Deposito del 04/07/2008 (dalla 250 alla 256) |
S.250/2008 del 25/06/2008 Udienza Pubblica del 15/04/2008, Presidente BILE, Relatore SAULLE Norme impugnate: Artt. 2 e 3 della legge della Regione Lombardia 05/02/2007, n. 2. Oggetto: Caccia - Norme della Regione Lombardia - Prelievo venatorio in deroga - Previsione di un piano annuale. Dispositivo: illegittimità costituzionale Atti decisi: ric. 18/2007 |
S.251/2008 del 25/06/2 008 Camera di Consiglio del 11/06/2008, Presidente BILE, Relatore QUARANTA Norme impugnate: Art. 1, c. 1° e 2°, della legge 09/01/1989, n. 13; art. 27, c. 1° e 2°, della legge 30/03/1971, n. 118; art. 24, c. 1°, della legge 05/02/1992, n. 104. Oggetto: Edilizia e urbanistica - Edilizia residenziale pubblica, sovvenzionata ed agevolata - Disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche - Progetti relativi alla costruzione di nuovi edifici, ovvero alla ristrutturazione di interi edifici presentati dopo sei mesi dall'entrata in vigore della legge n. 13/1989 - Redazione in osservanza delle prescrizioni tecniche previste dal comma 2 e "in modo tale che risulti garantito, a favore dei disabili di cui all'articolo 3 della legge n. 104/1992, lo stesso livello qualitativo, del quale godono i non portatori di handicap, dei servizi che nei predetti stabili vengono eventu almente erogati in favore del pubblico" - Mancata previsione; Obbligo del Ministro dei lavori pubblici di fissare con proprio decreto, entro tre mesi dall'entrata in vigore della legge n. 13/1989, le prescrizioni tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica - Adozione delle prescrizioni stesse in modo che " risulti garantito a favore dei disabili di cui all'articolo 3 della legge n. 104/1992, lo stesso livello qualitativo, del quale godono i non portatori di handicap, dei servizi che nei predetti stabili vengono eventualmente erogati in favore del pubblico" - Mancata previsione; Edilizia e urbanistica - Norme in favore di mutilati ed invalidi civili - Barriere architettoniche - Luoghi dove si svolgono pubbliche manifestazioni o spettacoli - Spazi riservati agli invalidi in carrozzella - Garanzia a favore dei disabili di cui alla legge n. 104/1992, dello stesso livello qualitativo, d el quale godono i non portatori di handicap, dei servizi che nei predetti stabili vengono eventualmente erogati in favore del pubblico - Mancata previsione; Norme di attuazione dell'articolo 27 della legge n. 118/1971 emanate con Decreto del Presidente della Repubblica entro un anno dall'entrata in vigore della legge stessa - Garanzia a favore dei disabili di cui all'articolo 3 della legge n. 104/1992, dello stesso livello qualitativo, del quale godono i non portatori di handicap, dei servizi che nei predetti stabili vengono eventualmente erogati in favore del pubblico - Mancata previsione; Edilizia e urbanistica - Eliminazione o superamento delle barriere architettoniche - Opere edilizie riguardanti edifici pubblici e privati aperti al pubblico suscettibili di limitare l'accessibilità e la visitabilità, di cui alla legge n. 13/1989 - Esecuzione in modo tale che risulti garantito, a favore dei disabili di cui all'articolo 3 della legge n. 104/1992, lo stesso livello qualitati vo, del quale godono i non portatori di handicap, dei servizi che nei predetti stabili vengono eventualmente erogati in favore del pubblico - Mancata previsione. Dispositivo: inammissibilità Atti decisi: ord. 26/2008 |
O.252/2008 del 25/06/2008 Udienza Pubblica del 20/05/2008, Presidente BILE, Relatore SAULLE Norme impugnate: Art. 1, c. 39°, della legge 23/08/2004, n. 243. Oggetto: Sanità pubblica - Società professionali mediche ed odontoiatriche in qualunque forma costituite e società di capitali, operanti in regime di accreditamento col S.S.N. - Obbligo di versamento ad un Fondo speciale gestito dall'ENPAM, a favore degli specia listi esterni, di un contributo pari al 2 per cento del fatturato annuo. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 854/2007 |
O.253/2008 del 25/06/2008 Camera di Consiglio del 11/06/2008, Presidente BILE, Relatore NAPOLITANO Norme impugnate: Art. 12 quinquies, c. 1°, del decreto legge 08/06/1992, n. 306, convertito con modificazioni in legge 07/08/1992, n. 356. Oggetto: Mafia - Provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa - Trasferimento fraudolento di valori - Configurazione quale reato a prescindere dalla circostanza che il soggetto attivo sia indagato o imputato - Indeterminatezza della fattispecie incrimi natrice. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 154/2006 |
O.254/2008 del 25/06/2008 Camera di Consiglio del 11/06/2008, Presidente BILE, Relatore NAPOLITANO Norme impugnate: Art. 120, c. 2°, del decreto legislativo 01/09/1993, n. 385, aggiunto dall'art. 25, c. 2°, del decreto legislativo 04/08/1999, n. 342. Oggetto: Banca e istituti di credito - Anatocismo bancario - Giudizio di opposizione allo stato passivo proposto da banca creditrice per mancata ammissione al passivo fallimentare di crediti per interessi anatocistici dovuti da società correntista fallita - Dedotta maturazione dei predetti interessi in epoca successiva alla delibera del CICR del 9 febbraio 2000 ed al conseguente adeguamento della banca creditrice alla nuova disciplina dell'anatocismo bancario - Attribuzione al CICR del potere di stabilire modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni bancarie, garantendo alla clientela, nelle operazioni in conto corrente, la stessa periodicità nel conteggio degli interessi debitori e creditori. Dispositivo: manifesta infondatezza - manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 51/2008 |
O.255/2008 del 25/06/2008 Camera di Consiglio del 25/06/2008, Presidente BILE, Relatore QUARANTA Norme impugnate: Art. 213, c. 2° sexies, d el codice della strada (d.lgs. 30.4.1992, n. 285), introdotto dall'art. 5 bis, c. 1°, lett. c) , n. 2, del decreto legge 30/06/2005, n. 115, convertito con modificazioni in legge 17/08/2005, n. 168. Oggetto: Circolazione stradale - Sanzioni accessorie per violazioni del codice della strada - Confisca obbligatoria del ciclomotore o motoveicolo adoperato per commettere una delle violazioni amministrative di cui agli artt. 169, commi 2 e 7, 170 e 171 cod. strada. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 17, 22/2008 |
O.256/2008 del 25/06/2008 Camera di Consiglio del 25/06/2008, Presidente BILE, Relatore QUARANTA Norme impugnate: Art. 213, c. 2° sexies, del codice della strada (d.lgs. 30.4.1992, n. 285), introdotto dall'art. 5 bis, c. 1°, lett. c) , n. 2, del decreto legge 30/06/2005, n. 115, convertito con modificazioni in legge 17/08/2005, n. 168. Oggetto: Circolazione stradale - Sanzioni accessorie per violazioni del codice della strada - Confisca obbligatoria del ciclomotore o motoveicolo adoperato per commettere una delle violazioni amministrative di cui agli artt. 169, commi 2 e 7, 170 e 171 cod. strada. Dispositivo: manifesta infondatezza Atti decisi: ord. 52/2008 |
ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2 e 3 della legge della Regione Lombardia del 5 febbraio 2007, n. 2 (Legge quadro sul prelievo in deroga), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri notificato il 6 aprile 2007, depositato in cancelleria l'11 aprile 2007 ed iscritto al n. 18 del registro ricorsi 2007. Visti l'atto di costituzione della Regione Lombardia nonché l'atto di intervento, fuori termine, della FACE (Federazione delle Associazioni Venatorie e per la Conservazione della Fauna Selvatica dell'UE) ed altra; udito nell'udienza pubblica del 15 aprile 2008 il Giudice relatore Maria Rita Saulle; uditi l'avvocato dello Stato Maurizio Fiorilli per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Franco Ferrari per la Regione Lombardia. Ritenuto in fatto 1. - Con ricorso notificato in data 6 aprile 2007 e depositato l'11 aprile successivo, il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato questione di legittimità costituzionale degli artt. 2 e 3 della legge della Regione Lombardia 5 febbraio 2007, n. 2 (Legge quadro sul prelievo in deroga), per contrasto con l'art. 117, primo e secondo comma, lettera s), della Costituzione. Il ricorrente rileva che con la legge impugnata la Regione Lombardia ha provveduto a dettare norme per la disciplina delle deroghe previste dalla direttiva 79/409/CEE (Direttiva del Consiglio concernente la conservazione degli uccelli selvatici). In particolare, l'art. 2 prevede che il Consiglio regionale, sentito il parere dell'INFS, o di altro istituto faunistico riconosciuto a livello regionale, approvi annualmente il piano elaborato dalla Giunta regionale ai sensi dell'art. 9, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 79/409/CEE. Il successivo art. 3 stabilisce che il Consiglio regionale, «al fine di prevenire gravi da nni alle colture agricole», sentito il parere dell'INFS, o di altro istituto faunistico riconosciuto a livello regionale, approvi annualmente il piano elaborato dalla Giunta regionale, a norma dell'art. 9, paragrafo 1, lettera a), della citata direttiva. Il ricorrente, premesso che secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia delle Comunità europee, «i prelievi in deroga costituiscono una misura di carattere eccezionale, da attivarsi solo per far fronte ad esigenze contingenti e mutevoli, in assenza di altre soluzioni soddisfacenti», ritiene che gli artt. 2 e 3 della cennata legge regionale, nello stabilire che il Consiglio approvi ogni anno con legge-provvedimento i prelievi in deroga, «indipendentemente dalla verificazione di un danno concreto», siano in contrasto con il «regime delle deroghe», introdotto dalla menzionata direttiva. Ad avviso del ricorrente, «il carattere di un atto legislativo necessario e cadenzato è tale da configurare un regime di deroga "ordinario", estraneo alla previsione di cui all'art. 9 della direttiva 79/409/CEE». Pertanto, la disciplina oggetto di censura, essendo in contrasto con la normativa comunitaria, violerebbe l'art. 117, primo comma, della Costituzione, nonché la tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, in particolare, degli standard minimi e uniformi di tutela della fauna, quale prevista all'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione. 2. - Con atto depositato in data 26 aprile 2007 si è costituita in giudizio la Regione Lombardia, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile, improcedibile o comunque infondata. 3. - Con atto depositato il 3 luglio 2007 si è, altresì, costituita la FACE (Federazione delle Associazioni Venatorie per la Conservazione della Fauna Selvatica dell'UE) ed altra. 4. - In prossimità dell'udienza la Regione Lombardia ha depositato una memoria, con la quale insiste affinché la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata infondata. La resistente precisa, in particolare, che, contrariamente a quanto sostenuto dal Presidente del Consiglio dei ministri, l'adozione delle misure in deroga «presuppone» che la Giunta abbia dato «corso ad una attività di ricognizione delle circostanze di fatto», nel rispetto dell'art.9 della direttiva 79/409/CEE. Quanto all'asserita violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, ad avviso della Regione Lombardia, il Presidente del Consiglio dei ministri avrebbe «erroneamente» ricondotto alla materia dell'ambiente la disciplina prevista dalle norme censurate. In proposito, la difesa regionale precisa che l'art. 19-bis della legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), attribuisce alle Regioni la «competenza legislativa in punto di disciplina di deroga» e che la Corte costituzionale ha affermato che la disciplina della caccia rientra nelle competenze residuali delle Regioni (sentenza n. 226 del 2003, sentenza n. 536 del 2002 e sentenza n. 210 del 2001), con il solo limite del rispetto degli «standards uniformi di tutela dettati dal legislatore statale nell'esercizio delle proprie prerogative in materia ambientale». Considerato in diritto 1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato gli artt. 2 e 3 della legge della Regione Lombardia 5 febbraio 2007, n. 2 (Legge quadro sul prelievo in deroga), per contrasto con l'art. 117, primo e secondo comma, lettera s), della Costituzione. Il ricorrente ritiene che le cennate disposizioni, nello stabilire che ogni anno il Consiglio regionale proceda all'approvazione con legge-provvedimento dei prelievi in deroga, senza verificare la sussistenza di un danno effettivo, introducono un sistema di deroga ordinario, in contrasto con la normativa comunitaria e con gli standard minimi ed uniformi di tutela della fauna. 2. - In via preliminare va dichiarato inammissibile l'intervento della FACE (Federazione delle Associazioni Venatorie e per la Conservazione della Fauna Selvatica dell'UE), effettuato con atto depositato oltre i termini previsti dalle norme che disciplinano il giudizio dinanzi alla Corte costituzionale. 3. - Nel merito, la questione è fondata. 4. - La giurisprudenza di questa Corte ha già chiarito che il potere di deroga di cui all'art. 9 della direttiva 79/409/CEE è esercitabile dalla Regione in via eccezionale, «per consentire non tanto la caccia, quanto, piuttosto, più in generale, l'abbattimento o la cattura di uccelli selvatici appartenenti alle specie protette dalla direttiva medesima» (sentenza n. 168 del 1999). 5. - Il legislatore statale è intervenuto in materia con l'adozione della legge 3 ottobre 2002, n. 221, recante «Integrazioni alla legge 11 febbraio 1992, n. 157, in materia di protezione della fauna selvatica e di prelievo venatorio, in attuazione della direttiva 79/409/CEE», con la quale è stato introdotto l'art. 19-bis. Quest'ultima disposizione prevede, al primo comma, che le Regioni disciplinano l'esercizio delle deroghe previste dalla cennata direttiva «conformandosi alle prescrizioni dell'art. 9, ai princìpi e alle finalità degli artt. 1 e 2 della stessa direttiva» e alle disposizioni della legge n. 157 del 1992. I commi successivi riprendono le condizion i espressamente individuate dalla direttiva 79/409/CEE, in base alle quali è consentito il regime delle deroghe. È previsto, inoltre, che il Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro per gli affari regionali, di concerto con il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, possa annullare i provvedimenti di deroga adottati, previa delibera del Consiglio dei ministri e dopo aver diffidato la Regione interessata. 6. - Dal raffronto tra la norma statale e le norme regionali impugnate emerge che il legislatore regionale, nello stabilire che l'esercizio delle deroghe avvenga attraverso una legge-provvedimento, ha introdotto una disciplina in contrasto con quanto previsto dal legislatore statale al cennato art. 19-bis. In particolare, l'autorizzazione del prelievo in deroga con legge preclude l'esercizio del potere di annullamento da parte del Presidente del Consiglio dei ministri dei provvedimenti derogatori adottati dalle Regioni che risultino in contrasto con la direttiva comunitaria 79/409/CEE e con la legge n. 157 del 1992; potere di annullamento finalizzato a garantire una uniforme ed adeguata protezione della fauna selvatica su tutto il territorio nazionale. Pertanto, va accolto il ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri e dichiarata l'illegittimità costituzionale della previsione legislativa regionale che consente di approvare mediante legge regionale i prelievi in deroga. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimità costituzionale degli artt. 2 e 3 della legge della Regione Lombardia 5 febbraio 2007, n. 2 (Legge quadro sul prelievo in deroga). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Maria Rita SAULLE, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 luglio 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 27, primo e secondo comma, della legge 30 marzo 1971, n. 118 (Conversione in legge del decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili), dell'art. 1, commi 1 e 2, della legge 9 gennaio 1989, n. 13 (Disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati) e dell'art. 24, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), trasfusi negli artt. 77, commi 1 e 2, e 82, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), promosso con ordinanza del 10 ottobre 2007 dal Tribunale o rdinario di Reggio Emilia nel procedimento civile vertente tra E. F. e la società C. G. s.r.l., iscritta al n. 26 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio dell'11 giugno 2008 il Giudice relatore Alfonso Quaranta. Ritenuto in fatto 1.- Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia, adito in sede di reclamo in un giudizio avente ad oggetto un'azione civile per discriminazione indiretta − ai sensi dell'art. 3 della legge 1 marzo 2006, n. 67 (Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni), e dell'art. 44 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) − ha sollevato, con ordinanza del 10 ottobre 2007, questione di legittimità costituzionale dell'art. 27, primo e secondo comma, della legge 30 marzo 1971, n. 118 (Conversione in legge del decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore d ei mutilati ed invalidi civili), dell'art. 1, commi 1 e 2, della legge 9 gennaio 1989, n. 13 (Disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati), nonché dell'art. 24, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), in riferimento agli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione. 2.- Il giudice a quo premette in fatto che il ricorrente, portatore di handicap grave ed invalido civile al 100% per tetraplegia postraumatica, recatosi il 19 febbraio 2007 in Reggio Emilia presso una multisala cinematografica per assistere ad un film, in ragione della dislocazione degli alloggiamenti previsti per i portatori di handicap, era collocato con la sua carrozzina nella prima fila della sala n. 10, in uno dei posti riservati per gli invalidi, a distanza di soli quattro metri dallo schermo, benché nella sala medesima fossero presenti, in quel momento, solo 40 spettatori rispetto ai 144 posti disponibili. Ravvisando in tale circostanza una discriminazione indiretta, l'interessato ha convenuto in giudizio la società che gestisce la multisala chiedendo l'adozione di ogni provvedimento idoneo a rimuovere gli effetti della discriminazione in questione, la condanna al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, nonché la pubblicazione dei relativi provvedimenti. Il giudice di prima istanza rigettava il ricorso; avverso detta pronuncia è stato proposto il reclamo su cui verte il giudizio a quo. 3.- Tanto premesso, il Tribunale, nel richiamare la normativa di settore, rileva che la legge n. 67 del 2006, al fine di garantire la piena tutela delle persone disabili in tutti i settori della vita civile, offre una duplice nozione di discriminazione, diretta ed indiretta. Ad avviso del giudice a quo, si è in presenza di un comportamento discriminatorio diretto quando vi è «un trattamento, volontario e manifesto, di sfavore e, di regola, immediatamente contrastante con norme di legge o di regolamento poste a tutela del soggetto debole». Si versa, invece, nella seconda ipotesi quando è posta in essere «una condotta, anche non volontaria, eventualmente caratterizzata da più atteggiamenti o contegni tra loro connessi ed apparentemente "neutri" (.), ma comunque idonei a mettere il soggetto debole in una posizione di svantaggio rispetto ad altri». 4.- Il remittente non dubita che la sala cinematografica in questione sia conforme alla normativa vigente. Da un lato, infatti, il dato non è oggetto di contestazione; dall'altro, «lo ha presupposto - con ragionamento, sul punto, non contrastato dalle parti - anche il giudice di prime cure». Tuttavia, il Tribunale ritiene che non è «seriamente contestabile il fatto che l'alloggiamento dei disabili nelle prime file del cinematografo rappresenti di fatto, per costoro, un trattamento di svantaggio» rispetto agli altri. Nella fattispecie in esame, quindi, si verterebbe in un caso di discriminazione indiretta dal momento che quest'ultima può derivare non solo da un atto o da un negozio giuridico in senso stretto, proveniente da un privato o da un provvedimento dell'autorità amministrativa, ma anche «a ben vedere - da una disposizione dello stesso legislatore ordinario, che, emanando, in altri settori dell'ordinamento (ad es., e per quello che qui interessa, in materia edilizia), disposizioni inidonee, incongrue o insufficienti a "promuovere la piena attuazione del principio di parità di trattamento e delle pari opportunità" (.), si pone - per ciò stesso - in conflitto non solo con il fine della legge n. 67 del 2006, ma prima ancora con il dettato dell'art. 3» della Carta fondamentale, della quale la suddetta legge costituisce strumento di diretta attuazione. 5.- Il giudice remittente, quindi, espone più profili di censura delle norme contestate. Ricorda che l'art. 27, primo comma, della legge n. 118 del 1971 prevede che «per facilitare la vita di relazione dei mutilati e invalidi civili gli edifici pubblici o aperti al pubblico e le istituzioni scolastiche, prescolastiche o di interesse sociale di nuova edificazione dovranno essere costruiti in conformità alla circolare del Ministero dei lavori pubblici del 15 giugno 1968 riguardante la eliminazione delle barriere architettoniche anche apportando le possibili e conformi varianti agli edifici appaltati o già costruiti all'entrata in vigore della presente legge; i servizi di trasporti pubblici ed in particolare i tram e le metropolitane dovran no essere accessibili agli invalidi non deambulanti; in nessun luogo pubblico o aperto al pubblico può essere vietato l'accesso ai minorati; in tutti i luoghi dove si svolgono pubbliche manifestazioni o spettacoli, che saranno in futuro edificati, dovrà essere previsto e riservato uno spazio agli invalidi in carrozzella (.)»; la medesima disposizione stabilisce, quindi, al secondo comma, che «le norme di attuazione delle disposizioni di cui al presente articolo saranno emanate, con decreto del Presidente della Repubblica su proposta dei Ministri competenti, entro un anno dall'entrata in vigore della presente legge». L'attuazione di tale previsione è intervenuta con il decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1978, n. 384 (Regolamento di attuazione dell'art. 27 della legge 30 marzo 1971, n. 118, a favore dei mutilati e invalidi civili, in materia di barriere architettoniche e trasporti pubblici), abrogato e sostituito dal decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1996, n. 503 (Regolamento recante norme per l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici, spazi e servizi pubblici), il cui art. 13, comma 2, sancisce «negli edifici pubblici deve essere garantito un livello di accessibilità degli spazi interni tale da consentire la fruizione dell'edificio sia al pubblico c he al personale in servizio, secondo le disposizioni di cui all'art. 3 del decreto del Ministro dei lavori pubblici 14 giugno 1989, n. 236». Quest'ultimo a sua volta, prevede tra i criteri generali di progettazione degli edifici, tre livelli di qualità dello spazio costruito: l'accessibilità, la visitabilità e la adattabilità. 6.- Afferma, quindi, il Tribunale che le fonti normative primarie costituite dall'art. 27, primo e secondo comma, della legge n. 118 del 1971, dall'art. 1, commi 1 e 2, della legge n. 13 del 1989, dall'art. 24, comma 1, della legge n. 104 del 1992, dettano disposizioni «inidonee, incongrue o, comunque, insufficienti a garantire appieno ai portatori di handicap "la piena attuazione del principio di parità di trattamento e della pari opportunità" e "il pieno godimento dei loro diritti civili (.) e sociali" (art. 1 della legge n. 67 del 2006), donde poi l'inidoneità, l'incongruità o l'insufficienza - per così dire − derivata delle stesse norme regolamentari sopra richiamate». Le norme in questione ledono i diritti inviolabili dell'uomo come riconosciuti e garantiti dall'art. 2 Cost. Inoltre, sussiste contrasto con l'art. 32 Cost., dal momento che nel concetto di salute rientra anche l'aspetto della socializzazione del disabile (attuabile mediante la partecipazione di questi ad eventi, manifestazioni, spettacoli), che ha una funzione sostanzialmente terapeutica assimilabile alle pratiche di cura e riabilitazione (è richiamata la sentenza n. 167 del 1999). Ad avviso del remittente la piena attuazione dei suddetti diritti, conformemente agli artt. 2, 3 e 32 Cost., nonché all'art. 1 della legge n. 67 del 2006, si può realizzare solo se alle persone disabili venga riconosciuta, oltre alla accessibilità della struttura anche la possibilità di usufruire di un livello qualitativo e quantitativo dei servizi ivi offerto uguale o, almeno, tendenzialmente simile a quello erogato in favore degli altri. Ciò che darebbe luogo alla illegittimità costituzionale delle norme in esame, dunque, è la mancata previsione della possibilità di avere la stessa qualità dei servizi che vengono resi alla generalità dei consociati negli edifici pubblici o privati aperti al pubblico. 7.- Ciò vale, in particolare, per le sale cinematografiche dove la parità di trattamento può attuarsi solo se in detti locali è garantita una visione delle proiezioni qualitativamente uguale o, almeno, tendenzialmente simile, per tutti coloro che vi accedono. 8.- Rileva, quindi, il giudice a quo che la Corte, pur riconoscendo la piena discrezionalità del Parlamento nell'individuare le diverse misure operative dirette alla tutela dei disabili, non ha mancato di sottolineare che è sempre possibile il vaglio di costituzionalità dei meccanismi predisposti dal legislatore, al fine del controllo della razionalità e della congruità delle singole disposizioni legislative rispetto al fine della tutela dei soggetti deboli, sia la sussistenza di eventuali disparità di trattamento (è richiamata la sentenza n. 325 del 1996). In un caso analogo a quello in esame, rammenta, altresì, il remittente, la Corte, nel dichiarare l'illegittimità costituzionale dell'art. 1052, secondo comma, del codice civile (sentenza n. 167 del 1999 già sopra richiamata), ha affermato che la realizzazione del principio di parità di trattamento delle persone disabili e di tutela della salute impone la prevalenza delle norme poste a protezione delle stesse. 9.- Il Tribunale remittente, quindi, nel precisare i profili di illegittimità in relazione ai parametri costituzionali invocati, deduce che le disposizioni censurate confliggono con l'art. 3 Cost., non essendo idonee ad attuare in pieno il principio di parità di trattamento e di pari opportunità in favore dei disabili; con l'art. 2 Cost., nella parte in cui non garantiscono e non riconoscono, in maniera adeguata e congrua, i diritti inviolabili dell'uomo; con l'art. 32 Cost., nella parte in cui non assicurano adeguata tutela alla salute dei disabili, intesa come comprensiva della possibilità di socializzazione. Ritiene il Tribunale, infine, che una volta rimosse le norme assunte come costituzionalmente illegittime, con effetto ex nunc, la condotta della parte resistente nel giudizio a quo potrebbe essere considerata come indirettamente discriminatoria. A ciò conseguirebbe l'adozione di misure tecniche idonee all'eliminazione degli ostacoli che impediscono la collocazione dei disabili in punti della sala cinematografica adeguati a fare usufruire di una visione della proiezione di qualità uguale, o almeno tendenzialmente analoga, a quella degli altri. 10.- Con atto depositato l'11 marzo 2008, è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ed ha chiesto che la questione di costituzionalità sia dichiarata inammissibile o non fondata. In particolare, la difesa dello Stato ha eccepito, in via preliminare, il difetto di rilevanza della questione, in quanto il dubbio di costituzionalità riguarderebbe le nuove costruzioni o la ristrutturazione di interi edifici, mentre la vicenda oggetto del giudizio a quo riguarda un immobile già realizzato. Nel merito, l'Avvocatura dello Stato ha osservato che la giurisprudenza della Corte ha sancito il diritto alla parità di trattamento delle persone disabili sotto il profilo dell'accessibilità dei luoghi, e non della fruizione dei servizi che vengono eventualmente erogati nei luoghi medesimi (sono richiamate le sentenze n. 325 del 1996 e n. 167 del 1999). 1.- Con ordinanza del 10 ottobre 2007 il Tribunale ordinario di Reggio Emilia ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 27, primo e secondo comma, della legge 30 marzo 1971, n. 118 (Conversione in legge del decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili), dell'art. 1, commi 1 e 2, della legge 9 gennaio 1989, n. 13 (Disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati), nonché dell'art. 24, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), per violazione degli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione. 2.- Il giudizio a quo ha per oggetto l'azione civile per discriminazione indiretta, promossa nei confronti della società che gestisce una multisala cinematografica in Reggio Emilia da una persona portatrice di handicap grave ed invalida civile al 100% per tetraplegia postraumatica, la quale, recatasi il 19 febbraio 2007 per assistere ad un film, in ragione della dislocazione degli alloggiamenti previsti per i disabili, è stata collocata con la sua carrozzella nella prima fila della sala n. 10, in uno dei posti all'uopo riservati - a distanza di soli quattro metri dallo schermo − benché nella sala medesima vi fossero, in quel momento, 40 spettatori rispetto ai 144 posti disponibili. L'interessato, ravvisando in tale collocazione una forma di discriminazione indiretta a danno di una persona portatrice di handicap, ha convenuto in giudizio la suddetta società e ha chiesto sia l'adozione dei provvedimenti idonei a rimuovere gli effetti della discriminazione stessa, sia la condanna della parte convenuta al risarcimento del danno, anche non patrimoniale, subìto, nonché la pubblicazione dei relativi provvedimenti. 3.- Il remittente, adito in sede di reclamo, a seguito del rigetto della domanda proposta in prime cure, assume che le suindicate disposizioni danno luogo ad una discriminazione indiretta, in quanto esse non sono idonee a promuovere la piena attuazione del principio di parità di trattamento tra le persone disabili e le altre persone non portatrici di handicap. Il remittente, in particolare, premesso, da un lato, di non poter disapplicare, e, dall'altro, di non poter interpretare in modo costituzionalmente orientato le disposizioni censurate, ritiene che le stesse ledano: l'art. 3 Cost., in quanto non consentono che trovi attuazione in pieno il principio di parità di trattamento e di pari opportunità in favore dei disabili; l'art. 2 Cost., nella parte in cui non assicurano e non riconoscono in maniera adeguata e congrua i diritti inviolabili dell'uomo; l'art. 32 Cost., nella parte in cui non garantiscono idonea tutela alla salute dei disabili, intesa come comprensiva della loro possibilità di socializzazione. Il remittente, sul piano della rilevanza, deduce che, «rimosse le norme costituzionalmente illegittime con effetto ex nunc, la condotta della resistente potrà essere considerata come indirettamente discriminatoria e potrà pertanto essere rimossa mediante l'adozione di misure tecniche (.) idonee all'eliminazione degli ostacoli che impediscono, ad oggi, la collocazione dei disabili in punti della sala cinematografica idonei ad usufruire di una visione della proiezione di qualità uguale o almeno tendenzialmente analoga» agli altri. 4.- Al fine di precisare le censure prospettate dal giudice a quo ed il thema decidendum, occorre richiamare, innanzitutto, il contenuto delle disposizioni censurate. 4.1.- L'art. 27 della legge 118 del 1971, la cui rubrica reca «Barriere architettoniche e trasporti pubblici», prevede, tra l'altro, al primo comma, che «per facilitare la vita di relazione dei mutilati e invalidi civili gli edifici pubblici o aperti al pubblico e le istituzioni scolastiche, prescolastiche o di interesse sociale di nuova edificazione dovranno essere costruiti in conformità alla circolare del Ministero dei lavori pubblici del 15 giugno 1968 riguardante la eliminazione delle barriere architettoniche anche apportando le possibili e conformi varianti agli edifici appaltati o già costruiti all'entrata in vigore della presente legge (.)». Il secondo comma, a sua volta, dispone che «le norme di attuazione delle disposizioni di cui al presente ar ticolo saranno emanate, con decreto del Presidente della Repubblica su proposta dei Ministri competenti, entro un anno dall'entrata in vigore della presente legge». Le suddette disposizioni sono sospettate di illegittimità costituzionale nella parte in cui non prevedono, in tutti i luoghi dove si svolgano pubbliche manifestazioni o spettacoli, uno spazio riservato agli invalidi in carrozzella, in modo tale che risulti garantito, a favore dei disabili, lo stesso livello qualitativo dei servizi che nei relativi stabili vengono erogati in favore delle altre persone. Il Tribunale remittente aggiunge che, in attuazione di quanto stabilito dal richiamato secondo comma, sono state adottate apposite disposizioni regolamentari contenute, rispettivamente, nel decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1978, n. 384 (Regolamento di attuazione dell'art. 27 della legge 30 marzo 1971, n. 118, a favore dei mutilati e invalidi civili, in materia di barriere architettoniche e trasporti pubblici), poi abrogato dal successivo decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1996, n. 503 (Regolamento recante norme per l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici, spazi e servizi pubblici), e nell'art. 18 del decreto ministeriale 13 gennaio 1 992, n. 184 (Regolamento di esecuzione della legge 4 novembre 1965, n. 1213, per quanto attiene la costruzione, trasformazione, adattamento di immobili da destinare a sale e arene per spettacoli cinematografici, l'ampliamento di sale e arene cinematografiche già in attività, nonché la destinazione di teatri a sale per proiezioni cinematografiche). 4.2.- La seconda disposizione oggetto di censura è contenuta nel comma 1 dell'art. 1 della legge n. 13 del 1989, il quale stabilisce che «i progetti relativi alla costruzione di nuovi edifici, ovvero alla ristrutturazione di interi edifici, ivi compresi quelli di edilizia residenziale pubblica, sovvenzionata ed agevolata, presentati dopo sei mesi dall'entrata in vigore della presente legge sono redatti in osservanza delle prescrizioni tecniche previste dal comma 2». La norma è censurata nella parte in cui non prevede che i progetti relativi alla costruzione di nuovi edifici ovvero alla ristrutturazione di quelli esistenti, presentati dopo sei mesi dall'entrata in vigore della legge stessa, siano redatti in modo tale che risulti garantito, a favore dei disabili, lo stesso livello qualitativo dei servizi di cui godono le altre persone. Il successivo comma 2, a sua volta, stabilisce che «entro tre mesi dall'entrata in vigore della presente legge, il Ministro dei lavori pubblici fissa con proprio decreto le prescrizioni tecniche necessarie a garantire l'accessibilità, l'adattabilità e la visitabilità degli edifici privati e di edilizia residenziale pubblica, sovvenzionata ed agevolata». Il Tribunale remittente ritiene lesiva degli invocati parametri costituzionali anche tale disposizione, nella parte in cui essa non prevede che il Ministro competente fissi con proprio decreto le suddette prescrizioni tecniche in modo tale che risulti assicurata una tutela adeguata a favore dei disabili. 4.3.- Infine, la terza norma censurata è contenuta nell'art. 24, comma 1, della legge n. 104 del 1992, secondo il quale «tutte le opere edilizie riguardanti edifici pubblici e privati aperti al pubblico che sono suscettibili di limitare l'accessibilità e la visitabilità di cui alla legge 9 gennaio 1989, n. 13, e successive modificazioni, sono eseguite in conformità alle disposizioni di cui alla legge 30 marzo 1971, n. 118, e successive modificazioni, al regolamento approvato con decreto del Presidente della Repubblica 27 aprile 1978, n. 384, alla citata legge n. 13 del 1989, e successive modificazioni, e al cit ato decreto del Ministro dei lavori pubblici 14 giugno 1989, n. 236». Anche la riportata disposizione è ritenuta dal Tribunale remittente lesiva degli artt. 2, 3 e 32 Cost., nella parte in cui non prevede che le suddette opere edilizie debbano essere eseguite in modo tale che risulti garantito, a favore dei disabili, lo stesso livello qualitativo dei servizi che negli stabili in questione vengono erogati al pubblico. 5.- È dunque evidente che il remittente chiede, in sostanza, che la Corte adotti una pronuncia che integri il contenuto precettivo della normativa oggetto di censura, affinché risultino previste nuove, ulteriori, disposizioni attinenti alle modalità di costruzione degli edifici de quibus, in modo che siano assicurati, sempre ed in ogni caso, ai disabili gli stessi diritti di partecipazione a manifestazioni, eventi e spettacoli riconosciuti a tutte le altre persone. 6.- Così precisato il thema decidendum, occorre rilevare, innanzitutto, che le disposizioni contenute nell'art. 1, commi 1 e 2, della legge n. 13 del 1989 e nell'art. 24, comma 1, della legge n. 104 del 1992 sono state trasfuse, con alcune modifiche che non ne mutano il sostanziale contenuto, negli artt. 77, commi 1 e 2, e 82, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, recante il «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia». È su tali ultimi articoli, quindi, che, in ragione dell'intervenuto mutamento del quadro normativo, devono ritenersi trasferite le questioni sollevate dal giudice a quo, conformemente alla giurisprudenza di questa Corte (così, ordinanze n. 31 del 2007 e n. 54 del 2005). 7.- In via preliminare, deve essere disattesa l'eccezione di inammissibilità della questione, prospettata dall'Avvocatura generale dello Stato sotto il profilo del difetto di rilevanza. Ad avviso della difesa statale, mentre la struttura edilizia, nella quale è ubicata la sala cinematografica per cui è causa, è un edificio già costruito, le norme impugnate riguarderebbero le nuove costruzioni ovvero la ristrutturazione di nuovi edifici. È palese, però, che l'art. 27 della legge n. 118 del 1971, che costituisce il nucleo centrale del complessivo sistema normativo censurato - rispetto al quale, tra l'altro, la disciplina della trasformazione in multisala di sale cinemato grafiche è intervenuta successivamente - era vigente e pienamente operativo alla data in cui è stata realizzata la «nuova multisala (.) inaugurata il 15 febbraio 2007», nella quale la parte ricorrente del giudizio a quo si è recata per assistere alla visione di un film. 8.- La questione deve, tuttavia, essere dichiarata inammissibile sotto un diverso profilo. Al riguardo, è necessario, anzitutto, ricordare come questa Corte, in via generale, abbia avuto modo di affrontare, in più occasioni, il tema dei diritti delle persone disabili. In particolare, tenuto conto della pluralità degli ambiti normativi di intervento a favore degli interessati, la Corte ha osservato come, sul tema della condizione giuridica della persona disabile, confluiscano un complesso di valori che attingono ai fondamentali motivi ispiratori del disegno costituzionale; e come, conseguentemente, il canone ermeneutico da impiegare in siffatta materia sia essenzialmente dato dall'interrelazione ed integrazione tra i precetti in cui quei valori trovano espressione e tutela (sentenza n. 215 del 1987). Del pari, la Corte (sentenze n. 406 del 1992 e n. 325 del 1996), nell'affermare che la legge n. 104 del 1992 è diretta ad assicurare in un quadro globale ed organico la tutela del disabile - con la conseguenza che la stessa incide perciò necessariamente in settori diversi - ha ribadito le finalità che la tutela delle persone disabili intende perseguire attraverso i valori espressi dal disegno costituzionale. Alla luce dei suddetti principi, deve, pertanto, ritenersi che sussistono ambiti specifici di libertà di scelta del legislatore nella individuazione delle misure concrete che possono essere adottate in un corretto bilanciamento di tutti gli interessi coinvolti dal suddetto tipo di tutela. 9.- È opportuno, inoltre, ricordare come la giurisprudenza della Corte, nel delineare il contenuto dei diritti che la Costituzione riconosce e attribuisce ai disabili, abbia chiarito, da un lato, che deve ritenersi ormai superata la concezione di una loro radicale irrecuperabilità e che la socializzazione deve essere considerata un elemento essenziale per la salute degli interessati, sì da assumere una funzione sostanzialmente terapeutica assimilabile alle pratiche di cura e riabilitazione (sentenze n. 167 del 1999 e n. 215 del 1987); dall'altro, che la legislazione relativa alle persone disabili − in particolare la legge n. 13 del 1989 e la legge n. 104 del 1992 − non si è limitata ad innalzare il livello di tutela in loro favore, ma ha segnato un radicale mutamento di prospettiva rispetto al modo stesso di affrontare i problemi delle persone affette da invalidità, considerati come problemi non solo di carattere individuale dei disabili, ma dell'intera collettività (citata sentenza n. 167 del 1999). Inoltre, nella suddetta sentenza si è osservato che da ciò è derivata l'introduzione di disposizioni generali per la costruzione di nuovi edifici e per la ristrutturazione di quelli preesistenti, intese alla eliminazione delle barriere architettoniche, indipendentemente dalla effettiva utilizzazione degli edifici stessi da parte delle persone portatrici di handicap. 10.- È poi da aggiungere che il superamento delle barriere architettoniche - tra le quali rientrano, ai sensi dell'art. 1, comma 2, lettera b), del d.P.R. n. 503 del 1996, gli «ostacoli che limitano o impediscono a chiunque la comoda e sicura utilizzazione di spazi, attrezzature o componenti» - è stato previsto (comma 1 dell'art. 27 della legge n. 118 del 1971) «per facilitare la vita di relazione» delle persone disabili e a tale finalità risponde anche la previsione, contenuta nello stesso comma, che «in tutti i luoghi dove si svolgono pubbliche manifestazioni o spettacoli, che saranno in futuro edificati, dovrà essere previsto e riservato uno spazio agli invalidi in carrozzella». 11.- È dunque evidente che i principi sopra richiamati rispondono all'esigenza di una generale salvaguardia della personalità e dei diritti dei disabili e trovano base costituzionale nella garanzia della dignità della persona e del fondamentale diritto alla salute degli interessati, intesa quest'ultima nel significato, proprio dell'art. 32 Cost., comprensivo anche della salute psichica oltre che fisica. 12.- Sotto altro aspetto, va osservato che analoghi principi ispirano le disposizioni comunitarie e internazionali contenute, in particolare, nel Trattato istitutivo della Comunità europea, nella Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, adottata il 13 dicembre 2006 dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite e nella «Risoluzione del Consiglio dell'Unione europea e dei rappresentanti dei governi degli Stati membri, ri uniti in sede di Consiglio, del 17 marzo 2008, sulla situazione delle persone con disabilità nell'Unione europea». Giova ricordare come il Trattato CE, all'art. 13, paragrafo 1, stabilisca che «il Consiglio, deliberando all'unanimità su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, può prendere i provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l'origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l'età o le tendenze sessuali». La Convenzione delle Nazioni Unite sopra indicata è qui richiamata − ancorché ne sia in corso il procedimento di ratifica ed essa, quindi, sia tuttora priva di efficacia giuridica − per il suo carattere espressivo di principi comuni ai vari ordinamenti nazionali, analogamente a quanto ritenuto da questa Corte per quanto concerne la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, proclamata a Nizza nel dicembre 2000 (sentenza n. 394 del 2006). L'atto in questione assume, dunque, il valore di semplice ausilio interpretativo. Orbene, l'art. 30 della citata Convenzione, la cui rubrica reca «Partecipazione alla vita culturale, ricreativa, agli svaghi e allo sport», sancisce, al paragrafo 1, lettera (b), che «gli Stati Parti riconoscono il diritto delle persone con disabilità a prendere parte su base di uguaglianza con gli altri alla vita culturale e adottano tutte le misure adeguate a garantire che (.) abbiano accesso a programmi televisivi, film, spettacoli teatrali e altre attività culturali, in formati accessibili». La stessa Convenzione, inoltre, risulta menzionata, attesa la sua rilevanza, nel preambolo del decreto del Ministro per i beni e le attività culturali del 28 marzo 2008, recante le «Linee guida per il superamento delle barriere architettoniche nei luoghi di interesse culturale». Infine, la Risoluzione dell'Unione europea, sopra indicata, rammenta che i principi di base volti a garantire il pari ed effettivo godimento dei diritti umani e delle libertà delle persone con disabilità, ai sensi della suddetta Convenzione delle Nazioni Unite, sono la dignità e l'autonomia individuale, la non discriminazione, la piena ed effettiva partecipazione e l'inclusione nella società e nel settore del lavoro, il rispetto delle differenze, le pari opportunità, l'accessibilità, l'uguaglianza tra uomini e donne e il pieno godimento di tutti i diritti umani da parte dei bambini. 13.- Tutto ciò precisato sul piano ricostruttivo della normativa a favore delle persone disabili, deve, tuttavia, osservarsi, sulla base delle considerazioni che seguono, che, nella specie, la questione di costituzionalità sollevata dinanzi a questa Corte dal Tribunale remittente non può essere considerata ammissibile. 14.- Anche a voler ritenere correttamente indicate tutte le disposizioni censurate - benché, come si evince dalla medesima ordinanza di rimessione, è in quelle regolamentari che si rinviene principalmente la disciplina di dettaglio che fissa le modalità di realizzazione delle opere per l'eliminazione delle barriere architettoniche - l'esame del petitum, in rapporto alla motivazione che lo sorregge, consente di affermare che il remittente, prendendo spunto dalla controversia sottoposta al suo esame, si propone, su un piano d'ordine generale, di pervenire ad una modificazione di tipo manipolativo del complessivo sistema di tutela delle persone affette da handicap, mediante l'integrazione − ad opera di questa Corte − di una pluralità di norme legislative nel senso specificato dettagliatamente nell'ordinanza di rimessione. Il giudice a quo, che, ai sensi dell'art. 3 della legge 1 marzo 2006, n. 67 (Misure per la tutela giudiziaria delle persone con disabilità vittime di discriminazioni), è chiamato ad adottare i provvedimenti idonei a rimuovere la discriminazione «secondo le circostanze», intende, in effetti, pervenire ad un sistema di tutela che, sempre e a qualsiasi costo, anche a scapito di altri interessi costituzionalmente protetti, faccia prevalere il diritto del disabile a fruire dei servizi al pubblico in condizioni di assoluta parità con gli altri utenti, vale a dire utilizzando i servizi stessi con le medesime modalità previste per tali ultimi soggetti. In particolare, in luogo di un sistema di tutela compatibile con altri interessi, anch'essi di rilievo costituzionale, dovrebbe trovare ingresso un complesso normativo che sia tale da privilegiare, senza alcun limite, il diritto fondamentale dei disabili rispetto a qualsiasi altro interesse costituzionale confliggente, fosse anche connesso ad esigenze di incolumità e sicurezza. Ciò spiega la richiesta, contenuta nel petitum dell'ordinanza di rimessione, di integrazione delle varie disposizioni di legge censurate nel senso di prevedere che si debba, comunque, garantire alle persone disabili la fruizione dello «stesso livello qualitativo (dei servizi) di cui godono i non portatori di handicap». </ P> 15.- In sostanza, il Tribunale remittente chiede che questa Corte emetta una sentenza che, a differenza di quanto attualmente previsto dal richiamato art. 27 della legge n. 118 del 1971, imponga l'eliminazione delle barriere architettoniche anche negli edifici esistenti, senza il limite rappresentato dalla concreta possibilità della loro rimozione in termini di compatibilità con altre esigenze, di tal ché sarebbe necessario apportare modifiche strutturali a tutti gli edifici esistenti che non rispondano a tali requisiti. La pronuncia additiva richiesta, che non può essere considerata costituzionalmente obbligata, esula però dai poteri di questa Corte, in quanto è diretta a privilegiare una delle possibili forme di intervento a favore delle persone disabili, in sostituzione di un sistema caratterizzato dalla concreta valutazione anche di altri interessi, tra i quali non possono escludersi quelli relativi agli oneri economici eventualmente derivanti, allo stato, dalla forma di tutela prescelta. Tra i suddetti interessi, come si è accennato, vanno annoverati quelli relativi alla pubblica incolumità e sicurezza, che sono diretti soprattutto a tutela delle stesse persone portatrici di handicap, essendo preordinati a garantire rapide vie di fuga nella ipotesi in cui sussista la necessità di uscire senza alcun indugio dai locali per incendio, calamità o altri eventi analoghi. In proposito, si può ricordare come il decreto del Ministro dell'interno 19 agosto 1996 (Approvazione della regola tecnica di prevenzione incendi per la progettazione, costruzione ed esercizio dei locali di intrattenimento e di pubblico spettacolo) detti una serie di disposizioni di sicurezza, anche a tutela delle persone con ridotte o impedite capacità motorie, per la «prevenzione degli incendi» e allo «scopo di raggiungere i primari obiettivi di sicurezza relativi alla salvaguardia delle persone e alla tutela dei beni» (art. 2, comma 1, primo inciso); ciò per far sì che i locali di intrattenimento e di pubblico spettacolo siano realizzati e gestiti in modo da «assicurare la possibilità che gli occupanti lascino il locale indenni o che gli stessi siano soccorsi in altro modo» (art. 2, comma 1, lettera e). Coerentemente con il suddetto impianto normativo, primario e secondario, l'art. 27 sopra citato, nell'affermare la già richiamata finalità di «facilitare la vita di relazione» dei disabili, dispone che, per gli stabili già costruiti, l'eliminazione delle barriere architettoniche debba essere effettuata «apportando le possibili e conformi varianti agli edifici». E non è senza significato che la Convenzione delle Nazioni Unite sopra richiamata preveda, al paragrafo 2 dell'art. 5, la cui rubrica reca «Uguaglianza e non discriminazione», che «gli Stati Parti devono vietare ogni forma di discriminazione fondata sulla disabilità e garantire alle persone con disabilità uguale ed effettiva protezione giuridica contro la discriminazione qualunque ne sia il fondamento», e, al successivo paragrafo 3, che «al fine di promuovere l'eguaglianza ed eliminare la discriminazione, gli Stati Parti adottano tutti i provvedimenti appropriati, per garantire che siano forniti accomodamenti ragionevoli». Questi ultimi, secondo quanto previsto dall'art. 2 della medesim a Convenzione, sono «le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongono un onere sproporzionato o eccessivo adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l'esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali». In sostanza anche la citata Convenzione recepisce un sistema di tutela delle persone disabili che sia, però, in concreto compatibile con altri interessi che non possono essere pretermessi e che devono essere, invece, bilanciati con quello, certamente superiore, alla tutela ottimale delle medesime persone. 16.- A ciò va aggiunto che, questa Corte con riferimento ad una fattispecie per qualche aspetto analoga alla presente (si veda la sentenza n. 226 del 2000 sul diritto a misure di sostegno assistenziali in caso di malattia intervenuta a seguito di trattamenti sanitari effettuati nell'interesse pubblico di promozione della salute collettiva), ha riconosciuto che il legislatore, nell'esercizio dei suoi poteri di apprezzamento della qualità e della entità delle misure necessarie a rendere effettiva la tutela delle persone disabili, alla stregua degli artt. 2, 3 e 32 Cost., ben possa graduare l'adozione delle stesse in vista dell'attuazione del principio di parità di trattamento, tenuto conto di tutti i valori costituzionali in gioco, fermo comunque il rispett o di un nucleo indefettibile di garanzie per gli interessati. La relativa determinazione rientra necessariamente nel potere di scelta spettante al legislatore. D'altronde, questa Corte, già con la sentenza n. 215 del 1987 (punto 9 del Considerato in diritto) ha chiarito come, a proposito della frequenza della scuola da parte di alunni disabili, spetti «al legislatore il compito - la cui importanza ed urgenza è sottolineata dalle considerazioni (.) svolte − di dettare nell'ambito della propria discrezionalità una compiuta disciplina idonea a dare organica soluzione a tale rilevante problema umano e sociale». Resta comunque fermo che, su un piano più generale e pur con i suoi limiti, la normativa vigente sulla eliminazione delle barriere architettoniche attende ancora di essere compiutamente attuata a salvaguardia dei fondamentali diritti delle persone disabili; ciò che postula il concorso di tutte le autorità pubbliche interessate, ciascuna nell'ambito della propria competenza legislativa ed amministrativa. Questa Corte, d'altronde, da tempo, seppure in un diverso contesto, ha già avuto modo di affermare che l'accessibilità «è divenuta una qualitas essenziale degli edifici privati di nuova costruzione ad uso di civile abitazione, quale conseguenza dell'affermarsi, nella coscienza sociale, del dovere collettivo di rimuovere, preventivamente, ogni possibile ostacolo alla esplicazione dei diritti fondamentali delle persone affette da handicap fisici» (sentenza n. 167 del 1999, punto 5 del Considerato in diritto). LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 27, primo e secondo comma, della legge 30 marzo 1971, n. 118 (Conversione in legge del decreto-legge 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili), sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia con l'ordinanza di cui in epigrafe; dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 1 e 2, della legge 9 gennaio 1989, n. 13 (Disposizioni per favorire il superamento e l'eliminazione delle barriere architettoniche negli edifici privati) e dell'art. 24, comma 1, della legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), trasfusi negli artt. 77, commi 1 e 2, e 82, comma 1, del decreto del President e della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3 e 32 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia con l'ordinanza di cui in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Alfonso QUARANTA, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 luglio 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 39, della legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all'occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria), promosso con ordinanza del 18 ottobre 2007 dal Tribunale di Roma nel procedimento civile vertente tra il Policlinico San Donato s.p.a. ed altri e la Fondazione ENPAM, iscritta al n. 854 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visti gli atti di costituzione del Policlinico San Donato s.p.a. ed altri, della Fondazione ENPAM nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 20 maggio 2008 il Giudice relatore Maria Rita Saulle; uditi gli avvocati Giustino Ciampoli per il Policlinico San Donato s.p.a. ed altri, Giulio Prosperetti per la Fondazione ENPAM e l'avvocato dello Stato Sergio Fiorentino per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto che, con ordinanza del 18 ottobre 2007, il Tribunale di Roma, Sezione lavoro, dubita della legittimità dell'art. 1, comma 39, della legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all'occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria), in riferimento agli artt. 2, 3, 38, 41 e 53 della Costituzione; che la disposizione censurata prevede che «le società professionali mediche ed odontoiatriche, in qualunque forma costituite, e le società di capitali, operanti in regime di accreditamento col Servizio sanitario nazionale, versano, a valere in conto entrata del Fondo di previdenza a favore degli specialisti esterni dell'Ente nazionale di previdenza ed assistenza medici (ENPAM), un contributo pari al 2 per cento del fatturato annuo attinente a prestazioni specialistiche rese nei confronti del Servizio sanitario nazionale e delle sue strutture operative, senza diritto di rivalsa sul Servizio sanitario nazionale. Le medesime società indicano i nominativi dei medici e degli odontoiatri che hanno partecipato alle attività di produzione del fatturato, attribuendo loro la percentu ale contributiva di spettanza individuale»; che il giudizio principale è sorto a seguito del ricorso proposto da trentaquattro società che gestiscono strutture sanitarie accreditate presso il Servizio sanitario regionale della Lombardia per l'erogazione di prestazioni specialistiche ambulatoriali in regime di gratuità, teso a far accertare l'insussistenza, in favore dell'ENPAM, dell'obbligo contributivo; che il giudice rimettente, «premesso che la legge n. 243 del 2004 non prevede alcun potere dell'Ente di previdenza di modulare la base imponibile riducendola secondo un criterio discrezionale», ritiene che, in base alla lettera della legge, «il contributo debba calcolarsi sul fatturato realizzato dalle società, sia pure limitatamente alla quota riferibile all'attività svolta dai medici e dagli odontoiatri»; che, posta tale premessa interpretativa, secondo il giudice a quo, la norma censurata violerebbe: il principio di ragionevolezza, in quanto il contributo previdenziale viene commisurato ad un valore - il fatturato - che non sarebbe espressione diretta né del corrispettivo ricevuto dai professionisti, né della capacità contributiva del soggetto che si avvale delle prestazioni mediche per l'esercizio di un'attività di impresa; i principi di cui agli artt. 2, 3 e 38 Cost., in quanto il contributo, utile per assicurare il finanziamento di uno specifico fondo previdenziale, verrebbe a gravare in modo definitivo sui soggetti che si avvalgono delle prestazioni professionali, senza possibilità di rivalsa né sul professionista né, per espresso dettato di legge, sul Servizio sanitario nazionale; gli artt. 3 e 41 della Costituzione, poiché il contributo inciderebbe esclusivamente sulle società professionali e sulle società di capitali, anziché su tutte le strutture pubbliche e private che, a condizioni paritarie, operano in regime di accreditamento con il Servizio sanitario nazionale; i principi di cui agli artt. 2, 3, 38 e 53 Cost., dovendosi ritenere illegittimo un contributo che grava sul «produttore il quale non può rivalersi sul Servizio sanitario, soggetto esponenziale della collettività dei fruitori del servizio»; che, del pari, sempre ad avviso del giudice rimettente, non sarebbe possibile superare i profili di illegittimità costituzionale evidenziati «anche nel caso in cui la disposizione di cui all'art. 1, comma 39, della legge n. 243 del 2004» fosse «interpretata nel senso che il contributo debba essere commisurato non già al fatturato» complessivo della società, «nonostante il chiaro tenore letterale della norma, bensì ai soli compensi corrisposti in concreto ai professionisti»; che, infatti, anche in forza di tale interpretazione, sempre secondo il giudice rimettente, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 2, 3 e 41 Cost., in quanto il contributo graverebbe «su una sola delle categorie di soggetti abilitati a rendere, in condizioni di parità, prestazioni assistenziali», e con gli artt. 2, 3, 38 e 53 Cost., «essendo imposto l'onere al produttore del servizio anziché al fruitore», nonché con gli artt. 2, 3 e 38 Cost., «essendo imposto un onere solidaristico a carico di un soggetto privato estraneo alla categoria di lavoratori beneficiaria delle prestazioni previdenziali»; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, sostenendo l'infondatezza delle questioni sollevate; che, con atto depositato in data 15 febbraio 2008, si sono costituite le società di capitali ricorrenti nel giudizio a quo, deducendo ulteriori argomenti a favore dell'accoglimento della sollevata questione di legittimità costituzionale; che, con successivo atto depositato in data 19 febbraio 2008, si è costituita la Fondazione ENPAM, parte resistente nel giudizio principale, chiedendo che le questioni sollevate siano rigettate; che, con memorie depositate in prossimità dell'udienza pubblica, le parti costituite hanno insistito nelle rispettive conclusioni, ribadendo e precisando le argomentazioni già svolte nei relativi atti di costituzione. Considerato che il Tribunale di Roma, Sezione lavoro, dubita della legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 39, della legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all'occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria), in riferimento agli artt. 2, 3, 38, 41 e 53 della Costituzione; che la disposizione censurata pone a carico delle società professionali mediche ed odontoiatriche, in qualunque forma costituite, e delle società di capitali, operanti in regime di accreditamento col Servizio sanitario nazionale, un «contributo pari al 2 per cento del fatturato annuo attinente a prestazioni specialistiche rese nei confronti del Servizio sanitario nazionale e delle sue strutture operative, senza diritto di rivalsa sul Servizio sanitario nazionale»; che il giudice rimettente, nel prospettare le questioni di legittimità costituzionale, non ha fornito una interpretazione univoca della disposizione oggetto di censura; che, in particolare, il giudice a quo, da un lato, afferma che il tenore letterale dell'art. 1, comma 39, della legge n. 243 del 2004, «sembra» non consentire altri significati che quello per cui la percentuale del contributo in essa contemplato debba computarsi sul fatturato realizzato dalle società, anziché sui compensi erogati dalle medesime ai professionisti; dall'altro, ammette che l'obbligo contributivo in questione possa essere calcolato sui compensi medesimi, così contraddicendo la stessa premessa interpretativa sulla quale ha fondato i dubbi di legittimità costituzionale sollevati in via principale; che tale difetto dell'ordinanza di rimessione risulta ancora più evidente se si considera che il rimettente non si è fatto carico di verificare la possibilità di seguire l'interpretazione fatta propria dall'ENPAM, nell'applicazione della disposizione censurata, per commisurare la base imponibile del contributo ai compensi corrisposti ai singoli professionisti; che, pertanto, oltre all'evidenziata contraddittorietà nella prospettazione delle questioni, il rimettente si è sottratto all'onere di offrire adeguata motivazione sia sulla norma da applicare, nel suo significato all'interno del sistema complessivamente considerato, sia «sulla effettiva impraticabilità di una diversa interpretazione conforme a Costituzione» (ex plurimis, ordinanze n. 448 del 2007, n. 272 del 2006 e n. 427 del 2005); che detti vizi determinano, secondo il costante orientamento di questa Corte, la manifesta inammissibilità di tutte le questioni sollevate. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 39, della legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all'occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 38, 41 e 53 della Costituzione, dal Tribunale di Roma, Sezione lavoro, con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Maria Rita SAULLE, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 luglio 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 12-quinquies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, promosso con ordinanza del 13 gennaio 2006 dalla Corte di appello di Palermo nel procedimento penale a carico di B. L. P. ed altri, iscritta al n. 154 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repub blica n. 22, prima serie speciale, dell'anno 2006. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio dell'11 giugno 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano. Ritenuto che la Corte d'appello di Palermo, con ordinanza del 13 gennaio 2006, ha sollevato questione di legittimità costituzionale «dell'art. 12-quinquies, comma 1, della legge 7 agosto 1992 n. 356» (recte: dell'art. 12-quinquies del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306, recante «Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla cri minalità mafiosa», convertito, con modificazioni, dalla legge n. 356 del 1992), in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, 27, 35 e 111 della Costituzione; che il rimettente premette che nel procedimento penale a carico di B. L. P. ed altri, la difesa di alcuni degli imputati ha chiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale dell'art. 12-quinquies, comma 1, della legge 7 agosto 1992 n. 356; che la difesa degli imputati, sempre secondo quanto riferisce il rimettente, ha affermato che i dubbi sulla compatibilità dell'art. 12-quinquies con numerosi principi costituzionali, emersi nel corso dei lavori parlamentari di conversione del decreto-legge n. 306 del 1992, hanno trovato riscontro nella sentenza della Corte costituzionale n. 48 del 1994, con la quale si era posta in evidenza «la confusa interferenza operata dal legislatore tra la norma incriminatrice ed il diverso istituto delle misure di prevenzione a carattere patrimoniale, con particolare riferimento sia all'identità della qualifica soggettiva rivestita dal proposto per l'applicazione di una misura di prevenzione ed il soggetto imputato del reato di cui all'articolo citato, sia alla identità delle situazioni costituenti elemento di sospetto in un caso e condotta della norma incriminatrice nell'altro»; che, proseguendo nell'illustrare la tesi della difesa degli imputati, il rimettente osserva che le argomentazioni della sentenza n. 48 del 1994 della Corte costituzionale, formulate con riferimento al comma 2 dell'art. 12-quinquies, possono essere applicate anche al comma 1 il quale, pertanto, presenta gli stessi vizi di costituzionalità: in particolare, laddove si ribadisce che il costituente ha inteso separare nettamente le posizioni processuali dell'imputato da quelle del condannato, in quanto anche nella fattispecie in esame basterebbe una semplice notitia criminis, pur se priva di fondamento, a determinare la sussistenza della qualità di indagato che re nderebbe punibile quella condotta, con evidenti gravi conseguenze discriminatorie; che, inoltre, la difesa degli imputati ha «evidenziato conseguenze rilevanti in relazione al diritto di difesa (art. 24 Cost.) e di giusto processo (art. 111 Cost.), con particolare riferimento alla violazione del principio relativo alla ripartizione dell'onere della prova, non potendosi spostare sull'imputato il compito di fornire la prova di una capacità patrimoniale atta a giustificare il possesso dei beni senza violare il citato principio costituzionale»; che la difesa degli imputati ritiene altresì estendibili i rilievi citati anche in riferimento alla posizione dei soggetti cui fittiziamente sarebbe intestata la proprietà dei beni, con conseguenziale violazione del principio di tassatività, posto che la mancata indicazione dell'elemento psicologico che deve sorreggere la condotta del cosiddetto extraneus potrebbe sottendere una forma di responsabilità oggettiva, palesemente contraria al principio della personalità della responsabilità penale; che la Corte rimettente ritiene l'eccezione di incostituzionalità sollevata dalla difesa rilevante ai fini del giudizio e meritevole del vaglio della Corte costituzionale essendo non palesemente infondata e sostenuta dal decisivo riferimento alla sentenza della Corte cost. n. 48 del 1994; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto alla Corte costituzionale di dichiarare la questione inammissibile o infondata; che, a parere dell'Avvocatura dello Stato - la quale afferma che «si può supporre, ma, appunto, solo supporre, che ad uno o più imputati di quel giudizio sia contestato il delitto di cui al comma 1 dell'art. 12-quinquies d. l. 306/92 conv. L. 356/92» - la questione è inammissibile, in quanto nell'ordinanza di rimessione manca del tutto la descrizione della fattispecie, oltre che la motivazione in ordine alla rilevanza nel giudizio a quo; che, sempre secondo l'Avvocatura generale, solo per taluni dei parametri costituzionali evocati (artt. 24, 27 e 111 Cost.) sono evidenziate le ragioni del sospettato contrasto con la norma censurata e, comunque, nel merito la questione sarebbe infondata in quanto il giudice rimettente parte dal presupposto, del tutto erroneo, che le questioni esaminate dalla Corte con la sentenza n. 48 del 1994, siano perfettamente sovrapponibili a quelle che possono sollevarsi con riferimento al comma 1 dell'art. 12-quinquies, mentre le due fattispecie presentano caratteri radicalmente difformi; che, in particolare, il comma 2 dell'art. 12-quinquies, dichiarato incostituzionale, puniva la disponibilità di beni di valore sproporzionato al reddito o all'attività economica svolta, ove di tale disponibilità non venisse giustificata la legittima provenienza da parte di coloro nei cui confronti «pendesse procedimento penale» per determinati reati o fosse in corso di applicazione una misura di prevenzione personale o si procedesse per l'applicazione di questa, mentre il comma 1 punisce l'attribuzione fittizia ad altri di denaro o altre utilità, al fine di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione patrimoniali o di contrabbando o di agevolare la commissione di uno dei deli tti di cui agli artt. 648, 648-bis e 648-ter del codice penale; che, sempre a giudizio della difesa statale, «è palese che la sentenza della Corte si riferisce esclusivamente alla fattispecie di cui al secondo comma che presentava quella commistione fra diritto penale sostanziale e diritto delle misure di prevenzione che faceva sì che una medesima condotta potesse dar luogo, indifferentemente, all'applicazione di una misura di tipo preventivo o di una pena detentiva», mentre il delitto di cui al comma 1 può essere realizzato - indifferentemente - tanto da chi riveste la qualità di indagato quanto da chi non la riveste ed è onere del pubblico ministero provare - in ogni suo elemento costitutivo - una fattispecie (intestazione fittizia diretta ad eludere norme o ad agevolare la commissione dei predetti reat i) che ha un suo proprio e preciso disvalore giuridico e sociale. Considerato che la Corte d'appello di Palermo con ordinanza del 13 gennaio 2006 ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 12-quinquies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992 n. 356 in riferimento agli artt. 2, 3, 2 4, 25, 27, 35 e 111 della Costituzione; che al rimettente «appaiono rilevanti ai fini del giudizio e meritevoli dell'autorevole vaglio della Corte Costituzionale» le argomentazioni con le quali la difesa degli imputati nel processo a quo sostiene che la norma censurata, nel disciplinare la fattispecie incriminatrice del «trasferimento fraudolento di valori», violerebbe, in particolare, l'art. 27, secondo comma, della Costituzione, perché punisce una determinata condotta in quanto posta in essere da soggetti che si qualificano per il solo fatto di rivestire una condizione processuale quale quella dell'indagato o dell'imputato, del tutto inidonea ad assegnare al soggetto attivo connotazioni di intrinseco disvalore, in violazione del principi o per cui questo apprezzamento è riservato esclusivamente alla sentenza irrevocabile di condanna, e perché, con riferimento alla posizione dei soggetti cui fittiziamente è intestata la proprietà dei beni, la mancata indicazione dell'elemento psicologico che deve sorreggere la condotta potrebbe sottendere una forma di responsabilità oggettiva, palesemente contraria al principio della personalità della responsabilità penale; che la norma denunciata, infine, contrasterebbe anche con gli artt. 24 e 111 della Costituzione, perché trasferirebbe sull'imputato il compito di fornire la prova di una capacità patrimoniale atta a giustificare il possesso dei beni con un'inammissibile inversione dell'onere della prova; che la questione è manifestamente inammissibile; che l'ordinanza non contiene alcuna motivazione in ordine alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale, e difetta anche della descrizione della fattispecie oggetto del giudizio a quo, neppure esattamente identificata nei suoi requisiti minimi; che non può valere a colmare tali lacune il semplice rinvio alle motivazioni della richiesta di sollevare questione di costituzionalità fatta dalla difesa dell'imputato, giacché il giudice deve rendere esplicite le ragioni che lo portano a dubitare della costituzionalità della norma con una motivazione autosufficiente (ex plurimis ordinanza n. 312 del 2005); che, inoltre, la Corte rimettente muove dalla premessa interpretativa secondo la quale il comma 1 dell'art. 12-quinquies del decreto-legge n. 306 del 1992 presenterebbe gli stessi profili di incostituzionalità affermati dalla Corte con la sentenza n. 48 del 1994 in riferimento al comma 2 dello stesso articolo; che il rimettente non tiene conto di quella giurisprudenza di legittimità che ha avuto modo di delineare la fattispecie di reato del trasferimento di valori in termini tali da soddisfare il petitum dell'odierna questione, in quanto è stato evidenziato che la posizione di indagato o imputato non è elemento caratterizzante la rilevanza penale della condotta, venendo solo a definire l'ambito temporale di operatività del divieto, così da ritenere che la portata incriminatrice della norma si estende anche nei confronti di chi non è sottoposto ad alcuna misura di prevenzione ma può prevedere che sia imminente una tale evenienza (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 2 marzo 2004, n. 19537) ;< o:p>
che anche la premessa interpretativa dell'inversione dell'onere
della prova non trova riscontro nella giurisprudenza di legittimità
secondo la quale spetta alla pubblica accusa provare, sia nei confronti
di colui che si rende fittiziamente titolare di beni, sia nei confronti
di chi opera la fittizia attribuzione, tutti gli elementi costitutivi
del reato, vale a dire il carattere fittizio di tale attribuzione e il
dolo specifico di elusione delle misure di prevenzione o di
contrabbando ovvero di agevolazione della commissione di uno dei delitti
di cui agli articoli 648, 648-bis e 648-ter del codice
penale; che, infine, la Corte rimettente si è limitata ad aderire alla prospettazione della difesa non tenendo conto, anche al fine di confutarla, dell'elaborazione giurisprudenziale in materia, sulla base della quale la Corte di cassazione ha, invece, affermato la manifesta infondatezza di un'identica richiesta di sollevare questione di costituzionalità dell'art. 12-quinquies, comma 1, del decreto-legge n. 306 del 1992 (Corte di cassazione, sezione quinta penale, sentenza 25 settembre 2007, n. 39992). Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 12-quinquies, comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalità mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 24, 25, 27, 35 e 111 della Costituzione, dalla Corte d'appello di Palermo con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 luglio 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 25, comma 2, del decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342 (Modifiche al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), siccome trasfuso nell'art. 120, comma 2, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), promosso con ordinanza del 25 ottobre 2007 dal Tribunale ordinario di Vicenza nel procedimento civile vertente tra l a Unicredit Banca d'Impresa s.p.a. e il Fallimento Crestani Costruzioni s.r.l., iscritta al n. 51 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio dell'11 giugno 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano. Ritenuto che, con ordinanza depositata il 25 ottobre 2007, il Tribunale ordinario di Vicenza ha sollevato questione di legittimità costituzionale, con espresso riferimento agli artt. 3, commi primo e secondo, e 76 della Costituzione, dell'art. 25, comma 2, del decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342 (Modifiche al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), siccome trasfuso nell'art. 120, comma 2, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e cre ditizia); che il rimettente precisa di dubitare della legittimità costituzionale della disposizione che consente alle banche, in violazione di quanto previsto dall'art. 1283 del codice civile, di applicare la capitalizzazione anatocistica degli interessi con cadenza trimestrale (o comunque infrannuale) nei rapporti in conto corrente, anche in caso di pattuizione anteriore alla scadenza degli interessi; che, riguardo alla rilevanza della questione di legittimità costituzionale nel giudizio a quo, il rimettente chiarisce di essere chiamato a giudicare in ordine alla opposizione alla stato passivo proposta, nei confronti del Fallimento Crestani Costruzioni s.r.l., dalla Unicredit Banca d'Impresa s.p.a. la quale, insinuatasi nel passivo fallimentare, si era vista ammettere il saldo del conto corrente intestato alla società fallita, depurato però della somma riferibile alla capitalizzazione trimestrale degli interessi successiva alla delibera del Comitato interministeriale per il credito e il risparmio del 9 febbraio 2000; che - affermando l'istituto di credito la legittimità di tale capitalizzazione, in quanto, conformemente alla delibera del CICR emanata ai sensi della disposizione impugnata, essa opererebbe sia nei confronti dell'istituto di credito che del cliente - il Tribunale vicentino ha sollevato questione di costituzionalità dell'art. 25, comma 2, del d.lgs. n. 342 del 1999; che il rimettente, riportato il contenuto della disposizione censurata e dell'art. 1, commi 1 e 2, della delibera del CICR del 9 febbraio 2000, osserva che, ferma restando la illegittimità delle clausole anatocistiche stipulate anteriormente alla entrata in vigore della ricordata delibera CICR, a tenore delle disposizioni sopra richiamate, risulterebbe la "liceità" dell'anatocismo là dove, previsto in condizioni di reciprocità fra la banca e il cliente, esso operi a vantaggio di entrambi; che, tuttavia, ad avviso del rimettente, anche la condizione di reciprocità non «muta i profili di illegittimità»; che il rimettente deduce l'illegittimità costituzionale dell'art. 25, comma 2, del d.lgs. n. 342 del 1999, in quanto la disposizione sarebbe viziata, con riferimento all'art. 76 della Costituzione, da eccesso di delega; che, per il rimettente, con l'art. 1, comma 5, della legge 24 aprile 1998, n. 128 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dalla appartenenza dell'Italia alle Comunità europee - Legge comunitaria 1995-1997), è stata conferita delega al Governo per l'emanazione di disposizioni «integrative e correttive» del testo unico bancario, essendo stati richiamati espressamente i principi e i criteri direttivi indicati nell'art. 25 della legge 19 febbraio 1992, n. 142 (Disposizioni per l'adempimento degli obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee - Legge comunitaria per il 1991); che sulla base dei medesimi principi e criteri direttivi già erano stati emanati sia il decreto legislativo 14 dicembre 1992, n. 481 (Attuazione della direttiva 89/646/CEE relativa al coordinamento delle disposizioni legislative regolamentari e amministrative riguardanti l'accesso all'attività degli enti creditizi e il suo esercizio e recante modifica della direttiva 77/780/CEE), sia il d.lgs. n. 385 del 1993; che, secondo il rimettente, anche interpretando estensivamente le finalità di «correzione e integrazione» del testo unico bancario e i principi e criteri direttivi in base ai quali questo era stato emanato, non può ammettersi che essi potessero consentire un intervento in tema di anatocismo, derogatorio rispetto a quanto previsto dall'art. 1283 cod. civ.; che a tale conclusione il rimettente perviene sulla base delle seguenti considerazioni: nessuna delle disposizioni deleganti si riferisce all'anatocismo, né è ravvisabile la volontà del legislatore delegante di derogare all'art. 1283 cod. civ., tanto più attribuendo tale potere ad un «organismo normativo di rango non primario»; il testo unico bancario, oggetto di «integrazione e correzione», non conteneva disposizioni in tema di anatocismo, sicché la disciplina di questo non può corrispondere all'attività di integrazione e correzione assegnata al legislatore delegato; in ogni caso la delega, in quanto volta a derogare a una norma imperativa del codice civile, avrebbe dovuto essere «espressa e inequivoca», rispettando, altresì, la previsione d ell'art. 76, primo comma, della Costituzione, secondo la quale essa deve essere formulata «per oggetti definiti»; che il giudice a quo conclude, sul punto, osservando che la volontà derogatoria in questione non potrebbe essere attribuita al legislatore della delega, in quanto, all'epoca del conferimento di questa, ancora non era maturato il mutamento della giurisprudenza della Corte di cassazione che, esclusa la natura normativa degli usi relativi alla pratica anatocistica, ha reso necessario l'intervento del legislatore, volto, si legge, a porre «rimedio ad un improvviso e sfavorevole cambiamento di rotta della Cassazione»; che il Tribunale di Vicenza, illustrando i restanti profili di illegittimità costituzionale della norma censurata, rileva che essi avrebbero ad oggetto la violazione del principio di eguaglianza sia formale che sostanziale; che, riguardo al primo aspetto, il rimettente ritiene che, benché sia necessario, ai fini della sua validità, in base alla disposizione delegata, che la previsione dell'anatocismo operi, con la medesima periodicità, nei reciproci rapporti delle parti, ciò non esclude una disparità di trattamento da parte della legge; in quanto, da un lato, diverso è il saggio di interesse praticato nei confronti della banca e nei confronti del cliente e, d'altro canto, la clausola anatocistica, inserita nei contratti uniformi praticati dalle banche, non può essere rifiutata dal cliente; che, riguardo alla violazione dell'eguaglianza sostanziale, il rimettente osserva che la disposizione censurata «consolida una situazione di già grave squilibrio sociale a favore delle banche, che costituisce un ostacolo di ordine economico che limita di fatto [.] il pieno sviluppo [.] [scilicet: del cittadino contraente debole] e la sua effettiva partecipazione all'organizzazione economica del Paese»; che in particolare, diversamente da un'eventuale pattuizione successiva alla scadenza degli interessi, la pattuizione anatocistica anteriore a detta scadenza, benché caratterizzata dalla reciprocità, consolida una situazione di disuguaglianza, violando il principio per cui «tutti i cittadini [.] sono uguali di fronte alla legge»; che la norma sarebbe altresì irragionevole laddove consente un meccanismo che la Corte di cassazione ha già ritenuto illegittimo, a prescindere dall'eventuale reciprocità del suo funzionamento, non potendo quest'ultima elidere «i profili di illegittimità», che dipendono, invece, dalla unilaterale costrizione della libertà contrattuale; che, infine, il rimettente ravvisa ulteriori motivi di irragionevolezza della norma «per tutte le gravi conseguenza che possono derivare al sistema economico (libertà individuale, risparmio, prezzi, proprietà, iniziativa economica)»; che il Tribunale di Vicenza conclude ribadendo che la disposizione censurata sarebbe viziata da eccesso di delega e - a causa dell'impossibilità per il cliente di rifiutare la clausola anatocistica, - dalla violazione dei «principi costituzionali riferiti ai valori della libertà individuale, del risparmio, dell'iniziativa e della stabilità economica, della proprietà», comportando «la negazione della libertà e dignità della persona e della sua uguaglianza davanti alla legge»; che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, la quale ha concluso per la inammissibilità o, comunque, per la infondatezza della questione; che la Avvocatura dello Stato rileva come la Corte costituzionale, con la sentenza n. 341 del 2007, abbia già scrutinato la norma censurata sotto l'aspetto della sua congruità alla delega legislativa in attuazione della quale è stata emanata, affermando che la disciplina sia della capitalizzazione degli interessi nell'esercizio del credito bancario che della periodicità di tale operazione «rientravano nell'ambito della attività di adeguamento che il legislatore delegante aveva demandato» a quello delegato; che, anche con riferimento alle dedotte violazioni del principio di eguaglianza, la Avvocatura osserva che la predetta sentenza della Corte costituzionale contiene considerazioni che giustificano, quanto alla sua compatibilità costituzionale, la peculiare disciplina applicabile agli istituti di credito; che, infine, privi di alcuna argomentazione, e pertanto inammissibili, sarebbero quei profili di censura relativi ai parametri, non esplicitati ma genericamente richiamati nel corpo dell'ordinanza, costituiti dagli artt. 41, primo comma, e 47, primo e secondo comma, della Costituzione. Considerato che il Tribunale ordinario di Vicenza dubita, con esplicito riferimento agli artt. 3, commi primo e secondo, e 76 della Costituzione, e, implicitamente, anche con riferimento agli artt. 2, 41, 42 e 47 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 25, comma 2, del decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342 (Modifiche al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), siccome trasfuso nell'art. 120, comma 2, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia); che, in particolare, per il giudice a quo la disposizione contenuta nella norma censurata, in base alla quale con provvedimento del Comitato interministeriale per il credito e il risparmio sono stabiliti modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi maturati nelle operazioni poste in essere nell'esercizio della attività bancaria, sarebbe stata adottata in assenza di idonea delega legislativa; che, sempre secondo il rimettente, la disposizione medesima violerebbe sia il primo che il secondo comma dell'art. 3 della Costituzione in quanto, per un verso, consentirebbe la applicazione di saggi di interesse sensibilmente diversi a seconda che essi siano pretesi o dovuti dagli istituti di credito, senza che il cliente possa realmente trattare le relative condizioni contrattuali e, per altro verso, contribuirebbe al consolidamento di una situazione di squilibrio contrattuale in favore delle banche, tale da limitare il pieno sviluppo e la effettiva partecipazione dei consumatori alla organizzazione economica del Paese, legittimando un meccanismo di incremento del debito nei confronti degli istituti di credito già ritenuto viziato dalla Cor te di cassazione; che, infine, la stessa disposizione sarebbe altresì lesiva di altri interessi costituzionalmente tutelati, quali quello alla dignità individuale, alla salvaguardia del risparmio, dell'iniziativa economica e della proprietà, per i quali il rimettente non ha specificamente individuato alcun parametro ma che appaiono riconducibili agli artt. 2, 41, 42 e 47 della Costituzione; che, ancora di recente, questa Corte, con la sentenza n. 341 del 2007, ha avuto l'occasione di escludere la difformità rispetto all'art. 76 della Costituzione della norma ora censurata dal Tribunale di Vicenza; che, in assenza di elementi di sostanziale novità nella prospettazione del rimettente, non vi è motivo per discostarsi da tale precedente decisione; che, con riferimento alla dedotta violazione dell'art. 3 della Costituzione, la questione è manifestamente infondata; che, infatti, a prescindere dal fatto che i vizi denunciati dal rimettente non appaiono essere frutto della disposizione censurata - la quale si limita a rinviare ad altra fonte, dettando la necessaria condizione di reciprocità, la disciplina della capitalizzazione periodica degli interessi - derivando essi, semmai, da un'esistente disparità di fatto fra la posizione contrattuale degli istituti che esercitano professionalmente l'attività creditizia e quella dei loro correntisti, va osservato che, quanto alla introdotta deroga al regime ordinario fissato dall'art. 1283 del codice civile, essa trova la sua giustificazione, come indicato nella citata sentenza n. 341 del 2007, nell'esigenza di uniformare questo aspetto della legislazione interna a quella vigente nei principali Stati che allora costituivano la Unione europea per i quali «la disciplina prevista in materia di anatocismo per il sistema bancario o, più in generale, per le attività di natura commerciale (o in cui una delle parti fosse un istituto di credito) era diversa da quella prevista nei rapporti di diritto civile». che riguardo alla dedotta irragionevolezza della norma, la quale legittimerebbe una regola contrattuale già dichiarata viziata dalla Corte di cassazione, risulta palese che il ricordato orientamento giurisprudenziale è incongruamente evocato, essendo esso sorto sulla base di una legislazione, precedente a quella ora in esame, la quale appunto non prevedeva deroghe alla disciplina generale prevista dall'art. 1283 cod. civ.; quanto ai restanti profili di illegittimità, implicitamente evocati dal rimettente, essi, stante la assoluta genericità delle censure, sono manifestamente inammissibili. Visti gli artt. 26 secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 25, comma 2, del decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342 (Modifiche al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), siccome trasfuso nell'art. 120, comma 2, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), sollevata, con riferimento agli artt. 2, 41, 42 e 47 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Vicenza con l'ordinanza in e pigrafe; dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 25, comma 2, del decreto legislativo 4 agosto 1999, n. 342 (Modifiche al decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385, recante il testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), siccome trasfuso nell'art. 120, comma 2, del decreto legislativo 1° settembre 1993, n. 385 (Testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia), sollevata, con riferimento agli artt. 3, primo e secondo comma, e 76 della Costituzione, sempre dal Tribunale ordinario di Vicenza con la medesima ordinanza. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 luglio 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), promossi con ordinanze dell'8 gennaio 2007 dal Giudice di pace di Catanzaro e del 30 marzo 2007 dal Giudice di pace di Catania nei procedimenti civili vertenti tra G.F. e la Prefettura di Catanzaro e tra M.R. e la Regione Carabinieri Sicilia, iscritte ai numeri 17 e 22 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 25 giugno 2008 il giudice relatore Alfonso Quaranta. Ritenuto che i Giudici di pace di Catanzaro e Catania, con le ordinanze indicate in epigrafe, hanno sollevato - in riferimento, nel complesso, agli articoli 3, 24, 27, 35 e 42 della Costituzione - questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizion i urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui prevede che è «sempre disposta la confisca in tutti i casi in cui un ciclomotore o un motoveicolo sia stato adoperato per commettere una delle violazioni amministrative di cui agli articoli 169, commi 2 e 7, 170 e 171, o per commettere un reato»; che il remittente catanzarese - nel premettere di essere chiamato a decidere sull'opposizione, avverso verbale di contestazione di infrazione stradale, proposta dal genitore di un minorenne, sanzionato sul piano amministrativo «perché momentaneamente sprovvisto di casco protettivo» (art. 171 del codice della strada) - reputa la previsione dell'art. 213, comma 2-sexies, del codice della strada, che ricollega (recte: ricollegava) la sanzione accessoria della confisca del veicolo all'infrazione in questione, in contrasto con gli artt. 3, 27 e 42 Cost.; che il giudice a quo ipotizza, in primo luogo, «la violazione del principio di ragionevolezza e proporzionalità della sanzione», poiché la norma censurata, «a fronte di violazioni identiche o analoghe» (è indicata, a titolo di esempio, quella consistente nel mancato uso della cintura di sicurezza da parte di un automobilista), «commina la sanzione accessoria della confisca obbligatoria del mezzo» soltanto quando l'infrazione sia commessa mediante l'utilizzazione di un ciclomotore o di un motoveicolo; che è dedotta, poi, la violazione dell'art. 3 Cost. anche sotto un diverso profilo, ovvero «per l'incongruità tra la sanzione pecuniaria principale (piuttosto modesta) e la sanzione accessoria eccessivamente penalizzante»; che, infine, è prospettato il contrasto con l'art. 42 Cost., in quanto tale articolo «prevede la tutela della proprietà privata, ammettendone l'esproprio solo per motivi di interesse generale e non personale (l'uso del casco)»; che, per parte propria, anche il Giudice di pace di Catania - sul presupposto di dover giudicare dell'opposizione a verbale di contestazione amministrativa proposta dal proprietario di un ciclomotore, sorpreso alla guida del mezzo senza indossare il casco protettivo - sottolinea che la Corte costituzionale, già chiamata a scrutinare la censurata disposizione, avrebbe pronunciato una «ordinanza interlocutoria», volendo con ciò «significare che la questione di legittimità costituzionale non è semplice, ma deve essere approfondita adeguatamente»; che secondo il giudice a quo la norma suddetta sarebbe costituzionalmente illegittima, in primis per violazione dell'art. 24 Cost., e segnatamente per la ricorrenza di una «menomazione del diritto alla difesa», giacché, nel caso di specie, «il giudice appare come rimedio marginale alla confisca»; che viene dedotto, inoltre, il contrasto sia con l'art. 42 Cost., secondo il quale la «proprietà privata è riconosciuta dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento, allo scopo di assicurare la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti», che con l'art. 35 Cost., «che garantisce il diritto al lavoro», e ciò «perché le motociclette confiscate possono servire anche per scopi di lavoro»; che è intervenuto in entrambi i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato; che la difesa statale, in via preliminare, sottolinea la necessità della restituzione degli atti ai giudici remittenti (citando, come precedente specifico, l'ordinanza della Corte costituzionale n. 24 del 2007), affinché valutino la perdurante rilevanza e non manifesta infondatezza della questione, alla luce delle modifiche apportate al testo dell'art. 213, comma 2-sexies, del codice della strada - e consistite nel limitare l'applicazione della confisca esclusivamente «in tutti i casi in cui un ciclomotore o un motoveicolo sia stato adoperato per commettere un reato» - dal comma 169 dell'art. 2 del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, della relativa legge di conversione 24 novembre 2006, n. 286; che, in subordine, l'Avvocatura generale dello Stato ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile (risultando, a suo dire, entrambe le ordinanze di rimessione prive di motivazione sulla rilevanza e non manifesta infondatezza della stessa), ovvero, in via ulteriormente gradata, non fondata; che in relazione, difatti, a tale secondo profilo, la difesa dello Stato rileva come la confisca appare rivolta a sottrarre la disponibilità di ciclomotori e motoveicoli a coloro i quali, mostrandosi indifferenti all'obbligo di indossare il casco protettivo, realizzano, con il proprio contegno, «una causa di incremento del pericolo di lesioni craniche da circolazione di motocicli», sicché - sottolinea ancora la difesa statale - anche «il proprietario che autorizzi o tolleri l'uso del motociclo da parte di soggetti che non rispettano l'obbligo in questione» è ragionevolmente sottoposto, dal censurato art. 213, comma 2-sexies, a tale sanzione; che l'applicazione di quest'ultima, pertanto, trova la sua ragion d'essere nella circostanza che il proprietario del veicolo «ha accettato di concorrere all'incremento complessivo del rischio da circolazione e, contemporaneamente, ha rinunciato ad esercitare un controllo personale e diretto sul comportamento del conducente»; che nessuna violazione del principio di eguaglianza, poi, potrebbe essere ravvisata nel caso di specie; che priva di fondamento sarebbe la censura diretta a stigmatizzare il fatto che la confisca obbligatoria «non sia prevista per violazioni stradali che il giudice rimettente considera più gravi sotto il profilo degli interessi protetti», atteso che la legittimità costituzionale di una sanzione va riconosciuta «qualora sussista una ragionevole coerenza tra la sua misura ed entità e gli interessi protetti dal precetto di cui la sanzione è presidio»; che, nella specie, prosegue la difesa statale, «la prevenzione del rischio individuale e sociale da trauma cranico, specifico e peculiare della circolazione motociclistica, rende ragione sufficiente di una misura intesa a togliere la disponibilità del mezzo specifico della creazione di tale rischio». Considerato che i Giudici di pace di Catanzaro e Catania, con le ordinanze indicate in epigrafe, hanno sollevato - in riferimento, nel complesso, agli articoli 3, 24, 27, 35 e 42 della Costituzione - questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposiz ioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui prevede che è «sempre disposta la confisca in tutti i casi in cui un ciclomotore o un motoveicolo sia stato adoperato per commettere una delle violazioni amministrative di cui agli articoli 169, commi 2 e 7, 170 e 171, o per commettere un reato»; che entrambi i remittenti censurano la norma suddetta nel testo anteriore a quello modificato dall'art. 2, comma 169, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, della relativa legge di conversione 24 novembre 2006, n. 286; che la questione investe la norma censurata nella parte in cui prevede (o meglio, prevedeva) la confisca di ciclomotori e motoveicoli quale sanzione accessoria che colpisce anche le infrazioni amministrative di cui agli artt. 169, commi 2 e 7, 170 e 171 del codice della strada; che, preliminarmente, deve essere disposta la riunione dei giudizi, atteso che la identità dei rispettivi oggetti ne giustifica l'unitaria trattazione ai fini di un'unica decisione; che le questioni sollevate sono manifestamente inammissibili; che, difatti, ciascuno dei remittenti ha assunto la propria iniziativa successivamente alle modifiche, recate al testo della norma censurata, dal già menzionato comma 169 dell'art. 2 del decreto-legge n. 262 del 2006, aggiunto dall'art. 1, comma 1, della relativa legge di conversione n. 286 del 2006; che i giudici a quibus non hanno, però, minimamente affrontato il problema della incidenza di tale sopravvenienza normativa rispetto ai giudizi principali, di talché le questioni da essi sollevate sono manifestamente inammissibili; che tale è, infatti, secondo l'indirizzo di questa Corte, l'esito della questione allorché il rimettente non abbia «svolto alcuna motivazione in ordine alla incidenza della novella sulla fattispecie al suo esame (...) quanto alla perdurante rilevanza della questione nel giudizio a quo» (così, da ultimo, e con riferimento a questione analoga a quelle oggi in esame, l'ordinanza n. 126 del 2008). Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'articolo 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo originario risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui prevede che è «sempre di sposta la confisca in tutti i casi in cui un ciclomotore o un motoveicolo sia stato adoperato per commettere una delle violazioni amministrative di cui agli articoli 169, commi 2 e 7, 170 e 171, o per commettere un reato», sollevate - in riferimento, nel complesso, agli articoli 3, 24, 27, 35 e 42 della Costituzione - dai Giudici di pace di Catanzaro e Catania, con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Alfonso QUARANTA, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 luglio 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLAORDINANZA N. 256< ?xml:namespace prefix = o ns = "urn:schemas-microsoft-com:office:office" /> ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), promosso con ordinanza del 15 novembre 2007 dal Giudice di pace di Vasto nel procedimento civile vertente tra P.M. e l'Ufficio territoriale del Governo di Chieti, iscritta al n. 52 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell'anno 2008. Visto l'atto di intervento del Presidente del consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 25 giugno 2008 il giudice relatore Alfonso Quaranta. Ritenuto che il Giudice di pace di Vasto, con l'ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato - in riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale dell'articolo 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposiz ioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui prevede che è «sempre disposta la confisca in tutti i casi in cui un ciclomotore o un motoveicolo sia stato adoperato per commettere una delle violazioni amministrative di cui agli articoli 169, commi 2 e 7, 170 e 171, o per commettere un reato»; che il giudice remittente evidenzia, in via preliminare, come il legislatore, «resosi conto della sproporzione della sanzione» accessoria de qua, abbia modificato la disciplina in contestazione; che, infatti, l'art. 2, comma 169, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, della relativa legge di conversione 24 novembre 2006, n. 286, ha novellato la formulazione dell'art. 213, comma 2-sexies, del codice della strada, limitando l'applicazione della sanzione della confisca ai soli casi in cui ciclomotori e motoveicoli siano adoperati per commettere un reato; che, nondimeno, secondo il giudice a quo, la nuova disciplina non può applicarsi alla fattispecie oggetto del giudizio principale, e ciò per effetto del principio sancito dall'art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), secondo cui le leggi che prevedono sanzioni amministrative «si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati»; che il remittente, pertanto, reputa di dover decidere in applicazione del testo originario dell'art. 213, comma 2-sexies, del codice della strada l'opposizione proposta dal proprietario di un ciclomotore avverso il verbale con il quale è stata contestata, al conducente del mezzo, l'infrazione (art. 170 del codice della strada) consistente nel trasporto di un terzo «benché nel certificato di circolazione non fosse indicato il posto per il passeggero»; che il Giudice di pace di Vasto assume, tuttavia, l'illegittimità costituzionale della norma de qua per contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.; che è ipotizzata, innanzitutto, la «violazione del principio di ragionevolezza» e «proporzionalità della sanzione», in quanto «alla sanzione pecuniaria principale, fissata in misura modesta» corrisponde «una sanzione accessoria notevolmente penalizzante per il cittadino»; che è dedotta, poi, la «violazione del principio della eguaglianza dei cittadini davanti alla legge», e ciò sotto un duplice concorrente profilo; che, infatti, «a fronte di una identica fattispecie astratta», la sanzione della confisca si applica «solo a coloro che hanno subìto l'accertamento prima della modifica introdotta» al testo della norma censurata dalla citata legge n. 286 del 2006; che la norma censurata, inoltre, determinerebbe una «disparità di trattamento sanzionatorio», non applicandosi ad «analoghe condotte compiute alla guida di altri tipi di veicoli, sanzionate sempre a tutela della sicurezza della circolazione e dell'incolumità personale» (sono indicate, a titolo esemplificativo, quelle previste dagli artt. 164, 169 e 172 del codice della strada); che il remittente, infine, assume l'illegittimità costituzionale della norma anche «per mancato bilanciamento degli interessi», in quanto, nella specie, la tutela riservata alla sicurezza della circolazione stradale «comprime eccessivamente il diritto di proprietà», in particolare quando la confisca colpisce un soggetto «diverso dal trasgressore»; che per la stessa ragione, infine, è dedotta anche la «violazione del principio di personalità» della sanzione, «poiché la sanzione della confisca colpisce esclusivamente il proprietario del veicolo, di solito un soggetto diverso dal trasgressore»; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato; che la difesa statale ha eccepito, in via preliminare, l'inammissibilità della questione, giacché il remittente non avrebbe motivato in ordine alla sua rilevanza rispetto al giudizio principale; che, in subordine, la difesa statale assume la non fondatezza della questione sollevata; che, infatti, preliminarmente esclusa la possibilità di evocare quale parametro l'art 27 Cost. (che si riferisce alle sole sanzioni penali e non anche a quelle amministrative), la legittimità costituzionale della norma censurata andrebbe valutata, secondo l'Avvocatura generale dello Stato, in relazione al solo art. 3 Cost; che sotto questo profilo, tuttavia, la questione si presenta non fondata, come emergerebbe dalla sentenza della Corte costituzionale n. 345 del 2007. Considerato che il Giudice di pace di Vasto, con l'ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato - in riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione - questione di legittimità costituzionale dell'articolo 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità d i settori della pubblica amministrazione», nel testo risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui prevede che è «sempre disposta la confisca in tutti i casi in cui un ciclomotore o un motoveicolo sia stato adoperato per commettere una delle violazioni amministrative di cui agli articoli 169, commi 2 e 7, 170 e 171, o per commettere un reato»; che il remittente censura la norma suddetta nel testo anteriore a quello modificato dall'art. 2, comma 169, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), comma aggiunto dall'art. 1, comma 1, della relativa legge di conversione 24 novembre 2006, n. 286, e cioè nella parte in cui prevede (o meglio, prevedeva) la confisca di ciclomotori e motoveicoli quale sanzione accessoria che colpisce anche le infrazioni amministrative di cui agli artt. 169, commi 2 e 7, 170 e 171 del codice della strada; che la questione è rilevante, atteso che il giudice a quo muove dal corretto (ed adeguatamente motivato) presupposto di dover decidere la controversia devoluta al suo esame facendo applicazione della norma suddetta nel suo testo originario; che la questione è, però, manifestamente infondata, alla luce di quanto affermato da questa Corte nell'ordinanza n. 125 del 2008, nonché ribadito nell'ordinanza n. 196 del 2008; che - come osservato nelle ordinanze testé menzionate - risulta, prima facie, non fondata la dedotta violazione dell'art. 27 Cost., essendo la giurisprudenza costituzionale costante nell'affermare «che il parametro costituzionale suddetto si riferisce esclusivamente alle sanzioni penali e non pure a quelle amministrative» (ordinanze n. 125 e n. 196 del 2008); che, del pari, in entrambe le pronunce di questa Corte sopra richiamate, si è sottolineata l'esistenza di «una adeguata ragione giustificativa» a fondamento della scelta del legislatore di «reprimere più intensamente, mediante l'irrogazione anche della sanzione accessoria della confisca del mezzo, oltre che di quella pecuniaria», sia «l'infrazione consistente nell'inosservanza dell'obbligo di indossare il casco protettivo (posta in essere dal conducente di un veicolo a due ruote o da eventuali passeggeri trasportati a bordo dello stesso)», sia quelle altre infrazioni - tra le quali anche quella oggetto del giudizio principale - che condividono, con la prima, «la medesima funzione di prevenire i rischi specifici derivanti da quegli incidenti n ei quali risultino coinvolti veicoli a due ruote»; che, difatti, si è «ritenuto di identificare la ratio legis della più accentuata risposta punitiva» - stabilita per le infrazioni de quibus «attraverso la previsione della sanzione accessoria della confisca» del mezzo - «nella necessità di prevenire i rischi specifici conseguenti alla utilizzazione dei veicoli a due ruote», precisandosi, così, che le «misure dirette ad attenuare le conseguenze che possano derivare dai traumi prodotti da incidenti, nei quali siano coinvolti motoveicoli» risultano dettate da esigenze tali da non far reputare irragionevolmente limitatrici della «estrinsecazione della personalità» il più severo trattamento sanzionatorio, previst o dal testo originario dell'art. 213, comma 2-sexies, del codice della strada, per le violazioni amministrative di cui agli artt. 169, commi 2 e 7, 170 e 171 del medesimo codice (ordinanze n. 196 e n. 125 del 2008); che, del pari, si è esclusa l'irragionevolezza della scelta legislativa di far gravare la sanzione della confisca «anche sul proprietario del mezzo che non sia il responsabile dell'infrazione stradale», ribadendo quella consolidata affermazione della giurisprudenza costituzionale secondo cui «la responsabilità del proprietario di un veicolo per le violazioni commesse da chi si trovi alla guida costituisce, nel sistema delle sanzioni amministrative previste per le violazioni delle norme relative alla circolazione stradale, un principio di ordine generale», principio destinato ad operare in riferimento tanto alla sanzione pecuniaria principale quanto a quelle accessorie, salvo che queste ultime non presentino contenuto «afflittivo personale», t ale non essendo, però, il caso della confisca «giacché essa mantiene i suoi effetti in un ambito puramente "patrimoniale"» (ordinanze n. 196 e n. 125 del 2008); che quanto, poi, alle asserite disuguaglianze, che deriverebbero dalla prevista irrogazione della sanzione suddetta soltanto in caso di infrazioni commesse attraverso l'uso di ciclomotori o motoveicoli, questa Corte ha ribadito come ogni iniziativa volta a superarle «non potrebbe che spettare al legislatore», stante, comunque, l'ampia discrezionalità che caratterizza la scelta di «rimodellare il sistema della confisca, stabilendo alcuni canoni essenziali al fine di evitare che l'applicazione giudiziale della sanzione amministrativa produca disparità di trattamento» (così, nuovamente, le ordinanze n. 196 e n. 125 del 2008); che è, infine, manifestamente infondata anche la censura - tra le varie prospettate dall'odierno rimettente - che presenta carattere di novità, rispetto a quelle già prese in esame da questa Corte con le citate ordinanze n. 196 e n. 125 del 2008; che, difatti, l'ipotizzata disparità di trattamento - derivante dalla circostanza che la sanzione prevista dal testo originario dell'art. 213, comma 2-sexies, del codice della strada, pur «a fronte di una identica fattispecie astratta», si applica soltanto a coloro che hanno subìto l'accertamento di taluna delle infrazioni stradali di cui agli artt. 169, commi 2 e 7, 170 e 171 del medesimo codice, prima della modifica introdotta alla norma censurata dal già più volte citato ius superveniens costituito dall'art. 2, comma 169, de d.l. n. 268 del 2006 - non costituisce affatto una evenienza patologica, bensì - come rilevato, tra l'altro, dallo stesso remittente - l'effetto tipicamente riconducibile alla vigenza del principio sancito dall'art. 1 delle legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), in forza del quale le leggi che prevedono sanzioni amministrative «si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati». Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'articolo 213, comma 2-sexies (comma introdotto dall'art. 5-bis, comma 1, lettera c, numero 2, del decreto-legge 30 giugno 2005, n. 115, recante «Disposizioni urgenti per assicurare la funzionalità di settori della pubblica amministrazione», nel testo risultante dalla relativa legge di conversione 17 agosto 2005, n. 168), del decreto legislativo 3 0 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), nella parte in cui prevede che è «sempre disposta la confisca in tutti i casi in cui un ciclomotore o un motoveicolo sia stato adoperato per commettere una delle violazioni amministrative di cui agli articoli 169, commi 2 e 7, 170 e 171, o per commettere un reato», sollevata - in riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione - dal Giudice di pace di Vasto, con l'ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 giugno 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Alfonso QUARANTA, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 luglio 2008. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA |