art. 117, comma terzo, Cost. include la materia delle «professioni» tra quelle oggetto di competenza legislativa concorrente, nelle quali la potestà legislativa delle Regioni incontra il limite dei principi fondamentali stabiliti dalla legislazione dello Stato.

    Richiama, in proposito, il costante orientamento della Corte costituzionale secondo cui sia l'individuazione delle figure professionali con i relativi profili ed ordinamenti didattici, sia la disciplina dei titoli necessari per l'esercizio delle professioni, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, rientrando, invece, nella competenza regionale la disciplina di dettaglio dei soli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale (sentenze numeri 449, 153 e 40 del 2006 e numeri 424, 355 e 319 del 2005).

    Il Tribunale osserva, altresì, che tale principio, «che si configura come un limite di ordine generale operante a prescindere dall'esistenza di singoli precetti normativi (C. Cost. 8.2.2006, n. 40), ha peraltro trovato specifica attuazione nel settore delle professioni sanitarie in virtù di una serie di disposizioni normative statali». Del resto, aggiunge il Tribunale che in materia «di arte del massaggiatore sportivo» l'art. 8 della legge 26 ottobre 1971, n. 1099 (Tutela sanitaria delle attività sportive), riserva «al Ministro per la Sanità» l'istituzione di appositi corsi e la disciplina del relativo ordinamento didattico.

Considerato in diritto

    1. - Il Tribunale amministrativo regionale della Liguria, sede di Genova, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 34 della legge della Regione Liguria 5 febbraio 2002, n. 6 (Norme per lo sviluppo degli impianti e delle attività sportive e fisico-motorie), con riferimento all'art. 117, terzo comma, della Costituzione.

    2. - La questione è fondata.

    Questa Corte ha più volte affermato che «la potestà legislativa regionale nella materia concorrente delle professioni deve rispettare il principio secondo cui l'individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, rientrando nella competenza delle Regioni la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale. Tale principio [.] si configura quale limite di ordine generale, invalicabile dalla legge regionale [.]. Da ciò deriva che non è nei poteri delle Regioni dar vita a nuove figure professionali» (sentenze n. 93 del 2008 e n. 300 del 2007).

    L'art. 34 della legge regionale impugnata disciplina il percorso di formazione professionale ai fini dell'accesso al[l'esercizio del]la professione di massaggiatore sportivo rimettendo ad una determinazione della Giunta regionale la definizione degli «indirizzi per i contenuti minimi dei corsi» diretti al conseguimento del relativo attestato (art. 34, comma 1) e stabilendo la durata della formazione sia per il periodo transitorio di prima applicazione, sia a regime (art. 34, commi 1 e 2). La delibera della Giunta regionale della Liguria n. 1413 del 14 novembre 2003, adottata in attuazione della norma impugnata, definisce l'attività di massaggiatore come quella che «comprende tutte le prestazioni ed i trattamenti eseguiti sulla superficie del corpo umano, il cui scopo esclusiv o sia quello di predisporre l'apparato muscolo scheletrico all'esercizio delle attività fisico-motorie e al recupero della sua funzionalità al termine delle stesse. Sono escluse dall'attività di massaggiatore le prestazioni aventi finalità di carattere terapeutico» ed istituisce i corsi a regime ed in sanatoria, individuando le discipline di insegnamento, le modalità di svolgimento degli esami ed i requisiti di ammissione.

    L'art. 8 della legge 26 ottobre 1971, n. 1099 (Tutela sanitaria delle attività sportive), riserva «al Ministro per la Sanità» l'istituzione dei corsi e la disciplina del relativo ordinamento didattico per l'esercizio dell'«arte di massaggiatore sportivo», come confermato dall'art. 6 della legge 10 agosto 2000, n. 251 (Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica).

    L'art. 1 della legge 1 febbraio 2006, n. 43 (Disposizioni in materia di professioni sanitarie infermieristiche, ostetrica, riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione e delega al Governo per l'istituzione dei relativi ordini professionali), prevede che «sono professioni sanitarie infermieristiche, ostetriche, riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione, quelle previste ai sensi della legge 10 agosto 2001, n. 251 [.] i cui operatori svolgono, in forza di un titolo abilitante rilasciato dallo Stato, attività di prevenzione, assistenza, cura o riabilitazione».

    Pertanto, la legge regionale censurata, istituendo una figura di massaggiatore sportivo regionale e regolando il percorso formativo diretto al conseguimento del relativo attestato, non rispetta il limite imposto dall'art. 117, comma terzo, della Costituzione in materia di professioni e va dichiarata costituzionalmente illegittima (sentenze n. 449 del 2006 e n. 319 del 2005, rispettivamente, con riferimento ai profili professionali di massaggiatore/masso fisioterapista e massaggiatore-capo bagnino degli stabilimenti idroterapici).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 34 della legge della Regione Liguria 5 febbraio 2002, n. 6 (Norme per lo sviluppo degli impianti e delle attività sportive e fisico-motorie).

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Sabino CASSESE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 180

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 12, comma 2, della legge della Regione Piemonte 19 febbraio 2007, n. 3 (Istituzione del Parco fluviale Gesso e Stura), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri notificato il 23 aprile 2007, depositato in cancelleria il 30 aprile 2007 ed iscritto al n. 20 del registro ricorsi 2007.

    Visto l'atto di costituzione della Regione Piemonte;

    udito nell'udienza pubblica del 15 aprile 2008 il Giudice relatore Paolo Maddalena;

    uditi l'avvocato dello Stato Francesco Lettera per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Emiliano Amato per la Regione Piemonte.

Ritenuto in fatto

    1. ¾ Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, con ricorso notificato il 23 aprile 2007 e depositato il successivo 30 aprile, questione di legittimità costituzionale dell'art. 12, comma 2, della legge della Regione Piemonte 19 febbraio 2007, n. 3 (Istituzione del Parco fluviale Gesso e Stu ra), pubblicata sul B.U.R. n. 8 del 22 febbraio 2007, denunciandone il contrasto con l'art. 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma, della Costituzione.

    Il ricorrente premette che con la legge n. 3 del 2007 la Regione Piemonte ha istituito il Parco fluviale Gesso e Stura, nel cui àmbito sono individuate riserve naturali orientate per la conservazione dell'ambiente naturale, aree attrezzate e zone di salvaguardia, rispetto alle quali sono dettate norme di tutela (articoli da 7 a 10), di direzione ed amministrazione (art. 5) e di vigilanza (art. 11). In particolare, poi, il Parco fluviale viene regolato dagli strumenti di pianificazione specifica e dal piano d'area, il quale, secondo quanto disposto dalla n orma censurata di cui all'art. 12, comma 2, «è efficace anche per la tutela del paesaggio ai fini e per gli effetti di cui all'articolo 143 del d.lgs. n. 42/2004 e ai sensi dell'articolo 2 della legge regionale 3 aprile 1989, n. 20 (Norme in materia di tutela di beni culturali, ambientali e paesistici)». Peraltro, si osserva ancora nel ricorso, il comma 1 dello stesso art. 12 prevede che «Il Parco fluviale Gesso e Stura è regolato dal piano d'area di cui all'articolo 23 della l.r. n. 12/1990, come modificato dall'articolo 7 della legge regionale 21 luglio 1992, n. 36 e dagli strumenti di pianificazione specifica», là dove il piano d'area, per le aree istituite a Parco Naturale, rappresenta, in base all'art. 25, comma 1, della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette), il «Piano per il Parco», il quale viene «adottato dall'organismo di gestione del parco ed è approvato dalla regione. Esso ha valore anche di piano paesistico e di piano urbanistico e sostituisce i piani paesistici e i piani territoriali o urbanistici di qualsiasi livello».

    Ciò premesso, nel ricorso si sostiene che il denunciato art. 12, comma 2, della legge regionale n. 3 del 2007, nell'assegnare al piano d'area la valenza anche di piano per la salvaguardia del paesaggio del territorio del Parco, determinerebbe «la equiparazione degli strumenti di pianificazione territoriale, intesi a disciplinare i profili naturalistici, fino a ricomprendere in sé ogni altra esigenza pianificatoria, compresa anche quella paesaggistica». Così facendo, verrebbe pregiudicata «la sovraordinazione funzionale, ovvero la prevalenza, della pianificazione paesaggistica rispetto non solo alla pianificazione territoriale ed urbanistica degli enti territoriali, ma anche agli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette, come disposto dai principi fondamentali di cui al d.lgs. n. 42 del 2004».

    Il Presidente del Consiglio deduce, inoltre, che le leggi regionali del Piemonte 22 marzo 1990, n. 12 [Nuove norme in materia di aree protette (Parchi naturali, Riserve naturali, Aree attrezzate, Zone di preparco, Zone di salvaguardia)] e 3 aprile 1989, n. 20 (Norme in materia di tutela di beni culturali, ambientali e paesistici), alle quali si richiama la disposizione denunciata, andrebbero interpretate (come anche le leggi statali precedenti alla riforma portata dalla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, recante «Riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione»), in modo da non confliggere con il quadro di riparto delle attribuzioni tra Stato e Regioni delineato dal nuovo Titolo V della Parte II della Costituzione e, tuttavia, il loro contrasto con l'art. 117, comma secondo, lettera s), e comma terzo, Cost. dovrebbe essere comunque valutato alla luce del principio di continuità dell'ordinamento. Diversamente, invece, dovrebbe opinarsi quanto alla legge regionale n. 3 del 2007, entrata in vigore successivamente alla novella costituzionale ed ai princìpi fondamentali in materia paesaggistica dettati dal decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della L. 6 luglio 2002, n. 137), la quale, dunque, non potrebbe «che essere in armonia con i modelli di riparto di competenze ex art. 117 Cost.».

    La difesa erariale osserva, quindi, che gli artt. 143, comma 3, e 145, comma 5, del d.lgs. n. 42 del 2004, delineano il procedimento di formazione dei piani paesaggistici «basato sulla possibilità della previa intesa, sull'accordo preliminare tra Stato e regione e sulla partecipazione degli organi ministeriali». Si precisa, poi, quanto alla «compatibilità della censurata disposizione regionale con la legislazione statale di principio», che l'art. 145, comma 3, del d.lgs. n. 42 del 2004, prevede, in relazione alla tutela del paesaggio, «la cogente prevalenza dei piani paesistici sulla pianificazione delle aree naturali protette», stabilendo che «le disposizioni dei piani paesaggistici siano comunque prevalenti sulle disposizioni degli atti di pianificazione ad incidenza territ oriale previsti dalle normative di settore, compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette». In tal modo, la norma escluderebbe «non solo che la salvaguardia dei valori paesaggistici di un territorio protetto sia assicurata da strumenti di pianificazione diversi dalla pianificazione paesaggistica, ma anche che possa essere recessiva rispetto ad altre esigenze, urbanistiche o naturalistiche, regolate da diversi strumenti di pianificazione».

    Ne deriverebbe, ad avviso del ricorrente, la violazione della potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di paesaggio, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera s), nonché della legislazione di principio dettata dal d.lgs. n. 42 del 2004, in materia di «governo del territorio» e «valorizzazione dei beni culturali», di cui all'art. 117, terzo comma, Cost.

    2. ¾ Si è costituita in giudizio la Regione Piemonte, chiedendo che la sollevata questione venga dichiarata non fondata.

    La Regione osserva, anzitutto, che la legge regionale n. 3 del 2007 richiama la legge regionale n. 12 del 1990, il cui art. 23, modificato dalla successiva legge regionale n. 36 del 1992, prevede per le aree istituite a parco naturale il Piano d'area, che costituisce il Piano per il Parco di cui all'art. 25, comma 1, della legge n. 394 del 1991, legge-quadro sulle aree protette, il quale è adottato dall'organismo di gestione del Parco ed approvato dalla Regione ed ha «valore anche di piano paesistico e di piano urbanistico e sostituisce i piani paesistici ed i piani territoriali o urbanistici di qualsiasi livello». E' in attuazione di tale principio, argomenta ancora la difesa regionale, che il citato art. 23 della legge regionale n. 12 del 1990 stabilisce che il piano d'area del parco, all'esito di un complesso procedimento di adozione, «sostituisce la pianificazione territoriale ed urbanistica di qualsiasi livello», esplicando effetti anche a norma dell'art. 1-bis del decreto-legge 27 giugno 1985, n. 312 (Disposizioni urgenti per la tutela delle zone di particolare interesse ambientale), convertito, con modificazioni, nella legge 8 agosto 1985, n. 431, e della legge della Regione Piemonte n. 20 del 1989, la quale individua (art. 2, lettera b), fra gli strumenti di attuazione di tutela, «anche i piani dei parchi naturali regionali».

    Alla luce della complessiva normativa, statale e regionale, richiamata, la Regione sostiene che «il Piano del parco nella disciplina regionale vigente non è una regolamentazione meramente settoriale espressa dall'ente di gestione dell'area protetta», ma rappresenta lo «strumento di pianificazione regionale territoriale e paesaggistica, vincolante anche la strumentazione urbanistica locale», il quale tutela il territorio del parco naturale «nella sua specificità di bene ambientale», provvedendo altresì ad una integrazione «nel sistema di protezione e valorizzazione dei beni ambientali paesaggistici sul territorio regionale».

    La Regione Piemonte deduce, inoltre, che il ricorso statale non avrebbe indicato puntualmente le norme legislative assunte a princìpi fondamentali, richiamando la legge n. 394 del 1991, non abrogata dal d.lgs. n. 42 del 2004, senza, però, considerarne adeguatamente la portata. Sarebbero stati invece invocati gli artt. 143, comma 3, e 145, commi 3 e 5, del d.lgs. n. 42 del 2004, là dove, tuttavia, l'art. 143 ed il comma 5 dell'art. 145 non disciplinerebbero aspetti attinenti a quanto stabilito dalla disposizione regionale impugnata.

    Quanto invece al comma 3 dello stesso art. 145, la Regione ribadisce che il piano del parco naturale di cui all'art. 12 della legge regionale n. 3 del 2007, «non è affatto mero atto di pianificazione dell'ente gestore dell'area protetta, bensì è piano della Regione che provvede specificamente alla tutela paesaggistica dell'ambito considerato» e, quindi, risultando «a tutti gli effetti strumento di pianificazione paesaggistica della Regione», prevarrebbe sulla strumentazione urbanistica e territoriale locale di qualsiasi tipo, «sostituendosi ad essa, e dunque nient'affatto "recessiva rispetto ad altre esigenze"».

Considerato in diritto

    1. ¾ Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna l'art. 12, comma 2, della legge della Regione Piemonte 19 febbraio 2007, n. 3 (Istituzione del Parco fluviale Gesso e Stura), il quale così dispone: «Il piano d'area è efficace anche per la tutela del paesaggio ai fini e per gli effetti di cui all'articolo 143 del d.lgs. n. 42/2004 e ai sensi dell'articolo 2 della legge regionale 3 aprile 1989, n. 20 (Norme in materia di tutela di beni culturali, ambientali e paesistici)».

      Il ricorrente sostiene che tale norma vìoli l'art. 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma, Cost., giacché non rispetta il principio della «cogente prevalenza dei piani paesistici sulla pianificazione delle aree naturali protette», che si desume dall'art. 145, comma 3, del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137).

    2. ¾ La questione è fondata.

    2.1. ¾ L'art. 12 della legge della Regione Piemonte n. 3 del 2007 prevede, al comma 1, che il «Parco fluviale Gesso e Stura è regolato dal piano d'area di cui all'articolo 23 della legge regionale n. 12/90, come modificato dall'articolo 7 della legge regionale 21 luglio 1992, n. 36 e dagli strumenti di pianificazione specifica». A sua volta, il citato art. 23 st abilisce, tra l'altro, che i Piani di area, aventi «validità a tempo indeterminato» (comma 4), presentano «indicazioni» che «sono efficaci e vincolanti dalla data di entrata in vigore delle deliberazioni del Consiglio regionale di approvazione dei Piani che sostituiscono la strumentazione territoriale ed urbanistica di qualsiasi livello» (comma 5) ed «esplicano i loro effetti anche a norma dell'articolo 1-bis della legge 8 agosto 1985, n. 431, e della legge regionale 3 aprile 1989, n. 20» (comma 8), costituendo, altresì, «strumenti di previsione, guida ed indirizzo per la gestione delle aree oggetto di pianificazione e gli Enti di gestione hanno l'obbligo di rendere operative e di fare rispettare le indicazioni di piano» (comma 10).

    Il Piano di area della Regione Piemonte viene a sostituire, in forza del comma 1 del citato art. 23 della legge regionale n. 12 del 1990, il Piano per il Parco che l'art. 25, comma 1, della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette) definisce come «strument[o] di attuazione delle finalità del parco naturale regionale»; peraltro, in base all'art. 2, alinea, della legge regionale n. 20 del 1989, al predetto Piano di area è affidata anche la «tutela e valorizzazione dei beni culturali, ambientali e paesistici [.] a livello regionale, provinciale, comunale».

    2.2. ¾ Specifico rilievo assumono, nel delineato contesto, le norme recate dal d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell'articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), come modificato dal d.lgs. 24 marzo 2006, n. 157 (Disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, in relazione al paesaggio).

    In base all'art. 135, la conoscenza, tutela e valorizzazione del paesaggio è assicurata tramite la pianificazione paesaggistica e «a tale fine le regioni, anche in collaborazione con lo Stato, nelle forme previste dall'articolo 143, sottopongono a specifica normativa d'uso il territorio, approvando piani paesaggistici, ovvero piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici, concernenti l'intero territorio regionale, entrambi di seguito denominati piani paesaggistici».

    Il piano paesaggistico di cui all'art. 143 del medesimo decreto legislativo, elaborato secondo determinate fasi (comma 1), può anche essere frutto di intesa tra Stato e Regione (commi da 3 a 5); in tal caso, si ottiene una semplificazione dei procedimenti autorizzatori, ma l'entrata in vigore delle disposizioni che consentono ciò (commi 4 e 5) «è subordinata all'approvazione degli strumenti urbanistici adeguati al piano paesaggistico, ai sensi dell'articolo 145» (comma 6).

    L'art. 145, rubricato «Coordinamento della pianificazione paesaggistica con altri strumenti di pianificazione», affida (comma 1) al Ministero per i beni e le attività culturali, anzitutto, l'individuazione delle «linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale per quanto riguarda la tutela del paesaggio, con finalità di indirizzo della pianificazione», stabilendo, altresì, che (comma 2) «i piani paesaggistici prevedono misure di coordinamento con gli strumenti di pianificazione territoriale e di settore, nonché con i piani, programmi e progetti nazionali e regionali di sviluppo economico».

    Il medesimo art. 145 contempla, al comma 3, il principio di "prevalenza dei piani paesaggistici" sugli altri strumenti urbanistici, precisando, segnatamente, che: «Per quanto attiene alla tutela del paesaggio, le disposizioni dei piani paesaggistici sono comunque prevalenti sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette».

    Non può non rilevarsi, altresì, che, successivamente al deposito del ricorso, sono state apportate, tramite il d.lgs. 26 marzo 2008, n. 63, talune modificazioni a varie disposizioni del d.lgs. n. 42 del 2004, già modificato dal d.lgs. n. 157 del 2006 e, tra queste, anche al comma 3 dell'art. 145, con l'inserimento, nella prima parte della norma, dell'inciso, da riferirsi alle previsioni dei piani paesaggistici di cui agli artt. 143 e 156, «non sono derogabili da parte di piani, programmi e progetti nazionali o regionali di sviluppo economico» (art. 2, comma 1, lettera r, numero 4). E' evidente, tuttavia, che la parte della disposizione che riguarda il principio di prevalenza dei piani paesaggistici, sulla quale il ricorrente impernia l'impugnazione, non è stata incisa da alcuna modificazione e, anzi, il più recente intervento del legislatore risulta nel segno di un rafforzamento del principio medesimo.

    3. ¾ Come questa Corte ha avuto modo di affermare anche di recente con la sentenza n. 367 del 2007, sul territorio vengono a gravare più interessi pubblici: da un lato, quelli concernenti la conservazione ambientale e paesaggistica, la cui cura spetta in via esclusiva allo Stato, in base all'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.; dall'altro, quelli riguardanti il governo del territorio e la valorizzazione dei beni culturali ed ambientali (fruizione del territorio), che sono affidati, in virtù del terzo comma dello stesso art. 117, alla competenza concorrente dello Stato e delle Regioni. In definitiva, si «tratta di due tipi di tutela, che ben possono essere coordinati fra loro, ma che debbono necessariamente restare distinti» (così la citata sentenza n. 367 del 2007).

    Ne consegue, sul piano del riparto di competenze tra Stato e Regione in materia di paesaggio, la «separatezza tra pianificazione territoriale ed urbanistica, da un lato, e tutela paesaggistica dall'altro», prevalendo, comunque, «l'impronta unitaria della pianificazione paesaggistica» (sentenza n. 182 del 2006).

    E' in siffatta più ampia prospettiva che, dunque, si colloca il principio della "gerarchia" degli strumenti di pianificazione dei diversi livelli territoriali, espresso dall'art. 145 del d.lgs. n. 42 del 2004.

    4 ¾ Alla luce di quanto evidenziato, la disciplina posta dal denunciato art. 12, comma 2, della legge della Regione Piemonte n. 3 del 2007, nel sostituire, pur nel solo àmbito del Parco fluviale Gesso e Stura, il piano d'area al piano paesaggistico (giacché il primo è appunto «efficace per la tutela del paesaggio ai fini e per gli effetti di cui all'articolo 143 del d.lgs. n. 42/2004»), altera l'ordine di prevalenza che la normativa statale, alla quale è riservata tale competenza, detta tra gli strumenti di pianificazione paesaggistica.

    Sicché, la disposizione censurata, violando appunto l'art. 145, comma 3, del d.lgs. n. 42 del 2004 che, al tempo stesso, è norma interposta in riferimento all'art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. ed esprime un principio fondamentale ai sensi dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione, deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 12, comma 2, della legge della Regione Piemonte 19 febbraio 2007, n. 3 (Istituzione del Parco fluviale Gesso e Stura).

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 181

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE      Presidente

- Giovanni Maria  FLICK       Giudice

- Francesco       AMIRANTE       "

- Ugo             DE SIERVO      "

- Paolo           MADDALENA      "

- Franco          GALLO          "

- Gaetano         SILVESTRI      "

- Sabino          CASSESE        "

- Maria Rita      SAULLE         "

- Giuseppe        TESAURO        "

- Paolo Maria     NAPOLITANO     "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 143 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo introdotto a seguito della entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), promosso con ordinanza del 13 luglio 2007 dalla Corte di appello di Venezia sul reclamo proposto da P. A., iscritta al n. 760 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.

Ritenuto in fatto

    1.- Con ordinanza depositata il 13 luglio 2007 la Corte di appello di Venezia ha sollevato, in riferimento all'art. 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 143 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo introdotto a seguito  della entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80).

    1.1.- Riferisce la Corte rimettente di essere chiamata a giudicare in merito al reclamo interposto da A.P. avverso il decreto col quale il Tribunale ordinario di Vicenza ha dichiarato inammissibile la istanza dalla medesima presentata al fine di essere ammessa al beneficio della esdebitazione. Tale decreto interpretava l'art. 150 del d.lgs. n. 5 del 2006 nel senso che l'art. 142 della legge fallimentare, il quale, appunto, ha introdotto nel nostro ordinamento l'istituto della esdebitazione, non sarebbe applicabile in caso di procedura fallimentare che, pur conclusa nella vigenza della riforma, sia sorta anteriormente a questa.

    La Corte rimettente ritiene, invece, che, stante la natura sostanziale della predetta previsione legislativa, l'istituto in questione sia applicabile alle procedure che, anche se sorte anteriormente, siano dichiarate chiuse nella vigenza della normativa riformata.

    1.2.- Ciò premesso il giudice a quo, brevemente illustrati i profili della nuova figura giuridica, preordinata alla liberazione del fallito persona fisica dai debiti fallimentari  residuati parzialmente insoddisfatti alla chiusura del fallimento, potendo, peraltro, essa spiegare effetti, sia pure minori, anche nei confronti dei creditori anteriori al fallimento che non abbiano partecipato alla procedura, osserva che, ai sensi dell'art. 143 della legge fallimentare, la esdebitazione può essere pronunciata o contestualmente alla chiusura del fallimento, ovvero, con separato provvedimento - emesso previa verifica delle condizioni previste dall'art. 142 della legge fallimentare e «sentito il cu ratore ed il comitato dei creditori» - ove il debitore abbia, a tale scopo, presentato ricorso entro un anno dalla chiusura del fallimento.

    Rileva a questo punto il rimettente come la previsione normativa, la quale non contempla come necessaria la partecipazione al predetto procedimento dei creditori concorsuali, mentre non creerebbe problemi, a suo avviso, nel caso di esdebitazione pronunziata contestualmente alla chiusura del fallimento, essendo in tal caso il provvedimento emesso a conclusione di una procedura alla quale i creditori hanno partecipato con potere di interlocuzione, sarebbe, viceversa, pregiudizievole del diritto dei medesimi creditori se pronunziata successivamente alla chiusura del fallimento, su istanza del debitore; ciò in quanto non è previsto alcuno strumento idoneo a informare i creditori concorsuali dell'inizio di un procedimento destinato, in caso di accoglimento dell'istanza, a produrre effetti sostanziali nei loro confronti.

    Ritiene, pertanto, il rimettente che, in relazione alla non necessarietà della partecipazione al procedimento di esdebitazione dei creditori concorsuali o, quantomeno, alla mancata previsione della loro messa a conoscenza, con idoneo mezzo, dell'instaurazione del procedimento, sì da consentire loro la partecipazione ad esso, si pongano dubbi sulla compatibilità costituzionale dell'art. 143 della legge fallimentare con il diritto di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, presidiato dall'art. 24 della Costituzione, in quanto non è garantita al titolare del diritto di credito, inciso dal provvedimento che viene richiesto dal debitore, la possibilità di partecipare al giudizio, con facoltà di interlocuzione.

    Né il vulnus è eliso dalla attribuzione riservata ai creditori insoddisfatti della facoltà di interporre reclamo avverso il provvedimento di esdebitazione. Infatti, il rimettente osserva che - superate «le pur legittime riserve sia sulla doverosità, per l'ipotesi di procedimento instaurato su istanza del debitore successivamente alla chiusura del fallimento, degli strumenti predisposti dalla legge per rendere conoscibile il decreto di chiusura del fallimento [recte: il decreto di accoglimento della domanda di esdebitazione], che dell'idoneità degli stessi ad assicurare un'utile (considerati i ristrettissimi termini concessi per l'impugnazione) conoscenza del provvedimento, rimane comunque il fatto che la piena esplicazione del diritto di difesa dei creditori è preclusa per il procedimento di primo grado».

    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso per l'inammissibilità o la infondatezza della questione.

    2.1.- Preliminarmente la difesa erariale ritiene che la questione non sia rilevante nel giudizio a quo in quanto, non risultando che ci sia stata alcuna richiesta di intervento di creditori ammessi al passivo o, comunque, non risultando eccezioni  da parte di costoro in ordine alla presunta lesione del loro diritto di difesa, il rimettente non è chiamato a «decidere in ordine alle questioni rispetto alle quali ha sospettato di illegittimità costituzionale la norma censurata». Da ciò deriva che la questione sarebbe inammissibile.

    Essa sarebbe, peraltro, anche infondata nel merito. L'Avvocatura osserva che, in primo luogo, il rimettente non avrebbe considerato l'esistenza o meno di un diritto vivente il quale consenta, o vieti, l'intervento del terzo nel procedimento di esdebitazione, intervento che, ritiene sempre l'Avvocatura, involgendo la tutela di un diritto soggettivo, se ci fosse, sarebbe ammissibile.

    Ma dalla detta tutela non può farsi derivare la necessarietà della partecipazione dei creditori al procedimento, essendo sufficiente, per il rispetto dell'art. 24 della Costituzione, che sia attribuita loro la facoltà di intervento.

    Neppure significativo sarebbe il profilo relativo alla assenza di forme di pubblicità della pendenza del procedimento di esdebitazione; infatti, posto che il procedimento deve essere introdotto presso una sede specifica ed entro ben precisi limiti temporali, non sarebbe eccessivamente gravoso l'onere gravante sui creditori non integralmente soddisfatti di verificare l'eventuale presentazione di una istanza di esdebitazione da parte del debitore. In tali casi, utilizzando la normale diligenza, il creditore, se l'istanza risultasse presentata, sarebbe in grado di intervenire in giudizio e tutelare il suo diritto.

Considerato in diritto

    1.- La Corte di appello di Venezia dubita, con riferimento all'art. 24 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 143 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo introdotto a seguito della entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), nella parte in cui esso, in caso di procedimento di esdebitazione attivato ad istanza del debitore nell'anno successivo al decreto di chiusura del fallimento, non preveda, secondo quanto è riportato testualmente nella ordinanza di rimessione, se non la necessità «della partecipaz ione dei creditori concorsuali al procedimento di liberazione dei debiti, quantomeno [. la] messa a conoscenza degli stessi, con idoneo mezzo, dell'instaurazione del procedimento».

    Tale mancata previsione, ad avviso del rimettente, comporta una lesione del diritto di difesa giudiziale, costituzionalmente tutelato, non tanto poiché non è previsto che i creditori concorsuali, non integralmente soddisfatti in sede fallimentare, debbano necessariamente partecipare al procedimento di esdebitazione, quanto perché, a causa della mancata tempestiva informazione ai medesimi della pendenza della procedura, non sarebbe consentito a questi di tutelare in giudizio il loro diritto alla esigibilità del residuo credito vantato.

    2.- Preliminarmente, va disattesa la eccezione di inammissibilità dedotta dalla intervenuta difesa pubblica.

    2.1.- Essa è argomentata sulla base della circostanza che non vi siano state richieste di intervento nella procedura di esdebitazione de qua agitur da parte di creditori ammessi al passivo e non  integralmente soddisfatti, ovvero che non siano state sollevate esplicite eccezioni da parte di costoro relativamente alla lesione del loro diritto di difesa derivante dalla assenza di forme di pubblicità che rendessero loro nota la pendenza della procedura.

    Da ciò l'interveniente difesa farebbe derivare la irrilevanza nel giudizio a quo della sollevata questione di legittimità costituzionale, non dovendo il rimettente applicare la norma nella parte censurata.

    2.2.- La eccezione è priva di pregio: in realtà, il rimettente, dubitando della legittimità costituzionale della norma censurata proprio nella parte in cui non prevede che i creditori concorsuali non integralmente soddisfatti in sede fallimentare siano informati della intervenuta pendenza della procedura di esdebitazione, volta alla dichiarazione di inesigibilità della parte di credito rimasta insoluta all'esito della ripartizione dell'attivo fallimentare, dà per presupposto che tali creditori, in quanto ignari di tale pendenza, non abbiano partecipato alla procedura stessa. Diversamente da quanto ritenuto dalla Avvocatura dello Stato, l'eventuale intervento dei creditori nella procedura in discorso, lungi dal fondare la rilevanza della presente questione di legittimità costi tuzionale, viceversa la escluderebbe, non emergendo da quella fattispecie concreta, diversa dall'ipotesi esaminata dal giudice a quo, una reale violazione del diritto di difesa.

    3.- Nel merito, la questione è parzialmente fondata.

    3.1.- Giova premettere che attraverso l'istituto della esdebitazione, del tutto nuovo nel nostro ordinamento, il legislatore ha inteso dettare una disciplina applicabile, successivamente alla chiusura del fallimento, alle eventuali parti di debito che, all'esito della procedura concorsuale, a causa dell'incompleto adempimento delle obbligazioni del fallito, continuino a gravare su di lui.

    Ricorrendo determinate condizioni - che non essendo oggetto di alcuna contestazione da parte del rimettente non si ritiene di dover esaminare - ed avendo il debitore presentato al riguardo ricorso al tribunale competente per il fallimento (ricorso che può essere introdotto in pendenza della procedura concorsuale ovvero entro l'anno successivo alla pubblicazione del decreto di chiusura del fallimento), il tribunale medesimo, sentito il curatore del fallimento e il comitato dei creditori, secondo la vigente previsione dell'art. 143 della legge fallimentare, è chiamato a dichiarare inesigibili nei confronti del ricorrente i residui debiti concorsuali.

    Il tenore letterale della disposizione da ultimo citata non fa sorgere dubbi che l'effetto della esdebitazione sia quello di escludere la possibilità per i creditori concorsuali rimasti solo parzialmente soddisfatti di pretendere, dopo la chiusura del fallimento, il pagamento del loro residuo credito da parte del «debitore già dichiarato fallito».

    Evidente è, pertanto, l'effetto pregiudizievole che, sotto l'aspetto sostanziale, l'applicazione dell'istituto ha sulla posizione soggettiva dei creditori concorsuali non integralmente soddisfatti.

    Il rimettente lamenta che, nell'ipotesi in cui il ricorso sia presentato nell'anno successivo alla chiusura del fallimento, tale effetto negativo possa determinarsi anche in assenza di qualsivoglia, sia pur potenziale, coinvolgimento dei soggetti incisi da tale decisione (cioè i creditori) nella procedura giurisdizionale volta alla dichiarazione di esdebitazione.

    Il legislatore della riforma del diritto fallimentare, nel disciplinare, al censurato nuovo art. 143 della legge fallimentare, la struttura del procedimento di esdebitazione, non ha infatti previsto che il ricorso introduttivo del giudizio debba essere portato a conoscenza dei creditori concorsuali non integralmente soddisfatti, onde consentire loro, se credono, di intervenire nel giudizio stesso al fine di tutelare, avversando l'istanza di esdebitazione,  la loro posizione.

    3.2.- Tale omissione, per ciò che riguarda i creditori ammessi al passivo, che hanno cioè manifestato un interesse a partecipare alla procedura concorsuale ritenuto meritevole di tutela da parte degli Organi preposti al suo corretto andamento, e di cui sono, quindi, note le generalità e il domicilio, si pone in contrasto con l'art. 24 della Costituzione.

    Più volte, infatti, questa Corte ha affermato che la legittimità costituzionale di un procedimento avente natura giurisdizionale, quale certamente è quello relativo alla esdebitazione, si misura, fra l'altro, sull'indefettibile rispetto delle garanzie minime del contraddittorio, la prima e fondamentale delle quali consiste nella necessità che tanto l'attore quanto il contraddittore partecipino o siano messi in condizione di partecipare al procedimento (si veda in modo specifico l'ordinanza n. 183 del 1999).

    La possibilità di tale partecipazione è, in linea generale, garantita, riguardo al contraddittore, attraverso forme di pubblicità dell'atto col quale il procedimento stesso viene introdotto; forme di pubblicità che, ogniqualvolta ciò sia possibile, sia per la identificabilità dei possibili contraddittori che per il loro numero ragionevolmente contenuto, si ritengono idonee allo scopo ove esse siano portate direttamente a conoscenza di ogni singolo contraddittore, o quanto meno siano portate nella sua sfera di conoscibilità.

    Di tutta evidenza è che la disciplina censurata non prevede alcun adempimento volto ad assicurare, attraverso la conoscenza, ovvero la conoscibilità, della pendenza della procedura, detta partecipazione, ponendosi in tal modo in contrasto con l'art. 24 della Costituzione.

    3.3.- Né tale omissione può considerarsi giustificata - rientrando la scelta di essa nella sfera di discrezionalità riservata al legislatore nella conformazione degli istituti processuali - in ragione delle pur presenti esigenze di celerità e speditezza che, sotto più profili, caratterizzano le procedure concorsuali. Al riguardo è sufficiente osservare che l'ipotesi normativa oggetto di esame da parte di questa Corte riguarda espressamente fattispecie nelle quali la procedura concorsuale già si è esaurita con la dichiarazione di chiusura del fallimento, sicché sarebbe il frutto di una scelta manifestamente arbitraria far perdurare oltre misura gli effetti delle ricordate esigenze.

    Né può convenirsi con la difesa pubblica nella affermazione che, stante il relativamente breve termine - si tratta di un anno dalla chiusura del fallimento - entro il quale può essere presentata dal debitore già fallito la istanza di esdebitazione, non vi è una reale lesione del diritto di difesa dei creditori di costui, potendo i medesimi, utilizzando l'ordinaria diligenza e tramite periodici accessi agli uffici giudiziari ove il ricorso dovrebbe essere presentato, avere contezza della pendenza o meno della procedura.

    Un siffatto onere di informazione, infatti, travalica ampiamente i margini della diligenza ordinariamente esigibile, solo che si consideri la possibilità, che - attesa l'ampia platea del "ceto creditorio" - non è infrequente che, nei fallimenti, la sede di taluno dei creditori fallimentari non coincida con la sede dell'organo giudiziario, corrispondente a quella ove si è svolta la procedura concorsuale, competente per la esdebitazione; situazione questa che imporrebbe, in maniera ingiustificatamente vessatoria, periodici accessi del creditore del fallito in una sede giudiziaria eventualmente estranea a quella di ordinaria pertinenza.

    3.4.- Non può, altresì, ritenersi soddisfacente, ai fini della tutela costituzionale del diritto di difesa, il fatto che l'ultimo comma dell'art. 143 della legge fallimentare preveda la possibilità per i creditori non integralmente soddisfatti di presentare reclamo, ai sensi dell'art. 26 della medesima legge fallimentare, avverso il decreto col quale è stata disposta la esdebitazione. Infatti, a prescindere sia dai brevissimi termini normativi entro i quali essa è legittimamente esercitabile sia dalla problematica compatibilità costituzionale di una forma di tutela giurisdizionale di tipo esclusivamente impugnatorio (in cui, cioè, l'onere probatorio graverebbe sul reclamante) - e non già, come altrove, oppositorio - tale facoltà può essere resa concretamente possibile solo nell'ipotesi in cui coloro che hanno interesse a farne uso siano a conoscenza della esistenza di un provvedimento soggetto a reclamo; ipotesi questa che, stante la mancata previsione della informazione relativa alla instaurazione del procedimento, non trova nei fatti un adeguato fondamento.  

    4.- Va, a questo punto, considerato che il riferimento, contenuto nel già menzionato ultimo comma dell'art. 143 della legge fallimentare, al reclamo - strumento tipico delle procedure svolte secondo il rito camerale - quale mezzo di reazione avverso il provvedimento di esdebitazione, conduce alla conclusione che è questo il modello attraverso il quale si svolge il relativo procedimento. Applicando a tale modello la specifica disciplina dettata dal citato art. 143 della legge fallimentare, che prevede la formalità istruttoria della audizione sia del curatore del fallimento che del comitato dei creditori (organi questi, peraltro, ormai  cessati a seguito della chiusura del fallimento), deriva che debba essere dal giudice fissata almen o un'udienza nella quale svolgere siffatta attività.

    L'esame della disciplina delle procedure camerali consente dunque di ravvisare, come necessario strumento di pubblicità della pendenza della procedura nei confronti dei controinteressati, la notificazione ad essi del ricorso introduttivo e del pedissequo decreto col quale l'organo giudiziario fissa l'udienza in camera di consiglio per la discussione del ricorso stesso.

    Tenuto conto del petitum contenuto nella ordinanza di rimessione della Corte di appello di Venezia, relativo alla ipotesi di procedimento di esdebitazione introdotto con ricorso entro l'anno dall'avvenuta dichiarazione di chiusura del fallimento, deve, pertanto, conformemente al descritto modello procedimentale, affermarsi la illegittimità costituzionale dell'art. 143 della legge fallimentare limitatamente alla parte in cui non prevede la notificazione, a cura del ricorrente e nelle forme previste dagli artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile (ivi compresa, ricorrendone i requisiti, anche quella di cui all'art. 150 cod. proc. civ.), ai creditori concorrenti non integralmente soddisfatti, del ricorso col quale il debitore, già dichiarato fallito, chiede, nell'anno successivo alla dichiarazione di chiusura del fallimento, di essere ammesso al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei medesimi creditori, nonché del decreto col quale il giudice fissa l'udienza in camera di consiglio.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la illegittimità costituzionale dell'art. 143 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo introdotto a seguito della entrata in vigore del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), limitatamente alla parte in cui esso, in caso di procedimento di esdebitazione attivato, ad istanza del debitore già dichiarato fallito, nel l'anno successivo al decreto di chiusura del fallimento, non prevede la notificazione, a cura del ricorrente e nelle forme previste dagli artt. 137 e seguenti del codice di procedura civile, ai creditori concorrenti non integralmente soddisfatti, del ricorso col quale il debitore chiede di essere ammesso al beneficio della liberazione dai debiti residui nei confronti dei medesimi creditori, nonché del decreto col quale il giudice fissa l'udienza in camera di consiglio.

      Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 182

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Franco          GALLO             "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 20, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 25 ottobre 1981, n. 737 (Sanzioni disciplinari per il personale dell'Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti), promosso con ordinanza del 2 aprile 2007 dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia - sezione staccata di Catania sul ricorso proposto da Russello Natalino nei confronti del Ministero dell'Interno ed altro, iscritta al n. 756 del registro ordinanze del 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visto l'atto intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 16 aprile 2008 il Giudice relatore Sabino Cassese.

Ritenuto in fatto

    1. - Nel corso di un giudizio introdotto da un dipendente dell'amministrazione di pubblica sicurezza per l'annullamento del decreto n. 333-D/0166145 del 15 dicembre 2000, con cui il capo della polizia - direttore generale del Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell'interno - ha disposto la sua destituzione, a decorrere dal 28 settembre 2000, il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia - sezione staccata di Catania, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzional e dell'art. 20, comma 2, del d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737 (Sanzioni disciplinari per il personale dell'Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti).

    La norma impugnata prevede che, nel corso del procedimento dinanzi al Consiglio di disciplina, «Il segretario, appena terminata la prima riunione, notifica per iscritto all'inquisito che dovrà presentarsi al consiglio di disciplina nel giorno e nell'ora fissati, avvertendolo che ha facoltà di prendere visione degli atti dell'inchiesta o di chiederne copia entro dieci giorni e di farsi assistere da un difensore appartenente all'Amministrazione della pubblica sicurezza, comunicandone il nominativo entro tre giorni; lo avverte inoltre che, se non si presenterà, né darà notizia di essere legittimamente impedito, si procederà in sua assenza».

    Il Tribunale rimettente denuncia la norma nella parte in cui consente al dipendente dell'amministrazione di pubblica sicurezza, sottoposto a procedimento disciplinare, di essere assistito esclusivamente da un difensore appartenente all'amministrazione medesima.

    Il Tribunale dà conto che il procedimento disciplinare a carico del ricorrente è stato promosso a seguito della sentenza di condanna del Tribunale di Agrigento che lo ha riconosciuto responsabile del reato di falso, previsto dall'art. 479 del codice penale, per aver redatto una falsa relazione di servizio, che, successivamente, la condanna è stata confermata dalla Corte d'appello di Palermo e che il ricorso per cassazione avverso quest'ultima decisione è stato dichiarato inammissibile.

    Il Tribunale rimettente riporta le numerose censure mosse dal ricorrente nel giudizio principale avverso il decreto disciplinare impugnato e riferisce che l'amministrazione si è costituita in giudizio chiedendo il rigetto del ricorso.

    In punto di non manifesta infondatezza della questione, il Tribunale ritiene che la norma impugnata, oltre a violare l'art. 3 Cost., «sarebbe incompatibile con il pieno esercizio del diritto di difesa riconosciuto dall'art. 24 Cost. che lo estende alla garanzia dell'assistenza tecnica che può, tipicamente e professionalmente, essere assicurata da un avvocato del libero Foro oltre che da un dipendente della P.A.».

    Al riguardo, il Tribunale rammenta che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 497 del 2000, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del secondo comma dell'art. 34 del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura) che, al pari della norma oggetto di censura, imponeva all'incolpato di farsi assistere soltanto da un difensore appartenente alla propria amministrazione e che, pertanto, le motivazioni addotte allora dalla Corte costituzionale possono essere «sovrapponibili» per la decisione del caso in esame. Richiama, in proposito, quanto dalla Corte costituzionale precisato nella citata pronuncia in ordine alla «pienezza della tutela paragiurisdizionale» che - secondo il Tribunale rimettente - sarebbe funzionale al corretto e regolare svolgimento delle funzioni dell'amministrazione di pubblica sicurezza e al suo prestigio.

    Il Tribunale ritiene, inoltre, la norma impugnata illegittima tenuto conto che, da un lato, l'art. 16 del decreto legislativo 30 ottobre 1992, n. 449 (Determinazione delle sanzioni disciplinari per il personale del Corpo di polizia penitenziaria e per la regolamentazione dei relativi procedimenti, a norma dell'art. 21, comma 1, della legge 15 dicembre 1990, n. 395), prevede, per il personale appartenente al Corpo della polizia penitenziaria, sottoposto a procedimento disciplinare, la possibilità che lo stesso si possa fare assistere anche da un avvocato e che, dall'altro, l'art. 55, comma 5, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), con riguardo al personale del settore del pubbl ico impiego contrattualizzato, non pone limiti alla nomina di un difensore.

    Infine, il Tribunale rimettente, in punto di rilevanza, osserva che la questione di costituzionalità «va ritenuta rilevante per la definizione del presente giudizio [.] nei termini di cui in motivazione».

    2. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata.

    In via preliminare, la difesa erariale eccepisce l'insufficienza della motivazione dell'ordinanza di remissione in ordine alla rilevanza della questione e, nel merito, sostiene l'infondatezza della questione proposta, con riferimento al principio di eguaglianza, quanto al termine di paragone costituito dal procedimento disciplinare dei magistrati (art. 34 del regio decreto legislativo n. 511 del 1946), attesa la diversità tra i due procedimenti disciplinari posti in comparazione e considerato il peculiare carattere giurisdizionale di quello relativo ai magistrati (sentenza n. 497 del 2000).

    La difesa erariale sostiene peraltro l'infondatezza della questione, con riferimento all'asserita violazione dell'art. 3 Cost., anche quanto alle altre due categorie indicate dal rimettente, stante la diversità delle discipline dei procedimenti poste a confronto.

    Quanto alla dedotta violazione dell'art. 24 Cost., la difesa erariale esclude che la mancanza nella norma denunciata di una previsione esplicita della possibilità di avvalersi dell'assistenza di un avvocato possa costituire di per sé motivo di illegittimità costituzionale per violazione del principio di difesa, considerato che la garanzia sancita dall'art. 24 Cost. si riferisce «al procedimento giurisdizionale» (sentenze nn. 122 e 32 del 1974). Richiama in proposito il costante orientamento della Corte costituzionale secondo cui «l'esercizio della funzione disciplinare nell'ambito del pubblico impiego, della magistratura e delle libere professioni, si esprime con modalità diverse, in conseguenza dell'ampia discrezionalità legislativa in materia» (sentenze n. 351 del 1989 e nn . 202 e 119 del 1995).

    Conclude l'Avvocatura sostenendo che, nel caso in esame, il diritto di difesa è comunque assicurato in quanto al dipendente dell'amministrazione di pubblica sicurezza, sottoposto a procedimento disciplinare, la norma non impedisce una piena ed efficace possibilità di contraddittorio, essendo consentito l'accesso agli atti ed essendo prevista la facoltà di depositare, nel giorno fissato per la trattazione orale, una memoria scritta, con la possibilità di produrre anche nuovi elementi di prova. Del resto, ribadisce l'Avvocatura generale dello Stato, l'interessato può esperire i mezzi di tutela giurisdizionale previsti dalla legge avverso il provvedimento disciplinare adottato dall'amministrazione.

Considerato in diritto

    1. - Il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia - sezione staccata di Catania, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 20, comma 2, del d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737 (Sanzioni disciplinari per il personale dell'Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti), per violazione degli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, nella parte in cui consente al dipendente dell'amministrazione di pubblica sicurezza, sottoposto a procedimento disciplinare, di essere assistito esclusivamente da un difensore appartenente all'amministrazione medesima.

    2. - In via preliminare, va disattesa l'eccezione di inammissibilità prospettata dalla difesa erariale atteso che il Tribunale rimettente ha indicato in modo sufficiente le ragioni per le quali ritiene di dover fare applicazione della norma censurata nella fattispecie oggetto del giudizio principale.

    3. - La questione non è fondata in relazione agli artt. 24 e 3 della Costituzione.

    La Corte ha affermato che la garanzia costituzionale del diritto di difesa (art. 24 Cost.) è limitata al procedimento giurisdizionale e non può, quindi, essere invocata in materia di procedimento disciplinare che, viceversa, ha natura amministrativa e sfocia in un provvedimento non giurisdizionale (sentenze n. 289 del 1992 e nn. 122 e 32 del 1974).

    Ha, tuttavia, sottolineato che l'art. 24 Cost. se indubbiamente si dispiega nella pienezza del suo valore prescrittivo solo con riferimento ai procedimenti giurisdizionali, non manca tuttavia di riflettersi in maniera più attenuata sui procedimenti amministrativi, in relazione ai quali, in compenso, si impongono al più alto grado le garanzie di imparzialità e di trasparenza che circondano l'agire amministrativo (sentenze n. 460 del 2000 e n. 505 del 1995).

    Un procedimento disciplinare che, come quello in esame, può concludersi con la destituzione, tocca le condizioni di vita della persona, incidendo sulla sua sfera lavorativa, e richiede perciò il rispetto di garanzie procedurali per la contestazione degli addebiti e per la partecipazione dell'interessato al procedimento.

    In tale ambito, secondo i principi che ispirano la disciplina del «patrimonio costituzionale comune» relativo al procedimento amministrativo (sentenza n. 104 del 2006), desumibili dagli obblighi internazionali, dall'ordinamento comunitario e dalla legislazione nazionale (art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, resa esecutiva dalla legge 4 agosto 1955, n. 848, recante «Ratifica ed esecuzione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952», art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, firmata a Nizza il 7 dicembre 2000, nonc hé la legge 7 agosto 1990, n. 241, concernente «Nuove norme sul procedimento amministrativo»), vanno garantiti all'interessato alcuni essenziali strumenti di difesa, quali la conoscenza degli atti che lo riguardano, la partecipazione alla formazione dei medesimi e la facoltà di contestarne il fondamento e di difendersi dagli addebiti (sentenze n. 460 del 2000 e nn. 505 e 126 del 1995). Nello stesso senso, secondo l'interpretazione della Corte di giustizia delle Comunità europee, il diritto di difesa «impone che i destinatari di decisioni che pregiudichino in maniera sensibile i loro interessi siano messi in condizione di far conoscere utilmente il loro punto di vista» (Corte di giustizia, sentenza 24 ottobre 1996, C-32/95 P., Commissione Comunità europea c. Lisrestal).

    Con particolare riferimento al procedimento disciplinare relativo ai dipendenti delle forze armate, questa Corte ha ribadito che «deve essere salvaguardata una possibilità di contraddittorio che garantisca il nucleo essenziale di valori inerenti ai diritti inviolabili della persona [.] quando possono derivare per essa sanzioni che incidono su beni, quale il mantenimento del rapporto di servizio o di lavoro, che hanno rilievo costituzionale» (sentenza n. 356 del 1995).

    Da quanto osservato si evince che il diritto di difesa non ha una applicazione piena, nell'ambito dei procedimenti amministrativi. Donde consegue che non possa considerarsi manifestamente irragionevole la decisione del legislatore di consentire che l'accusato ricorra ad un difensore, ma di limitare, in considerazione della funzione svolta (tutela dell'ordine pubblico), la sua scelta ai dipendenti della stessa amministrazione.

    Pertanto, la mancata previsione, nella norma censurata, della possibilità di nominare quale difensore un avvocato, «anche se il legislatore potrebbe nella sua discrezionalità prevederla seguendo un modello di più elevata garanzia» (sentenza n. 356 del 1995), non viola né il diritto di difesa, né il principio di ragionevolezza, considerato che la stessa norma consente all'inquisito di partecipare al procedimento e di difendere le proprie ragioni.

    3.2. - Neppure risulta violato l'art. 3 Cost. sotto il profilo della disparità di trattamento della categoria dei dipendenti dell'amministrazione di pubblica sicurezza rispetto alle tre categorie evocate in comparazione.

    In premessa va ricordato che «l'esercizio della funzione disciplinare nell'ambito del pubblico impiego, della magistratura e delle libere professioni si esprime con modalità diverse che caratterizzano i relativi procedimenti a volte come amministrativi, altre volte come giurisdizionali, [.] in rispondenza a scelte del legislatore, la cui discrezionalità in materia di responsabilità disciplinare spazia entro un ambito molto ampio» (sentenza n. 145 del 1976).

    In primo luogo, a differenza di quanto sostiene il giudice rimettente, le argomentazioni della Corte costituzionale formulate nella sentenza n. 497 del 2000 in relazione alla disciplina del procedimento a carico dei magistrati incolpati, prevista dall'art. 34 del regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 511 (Guarentigie della magistratura), non sono affatto «sovrapponibili» alla decisione della questione in esame. Secondo quanto più volte affermato da questa Corte, tale procedimento «si svolge secondo moduli giurisdizionali» (sentenza n. 145 del 1976) in base al principio costituzionale di garanzia dell'indipendenza e de ll'autonomia della magistratura sancito dall'art. 101 della Costituzione. Quindi, esso non è comparabile con il procedimento disciplinare degli altri settori della pubblica amministrazione (sentenza n. 289 del 1992).

    In secondo luogo, la norma censurata non è comparabile né con la disciplina del procedimento a carico degli impiegati civili dello Stato prevista dall'art. 55, comma 5, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), né con quella prevista per il personale del Corpo di polizia penitenziaria dall'art. 16 del decreto legislativo 30 ottobre 1992, n. 449 (Determinazione delle sanzioni disciplinari per il personale del Corpo di polizia penitenziaria e per la regolamentazione dei relativi procedimenti, a norma dell'art. 21, comma 1, della legge 15 dicembre 1990, n. 395), attesa la disomogeneità delle categorie poste a confronto, caratterizzate da assetti ordinamentali molto diversi.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 20, comma 2, del d.P.R. 25 ottobre 1981, n. 737 (Sanzioni disciplinari per il personale dell'Amministrazione di pubblica sicurezza e regolamentazione dei relativi procedimenti), sollevata, con riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia - sezione staccata di Catania, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Cosi deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Sabino CASSESE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 183

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

 

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 17 della legge 28 luglio 1999, n. 266 (Delega al Governo per il riordino delle carriere diplomatica e prefettizia, nonché disposizioni per il restante personale del Ministero degli affari esteri, per il personale militare del Ministero della difesa, per il personale dell'Amministrazione penitenziaria e per il personale del Consiglio superiore della magistratura), promosso con ordinanza del 26 aprile 2007 dal Tribunale di Treviso nel procedimento civile vertente tra Ferrara Michelina e l'Istituto "Cesana Melanotti" di Vittorio Veneto, iscritta al n. 824 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie speciale, dell'anno 2008.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Sabino Cassese.

Ritenuto in fatto

    1. - Il Tribunale di Treviso in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 26 aprile 2007, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 17 della legge 28 luglio 1999, n. 266 (Delega al Governo per il riordino delle carriere diplomatica e prefettizia, nonché disposizioni per il restante personale del Ministero degli affari esteri, per il personale militare del Ministero della difesa, per il personale dell'Amministrazione penitenziaria e per il personale del Consiglio superiore della magistratura), per violazione dell'art. 97 della Costituzione.

    La norma impugnata stabilisce che «Il coniuge convivente del personale in servizio permanente delle forze armate, compresa l'Arma dei carabinieri, del Corpo della Guardia di finanza e delle Forze di polizia ad ordinamento civile e degli ufficiali e sottufficiali piloti di complemento in ferma dodecennale di cui alla legge 19 maggio 1986, n. 224, nonché del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, trasferiti d'autorità da una ad altra sede di servizio, che sia impiegato in una delle amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, ha diritto, all'atto del trasferimento o dell'elezione di domicilio nel territorio nazionale, ad essere impiegato presso l'amministrazione di appartenenza o, per comando o distacco, presso altre amministrazioni nella sede di servizio del coniuge o, in mancanza, nella sede più vicina».

    1.1. - Il rimettente riferisce che il giudizio principale ha tratto origine dal ricorso di una dipendente di un Istituto pubblico di assistenza e beneficienza (IPAB), coniugata e convivente con un militare di carriera trasferito d'autorità ad altra sede di servizio. La ricorrente del giudizio a quo, a fronte del rifiuto dell'amministrazione di appartenenza di accogliere la sua domanda di essere comandata presso la Unità sanitaria locale di Civitavecchia, luogo in cui si trova la nuova sede di servizio del coniuge, ha dapprima ottenuto dal giudice un provvedimento cautelare di condanna dell'Istituto a disporre il comando e, con successivo ricor so, ha chiesto la conferma della misura cautelare nonché il risarcimento dei danni, per avere l'Istituto, prima dell'ordinanza del giudice, immotivatamente negato il diritto previsto dalla disposizione impugnata.

    1.2. - Ad avviso del giudice rimettente la disposizione impugnata attribuisce al dipendente pubblico, coniuge di militare trasferito di autorità, un vero e proprio diritto soggettivo al ricongiungimento, per realizzare il quale il legislatore ha individuato diverse modalità possibili: il trasferimento, che «può avvenire d'ufficio, se attuato nell'interesse dell'amministrazione, o su domanda, se nell'interesse del dipendente, ed ha carattere di definitività»; il comando, il quale, «al pari del distacco che nasce da prassi amministrativa», «ha natura eccezionale e temporanea», «è attuato nell'interesse dell'amministrazione» e prevede che il dipendente resti nella pianta organica dell'amministrazione di provenienza. Secondo il Tribunale di Treviso, gli istit uti del comando e del distacco vengono, in base alla norma impugnata, eccezionalmente utilizzati nell'interesse del dipendente, anziché, come di regola avviene, in quello dell'amministrazione. Tale utilizzo «anomalo», e «senza alcun limite», secondo il rimettente, comprimerebbe irragionevolmente gli interessi dell'amministrazione di provenienza, che sarebbe costretta, per sostituire la persona comandata, ad assumere personale temporaneo per far fronte ad esigenze permanenti, dovendo altresì retribuire la persona comandata in aggiunta a quella che la sostituisce e sopportare un «divario permanente» fra la propria dotazione organica e il personale effettivamente in servizio. Il giudice rimettente ritiene, in punto di non manifesta infondatezza, che un «equo contemperamento degli interessi in gioco» si realizzerebbe solo utilizzando esclusivamente l'istituto del trasferimento ai fini del ricongiungimento, oppure prevedendo la trasformazione del comando in trasferimento definitivo dopo u n ragionevole lasso di tempo. Pertanto, il Tribunale di Treviso chiede la dichiarazione di illegittimità costituzionale, per contrasto con il principio di buon andamento di cui all'art. 97 Cost., della norma impugnata, «nella parte in cui prevede il diritto, senza limite alcuno, del coniuge convivente del personale delle forze armate e di polizia, trasferiti d'autorità da una ad altra sede di servizio, che sia impiegato in una amministrazione pubblica ad essere impiegato per comando o distacco, presso altre amministrazioni nella sede di servizio del coniuge o, in mancanza, nella sede più vicina».

    Ad avviso del giudice rimettente la questione è, infine, rilevante, alla luce delle «circostanze di fatto e [del]le argomentazioni in diritto suesposte».

    2. - E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, osservando che la questione di legittimità è inammissibile e, comunque, non fondata.

    L'Avvocatura generale dello Stato ritiene la questione inammissibile eccependo, in primo luogo, il difetto di motivazione sulla rilevanza, atteso che il giudice rimettente non avrebbe sviluppato alcuna argomentazione per dimostrare che le Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficienza, tra cui l'ente da cui dipende la ricorrente del giudizio principale, rientrino nell'elenco tassativo di amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 (Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego), sostituito dall'art. 1 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull'ordinamento del lavoro alle dipendenze delle a mministrazioni pubbliche), e, quindi, nell'ambito di applicazione della disposizione censurata. Né il rimettente avrebbe spiegato, secondo la difesa erariale, in quale modo il comando della dipendente arrechi un effettivo danno al datore di lavoro.

    In secondo luogo, la difesa erariale eccepisce il difetto di motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza, in ragione della mancata ricostruzione del quadro normativo da parte del giudice rimettente.

    Infine, secondo l'Avvocatura generale dello Stato, la questione è inammissibile perché il giudice rimettente chiederebbe in realtà una pronuncia additiva, o comunque una modifica del regime del rapporto, che non è costituzionalmente «obbligata».

    Nel merito, l'Avvocatura generale dello Stato ritiene la questione non fondata, dovendo ritenersi che la norma impugnata realizzi un contemperamento non irragionevole fra diversi interessi legittimamente perseguiti dal legislatore. Secondo la difesa erariale la disposizione censurata, in particolare, per un verso, assicurerebbe una accentuata mobilità del personale militare, contribuendo al buon andamento di un settore fondamentale della pubblica amministrazione, come quello delle forze armate, e, per un altro verso, favorirebbe la ricongiunzione familiare, tutelando un altro fondamentale bene costituzionalmente garantito, come il diritto all'unità familiare.

Considerato in diritto

    1. - Il Tribunale di Treviso, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 17 della legge 28 luglio 1999, n. 266 (Delega al Governo per il riordino delle carriere diplomatica e prefettizia, nonché disposizioni per il restante personale del Ministero degli affari esteri, per il personale militare del Ministero della difesa, per il personale dell'Amministrazione penitenziaria e per il personale del Consiglio superiore della magistratura), con riferimento all'art. 97 della Costituzione, nella parte in cui prevede il diritto, senza limite alcuno, del coniuge convivente del personale delle forze armate e di polizia, trasferiti d'autorità da una ad altra sede di servizio, che sia impiegato in una amministrazi one pubblica, ad essere impiegato, per comando o distacco, presso altre amministrazioni nella sede di servizio del coniuge o, in mancanza, nella sede più vicina.

    2. - Vanno preliminarmente disattese le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa erariale.

    Sotto il profilo della rilevanza, il giudice rimettente ha accertato la natura giuridica pubblica dell'istituzione da cui dipende la ricorrente del giudizio principale e ha adeguatamente descritto la fattispecie al suo esame, motivando sufficientemente in ordine alla rilevanza della questione sollevata, sia ai fini del giudizio relativo alla conferma del provvedimento cautelare di condanna dell'amministrazione a disporre il comando, sia ai fini del risarcimento del danno lamentato dalla ricorrente nel giudizio principale.

    Sotto il profilo della non manifesta infondatezza, malgrado l'incompleta ricostruzione del quadro normativo e convenzionale eccepita dalla difesa erariale, gli elementi indicati dal rimettente costituiscono una motivazione sufficiente a giustificare il dubbio di legittimità costituzionale prospettato.

    Quanto, infine, alla formulazione del petitum, il rimettente, seppure con alcune ambiguità, non chiede alla Corte una pronuncia additiva non costituzionalmente obbligata, bensì domanda, anche in considerazione dell'assenza di un limite al diritto al ricongiungimento, previsto dalla disposizione legislativa censurata, la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione stessa.

    3. - La questione non è fondata.

    La finalità dell'istituto del ricongiungimento del coniuge di militare trasferito, previsto dalla disposizione impugnata, è di tener conto contemporaneamente di due diverse esigenze: da un lato, quella del buon andamento (art. 97 Cost.) dell'amministrazione militare, la quale richiede un regime di più accentuata mobilità del rispettivo personale, per cui è previsto un «trasferimento d'autorità»; dall'altro lato, l'esigenza di tutela dell'unità familiare (art. 29, secondo comma, Cost.), che, in mancanza di tale istituto, per il militare e la sua famiglia risulterebbe compromessa, proprio a causa del particolare regime di mobilità che ne connota lo status.

    Il ricongiungimento è, dunque, diretto a rendere effettivo il diritto all'unità della famiglia, che, come questa Corte ha riconosciuto, si esprime nella garanzia della convivenza del nucleo familiare e costituisce espressione di un diritto fondamentale della persona umana (sentenze n. 113 del 1998 e n. 28 del 1995). Tale valore costituzionale può giustificare una parziale compressione delle esigenze di alcune amministrazioni (nella specie, quelle di volta in volta tenute a concedere il comando o distacco di propri dipendenti per consentirne il ricongiungimento con il coniuge), purché nell'ambito di un ragionevole bilanciamento dei diversi valori contrapposti, operato dal legislatore.

    Inoltre, la legittimità di una disposizione legislativa, rispetto al parametro dell'art. 97 della Costituzione, deve essere valutata tenendo conto dei suoi effetti sul buon andamento della pubblica amministrazione complessivamente intesa, non già di singole sue componenti, isolatamente considerate. Nel caso in esame, se è vero che l'istituto del ricongiungimento sottrae un dipendente ad un'amministrazione, è vero altresì che esso attenua i disagi provocati dalla mobilità del dipendente di un'altra amministrazione.

    Infine, non può dirsi che il comando o distacco sia a tempo indeterminato. Esso, infatti, è collegato al trasferimento d'autorità del coniuge e dura finché questo permane.

    In conclusione, ove si assuma una prospettiva più ampia di quella da cui il rimettente ha preso le mosse, che tenga conto sia del complesso dei valori costituzionali in considerazione, sia degli effetti che la norma produce sul buon andamento dell'amministrazione pubblica in generale, deve ritenersi che la scelta del legislatore, costituendo un bilanciamento non irragionevole delle esigenze e degli interessi che vengono in rilievo, non si ponga in contrasto con l'art. 97 della Costituzione sotto il profilo del buon andamento.

per q uesti motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 17 della legge 28 luglio 1999, n. 266 (Delega al Governo per il riordino delle carriere diplomatica e prefettizia, nonché disposizioni per il restante personale del Ministero degli affari esteri, per il personale militare del Ministero della difesa, per il personale dell'Amministrazione penitenziaria e per il personale del Consiglio superiore della magistratura), sollevata, con riferimento all'art. 97 della Costituzione, dal Tribunale di Treviso, in funzione di gi udice del lavoro, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Sabino CASSESE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 184< /o:p>

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE       Presidente

- Giovanni Maria  FLICK        Giudice

- Francesco       AMIRANTE        "

- Ugo               DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA       "

- Alfonso         QUARANTA        "

- Franco          GALLO           "

- Luigi           MAZZELLA        "

- Gaetano         SILVESTRI       "

- Sabino          CASSESE         "

- Maria Rita      SAULLE          "

- Giuseppe        TESAURO         "

- Paolo Maria     NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge 5 aprile 1985, n. 135 (Disposizioni sulla corresponsione di indennizzi a cittadini ed imprese italiane per beni perduti in territori già soggetti alla sovranità italiana e all'estero), come interpretato dall'art. 1, comma 5, della legge 29 gennaio 1994, n. 98 (Interpretazioni autentiche e norme procedurali relative alla legge 5 aprile 1985, n. 135, recante «Disposizioni sulla corresponsione di indennizzi a cittadini ed imprese italiane per beni perduti in territori già soggetti alla sovranità italiana e all'estero»), promosso con ordinanza del 31 agosto 2006 dal Tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra la EMONA - Istituto Agricolo Immobiliare di Lubiana s.r.l. e il Ministero dell'Economia e delle Finanze, iscritta al n. 223 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell'anno 2007.

      Visto l'atto di costituzione della EMONA - Istituto Agricolo Immobiliare di Lubiana s.r.l.;

      udito nell'udienza pubblica dell'11 marzo 2008 il Giudice relatore Maria Rita Saulle;

      udito l'avvocato Pierluigi Giammaria per la EMONA - Istituto Agricolo Immobiliare di Lubiana s.r.l.

    Ritenuto che, con ordinanza del 31 agosto 2006, il Tribunale di Roma ha sollevato, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge 5 aprile 1985, n. 135 (Disposizioni sulla corresponsione di indennizzi a cittadini ed imprese italiane per beni perduti in territori già soggetti alla sovranità italiana e all'estero), come interpretato dall'art. 1, comma 5, della legge 29 gennaio 1994, n. 98 (Interpretazioni autentiche e norme procedurali relative alla legge 5 aprile 1985, n. 135, recante «Disposizioni sulla corresponsione di indennizzi a cittadini ed imprese italiane per beni perduti in territori già soggetti alla sovranità italiana e all'estero»);

    che, in particolare, il citato art. 2 viene censurato nella parte in cui, modificando l'art. 2 della legge 26 gennaio 1980, n. 16 (Disposizioni concernenti la corresponsione di indennizzi, incentivi ed agevolazioni a cittadini ed imprese italiane che abbiano perduto beni, diritti ed interessi in territori già soggetti alla sovranità italiana e all'estero), individua «nella misura fissa dell'8 per cento costante quindicennale il concorso statale sugli interessi da pagarsi per mutui contratti con enti, istituti e aziende di credito dai soggetti che abbiano reimpiegato in attività produttive, industriali, agricole, commerciali, artigianali, di servizi ed edili tutto o parte degli indennizzi ricevuti»;

    che il rimettente, nel giudizio principale, è chiamato a pronunciarsi in merito alla domanda proposta da EMONA (Istituto Agricolo Immobiliare di Lubiana s.r.l) nei confronti del Ministero dell'Economia e delle Finanze, al fine dell'attribuzione del contributo statale previsto dalla norma censurata;

    che il giudice a quo, in punto di fatto, evidenzia che parte del patrimonio di EMONA è stato confiscato a seguito del Trattato di pace, firmato a Parigi il 10 febbraio 1947, e «della cessione della provincia di Lubiana alla (allora) Repubblica Federale di Jugoslavia»;

    che, in ragione di detta confisca ed ai sensi delle norme sopra indicate, l'EMONA ha ricevuto un indennizzo, successivamente reimpiegato nell'acquisto di un bene immobile; investimento per il quale è stato, altresì, stipulato un contratto di mutuo con un istituto di credito invocando il beneficio previsto dall'art. 2 della legge n. 135 del 1980 e dall'art. 1 della legge n. 98 del 1994;

    che, ad avviso del Tribunale rimettente, la norma censurata sarebbe irragionevole, poiché non prevederebbe «la possibilità di graduare l'entità del concorso statale in ragione della misura effettiva degli interessi passivi da corrispondere» agli istituti di credito;

    che, in particolare, la mancanza di siffatta previsione, «in epoche di costo del denaro inferiore al tasso dell'8%, come quella attuale», determinerebbe  «un sostanziale arricchimento» per il beneficiario dell'indennizzo, in contrasto con le finalità solidaristiche poste a fondamento della scelta del legislatore;

    che, in punto di rilevanza, il giudice rimettente osserva che, ove la norma censurata venisse dichiarata illegittima, si avrebbe «una sostanziale riduzione» del concorso statale richiesto;

    che, con atto depositato in data 8 maggio 2007, si è costituita in giudizio la società EMONA, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata, ovvero, in subordine, sia accolta limitatamente alla mancata indicazione da parte del legislatore di un meccanismo di adeguamento proporzionale del concorso statale al variare del tasso di interesse corrente sul mercato;

    che, a parere della società EMONA,  la ratio della norma impugnata, alla luce anche dei lavori preparatori, sarebbe «puramente indennitaria», dovendosi infatti configurare il contributo sugli interessi come «ulteriore forma di indennizzo», da accordare in caso di reinvestimento dello stesso e che, pertanto, non vi sarebbe irragionevolezza in tale scelta discrezionale del legislatore, essendo finalizzata «a rendere meno simbolico l'indennizzo complessivo» concesso;

    che, in prossimità dell'udienza, con memoria depositata  in data 26 febbraio 2008, la parte attrice nel giudizio principale ha svolto ulteriori considerazioni  illustrative del proprio atto di costituzione, allegando apposita documentazione;

    che, in particolare,  ad avviso  della società EMONA, lo Stato italiano, in virtù dell'art. 79 del Trattato di pace del 1947, ha assunto l'impegno di indennizzare i cittadini italiani, i cui beni siano stati oggetto di confisca; di tal che il legislatore, nell'introdurre la disciplina sui beni perduti all'estero, non ha «compiuto una scelta politica», bensì si è conformato a «precisi obblighi internazionali».

    Considerato che il Tribunale di Roma dubita, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge 5 aprile 1985, n. 135 (Disposizioni sulla corresponsione di indennizzi a cittadini ed imprese italiane per beni perduti in territori già soggetti alla sovranità italiana e all'estero), come interpretato dall'art. 1, comma 5, della legge 29 gennaio 1994, n. 98 (Interpretazioni autentiche e norme procedurali relative alla legge 5 aprile 1985, n. 135, recante «Disposizioni sulla corresponsione di indennizzi a cittadini ed impr ese italiane per beni perduti in territori già soggetti alla sovranità italiana e all'estero»);

    che la censura attiene al cennato art. 2 della legge n. 135 del 1985, nella parte in cui, modificando l'art. 2 della legge 26 gennaio 1980, n. 16 (Disposizioni concernenti la corresponsione di indennizzi, incentivi e agevolazioni a cittadini ed imprese italiane che abbiano perduto beni, diritti ed interessi in territori già soggetti alla sovranità italiana e all'estero), individua «nella misura fissa dell'8 per cento costante quindicennale il concorso statale sugli interessi da pagarsi per mutui contratti con enti, istituti e aziende di credito dai soggetti che abbiano reimpiegato in attività produttive, industriali, agricole, commerciali, artigianali, di servizi ed edili tutto o parte degli indennizzi ricevuti»;

    che la norma censurata stabilisce che il «concorso statale dell'8 per cento costante quindicennale» è riconosciuto «sugli interessi da pagarsi per mutui»;

    che, a parere del rimettente, l'irragionevolezza di tale norma risiede nel fatto che la percentuale del contributo statale da essa prevista può essere superiore a quella che il privato indennizzato deve corrispondere alla banca mutuante;

    che il rimettente, nel sollevare la suddetta questione di legittimità costituzionale, non ha considerato la possibilità di pervenire ad una diversa interpretazione della disposizione censurata, la quale implicherebbe il riferimento del contributo statale sugli interessi che il soggetto privato è tenuto a pagare alla banca, indipendentemente dal tasso praticato da quest'ultima;

    che pertanto la questione, essendo carente di motivazione riguardo alla non manifesta infondatezza, deve essere dichiarata manifestamente inammissibile;

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 2 della legge 5 aprile 1985, n. 135 (Disposizioni sulla corresponsione di indennizzi a cittadini ed imprese italiane per beni perduti in territori già soggetti alla sovranità italiana e all'estero), come interpretato dall'art. 1, comma 5, della legge 29 gennaio 1994, n. 98 (Interpretazioni autentiche e norme procedurali relative alla legge 5 aprile 1985, n. 135, recante «Disposizioni sulla corresponsione di indennizzi a cittadini ed imprese italiane per beni perduti in territori già soggetti alla sovranità italiana e all'estero»), sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale di Roma con l'ordinanza in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Maria Rita SAULLE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 185</ A>

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

-         Franco         BILE         Presidente

-         Giovanni Maria FLICK          Giudice

-         Francesco      AMIRANTE          "

-         Ugo            DE SIERVO         "

-         Paolo          MADDALENA         "

-         Alfio          FINOCCHIARO       "

-         Alfonso        QUARANTA          "

-         Franco         GALLO             "

-         Gaetano        SILVESTRI         "

-         Sabino         CASSESE           "

-         Maria Rita     SAULLE            "

-         Giuseppe       TESAURO           "

-         Paolo Maria        NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), promosso con ordinanza del 30 marzo 2007 dal Tribunale per i minorenni di Palermo nel procedimento relativo a M. R., iscritta al n. 667 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 12 marzo 2008 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro.

    Ritenuto che il Tribunale per i minorenni di Palermo, con ordinanza del 30 marzo 2007 - emessa nel corso del procedimento promosso da genitore non coniugato per ottenere, ai sensi degli artt. 155 e seguenti, 317-bis e 336 del codice civile, e dell'art. 709-ter del codice di procedura civile, l'affidamento esclusivo del figlio minore con lui convivente, nonché la condanna del genitore non convivente al versamento di un assegno mensile per il mantenimento del figlio, e la inibizione o la limitazione del potere di vigilanz a e del diritto di visita nei confronti dello stesso -, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24 e 25 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), nella parte in cui estende le disposizioni della medesima legge anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati;

    che il Collegio rimettente osserva che tale disposizione ignora la diversità delle situazioni previste ed omette di specificare esattamente i margini e le modalità di tale estensione, così generando un'ambiguità interpretativa che determina, e di fatto ha determinato, in tutto il territorio nazionale una diversità di trattamento delle persone ed un'incertezza normativa costituzionalmente inammissibile;

    che, in relazione a tale indeterminatezza normativa, il Collegio rimettente sospetta l'illegittimità costituzionale del predetto art. 4, comma 2, della legge n. 54 del 2006, per violazione dei predetti parametri, dal momento che la disposizione censurata, oltre a prevedere un illogico assoggettamento dei genitori separati non coniugati alle conseguenze derivanti dallo scioglimento di un patto (quello matrimoniale) mai voluto, evidenzia aspetti di ambiguità e di imprecisione tali da generare notevoli dubbi;

    che, osserva al riguardo il giudice a quo, è possibile elaborare - e di fatto sono state elaborate - almeno tre interpretazioni diverse che, a suo parere, presentano tutte profili di incostituzionalità;

    che la dizione letterale della norma indurrebbe, prima facie, a ritenere che nei procedimenti pendenti dinanzi al tribunale per i minorenni andrebbero applicate tutte le norme della legge n. 54 del 2006, comprese quelle relative alle questioni patrimoniali (determinazione dell'assegno di mantenimento dei figli; assegnazione della casa familiare; sanzioni in caso di inadempimento delle condizioni della separazione), con conseguente spostamento della competenza dal tribunale ordinario a quello per i minorenni;

    che - rileva ancora il rimettente - a prescindere dalla considerazione che tale spostamento di competenza non è stato espressamente previsto dal legislatore, che ha lasciato invariato l'art. 38 disp. att. cod. civ., l'attribuire al tribunale per i minorenni la competenza a decidere riguardo alle questioni patrimoniali e sanzionatorie, significherebbe ammettere la possibilità per i genitori separati non coniugati di agire in giudizio per il soddisfacimento delle proprie pretese con le forme proprie del rito in vigore presso il medesimo tribunale, ossia quello previsto dagli artt. 737 e seguenti cod. proc. civ., che disciplinano i procedimenti in camera di consiglio;

    che ciò renderebbe evidente l'inammissibilità di tale interpretazione per contrasto con l'art. 24 della Costituzione, posto che le garanzie difensive di entrambi i genitori risulterebbero sicuramente compresse in un procedimento di volontaria giurisdizione, qual è quello attualmente vigente presso il tribunale per i minorenni;

    che, inoltre, uno spostamento implicito di competenza dal giudice civile ordinario al giudice minorile sarebbe in contrasto con l'art. 25 Cost., in quanto violerebbe il principio del giudice naturale precostituito per legge, per l'inesistenza di un'espressa attribuzione legislativa di competenza al giudice minorile delle questioni patrimoniali relative ai figli dei genitori separati non coniugati;

    che, in ogni caso, si determinerebbe una illogica disparità di trattamento fra genitori separati coniugati e non coniugati, dal momento che i primi sarebbero assoggettati solamente alla disciplina di cui alla legge n. 54 del 2006 ed al rito ordinario, mentre i secondi sarebbero assoggettati, contemporaneamente, alle norme della legge n. 54 del 2006, all'art. 317-bis cod. civ. ed al rito camerale, con conseguenze non indifferenti sul piano sostanziale e processuale;

    che la legge n. 54 non ha, infatti, modificato né abrogato l'art. 317-bis cod. civ. né, d'altra parte, tale articolo può ritenersi abrogato ai sensi dell'art. 15 delle "preleggi";

    che, secondo il Collegio rimettente, non può sostenersi un secondo orientamento ermeneutico che vuole, al contrario, spostare tutta la competenza dal tribunale per i minorenni al giudice civile ordinario, dal momento che il legislatore non ha operato alcuna modifica del regime delle competenze di cui all'art. 38 disp. att. cod. civ., sicché, sostenere il contrario determinerebbe un contrasto con l'art. 25 della Costituzione, mentre, in ogni caso, rimarrebbe il dubbio sul concreto àmbito di operatività dell'art. 317-bis cod. civ.;

    che, sulla base di una terza ipotesi interpretativa, potrebbe, infine, ritenersi che l'art. 4, comma 2, della legge n. 54 del 2006 abbia in sostanza lasciato invariata la distribuzione delle competenze tra giudice civile ordinario e giudice minorile, con la conseguenza che, in base a tale interpretazione, la norma andrebbe letta nel senso di ritenere estesa ai procedimenti relativi ai figli di genitori separati non coniugati - di competenza del giudice minorile - esclusivamente «le disposizioni di cui ai commi 1 e 2, prima parte», dell'art. 155 e di cui all'art. 155-bis cod. civ. relativi all'affidamento condiviso, mentre le rimanenti norme della legge n. 54 n. 2006, riguardanti le questioni patrimoniali e sanzionatorie, rimarrebbero d i competenza del giudice civile ordinario;

    che anche tale interpretazione, a parere del giudice a quo, dà luogo a dubbi di incostituzionalità, tenuto conto della contemporanea vigenza ed operatività dell'art. 317-bis e degli artt. 155 e 155-bis cod. civ., dal momento che la siffatta opzione ermeneutica comporterebbe che ciascun genitore separato non coniugato possa indifferentemente richiedere al giudice minorile l'applicazione della disciplina dell'affidamento condiviso di cui all'art. 155 cod. civ. ovvero ritenersi genitore affidatario ai sensi dell'art. 317-bis cod. civ., secondo le proprie posizioni e convinzioni, con evi dente disparità di trattamento rispetto ai genitori separati coniugati e difficoltà di individuazione della norma in concreto applicabile;

    che, in definitiva, il Collegio rimettente ritiene che l'art. 4, comma 2, della legge n. 54 del 2006 determina di fatto una disciplina la quale, per alcuni aspetti, equipara illogicamente la posizione di coloro che sono legati dal vincolo matrimoniale a coloro che invece non lo sono, e che, nel complesso, risulta comunque intrinsecamente priva di ragionevolezza e contraria alle esigenze di certezza del diritto;

    che nel giudizio innanzi alla Corte ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la inammissibilità o la manifesta infondatezza della questione;

    Considerato che il Tribunale per i minorenni di Palermo dubita della legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), «nella parte in cui estende la normativa di cui alla medesima legge ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati», per violazione: dell'art. 3 della Costituzione, per la illogica equiparazione della posizione di coloro che sono legati dal vincolo matrimoniale a quella di coloro che invece non lo sono, e per la intrinseca irragionevolezza; nonché degli artt. 24 e 25 della Costituzione, per la mancanza di chiarezza in ordine alla individuazione sia dei procedimenti ai quali applicare la normativa, sia dell'autorità giudiziaria competente a decidere;

    che deve, preliminarmente, rilevarsi la oscurità del petitum, quale individuato dal rimettente;

    che, dalla ricostruzione operata attraverso la lettura dell'intero testo della ordinanza di rimessione, sembra, tuttavia, potersi concludere che l'art. 4, comma 2, della legge n. 54 del 2006, censurato «nella parte in cui estende le disposizioni della medesima legge anche ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati, per violazione degli artt. 3, 24, 25 della Costituzione», venga, in realtà, sospettato di illegittimità costituzionale con esclusivo riferimento alla omessa indicazione di disposizioni in ordine alla individuazione dell'autorità giudiziaria competente, traducendosi tale omissione, ad avviso del rimettente, in una incertezza interpretativa;

    che, al riguardo, il giudice a quo si limita a prospettare le varie alternative esegetiche possibili - tra le quali, per altro, successivamente alla proposizione della questione di legittimità costituzionale, la Corte di cassazione, con ordinanza n. 8362 del 2007, ha optato per la prima - senza precisare quale sia la soluzione cui intende aderire;

    che, non avendo il Collegio a quo concentrato il quesito sull'una o sull'altra di dette alternative, la questione risulta formulata in modo ancipite e deve, quindi, essere dichiarata manifestamente inammissibile (ex plurimis ordinanze n. 316 e n. 62 del 2007, n. 363 del 2005, n. 192 del 2004).

    Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi innanzi alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 4, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 25 della Costituzione, dal Tribunale per i minorenni di Palermo, con l'ordinanza in epigrafe.

    Così deciso, in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 186

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai Signori:

-         Franco         BILE         Presidente

-         Giovanni Maria FLICK          Giudice

-         Francesco      AMIRANTE          "

-         Ugo            DE SIERVO         "

-         Paolo          MADDALENA         "

-         Alfio          FINOCCHIARO       "

-         Alfonso        QUARANTA          "

-         Franco         GALLO             "

-         Luigi          MAZZELLA          "

-         Gaetano        SILVESTRI         "

-         Sabino         CASSESE           "

-         Maria Rita     SAULLE            "

-         Giuseppe       TESAURO           "

-         Paolo Maria        NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 2471 del codice civile e 538 del codice di procedura civile, promosso con ordinanza del 14 maggio 2007 dal Giudice dell'esecuzione del Tribunale ordinario di Bologna, sul ricorso proposto dalla Banca Antoniana Popolare Veneta s.p.a. ed altri contro Gazzoni Frascara Giuseppe ed altra, iscritta al n. 725 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visti l'atto di costituzione della G.M.G. Group s.r.l., nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 15 aprile 2008 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro;

    uditi l'avvocato Tiziana Tampieri per la G.M.G. Group s.r.l. e l'avvocato dello Stato Diego Giordano per il Presidente del Consiglio dei ministri.

    Ritenuto che, con ordinanza del 14 maggio 2007, il Giudice dell'esecuzione del Tribunale ordinario di Bologna ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 2471 del codice civile e 538 del codice di procedura civile, per contrasto con gli artt. 3, 24, 42 e 111 della Costituzione, nella parte in cui non prevedono - in caso di mancata vendita della quota pignorata di società a responsabilità limitata anche dopo il secondo incanto e in difetto di altri beni del debitore esecutato proprietario della quota - la possibilità per il giudice dell'esecuzione di disporre un nuovo incanto a prezzo ribassato fino ad un quinto, ma con esclusione della possibilità per la società di presentare un altro acquirente che offra lo stesso prezzo entro dieci giorni dall'aggiudicazione;

    che il rimettente riferisce che la Banca Antoniana Popolare Veneta s.p.a. e l'Emilia Romagna Factor s.p.a. avevano sottoposto a pignoramento la quota nella società G.M.G. Group s.r.l. appartenente a Giuseppe Gazzoni Frascara;

    che il debitore aveva depositato in cancelleria dichiarazione, ai sensi dell'art. 492, quarto comma, cod. proc. civ., dichiarando che, oltre alle quote pignorate, non vi erano nel suo patrimonio altri beni ulteriormente aggredibili;

    che, in séguito alle istanze di vendita, il giudice a quo, constatato il difetto di qualsiasi «accordo sulla vendita» tra creditori, debitore e società, aveva disposto la vendita all'incanto - ai sensi degli artt. 2471 cod. civ. e 538 cod. proc. civ. - delle predette quote;

    che dal complesso delle clausole statutarie vigenti all'epoca del pignoramento si evinceva che la circolazione delle quote della citata società era sottoposta a limitazioni tali per cui le partecipazioni potessero trasferirsi tra vivi ma con l'obbligo, a carico del socio che intendesse trasferire in tutto o in parte la propria partecipazione, di offrirla preventivamente agli altri soci;

    che, per effetto di tale vincolo, l'aggiudicazione sarebbe stata definitiva solo quando la società, entro dieci giorni dall'aggiudicazione provvisoria in favore del miglior offerente, quale conseguita in udienza, non avesse presentato un altro acquirente per lo stesso prezzo, facendosi dunque applicazione della disposizione di cui all'art. 2471, terzo comma, seconda parte, cod. civ. in coordinamento con l'art. 538 cod. proc. civ.;

    che l'asta seguita all'ordinanza di vendita all'incanto era andata deserta, essendo la quota rimasta invenduta;

    che anche a tale asta non aveva fatto seguito alcuna aggiudicazione per mancanza di offerte;

    che la questione sarebbe rilevante in quanto l'adozione della peculiare procedura di vendita all'incanto con il rispetto della facoltà di designazione alternativa da assicurare ancora alla società nei dieci giorni dall'aggiudicazione costituirebbe un aspetto essenziale del regime specifico della vendita forzata della quota di società a responsabilità limitata che, per le caratteristiche di massima trasparenza e pubblicità dell'espropriazione, dovrebbe essere enunciata in modo espresso già nella attuale fase del processo esecutivo e, dunque, nel provvedimento giudiziale con cui la stessa vendita è ordinata, costituendo essa uno specifico modello provvedimentale prima ancora che una facoltà collaterale attribuita dall'ordinamento ad un soggetto interessato e scaturente dall'evento, futuro ed incerto, dell'aggiudicazione;

    che una vendita di quote di società a responsabilità limitata dopo il secondo incanto andato deserto, che instauri una competitività pura fra offerenti, cioè senza soggezione potenziale alla designazione alternativa dell'aggiudicatario, troverebbe, secondo il giudice a quo, un ostacolo insormontabile nel dettato dell'art. 2471, terzo comma, cod. civ.;

    che la questione non è, ad avviso del rimettente, manifestamente infondata, dal momento che la specialità del terzo comma dell'art. 2471 cod. civ. imporrebbe la necessità di disporre ancora la vendita all'incanto a prezzo ribassato fino ad un quinto, ma condizionando la definitività dell'aggiudicazione al mancato esercizio da parte della società del diritto di presentare un altro acquirente che offra lo stesso prezzo, nonostante il secondo incanto andato deserto e nonostante la dichiarata impossidenza del debitore, in contrasto con le disposizioni di cui agli artt. 3, 42, 24 e 111 della Costituzione;

    che dagli atti, in particolare dalla stima, dall'andamento delle operazioni di custodia e dal resoconto delle attività espletate dall'ausiliario nella ricerca informativa di possibili acquirenti, è emerso - rileva il giudice a quo - che la clausola di prelazione non è estranea al meccanismo determinativo del prezzo finale ed anzi alla stessa effettività della partecipazione di terzi; trattandosi di una circostanza che assume rilievo non solo in fatto (con inevitabile opinabilità della ricostruzione della dinamica economica pur versata in atti dal custode e relativa alla formazione dell'incontro tra domanda ed offerta in questo settore di mercato) ma nella misura in cui essa, già in astratto, incida < SPAN style="mso-bidi-font-style: italic">ai sensi dell'art. 42 della Costituzione sulla proiezione (anche processuale ai sensi dell'art. 24 della Costituzione) del diritto dei creditori;

    che, secondo il rimettente, la deroga all'ordinario regime d'asta, fondato, per la generalità dei beni, su una rigida competitività e dunque sul solo criterio del prezzo più alto, non si giustificherebbe in quanto assicurerebbe all'interesse tutelato dall'art. 2471 cod. civ. una prevalenza tale da alterare il modello ottimale del miglior prezzo di mercato, che sarebbe, invece, coerente con l'interesse alla tutela del credito e, al contempo, della proprietà, alla stregua dell'art. 42 della Costituzione;

    che tale sbilanciamento, in favore della società, costituirebbe un assetto normativo eccedente la giustificazione originaria dello stesso interesse, ravvisato nella protezione alla coesione della compagine sociale;

    che l'evidenziato sbilanciamento, precludendo che un terzo divenga l'acquirente della partecipazione societaria sulla sola base del prezzo più alto offerto durante l'asta della procedura esecutiva, si rivelerebbe irrazionale in quanto la compresenza dell'aggiudicazione condizionata alla scelta della società implicherebbe un pregiudizio per il diritto del creditore (del socio di società a responsabilità limitata) in quanto egli, riponendo proprio sulla garanzia patrimoniale offerta dal debitore attraverso quel bene la propria aspettativa di realizzazione del credito, sarebbe sfavorito dall'ordinamento rispetto alla maggior tutela offerta alla società;

    che la clausola di prelazione - pur non impedendo in assoluto la circolazione della quota anche nell'ambito espropriativo, e mantenendo dunque quest'ultima la sua piena qualità di «bene» - impedirebbe la libera formazione del prezzo di mercato del bene stesso;

    che il debitore esecutato riceverebbe un trattamento ingiustificatamente deteriore - in violazione degli artt. 42 e 3 della Costituzione - rispetto al socio che intenda solo perseguire l'interesse al realizzo dell'investimento: infatti solo nel primo caso la regola della responsabilità patrimoniale di cui all'art. 2740 cod. civ. con tutti i beni subirebbe una compressione;

    che, nell'ambito del processo esecutivo, quale contesto di organizzazione della difesa dei diritti di credito e di proprietà e di attuazione con il ministero dello Stato della tutela satisfattiva contro l'inadempiente, sarebbe vulnerata l'effettività del diritto di difesa di cui all'art. 24 della Costituzione e del diritto ad un giusto processo di ragionevole durata di cui all'art. 111 della Costituzione;

    che la permanenza ad ogni incanto della prelazione in favore della società confliggerebbe con un accesso al processo espropriativo ispirato ad una fattibilità in tempi ragionevolmente celeri della fase liquidatoria che, come nella fattispecie concreta, ha richiesto un tempo ben eccedente l'ordinario periodo richiesto per la ricerca degli interessati;

    che si è costituita la società G.M.G. Group s.r.l., depositando una memoria con la quale chiede che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata;

    che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

    Considerato che il Giudice dell'esecuzione mobiliare del Tribunale ordinario di Bologna dubita della legittimità costituzionale degli artt. 2471 del codice civile e 538 del codice di procedura civile, nella parte in cui non prevedono - in caso di mancata vendita della quota pignorata di società a responsabilità limitata anche dopo il secondo incanto e in difetto di altri beni del debitore esecutato proprietario della quota - la possibilità per il giudice, nel momento in cui dispone un nuovo incanto ad un prezzo base inferiore di un quinto rispetto a quello precedente, di escludere la facoltà per la società, prevista dall'art. 2471 cod. civ., di presentare un altro acquirente che offra lo stesso prezzo entro dieci giorni dall'eventuale aggiudicazione (esclusione che consentirebbe di eliminare l'incidenza negativa del diritto di prelazione sul prezzo di realizzo della quota), per violazione: a) degli art. 3, 42 e 24 della Costituzione, per l'irrazionalità della complessiva disciplina, dal momento che la possibilità dell'aggiudicazione condizionata alla scelta della società implica un pregiudizio per il diritto del creditore del socio di società a responsabilità limitata - diritto costituzionalmente riconosciuto dall'art. 42 della Costituzione a livello sostanziale e dall'art. 24 della Costituzione a livello processuale - in quanto egli, riponendo proprio sulla garanzia patrimoniale offerta dal debitore attraverso quel bene la propria aspettativa di realizzo del credito, viene sfavorito rispetto alla società; b) dell'art. 3 della Costituzione, perché situazioni diverse vengono trattate allo stesso modo, dal momento che il socio che voglia autonomamente trasferire inter vivos la quota di partecipazione di una società in cui viga la regola della non libera circolazione della quota intende solo perseguire l'interesse alla realizzazione dell'investimento, mentre il creditore particolare del socio intende far valere la regola della responsabilità patrimoniale del debitore con tutti i suoi beni, regola che subisce una compressione ad opera della prelazione a favore della società; c) dell'art. 111 della Costituzione, perché la permanenza ad ogni incanto della prelazione in favore della società confligge con un accesso al processo espropriativo ispirato ad uno svolgimento in tempi ragionevolmente celeri della fase liquidatoria, dal momento che la prelazione, scoraggiando i potenziali acquirenti, determina un ritardo della procedura espropriativa;

    che non rileva l'erronea formulazione del petitum, perché, seppure è vero che l'ordinanza investe sia l'art. 2471 cod. civ. che l'art. 538 cod. proc. civ., il rimettente incentra le sue censure esclusivamente sull'art. 2471 cod. civ., che è la norma pretesamente incostituzionale, e ciò è sufficiente per superare l'eccezione di inammissibilità sollevata dalla difesa erariale;

    che il rimettente - di fronte ad una fattispecie normativa che realizza un bilanciamento tra le esigenze dei creditori e quelle della società, stabilendo che la vendita ad incanto della partecipazione nella società a responsabilità limitata, è priva di effetti ove, ai sensi dell'art. 2471, terzo comma, secondo periodo, cod. civ., entro dieci giorni dall'aggiudicazione, la società presenti un altro acquirente che offra lo stesso prezzo - sollecita a questa Corte, sulla base di una sua personale sensibilità, un diverso criterio di bilanciamento la cui individuazione, nella molteplicità delle soluzioni possibili, è però rimessa alla discrezionalità del legislatore e non è quindi costituzionalmente obbligato;

    che, attese le considerazioni che precedono e conformemente alla costante giurisprudenza di questa Corte (ordinanze n. 31 del 2008 e n. 393 del 2007), la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.

    Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 2471 del codice civile e 538 del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24, 42 e 111 della Costituzione, dal Giudice dell'esecuzione del Tribunale ordinario di Bologna, con l'ordinanza in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 187

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione del Senato della Repubblica del 18 marzo 2004 (Doc. IV-ter, n. 2), relativa alla insindacabilità, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dal senatore Cesare Previti nei confronti del giornalista Davide Maria Sassoli, promosso con ricorso della Corte di Appello di Roma, depositato in cancelleria il 10 gennaio 2008 ed iscritto al n. 1 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2008, fase di ammissibilità.

    Udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Sabino Cassese.

    Ritenuto che la Corte d'appello di Roma, con ricorso del 26 novembre 2007, ha sollevato conflitto di attribuzione nei confronti del Senato della Repubblica in relazione alla delibera adottata nella seduta del 18 marzo 2004 (Doc. IV-ter, n. 2), con la quale è stata dichiarata, ai sensi del primo comma dell'art. 68 della Costituzione, l'insindacabil ità delle dichiarazioni del senatore Cesare Previti, rispetto alle quali pende un procedimento penale;

    che la Corte ricorrente espone che il parlamentare è imputato del reato di diffamazione per avere dichiarato all'agenzia ANSA, in data 16 giugno 1995, che David Maria Sassoli «era partecipe di uno stile giornalistico volutamente mistificatorio e specificatamente diretto ad annebbiare anche verità pacifiche e come giornalista capace di mistificare anche fatti notori per scarsa professionalità e per opportunità di disinformazione strumentalizzata ad impegno in campagne politiche»;

    che, in fatto, il Collegio riferisce che il giudice di prime cure, a seguito della delibera di insindacabilità del Senato della Repubblica adottata in accoglimento della proposta della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari secondo cui «le dichiarazioni rese dal Previti non siano da ricondurre ad una polemica meramente personale bensì ad una manifestazione del pensiero di natura essenzialmente politica», aveva dichiarato, con sentenza del 4 novembre 2004, non doversi procedere nei confronti del parlamentare a norma dell'art. 129, comma 1, del codice di procedura penale;

    che la Corte aggiunge, inoltre, che avverso tale sentenza hanno proposto appello, da un lato, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma e, dall'altro, la parte civile, chiedendo entrambi che la Corte sollevi conflitto di attribuzione tra poteri, in particolare rilevando che le affermazioni diffamatorie del senatore sono connesse, non alla sua funzione di parlamentare, bensì alla sua personale vicenda e, in particolare, alle accuse di mendacio mossegli in relazione alla sua affermazione di non conoscere il giudice Dinacci;

    che la Corte d'appello ricorrente osserva che non può dedursi dal contenuto delle espressioni in esame alcun nesso funzionale tra le medesime e l'attività funzionale svolta dal senatore, atteso che esse si limitano ad esprimere una critica personale nei confronti della parte lesa in relazione ad un fatto del tutto indipendente dalla carica di senatore all'epoca ricoperta dal parlamentare. In particolare, riferisce che quest'ultimo «aveva affermato a suo tempo di non conoscere personalmente il magistrato dr. Dinacci in servizio presso il Ministero di grazia e giustizia: tale circostanza, secondo quanto appurato dal giornalista, era risultata non vera, talché quest'ultimo aveva pos to in evidenza la inattendibilità della dichiarazione nel corso di un telegiornale andato in onda sulla rete 3 della televisione RAI: di qui la reazione verbale del prevenuto contestata al capo di imputazione»;

    che la Corte d'appello ritiene che «appare evidente dunque, così ricostruiti i fatti, come, sia la conoscenza da parte dell'imputato del dr. Dinacci, sia il servizio giornalistico redatto in merito alla parte lesa, sia infine la reazione che si assume offensiva dell'imputato medesimo, non siano affatto funzionalmente connessi con l'ufficio di senatore» e cita l'orientamento costante della giurisprudenza costituzionale in tema di nesso funzionale secondo cui debbono ritenersi sindacabili, in linea di principio, tutte quelle dichiarazioni che fuoriescono dal campo applicativo delle dichiarazioni «divulgative all'esterno di attività parlamentari» e che non siano immediatamente colle gabili con specifiche forme di esercizio di funzioni parlamentari, non essendo a tal fine sufficiente una generica comunanza di argomento o di contesto politico (sentenze n. 140 del 2003 e n. 521 del 2002);

    che, a parere della Corte ricorrente, non può essere condivisa la tesi difensiva secondo la quale, a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 20 giugno 2003, n.140, le decisioni della Camera di appartenenza circa la sussistenza delle guarentigie previste dall'art. 68 Cost, sarebbero sindacabili solo da un punto di vista formale e cioè unicamente nell'ipotesi in cui siano affette da vizi procedurali o motivazionali tali da risolversi in una menomazione delle attribuzioni dell'autorità giudiziaria. Ad avviso della Corte, limitare alla mera inosservanza dei requisiti formali la sindacabilità della decisione del Parlamento significherebbe proporre un'interpretazione della legge in esame innovativa rispetto al testo costituzionale e, comunque , in contrasto con la giurisprudenza costituzionale che ha affermato che tale legge esplicita, ma non amplia, il contenuto della tutela della insindacabilità delle opinioni espresse dai membri del Parlamento (sentenza n. 120 del 2004);

    che il Collegio ricorrente, infine, osserva di non ritenere ostative ad «una nuova proposizione del conflitto di attribuzione» le due pronunce della Corte costituzionale, citate dalla difesa dell'imputato, atteso che esse hanno ad oggetto vizi di improcedibilità (sentenza n. 35 del 1999) e di inammissibilità (sentenza n. 30 del 2002) che non ostano ad una nuova proposizione del presente conflitto.

    Considerato che in questa fase la Corte è chiamata, ai sensi dell'art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), ad accertare se il sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sia ammissibile, valutando, senza contraddittorio tra le parti, se ne sussistano i requisiti soggettivo ed oggettivo, restando impregiudicata ogni ulteriore decisione anche in punto di ammissibilità;

    che, quanto al requisito soggettivo la Corte d'appello di Roma è legittimata a sollevare il conflitto, essendo competente a dichiarare definitivamente, in relazione al procedimento del quale è investita, la volontà del potere cui appartiene, in considerazione della posizione di indipendenza, costituzionalmente garantita, di cui godono i singoli organi giurisdizionali (sentenza n. 116 del 2003);

    che analogamente il Senato della Repubblica, che ha deliberato l'insindacabilità delle opinioni espresse del parlamentare Previti quando rivestiva la qualità di senatore, è legittimato ad essere parte del conflitto, in quanto organo competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere che rappresenta (sentenza n. 30 del 2002);

    che, per quanto riguarda il profilo oggettivo del conflitto, la Corte ricorrente denuncia la menomazione della propria sfera di attribuzione, garantita da norme costituzionali, in conseguenza dell'adozione, da parte del Senato della Repubblica di una deliberazione ove si afferma, in modo asseritamente illegittimo, che le opinioni espresse da un proprio membro rientrano nell'esercizio delle funzioni parlamentari, in tal modo godendo della garanzia di insindacabilità stabilita dall'art. 68, primo comma, della Costituzione;

    che, pertanto, esiste la materia di un conflitto la cui risoluzione spetta alla competenza di questa Corte.

per questi motivi

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara ammissibile ai sensi dell'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il conflitto di attribuzione proposto dalla Corte d'appello di Roma nei confronti del Senato della Repubblica con il ricorso indicato in epigrafe;

    dispone:

    a) che la cancelleria della Corte dia immediata comunicazione della presente ordinanza alla ricorrente Corte d'appello di Roma;

    b) che l'atto introduttivo e la presente ordinanza siano, a cura della ricorrente, notificati al Senato della Repubblica entro il termine di sessanta giorni dalla comunicazione di cui al punto a), per essere poi depositati, con la prova dell'avvenuta notifica, nella cancelleria di questa Corte entro il termine di venti giorni previsto dall'art. 26, comma 3, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Sabino CASSESE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 188

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra enti sorto a séguito delle note dell'Agenzia delle entrate - Direzione regionale della Sicilia, del 31 marzo 2005, prot. n. 2005/3.0/L/25079, e del 21 aprile 2005, prot. n. 2005/4.2/30927, promosso con ricorso della Regione Siciliana notificato il 3 giugno 2005, depositato in cancelleria il 10 giugno 2005 ed iscritto al n. 21 del registro conflitti tra enti 2005.

      Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

      udito nell'udienza pubblica dell'11 marzo 2008 il Giudice relatore Franco Gallo;

      uditi gli avvocati Giovanni Carapezza Figlia e Michele Arcadipane per la Regione Siciliana e l'avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

    1. - Con ricorso notificato il 3 giugno 2005 e depositato il 10 giugno successivo, la Regione Siciliana ha sollevato - in riferimento all'art. 36 del proprio statuto e al decreto del Presidente della Repubblica 26 luglio 1965, n. 1074 (Norme di attuazione dello Statuto della Regione Siciliana in materia finanziaria) - conflitto di attribuzione nei confronti dello Stato, in relazione: a) alla nota dell'Agenzia delle entrate - Direzione regionale della Sicilia, emessa in data 31 marzo 2005, prot. n. 2005/3.0/L/25079; b) alla nota dell'Agenzia delle entrate - Direzione regionale della Sicilia, emessa in data 21 aprile 2005, prot. n. 2005/4.2/30927.

    Lamenta la ricorrente che, con tali atti, nell'impartire direttive agli Uffici dipendenti al fine dell'esercizio dell'azione di accertamento circa la sussistenza dei requisiti prescritti per beneficiare delle agevolazioni fiscali disposte dall'art. 60 della legge della Regione Siciliana 26 marzo 2002, n. 2 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l'anno 2002), l'Agenzia delle entrate ha manifestato un orientamento interpretativo della richiamata disposizione regionale che si pone in assoluto contrasto con la portata normativa della medesima, quale desumibile dall'interpretazione autentica recata dall'art. 99 della legge regionale 16 aprile 2003, n. 4 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l'anno 2003), e dalla conseguente lettura enunciata dalla competente ammin istrazione regionale.

    1.1. - Espone la Regione che l'art. 60 della legge regionale n. 2 del 2002, rubricato «Agevolazioni fiscali» dispone che, «al fine di favorire la ricomposizione fondiaria, aumentare le economie di scala e ottimizzare il ritorno degli investimenti nel settore agricolo, gli atti elencati al primo comma dell'articolo 1 della legge 6 agosto 1954, n. 604, da chiunque posti in essere fino alla data del 31 dicembre 2006, sono soggetti alle imposte di registro e ipotecaria nella misura di cui all'articolo 9 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 e sono esenti dalle imposte di bollo e catastale». Tale articolo è stato oggetto di interpretazione autentica ad opera dell'art. 99 della legge regionale n. 4 del 2003 - rubricat o «Interpretazione autentica dell'articolo 60 della legge regionale 26 marzo 2002, n. 2» e modificato dall'art. 76, comma 40, della legge regionale 3 dicembre 2003, n. 20 -, il quale prevede che «alle agevolazioni di cui all'articolo 60 della legge regionale 26 marzo 2002, n. 2 deve riconoscersi la natura di misura fiscale di carattere generale rivolta a chiunque ponga in essere, a partire dal 1° gennaio 2002 e fino alla data del 31 dicembre 2006, gli atti indicati nello stesso articolo».

    Sostiene la ricorrente che il richiamo operato dal legislatore regionale all'art. 1, comma 1, della legge 6 agosto 1954, n. 604 (Modificazioni alle norme relative alle agevolazioni tributarie a favore della piccola proprietà contadina), «deve intendersi riferito solo al fine della individuazione della tipologia degli atti esenti dalle imposte di bollo e catastali, e soggetti alle imposte di registro e ipotecaria nella misura fissa, e che nessun rilievo può, quindi, essere attribuito [.] tanto ai riferimenti soggettivi, alle condizioni e ai requisiti previsti nell'art. 2 della citata legge n. 604 del 1954, quanto all'ambito territoriale specificamente individuato nel richiamato art. 9 del d.P.R. n. 601 del 1973 e nell'art. 5-bis della legge 31 gennaio 1994, n. 97, per i quali continuano a trovare applicazione le agevolazioni fiscali previste dalla vigente normativa statale». L'art. 60 della legge regionale n. 2 del 2002, interpretato autenticamente dall'art. 99 della legge regionale n. 4 del 2003, rivestirebbe natura di misura fiscale di carattere generale e non presupporrebbe, dunque, per la propria applicazione, il possesso dei requisiti oggettivi e soggettivi richiesti dalla normativa nazionale per le analoghe agevolazioni da questa previste.

    Tale interpretazione autentica sarebbe confermata: a) dalla nota dell'Agenzia delle entrate - Direzione regionale della Sicilia, emessa il 12 aprile 2002, prot. n. 2002/34022; b) dalla nota della Regione siciliana - Assessorato del bilancio e delle finanze - Dipartimento finanze e credito, emessa il 19 maggio 2003, prot. n. 8191; c) dalla nota dell'Agenzia delle entrate - Direzione regionale della Sicilia, emessa il 10 giugno 2003, prot. n. 2003/53094; d) dalla nota della Regione siciliana - Assessorato del bilancio e delle finanze - Dipartimento finanze e credito, emessa il 10 febbraio 2005, prot. n. 4863.

    Afferma la ricorrente che, con i provvedimenti impugnati, l'Agenzia delle entrate, «senza procedere ad ulteriori interlocuzioni con la competente amministrazione regionale», «ha smentito quanto in precedenza dalla stessa asserito, ed ha ricondotto l'intervento regionale ai soli atti idonei a costituire la piccola proprietà contadina, limitando dunque l'operatività e l'ambito della norma ad una ristretta e modesta tipologia di interventi».

    1.2. - La ricorrente formula due distinti motivi di doglianza.

    1.2.1. - È denunciata, in primo luogo, la «violazione dell'art. 36 dello Statuto della Regione siciliana e delle relative norme di attuazione in materia finanziaria approvate con decreto del Presidente della Repubblica 26 luglio 1965, n. 1074», sulla premessa della «certa spettanza alla regione di una puntuale potestà legislativa in materia tributaria che trova la sua fonte nell'art. 36 dello Statuto e che espressamente viene richiamata dall'art. 6 del d.P.R. 25 luglio 1965, n. 1074», ancorché esercitabile, per ciò che concerne i tributi erariali, «nei limiti segnati dai principi del sistema tributario statale e dai principi della legislazione statale per ogni singolo tributo».

    La ricorrente premette, inoltre, che «spetta all'Assemblea regionale siciliana - come peraltro, in via generale, a ciascun Organo legislativo - il diritto ed il dovere di farsi carico dell'interpretazione delle proprie leggi».

    Su tali premesse, la ricorrente afferma che l'Agenzia delle entrate ha manifestato un orientamento interpretativo che si pone in palese contraddizione con l'interpretazione autentica dell'art. 60 della legge regionale n. 2 del 2002, recata dall'art. 99 della legge regionale n. 4 del 2003, «esautorando, di fatto, l'organo legislativo regionale» dall'esercizio della potestà legislativa in materia tributaria.

    Secondo la Regione, infatti, i provvedimenti impugnati, vincolando l'agevolazione fiscale introdotta dal suddetto art. 60 della legge regionale n. 2 del 2002 alla sussistenza di quei requisiti oggettivi, relativi al fondo, che connotano gli atti posti in essere per la formazione e l'arrotondamento della piccola proprietà contadina, disattendono lo spirito della norma regionale, che destina l'intervento alle ben più ampie e complesse finalità «di favorire la ricomposizione fondiaria, aumentare le economie di scala e ottimizzare il ritorno degli investimenti nel settore agricolo». Tali finalità presupporrebbero esclusivamente che gli atti oggetto del beneficio, e cioè quelli «elencati al primo comma dell'art. 1 d ella legge 6 agosto 1954, n. 604, da chiunque posti in essere» abbiano ad oggetto terreni e pertinenze ricadenti in zone destinate dagli strumenti urbanistici ad uso agricolo. Ad avviso della stessa Regione, i provvedimenti impugnati correlano, invece, l'attribuzione delle agevolazioni in discorso alla ricorrenza delle condizioni previste dall'art. 2 della legge n. 604 del 1954 - «non richiamato peraltro, volutamente, dal legislatore regionale» - e, pertanto, travisano il significato della disposizione regionale, facendo venire meno la «natura di misura fiscale di carattere generale», attribuita alla disposta agevolazione fiscale dal citato art. 99 della legge regionale n. 4 del 2003 e desumibile dall'espresso riferimento, contenuto nel citato art. 60 della legge regionale n. 2 del 2002, ad atti «da chiunque posti in essere». In tale divergenza fra l'interpretazione posta in essere con le impugnate note e l'interpretazione autentica consisterebbe, ad avviso della Regione, la lesione della competenza legislativa regionale in materia tributaria.

    1.2.2. - La ricorrente denuncia, in secondo luogo, la «violazione del principio costituzionale di leale cooperazione [.], la cui espressione minima si configura nel dovere di mutua informazione».

    Lamenta la ricorrente che, nella fattispecie, non è stata raggiunta alcuna preventiva intesa tra Stato e Regione in ordine al contenuto dei provvedimenti impugnati e che, anzi, la nota del 31 marzo 2005 non è stata neanche portata a conoscenza della Regione stessa, «che ne ha acquisito notizia e cognizione soltanto a seguito della trasmissione disposta dal Consiglio notarile di Palermo, allarmato dal relativo contenuto».

    A sostegno della censura, la stessa ricorrente aggiunge che la revoca delle agevolazioni ipotizzata dall'Agenzia delle entrate, laddove riguardasse atti già regolarmente rogati e registrati, «determinerebbe la lesione di quel principio comunitario di legittimo affidamento, in giurisprudenza caratterizzato in termini di tutela dell'interesse privato, che si impone quale principio generale dell'attività amministrativa in osservanza del disposto dell'art. 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241», e dell'art. 10 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente). Nell'ordinamento interno, tale principio troverebbe a sua volta «fondamento nel principio costituzionale di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge (art. 3 Cost.)».

    2. - Nel giudizio si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile o, comunque, rigettato.

    In punto di ammissibilità, la difesa erariale rileva che: a) le note impugnate non sono idonee a ledere la competenza legislativa regionale in materia tributaria, perché hanno carattere meramente interpretativo e sono vincolanti solo per gli uffici statali ai quali sono dirette (e non per i cittadini o per il giudice); b) la violazione del principio dell'affidamento non può essere dedotta quale motivo di ricorso per conflitto di attribuzione, perché non attiene alla sfera delle competenze costituzionalmente garantite alla Regione.

    In punto di merito, l'Avvocatura generale osserva che: a) non sussiste alcuna lesione della competenza legislativa regionale in materia tributaria, perché l'interpretazione dell'art. 60 della legge regionale n. 2 del 2002 da parte delle note impugnate non diverge da quella proposta dal legislatore regionale con l'art. 99 della legge n. 4 del 2003, non avendo tale ultima norma espressamente escluso, per la configurabilità dell'agevolazione, la necessità che sussistano, fra le altre, le condizioni previste dall'art. 2 della legge statale n. 604 del 1954; b) che non sussiste alcuna violazione del principio di leale collaborazione, perché, da un lato, non è configurabile neanche in astratto un'intesa fra un organo legislativo (quale quello regionale) e un organo amministrativo (q uale quello statale) e, dall'altro, l'interpretazione della legge regionale ad opera di un atto avente efficacia per i soli uffici periferici statali non necessita di previa intesa con la Regione.

    3. - Con memoria depositata in prossimità dell'udienza fissata per il 9 gennaio 2007, la ricorrente, dopo aver riaffermato l'ammissibilità del proposto conflitto di attribuzione, espone che, nelle more del giudizio: a) era entrato in vigore il comma 15 dell'art. 20 della legge reg. 22 dicembre 2005, n. 19 (Misure finanziarie urgenti e variazioni al bilancio della Regione per l'esercizio finanziario 2005. Disposizioni varie), il quale, con norma recante l'espressa qualifica di «interpretazione autentica», aveva precisato, in primo luogo, che le agevolazioni previste dall'art. 60 della legge reg. n. 2 del 2002 e dall'art. 99 della legge reg. n. 4 del 2003 «si applicano per tutti gli atti traslativi da chiunque posti in essere a partire dal 1° gennaio 2002 fino alla data del 31 dicembre 2006, alla sola condizione che abbiano ad oggetto terreni agricoli secondo gli strumenti urbanistici vigenti alla data di stipula dell'atto e loro pertinenze» e, in secondo luogo, che il riferimento al primo comma dell'art. 1 della legge n. 604 del 1954, contenuto nel citato art. 60 della legge reg. n. 2 del 2002, «vale solo ai fini dell'individuazione delle tipologie di atti agevolati»; b) l'Agenzia delle entrate - Direzione regionale della Sicilia, con nota del 17 gennaio 2006, prot. n. 2006/4.1/3628/RC, declinando l'invito rivoltole dall'Assessorato regionale del bilancio e delle finanze - Dipartimento finanze e credito ad uniformarsi alla suddetta norma di interpretazione autentica contenuta nella legge reg. n. 19 del 2005, aveva ritenuto di «confermare le disposizioni sino ad oggi emanate» ed oggetto del conflitto di attribuzione, ancorché nel frattempo annullate dal T.a.r. della Sicilia, sezione staccata di Catania, con sentenza n. 1075 del 2005; c) il Consiglio di giu stizia amministrativa per la Regione siciliana, in sede giurisdizionale, con pronuncia n. 255 del 2006, aveva dichiarato improcedibile l'appello proposto avverso l'indicata sentenza del T.a.r.

    La Regione ricorrente afferma che il descritto comportamento dell'Agenzia delle entrate - la quale ha negato efficacia e validità sia all'art. 60 della legge reg. n. 2 del 2002, sia alle norme di interpretazione autentica di cui agli artt. 99 della legge reg. n. 4 del 2003 e 20 della legge reg. n. 19 del 2005 - esclude la cessazione della materia del contendere.

    4. - Con memoria depositata in prossimità della suddetta udienza, l'Avvocatura generale dello Stato, preso atto che la norma interpretativa introdotta dal comma 15 dell'art. 20 della legge reg. n. 19 del 2005 «sembra aver eliminato ogni dubbio» sui requisiti per l'applicazione, nel territorio siciliano, delle agevolazioni fiscali previste dall'art. 60 della legge reg. n. 2 del 2002, chiede alla Corte costituzionale di valutare la possibilità di sollevare d'ufficio davanti a sé la questione di legittimità costituzionale di detta norma di interpretazione autentica, per violazione sia degli artt. 17 e 36 dello statuto di autonomia, sia dell'art. 3 Cost. I suddetti parametri statutari sarebbero violati, ad avviso della difesa erariale, perché l'indicata legge interpretativa, nel disporre, nell'àmbito del territorio regionale, l'estensione a tutti i contribuenti di benefici previsti dalla legge statale solo per specifiche finalità ed a favore di soggetti aventi determinati requisiti: a) avrebbe superato «i limiti dei princípi ed interessi generali cui si informa la legislazione dello Stato», che il legislatore della Regione Siciliana deve, invece, rispettare (art. 17 dello statuto); b) non si sarebbe adeguata alla tipologia adottata, per ogni singolo tributo, dalla legge statale, in quanto la rilevante entità economica delle agevolazioni fiscali disposte dalla Regione ricorrente (l'art. 1, numero 1, della parte I della Tariffa allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, prevede, per le cessioni dei terreni agricoli, un'aliquota ordinaria del 15 per cento) si traduce in una differenza qualitativa rispetto alla legislazione statale e, quindi, in un manifesto privilegio dei contribuenti della Regione stessa, rispetto a tutti gli altri. Quanto al dedotto contrasto con l'art. 3 Cost., l'illegittimità consisterebbe nella ingiustificata disparità di trattamento tra i contribuenti. La difesa erariale conclude ribadendo la richiesta di dichiarare l'inammissibilità del ricorso o di pronunciarne il rigetto, «previa, se del caso,» dichiarazione di illegittimità costituzionale del comma 15 dell'art. 20 della legge reg. n. 19 del 2005.

    5. - La discussione del giudizio di legittimità costituzionale è stata rinviata a nuovo ruolo.

    6. - La difesa erariale ha prodotto copia del ricorso per cassazione proposto dall'Agenzia delle entrate avverso la citata sentenza n. 255 del 2006 del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, con il quale si eccepisce il difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, per essere competente il giudice tributario. Con sentenza n. 23031 del 2007, la Corte di cassazione ha cassato senza rinvio la suddetta sentenza del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, per difetto assoluto di giurisdizione.

    7. - La discussione è stata nuovamente fissata per l'udienza dell'11 marzo 2008.

Considerato in diritto

    1. - La Regione Siciliana deduce l'invasione della sua sfera di competenza costituzionale da parte dello Stato, e per esso dell'Agenzia delle entrate - Direzione regionale della Sicilia, in riferimento agli artt. 36 dello statuto della Regione Siciliana e 6 del decreto del Presidente della Repubblica 26 luglio 1965, n. 1074 (Norme di attuazio ne dello Statuto della Regione Siciliana in materia finanziaria), nonché al principio di leale cooperazione tra Stato e Regioni.

    In particolare, la ricorrente chiede l'annullamento della nota del 31 marzo 2005, prot. n. 2005/3.0/L/25079, e della nota del 21 aprile 2005, prot. n. 2005/4.2/30927, con le quali l'Agenzia delle entrate, nell'impartire agli uffici dipendenti una direttiva per l'interpretazione dell'agevolazione fiscale prevista dall'art. 60 della legge della Regione Siciliana 26 marzo 2002, n. 2 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l'anno 2002), avrebbe manifestato - senza alcuna previa interlocuzione con gli uffici della Regione - l'«orientamento interpretativo» secondo cui, per l'applicazione dell'agevolazione, è necessario che ricorrano le condizioni ed i requisiti indicati dall'art. 2 della legge statale 6 agosto 1954, n. 604 (Modificazioni alle norme relative alle agevolazioni tributarie a favore della piccola proprietà contadina). Per la ricorrente, tale orientamento si porrebbe in «assoluto contrasto» con detta norma agevolativa regionale, come interpretata autenticamente dall'art. 99 della legge della Regione Siciliana 16 aprile 2003, n. 4 (Disposizioni programmatiche e finanziarie per l'anno 2003), secondo cui l'agevolazione fiscale - riguardante gli atti, «da chiunque posti in essere», elencati al primo comma dell'art. 1 della legge statale n. 604 del 1954 - prescinde, quale «misura fiscale di carattere generale», dalle condizioni e dai requisiti previsti dall'art. 2 della citata legge statale. In tal modo, il legislatore regionale sarebbe esautorato «dall'esercizio di potestà rientranti nell'àmbito della competenza normativa» sua propria.

    2. - Al fine di valutare l'ammissibilità del conflitto, occorre procedere preliminarmente alla ricostruzione del quadro normativo nel quale gli atti impugnati si inscrivono e alla precisa individuazione del contenuto di tali atti.

    2.1. - L'art. 60 della legge reg. n. 2 del 2002, rubricato «Agevolazioni fiscali», prevede che, «Al fine di favorire la ricomposizione fondiaria, aumentare le economie di scala e ottimizzare il ritorno degli investimenti nel settore agricolo, gli atti elencati al primo comma dell'articolo 1 della legge 6 agosto 1954, n. 604, da chiunque posti in essere fino alla data del 31 dicembre 2006, sono soggetti alle imposte di registro e ipotecaria nella misura di cui all'articolo 9 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 601 e sono esenti dalle imposte di bollo e catastale».

    Con tale disposizione la Regione Siciliana applica le agevolazioni sulle imposte di registro e ipotecaria nella misura ridotta di cui all'art. 9 del d.P.R. n. 601 del 1973 e stabilisce un'esenzione per le imposte di bollo e catastale per gli atti elencati al primo comma dell'art. 1 della legge n. 604 del 1954 (compravendite, permute, concessioni di enfiteusi e altri atti elencati nello stesso articolo, che siano posti in essere per la formazione o per l'arrotondamento della piccola prop rietà contadina, quando ricorrono le condizioni e i requisiti previsti dall'art. 2 della stessa legge n. 604 del 1954), da chiunque posti in essere.

    L'uso della locuzione «da chiunque posti in essere» da parte del legislatore regionale ha reso dubbio se le agevolazioni ed esenzioni disposte dalla norma siano applicabili agli atti elencati nel primo comma dell'art. 1 della legge n. 604 del 1954 in ogni caso oppure nei soli casi in cui tali atti siano finalizzati alla formazione o all'arrotondamento della piccola proprietà contadina e ricorrano gli ulteriori requisiti e condizioni previsti dall'art. 2 della stessa legge n. 604 del 1954 (e cioè che: «1) l'acquirente, il permutante o l'enfiteuta sia persona che dedica abitualmente la propria attività manuale alla lavorazione della terra; 2) il fondo venduto, permutato o concesso in enfiteusi sia idoneo alla formazione o all'arrotondamento della piccola proprietà contadina e, in ogni caso, in aggiunta a eventuali altri fondi posseduti a titolo di proprietà od enfiteusi dall'acquirente o comunque dagli appartenenti al suo nucleo familiare, non ecceda di oltre un decimo la superficie corrispondente alla capacità lavorativa dei membri contadini del nucleo familiare stesso; 3) l'acquirente, il permutante o l'enfiteuta nel biennio precedente all'atto di acquisto o della concessione in enfiteusi non abbia venduto altri fondi rustici oppure abbia venduto appezzamenti di terreno la cui superficie complessiva non sia superiore ad un ettaro, con una tolleranza del 10 per cento salvo casi particolari da esaminarsi dall'ispettore provinciale dell'agricoltura in modo da favorire soprattutto la formazione di organiche aziende agricole familiari»).

    2.2. - Nel dubbio sul significato della locuzione «da chiunque posti in essere», l'art. 60 della legge reg. n. 2 del 2002 ha ricevuto una prima interpretazione autentica con l'art. 99 della legge reg. n. 4 del 2003 (modificato dall'art. 76, comma 40, della legge regionale 3 dicembre 2003, n. 20), il quale dispone che «Alle agevolazioni di cui all'articolo 60 della legge regionale 26 marzo 2002, n. 2 deve riconoscersi la natura di misura fiscale di carattere generale rivolta a chiunque ponga in essere, a partire dal 1° gennaio 2002 e fino alla data del 31 dicembre 2006, gli atti indicati nello stesso articolo».

    Tale norma di interpretazione autentica ha chiarito solo in parte il significato della locuzione «da chiunque posti in essere» utilizzata dalla disposizione interpretata, perché si è limitata a precisare che le agevolazioni ed esenzioni da questa previste hanno natura di «misura fiscale di carattere generale rivolta a chiunque ponga in essere, a partire dal 1° gennaio 2002 e fino alla data del 31 dicembre 2006, gli atti indicati» nella disposizione oggetto di interpretazione.

    2.3. - Alle due suddette norme hanno fatto séguito le impugnate circolari dell'Agenzia delle entrate - Direzione regionale della Sicilia.

    2.3.1. - Con la nota del 31 marzo 2005, prot. n. 2005/3.0/L/25079, la quale richiama la nota dell'Agenzia delle entrate - Direzione centrale normativa e contenzioso del 23 marzo 2005, prot. n. 53667, si è data interpretazione all'art. 99 della legge reg. n. 4 del 2003 (modificato dall'art. 76, comma 40, della legge reg. n. 20 del 2003) e all'art. 60 della legge reg. n. 2 del 2002, affermando che: a) «l'agevolazione tributaria è concessa quando l'acquirente produca, insieme all'atto, un certificato dell'organo regionale competente in materia di agricoltura che attesti l'idoneità del fondo a costituire la piccola proprietà contadina tenendo conto della destinazione colturale, dell'imponibile catastale e, per quanto riguarda l'estensione, del rispetto della minima unità coltural e»; b) le norme regionali in oggetto, «mentre stabiliscono i soggetti destinatari dell'agevolazione fiscale (chiunque), non individuano espressamente l'oggetto della stessa»; c) «atteso che non è possibile interpretare estensivamente una norma agevolativa, il regime di favore sopra precisato, ai sensi dell'art. 1 della legge n. 604, si applica esclusivamente agli atti posti in essere per la formazione o per l'arrotondamento della piccola proprietà contadina, quando ricorrono le condizioni e i requisiti previsti dall'art. 2»; d) nel caso di mancanza dei suddetti requisiti oggettivi, si dovrà «provvedere alla revoca delle agevolazioni in argomento, sottoponendo gli atti relativi alle ordinarie imposte [.] ed emanando i consequenziali avvisi di liquidazione»; e) l'attività di liquidazione «sarà inizialmente svolta relativamente agli atti il cui termine di decadenza è prossimo alla scadenza (atti registrati entro il mese di maggio 2002), intervenendo in autotutela nel caso di successiva produzione della menzionata idonea certificazione»; f) per gli atti registrati oltre il maggio 2002, si provvederà a richiedere ai contribuenti la suddetta certificazione, assegnando un termine di trenta giorni dalla notifica della richiesta, scaduto il quale, si procederà «all'eventuale revoca dei benefici fiscali in argomento».

    2.3.2. - Con l'impugnata nota del 21 aprile 2005, prot. n. 2005/4.2/30927, si è poi precisato che: a) «sono emerse ulteriori problematiche (quali, ad esempio, quelle connesse al contenuto della certificazione ritenuta necessaria, atteso che i requisiti soggettivi e oggettivi previsti in tema di p.p.c. [piccola proprietà contadina] sono apparsi difficilmente scindibili, risultando la normativa in materia costruita attorno alla figura del coltivatore diretto e con ben precise caratteristiche e limitazioni)»; b) non essendo certa, ai fini della concessione dell'agevolazione, la necessità che ricorrano le condizioni ed i requisiti di cui all'art. 2 della legge statale n. 604 del 1954, si rinvia ad un futuro intervento della Direzion e centrale normativa e contenzioso ogni determinazione interpretativa al riguardo, disponendo che, nelle more, gli uffici «accettino gli atti [.] richiedenti la tassazione agevolata, qualora sia allegato o venga prodotto un certificato provvisorio [.] attestante che sono in corso accertamenti al fine di verificare la fruibilità della richiesta agevolazione» e si astengano dall'esercitare attività di recupero delle somme dovute dai contribuenti quali differenze fra gli ammontari dei tributi previsti dalla legge statale e quelli previsti in via agevolata.

    2.4. - Alle circolari impugnate ha fatto séguito, dopo la proposizione del ricorso per conflitto di attribuzione, l'art. 20, comma 15, della legge reg. 22 dicembre 2005, n. 19 (Misure finanziarie urgenti e variazioni al bilancio della Regione per l'esercizio finanziario 2005. Disposizioni varie), il quale reca una seconda interpretazione autentica dell'art. 60 della legge reg. n. 2 del 2002, prevedendo che: «Le agevolazioni di cui all'articolo 60 della legge regionale 26 marzo 2002, n. 2, ed all'articolo 99 della legge regionale 16 aprile 2003, n. 4, si applica no per tutti gli atti traslativi da chiunque posti in essere a partire dal 1° gennaio 2002 fino alla data del 31 dicembre 2006, alla sola condizione che abbiano ad oggetto terreni agricoli secondo gli strumenti urbanistici vigenti alla data di stipula dell'atto e loro pertinenze; il riferimento al primo comma dell'articolo 1 della legge 6 agosto 1954, n. 604, vale solo ai fini dell'individuazione delle tipologie di atti agevolati. La presente disposizione costituisce interpretazione autentica dell'articolo 60 della legge regionale 26 marzo 2002, n. 2».

    2.5. - A tale norma ha fatto séguito la nota del 17 gennaio 2006, prot. n. 2006/4.1/3268/RC, con la quale l'Agenzia delle entrate - Direzione regionale della Sicilia afferma di ritenere opportuno, «nelle more [.] della conclusione del giudizio sul conflitto di attribuzione, confermare le disposizioni sino ad oggi emanate», cioè le note oggetto del conflitto.

    3. - Il ricorso è inammissibile per la mancanza di idoneità lesiva degli atti impugnati.

    3.1. - La ricorrente Regione Siciliana assume che l'art. 60 della legge reg. n. 2 del 2002 e l'art. 99 della legge reg. n. 4 del 2003 hanno non la finalità della formazione o dell'arrotondamento della piccola proprietà contadina, ma esclusivamente quella di: a) ricomposizione fondiaria; b) aumento delle economie di scala; c) ottimizzazione del ritorno degli investimenti nel settore agricolo. Ne consegue, secondo la stessa ricorrente, che le agevolazioni fiscali previste da tali articoli si applicano inequivocabilmente a chiunque ponga in essere gli atti elencati nell'art. 1 della legge n. 604 del 1954, alla sola condizione che tali atti abbiano ad oggetto terreni qualificati agricoli ai sen si degli strumenti urbanistici vigenti.

    Viceversa, l'Agenzia delle entrate, nella prima delle due note impugnate (nota del 31 marzo 2005, prot. n. 2005/3.0/L/25079), afferma che il richiamo agli atti elencati nell'art. 1 della legge n. 604 del 1954 deve intendersi riferito agli atti che abbiano la finalità della formazione o dell'arrotondamento della piccola proprietà contadina, quando ricorrano le condizioni e i requisiti previsti dall'art. 2 della stessa legge. La seconda nota impugnata (nota del 21 aprile 2005, prot. n. 2005/4.2/30927) si limita ad affermare che non è certa, ai fini della concessione dell'agevolazione, la necessità che ricorrano le condizioni ed i requisiti di cui all'art. 2 della legge statale n. 604 del 1954. Rinvia, perciò, ad un futuro intervento della Direzione centrale normativa e contenzi oso ogni determinazione interpretativa al riguardo, disponendo che, nelle more, gli uffici si astengano dall'esercitare attività di recupero delle somme dovute dai contribuenti quali differenze fra gli ammontari dei tributi previsti dalla legge statale e quelli previsti in via agevolata.

    3.2. - L'inidoneità degli atti impugnati a ledere la competenza legislativa regionale in materia tributaria deriva dalle seguenti considerazioni.

    La locuzione «da chiunque posti in essere» usata dall'art. 60 della legge reg. n. 2 del 2002 ha un significato non univoco, perché potrebbe essere interpretata tanto nel senso che le agevolazioni ed esenzioni disposte dalla norma sono applicabili agli atti elencati al primo comma dell'art. 1 della legge statale n. 604 del 1954, indipendentemente dalla loro finalizzazione alla formazione o all'arrotondamento della piccola proprietà contadina e dalla ricorrenza degli ulteriori requisiti e condizioni previsti dall'art. 2 della stessa legge n. 604 del 1954; quanto nell'opposto senso che dette agevolazioni ed esenzioni sono applicabili nei soli casi in cui tali atti siano finalizzati alla formazione o all'arrotondamento della piccola proprietà contadina e ricorrano gli ulteriori requisiti e condizioni previsti dall'art. 2 della medesima legge n. 604 del 1954.

    La sopravvenuta interpretazione autentica di detto art. 60 ad opera dell'art. 99 della legge reg. n. 4 del 2003 (modificato dall'art. 76, comma 40, della legge reg. n. 20 del 2003) non elimina i dubbi circa il significato di detta locuzione. L'art. 99 della citata legge regionale si limita, infatti, a precisare che le agevolazioni e le esenzioni previste dalla disposizione interpretata hanno natura di «misura fiscale di carattere generale rivolta a chiunque ponga in essere, a partire dal 1° gennaio 2002 e fino alla data del 31 dicembre 2006, gli atti indicati nello stesso articolo» 60, e cioè gli atti elencati al primo comma dell'art. 1 della citata legge n. 604 del 1954. Quest'ultima norma, però, letteralmente prevede - come già rile vato - che detti atti (ivi compresi quelli di compravendita, permuta, concessione di enfiteusi) «sono esenti dalla imposta di bollo e soggetti alla normale imposta di registro ridotta ad un decimo ed alla imposta ipotecaria nella misura fissa di lire 500», quando sono «posti in essere per la formazione o per l'arrotondamento della piccola proprietà contadina» e «quando ricorrono le condizioni e i requisiti previsti dall'art. 2». L'art. 99 della legge reg. n. 4 del 2003 mantiene, dunque, immutato il richiamo all'art. 1 della legge n. 604 del 1954 già contenuto nell'art. 60 della legge reg. n. 2 del 2002 e, di conseguenza, legittima, anche dopo la sua entrata in vigore, un'interpretazione di quest'ultimo articolo nel senso, più restrittivo, che le agevolazioni e le esenzioni da esso previste si applicano ai soli atti diretti alla form azione o all'arrotondamento della piccola proprietà contadina.

    Questa è l'interpretazione fatta propria dalla prima delle due note censurate, la quale afferma testualmente che «il regime di favore [.], ai sensi dell'art. 1 della legge n. 604, si applica esclusivamente agli atti posti in essere per la formazione o per l'arrotondamento della piccola proprietà contadina, quando ricorrono le condizioni e i requisiti previsti dall'art. 2». Ne consegue che la nota in oggetto è priva di idoneità lesiva, perché si limita ad attribuire alla disposizione interpretata uno dei suoi possibili significati.

    Né la dedotta lesione della competenza regionale può derivare dall'altra nota censurata, e cioè dalla nota del 21 aprile 2005, prot. n. 2005/4.2/30927 intervenuta appena 21 giorni dopo la prima. Essa, infatti, si limita a prendere atto dell'incerta interpretazione della normativa regionale di agevolazione e a sospendere, conseguentemente, l'applicazione della prima nota impugnata, rinviando, con una previsione meramente interlocutoria, ogni definitiva determinazione interpretativa ad un futuro intervento della Direzione centrale normativa e contenzioso.

    4. - La rilevata inammissibilità del ricorso, per mancanza di idoneità lesiva degli atti impugnati, trova ulteriore conferma nella sopravvenuta modifica del quadro normativo rilevante.

    Dopo la proposizione del ricorso, la Regione Siciliana ha emanato l'art. 20, comma 15, della legge reg. 22 dicembre 2005, n. 19, il quale adotta la stessa interpretazione data dalla ricorrente agli artt. 60 della legge reg. n. 2 del 2002 e 99 della legge reg. n. 4 del 2003. Esso chiarisce che l'unico requisito per la concessione delle agevolazioni è il carattere agricolo dei terreni. Tale articolo perciò, da un lato, in quanto norma di interpretazione autentica, presuppone l'effettiva esistenza di incertezze sul significato delle disposizioni interpretate, dall'altro, elimina definitivamente tali incertezze, rendendo inoperanti retroattivamente le note impugnate. Il venire meno dell'efficacia di dette note ed il fatto che - secondo quanto dichiarato espressamente in udienza dalla difesa della ricorrente - la prima di esse non ha avuto alcuna applicazione anteriormente alla sua sospensione offrono, dunque, ulteriori argomenti per escludere ogni possibile invasione della sfera di competenza regionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione proposto dalla Regione Siciliana nei confronti dello Stato, in relazione alla nota dell'Agenzia delle entrate - Direzione regionale della Sicilia, emessa in data 31 marzo 2005, prot. n. 2005/3.0/L/25079, e alla nota dell'Agenzia delle entrate - Direzione regionale della Sicilia, emessa in data 21 aprile 2005, prot. n. 2005/4.2/30927, con il ricorso indicato in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedente

ORDINANZA N. 189

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE               Presidente

- Giovanni Maria  FLICK                Giudice

- Francesco       AMIRANTE                "

- Ugo             DE SIERVO               "

- Paolo           MADDALENA               "

- Alfio           FINOCCHIARO             "

- Alfonso         QUARANTA                "

- Franco          GALLO                   "

- Luigi           MAZZELLA                "

- Gaetano         SILVESTRI               "

- Sabino          CASSESE                 "

- Maria Rita      SAULLE                  "

- Giuseppe        TESAURO                 "

- Paolo Maria     NAPOLITANO              "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito dell'ordinanza dell'Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione del 2 ottobre 2007, con cui è stata dichiarata la legittimità della richiesta referendaria, ai sensi dell'art. 43 della legge n. 352 del 1970, per il distacco del Comune di Pedemonte dalla Regione Veneto e la sua aggregazione alla Regione Trentino-Alto Adige, e del decreto del Presidente della Repubblica, emanato in data 21 dicembre 2007 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale, serie generale, n. 2 del 3 gennaio 2008, di convocazione dei relativi comizi elettorali promosso con ricorso di Longhi Carlo, in qualità di "delegato supplente" nonché di elettore del Comune di Pedemonte, e di Baldessari Alberto, in qualità di rappresentante del comitato promotore referendario "Torniamo in Trentino", depositato in cancelleria il 1° febbraio 2008 ed iscritto al n. 2 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2008, fase di ammissibilità.

    Udito nella camera di consiglio del 7 maggio 2008 il Giudice relatore Ugo De Siervo.

    Ritenuto che con ricorso depositato il 1° febbraio 2008, Longhi Carlo in qualità di "delegato supplente" del Comune di Pedemonte - designato con delibera del Consiglio comunale ai sensi dell'art. 42, terzo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), ai fini della procedura per il distacco del predetto Comune dalla Regione Veneto e la sua aggregazione alla Regione Trentino-Alto Adige - nonché in qualità di elettore del suddett o Comune, e il sig. Baldessari Alberto, in qualità di rappresentante del comitato promotore referendario "Torniamo in Trentino", hanno sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti dell'Ufficio centrale per il referendum, del Governo e del Presidente della Repubblica, in relazione agli atti di rispettiva competenza;

    che, in particolare, i ricorrenti affermano che l'ordinanza dell'Ufficio centrale per il referendum in data 2 ottobre 2007 con cui è stata dichiarata la legittimità della richiesta referendaria ai sensi dell'art. 43 della legge n. 352 del 1970, il decreto del Presidente della Repubblica del 21 dicembre 2007 (pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 3 gennaio 2008, n. 2) con cui è stato indetto, nel Comune di Pedemonte, il referendum per i giorni 9 e 10 marzo 2008, nonché la previa deliberazione del Consiglio dei ministri dell'11 dicembre 2007, menomerebbero il diritto di autodeterminazione della comunità locale di Pe demonte;

    che, con riguardo al requisito soggettivo, i ricorrenti affermano che il delegato supplente, appositamente designato dal Consiglio comunale per depositare presso la Corte di cassazione la richiesta di svolgimento del referendum, sarebbe legittimato a sollevare il conflitto in quanto «soggetto direttamente interessato a seguire la procedura di migrazione territoriale di un Comune ad altra Regione», ed in quanto potere dello Stato "esterno" allo Stato-apparato che rappresenterebbe il corpo elettorale comunale coinvolto nella consultazione, o «quanto meno la frazione del corpo elettorale comunale favorevole alla modificazione dell'appartenenza regionale», analogamente a quanto ritenuto dalla Corte costi tuzionale con riguardo ai sottoscrittori della richiesta di referendum di cui all'art. 75 Cost.;

    che sussisterebbe, altresì, la legittimazione al conflitto del rappresentante del locale comitato promotore del referendum, la quale discenderebbe dalla sostanziale equiparazione di tale comitato a quello costituito per il referendum abrogativo di cui all'art. 75 Cost.;

    che nessun dubbio vi sarebbe, poi, con riguardo alla legittimazione passiva dell'Ufficio centrale per il referendum essendo questa pacificamente riconosciuta dalla giurisprudenza costituzionale, nonché del Governo e del Presidente della Repubblica;

    che, con riguardo al requisito oggettivo, i ricorrenti affermano di sollevare un conflitto "da menomazione" a seguito del cattivo esercizio del potere posto in essere dall'Ufficio centrale per il referendum, dal Governo e dal Presidente della Repubblica, attraverso l'adozione degli atti di rispettiva competenza ai fini della fissazione della data di svolgimento del referendum, «i quali costituiscono i presupposti per la violazione del diritto del corpo elettorale locale in sede di svolgimento, nonché in sede successiva, del referendum territoriale»;

    che, ad avviso dei ricorrenti, tali atti violerebbero il diritto costituzionalmente garantito alla autodeterminazione territoriale delle popolazioni dei Comuni, in forza del combinato disposto degli artt. 5 e 132 Cost., che risulta rafforzato a seguito della riforma del titolo V della Costituzione;

    che alla consultazione sarebbero applicabili le norme del titolo III della legge n. 352 del 1970 le quali sarebbero «costituzionalmente illegittime in molteplici punti»;

    che, pertanto, i ricorrenti chiedono a questa Corte di sollevare innanzi a sé questione di legittimità costituzionale degli artt. 12, 43 e 45 della legge n. 352 del 1970 nella parte in cui istituiscono l'Ufficio centrale per il referendum presso la Cassazione, attribuendogli la veste di organo di controllo delle richieste e delle procedure referendarie;

    che tali disposizioni contrasterebbero con gli artt. 5, 132 e 102, secondo comma, Cost. in quanto attribuirebbero alla Suprema Corte una nuova competenza diversa dalle tradizionali funzioni giurisdizionali, istituendo una giurisdizione speciale;

    che si chiede, inoltre, che la Corte sollevi davanti a sé questione di legittimità costituzionale dell'art. 45, secondo comma, della legge n. 352 del 1970, in riferimento agli artt. 64, terzo comma, e 75 Cost., nella parte in cui prevede, ai fini della approvazione del referendum di cui all'art. 132, secondo comma, Cost., il quorum della maggioranza degli elettori iscritti nelle liste elettorali del Comune nel quale è indetto il referendum anziché il quorum della maggioranza dei voti validamente espressi qualora abbia partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto;

    che, peraltro, l'art. 45 censurato, nel prevedere un quorum estremamente difficile da raggiungere, determinerebbe una compressione del diritto di autonomia e autodeterminazione delle comunità locali;

    che i ricorrenti chiedono, ancora, che la Corte sollevi avanti a sé questione di legittimità costituzionale dell'art. 32, quarto comma, del d.P.R. 20 marzo 1967, n. 223 (Approvazione del testo unico delle leggi per la disciplina dell'elettorato attivo e per la tenuta e la revisione delle liste elettorali), limitatamente alla parte in cui prevede che l'aggiornamento delle liste elettorali finalizzato allo svolgimento del referendum avvenga non oltre il quindicesimo giorno anteriore alla data delle elezioni, dal momento che, bloccando le liste elettorali a tale data, si altererebbe il numero degli iscritti nelle liste stesse incrementando il quorum ai fini della approvazione del quesito referendario e dunque violando il diritto di autodeterminazione delle comunità locali;

    che si chiede, poi, alla Corte di sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 5 della legge 27 dicembre 2001, n. 459 (Norme per l'esercizio del diritto di voto dei cittadini italiani residenti all'estero), i quali non escludono, in relazione al referendum di cui all'art. 132 Cost., il voto dei cittadini italiani residenti all'estero e non escludono il conteggio di tali cittadini dal quorum previsto ai fini del suddetto referendum, ed inoltre non estendono la modalità del voto per corrispondenza anche in relazione al referendum ex art. 132, secondo comm a, Cost.;

    che viene censurato, inoltre, l'art. 4, lettera d), n. 4), della legge 27 ottobre 1988, n. 470 (Anagrafe e censimento degli italiani all'estero) nella parte in cui «esclude i referendum locali ai fini del conteggio delle ultime due consultazioni per le quali si sia registrato il mancato recapito della cartolina-avviso trasmessa agli elettori italiani residenti all'estero, determinando così la loro cancellazione dall'anagrafe degli italiani residenti all'estero»;

    che, sostengono i ricorrenti, in tal modo si introdurrebbe «una scala di valore all'interno delle consultazioni elettorali in cui i referendum locali sono posti in posizione del tutto subalterna rispetto alle elezioni del Parlamento e degli organi rappresentativi territoriali, nonché ai referendum abrogativi e costituzionali»;

    che, infine, si chiede alla Corte di sollevare questione di legittimità costituzionale dell'art. 45 della legge n. 352 del 1970 nella parte in cui non prevede che il verbale della proclamazione dei risultati del referendum sia comunicato anche al delegato effettivo e supplente del Comune che ha chiesto lo svolgimento del referendum di cui all'art. 132, secondo comma, Cost., dal momento che tale disposizione introdurrebbe una ingiustificata disparità di trattamento nell'ambito della fase di proclamazione dei risultati referendari tra Governo, Parlamento e Regioni interessate ai quali è trasmessa copia del verbale dell'Ufficio centrale per il referendum attestante il risultato del referendum ex art. 132, secondo comma, Cost., e i delegati comunali ai quali non è prevista alcuna trasmissione.

    Considerato che, ai sensi dell'art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), questa Corte è chiamata, in via preliminare, a decidere, con ordinanza in camera di consiglio, senza contraddittorio, se i ricorsi siano ammissibili sotto il profilo dell'esistenza della materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza, valutando, in particolare, se sussistano i requisiti oggettivo e soggettivo di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato;

    che, quanto al presupposto soggettivo, questa Corte ha ripetutamente affermato che la legislazione vigente in tema di referendum di cui all'art. 132, secondo comma, Cost. non riconosce al delegato effettivo (e a quello supplente) alcuna attribuzione in relazione ai procedimenti referendari concernenti il distacco di un Comune da una Regione e la sua aggregazione ad altra Regione (da ultimo ordinanza n. 99 del 2008, nonché ordinanze n. 296 e n. 69 del 2006);

    che tale affermazione, fatta con riguardo alla fase della proclamazione dei risultati referendari (ordinanza n. 69 del 2006), nonché alla fase ad essa successiva (ordinanza n. 99 del 2008), deve ritenersi valere anche nella fattispecie in esame in cui il conflitto è stato sollevato anteriormente allo svolgimento del referendum, dal momento che le attribuzioni del delegato sono comunque circoscritte al deposito presso la cancelleria della Corte di cassazione della richiesta di referendum, secondo quanto disposto dall'art. 42 della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo);

    che neppure nella sua affermata qualità di elettore del Comune di Pedemonte, al signor Longhi Carlo può essere riconosciuta alcuna attribuzione costituzionale in relazione al procedimento referendario concernente il distacco di detto Comune dalla Regione Veneto (ordinanza n. 296 del 2006);

    che, per quanto riguarda il rappresentante del locale comitato promotore del referendum, la Corte ha già escluso la sussistenza della legittimazione a promuovere il conflitto, dal momento che esso, a differenza del comitato promotore del referendum di cui all'art. 75 Cost., «non è contemplato da alcuna disposizione normativa, essendo l'iniziativa referendaria attribuita dalla legge ai Comuni interessati» (ordinanza n. 99 del 2008);

    che, con riguardo al presupposto oggettivo, i ricorrenti sostengono che la lesione delle proprie attribuzioni costituzionali discenderebbe dal fatto che gli atti impugnati, dichiarando ammissibile il referendum e fissando la data per il suo svolgimento, determinerebbero l'applicazione anche nel successivo svolgimento della procedura delle disposizioni del titolo III della legge n. 352 del 1970, nonché delle altre individuate nel ricorso, le quali sarebbero costituzionalmente illegittime;

    che per tale ragione i ricorrenti chiedono che la Corte sollevi avanti a sé questione di legittimità costituzionale di tali disposizioni;

    che ciò rende evidente come il ricorso sia, nella sostanza, rivolto, non già a sollevare un conflitto di attribuzione, quanto, piuttosto, ad ottenere la dichiarazione di illegittimità costituzionale di talune disposizioni legislative, attraverso una sorta di ricorso diretto a questa Corte;

    che, dunque, non sussiste neppure il requisito oggettivo della esistenza della materia del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato;

    che, conseguentemente, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara inammissibile il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto dal signor Longhi Carlo, in qualità di "delegato supplente" del Comune di Pedemonte, nonché in qualità di elettore del suddetto Comune, e dal signor Baldessari Alberto, in qualità di rappresentante del comitato promotore referendario "Torniamo in Trentino", con il ricorso indicato in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Ugo DE SIERVO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 30 maggio 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA




 
    I testi delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale, trasmessi dalla newsletter "Palazzo della Consulta" sono offerti alla consultazione per fini esclusivamente di informazione.

    Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16 marzo 1956).

   Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale su quello quivi riportato in caso di divergenza.