Deposito del 04/03/2008 (dalla 44 alla 49) |
S.44/2008 del 25/02/2008 Udienza Pubblica del 29/01/2008, Presidente BILE, Relatore MAZZELLA Norme impugnate: Artt. 10, c. 9° e 10°, e 11, c. 1° e 2°, del decreto legislativo 06/09/2001, n. 368. Oggetto: Rapporto di lavoro - Lavoratori che abbiano prestato attività lavorativa a tempo determinato - Diritto di precedenza nella riassunzione presso la stessa azienda e con la medesima qualifica, per le ipotesi già previste dall'art. 23, comma 2, legge 28 febbraio 1987, n. 56 - Mancata previsione. Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale Atti decisi: ord. 483/2007 |
S.45/2008 del 25/02/2008 Udienza Pubblica del 12/02/2008, Presidente BILE, Relatore SILVESTRI Norme impugnate: Legge 27/12/2006, n. 296 (legge finanziaria 2007); discussione limitata all' art. 1, c. 796°, lett. n.), e 808°. Oggetto: Sanità pubblica - Ristrutturazione edilizia e ammodernamento tecnologico - Aumento dello stanziamento di bilancio e assegnazione delle risorse con vincoli di destinazione; Servizio sanitario nazionale - Finanziamenti finalizzati all'intervento speciale per la diffusione degli accertamenti preventivi oncologici nelle regioni meridionali e insulari. Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale - non fondatezza - inammissibilità At ti decisi: ric. 10/2007 |
S.46/2008 del 25/02/2008 Camera di Consiglio del 30/01/2008, Presidente BILE, Relatore DE SIERVO Norme impugnate: Art. 3, c. 3°, ultimo periodo, della legge 20/06/2003, n. 140. Oggetto: Parlamento - Immunità parlamentari - Garanzia di cui all'art. 68, primo comma, della Costituzione - Estensione ai procedimenti innanzi a tutti i giudici, ivi inclusa la Corte dei conti in sede giurisdizionale. Dispositivo: non fondatezza Atti decisi: ord. 653/2007 |
S.47/2008
del 25/02/2008 Udienza Pubblica del 12/02/2008, Presidente BILE, Relatore MAZZELLA Norme impugnate: Artt. 6 e 9 della legge 11/01/1943, n. 138; artt. 1 e 2 del decreto legislativo luogotenenziale 02/04/1946, n. 142; art. 2 del decreto legislativo Capo provvisorio dello Stato 31/10/1947, n. 1304; art. 74 della legge 23/12/1978, n. 833; art. 14 della legge 23/04/1981, n. 155; art. 31 della legge 28/02/1986, n. 41. Oggetto: Previdenza e assistenza sociale - Contributi di malattia dovuti dal datore di lavoro all'INPS - Esonero dall'obbligo di versamento in ipotesi di obbligo per il datore di lavoro, derivante da contratto collettivo, di continuare a corrispondere la retribuzione durante la malattia del lavoratore - Mancata previsione secondo il "diritto vivente". Dispositivo: non fondatezza - man ifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 427, 428, 529, 724 e 743/2007 |
O.48/2008 del 25/02/2008 Camera di Consiglio del 30/01/2008, Presidente BILE, Relatore DE SIERVO Norme impugnate: Art. 7 bis della legge 27/12/1956, n. 1423; art. 10, c. 5°, della legge 31/05/1965, n. 575; artt. 120, 128 e 130, c. 1°, lett. b), del codice della strada (d.lgs. 30.4.1992, n. 285). Oggetto: Misure di prevenzione - Sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno nel comune di residenza - Revoca della patente di guida per sopravvenuto difetto dei prescritti requisiti morali - Istanza di sospensione del decreto applicativo della misura di prevenzione (Ord. 397 /07, 500/07) - Istanza di rinnovo della patente di guida scaduta di validità (Ord. 398/07) - Omessa previsione in capo al Giudice della prevenzione dei poteri di autorizzare, in presenza di gravi e comprovati motivi connessi all'esercizio dell'attività lavorativa, il sottoposto alla guida di un veicolo al fine di recarsi in un luogo determinato fuori del comune di residenza o di dimora abituale, e di escludere il ritiro, il divieto di emissione e di rinnovo della patente di guida nel caso in cui per effetto degli stessi verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all'interessato ed alla famiglia - Omessa previsione di un sindacato del Giudice della prevenzione in ordine alla revoca, al diniego di rilascio e di rinnovo della patente di guida. Dispositivo: manifesta infondatezza - manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 397, 398 e 500/2007 |
O.49/2008 del 25/02/2008 Camera di Consiglio del 30/01/2008, Presidente BILE, Relatore NAPOLITANO Norme impugnate: Art. 227 del codice penale militare di pace. Oggetto: Reati militari - Diffamazione - Possibilità di provare i fatti attribuiti e, in caso di esito positivo, la non punibilità della condotta - Mancata previsione. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 19/2006 |
ANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 10, commi 9 e 10, e dell'art. 11, commi 1 e 2, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES), promosso con ordinanza del 16 gennaio 2007 dal Tribunale di Rossano nel procedimento civile vertente tra Umberto Novellis e la Olearia Guinnicelli s.r.l. iscritta al n. 483 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti l'atto di costituzione di Umberto Novellis nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 29 gennaio 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella; uditi gli avvocati Vittorio Angiolini e Amos Andreoni per Umberto Novellis e l'avvocato dello Stato Gabriella D'Avanzo per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. - A seguito del ricorso proposto da Umberto Novellis nei confronti della s.r.l. Olearia Guinnicelli - alle cui dipendenze aveva prestato lav oro dal 1965 al 31 marzo 2002 con distinti contratti di lavoro a tempo determinato - al fine di ottenere la riassunzione in base all'art. 23, comma 2, della legge 28 febbraio 1987, n. 56 (Norme sull'organizzazione del mercato del lavoro) - il Tribunale di Rossano sollevava, con ordinanza del 17 maggio 2004, questione di legittimità costituzionale dell'art. 10, commi 9 e 10, e dell'art. 11, commi 1 e 2, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES), per violazione dell'art. 76 della Costituzione, nella parte in cui tali norme, abrogando la normativa previgente, non riconoscevano più il diritto di precedenza nell'assunzione presso la stessa azienda e con la medesima qualifica, a favore dei lavoratori che avessero prestato attività lavorativa a carattere stagionale con contratto a tempo determinato. Precisava il rimettente che l'art. 23 della legge n. 56 del 1987 era stato abrogato dall'art. 11, comma 1, del d. lgs. n. 368 del 2001, il cui art. 10, commi 9 e 10, riservava ai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi l'individuazione del predetto diritto di precedenza; con la conseguenza che, in difetto di tale previsione contrattuale, il diritto vantato non era altrimenti operante. Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, rilevava il Tribunale di Rossano che il d.lgs. n.368 del 2001, avendo soppresso il diritto di precedenza nell'attuare la delega conferita dalla legge 29 dicembre 2000, n. 422 (Disposizione per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee - legge comunitaria 2000), aveva violato la clausola di "non regresso" (clausola 8) - contenuta nell'accordo quadro trasfuso nella direttiva comunitaria e, quindi, inserita tra i principi direttivi della delega (art. 2, comma 1, lettera f, della legge n. 422 del 2000) - secondo cui «L'applicazione del presente accordo non costituisce motivo valido per ridurre il livello generale di tutela offerto ai lavoratori nell'ambito c operto dall'accordo stesso». 2. - Costituendosi in giudizio, il ricorrente nel giudizio a quo, dopo aver rilevato che le prescrizioni contenute nella citata direttiva comunitaria, in quanto riprese nella legge delega, vincolavano il legislatore delegato, rilevava che il tenore perentorio della predetta clausola di "non regresso" comportava l'inderogabilità in pejus della previgente normativa italiana da parte del l egislatore successivo, in sede di attuazione della direttiva, nella parte riguardante il trattamento afferente alla generalità dei lavoratori interessati. Il che si era verificato nel caso concreto poiché l'art. 10 del d.lgs. n. 368 del 2001, applicabile alla generalità dei lavori stagionali, era norma peggiorativa rispetto all'art. 23, comma 2, della legge n. 56 del 1987, non più applicabile ai medesimi lavoratori perché abrogato dall'art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 368 del 2001. 3. - Nell'intervenire in giudizio, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, sosteneva l'infondatezza della questione. 4. - Con ordinanza n. 252 del 2006 questa Corte restituiva gli atti al rimettente al fine di consentirgli la soluzione del problema interpretativo alla luce della sopravvenuta sentenza 22 novembre 2005, nella causa C-144/04, Mangold, con la quale la Corte di giustizia aveva precisato l'àmbito e la portata della clausola di non r egresso. 5.- Con ordinanza del 16 gennaio 2007, il Tribunale di Rossano ha sollevato nuovamente la medesima questione di legittimità costituzionale, sotto due profili: da una parte osservando che, non essendovi nella direttiva comunitaria alcuna traccia della necessità di vietare il diritto di precedenza nelle assunzioni, la soppressione di tale diritto è frutto di una scelta del legislatore delegato, compiuta al di fuori della delega, con violazione dell'art. 77, primo comma, Co st.; dall'altra ravvisando un ulteriore profilo di violazione dell'art. 76 Cost., con riferimento alla violazione della clausola di "non regresso" contenuta nell'accordo quadro allegato alla citata direttiva comunitaria, in ordine alla quale l'indicata sentenza della Corte di giustizia rafforza i dubbi di illegittimità costituzionale manifestati nella precedente ordinanza di rimessione. 6. - Si è costituito il ricorrente nel giudizio a quo osservando che il diritto alla riassunzione involge il nucleo essenziale della direttiva, sicché la rimozione di tale diritto realizza proprio quella reformatio in pejus che la direttiva vuole evitare. Né ricorrono valide ragioni giustificative della regressione. 7. - Nell'intervenire in giudizio, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ha eccepito l'inammissibilità della questione, non avendo il rimettente motivato in alcun modo in ordine alla rilevanza della questione alla luce della sopravvenuta giurisprudenza della Corte di giustizia. Nel merito - osserva l'Avvocatura generale - la questione è infondata: premesso che il diritto di precedenza nell'assunzione presso la stessa azienda non è stato soppresso, ma continua a sussistere, sia pure con modalità rimesse all'autonomia collettiva, non si può sostenere che, in virtù di una scelta arbitraria del legislatore delegato, sia stata operata in forza della norma censurata una riduzione complessiva del livello di tutela accordato ai lavoratori. Secondo la difesa erariale, tra i principi della delega fissati dall'art. 2 della legge n. 422 del 2000, si colloca (lettera b) quello secondo cui, «Per evitare disarmonie con le discipline vigenti per i singoli settori interessati dalla normativa da attuare, saranno introdotte le occorrenti modifiche o integrazioni alle discipline stesse». Su questo presupposto il legislatore delegato, nel dare attuazione alla direttiva 1999/70/CE ha ritenuto di dover regolamentare ex novo l'intera disciplina del lavoro a termine. Sostiene, infine, l'Avvocatura generale che le due norme censurate non comportano alcun peggioramento della tutela complessiva offerta ai soggetti ivi individuati: da una parte, la devoluzione alla contrattazione collettiva dell'individuazione dei casi in cui è esercitabile un diritto di precedenza nell'assunzione si iscrive in un trend normativo costante nell'evoluzione del diritto del lavoro; dall'altra, l'introduzione del termine di un anno dalla data di cessazione del rapporto entro cui il diritto di precedenza si estingue, non aggiunge nulla di nuovo alla disciplina previgente, poiché tale termine annuale doveva ritenersi seppur implicitamente già operante. La pre stazione del lavoro nel settore oleario ha infatti in sé stesso natura stagionale, di tal che, se il lavoratore non viene riassunto o non esercita il diritto alla riassunzione entro un anno dall'ultimo rapporto, ciò significa che il lavoratore non ha interesse a proseguire quel lavoro, oppure che l'attività aziendale si è oggettivamente ridotta o del tutto esaurita. In prossimità dell'udienza il ricorrente ha depositato memoria, ribadendo le proprie difese. Considerato in diritto Il Tribunale di Rossano dubita - in riferimento agli articoli 76 e 77, primo comma, della Costituzione - della legittimità costituzionale dell'art. 10, commi 9 e 10, e dell'art. 11, commi 1 e 2, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES), nella parte in cui subordinano il diritto di precedenza nella assunzione presso la stessa azienda con la medesima qualifica dei lavoratori assunti a termine per lo svolgimento di attività stagionali, a due condizioni prima inesistenti: la previsione di tale diritto da parte della contrattazione collettiva nazionale applicabile, e il mancato decorso di un anno dalla cessazione del precedente rapporto.
In
particolare, l'art. 10 così dispone ai commi 9 e 10: «9. E' affidata ai
contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dai sindacati
comparativamente più rappresentativi, la individuazione di un diritto di
precedenza nella assunzione presso la stessa azienda e con la medesima
qualifica, esclusivamente a favore dei lavoratori che abbiano prestato
attività lavorativa, con contratto a tempo determinato per le ipotesi
già previste dall'articolo 23, comma 2, della legge 28 febbraio 1987, n.
56. I lavoratori assunti in base al suddetto diritto di precedenza non
concorrono a determinare la base di computo per il calcolo della
percentuale di riserva di cui all'articolo 25, comma 1, della legge 23
luglio 1991, n. 223. L'art. 11, a sua volta, dispone ai commi 1 e 2: «1. Dalla data in entrata in vigore del presente decreto legislativo sono abrogate la legge 18 aprile 1962, n. 230, e successive modificazioni, l'articolo 8-bis della legge 25 marzo 1983, n. 79, l'articolo 23 della legge 28 febbraio 1987, n. 56 nonché tutte le disposizioni di legge che sono comunque incompatibili e non sono espressamente richiamate nel presente decreto legislativo. 2. In relazione agli effetti derivanti dalla abrogazione delle disposizioni di cui al comma 1, le clausole dei contratti collettivi nazionali di lavoro stipulate ai sensi dell'articolo 23 della citata legge n. 56 del 1987 e vigenti alla data di entrata in vigore del presente decreto legislativo, manterranno, in via transitoria e salve diverse intese, la loro efficacia fino alla data di scadenza dei contratti collettivi nazionali di lavoro». Va preliminarmente respinta l'eccezione di inammissibilità della questione sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato per non avere il rimettente motivato sulla rilevanza della questione, in quanto l'invocata giurisprudenza della Corte di giustizia, pronunziatasi in ordine alla portata della cosiddetta "clausola di non regresso", se fosse applicabile alla fattispecie in esame, potrebbe realmente incidere sulla legittimità delle norme censurate sotto il profilo delle loro contrarietà ai principi enunciati dalla direttiva sopra indicata Nel merito, la questione è fondata. Il rimettente attribuisce alle norme censurate l'effetto di un peggioramento del trattamento riservato al ricorrente del giudizio principale dalla disciplina precedente e ritiene che ciò comporti una violazione della clausola di non regresso contenuta nella direttiva, richiamata dalla delega (art. 76 Cost.). Inoltre, a suo giudizio, non essendovi nella direttiva traccia della necessità di vietare il diritto alle riassunzioni, la diversa disciplina del diritto di precedenza è frutto di una scelta del legislatore delegato in assenza totale di delega, con corrispondente violazione dell'art. 77, primo comma, della Costituzione. La Corte ritiene che l'abrogazione - ad opera delle norme censurate - dell'art. 23, comma 2, della legge n. 56 del 1987 non rientri né nell'area di operatività della direttiva comunitaria, definita dalla Corte di giustizia con la sentenza 22 novembre 2005, nella causa C-144/04 Mangold, né nel perimetro tracciato dal legislatore delegante. Con riferimento al primo àmbito, detta sentenza ha sottolineato (punti da 40 a 43) che la clausola 5 della direttiva 1999/70/CE è circoscritta alla «prevenzione degli abusi derivanti dall'utilizzo di una successione di contratti o di rapporti di lavoro a tempo determinato». Tale clausola pertanto non opera laddove, come nella specie, vi sia una successione di contratti a termine alla quale non si riferisce alcuna delle misure previste dalla direttiva medesima al fine di prevenire quegli abusi (giustificazione del rinnovo; durata massima totale dei contratti; numero massimo di contratti). In altri termini, la disciplina dettata dalle norme censurate, concernente i lavori stagionali, non mira tanto a prevenire l'abusiva reiterazione di più contratti di lavoro a tempo determinato, per favorire la stabilizzazione del rapporto, ma è volta unicamente a tutelare i lavoratori stagionali, regolando l'esercizio del diritto di precedenza nella riassunzione presso la medesima azienda e con la medesima qualifica. La disciplina censurata si colloca, quindi, al di fuori della direttiva comunitaria. Essa resta anche al di fuori della delega conferita dalla legge 29 dicembre 2000, n. 422 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee - legge comunitaria 2000), complessivamente considerata. L'art. 1, comma 1, di tale legge ha delegato, infatti, il Governo ad emanare «i decreti legislativi recanti le norme occorrenti per dare attuazione alle direttive comprese negli elenchi di cui agli allegati A e B.» e, per quanto concerne la direttiva 1999/70/CE relativa al caso in esame non ha dettato - a differenza di altre ipotesi - specifici criteri o principi capaci di amplia re lo spazio di intervento del legislatore delegato. Sulla base di quanto precede va dichiarata l'illegittimità costituzionale, per violazione dell'art. 77, primo comma, Cost., dell'art. 10, commi 9 e 10, nonché dell'art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 368 del 2001, nella parte in cui abroga l'art. 23, comma 2, della legge 28 febbraio 1987, n. 56, in quanto emanati in assenza di delega. Conseguentemente, il comma 2 dell'art. 11 del d.lgs. n. 368 del 2001, il quale contiene una disposizione meramente transitoria, come tale funzionalmente collegata al precedente comma, è anch'esso costituzionalmente illegittimo. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 10, commi 9 e 10, nonché dell'art. 11, comma 1, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368 (Attuazione della direttiva 1999/70/CE relativa all'accordo quadro sul lavoro a tempo determinato concluso dall'UNICE, dal CEEP e dal CES) nella parte in cui abroga l'articolo 23, comma 2, della legge 28 febbraio 1987, n. 56 (Norme sull'organizzazione del mercato del lavoro); dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 11, comma 2, del decreto legislativo 6 settembre 2001, n. 368, nella parte in cui detta la disciplina transitoria in riferimento all'art. 23, comma 2, della legge 28 febbraio 1987, n. 56. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Luigi MAZZELLA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 marzo 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 796, lettera n), e 808, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), promosso con ricorso della Regione Veneto, notificato il 23 febbraio 2007, depositato in cancelleria il 1° marzo 2007 ed iscritto al n. 10 del registro ricorsi 2007. Visto l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 12 febbraio 2008 il Giudice relatore Gaetano Silvestri; uditi gli avvocati Mario Bertolissi e Andrea Manzi per la Regione Veneto e l'avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. - La Regione Veneto ha promosso, con ricorso notificato il 23 febbraio 2007 e depositato il successivo 1° marzo, questioni di legittimità costituzionale di numerose disposizioni dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), e, tra queste, dei commi 796, lettera n), e 808, in riferimento agli artt. 3, 97, 117, 118 e 119 della Costituzione ed al principio di leale collaborazione di cui a gli artt. 5 e 120, secondo comma, Cost. e 11 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione). 1.1. - Preliminarmente, la ricorrente sottolinea come il legislatore, con le norme di cui al censurato comma 796, abbia dato attuazione al «Patto nazionale per la salute», stipulato dal Governo, dalle Regioni e dalle Province autonome di Trento e di Bolzano in data 28 settembre 2006. Tale patto è richiamato nel primo inciso del comma 796, in cui si legge: «Per garantire il rispetto degli obblighi comunitari e la realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica per il triennio 2007-2009, in attuazione del protocollo di intesa tra il Governo, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano per un patto nazionale per la salute sul quale la Conferenza delle regioni e delle province autonome, nella riunione del 28 settembre 2006, ha espresso la propria condivisione». La lettera n) del comma 796, nella formulazione originaria, oggetto della censura regionale, stabiliva che, «ai fini del programma pluriennale di interventi in materia di ristrutturazione edilizia e di ammodernamento tecnologico, l'importo fissato dall'articolo 20 della legge 11 marzo 1988, n. 67, e successive modificazioni, come rideterminato dall'articolo 83, comma 3, della legge 23 dicembre 2000, n. 388, è elevato a 20 miliardi di euro, fermo restando, per la sottoscrizione di accordi di programma con le regioni e l'assegnazione di risorse agli altri enti del settore sanitario interessati, il limite annualmente definito in base alle effettive disponibilità di bilancio. Il maggior importo di cui alla presente lettera è vincolato per 500 milioni di euro alla riqua lificazione strutturale e tecnologica dei servizi di radiodiagnostica e di radioterapia di interesse oncologico con prioritario riferimento alle regioni meridionali ed insulari, per 100 milioni di euro ad interventi per la realizzazione di strutture residenziali dedicate alle cure palliative con prioritario riferimento alle regioni che abbiano completato il programma realizzativo di cui all'articolo 1, comma 1, del decreto-legge 28 dicembre 1998, n. 450, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1999, n. 39, e che abbiano avviato programmi di assistenza domiciliare nel campo delle cure palliative, per 100 milioni di euro all'implementazione e all'ammodernamento dei sistemi informatici delle aziende sanitarie ed ospedaliere e all'integrazione dei medesimi con i sistemi informativi sanitari delle regioni e per 100 milioni di euro per strutture di assistenza odontoiatrica. Il riparto fra le regioni del maggiore importo di cui alla presente lettera è effettuato con riferimen to alla valutazione dei bisogni relativi ai seguenti criteri e linee prioritarie: 1) innovazione tecnologica delle strutture del Servizio sanitario nazionale, con particolare riferimento alla diagnosi e terapia nel campo dell'oncologia e delle malattie rare; 2) superamento del divario Nord-Sud; 3) possibilità per le regioni che abbiano già realizzato la programmazione pluriennale, di attivare una programmazione aggiuntiva; 4) messa a norma delle strutture pubbliche ai sensi dell'atto di indirizzo e coordinamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 14 gennaio 1997, pubblicato nel supplemento ordinario n. 37 alla Gazzetta Ufficiale n. 42 del 20 febbraio 1997; 5) premialità per le regioni sulla base della tempestività e della qualità di interventi di ristrutturazione edilizia e ammodernamento tecnologico già eseguiti per una quota pari al 10 per cento». 1.1.1. - La Regione Veneto ritiene che la norma di cui all'art. 1, comma 796, lettera n), della legge n. 296 del 2006, incida sulle materie «tutela della salute», di competenza legislativa concorrente, ed «edilizia sanitaria» di competenza residuale delle Regioni ai sensi dell'art. 117, quarto comma, Cost. Per queste ragioni la norma impugnata, «aumentando uno stanziamento preesistente e vincolandolo alle summenzionate precise destinazioni, perpetua ed aggrava l'esistenza di un intervento statale che, in materie di competenza esclusiva o concorrente della Regione, a seguito della riforma del titolo V, non è più compatibile con il dettato costituzionale degli artt. 117 e 119 Cost.». In particolare, la ricorrente osserva come la norma di cui alla lettera n) del comma 796 preveda un finanziamento a destinazione vincolata che non ha le caratteristiche né del fondo perequativo previsto dall'art. 119, terzo comma, Cost., né degli speciali stanziamenti di cui al quinto comma della medesima disposizione costituzionale. Pertanto, la norma impugnata violerebbe il citato art. 119 Cost. e, «di conseguenza», gli artt. 117 e 118 Cost. 1.1.2. - In via subordinata, qualora la Corte costituzionale ritenesse di dover ricondurre la previsione di cui alla lettera n) del comma 796 alla fattispecie prevista dall'art. 119, quinto comma, Cost., la Regione Veneto rileva la violazione del principio di leale collaborazione, in quanto la norma impugnata, pur incidendo su ambiti di competenza delle Regioni, non prevede il coinvolgimento di queste ultime nella programmazione e nel riparto dei fondi in questione. 1.1.3. - Infine, la ricorrente ritiene che l'«irrazionale preferenza accordata alle "regioni meridionali ed insulari"», nella destinazione dei 500 milioni di euro per la riqualificazione strutturale e tecnologica dei servizi di radiodiagnostica e di radioterapia di interesse oncologico, determini la violazione dell'art. 3 Cost. Infatti, il «prioritario riferimento» alle Regioni meridionali ed insulari nel riparto dei fondi non si baserebbe «su una valutazione oggettiva circa eventuali carenze di materiale radiodiagnostico e radioterapeutico o differenze di fabbisogno dei cittadini nelle diverse Regioni del Paese, bensì su di una irragionevole e, in concreto, ingiustificata presunzione di inferiorità, in termini di strutture sanitarie, delle suddette Regioni». Siffatta previsione di favore, inoltre, sarebbe in contrasto con il principio del buon andamento delle pubbliche amministrazioni, sancito dall'art. 97 Cost., «buon andamento che presuppone (.) che lo Stato attui, nei confronti di chi non spende o dissipa risorse, il principio di responsabilità finanziaria, dal momento che, in senso contrario, le risorse aggiuntive possono accrescere lo sperpero e impedire ad un tempo il corretto impiego di ciò che proviene dalla fiscalità generale».
1.2. - La
Regione Veneto censura, inoltre, l'art. 1, comma 808, della legge n. 296
del 2006, il quale stabilisce che «Per il proseguimento dell'intervento
speciale per la diffusione degli screening oncologici di cui
all'articolo 2-bis del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 81,
convertito, con modificazioni, dalla legge 26 maggio 2004, n. 138, è
autorizzata la spesa di 20 milioni di euro per l'anno 2007 e 18 milioni
di euro per ciascuno degli anni 2008 e 2009, per la concessione da parte
del Ministero della salute di finanziamenti finalizzati alle regioni
meridionali ed insulari». 1.2.1. - La ricorrente ritiene che tale norma preveda un finanziamento a destinazione vincolata in un ambito materiale («tutela della salute») di competenza legislativa concorrente, con conseguente violazione degli artt. 119 e 117 Cost. Al riguardo, la difesa regionale esclude che lo stanziamento di cui al comma 808 possa essere ricondotto alla fattispecie prevista dall'art. 119, quinto comma, Cost. In particolare, secondo la ricorrente, i fondi speciali previsti da quest'ultima norma devono essere indirizzati a determinate Regioni, non valendo in tal senso il generico riferimento alle «regioni meridionali ed insulari». 1.2.2. - Inoltre, il comma 808, destinando un finanziamento solo a queste realtà regionali, violerebbe l'art. 3 Cost., in quanto darebbe luogo ad «un'irragionevole disparità di trattamento tra Regioni, con nocumento anche per il buon andamento, previsto e sancito all'art. 97 Cost.». 1.2.3. - Secondo la Regione Veneto infine, quand'anche la Corte costituzionale ritenesse di dover ricondurre la previsione di cui al comma 808 alla fattispecie prevista dall'art. 119, quinto comma, Cost., sussisterebbe una violazione del principio di leale collaborazione, poiché la norma impugnata, pur incidendo su ambiti di competenza delle Regioni, non prevede il coinvolgimento di queste ultime nella programmazione e nel riparto dei fondi in questione. 2. − Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, si è costituito in giudizio, chiedendo che il ricorso sia rigettato. 2.1. - In merito alla questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la norma di cui all'art. 1, comma 796, lettera n), della legge n. 296 del 2006, il resistente ritiene che, in base a quanto riportato nell'incipit del comma 796, gli ambiti materiali su cui incide la norma impugnata siano quelli dei «rapporti dello Stato con l'Unione europea» (art. 117, secondo comma, lettera a, Cost.) e della «perequazione delle risorse finanziarie» (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.). Pertanto, diversamente da quanto prospettato dalla Regione Veneto, non sarebbe riscontrabile alcuna violazione degli artt. 117, 118 e 119 Cost. In via meramente subordinata, la difesa erariale rileva come ricorrano nella norma impugnata i requisiti previsti dall'art. 119, quinto comma, Cost., trattandosi di un «finanziamento aggiuntivo rispetto a quello integrale, riferentesi a finalità di perequazione nei confronti di determinate regioni e nella ricorrenza di determinati presupposti specificamente indicati dal legislatore nazionale». 2.2. - Il resistente ritiene che anche la questione avente ad oggetto l'art. 1, comma 808, della legge n. 296 del 2006 non sia fondata. La norma in esame, infatti, rappresenterebbe «il proseguimento dell'intervento speciale per la diffusione degli screening oncologici di cui all'articolo 2-bis del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 81, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 maggio 2004, n. 138». Il richiamato art. 2-bis, a sua volta, si prefiggerebbe la realizzazione di alcuni obiettivi imposti dalla normativa comunitaria; pertanto, la norma impugnata si inserirebbe «nel quadro di una strategia europea volta a finanziare iniziative nel settore della ri cerca in aree sottoutilizzate, in particolare nelle regioni meridionali». Per queste ragioni, l'Avvocatura generale reputa che gli ambiti materiali su cui incide la norma impugnata siano quelli dei «rapporti dello Stato con l'Unione europea» (art. 117, secondo comma, lettera a, Cost.) e della «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale » (art. 117, secondo comma, lettera m, Cost.). In via meramente subordinata, «ove si ritenesse che, invece, si tratti di materia rimessa alla competenza concorrente di Stato e Regioni», il resistente ritiene che la questione non sia fondata, richiamando le considerazioni svolte in relazione alle censure aventi ad oggetto l'art. 1, comma 796, lettera n), della legge n. 296 del 2006. 3. - In prossimità dell'udienza, la Regione Veneto ha depositato una memoria integrativa, con la quale ribadisce le conclusioni già rassegnate nel ricorso. 3.1. - Con particolare riguardo alla questione di legittimità costituzionale della lettera n) del comma 796, la ricorrente ritiene che sia «eccessivo» far discendere dalla generica espressione utilizzata nel primo inciso del comma 796 («Per garantire il rispetto degli obblighi comunitari e la realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica per il triennio 2007-2009»), la qualificazione - operata dal resistente - degli ambiti materiali incisi dalla norma impugnata. Ad avviso della difesa regionale, invece, il finanziamento previsto dalla lettera n) del comma 796, atterrebbe alle materie «tutela della salute», di competenza legislativa concorrente, ed «edilizia sanitaria», di competenza legislativa esclusiva regionale. Inoltre, la Regione Veneto contesta l'affermazione dell'Avvocatura generale secondo cui il finanziamento previsto dalla lettera n) del comma 796 rientrerebbe fra gli interventi speciali di cui all'art. 119, quinto comma, Cost. Secondo la difesa regionale, non solo sarebbe troppo generica l'indicazione dei destinatari («regioni meridionali ed insulari») del detto stanziamento, ma sarebbe anche impossibile «capire a quale delle finalità di cui all'art. 119, quinto comma, Cost., l'Avvocatura abbia fatto riferimento». La ricorrente conclude ribadendo come la norma impugnata preveda, in realtà, «l'ennesimo finanziamento a destinazione vincolata irragionevolmente devoluto "a pioggia" per rispondere a fabbisogni che dipendono spesso da cattiva amministrazione più che da minori risorse a disposizione e, dunque, in contrasto anche con gli artt. 3 e 97 Cost.». 3.2. - Quanto alla questione relativa al comma 808, la Regione Veneto dissente dall'individuazione - operata dalla resistente - degli ambiti materiali di pertinenza. A suo dire, la competenza statale esclusiva in tema di «rapporti dello Stato con l'Unione europea» non può «essere dilatata al punto da porre nel nulla la previsione costituzionale che ha circoscritto in ipotesi tassative la potestà legislativa dello Stato a favore del riconoscimento di un'amplissima potestà dello stesso tipo alle Regioni». La difesa regionale contesta, poi, la ricostruzione dell'Avvocatura generale, secondo cui la norma impugnata determinerebbe i livelli essenziali delle prestazioni, rilevando come siffatta tesi sia contraddetta dalla «semplice lettura del testo della disposizione impugnata». Inoltre, secondo la ricorrente, il richiamo degli obiettivi previsti dall'art. 2-bis del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 81 (Interventi urgenti per fronteggiare situazioni di pericolo per la salute pubblica), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 26 maggio 2004, n. 138, non sarebbe sufficiente ad escludere l'incostituzionalità del comma 808 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006. Al riguardo, la Regione Veneto rileva che l'intervento speciale dello Stato, previsto dall'art. 2-bis del decreto-legge n. 81 del 2004, era limitato al triennio 2004-2006 e che, comunque, era prevista un'intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano. Considerato in diritto 1. - La Regione Veneto ha promosso questioni di legittimità costituzionale di numerose disposizioni dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), e, tra queste, dei commi 796, lettera n), e 808, in riferimento agli artt. 3, 97, 117, 118 e 119 della Costituzione ed al principio di leale collaborazione di cui agli artt. 5 e 120, secondo comma, Cost. e 11 della legge costituzionale 18 ottobr e 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione). 2. - Riservata a separate pronunce la decisione sull'impugnazione delle altre disposizioni contenute nell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, vengono in esame in questa sede le questioni relative ai commi 796, lettera n), e 808 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006. 3. - La questione di legittimità costituzionale del comma 796, lettera n), è fondata nei limiti di seguito specificati. 3.1. - Al riguardo, deve essere preliminarmente rilevato che la disposizione censurata è stata oggetto di modifiche da parte dei commi 279 e 280 dell'art. 2 della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008). Le modifiche sono consistite, fra l'altro, nell'ulteriore incremento dello stanziamento per l'edilizia sanitaria (portato a 23 miliardi di euro), nell'aggiunta di ulteriori vincoli di destinazione e nella variazione dell'importo di alcune somme vincolate. Nel presente giudizio, però, questa Corte è chiamata ad esaminare le censure rivolte al testo originario della lettera n) del comma 796, che ha trovato applicazione dal 1° gennaio 2007 al 31 dicembre 2007. 3.2. - Giova ribadire che le materie di pertinenza delle disposizioni impugnate - riguardanti l'edilizia sanitaria - sono la «tutela della salute» ed il «governo del territorio», entrambe appartenenti alla potestà legislativa concorrente di Stato e Regioni, ai sensi del terzo comma dell'art. 117 Cost. (sentenza n. 105 del 2007). Si deve escludere pertanto che tali materie rientrino nella competenza legislativa residuale delle Regioni di cui al quarto comma dell'art. 117 Cost., secondo quanto sostenuto dalla ricorrente, o, al contrario, nella competenza esclusiva dello Stato, e segnatamente nei «rapporti dello Stato con l'Unione europea» (art. 117, secondo comma, lettera a, Cost.) e nella «perequazione delle risorse finanziarie» (art. 117, secondo comma, lettera e, Cost.), come sostenuto dal resistente. 3.3. - Occorre ricordare in sintesi l'evoluzione normativa in tema di investimenti nell'edilizia sanitaria, allo scopo di inserire le disposizioni censurate in un quadro più generale. La legge 11 marzo 1988, n. 67 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 1988) ha disciplinato per la prima volta l'intero settore degli investimenti in materia di edilizia sanitaria, prevedendo, all'art. 20, «un programma pluriennale di interventi in materia di ristrutturazione edilizia e di ammodernamento tecnologico del patrimonio sanitario pubblico e di realizzazione di residenze per anziani e soggetti non autosufficienti per l'importo complessivo di lire 30.000 miliardi». La legge imponeva alle Regioni l'obbligo di predisporre una strategia programmatica, coinvolgendo le unità sanitarie locali. Il programma previsto nel citato atto legislativo indicava espressamente una serie di finalità, rispetto alle quali dovevano essere valutate l'efficacia, l 'efficienza e l'economicità delle proposte di investimento. Nel corso degli anni, si sono succedute rilevanti modifiche riguardanti i soggetti coinvolti nel processo decisionale, mentre non hanno subito sostanziali variazioni gli obiettivi originari del programma, sostenuti peraltro da ulteriori priorità fissate da leggi successive. Per quanto attiene agli investimenti nel settore dell'edilizia sanitaria, l'art. 5-bis del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), introdotto dall'art. 5, comma 2, del decreto legislativo 19 giugno 1999, n. 229 (Norme per la razionalizzazione del Servizio sanitario nazionale, a norma dell'articolo 1 della legge 30 novembre 1998 n. 419), dispone che il Ministro della salute, nell'ambito dei programmi regionali per la realizzazione degli interventi previsti dall'art. 20 della citata legge n. 67 del 1988, possa stipulare accordi di programma con le Regioni e con altri soggetti interessati, d'intesa con la Conferenza Stato-Regioni, nei limiti delle disponibilità finanziarie iscritte nel bilancio dello Stato. Il programma di investimenti originario, risalente al 1988, doveva avere durata decennale; a partire dal 1998 è stata avviata la seconda fase di investimenti per la riqualificazione dell'offerta sanitaria, con vari programmi finalizzati, e nel 1999 ha avuto anche inizio il Programma nazionale per la realizzazione di strutture per le cure palliative. Infine, la legge finanziaria 2007 (art. 1, comma 796, lettera n, impugnato nel presente giudizio) ha previsto un ampliamento del programma straordinario di investimenti in edilizia sanitaria e ammodernamento tecnologico. 3.4. - Come si evince dall'evoluzione normativa illustrata nel paragrafo precedente, il primo inciso della lettera n) del comma 796 si limita ad aumentare la cifra destinata ad investimenti nel campo dell'edilizia sanitaria, nulla innovando rispetto alle procedure stabilite dalla previgente disciplina, ivi comprese le forme istituzionali di coinvolgimento delle Regioni e di accordo con le stesse. Tale proposizione normativa riproduce, in modo pressoché letterale, quanto si trova scritto nel Protocollo di intesa tra il Governo, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano sul «Patto per la salute» del 28 settembre 2006 (punto 4.1). Nessuna violazione dell'autonomia regionale si rinviene pertanto in una disposizione di mero incremento delle disponibilità finanziarie destinate all'edilizia sanitaria, peraltro concordato con le Regioni mediante un atto formale di intesa, di cui la norma suindicata si pone come pedissequa attuazione in sede legislativa. 3.5. - Osservazione analoga si deve fare a proposito dell'ultima parte della medesima lettera n), e precisamente di quella in cui si legge: «Il riparto tra le regioni del maggiore importo di cui alla presente lettera è effettuato con riferimento alla valutazione dei bisogni relativi ai seguenti criteri e linee prioritarie: 1) innovazione tecnologica delle strutture del Servizio sanitario nazionale, con particolare riferimento alla diagnosi e terapia nel campo dell'oncologia e delle malattie rare; 2) superamento del divario Nord-Sud; 3) possibilità per le regioni che abbiano già realizzato la programmazione pluriennale di attivare una programmazione aggiuntiva; 4) messa a norma delle strutture pubbliche ai sensi dell'atto di indirizzo e coordinamento di cui al decre to del Presidente della Repubblica 14 gennaio 1997, pubblicato nel supplemento ordinario della Gazzetta Ufficiale n. 42 del 20 febbraio 1997; 5) premialità per le regioni sulla base della tempestività e della qualità di interventi di ristrutturazione edilizia e ammodernamento tecnologico già eseguiti per una quota pari al 10 per cento». Si tratta di principi fondamentali dettati dalla legge statale in ambiti materiali che ricadono - come chiarito prima - nella potestà legislativa concorrente. Tali principi sono peraltro integralmente e letteralmente trascritti dal già citato Protocollo di intesa (punto 4.1), approvato dallo Stato e dalle Regioni e Province autonome. Non si riscontra quindi la lesione, denunciata dalla ricorrente, dell'autonomia legislativa delle Regioni. 3.6. - A diversa conclusione si deve giungere invece per la parte centrale della lettera n) censurata, e precisamente per quella in cui si legge: «Il maggior importo di cui alla presente lettera è vincolato per 500 milioni di euro alla riqualificazione strutturale e tecnologica dei servizi di radiodiagnostica e di radioterapia di interesse oncologico con prioritario riferimento alle regioni meridionali ed insulari, per 100 milioni di euro ad interventi per la realizzazione di strutture residenziali dedicate alle cure palliative con prioritario riferimento alle regioni che abbiano completato il programma realizzativo di cui all'articolo 1, comma 1, del decreto-legge 28 dicembre 1998, n. 450, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1999, n. 39, e che a bbiano avviato programmi di assistenza domiciliare nel campo delle cure palliative, per 100 milioni di euro all'implementazione e all'ammodernamento dei sistemi informatici delle aziende sanitarie ed ospedaliere e all'integrazione dei medesimi con i sistemi informativi sanitari delle regioni e per 100 milioni di euro per strutture di assistenza odontoiatrica.». La proposizione normativa sopra riportata pone dei vincoli puntuali di destinazione di fondi in ambiti materiali appartenenti alla potestà legislativa concorrente, con ciò violando l'art. 119, terzo comma, e l'art. 117, terzo comma, Cost., secondo quanto affermato, con giurisprudenza costante, da questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 105 del 2007, n. 118 del 2006 e n. 423 del 2004). 4. - La questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto il comma 808 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006 deve essere preliminarmente dichiarata inammissibile con riferimento all'art. 97 Cost. A prescindere dalla genericità delle motivazioni addotte, le violazioni denunciate non ridondano in una lesione della sfera di attribuzioni legislative costituzionalmente garantite delle Regioni e il detto parametro non è perciò evocabile, da parte delle ricorrenti, nell'ambito di un procedimento in via principale (ex plurimis, sentenze numeri 401, 387, 184 e 98 del 2007). 4.1. - Nel merito, la questione di legittimità costituzionale del citato comma 808 non è fondata, con riferimento agli artt. 3, 117 e 119 Cost. ed al principio di leale collaborazione. La disposizione censurata prevede lo stanziamento di 20 milioni di euro per l'anno 2007 e di 18 milioni di euro per ciascuno degli anni 2008 e 2009 per la concessione, da parte del Ministero della salute, di finanziamenti finalizzati alle Regioni meridionali e insulari, allo scopo di assicurare il proseguimento dell'intervento speciale per la diffusione degli screening oncologici di cui all'art. 2-bis del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 81 (Interventi urgenti per fronteggiare situazioni di pericolo per la salute pubblica), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 26 maggio 2004, n. 138. La diagnosi precoce in campo oncologico è stata prevista già nel d.P.R. 23 luglio 1998 (Approvazione del Piano sanitario nazionale per il triennio 1998-2000), nell'ambito del secondo obiettivo. Tale tipo di intervento è stato altresì previsto dall'art. 85 della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2001) e dall'Accordo sulle linee guida concernenti la prevenzione, la diagnosi e l'assistenza in oncologia, stipulato l'8 marzo 2001 tra il Ministro della sanità, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano. Con il d.P.C.m. 29 novembre 2001 (Definizione dei livelli essenziali di assistenza), i programmi di diagnosi precoce vengono inclusi tra i livelli essenziali di assistenza (LEA) e si prevede che apposite l inee guida debbano individuare gli screening rientranti nell'attività di prevenzione rivolta alle persone; il Piano sanitario nazionale 2003-2005, nel capitolo dedicato alla promozione della salute (punto 3.2.2. «I tumori»), prevede l'offerta di test di provata efficacia alle persone sane; il Consiglio dell'Unione europea, con la Raccomandazione del 2 dicembre 2003, ha invitato gli Stati membri ad attuare il programma di screening per il cancro della mammella, della cervice uterina e del colon retto; l'art. 2-bis del decreto-legge n. 81 del 2004 ha destinato risorse aggiuntive per le medesime final ità; con l'Intesa Stato-Regioni del 29 luglio 2004 è stato approvato, tra l'altro, il Piano nazionale di prevenzione attiva 2004-2006, che individua tra le aree di intervento anche gli screening raccomandati; l'Intesa Stato-Regioni del 23 marzo 2005 include il Piano nazionale della prevenzione 2005-2007, che prevede, tra gli obiettivi generali, il potenziamento degli screening oncologici; infine, il d.P.R. 7 aprile 2006 (Approvazione del «Piano sanitario nazionale 2006-2008») ribadisce che tra gli obiettivi prioritari di salute sono inclusi gli screening di cui sopra. Dagli atti normativi e dagli accordi Stato-Regioni prima richiamati emerge che gli interventi previsti dalla disposizione censurata rientrano sicuramente nei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale e ricadono pertanto nella sfera della potestà legislativa esclusiva dello Stato, ai sensi dell'art. 117, secondo comma, lettera m), Cost. La censura proposta nel ricorso della Regione Veneto è pertanto priva di fondamento; inconferente appare peraltro il richiamo al principio di leale collaborazione sia perché si versa in una materia di competenza esclusiva dello Stato, sia perché - come dimostrano gli atti normativi e convenzionali prima citati - le Regioni sono state ampiam ente coinvolte nel processo decisionale che ha condotto, nel recente passato, alla precisazione degli ambiti e delle modalità di intervento in materia di diagnosi precoce dei tumori. 4.2. - Non fondata è inoltre la censura relativa alla finalizzazione dei finanziamenti alle Regioni meridionali ed insulari. La norma in questione concretizza un intervento speciale ai sensi dell'art. 119, quinto comma, Cost., rispettando le condizioni in esso previste e poste in chiaro dalla giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis, sentenze n. 105 del 2007, n. 451 del 2006, n. 219 del 2005 e n. 16 del 2004). In particolare, nel caso in esame, vengono in rilievo il principio di solidarietà sociale e l'obiettivo di favorire l'effettivo esercizio dei diritti della persona, indicati, tra gli altri, dalla norma costituzionale citata come condizioni e finalità che giustificano interventi speciali di perequazione in favore di Regioni ritenute dal legislatore meno dotate, per differenti situazioni di reddito e di sviluppo, di strumenti atti a garantire un'adeguata fruizione di servizi indispensabili alla tutela della salute. Quanto alla genericità nella individuazione delle «Regioni meridionali ed insulari», lamentata dalla ricorrente, certamente essa non può riferirsi alle seconde, di incontestabile evidenza, ed è suscettibile di agevole precisazione per le prime, avuto riguardo, nella fase attuativa, alle leggi che hanno previsto negli anni interventi straordinari per il Mezzogiorno [art. 3 della legge 10 agosto 1950, n. 646 (Istituzione della Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell'Italia meridionale - Cassa per il Mezzogiorno); art. 1 del d.P.R. 30 giugno 1967, n. 1523 (Testo unico delle leggi sul Mezzogiorno); art. 1 del d.P.R. 6 marzo 1978, n. 218 (Testo unico delle leggi sugli interventi nel Mezzogiorno)] o alla stessa legge elettorale per il Parlamento eur opeo, che ha istituito una circoscrizione «Italia meridionale» [tabella A allegata alla legge 24 gennaio 1979, n. 18 (Elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all'Italia)]. LA CORTE COSTITUZIONALE riservata a separate pronunce la decisione sull'impugnazione delle altre disposizioni contenute nell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007); dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 796, lettera n), della legge n. 296 del 2006, limitatamente alle seguenti parole: «Il maggior importo di cui alla presente lettera è vincolato per 500 milioni di euro alla riqualificazione strutturale e tecnologica dei servizi di radiodiagnostica e di radioterapia di interesse oncologico con prioritario riferimento alle regioni meridionali ed insulari, per 100 milioni di euro ad interventi per la realizzazione di strutture residenziali dedicate alle cure palliative con prioritario riferimento alle regioni che abbiano completato il programma realizzativo di cui all'art icolo 1, comma 1, del decreto-legge 28 dicembre 1998, n. 450, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 1999, n. 39, e che abbiano avviato programmi di assistenza domiciliare nel campo delle cure palliative, per 100 milioni di euro all'implementazione e all'ammodernamento dei sistemi informatici delle aziende sanitarie ed ospedaliere e all'integrazione dei medesimi con i sistemi informativi sanitari delle regioni e per 100 milioni di euro per strutture di assistenza odontoiatrica.»; dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 808, della legge n. 296 del 2006, promossa, in riferimento all'art. 97 della Costituzione, dalla Regione Veneto con il ricorso indicato in epigrafe; dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 808, della legge n. 296 del 2006, promosse, in riferimento agli artt. 3, 117 e 119 Cost. ed al principio di leale collaborazione, dalla Regione Veneto con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Gaetano SILVESTRI, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 marzo 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'articolo 3, comma 3, ultimo periodo, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l'attuazione dell'art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), promosso con ordinanza del 19 aprile 2007 dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Campania nel giudizio di responsabilità amministrativa promosso dal Procuratore regionale nei confronti di Masciari Silvano ed altri iscritta al n. 653 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell'anno 2007.< o:p> Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2008 il Giudice relatore Ugo De Siervo. Ritenuto in fatto 1. - Nel corso di un giudizio di responsabilità amministrativa promosso dal Procuratore regionale nei confronti di alcuni esponenti politici, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Campania, con ordinanza depositata il 23 agosto 2007, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 3, ultimo periodo, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l'attuazione dell'art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei co nfronti delle alte cariche dello Stato), in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, 25, primo comma, 68, secondo e terzo comma, 81, quarto comma, 103, secondo comma, e 113, primo e secondo comma, della Costituzione. 1.1. - Il giudice a quo riferisce che il Procuratore regionale della Corte dei conti ha chiamato in giudizio i suddetti convenuti chiedendo la loro condanna in solido in favore del Comune di Napoli per rilevanti somme a titolo di danno patrimoniale, nonché di alcuni fra essi, in solido fra loro, per danno non patrimoniale all'immagine a favore del Comune di Napoli ed a favore dello Stato. I fatti posti a base della suddetta richiesta riguardano i lavori di costruzione della linea metropolitana della città di Napoli, già oggetto di un apposito procedimento penale. Il materiale probatorio raccolto in questo ambito è apparso al predetto procuratore rilevante anche sotto il profilo della responsabilità gestoria di tipo amministrativo, in relazione ad un continuato e ampio sistema di corruzione svoltosi dal 1974 al 1992, a favore di esponenti delle istituzioni locali e statali. Secondo il requirente contabile, alla luce dell'importo complessivo delle dazioni poste in essere in modo illecito dall'impresa risultata aggiudicataria, il Comune di Napoli avrebbe subito un danno patrimoniale costituito dall'importo di tali dazioni e da un importo commisurato all'ingiustificato aumento dei costi ed agli intralci nell'attività esecutiva dei lavori di realizzazione della metropolitana, tali da determinare un notevole disservizio generale. Ad esso andrebbero aggiunti i danni per i pregiudizi non patrimoniali riferibili alle rispettive «immagini istituzionali», subiti dallo stesso Comune di Napoli e altresì dallo Stato. Alcuni fra i convenuti, documentando il loro status di parlamentari all'epoca dei fatti contestati, hanno eccepito l'applicabilità dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, e hanno, dunque, invocato l'operatività nel giudizio della procedura stabilita dall'art. 3 della legge n. 140 del 2003, invitando la Corte dei conti ad adottare i consequenziali provvedimenti di cui ai commi 3, 4 e 5 del citato articolo 3. Il procuratore regionale, nel ribadire la richiesta di condanna, ha sostenuto che la citata legge n. 140 del 2003 non troverebbe applicazione nel giudizio innanzi alla Corte dei conti e nella vicenda in oggetto, eccependo in subordine l'illegittimità costituzionale della stessa legge, «per essere stato in tal modo reintrodotto e anzi esteso il meccanismo dell'autorizzazione a procedere espunto dall'art. 68 della Costituzione con apposita legge costituzionale». 1.2. - Il giudice a quo rileva che la censurata disposizione certamente estende le immunità parlamentari ai procedimenti diversi da quello penale, e pertanto anche la Corte dei conti, e segnatamente la sua sezione giurisdizionale, sarebbe tenuta, ai sensi di tale disposizione, a sospendere immediatamente il giudizio «per acquisire l'eventuale autorizzazione a procedere dalla Camera dei deputati», cui appartenevano i suddetti convenuti. Tuttavia detta estensione risulterebbe «priva di copertura costituzionale, in quanto la disposizione, nell'evidenza, eccede l'ambito fissato dall'art. 68, commi secondo e terzo, della Costituzione, che si riferisce al processo p enale e ad ogni connessa limitazione alla libertà personale o alla riservatezza». A seguito della riforma costituzionale del 1993 - prosegue l'autorità rimettente -, «è richiesta per i parlamentari in carica l'autorizzazione a procedere al riguardo delle limitazioni alla libertà ed alle intromissioni nella loro sfera personale correlate a procedimenti penali». Per il rimettente, trattandosi di una prerogativa a carattere eccezionale, essa dovrebbe fondarsi su una espressa disposizione costituzionale «che ammetta una siffatta deviazione dai principi generali del nostro diritto e ancor più dell'ordinamento costituzionale fissati nel titolo I, ed in particolare fondati sull'art. 3 della Costituzione». L'estensione di prerogative eccezionali a favore di alcuni soggetti, ancorché investiti di funzioni di vertice nel sistema costituzionale, determinerebbe, infatti, una violazione del principio di eguaglianza, comportando una diffusa disparità di trattamento tra soggetti sottoposti a procedimenti giurisdizionali. La disposizione censurata attribuisce, ad esempio, ai convenuti e x parlamentari un'ingiustificata posizione di privilegio nei confronti degli altri convenuti non parlamentari. Ne scaturirebbe un vincolo solidale tra i convenuti nel giudizio in corso, ex parlamentari e non, «tanto da far gravare l'intero peso economico dei danni subiti dalla finanza pubblica sui convenuti non estromessi dal medesimo giudizio». La censurata disposizione confliggerebbe, altresì, con gli artt. 24, primo comma, e 113, commi primo e secondo, Cost., in quanto il Comune e lo Stato, che aspirano al risarcimento dei danni sofferti, risulterebbero «posti nella deteriore condizione di poter essere privati, con un eventuale diniego di autorizzazione a procedere, della possibilità di tutelarsi giudizialmente». L'art. 3, comma 3, ultimo periodo, della legge n. 140 del 2003, inoltre, violerebbe l'art. 81, quarto comma, della Costituzione: potendo detta disposizione precludere l'azione risarcitoria nei confronti di parlamentari autori di danni, non sarebbe dato rinvenire «nel corpo del provvedimento legislativo complessivamente approvato una previsione di copertura finanziaria della minor entrata imposta agli enti locali a causa del mancato recupero dei danni provocati alle loro finanze di natura derivata». Infine, nell'ordinanza di rinvio è dedotto «il contrasto palese con l'art. 103, secondo comma e con l'art. 25, primo comma della Costituzione, che attribuisce alla Corte dei conti la giurisdizione nelle materie di contabilità pubblica». L'intervento del legislatore in attuazione dell'art. l03, secondo comma, della Costituzione non può, secondo il giudice a quo, spingersi «fino ad escludere apoditticamente la potenziale assoggettabilità di soggetti operanti nel settore pubblico da responsabilità, peraltro meramente patrimoniali, rientranti tradizionalmente e genericamente nella materia della contabilità pubblica». Il principio costituzionale secondo cui «nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per leg ge», preclude «qualunque sottrazione di sfera giurisdizionale successivamente al verificarsi del fatto generatore, sia nel senso di attribuzione ad altro organo giudiziario che di esclusione di ogni forma di giurisdizione». Infine, l'autorità rimettente segnala che i fatti contestati sono ben precedenti all'entrata in vigore della disposizione oggetto di censura. 2. - Con atto depositato il 23 ottobre 2007, si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la manifesta inammissibilità e, comunque, per la manifesta infondatezza della questione. 2.1. - In via preliminare, la difesa erariale eccepisce che la Corte rimettente non ha descritto sufficientemente il caso concreto, non individuando in particolare l'atto tipico della funzione parlamentare connesso ai contestati comportamenti. 2.2. - Nel merito, l'Avvocatura contesta al giudice a quo di aver prospettato una erronea interpretazione dell'art. 68, primo comma, Cost., dal momento che detta disposizione, mirando a presidiare l'indipendenza e la funzionalità dell'istituzione parlamentare e a garantire la libera formazione della volontà politica da qualsiasi interferenza, esclude qualunque forma di responsabilità giuridica, «quale che sia la sede giurisdizionale nella quale questa dovrebbe essere fatta valere e nella quale i parlamentari potrebbero essere chiamati a rispondere». Quanto alla legge n. 140 del 2003, la difesa erariale rammenta che, come riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale, essa è volta a rendere il citato art. 68 Cost. «immediatamente operativo sul piano processuale». Detta legge, dunque, non avrebbe inteso operare alcuna estensione dell'àmbito delle prerogative dei parlamentari in relazione alla natura delle responsabilità. Considerato in diritto 1. - La Corte dei conti, sezione giurisdizionale regionale per la Campania, dubita della legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 3, ultimo periodo, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l'attuazione dell'art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), nella parte in cui estende la «garanzia prevista dall'art. 68, primo comma, della Costituzione ai procedimenti innanzi a tutti i giudici», ivi compreso quello dinanzi alla Corte dei conti in sede giurisdizionale. Ciò perché la disposizion e denunciata, «nell'evidenza, eccede l'ambito fissato dall'art. 68, commi secondo e terzo, della Costituzione, che si riferisce al processo penale e ad ogni connessa limitazione alla libertà personale o alla riservatezza». La disposizione censurata violerebbe l'art. 3, primo comma, della Costituzione, in quanto, estendendo prerogative eccezionali a favore di alcuni soggetti, ancorché investiti di funzioni di vertice nel sistema costituzionale, determinerebbe una violazione del principio di eguaglianza, comportando una «diffusa disparità di trattamento tra soggetti sottoposti a procedimenti giurisdizionali», nonché, sotto il profilo della irragionevolezza, ritagliando «un'inammissibile area di impunità in un delicato settore della contabilità pubblica». Sarebbero lesi anche gli artt. 24, primo comma, e 113, primo e secondo comma, della Costituzione, dal momento che il Comune e lo Stato, che aspirano al risarcimento dei danni sofferti, risulterebbero posti nella «deteriore condizione di poter essere privati, con un eventuale diniego di autorizzazione a procedere, della possibilità di tutelarsi giudizialmente». Risulterebbe anche violato l'art. 81, quarto comma, della Costituzione, giacché, potendo la disposizione censurata precludere l'azione risarcitoria nei confronti di parlamentari autori di danni, non sarebbe rinvenibile «nel corpo del provvedimento legislativo complessivamente approvato una previsione di copertura finanziaria della minor entrata imposta agli enti locali a causa del mancato recupero dei danni provocati alle loro finanze di natura derivata». Infine, sarebbero anche violati gli artt. 103, secondo comma, e 25, primo comma, della Costituzione, in quanto il legislatore ordinario non sarebbe legittimato ad escludere la assoggettabilità di soggetti operanti nel settore pubblico a responsabilità meramente patrimoniali, rientranti tradizionalmente e genericamente nella materia della contabilità pubblica, nonché in quanto il principio costituzionale secondo cui «nessuno può essere distolto dal giudice naturale precostituito per legge», precluderebbe anche «qualunque sottrazione di sfera giurisdizionale successivamente al verificarsi del fatto generatore, sia nel senso di attribuzione ad altro organo giudiziario che di esclusione di ogni forma di giurisdizione». 2. - In via preliminare, va rigettata l'eccezione di inammissibilità della questione, formulata dalla difesa erariale, per insufficiente descrizione della fattispecie. Oltre al richiamo puntuale ai lavori di costruzione della linea metropolitana della città di Napoli rispetto ai quali è stato riscontrato in sede penale un ampio sistema di corruzione a favore di esponenti delle istituzioni locali e nazionali, l'ordinanza di rimessione riporta circostanze di fatto provviste di un sufficiente grado di precisione ai fini della valutazione della rilevanza delle questioni sollevate. 3. - Nel merito la questione non è fondata. Infatti, la lettura che il giudice a quo opera del primo comma dell'art. 68 Cost. risulta palesemente errata: è pacifico a livello sia dottrinale, sia giurisprudenziale che questa disposizione costituzionale, di natura sostanziale, nel testo originario così come in quello in parte mutato dalla legge costituzionale 29 ottobre 1993, n. 3 (Modifica dell'art. 68 della Costituzione), esclude ogni forma di responsabilità giuridica dei parlamentari per le opinioni espresse ed i voti dati nell'esercizio delle funzioni, di modo che essi non possono, né potranno dopo la scadenza del mandato essere chiamati a rispondere per le attività da loro svolte in tale veste. Ciò al fine di garantire alle stess e Camere che i parlamentari possano esercitare nel modo più libero le loro funzioni, senza i limiti derivanti dal timore di possibili provvedimenti sanzionatori a loro carico. Invece, i commi secondo e terzo dell'art. 68 della Costituzione riconoscono ai membri delle Camere una prerogativa di natura procedimentale, garantendo loro, per la sola durata del mandato, che taluni atti tipici del procedimento penale - che incidono sulla sfera di libertà del parlamentare - non possano essere disposti, se non su autorizzazione della Camera competente. In considerazione della profonda diversità fra gli istituti previsti rispettivamente al primo ed al secondo e terzo comma dell'art. 68 della Costituzione, non è possibile dedurre l'ampiezza della prerogativa dell'irresponsabilità, di cui al primo comma, dalle tipologie di inviolabilità previste al secondo e terzo comma dell'art. 68 della Costituzione. Inoltre, questa Corte, nella sua costante giurisprudenza in tema di conflitti sorti in relazione all'applicazione del primo comma dell'art. 68 della Costituzione, non ha mai operato una distinzione fra i diversi tipi di responsabilità giuridica a cui può andare incontro un parlamentare di cui si asserisca che abbia ecceduto dall'esercizio delle sue tipiche funzioni; anzi, questa Corte ha avuto occasione di affermare espressamente che la prerogativa costituzionale di cui al primo comma dell'art. 68 della Costituzione «si riferisce non solo alla responsabilità penale, ma anche a quella civile, come a qualsiasi altra forma di responsabilità diversa da quella che può essere fatta valere nell'ambito dell'ordinamento interno della Camera di appartenenza» (sentenza n. 265 del 1997). In quest'ultima occasione la Corte, pur affermando che una tesi del genere era prevalente anche prima della legge cost. n. 3 del 1993, ha rilevato che ciò è ancora più chiaro dopo che la riforma del primo comma dell'art. 68 della Costituzione «ha sostituito l'originaria dizione ("i membri del Parlamento non possono essere perseguiti") con una più univocamente comprensiva ("non possono essere chiamati a rispondere")». La pacifica riferibilità del primo comma dell'art. 68 della Costituzione a tutte le forme di responsabilità giuridica in cui potrebbe incorrere un parlamentare a causa delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle proprie funzioni, rende evidente la infondatezza dei rilievi riferiti all'ultima parte del comma terzo dell'art. 3 della legge n. 140 del 2003. Questa disposizione, infatti, non estende l'àmbito applicativo della prerogativa della insindacabilità a ipotesi di responsabilità diverse ed ulteriori rispetto a quelle previste dall'art. 68, primo comma, Cost., come sostenuto dal rimettente, ma è, invece, finalizzata a rendere immediatamente e direttamente operativo sul piano processuale il disposto della previsione costituzionale. In particolare, l'art. 3 della legge n. 140 del 2003 disciplina, per ogni tipo di procedimento giurisdizionale, nell'ipotesi in cui sia rilevata od eccepita l'applicabilità del primo comma dell'art. 68 Cost., un'apposita procedura «al fine di meglio assicurare il coordinamento istituzionale e la leale collaborazione tra i poteri dello Stato coinvolti» (sentenza n. 149 del 2007).</ o:p> 4. - Diversamente da quanto affermato dal giudice a quo, le norme processuali di cui ai commi 3 e seguenti dell'art. 3 della legge n. 140 del 2003 non reintroducono affatto ipotesi di autorizzazione a procedere, ma delimitano semplicemente entro brevi termini perentori l'esercizio delle diverse prerogative e dei differenziati poteri da parte dei diretti interessati, del giudice e della Camera di appartenenza: questa Corte ha avuto occasione di affermare che «con le disposizioni processuali che qui vengono in considerazione sono state poste alcune norme finalizzate a garantire sul piano procedimentale, un efficace e corretto funzionamento della prerogativa parlamentare: un sollecito coinvolgimento della Camera di appartenenza del parl amentare che abbia eccepito la insindacabilità dei propri comportamenti senza convincere il giudice competente; la successiva temporanea sospensione del giudizio per un limitato ed improrogabile periodo entro cui la Camera di appartenenza può esprimere la propria valutazione sulla affermata insindacabilità; le conseguenze processuali della delibera di insindacabilità che venga adottata dalla Camera di appartenenza del parlamentare» (sentenza n. 149 del 2007). D'altra parte, il giudice (a quo) che non condividesse la eventuale delibera, assunta dalla Camera di appartenenza dell'interessato, favorevole all'applicazione nel caso di specie dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, ben potrebbe contestarne la legittimità sollevando un apposito conflitto di attribuzione fra i poteri dello Stato dinanzi a questa Corte. 5. - L'applicabilità della prerogativa di cui all'art. 68, primo comma, della Costituzione anche alla responsabilità amministrativa e contabile dei parlamentari, evidentemente, determina l'infondatezza delle censure concernenti la dedotta violazione degli artt. 3; 24, primo comma, e l'art. 113, commi primo e secondo, della Costituzione. Le medesime ragioni determinano, altresì, l'infondatezza della doglianza relativa al contrasto con l'art. 103, secondo comma, ed all'art. 25, primo comma, della Costituzione. Con riguardo a tale censura, vi è inoltre da ricordare che questa Corte ha più volte avuto occasione di affermare che la puntuale attribuzione della giurisdizione in relazione alle diverse fattispecie di responsabilità amministrativa non opera automaticamente in base all'art. 103 della Costituzione, ma è rimessa alla discrezionalità del legislatore ordinario (fra le molte, si vedano le sentenze n. 24 del 1993, n. 773 del 1988, n. 641 e n. 230 del 1987, n. 241 e n. 189 del 1984), e che la Corte dei conti non è «il giudice naturale della tutela degli interessi pubblici e della tutela dei danni pubblici» (sentenza n.641 del 1987). Quanto all'asserita lesione del quarto comma dell'art. 81 della Costituzione, al di là della molto opinabile equiparazione fra «nuova o maggiore spesa» ed il mancato risarcimento ad una pubblica amministrazione per un danno patrimoniale o non patrimoniale prodotto da un parlamentare, è evidente l'inconferenza dei rilievi svolti dal rimettente a tale riguardo, atteso che l'irresponsabilità dei parlamentari è sancita direttamente da una disposizione costituzionale che non tollera eccezione ove ne ricorrano i presupposti applicativi. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 3, comma 3, ultimo periodo, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l'attuazione dell'art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), sollevata, in riferimento agli artt. 3, primo comma, 24, primo comma, 25, primo comma, 68, secondo e terzo comma, 81, quarto comma, 103, secondo comma e 113, primo e secondo comma della Costituzione, dalla Corte dei conti con l'ordinanza indicata in epigrafe.</ o:p> Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Ugo DE SIERVO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 marzo 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008
REPUBBLICA ITALIANAIN NOME DEL POPOLO ITALIANOLA CORTE COSTITUZIONALEcomposta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 6 e 9 della legge 11 gennaio 1943, n. 138 (Costituzione dell'Ente «Mutualità fascista - Istituto per l'assistenza di malattia ai lavoratori»); degli artt. 1 e 2 del decreto legislativo luogotenenziale 2 aprile 1946, n. 142 (Disciplina provvisoria del carico contributivo per le varie forme di previdenza e di assistenza sociale); dell'art. 2 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 31 ottobre 1947, n. 1304 (Trattamento di malattia dei lavoratori del commercio, del credito, dell'assicurazione e dei servizi tributari appaltati); dell'art. 74 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale); dell'art. 14 della legge 23 aprile 1981, n. 155 (Adeguamento delle strutture e delle procedure per la liquidazione urgente delle pensioni e per i trattamenti di disoccupazione, e misure urgenti in materia previdenziale e pensionistica) e dell'art. 31 della legge 28 febbraio 1986, n. 41 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 1986), promossi con due ordinanze del 4 dicembre 2006 dal Tribunale di Bolzano e con ordinanze del 27 ottobre 2006 dal Tribunale di Milano, del 17 gennaio 2007 dal Tribunale di Bologna e del 4 aprile 2007 dal Tribunale di Milano, rispettivamente iscritte ai nn. 427, 428, 529, 724 e 743 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 24, 32, 42 e 44, prima serie speciale, dell'anno 2007. Visti gli atti di costituzione della Metro Italia Cash and Carry s.p.a., dell'INPS, dell'Azienda Energetica s.p.a - Etschwerke AG, della Hera Bologna s.p.a., della AEM Calore & Servizi - Utilities & Facility Management Services s.p.a., nonché gli atti di intervento della Hera s.p.a. e del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 12 febbraio 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella; uditi gli avvocati Giorgio Albé e Tullio Tranquillo per la Metro Italia Cash and Carry s.p.a., Maurizio Cinelli per l'Azienda Energetica s.p.a. - Etschwerke AG, Michele Miscione per la Hera Bologna s.p.a., Giovanni Gentile e Gianluca Ciampolini per l'AEM Calore & Servizi - Utilities & Facilit y Management Services s.p.a., Fabrizio Correra e Antonietta Coretti per l'INPS e l'avvocato dello Stato Giuseppe Nucaro per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. - Nel corso di un giudizio civile promosso, con ricorso in opposizione all'iscrizione a ruolo ed a cartella di pagamento, dalla Metro Italia Cash and Carry s.p.a. contro l'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) ed altri, il Tribunale ordinario di Bolzano (r.o. n. 427 del 2007) ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 38 e 41 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 6 e 9 della legge 11 gennaio 1943, n. 138 (Costituzione dell'Ente «Mutualità fascista - Istituto per l'assistenza di malattia ai lavoratori»), 1 e 2 del decreto legislativo luogotenenziale 2 aprile 1946, n. 142 (Disciplina provvisoria del carico contributivo per le varie forme di previdenza e di assistenza sociale), 2 del decreto legislativo del Cap o provvisorio dello Stato 31 ottobre 1947, n. 1304 (Trattamento di malattia dei lavoratori del commercio, del credito, dell'assicurazione e dei servizi tributari appaltati), 74 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), 14 della legge 23 aprile 1981, n. 155 (Adeguamento delle strutture e delle procedure per la liquidazione urgente delle pensioni e per i trattamenti di disoccupazione, e misure urgenti in materia previdenziale e pensionistica), e 31 della legge 28 febbraio 1986, n. 41 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 1986). Il rimettente premette che la Corte di cassazione, con la sentenza n. 10232 del 27 giugno 2003 (pronunciata a sezioni unite e pertanto da ritenersi «diritto vivente»), ha affermato che l'art. 6, secondo comma, della legge n. 138 del 1943 (secondo cui l'indennità di malattia non è dovuta dall'INPS quando il trattamento economico di malattia è corrisposto per legge o per contratto collettivo dal datore di lavoro o da altri enti in misura pari o superiore all'indennità medesima), non vale ad escludere l'obbligo contributivo del datore di lavoro. Il giudice a quo aggiunge di aver già sollevato la questione di legittimità del citato art. 6, secondo comma, per violazione degli artt. 2, 3, 38 e 41 Cost., e che la Corte costituzionale, con l'ordinanza n. 241 del 2006, ha dichiarato la questione manifestamente inammissibile in considerazione del fatto che quella norma nulla dispone quanto all'obbligo contributivo a carico del datore di lavoro. Affermando di essere abilitato a sollevare nuovamente la questione, il Tribunale di Bolzano ritiene di correggere l'errore segnalato dalla Corte nell'ordinanza menzionata, individuando le norme che prevedono e disciplinano l'obbligo contributivo nelle seguenti: art. 9, primo comma, della legge n. 138 del 1943 (secondo il quale «Agli scopi di cui sopra sarà provveduto con il contributo dei lavoratori e dei datori di lavoro nella misura determinata dal contratto collettivo di lavoro o da deliberazione dei loro competenti organi ovvero nel decreto di cui al secondo comma dell'articolo 4»); art. 1 del d. lgs. lgt. n. 142 del 1946 (il quale prevede che «A decorrere dal primo periodo di paga successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto e in via provvisoria fino a che non sarà provvedu to ad una organica disciplina della ripartizione degli oneri contributivi fra datori di lavoro e lavoratori per le varie forme di previdenza e assistenza sociale contemplate nel successivo articolo 2, la quota di contributi dovuta in qualunque settore della attività produttiva da parte dei lavoratori ai sensi delle disposizioni vigenti per le forme di previdenza e assistenza predette è corrisposta senza alcun diritto a rivalsa dai datori di lavoro in luogo dei lavoratori stessi e sarà considerata a tale titolo a tutti gli effetti di legge e conteggiata sulla retribuzione al lordo»); art. 2 dello stesso d. lgs. lgt. n. 142 del 1946 (secondo cui «Le forme di previdenza e di assistenza, per le quali il datore di lavoro a norma dell'articolo precedente è tenuto alla corresponsione senza diritto a rivalsa delle quote di contributo di spettanza dei lavoratori, sono le seguenti: [...] 6) assicurazione obbligatoria per le malattie nell'industria, nell'agricoltura, nel commercio e nel credito , assicurazione e servizi tributari appaltati»); art. 2, «secondo comma» (recte: primo comma), del d. lgs. C. p. S. n. 1304 del 1947 (il quale stabilisce che «Le indennità giornaliere di malattia e gli altri assegni in denaro per gli iscritti all'Istituto nazionale per l'assicurazione contro le malattie, appartenenti al settore del commercio e a quello del credito, assicurazione e servizi tributari appaltati ed i contributi dovuti per l'assicurazione malattia sono stabiliti nelle misure indicate nelle tabelle A) e B) allegate al presente decreto e vistate, d'ordine del Capo provvisorio dello Stato, dal Ministro per il lavoro e la previdenza sociale»), art. 74, primo comma, della legge n. 833 del 1978 (secondo il quale «A decorrere dal 1° gennaio 1980 e sino all'entrata in vigore della legge di riforma del sistema previdenziale l'erogazione delle prestazioni economiche per malattia e per maternità previste dalle vigenti disposizioni in materia già erogate dagli enti, casse, servizi e gestioni autonome estinti e posti in liquidazione ai sensi della legge 17 agosto 1974 n. 386, di conversione con modificazioni del decreto-legge 8 luglio 1974, n. 264, è attribuita all'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) che terrà apposita gestione. A partire dalla stessa data la quota parte dei contributi di legge relativi a tali prestazioni è devoluta all'INPS ed è stabilita con decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale, di concerto col Ministro del tesoro»). Il rimettente ricorda, poi, che l'art. 14 della legge n. 155 del 1981 prevede, al primo comma, che «La quota parte dei contributi da devolvere all'Istituto nazionale della previdenza sociale ai sensi dell'articolo 74 della legge 23 dicembre 1978, n. 833, per la erogazione delle prestazioni economiche di malattia è determinata nella misura del 2,50 per cento della retribuzione imponibile per gli aventi diritto di tutti i settori, ad esclusione di quello agricolo, per il quale contributo stesso è determinato nella misura di un sesto del contributo giornaliero di malattia», e che l'art. 31, comma 5, della legge n. 41 del 1986 stabilisce che «I contributi dovuti dai datori di lavoro per i soggetti aventi diritto alle indennità economiche di malattia sono fissati nelle misure indicate nell'allegata tabella G», m isure tuttora vigenti. Ad avviso del giudice a quo, le norme così individuate contrasterebbero con l'art. 3 Cost., perché non differenziano tra le imprese che si sono obbligate, nel contratto collettivo, a continuare a versare l'intera retribuzione al lavoratore malato e le imprese che non abbiano assunto tale obbligo. Infatti, le prime sollevano l'INPS dal rischio assicurativo e, pertanto, dovrebbero essere chiamate a versare un contributo inferiore rispetto all'aliquota massima. Il medesimo art. 3 Cost., inoltre, sarebbe violato perché le norme denunciate prevedono un trattamento ingiustificatamente diverso tra le varie categorie di imprese (gravando le imprese del settore del commercio, ma non anche quelle dell'industria ed alcune imprese del terziario - come la RAI s.p.a. - dell'obbligo contributivo) e di lavoratori (poiché il contributo economico di malattia è preteso per operai e impiegati, ma non per quadri e dirigenti). Sussisterebbe anche la violazione dell'art. 2 Cost., difettando logica e razionalità nella distribuzione degli oneri connessi al principio di solidarietà economica e sociale richiamato dalla menzionata sentenza n. 10232 del 2003 delle sezioni unite della Corte di cassazione. Al riguardo, il rimettente evidenzia come, anzi, i datori di lavoro imprenditori che si obbligano a continuare a corrispondere la retribuzione durante il periodo di malattia, non solo sono obbligati a versare in misura integrale il contributo di malattia, ma debbono pagare quel contributo anche sulla retribuzione corrisposta durante il periodo di malattia. Il Tribunale di Bolzano denuncia poi la violazione dell'art. 38, secondo comma, Cost., norma che si preoccupa unicamente di assicurare al lavoratore mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita in caso di malattia (esigenze nella fattispecie soddisfatte con l'erogazione della retribuzione), senza nulla disporre in ordine ai mezzi con i quali tale obiettivo deve essere perseguito e senza sovvertire i princípi fondamentali del sistema assicurativo. Infine, sarebbe violato l'art. 41 Cost., poiché esigere il pagamento del contributo solo da parte di alcune imprese porrebbe un ingiustificato ostacolo al pieno dispiegamento del principio della libertà di iniziativa economica privata, impedendo che la concorrenza tra le imprese si svolga in condizioni paritarie. In ordine alla rilevanza della questione, il rimettente espone che la Metro Italia Cash and Carry s.p.a., si è opposta alla pretesa dell'INPS, contenuta in una cartella di pagamento, al versamento, a titolo di contributo economico di malattia (e conseguenti accessori), dell'importo complessivo di lire 1.438.869.845, affermando di aver stipulato, in data 12 ottobre 1993, un contratto collettivo aziendale nel quale era prevista l'erogazione a tutti i dipendenti, in caso di malattia non professionale e non dipendente da infortunio sul lavoro, dell'intera retribuzione netta di fatto e di aver conseguentemente omesso di versare il contributo di malattia nel periodo da ll'aprile 1996 al dicembre 1998. 1.1. - Si è costituita in giudizio la Metro Italia Cash and Carry s.p.a., che ha chiesto che la Corte dichiari l'illegittimità delle norme censurate. Ad avviso della società, sussisterebbe contrasto con l'art. 3 Cost., perché solamente alcuni dei datori di lavoro che corrispondono la retribuzione ai loro dipendenti anche durante i periodi di assenza per malattia sarebbero esonerati dall'obbligo di versamento della contribuzione. Per lo stesso motivo sarebbe violato anche l'art. 2 Cost., perché il principio di solidarietà imporrebbe lo stesso trattamento per identiche categorie di datori di lavoro e di lavoratori. A parere della Metro Italia Cash and Carry s.p.a., le norme denunciate contrasterebbero, inoltre, con l'art. 38 Cost, il quale non ha inteso sovvertire i princípi fondamentali del sistema assicurativo e, in particolare, quello del rischio. Infine, la circostanza per la quale, secondo l'interpretazione fornita dalla Corte di cassazione, l'obbligo contributivo sussiste anche nel caso in cui il datore di lavoro provvede direttamente alle esigenze del lavoratore in malattia, comporterebbe la violazione dell'art. 41 Cost., pregiudicando l'esercizio dell'iniziativa economica. 1.2. - Si è costituito anche l'INPS che ha concluso nel senso dell'inammissibilità e dell'infondatezza delle questioni. Con riferimento alla pretesa violazione degli artt. 3, 38 e 41 Cost., l'ente afferma che l'interpretazione delle norme censurate adottata dalla giurisprudenza di legittimità è conforme al principio costituzionale di solidarietà che informa i sistemi previdenziali e la cui realizzazione prescinde da un criterio di stretta corrispondenza fra contribuzione e prestazione. Inoltre, in ordine ai casi di esonero dall'obbligo della contribuzione per l'indennità di malattia, l'INPS deduce che si tratta di ipotesi che trovano la loro fonte in contratti corporativi ancora in vigore per effetto dell'art. 43 del decreto legislativo luogotenenziale 23 novembre 1944, n. 369 (Soppressione delle organizzazioni sindacali fasciste e liquidazione dei rispettivi patrimoni), ovvero in contratti collettivi efficaci erga omnes in virtù della legge 14 luglio 1959, n. 741 (Norme transitorie per garantire minimi di trattamento economico e normativo ai lavoratori), e che, semmai, dubbi di legittimità costituzionale dovrebbero essere sollevati a proposito delle disposizioni che prevedono tali eccezioni. Ad avviso dell'INPS, non sussisterebbe neppure contrasto con l'art. 2 Cost., perché, in tutti i casi di insolvenza del datore di lavoro, permane in capo all'ente previdenziale l'obbligo di pagare l'indennità di malattia e perché l'obbligazione contributiva ha natura pubblicistica e dunque non può essere modulata o ridotta in dipendenza degli interessi particolari dei singoli datori di lavoro che intendano sostituirsi alla pubblica amministrazione nella gestione dell'assistenza economica di malattia. 1.3. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso nel senso dell'infondatezza delle questioni. Rispetto alla denunciata violazione degli artt. 3 e 41 Cost., la difesa erariale deduce che l'obbligo del datore di lavoro di continuare a corrispondere la retribuzione durante il periodo di malattia e quello di versare i contributi previdenziali si fondano su previsioni che operano su piani diversi (contrattuale privatistico il primo, pubblicistico il secondo), onde il datore di lavoro ben può valutare, nell'àmbito della complessiva contrattazione con le controparti sindacali, la convenienza ad assumersi l'obbligo alla corresponsione della retribuzione durante il periodo di malattia, senza che perciò debba venir meno l'obbligo al versamento dei contributi. Analogamente, non potrebbero ritenersi violati gli artt. 2 e 38 Cost., poiché la contribuzione non è collegata alle prestazioni da un rapporto di corrispettività. 1.4. - E' intervenuta la Hera s.p.a. che ha chiesto che la Corte voglia dichiarare l'illegittimità delle norme denunciate. L'interveniente deduce di essere a capo di un gruppo di società le quali applicano contratti collettivi di lavoro che prevedono l'obbligo per il datore di lavoro di pagare ai dipendenti la retribuzione durante il periodo di malattia. Ne conseguirebbe il suo interesse ad intervenire nel giudizio di costituzionalità. 2. - Nel corso di un giudizio civile promosso dalla Azienda energetica s.p.a. - Etschwerke AG nei confronti dell'INPS, avente ad oggetto un'azione di accertamento negativo avverso una pretesa contributiva dell'istituto previdenziale, il Tribunale ordinario di Bolzano (r.o. n. 428 del 2007) ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 38 e 41 Cost., questioni di legittimità costituzionale degli artt. 6 e 9 della legge n. 138 del 1943, 1 e 2 del d. lgs. lgt. n. 142 del 1946, 2 del d. lgs. C. p. S. n. 1304 del 1947, 74 della legge n. 833 del 1978, 14 della legge n. 155 del 1981, e 31 della legge n. 41 del 1986. Il rimettente premette che, già con ordinanza del 30 settembre 2005, aveva sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 38 e 41 Cost., la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6 della legge n. 138 del 1943 e riproduce l'intero testo dell'ordinanza medesima. In essa il Tribunale aveva dato atto che: il rapporto di lavoro dei dipendenti della società ricorrente è regolato dal contratto collettivo nazionale di lavoro per gli addetti al settore elettrico che obbliga il datore di lavoro all'erogazione di un trattamento di malattia in misura pari alla retribuzione di fatto per un periodo di dodici mesi, prorogabile fino a trentadue mesi; l'INPS aveva richiesto alla società il pagamento di euro 1.458.691,76, a titolo di contributi di malattia per gli anni dal 1999 al 2004, sanzioni ed interessi; contro tale pretesa la società aveva proposto un'azione di accertamento negativo, chiedendo la dichiarazione di infondatezza dell'obbligo contributivo, e l'INPS, costituendosi in giudizio, aveva chiesto in via riconvenzionale la condanna della società al pagamento del predett o importo. Nella precedente ordinanza di rimessione erano poi stati illustrati i vizi di illegittimità costituzionale dell'art. 6 della legge n. 138 del 1943. In particolare, il rimettente aveva ritenuto sussistente il contrasto con l'art. 3 Cost., perché situazioni sostanziali differenti - da una lato le imprese che, erogando la retribuzione ai dipendenti assenti per malattia, accollano su se stesse il rischio malattia, dall'altro lato le imprese che caricano quel rischio sull'INPS - dovrebbero essere destinatarie di una disciplina differenziata sotto il profilo contributivo. Vi sarebbero, inoltre, casi in cui situazioni sostanziali omogenee trovano un trattamento ingiustificatamente diverso, come ad esempio avviene per l'ENEL che, pur operando nel medesimo settore produttivo delle aziende energetiche ex municipalizzate (categoria alla quale appartiene la ricorrente nel giudizio a quo) godrebbe di una riduzione dell'one re contributivo in virtù del d. P. R. 17 marzo 1965, n. 145 (Disciplina dell'assicurazione obbligatoria contro le malattie e del trattamento economico di maternità per il personale dipendente dall'Ente Nazionale per l'Energia Elettrica - ENEL). Poiché tali differenze di trattamento si verificano all'interno della stessa categoria produttiva, il Tribunale aveva ritenuto violato anche l'art. 41 Cost., che garantisce il diritto all'iniziativa economica in condizioni di parità. La prima ordinanza di rimessione aveva denunciato, poi, il contrasto con l'art. 2 Cost., perché il dovere di solidarietà enunciato da tale precetto costituzionale non può essere illimitato, ma deve essere proporzionato, circoscritto entro il limite della ragionevolezza e contenuto entro un giustificabile bilanciamento tra il vantaggio destinato al beneficiario ed il corrispondente pregiudizio dell'onerato. Nella fattispecie, ad avviso del Tribunale, difetterebbero proprio i criteri della ragionevolezza e della proporzionalità, poiché nei confronti dell'azienda energetica che corrisponde ai dipendenti malati la retribuzione continua a sussistere l'obbligazione contributiva piena, mentre l'apporto che essa, accollandosi il rischio malattia, offre al dovere di solid arietà dovrebbe essere premiato quantomeno attraverso una diminuzione dell'obbligo contributivo, se non addirittura mediante l'esonero totale. Inoltre, i dati di bilancio dell'INPS dimostrerebbero che tale ente è destinatario di entrate da contribuzione di malattia assai superiori alle uscite dovute all'erogazione della corrispondente indennità e la sperequazione tra entrate ed uscite sarebbe ingiustificata, considerando che il sistema previdenziale si fonda, nella sua generalità, sul criterio finanziario della ripartizione, in base al quale il carico contributivo complessivo deve essere costantemente rideterminato in relazione al volume della spesa. Nel caso di specie, ad avviso del rimettente, l'onere contributivo non risulta aggiornato, alle imprese è richiesta una solidarietà superiore al necessario e l'onere contributivo è imposto anche a categorie di imprese che, essendosi accollate il rischio malattia, non concorrono alla spesa. Né, per giustificare l'assenza di qualsiasi sinallagmaticità tra contribuzione e corrispondente trattamento di malattia, potrebbero essere menzionati (come fatto dalla sentenza n. 10232 del 2003 della Corte di cassazione), quali ipotesi esemplificative, i casi di sospensione del lavoro, di superamento del periodo di comporto o la disoccupazione, ipotesi in cui l'INPS eroga l'indennità al lavoratore, anche se il datore di lavoro si assumesse, nel contratto collettivo, l'obbligo di continuare a pagare la retribuzione durante la malattia. Infatti questi casi, essendo marginali, non giustificherebbero la pretesa del contributo di malattia in misura piena; inoltre alle aziende energetiche, comprese tra le imprese industriali degli enti p ubblici, non si applicano le norme sull'integrazione dei guadagni degli operai, onde la giustificazione utilizzata dalla sentenza dei giudici di legittimità avrebbe ancora minor valore nella fattispecie concreta. Infine, nella precedente ordinanza di rimessione, il Tribunale aveva denunziato la violazione dell'art. 38 Cost. che, preoccupandosi unicamente di assicurare mezzi adeguati al lavoratore al sopravvenire degli eventi malattia e vecchiaia, non impone alcun mezzo o strumento particolare, né esprime alcuna preferenza per un determinato sistema di assicurazione previdenziale. In particolare, ad avviso del rimettente, sarebbe erroneo sostenere che il principio di solidarietà avrebbe eliminato del tutto il principio della corrispettività che invece era presente nelle intenzioni del legislatore quando aveva emanato l'art. 6, secondo comma, della legge n. 138 del 1943, norma che, liberando l'ente assicurativo pubblico dalla prestazione previdenziale, implicitamente avrebbe inteso esonerare il datore di lavoro dall'obbligo contributivo, conformemente al principio generale, sancito dall'art. 1886 del codice civile, secondo il quale anche le assicurazioni sociali vanno inquadrate tra i rapporti sinallagmatici. Pertanto, quanto meno nella fase genetica, l'aspetto sinallagmatico sembrerebbe ineliminabile, mentre invece, nel caso in esame, esso è escluso del tutto, perché l'azienda energe tica contribuisce ad alimentare il fondo per le prestazioni di malattia, ma non ne usufruisce. Il Tribunale aveva concluso l'ordinanza affermando che «la questione è anche rilevante ai fini della decisione della presente causa. Dalla risposta dipende la fondatezza o meno della pretesa contributiva dell'INPS nei confronti dell'azienda energetica». Dopo aver riprodotto il testo della precedente ordinanza di rimessione appena riassunto, il giudice a quo prosegue ricordando che la Corte costituzionale, con l'ordinanza n. 241 del 2006, ha dichiarato manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, secondo comma, della legge n. 138 del 1943. Affermando di essere abilitato a sollevare nuovamente la questione, il Tribunale di Bolzano ritiene di correggere l'errore segnalato dalla Corte nell'ordinanza menzionata, individuando le norme che prevedono e disciplinano l'obbligo contributivo negli artt. 6 e 9 della legge n. 138 del 1943, 1 e 2 del d. lgs. lgt. n. 142 del 1946, 2 del d. lgs. C. p. S. n. 1304 del 1947, 74 della legge n. 833 del 1978, 14 della legge n. 155 del 1981, e 31 della legge n. 41 del 1986, dei quali riporta il testo, ed aggiungendo che la questione di legittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 2, 3, 38 e 41 Cost. deve essere ad essi riferita. Conclude sostenendo che, essendosi già pronunciata la Corte di cassazione a sezioni unite, la cui opinione giuridica deve essere ritenuta «diritto vivente», non vi sarebbe più spazio interpretativo per il giudice di merito, al quale non rimane altra via, se non quella di rivolgersi alla Corte costituzionale. 2.1. - Si è costituita la Azienda energetica s.p.a. - Etschwerke AG che ha chiesto che le norme censurate siano dichiarate illegittime. 2.2. - Si è costituito anche l'INPS che ha formulato le stesse conclusioni e svolto le medesime argomentazioni già illustrate sopra, sub n. 1.2. 2.3. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata. Con riferimento alla eccepita inammissibilità, la difesa erariale deduce che il rimettente ha riproposto la questione di costituzionalità già dichiarata manifestamente inammissibile da questa Corte con l'ordinanza n. 241 del 2006, limitandosi a riprodurre le ulteriori e diverse norme della cui legittimità egli dubita e richiamandosi alle argomentazioni svolte nella sua precedente ordinanza di rimessione. Circa l'infondatezza della questione, alle argomentazioni già illustrate sopra, sub n. 1.3, il Presidente del Consiglio dei ministri aggiunge che nella fattispecie non è ravvisabile alcun vizio derivante dalla lamentata omogeneità di trattamento di situazioni differenti ovvero dalla diversità di trattamento di situazioni omogenee, essendo condivisibili le affermazioni contenute nella sentenza n. 10232 del 2003 della Corte di cassazione circa il principio solidaristico quale criterio informatore dell'intero sistema di sicurezza sociale. 3. - Nel corso di due giudizi civili promossi, con ricorsi in opposizione a cartelle esattoriali, rispettivamente dalla Metro Italia Cash and Carry s.p.a. e dalla AEM Calore & Servizi - Utilities & Facilities Management Services s.p.a. contro l'INPS, il Tribunale ordinario di Milano ha sollevato con due distinte ordinanze (r.o. n. 529 e n. 743 del 2007), in riferimento agli articoli 3, 41 e 53 Cost., questioni di legittimità costituzionale dell'art. 9, «e per quanto richiamato, dell'articolo 6», della legge 11 gennaio 1943, n. 138. Circa la rilevanza delle questioni, il rimettente deduce che, al fine di decidere ognuna delle due controversie, occorre appurare se le società ricorrenti siano tenute a corrispondere all'istituto previdenziale il contributo per l'indennità economica di malattia nonostante che le società stesse si siano vincolate, rispettivamente, stipulando il contratto collettivo aziendale del 12 ottobre 1993 ed applicando il contratto collettivo nazionale di lavoro del settore delle imprese elettriche del 24 luglio 2001, a corrispondere direttamente ai dipendenti, in caso di malattia comune, l'intera retribuzione di fatto. Richiamato il principio affermato dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 10232 del 2003 (pronunciata a sezioni unite, onde l'autorevolezza della fonte impedirebbe al rimettente di discostarsene), il giudice a quo sostiene, in entrambe le ordinanze di rimessione, che la mancata distinzione, quanto all'onere contributivo, tra datori di lavoro obbligati ad erogare la retribuzione in caso di malattia dei dipendenti e datori di lavoro che si avvalgano integralmente dell'indennità economica di malattia versata dall'INPS violerebbe il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 Cost., concretando un'ipotesi di irragionevole discriminazione, poiché l'ente previdenziale non pretende i contributi per i dirigenti, i quadri e gli impiegati dell'industria, oltre che per i d ipendenti della RAI s.p.a., come comunicato dallo stesso INPS con il messaggio numero 909 del 6 dicembre 2002. L'art. 9 della legge n. 138 del 1943 contrasterebbe, inoltre, con l'art. 41 Cost., prevedendo, senza alcuna distinzione, un'imposizione contributiva in assenza di rischio tutelabile e di esigenza previdenziale da soddisfare. Né sarebbe possibile ritenere che il principio di solidarietà escluda il nesso sinallagmatico tra contribuzione e prestazione, perché altrimenti ci si troverebbe di fronte ad un vero e proprio tributo in relazione al quale dovrebbe operare il principio di capacità contributiva enunciato dall'art. 53 Cost., principio estraneo al pagamento del contributo di malattia così come preteso dall'INPS. 3.1. - Nei relativi giudizi di costituzionalità si sono costituite la Metro Italia Cash and Carry s.p.a. e la AEM Calore & Servizi - Utilities & Facilities Management Services s.p.a. La prima ha chiesto che la Corte dichiari l'illegittimità delle norme censurate, svolgendo argomentazioni analoghe a quelle illustrate in precedenza, sub n. 1.1. Anche la seconda ha chiesto che le questioni siano dichiarate fondate. In particolare, con riferimento all'art. 3 Cost., la AEM Calore & Servizi - Utilities & Facilities Management Services s.p.a. deduce che le norme censurate determinano una duplice lesione del principio di uguaglianza: in primo luogo, perché esse equiparano ingiustamente le aziende che erogano il trattamento economico ai propri dipendenti alle aziende che invece non sopportano tale onere; in secondo luogo, perché essa società è ingiustamente differenziata rispetto ad altre aziende che, pur erogando la retribuzione ai lavoratori durante il periodo di malattia, sono esonerate dal versamento dei contributi all'INPS. Ad avviso della società le norme censurate contrastano anche con l'art. 41 Cost., norma che implicitamente garantisce anche la concorrenza che viene invece alterata se ad alcune imprese vengono consentiti costi del lavoro meno gravosi rispetto a quelli che debbono sopportare altre imprese concorrenti. Infine, la medesima parte privata ritiene che l'imposizione dell'onere contributivo in mancanza della correlativa fruizione delle prestazioni dell'assicurazione sociale di cui si tratta viola l'art. 53 Cost., poiché il soggetto interessato risulta colpito dal contributo non nella misura della sua capacità contributiva (considerato che il contributo è imposto a talune imprese in misura piena e ad altre - ad esempio all'ENEL - in misura ridotta), e perché la condizione di dover pagare senza ricevere la prestazione deriva da circostanze casuali come le previsioni dei contratti collettivi che stabiliscono il pagamento della retribuzione ai lavoratori anche durante il periodo di malattia. 3.2. - Si è costituito anche l'INPS che ha chiesto che sia dichiarata l'inammissibilità delle questioni e, comunque, la loro infondatezza. L'istituto previdenziale ha svolto argomenti analoghi a quelli già illustrati sopra, sub n. 1.2 e, con riferimento alla prospettata violazione dell'art. 53 Cost., ha aggiunto che non è possibile assimilare i contributi previdenziali ai tributi, avuto riguardo alle diversità inerenti i criteri temporali del prelievo (rispettivamente, cassa e competenza), la competenza giurisdizionale (giudice del lavoro e giudici tributari), i profili funzionali (i tributi sono imposti per il finanziamento di servizi pubblici indivisibili, i contributi previdenziali per erogare prestazioni soprattutto pensionistiche). 3.3. - In entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato. Nel giudizio relativo all'ordinanza di rimessione pronunciata dal Tribunale di Milano nel giudizio promosso dalla Metro Italia Cash and Carry s.p.a. (r.o. n. 529 del 2007), il Presidente del Consiglio dei ministri afferma, rispetto al preteso contrasto con gli artt. 3 e 41 Cost., che l'obbligo contributivo gravante sui datori di lavoro è conforme al principio solidaristico che la Costituzione imprime all'intero sistema della sicurezza sociale, principio che impone altresì che l'INPS eroghi l'indennità di malattia anche quando il datore di lavoro, che pure vi sia tenuto, non paghi la retribuzione al dipendente malato. Né sarebbe corretta la qualificazione del contributo come tributo, attesa la funzione dei contributi previdenziali di fornire agli enti previdenziali i mezzi necessari per la realizzazione dei compiti loro affidati dalla legge. Nel giudizio relativo all'altra ordinanza di rimessione pronunciata dal Tribunale di Milano (R.O. n. 743 del 2007), il Presidente del Consiglio dei ministri ha chiesto che le questioni siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate. Con riferimento all'eccepita inammissibilità della questione, il Presidente del Consiglio dei ministri deduce che, rispetto alla dedotta violazione dell'art. 3 Cost., l'ordinanza di rimessione contiene esclusivamente la generica affermazione secondo la quale l'INPS non pretende il versamento del contributo di malattia per i dirigenti, i quadri e gli impiegati del settore dell'industria, omettendo, quindi, di individuare concretamente le situazioni rispetto alle quali si realizzerebbe la disparità di trattamento. Nel merito, l'Avvocatura dello Stato, alle argomentazioni già illustrate sopra, sub n. 2.3, aggiunge che nella fattispecie non sarebbe ravvisabile neppure la violazione dell'art. 53 Cost., poiché i contributi di cui si tratta non hanno natura di tributi, difettando tutti gli elementi identificativi di tali prestazioni e non essendo diretti a concorrere alle «spese pubbliche» di cui al citato art. 53. 4. - Nel corso di quattro giudizi civili riuniti promossi dalle società Hera Bologna s.r.l., Hera Comm. s.r.l., Hera s.p.a. ed Hera Trading s.r.l. contro l'INPS, il Tribunale di Bologna (r.o. n. 724 del 2007) ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 41 Cost., questioni di legittimità costituzionale degli artt. 6 e 9 della legge n. 138 del 1943, nella parte in cui stabiliscono che i contributi per l'assicurazione malattia debbono essere integralmente versati anche dalle imprese che sono tenute per legge o per contratto collettivo a corrispondere direttamente ai propri dipendenti il trattamento di malattia. Il rimettente premette che le società ricorrenti contestano di essere tenute al versamento dei contributi per l'assicurazione dei dipendenti contro le malattie, essendo già obbligate a corrispondere direttamente ai propri dipendenti il trattamento economico di malattia, secondo quanto previsto nei contratti collettivi di lavoro applicati. Aggiunge che il combinato disposto degli artt. 6 e 9 della legge n. 138 del 1943, così come interpretato dalla giurisprudenza, comporta che i datori di lavoro tenuti, per obbligo di fonte contrattuale, a pagare direttamente ai lavoratori il trattamento di malattia, siano egualmente obbligati a versare all'INPS i contributi dovuti per l'assicurazione di tale rischio. Ricorda, in proposito, che, secondo la sentenza n. 10232 del 2003 della Corte di cassazione, tale assetto normativo si giustificherebbe, perché nella materia previdenziale non vi è correlazione fra ammontare del contributo e quantità della prestazione, ma solo tra obbligo contributivo e diritto alla prestazione; inoltre, il diritto all'indennità di malattia continua a sussistere a favore dei dipendenti e l'INPS è tenuto a soddisfarlo nel caso in cui non vi provveda il datore di lavoro (come nel caso di sua insolvenza o di lavoratori disoccupati o sospesi dal lavoro che non usufruiscono del trattamento di Cassa integrazione guadagni). Il giudice a quo ritiene tuttavia che, così circoscritto, il rischio assicurato assumerebbe una valenza diversa e statisticamente non comparabile con quello sopportato dall'INPS in assenza di un'obbligazione diretta di fonte negoziale del datore di lavoro; esso, infatti, è destinato a concretizzarsi solo in ipotesi eccezionali, per il verificarsi di situazioni che non ineriscono al normale svolgimento del rapporto di lavoro, con la conseguenza che il rischio assicurato non è più quello connesso alla malattia del dipendente, ma richiede anche il verificarsi di un ulteriore evento che non consenta la copertura di detto rischio da parte del datore di lavoro. Conseguentemente, il combinato disposto degli artt. 6 e 9 della legge n. 138 del 1943, secondo l'interpretazione che di esso ha dato la Corte di cassazione e quindi secondo quello che può essere considerato il diritto vivente, violerebbe l'art. 3 Cost., perché le suddette disposizioni prevedono la medesima disciplina per situazioni diverse, al di fuori di ogni ragionevolezza, e l'art. 41 Cost., perché esse pongono a carico delle imprese obblighi contributivi sproporzionati rispetto al fine di assicurare ai lavoratori mezzi adeguati alle loro esigenze in caso di infortunio e malattia (ai sensi dell'art. 38 Cost.), rendendo più gravoso per tali imprese il costo del lavoro, rispetto ad imprese che non abbiano assunto l'impegno contrattuale di far fronte alle medesime situazioni di rischio. Ad avviso del Tribunale, questo secondo sospetto di illegittimità costituzionale è avvalorato dall'evoluzione delle forme di gestione dei servizi pubblici verso un sistema di concorrenza tra imprese diverse, con diversa compagine sociale, e con possibile applicazione di differenti contratti collettivi. Quanto, infine, alla rilevanza della questione, il rimettente afferma che i ricorsi proposti dalle società investono cartelle di pagamento relative, tra l'altro, a contributi di malattia. 4.1. - Si è costituita in giudizio la Hera s.p.a. che ha chiesto che sia dichiarata l'illegittimità costituzionale delle norme censurate. Queste ultime, ad avviso della società, contrastano sia con l'art. 3 Cost. (per il motivo esposto nell'ordinanza di rimessione), sia con l'art. 41 Cost. (poiché penalizzano irragionevolmente le imprese costrette a pagare sia i contributi all'INPS, sia l'indennità di malattia ai dipendenti, con violazione anche del principio della libera concorrenza). La Hera s.p.a. aggiunge che gli artt. 6 e 9 della legge n. 143 del 1938 violano anche il principio solidaristico di cui agli artt. 2 e 38, secondo comma, Cost., perché impongono ai datori di lavoro l'onere contributivo senza che l'INPS assuma alcun rischio, essendo esonerato dal rendere la prestazione in forza di previsioni sia di contratti collettivi di diritto comune, sia di contratti collettivi resi applicabili erga omnes dalla legge n. 741 del 1959. 4.2. - L'INPS si è costituito ed ha chiesto che la Corte dichiari l'infondatezza delle questioni. Con riferimento al prospettato contrasto con l'art. 3 Cost., l'ente previdenziale svolge argomentazioni analoghe a quelle illustrate in precedenza, sub n. 1.2. L'INPS nega, poi, che le norme censurate confliggano con il principio della libertà economica privata e della concorrenza e sostiene che la contraria opinione comporta l'irrazionale conseguenza secondo la quale pattuizioni contrattuali di diritto comune potrebbero alterare il regime pubblicistico proprio della contribuzione previdenziale. 4.3. - E' intervenuto Il Presidente del Consiglio dei ministri che ha chiesto che le questioni siano dichiarate infondate ed ha svolto le stesse argomentazioni illustrate sopra, sub n. 2.3. 5. - In prossimità dell'udienza di discussione alcune parti hanno depositato memorie. 5.1. - La Metro Italia Cash and Carry s.p.a. ha insistito per l'accoglimento delle questioni. In particolare, secondo la società, le norme censurate violerebbero l'art. 2 Cost., perché escludono la corrispettività tra contributo e prestazione. Contrasterebbero, inoltre, con l'art. 3 Cost., poiché situazioni identiche vengono trattate in maniera ingiustificatamente diversa, né consentirebbe di pervenire a diversa conclusione la constatazione della natura privatistica dei contratti collettivi stipulati dai datori di lavoro contenenti l'obbligo per costoro di corrispondere la retribuzione anche durante il periodo di assenza per malattia. Risulterebbe poi violato l'art. 38 Cost., perché sarebbe incoerente che l'ordinamento consentisse ai datori di lavoro di accollarsi l'obbligo di versare il trattamento di malattia e, contestualmente, imponesse agli stessi l'obbligo di finanziare l'indennità di malattia. 5.2. - L'Azienda energetica s.p.a. - Etschwerke AG ha depositato memoria nella quale ha sostenuto l'ammissibilità, la rilevanza e la fondatezza delle questioni. Con riferimento a quest'ultimo aspetto, la società deduce che gli artt. 6, secondo comma, e 9, primo comma, della legge n. 138 del 1943 e l'art. 31, comma 5, della legge n. 41 del 1986, violerebbero gli artt. 2 e 3 Cost., per irragionevole superamento dei limiti del dovere di solidarietà. Infatti, pur riconoscendo che l'ordinamento previdenziale è informato a princípi di solidarietà, la società afferma che il dovere di solidarietà non è illimitato, ma condizionato dalla sua finalità (che è quella di garantire la tutela dei diritti dell'uomo e della sua personalità), e comunque deve essere improntato ad un razionale bilanciamento tra il vantaggio destinato al beneficiario e il corrispondente pregiudizio dell'onerato. Nella fattispecie tali limiti sarebbero violati, perché le imprese assicurano la tutela sociale di malattia dei propri dipendenti corrispondendo loro la retribuzione (e quindi un trattamento più vantaggioso rispetto a quello erogato dall'assicurazione di malattia) e inoltre sono soggette a contribuzione previdenziale anche sugli importi corrisposti ai dipendenti a questo titolo. La società sostiene, inoltre, che le norme denunciate contrasterebbero con i princípi generali dell'ordinamento e, in particolare, con quello di corrispettività, connaturato anche al rapporto previdenziale. Ulteriore vizio è ravvisato dalla società nell'irragionevole disparità di regolamentazione, ratione temporis, dell'obbligazione contributiva che sarebbe stata esclusa per i datori di lavoro che erogano la prestazione di malattia in forza di contratto collettivo corporativo e non invece per i datori di lavoro che corrispondono la medesima prestazione in virtù di un contratto collettivo di diritto comune. Sarebbe poi riscontrabile una disparità di trattamento per situazioni omogenee, posto che l'ordinamento esclude dall'àmbito dell'assicurazione di malattia impiegati, quadri e dirigenti, consapevole che la protezione attuata tramite la contrattazione collettiva è altrettanto efficace di quella predisposta dalla legge per gli operai, onde non si comprenderebbe la permanenza dell'obbligo contributivo in capo alle imprese che quella tutela attuano in forza di previsioni pattizie collettive. La società afferma, infine, la sussistenza della violazione dell'art. 38, secondo comma, Cost. (perché l'assunzione da parte del datore di lavoro del carico del trattamento economico di malattia soddisfa in modo adeguato l'esigenza di tutela garantita da tale precetto costituzionale) e dell'art. 41 Cost. (perché le imprese che sopportano il maggior carico economico a causa della conservazione ai dipendenti malati dell'integrale trattamento retributivo sono svantaggiate rispetto a quelle che non si accollano tale onere e, in particolare, rispetto all'ENEL che, in virtù dell'art. 2 del d. P. R. n. 145 del 1965, usufruisce di una riduzione dell'aliquota contributiva). 5.3. - La AEM Calore & Servizi - Utilities & Facilities Management Services s.p.a. ha depositato memoria nella quale, richiamando i limiti di operatività del principio di solidarietà nell'ordinamento previdenziale, ha svolto deduzioni analoghe a quelle contenute nell'atto di costituzione. 5.4. - Anche l'INPS ha depositato memoria illustrativa nella quale ha ribadito le argomentazioni già svolte in sede di costituzione. Considerato in diritto 1. - Con cinque diverse ordinanze, i Tribunali di Bolzano, Milano e Bologna hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale degli artt. 6 e 9 della legge 11 gennaio 1943, n. 138 (Costituzione dell'Ente «Mutualità fascista - Istituto per l'assistenza di malattia ai lavoratori»), 1 e 2 del decreto legislativo luogotenenziale 2 aprile 1946, n. 142 (Disciplina provvisoria del carico contributivo per le varie forme di previdenza e di assistenza sociale), 2 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 31 ottobre 1947, n. 1304 (Trattamento di malattia dei lavoratori del commercio, del credito, dell'assicurazione e dei servizi tributari appaltati), 74 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale), 14 della legge 23 aprile 1981, n. 155 (Adeguamento delle stru tture e delle procedure per la liquidazione urgente delle pensioni e per i trattamenti di disoccupazione, e misure urgenti in materia previdenziale e pensionistica) e 31 della legge 28 febbraio 1986, n. 41 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 1986). Ad avviso dei rimettenti, le predette norme, disponendo che il datore di lavoro è tenuto a versare la contribuzione previdenziale per l'indennità di malattia anche se sia obbligato, in base al contratto collettivo di lavoro, a continuare a corrispondere ai propri dipendenti la retribuzione durante i periodi di assenza per malattia, violerebbero: l'art. 2 della Costituzione, difettando logica e razionalità nella distribuzione degli oneri connessi al principio di solidarietà economica e sociale che informa il sistema della sicurezza sociale; l'art. 3 Cost., perché non differenziano, ai fini dell'obbligo contributivo, tra le imprese che si sono obbligate, nel contratto collettivo, a continuare a versare l'intera retribuzione al lavoratore malato e quelle che non si siano accollate un simile obbligo e prevedono un trattamento ingiustificatamente diverso tra le varie categorie di imprese e di lavoratori; l'art. 38, secondo comma, Cost., che non sovverte i princípi fondamentali del sistema assicurativo, e, in particolare, quello sinallagmatico; l'art. 41 Cost., poiché impongono il pagamento del contributo solo da parte di alcune imprese, prevedono un'imposizione contributiva in assenza di rischio tutelabile e di esigenza previdenziale da soddisfare e pongono a carico delle imprese obblighi contributivi sproporzionati rispetto al fine di assicurare ai lavoratori mezzi adeguati alle loro esigenze in caso di malattia; l'art. 53 Cost., perché, se si dovesse ritenere che il principio di solidarietà escluda il nesso sinallagmatico tra contribuzione e prestazione, ci si troverebbe di fronte ad un vero e proprio tributo in relazione al quale dovrebbe operare il principio della capacità contributiva. 2. - L'analogia delle questioni prospettate rende opportuna la riunione dei giudizi al fine della loro trattazione congiunta e della loro decisione con un'unica sentenza. 3. - Preliminarmente, deve essere dichiarato inammissibile l'intervento spiegato dalla Hera s.p.a. nel giudizio iscritto al n. 427 del registro ordinanze 2007, perché la società non riveste la qualità di parte nel relativo giudizio a quo. 4. - Le questioni sollevate rispetto all'art. 6 della legge n. 138 del 1943, agli artt. 1 e 2 del d. lgs. lgt. n. 142 del 1946, n. 142, all'art. 2 del d. lgs. C. p. S. n. 1304 del 1947, all'art. 74 della legge n. 833 del 1978, ed all'art. 14 della legge n. 155 del 1981, sono manifestamente inammissibili per difetto di rilevanza nei giudizi principali. Tali giudizi hanno ad oggetto la pretesa dell'INPS di ottenere il pagamento dei contributi di malattia da parte di datori di lavoro che hanno omesso il relativo versamento in quanto obbligati per contratto collettivo a corrispondere ai loro dipendenti la retribuzione anche durante il periodo di malattia. Ora, l'art. 6 della legge n. 138 del 1943 dispone, al secondo comma, che l'indennità di malattia non è dovuta dall'ente previdenziale nel caso in cui il datore di lavoro corrisponda al dipendente malato la retribuzione. Questa Corte ha già dichiarato manifestamente inammissibile l'identica questione sollevata su tale norma, poiché questa nulla dispone in merito all'obbligo contributivo del datore di lavoro, con la conseguenza che la sollecitata dichiarazione di illegittimità non risolverebbe il dubbio di costituzionalità sollevato dal rimettente (ordinanza n. 241 del 2006). La medesima considerazione vale nel presente caso. Gli artt. 1 e 2 del d. lgs. lgt. n. 142 del 1946 prevedono che la quota di contributi dovuta dai lavoratori per alcune forme di previdenza e assistenza (tra le quali è compresa l'assicurazione contro le malattie) è corrisposta, senza alcun diritto di rivalsa, dai datori di lavoro in luogo dei lavoratori. Si tratta, quindi, di disposizioni le quali stabiliscono che è il datore di lavoro il soggetto tenuto a versare i contributi di malattia e che nulla è dovuto a questo titolo dai lavoratori; le medesime disposizioni non prevedono alcunché circa il regime di quella contribuzione e, in particolare, in tema di misura del contributo o di eventuali cause di esonero dal pagamento dello stesso. Non sono esse, dunque, le norme applicabili per la decisione dei giudizi principali, nei quali non si fa questione della d istribuzione dell'onere contributivo tra datori di lavoro e lavoratori. L'art. 2, primo comma, del d. lgs. C. p. S. n. 1304 del 1947 stabilisce che «Le indennità giornaliere di malattia e gli altri assegni in denaro per gli iscritti all'Istituto nazionale per l'assicurazione contro le malattie, appartenenti al settore del commercio [.] ed i contributi dovuti per l'assicurazione malattia sono stabiliti nelle misure indicate nelle tabelle A) e B) allegate al presente decreto». Occorre però considerare che la misura della contribuzione di malattia dovuta dalle imprese commerciali (attualmente ed anche nei periodi - dall'aprile 1996 al dicembre 1998 e dal 1999 al 2004 - cui si riferiscono le due cause sottoposte al Tribunale di Bolzano, unico tra i rimettenti che ha censurato anche tale norma) non è quella stabilita nella tabella B allegata al d. lgs. C. p. S. n. 1304 del 1947, bensì quella indicata nella tabella G allegata alla legge n. 41 del 1986. Pertanto, anche la questione relativa all'art. 2, primo comma, del d. lgs. C. p. S. n. 1304 del 1947 è manifestamente inammissibile, trattandosi di norma della quale il rimettente non deve fare applicazione. L'art. 74, primo comma, della legge n. 833 del 1978 prevede che, a decorrere dal 1° gennaio 1980, l'erogazione delle prestazioni economiche per malattia è attribuita all'INPS, al quale deve essere devoluta una quota parte del contributo di malattia previsto dalla legge (all'epoca destinato a finanziare anche le prestazioni sanitarie, ormai di competenza delle strutture del servizio sanitario nazionale). Anche tale norma nulla dispone in ordine alla disciplina del contributo di malattia per i profili che qui interessano (misura ed eventuali cause di esonero), limitandosi a prevedere che una quota del contributo di malattia (originariamente unitario) dovrà essere attribuita all'INPS, perché destinata a finanziare le prestazioni economiche di malattia. Da tale norma non discende, quindi, la conseguenza secondo la quale le imprese sono tenute al versamento del contributo di malattia anche quando corrispondono la retribuzione ai dipendenti malati e, pertanto, anche la questione di costituzionalità sollevata rispetto ad essa è manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza. Infine, l'art. 14 della legge n. 155 del 1981 stabilisce, al primo comma, che la quota parte dei contributi da devolvere all'INPS per l'erogazione delle prestazioni economiche di malattia è determinata nella misura del 2,50 per cento della retribuzione imponibile. In proposito, vale quanto già osservato rispetto all'art. 1 del d. lgs. C. p. S. n. 1304 del 1947: ormai la misura del contributo di malattia non è più quella prevista nel citato art. 14, bensì quella indicata nella tabella G allegata alla legge n. 41 del 1986. Ne consegue la manifesta inammissibilità della questione per irrilevanza. 5. - Le uniche norme rilevanti per la decisione dei giudizi a quibus sono, dunque, l'art. 9 della legge n. 138 del 1943 (secondo il quale «Agli scopi di cui sopra sarà provveduto con il contributo dei lavoratori e dei datori di lavoro nella misura determinata dal contratto collettivo di lavoro o da deliberazione dei loro competenti organi ovvero nel decreto di cui al secondo comma dell'articolo 4») e l'art. 31, comma 5, della legge n. 41 del 1986 (secondo cui «I contributi dovuti dai datori di lavoro per i soggetti aventi diritto alle indennità economiche di malattia sono fissati nelle misure indicate nell'allegata tabella G»). 5.1. - Rispetto a tali norme le questioni di legittimità costituzionale non sono fondate. 5.2. - Con riferimento all'art. 2 Cost., il Tribunale di Bolzano (unico ad evocare tale parametro costituzionale) deduce che, seppure si deve ammettere che il sistema previdenziale è informato al principio della solidarietà sociale, tuttavia l'attuazione pratica di un simile principio deve essere ragionevole e non può risolversi in un'iniqua distribuzione del peso solidaristico. La censura non tiene conto del fatto che la predisposizione legislativa della tutela previdenziale evita proprio che scatti, a carico dei datori di lavoro, l'obbligo di corrispondere ai dipendenti malati la retribuzione o una quota di essa, obbligo previsto dall'art. 2110, primo comma, del codice civile. Quindi, a fronte del versamento del contributo, i datori di lavoro ottengono comunque un vantaggio (l'esonero dall'obbligo previsto dal menzionato art. 2110). Se poi essi, pur potendo contare su un simile beneficio, decidono liberamente, in sede di contrattazione collettiva, di addossarsi oneri patrimoniali superiori rispetto a quelli che graverebbero su di loro in forza delle disposizioni legislative, questa non costituisce una circostanza dalla quale possa essere fatta discendere l'illegittimità costituzi onale di quelle disposizioni legislative per violazione dell'art. 2 della Costituzione. L'ampia discrezionalità della quale gode il legislatore nel conformare, anche in attuazione del principio di solidarietà, gli oneri della contribuzione previdenziale, nel caso in esame è stata dunque esercitata in modo non irragionevole. Neppure sono fondati i dubbi sollevati dai rimettenti sul rispetto del principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione. E' vero che, a fronte di datori di lavoro che si obbligano nel contratto collettivo a corrispondere ai propri dipendenti malati la retribuzione, ve ne sono altri che non si accollano lo stesso obbligo, ma è altrettanto certo che le imprese che si sono assunte quell'obbligo lo hanno fatto liberamente e non possono imputare all'ordinamento i maggiori costi che da quella scelta derivano. L'obbligo per i datori di lavoro di corrispondere la retribuzione ai dipendenti malati che avrebbero comunque diritto alla tutela economica prevista dall'assicurazione di malattia, non è la conseguenza di un'imposizione legale, bensì è il frutto di una libera scelta negoziale degli stessi datori di lavoro e delle organizzazioni che li rappresentano. L'ordinamento giuridico detta un certo regime dell'obbligazione contributiva; sono poi i datori di lavoro che, pur in presenza di quel regime giuridico, decidono di negoziare clausole contrattuali che prevedono la permanenza del loro obbligo retributivo anche durante il periodo di malattia. Circa il rilievo secondo cui alcune categorie di operatori economici sarebbero esonerate dal versamento del contributo di cui sopra, si deve considerare, in primo luogo, che in realtà l'assicurazione di malattia non riguarda tutti i lavoratori subordinati. Ve ne sono alcuni (come, ad esempio, gli impiegati dell'industria o i dirigenti) che non sono assicurati contro il rischio economico derivante dall'evento malattia; i loro datori di lavoro non versano il contributo di malattia proprio per questo motivo e non invece perché essi, in virtù di clausole pattizie collettive, pagano a quei lavoratori la retribuzione anche durante la malattia. Con riferimento a s imili fattispecie, pertanto, l'asserita disparità di trattamento tra categorie di imprese non dipende dalla regola secondo la quale i datori di lavoro che corrispondono la retribuzione ai dipendenti assicurati contro le malattie debbono comunque versare il contributo di malattia all'INPS. Quanto, poi, al provvedimento con il quale l'INPS ha disposto che la RAI s.p.a. è esonerata dall'obbligo contributivo in esame perché corrisponde ai propri dipendenti la retribuzione durante il periodo di malattia, si tratta di una decisione amministrativa inidonea a fungere da tertium comparationis. I rimettenti, infine, denunciano un'illegittima disparità di trattamento con riferimento alla disciplina prevista per il personale dell'ENEL dal d. P. R. 17 marzo 1965, n. 145 (Disciplina dell'assicurazione obbligatoria contro le malattie e del trattamento economico di maternità per il personale dipendente dall'Ente Nazionale per l'Energia Elettrica - ENEL). Questo stabilisce che l'ENEL è tenuto a corrispondere al personale dipendente direttamente a proprio carico il trattamento economico di malattia (art. 1, secondo comma) e che per tale motivo il contributo di malattia dovuto dall'ente è ridotto dell'1,25 per cento della retribuzione. Il raffronto con l'ENEL non è però pertinente perché, contrariamente alle imprese parti nei giudizi a quibus, l'ENEL corrisponde al proprio personale il trattamento di malattia, non in virtù di una propria libera scelta negoziale, ma di un obbligo imposto dall'ordinamento. Le due fattispecie non sono dunque comparabili. In ogni caso, dal fatto che un solo datore di lavoro tra i tanti soggetti al versamento dei contributi di malattia goda di un trattamento di favore non può conseguire la caducazione della regola generale che prevede l'obbligo di versare i contributi di malattia anche nel caso in cui si paga la retribuzione. Passando all'art. 38 Cost., il Tribunale di Bolzano sostiene che tale norma sarebbe violata perché essa si preoccupa unicamente di assicurare al lavoratore mezzi adeguati alle proprie esigenze di vita in caso di malattia (esigenze nella fattispecie soddisfatte con l'erogazione della retribuzione), senza nulla disporre in ordine ai mezzi con i quali tale obiettivo deve essere perseguito e, in particolare, senza derogare al fondamentale principio sinallagmatico in tema di assicurazioni secondo il quale queste presuppongono necessariamente l'esistenza di un rischio. Anche sotto questo profilo la questione non è fondata. L'art. 38 Cost. prevede che ai lavoratori siano garantiti mezzi adeguati di sostentamento al verificarsi di determinati eventi fonti di bisogno; come riconosce lo stesso rimettente, da esso non è possibile ricavare specifiche indicazioni circa la conformazione dell'obbligazione contributiva. Non sono fondate neppure le censure formulate con riferimento all'art. 41 della Costituzione. In particolare, il Tribunale di Bolzano denuncia che l'art. 9 della legge n. 138 del 1943 e l'art. 31, comma 5, della legge n. 41 del 1986, imponendo il pagamento del contributo solamente ad alcune imprese, porrebbero un ingiustificato ostacolo al pieno dispiegamento del principio della libertà di iniziativa economica privata. Tale censura non è fondata per gli stessi motivi già indicati a proposito della lamentata lesione dell'art. 3 della Costituzione. Il Tribunale di Milano, invece, ritiene che l'art. 41 Cost. sarebbe violato, perché l'art. 9 della legge n. 138 del 1943 prevedrebbe, senza alcuna distinzione, un'imposizione contributiva in assenza di rischio tutelabile e di esigenza previdenziale da soddisfare. L'assunto non è esatto perché, nei casi in cui i datori di lavoro sono obbligati - per previsione di contratto collettivo - a corrispondere la retribuzione ai dipendenti in malattia, il rischio tutelabile e l'esigenza previdenziale non sono annullati, ma solamente ridotti. Infatti, è previsto che il diritto all'indennità di malattia permanga anche nei due mesi successivi alla cessazione o alla sospensione del rapporto di lavoro (si veda, ad esempio, l'art. 30 del contratto collettivo nazionale per la disciplina del trattamento mutualistico di malat tia degli operai dell'industria del 3 gennaio 1939, richiamato dall'art. 6, quarto comma, della legge n. 138 del 1943, e tuttora vigente secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità). Ciò significa che il dipendente di un datore di lavoro contrattualmente obbligato a corrispondere la retribuzione anche durante la malattia, il quale si ammali nei due mesi successivi al suo licenziamento, non può pretendere la retribuzione dal suo ormai ex datore di lavoro ed ha diritto, invece, al pagamento dell'indennità di malattia da parte dell'INPS. Il Tribunale di Bologna sostiene poi, che l'art. 41 Cost. sarebbe leso dall'art. 9 della legge n. 138 del 1943, perché quest'ultimo pone a carico dei datori di lavoro obblighi contributivi sproporzionati rispetto al fine di assicurare ai lavoratori mezzi adeguati alle loro esigenze in caso di infortunio e malattia, rendendo il costo del lavoro più gravoso per tali imprese, rispetto a quelle che non abbiano assunto contrattualmente alcun impegno di far fronte alle medesime situazioni di rischio. La censura non è fondata perché il pregiudizio alla libertà di iniziativa economica che è denunciato è la conseguenza di una libera scelta assunta in sede negoziale dai datori di lavoro (e, cioè, proprio dell'esercizio della predetta libertà di iniziativa economica). Quanto all'art. 53 Cost., il Tribunale di Milano sostiene che, se si dovesse ritenere che il principio di solidarietà valga ad escludere il nesso sinallagmatico tra contribuzione e prestazione, ci si troverebbe di fronte ad un vero e proprio tributo, in relazione al quale dovrebbe operare il principio della capacità contributiva, del tutto estraneo al pagamento del contributo di malattia così come preteso dall'INPS. Neppure tale censura è fondata, perché il nesso sinallagmatico non è annullato neppure nel caso in cui il datore di lavoro sia obbligato a corrispondere la retribuzione ai dipendenti in malattia, essendo esso semplicemente attenuato, e pertanto il contributo in oggetto non ha alcuna attinenza con l'imposizione tributaria, della quale peraltro difettano i requisiti (doverosità della prestazione e collegamento di questa alla pubblica spesa, con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante). LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, 1) dichiara manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 6 della legge 11 gennaio 1943, n. 138 (Costituzione dell'Ente «Mutualità fascista - Istituto per l'assistenza di malattia ai lavoratori»), degli artt. 1 e 2 del decreto legislativo luogotenenziale 2 aprile 1946, n. 142 (Disciplina provvisoria del carico contributivo per le varie forme di previdenza e di assistenza sociale), dell'art. 2 del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 31 ottobre 1947, n. 1304 (Trattamento di malattia dei lavoratori del commercio, del credito, dell'assicurazione e dei servizi tributari appaltati), dell'art. 74 della legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale) e dell'art. 14 della legge 23 aprile 1981, n. 155 (Adeguamento delle strutture e delle procedure per la liquidazione urgente delle pensioni e per i trattamenti di disoccupazione, e misure urgenti in materia previdenziale e pensionistica), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 38, 41 e 53 della Costituzione, dai Tribunali di Bolzano, Milano e Bologna con le ordinanze in epigrafe; 2) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 9 della legge n. 138 del 1943, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 38, 41 e 53 della Costituzione, dai Tribunali di Bolzano, Milano e Bologna con le ordinanze in epigrafe; 3) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 31 della legge 28 febbraio 1986, n. 41 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 1986), sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 38, 41 e 53 della Costituzione, dal Tribunale di Bolzano con le ordinanze n. 427 e n. 428 del 2007 in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Luigi MAZZELLA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 marzo 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Ugo DE SIERVO " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell'articolo 7-bis della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità); dell'articolo 10, comma 5, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia); e degli articoli 120, 128 e 130, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), promossi con n. 3 ordinanze del 21 novembre 2006 dal Tribunale ordinario di S. Maria Capua Vetere rispettivamente iscritte ai nn. 397, 398 e 500 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 22 e 26, prima serie speciale, dell'anno 2007. Udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2008 il Giudice relatore Ugo De Siervo. Ritenuto che con ordinanza del 21 novembre 2006, pervenuta a questa Corte il 14 febbraio 2007 (reg. ord. n. 397 del 2007), il Tribunale ordinario di S. Maria Capua Vetere, sezione per l'applicazione delle misure di prevenzione, ha sollevato (in via incidentale) questioni di legittimità costituzionale dell'art. 7-bis della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità); dell'art. 10, comma 5, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia); del combinato disposto degli artt. 120, 128 e 130, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), in riferimento agli artt. 3, 4, 29 e 35 della Costituzione; che il rimettente premette di essere chiamato a delibare l'istanza con cui un soggetto, sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno, ne chiede la sospensione, al fine di proseguire nella propria attività lavorativa di autista; che, per effetto dell'applicazione della misura di prevenzione, la patente di guida del prevenuto è stata revocata dal Prefetto, ai sensi dell'art. 120 del d.lgs. n. 285 del 1992; che il giudice a quo, qualificando l'istanza quale «richiesta volta ad ottenere dal collegio un provvedimento che consenta di conservare la patente», osserva che essa dovrebbe venir dichiarata inammissibile, posto che «non esiste alcuna competenza del giudice della prevenzione sul punto»; che l'assetto normativo censurato e denunciato suscita dubbi di legittimità costituzionale nel Tribunale rimettente, nella parte in cui (esso) preclude al giudice delle misure di prevenzione di apprezzare l'incidenza della revoca della patente di guida sul piano della tutela «dei diritti costituzionalmente garantiti» al prevenuto, al fine di «sindacarla», «escluderla», o comunque di «autorizzare, in presenza di gravi e comprovati motivi connessi all'esercizio di attività lavorativa, il sottoposto alla guida di un veicolo, al fine di recarsi in un luogo determinato fuori del comune di residenza o di dimora abituale»; che il rimettente denuncia la violazione dell'art. 3 della Costituzione, «con particolare riferimento alla norma contenuta nell'art. 10, comma 5, della legge n. 575 del 1965»; che tale ultima disposizione stabilisce che le decadenze dalle licenze, autorizzazioni, concessioni, iscrizioni, abilitazioni ed erogazioni ivi indicate, e conseguenti all'applicazione di misure di prevenzione, possano essere escluse dal giudice, quando per effetto di esse verrebbero a mancare i mezzi di sostentamento all'interessato e alla sua famiglia; che si tratterebbe, secondo il rimettente, di un assetto normativo analogo a quello concernente la revoca della patente, sicché sarebbe irragionevole negare per tale ultimo caso soltanto «la possibilità di intervenire» del giudice della prevenzione, al fine di «escludere tali conseguenze» «in presenza di situazioni straordinarie tali da determinare una lesione inevitabile di diritti costituzionalmente tutelati»; che un ulteriore profilo di incostituzionalità viene ravvisato dal giudice a quo, sempre in riferimento all'art. 3 della Costituzione, nell'art. 7-bis della legge n. 1423 del 1956, che consente al giudice di autorizzare colui che sia sottoposto alla misura della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno a lasciare il comune di residenza o dimora abituale per gravi e comprovati motivi di salute, ai fini degli accertamenti sanitari e delle cure indispensabili; che a fronte di ciò, secondo il rimettente, «l'impossibilità del sottoposto di condurre un veicolo non può che incidere negativamente sul contenuto di tale autorizzazione, rendendola in alcuni casi del tutto inattuabile»; che sarebbero poi violati gli artt. 4 e 35 della Costituzione, giacché la revoca della patente «impedisce sovente al sottoposto di svolgere qualsiasi attività professionale che richieda l'abilitazione alla guida, ovvero anche solo la necessità di spostarsi celermente da un luogo all'altro»; che, per effetto di ciò, si sacrificherebbe altresì il «diritto-dovere di provvedere adeguatamente al mantenimento del nucleo familiare e all'educazione dei figli», in violazione, secondo il rimettente, dell'art. 29 della Costituzione; che con distinta ordinanza del 21 novembre 2006, pervenuta a questa Corte il 14 febbraio 2007 (reg. ord. n. 398 del 2007), il medesimo rimettente ha sollevato (in via incidentale) analoghe questioni di legittimità costituzionale degli artt. 7-bis della legge 27 dicembre 1956, n. 1423; 10, comma 5, della legge 31 maggio 1965, n. 575; e del combinato disposto degli artt. 120, 128 e 130, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, in riferimento agli artt. 3, 4, 29, 32 e 35 della Costituzione; che il rimettente, premesso di dover delibare l'istanza con cui un soggetto, sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno, ha chiesto di «ottenere il rinnovo della sua patente di guida scaduta di validità», osserva che a tale rinnovo osta la sopraggiunta applicazione della misura di prevenzione, benché il prevenuto sia invalido civile, impedito nella deambulazione; che l'assetto normativo denunciato pare al giudice a quo contrastare con gli artt. 3, 4, 29 e 35 della Costituzione, per le medesime ragioni, e sotto i medesimi profili, già evidenziati nella precedente ordinanza di rimessione; che, inoltre, (ne) viene dedotto il contrasto di detto assetto normativo anche con l'art. 32 della Costituzione, poiché il prevenuto sarebbe privato della facoltà di muoversi autonomamente in caso di emergenza medica, ovvero sarebbe costretto a deambulare, con il rischio di aggravare il proprio «quadro clinico»; che con altra ordinanza del 21 novembre 2006, pervenuta a questa Corte il 14 febbraio 2007 (reg. ord. n. 500 del 2007), il medesimo giudice a quo ha sollevato (in via incidentale) analoghe questioni di legittimità costituzionale degli artt. 7-bis della legge 27 dicembre 1956, n. 1423; 10, comma 5, della legge 31 maggio 1965, n. 575; e del combinato disposto degli artt. 120, 128 e 130, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, in riferimento agli artt. 3, 4, 29, 32 e 35 della Costituzione;< /SPAN> che il rimettente premette di dover delibare l'istanza con cui un soggetto ha chiesto di essere autorizzato alla guida della propria autovettura al fine di circolare nel proprio comune di residenza, benché sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno e per tale ragione privato della patente di guida tramite revoca del titolo; che il prevenuto, aggiunge il rimettente, è invalido e deve prendersi cura di un figlio a propria volta affetto da grave disabilità; che l'assetto normativo denunciato, precludendo al giudice a quo l'adozione del provvedimento richiesto, viene denunciato per i medesimi profili e con i medesimi argomenti già sviluppati con la ordinanza di rinvio di cui al reg. ord. n. 398 del 2007. Considerato che il Tribunale ordinario di S. Maria Capua Vetere, sezione per l'applicazione delle misure di prevenzione, ha sollevato con tre distinte ordinanze questioni di legittimità costituzionale dell'art. 7-bis della legge 27 dicembre 1956, n. 1423; dell'art. 10, comma 5, della legge 31 maggio 1965, n. 575; e del combinato disposto degli artt. 120, 128 e 130, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, in riferimento agli artt. 3, 4, 29, 32 e 35 della Costituzione; che le questioni sono analoghe e possono pertanto essere riunite, ai fini di una decisione congiunta; che, a parere del rimettente, sarebbe irragionevolmente lesivo dei diritti alla salute, al lavoro e al mantenimento del nucleo familiare il difetto, desunto dalla normativa impugnata, di ogni competenza del giudice delle misure di prevenzione in ordine agli effetti della revoca della patente di guida al soggetto che vi è sottoposto, disposta dal Prefetto ai sensi dell'art. 120 del codice della strada; che il rimettente denuncia a questa Corte gli artt. 120, 128 e 130, comma 1, lettera b), del codice della strada, senza avvedersi che tali disposizioni, nel testo introdotto dall'art. 5 del d.P.R. 19 aprile 1994, n. 575 (Regolamento recante la disciplina dei procedimenti per il rilascio e la duplicazione della patente di guida di veicoli), hanno assunto natura regolamentare, in tal modo sottraendosi al controllo incidentale di costituzionalità vertente su atti aventi forza di legge (tra le molte, ordinanza n. 401 del 2006); che l'art. 130, comma 1, lettera b), del codice della strada viene censurato nel testo antecedente all'entrata in vigore del d.P.R. n. 575 del 1994, posto che ad oggi esso non reca alcuna previsione in ordine alla revoca della patente di guida per difetto dei requisiti morali previsti dall'art. 120 dello stesso codice; che il rimettente non spende motivazione alcuna, per escludere l'effetto di delegificazione determinato dal d.P.R. n. 575 del 1994; che manifestamente priva di rilevanza è altresì la questione relativa all'art. 128 del medesimo codice, concernente la "revisione della patente"; che le questioni relative a tali disposizioni del codice della strada sono pertanto manifestamente inammissibili; che, per altro verso, non può non osservarsi che la revoca della patente di guida è provvedimento del prefetto estraneo al contenuto prescrittivo delle misure di prevenzione, sicché non appare manifestamente irragionevole che il giudice competente per tali misure preventive non abbia alcun titolo per intervenire sugli effetti di detto provvedimento amministrativo; che questa Corte ha infatti già giudicato manifestamente inammissibili analoghe questioni sollevate da un magistrato di sorveglianza in riferimento all'art. 4 della Costituzione, nell'ambito del sistema delle misure di sicurezza, osservando che l'attribuzione a tale giudice di un «potere nuovo» avrebbe comportato «una serie di valutazioni che, sia nell'an che nel quomodo, sono squisitamente discrezionali comportando la scelta fra soluzioni nessuna delle quali costituzionalmente imposta» (ordinanze n. 293 del 1998, n. 253 del 1995; in precedenza, sentenza n. 109 del 1983); che tali considerazioni valgono a rendere manifestamente infondati i dubbi di costituzionalità espressi dal rimettente in relazione agli artt. 7-bis della legge n. 1423 del 1956 e 10, comma 5, della legge n. 575 del 1965, anche a voler trascurare che tali disposizioni paiono invocate dal giudice a quo quali tertia comparationis, piuttosto che quali norme oggetto di autonome questioni di legittimità costituzionale; che, in particolare, è del tutto evidente come la competenza del giudice delle misure di prevenzione ad escluderne taluni effetti di decadenza, stabilita dall'art. 10, comma 5, della legge n. 575 del 1965, si inserisca nel governo del sistema delle misure medesime, alle quali è invece estranea la revoca della patente di guida; che, quanto all'art. 7-bis della legge n. 1423 del 1956, è sufficiente aggiungere che un eventuale provvedimento giurisdizionale di reintegro nella disponibilità della patente di guida non si concilierebbe neppure con il carattere eccezionale e temporaneo dell'autorizzazione ivi prevista ad allontanarsi, per motivi di salute, dal comune di residenza o dimora abituale, della quale ci si potrà ben valere servendosi del trasporto pubblico; che, peraltro, l'art. 32 della Costituzione «non può dirsi violato per il verificarsi di particolari condizioni che conseguono naturalmente alle restrizioni della sfera giuridica disposte a carico dei soggetti» sottoposti a misure di prevenzione (sentenza n. 75 del 1966); che, per tali ragioni, le questioni di costituzionalità vertenti sugli artt. 7-bis della legge n. 1423 del 1956 e 10, comma 5, della legge n. 575 del 1965 sono manifestamente infondate. LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara manifestamente inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 120, 128 e 130, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 29, 32 e 35 della Costituzione, dal Tribunale di S. Maria Capua Vetere con le ordinanze indicate in epigrafe; dichiara manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 7-bis della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica incolumità), e 10, comma 5, della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro la mafia), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 29, 32 e 35 della Costituzione, dal Tribunale di S. Maria Capua Vetere con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Ugo DE SIERVO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 marzo 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLAANNO 2008 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: - Franco BILE Presidente - Giovanni Maria FLICK Giudice - Francesco AMIRANTE " - Paolo MADDALENA " - Alfio FINOCCHIARO " - Alfonso QUARANTA " - Franco GALLO " - Luigi MAZZELLA " - Gaetano SILVESTRI " - Sabino CASSESE " - Maria Rita SAULLE " - Giuseppe TESAURO " - Paolo Maria NAPOLITANO " ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 227 del codice penale militare di pace, promosso con ordinanza dell'11 ottobre 2005 dal Tribunale militare di Palermo nel procedimento penale a carico di C. C., iscritta al n. 19 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell'anno 2006. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 30 gennaio 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano. Ritenuto che il Tribunale militare di Palermo, con ordinanza dell'11 ottobre 2005, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 227 del codice penale militare di pace nella parte in cui non prevede, per il delitto di diffamazione militare, una causa di non punibilità analoga a quella della prova liberatoria prevista dall'art. 596, quarto comma, del codice penale per il corrispondente delitt o di diffamazione "ordinaria"; che il rimettente, quanto al fatto, riferisce unicamente che l'imputato Maresciallo dei carabinieri C.C. è stato tratto a giudizio per rispondere del reato di diffamazione militare aggravata in quanto avrebbe inviato a diverse autorità un esposto dal contenuto lesivo della reputazione del Brigadiere dei carabinieri F.M., anche mediante l'attribuzione di fatti determinati; che il collegio rimettente precisa che all'udienza del 5 ottobre 2005 la difesa dell'imputato ha eccepito l'illegittimità costituzionale dell'art. 227 del codice penale militare di pace, in relazione all'art. 3 Cost., nella parte in cui, a differenza dell'art. 596, terzo e quarto comma, cod. pen. non prevede la possibilità di provare i fatti attribuiti; che il rimettente compie una ricognizione dei dati normativi vigenti nella quale evidenzia, in primo luogo, che l'art. 596 cod. pen., pur escludendo in via generale la prova liberatoria (primo comma), la ammette nelle limitate ipotesi contemplate nei commi secondo e terzo, prevedendo inoltre (quarto comma) che, una volta provata la verità del fatto, l'autore dell'imputazione non è più punibile; che tale causa di non punibilità è, invece, del tutto ignota al codice penale militare di pace, che non contiene alcuna norma analoga; che anche il «codice Rocco», in origine, «non prevedeva la possibilità della prova liberatoria, ma solo quella - eventuale - del deferimento a un giurì d'onore del giudizio sulla verità del fatto»; che, con il decreto legislativo luogotenenziale 14 settembre 1944, n. 288 (Provvedimenti relativi alla riforma della legislazione penale), venne introdotta la modifica dell'art. 596 cod. pen. nei termini tutt'oggi in vigore, senza però prevedere una corrispondente disciplina per le fattispecie militari; che, in tal modo, il trattamento penalistico, pressoché identico quanto alla morfologia complessiva delle due figure criminose di ingiuria e diffamazione, ha finito per diversificarsi profondamente in tema di cause di non punibilità; che l'attuale disarmonia, a parere del collegio rimettente, «non appare comprensibile sotto il profilo della ragionevolezza, non essendo possibile individuare alcun valido motivo della perdurante sperequazione; e per ciò stesso appare ingiustificata ex art. 3 Cost., poichè finisce per trattare la posizione dei militari imputati di ingiuria e diffamazione in modo pesantemente diverso da quello previsto per i non appartenenti alle forze armate imputati di illeciti del tutto analoghi»; che il Tribunale militare di Palermo, con riferimento alla rilevanza della questione, sottolinea che l'esito del procedimento sarebbe ben diverso ammettendosi o negandosi la possibilità della prova liberatoria: poiché in un caso si potrebbe pervenire a una pronuncia favorevole all'imputato nei termini previsti dall'art. 596, quarto comma, cod. pen. e, nell'altro, ad una soluzione di segno contrario; che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto alla Corte di dichiarare la questione inammissibile o infondata. Considerato che il Tribunale militare di Palermo, con ordinanza del 5 ottobre 2005, ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 227 del codice penale militare di pace, nella parte in cui non prevede per il delitto di diffamazione militare una causa di non punibilità analoga a quella della prova liberatoria prevista dall'art. 596, comma quarto, del codice penale per il corrispondente delitto di diffamazione "ordinaria";</ SPAN> che, secondo il rimettente, l'esclusione della prova liberatoria per il delitto di diffamazione militare è in contrasto con il principio di ragionevolezza in quanto non vi è alcuna ragione giustificatrice del diverso trattamento dei militari imputati di ingiuria e diffamazione rispetto ai non appartenenti alle forze armate imputati di illeciti del tutto analoghi; che la questione è manifestamente inammissibile; che il rimettente omette del tutto la descrizione del caso concreto sottoposto al suo esame rendendo in tal modo impossibile ogni valutazione circa la rilevanza della questione; che, in particolare, il Tribunale militare non riporta il capo d'imputazione, né indica alcuna circostanza di fatto relativa alla vicenda del giudizio a quo; che l'incertezza sulla vicenda processuale si riflette anche sulla stessa applicabilità della norma evocata, in quanto l'art. 596 cod. pen., dopo aver stabilito, al primo comma, il principio secondo il quale il colpevole dei delitti di ingiuria e diffamazione non è ammesso a provare a sua discolpa la verità o la notorietà del fatto attribuito alla persona offesa, prevede, al terzo comma, le relative eccezioni; che il rimettente non indica quale delle tre ipotesi previste dall'art. 596, terzo comma, cod. pen. ricorra nel caso di specie, ovvero: se la persona offesa sia un pubblico ufficiale ed il fatto a lui attribuito si riferisca all'esercizio delle sue funzioni; se per il fatto attribuito alla persona offesa penda contro di essa un procedimento penale; se la persona offesa abbia chiesto formalmente l'accertamento della verità o della falsità del fatto attribuitole; che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l'insufficiente descrizione della fattispecie, poiché impedisce di vagliare l'effettiva applicabilità della norma ai casi dedotti, si risolve in carente motivazione sulla rilevanza della questione, determinandone, conseguentemente, la manifesta inammissibilità (tra le ultime, ordinanze n. 45 e n. 31 del 2007); Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 227 del codice penale militare di pace sollevata, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dal Tribunale militare di Palermo con l'ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 25 febbraio 2008. F.to: Franco BILE, Presidente Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 marzo 2008. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA |