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Deposito del 07/11/2008 (dalla 361 alla 367)

 
S.361/2008 del 03/11/2008
Udienza Pubblica del 21/10/2008, Presidente FLICK, Redattore SILVESTRI


Norme impugnate: Art. 15, c. 3°, della legge della Regione Calabria 11/08/2004, n. 18.

Oggetto: Sanità pubblica - Regione Calabria - Accreditamento degli istituti privati operanti nei settori della specialistica ambulatoriale e della diagnostica strumentale e di laboratorio - Sospensione fino alla determinazione del fabbisogno di prestazioni.

Dispositivo: illegittimità costituzionale
Atti decisi: ord. 827/2007
S.362/2008 del 03/11/2008
Udienza Pubblica del 07/10/2008, Presidente FLICK, Redattore MAZZELLA


Norme impugnate: Art. 1, c. 55°, della legge 23/08/2004, n. 243.

Oggetto: Lavoro e previdenza sociale - Trattamento pensionistico dei dipendenti di enti pubblici creditizi (in specie, Banco di Napoli) collocati a riposo anteriormente al 31 dicembre 1990 - Previsione del diritto alla perequazione del trattamento pensionistico derivante dalla clausola di aggancio alla retribuzione del pari grado in servizio - Spettanza del detto emolumento per il periodo compreso tra il 1° gennaio 1994 e la data della sua sospensione e successiva soppressione (rispettivamente, 26 luglio 1996 e 1° gennaio 1998) - Sopravvenienza di norma di interpretazione autentica tesa ad estendere, con efficacia retroattiva, alla citata categoria di pensionati il diverso istituto previsto dall'articolo 11 del decreto legislativo n. 503 del 1992 - Ritenuta applicabilità nei giudizi pendenti della detta norma, secondo cui gli aumenti a titolo di perequazione automatica delle pensioni previdenziali ed assistenziali si applicano, con decorrenza dal 1994, sulla base del solo adeguamento al costo vita con cadenza annuale ed effetto dal primo novembre di ogni anno.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 62 e 63/2008
O.363/2008 del 03/11/2008
Camera di Consiglio del 24/09/2008, Presidente FLICK, Redattore GALLO


Norme impugnate: Art. 3 del decreto legisl ativo 31/12/1992, n. 546.

Oggetto: Contenzioso tributario - Ricorso avverso cartella esattoriale ed iscrizione ipotecaria su immobili per debito tributario scaduto e non pagato - Eccepito difetto di giurisdizione del giudice tributario, in conseguenza della mancata inclusione della detta iscrizione ipotecaria nell'elenco degli atti impugnabili innanzi alle commissioni tributarie - Sopravvenienza di norma attributiva della giurisdizione al giudice tributario - Ritenuta inapplicabilità 'ratione temporis' della nuova disciplina nel giudizio 'a quo' - Omessa previsione del potere, in capo al giudice tributario che declini la giurisdizione, di disporre la continuazione del processo davanti al giudice fornito di giurisdizione, con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 90/2008
O.364/2008 del 03/11/2008
Camera di Consiglio del 08/10/2008, Presidente FLICK, Redattore GALLO


Norme impugnate: Art. 86 del decreto del Presidente della Repubblica 29/09/1973, n. 602.

Oggetto: Imposte e tasse - Riscossione delle imposte - Fermo di beni mobili registrati - Omessa determinazione legislativa di criteri e limiti al potere del concessionario della riscossione di disporre il fermo, nonché mancata previsione della obbligatoria motivazione del detto provvedimento con riferimento alla sussistenza del timore di perdere la garanzia del credito tributario e della necessaria proporzionalità rispetto al complessivo patrimonio del contribuente.

Dispositivo: manifesta inam missibilità
Atti decisi: ord. 125/2008
O.365/2008 del 03/11/2008
Camera di Consiglio del 08/10/2008, Presidente FLICK, Redattore NAPOLITANO


Norme impugnate: Artt. 35 e 41, c. 1° e 2°, del regio decreto 16/03/1942, n. 267, come sostituiti dagli artt. 31 e 39 del decreto legislativo 09/01/2006, n. 5.

Oggetto: Fallimento e procedure concorsuali - Funzioni del comitato dei creditori - Vigilanza sull'operato del curatore fallimentare - Atti di straordinaria amministrazione di valore superiore a cinquantamila euro e transazioni (in specie, atto di transazione e vendita a trattativa privata di quota di beni immobili) - Previsione dell'autorizzazione del comitato dei c reditori e della previa informativa al giudice delegato - Trasferimento dal giudice delegato al comitato dei creditori della potestà di autorizzare in via generale gli atti del curatore

In via subordinata: Fallimento e procedure concorsuali - Vigilanza sull'operato del curatore fallimentare - Assoggettamento degli atti di straordinaria amministrazione di valore superiore a cinquantamila euro e delle transazioni (in specie, atto di transazione e vendita a trattativa privata di quota di beni immobili) all'autorizzazione del comitato dei creditori, previa informativa al giudice delegato - Omessa attribuzione al giudice delegato del potere di impedire il perfezionamento di un atto ritenuto illegittimo o contrario agli interessi della generalità dei creditori ovvero del fallito.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 119/2008
O.366/2008 del 03/11/2008
Camera di Consiglio del 08/10/2008, Presidente FLICK, Redattore NAPOLITANO


Conflitto: Ammissibilità di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito del decreto del Ministro di grazia e giustizia 10/07/1971 e della circolare del Ministro di grazia e giustizia 06/02/1978, n. 1/1-36(65)705.

Oggetto: Legalizzazione di firme - Decreto del Ministro di grazia e giustizia 10 luglio 1971 con il quale la competenza a legalizzare le firme sugli atti e documenti formati nello Stato e da valere all'estero davanti ad Autorità estere, attribuita al Ministero di grazia e giustizia dall'art. 17, primo comma, della legge 4 gennaio 1968, n. 15, modificato dall'art. 4, primo comma, della legge 11 maggio 1971, n. 390, &e grave; delegata ai Procuratori della Repubblica presso i Tribunali nella cui giurisdizione territoriale gli atti medesimi sono formati - Circolare del Ministero di grazia e giustizia n.1/1-36(65) 705 del 6 febbraio 1978 (avente ad oggetto la Convenzione riguardante l'abolizione della legalizzazione degli atti pubblici stranieri adottata a l'Aja il 5 ottobre 1961 e ratificata con legge 20 dicembre 1966, n. 1253) con cui è attribuita alle Procure della Repubblica la competenza a deliberare le apostille - Lamentata attribuzione al potere giudiziario, con un provvedimento non avente natura normativa, di una competenza amministrativa propria del Ministero - Denunciata interferenza nell'esercizio della funzione giudiziaria, con lesione del principio di autonomia e indipendenza della magistratura - Interferenza nell'esercizio obbligatorio dell'azione penale spettante al pubblico ministero.

Dispositivo: inammissibile
Atti de cisi: confl. pot. amm. 13/2008
O.367/2008 del 03/11/2008
Camera di Consiglio del 22/10/2008, Presidente FLICK, Redattore DE SIERVO


Conflitto: Ammissibilità di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito degli artt. 1.10, 1.12 e 4.6, della legge 21/12/2005, n. 270 e dell'art. 17 della legge 20/12/1933, n. 533.

Oggetto: Elezioni - Legge elettorale - Attribuzione del premio di maggioranza alla lista o coalizione che abbia conseguito il maggior numero di consensi nelle elezioni - Assegnazione del premio di maggioranza medesimo sulla scorta del conseguimento di un 'quorum' minimo di consensi - Mancata previsione.

Dispositivo: i nammissibile
Atti decisi: confl. pot. amm. 8 e 9/2008

pronuncia successiva

SENTENZA N. 361

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Giovanni Maria FLICK         Presidente

- Francesco      AMIRANTE        Giudice

- Ugo            DE SIERVO          "

- Paolo          MADDALENA          "

- Alfio          FINOCCHIARO        "

- Alfonso        QUARANTA           "

- Franco         GALLO              "

- Luigi          MAZZELLA           "

- Gaetano        SILVESTRI          "

- Sabino         CASSESE            "

- Maria Rita     SAULLE             "

- Giuseppe       TESAURO            "

- Paolo Maria    NAPOLITANO         "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 3, della legge della Regione Calabria 11 agosto 2004, n. 18 (Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e finanziario - Collegato alla manovra di assestamento di bilancio per l'anno 2004 ai sensi dell'art. 3, comma 4, della legge regionale 4 febbraio 2002, n. 8), promosso dal Tribunale amministrativo regionale della Calabria, sede di Catanzaro, sezione prima, con ordinanza dell'8 giugno 2007, iscritta al n. 827 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell'anno 2008.

Visto l'atto di costituzione della Regione Calabria;

udito nell'udienza pubblica del 21 ottobre 2008 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;

udito l'avvocato Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Calabria.

Ritenuto in fatto

1. - Con ordinanza depositata l'8 giugno 2007 il Tribunale amministrativo regionale della Calabria, sede di Catanzaro, sezione prima, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 3, della legge della Regione Calabria 11 agosto 2004, n. 18 (Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e finanziario - Collegato alla manovra di assestamento di bilancio per l'anno 2004 ai sensi dell'art. 3, comma 4, della legge regionale 4 febbraio 2002, n. 8), per violazione degli artt. 3, 97 e 117 della Costituzione.

La norma censurata stabilisce che «Fino alla determinazione del fabbisogno di prestazioni di specialistica ambulatoriale, di diagnostica strumentale e di laboratorio, da definirsi sulla base degli standards indicati dall'Agenzia per Servizi Sanitari Regionali, non possono essere rilasciati accreditamenti, fatte salve le fattispecie regolate dalle disposizioni di sanatoria previste dalla legge regionale n. 8/2003 così come modificata e integrata dalla legge regionale n. 30/2003, le cui strutture interessate si intendono avere titolo, in base alle predette disposizioni, all'autorizzazione, ove sprovviste, ed all'accredita mento».

1.1. - Il rimettente è investito di un ricorso proposto dalla Biogenet s.r.l. avverso il provvedimento n. 8550 del 7 aprile 2006 della Direzione generale, Dipartimento tutela della salute, politiche sanitarie e sociali, della Regione Calabria, avente ad oggetto il «diniego di "Accreditamento per attività di diagnostica strumentale e di laboratorio. Prestazioni specialistiche di genetica medica"».

Il giudice a quo riferisce che la società ricorrente, costituita nel dicembre 1998, gestisce un laboratorio specialistico in genetica medica e forense, autorizzato dalla Regione in data 11 dicembre 2001, con atto n. 131845. In data 25 gennaio 2006 la Biogenet s.r.l. ha presentato domanda di accreditamento; con nota dell'8 febbraio 2006 il Dipartimento tutela della salute, politiche sanitarie e sociali, della Regione Calabria ha comunicato i motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza. Successivamente, acquisite le deduzioni della società istante, la Regione, con provvedimento n. 8550 del 7 aprile 2006, assunto dal citato Dipartimento, ha negato l'accreditamento «rilevando che, secondo il disposto dell'art. 15, comma 3, della legge regionale n. 18 del 2004, non possono essere rilasciati nuovi accreditamenti fino alla determinazione del fabbisogno di prestazioni di specialistica ambulatoriale, di diagnostica strumentale e di laboratorio, da definirsi sulla base degli standards indicati dall'Agenzia per i Servizi Sanitari Regionali».

Nel giudizio principale la Biogenet s.r.l. assume l'illegittimità del provvedimento impugnato, deducendo: a) la violazione dell'art. 15 della legge reg. Calabria n. 18 del 2004 e dell'art. 8 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), nonché l'eccesso di potere per travisamento dei fatti, difetto dei presupposti, illogicità e contraddittorietà; b) l'illegittimità costituzionale dell'art. 15, comma 3, della legge reg. Calabria n. 18 del 2004, per vio lazione degli artt. 3, 32, 41, 97, 117 Cost.

1.2. - Precisato il contenuto del ricorso e dell'atto di costituzione in giudizio della Regione Calabria, il Tribunale rimettente osserva come «i contenuti del dato normativo siano sufficientemente chiari e tali da escludere la possibilità, in vigenza della norma, dell'accreditamento di strutture eroganti prestazioni di specialistica ambulatoriale, di diagnostica strumentale e di laboratorio, perlomeno al di fuori dei casi fatti salvi dalla stessa norma in questione».

Di conseguenza, sempre secondo il giudice a quo, la disposizione oggetto dell'eccezione di illegittimità costituzionale prospettata dalla ricorrente non sarebbe suscettibile di una interpretazione diversa da quella assunta nel giudizio amministrativo.

1.3. - Il TAR solleva, quindi, questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 3, della legge reg. Calabria n. 18 del 2004, in riferimento ai parametri di cui agli artt. 3, 97 e 117 Cost.

Il rimettente precisa che la realizzazione di strutture sanitarie e l'esercizio di attività sanitarie, l'esercizio di attività sanitarie per conto del Servizio sanitario nazionale e l'esercizio di attività sanitarie a carico dello stesso Servizio sono subordinate, rispettivamente, al rilascio delle autorizzazioni di cui all'articolo 8-ter del d.lgs. n. 502 del 1992, all'accreditamento istituzionale di cui all'art. 8-quater del medesimo d.lgs. n. 502, nonché alla stipulazione degli accordi contrattuali di cui al successivo art. 8-quinquies.

In particolare, osserva ancora il giudice a quo, il menzionato art. 8-quater stabilisce che «L'accreditamento istituzionale è rilasciato dalla regione alle strutture autorizzate, pubbliche o private e ai professionisti che ne facciano richiesta, subordinatamente alla loro rispondenza ai requisiti ulteriori di qualificazione [rispetto a quelli necessari per l'autorizzazione], alla loro funzionalità rispetto agli indirizzi di programmazione regionale e alla verifica positiva dell'attività svolta e dei risultati raggiunti». Spetta alla Regione definire «il fabbisogno di assistenza secondo le funzioni sanitarie individuate dal Piano sanitario regionale per garantire i livelli essenziali e uniformi di assistenza, nonché gli eventuali l ivelli integrativi locali e le esigenze connesse all'assistenza integrativa di cui all'articolo 9».

Lo stesso rimettente aggiunge che, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale (sentenza n. 416 del 1995), «l'accreditamento è una operazione da parte di una autorità o istituzione (nella specie regione), con la quale si riconosce il possesso da parte di un soggetto o di un organismo di prescritti specifici requisiti (c.d. standard di qualificazione) e si risolve, come nella fattispecie, in iscrizione in elenco, da cui possono attingere per l'utilizzazione, altri soggetti (assistiti-utenti delle prestazioni sanitarie)». Nella pronunzia richiamata, la Corte costituzionale, con riferimento al disposto dell'art. 6 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), ha precisato che «viene riconosciuto un "diritto all'accreditamento delle strutture in possesso dei requisiti di cui all'art. 8, comma 4, del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 e successive modificazioni", escludendo in radice una scelta ampiamente discrezionale ed ancorando l'accreditamento al possesso di requisiti prestabiliti (strutturali, tecnologici e organizzativi minimi, a tutela della qualità e della affidabilità del servizio-prestazioni, in modo uniforme a livello nazionale per strutture erogatrici), stabiliti con atto di indirizzo e coordinamento emanato di intesa con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province autonome».

1.4. - In ragione di quanto sopra esposto, il Tribunale amministrativo regionale della Calabria ritiene che la norma di cui all'art. 15, comma 3, della legge reg. Calabria n. 18 del 2004 si ponga in contrasto con i canoni di ragionevolezza ed eguaglianza, di cui all'art. 3, primo comma, Cost. In particolare, il giudice a quo reputa «intrinsecamente irrazionale una norma che pone un blocco assoluto ed a tempo indeterminato degli accreditamenti in rilevanti settori, quali quello della specialistica ambulatoriale e della diagnostica strumentale e di laboratorio, e ciò in funzione della determinazione del relativo fabbisogno e, quindi, dello stesso elemento che, secondo la legislazione statale, deve costituire il punto di riferimento per l'esercizio della funzione discrezionale correlata al rilasc io degli accreditamenti».

Il rimettente osserva, ancora, come la norma censurata non si limiti a «sottolineare l'esigenza, del tutto scontata alla luce della legislazione vigente, di collegare il rilascio degli accreditamenti alla determinazione del fabbisogno», ma ponga «un divieto legislativo, non definito sotto il profilo temporale, tautologicamente correlato a tale operazione di determinazione».

Inoltre, prosegue il giudice amministrativo, «la condizione cui la norma subordina lo sblocco del sistema non appare realizzabile, giacché, come precisato nella nota del 18 maggio 2006 dell'Agenzia per i Servizi Sanitari Regionali, prodotta dalla Società ricorrente, non rientra tra i compiti istituzionali dell'Agenzia la fissazione di standard di riferimento ai fini della determinazione del fabbisogno delle prestazioni in questione, ai sensi e per gli effetti della norma di cui all'art. 8-quater del d.lgs. n. 502 del 1992». Pertanto, la norma censurata «contempla esplicitamente e cristallizza una situazione di discriminazione in danno di alcuni soggetti pur in possesso dei requisiti per l'accreditamento ed a favore di altri che, anche in forza di previsioni di sanatoria, si sono trovati ad operare per conto del SSN nell'ambito di un sistema sostanzialmente chiuso».

1.5. - L'art. 15, comma 3, della legge reg. Calabria n. 18 del 2004 lederebbe anche l'art. 117 Cost., «implicando una chiara violazione dei principi della normativa statale in materia, che, con l'introduzione del sistema dell'accreditamento istituzionale, ha inteso delineare un sistema aperto, basato essenzialmente sul possesso di requisiti di qualificazione». Secondo il giudice a quo, una norma come quella censurata, che condiziona il rilascio di nuovi accreditamenti «a condizioni vaghe ed incerte, se non addirittura irrealizzabili, reintroduce di fatto un sistema nel quale l'erogazione delle prestazioni è assicurata da una cerchia definita di soggetti, senza possibilità di accesso per altri».

1.6. - Il Tribunale amministrativo ritiene che la norma posta ad oggetto della questione sollevata contrasti anche con il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all'art. 97 Cost. Infatti, l'introduzione del sistema dell'accreditamento istituzionale, basato sul possesso da parte degli operatori di determinati standard qualitativi e quantitativi di carattere strutturale e funzionale, è finalizzata a realizzare obiettivi di efficienza ed efficacia, il cui perseguimento è direttamente correlato alla soddisfazione del principio di buon andamento. La norma censurata, invece, impedirebbe «sostanzialmente e per un arco di tempo non preventivabile l'operare dei meccanismi propri dell'accreditamento istituzionale, ostando ad un'effettiva selezione degli operatori, basa ta sui requisiti di qualificazione».

1.7. - Infine, quanto alla rilevanza della questione, il rimettente precisa che le uniche ragioni poste a fondamento del provvedimento di diniego, oggetto di impugnazione da parte della società ricorrente, sono quelle connesse al divieto imposto dalla norma censurata. Pertanto, l'eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale avrebbe diretta incidenza sulla valutazione di legittimità del provvedimento impugnato, determinando il venir meno dell'unico elemento in base al quale è stato disposto il diniego.

2. − La Regione Calabria, in persona del Presidente pro tempore della Giunta, si è costituita in giudizio, eccependo l'inammissibilità e l'infondatezza della questione di legittimità costituzionale e rinviando ai successivi atti la compiuta articolazione delle proprie difese.

3. - In data 8 ottobre 2008 la Regione Calabria ha depositato una memoria integrativa con la quale insiste nelle conclusioni già rassegnate nell'atto di costituzione.

3.1. - Per confutare le tesi del giudice a quo la difesa regionale ritiene opportuno riassumere l'evoluzione normativa e giurisprudenziale dell'istituto dell'accreditamento. In particolare, la parte costituita ricorda che «le principali finalità» della riforma del sistema sanitario, operata a partire dal d.lgs. n. 502 del 1992, possono essere identificate «nel perseguimento di obiettivi di contenimento della spesa, nell'equiparazione degli operatori sanitari, purché muniti dei necessari requisiti, indipendentemente dalla loro natura pubblica o privata, nonché nell'esigenza di garantire la libera scelta tra operatori sanitari da parte degli assistiti».

La Regione sottolinea, inoltre, come l'accesso al mercato delle prestazioni sanitarie con oneri a carico del Servizio sanitario nazionale sia articolato in tre fasi, consistenti, la prima, nell'autorizzazione all'esercizio delle attività sanitarie, la seconda, nell'accreditamento, e la terza, nella stipula degli accordi contrattuali. Pertanto, l'accreditamento è «concesso dalla Regione solo dopo aver verificato, attraverso un procedimento amministrativo, la sussistenza di due presupposti: in primo luogo, il possesso di requisiti di qualificazione del soggetto che aspira ad erogare prestazioni per conto del SSN, ulteriori rispetto a quelli necessari per ottenere l'autorizzazione, al fine di assicurare un livello eleva to di qualità al servizio offerto; in secondo luogo, [.] la funzionalità della struttura organizzativa rispetto alla programmazione regionale, che è valutata sul fabbisogno complessivo della Regione e sulla localizzazione sul territorio delle strutture sanitarie».

Da quanto appena detto la difesa regionale deduce che «l'accreditamento è un provvedimento amministrativo a carattere discrezionale che impone all'amministrazione titolare del potere di rilascio, la Regione, una valutazione tecnica e una strettamente connessa al fabbisogno di assistenza e alle risorse disponibili a livello regionale, così come risultano sintetizzate nel piano sanitario regionale».

La parte costituita aggiunge che l'evoluzione della normativa in materia «ha reso progressivamente più cogente e penetrante l'obbligo di pianificazione della spesa sanitaria da parte delle Regioni». In particolare, queste ultime sono tenute a stabilire i tetti di spesa sanitaria, affinché siano ripartite razionalmente le risorse finanziarie a disposizione delle Aziende sanitarie locali; di conseguenza, spetta alla Regione «garantire un sistema aperto (a tutti coloro che dimostrino di avere i requisiti e le capacità per erogare prestazioni sanitarie adeguate) e dunque concorrenziale e in grado di tutelare la libertà di scelta del cittadino», ma al tempo stesso l'ente regionale deve «assicurare l'efficienza del sistema», garantendone la tenuta finanziaria.

In tal senso sembrerebbe muoversi, secondo la Regione, una recente pronuncia del Consiglio di Stato (sez. V, sentenza 25 agosto 2008, n. 4076) nella quale si precisa come oggi, a differenza che in passato, l'accreditamento non debba più essere considerato un diritto, in quanto «la Regione - tenuta ad individuare, per il tramite della programmazione, la quantità di prestazioni erogabili nel rispetto di un tetto di spesa massimo - può accreditare nuove strutture solo se sussiste un effettiv o fabbisogno assistenziale». Pertanto, «l'accreditamento assume i caratteri tipici di un atto attributivo di compiti pubblici e di natura discrezionale in quanto manifestazione di un potere che trova i suoi presupposti logico-giuridici, oltre che nell'effettivo fabbisogno assistenziale, quale risulta in concreto dal disposto del piano sanitario regionale, anche nell'ineludibile esigenza di controllo della spesa sanitaria nazionale».

La decisione in questione attesterebbe che «esiste un principio di apertura del sistema sanitario a favore, e quindi senza alcun tipo di discriminazione, di tutti i soggetti che garantiscono requisiti e capacità adeguate all'erogazione delle prestazioni sanitarie», ma chiarirebbe, allo stesso tempo, che «tale principio deve essere naturalmente contemperato con quello della programmazione e del contenimento della spesa sanitaria».

La necessità di un siffatto bilanciamento si evincerebbe, secondo la ricostruzione operata dalla Regione, anche dalla giurisprudenza costituzionale, la quale «ha posto il problema della spesa sanitaria (o meglio del suo contenimento) come paradigma nella gestione ed organizzazione del sistema sanitario regionale». In particolare, osserva la parte costituita, l'affermazione di un «diritto all'accreditamento» delle strutture in possesso dei requisiti prescritti (sentenza n. 416 del 1995) sarebbe stata superata dalla successiva evoluzione normativa e giurisprudenziale (sentenze n. 111 del 2005 e n. 98 del 2007), che ha posto in luce l'esigenza di un contenimento della spesa sanitaria.

3.2. - Risulterebbe chiara, nella prospettiva delineata dalla difesa regionale, la finalità della norma censurata, che consisterebbe nella necessità di contenere la spesa pubblica, sospendendo il rilascio di ulteriori accreditamenti in attesa che il quadro del fabbisogno regionale risulti pienamente delineato. Pertanto, l'art. 15, comma 3, della legge reg. Calabria n. 18 del 2004, permetterebbe alla Regione «di predisporre una spesa sanitaria che sia pienamente congrua rispetto a quelle esigenze e non risulti, al contrario, incontrollata e sproporzionata e dunque non diventi spreco di risorse pubbliche».

Inoltre, la norma in questione sarebbe «coerente con le più recenti scelte operate dal legislatore nazionale», il quale, con l'art. 1, comma 796, lettere s), t) ed u), della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge finanziaria 2007), ha previsto che a decorrere dal 1° gennaio 2008 cessino tutti gli accreditamenti transitori delle strutture private già convenzionate che non siano stati confermati entro il 31 dicembre 2007 (lettera s), che le Regioni provvedano «ad adottare provvedimenti finalizzati a garantire che dal 1° gennaio 2010 cessi no gli accreditamenti provvisori delle strutture private, di cui all'articolo 8-quater, comma 7, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, non confermati dagli accreditamenti definitivi di cui all'articolo 8-quater, comma 1, del medesimo decreto legislativo n. 502 del 1992» (lettera t), che le Regioni provvedano «ad adottare provvedimenti finalizzati a garantire che, a decorrere dal 1° gennaio 2008, non possano essere concessi nuovi accreditamenti, ai sensi dell'articolo 8-quater del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni, in assenza di un provvedimento regionale di ricognizione e conseguente determinazione, ai sensi del comma 8 del medesimo articolo 8-quater del decreto legislativo n. 5 02 del 1992» (lettera u).

In definitiva, sia il legislatore statale sia quello regionale della Calabria avrebbero «operato scelte utili ad evitare una spesa farmaceutica eccessiva ed ingiustificata, un consumo di attività specialistica superiore al bisogno di assistenza e un uso inappropriato del ricovero ospedaliero». Pertanto, risulterebbe «pienamente coerente [.] parametrare il fabbisogno delle prestazioni che le strutture accreditate dovranno erogare a standard di consumo medio del cittadino, ricavabili dalle esperienze di monitoraggio della domanda e determinati sulla base di una stima condotta in riferimento alla struttura della popolazione».

3.3. - La difesa regionale contesta, inoltre, che la norma censurata subordini lo sblocco degli accreditamenti ad un condizione non realizzabile. Al riguardo, si osserva che con la delibera della Giunta della Regione Calabria 13 febbraio 2007, n. 94 (Approvazione delle «Linee di indirizzo per il riordino della organizzazione e delle attività sanitarie»), sarebbe stato determinato «il fabbisogno prestazionale, fissando il parametro in 12 prestazioni annue per abitante». Da ciò deriverebbe l'inammissibilità della relativa questione di legittimità costituzionale.

3.4. - La Regione ritiene, infine, del tutto priva di fondamento l'asserita discriminazione tra soggetti teoricamente in possesso dei requisiti per l'accreditamento e soggetti che, anche in forza di previsioni di sanatoria, si sono trovati ad operare per conto del Servizio sanitario nazionale nell'ambito di un sistema sostanzialmente chiuso. A tal proposito, la parte costituita assume che la ratio delle deroghe fatte salve dalla norma censurata sia ravvisabile «nella necessità di non determinare la paralisi del sistema delle prestazioni sanitarie e di salvaguardare i livelli essenziali di assistenza, garantendo la continuità nell'erogazione dei servizi sanitari».

La difesa regionale conclude osservando che il giudice a quo sarebbe incorso «in una prospettazione del tutto erronea del giudizio di comparazione volto ad evidenziare l'asserita violazione dell'art. 3 Cost.», in quanto tale comparazione «non può essere condotta avendo come parametro di riferimento norme derogatorie rispetto a quelle sottoposte allo scrutinio di legittimità costituzionale». Alla luce di quanto appena detto la questione risulterebbe manifestamente inammissibile.

Consi derato in diritto

1. - Il Tribunale amministrativo regionale della Calabria, sede di Catanzaro, sezione prima, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 15, comma 3, della legge della Regione Calabria 11 agosto 2004, n. 18 (Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e finanziario - Collegato alla manovra di assestamento di bilancio per l'anno 2004 ai sensi dell'art. 3, comma 4, della legge regionale 4 febbraio 2002, n. 8), per violazione degli artt. 3, 97 e 117 della Costituzione.

2. - Preliminarmente, va rilevato che l'art. 15, comma 1, nono alinea, della legge della Regione Calabria 18 luglio 2008, n. 24 (Norme in materia di autorizzazione, accreditamento, accordi contrattuali e controlli delle strutture sanitarie e sociosanitarie pubbliche e private), ha disposto l'abrogazione degli artt. 14 e 15 della legge reg. Calabria n. 18 del 2004 (e quindi anche della norma oggetto dell'odierno giudizio di legittimità costituzionale), a decorrere dalla data di entrata in vigore del regolamento di cui all'art. 11, comma 5, della stessa legge reg. n. 24 del 2008, «al fine di evitare l'interruzione di attività amministrative».

Siffatto regolamento non risulta emanato al momento della presente decisione ed al contempo risulta scaduto il termine di 30 giorni entro il quale il medesimo avrebbe dovuto essere adottato dalla Giunta regionale, ai sensi del citato art. 11, comma 5, della legge reg. Calabria n. 24 del 2008. La norma sopravvenuta, quindi, non ha ancora prodotto - né è certo se mai produrrà - l'abrogazione di quella posta ad oggetto dell'odierno giudizio di legittimità costituzionale. Di conseguenza, questa Corte è chiamata a valutare la conformità a Costituzione del censurato art. 15, comma 3, della legge reg. Calabria n. 18 del 2004, senza che rilevi in alcun modo la sopravvenuta entrata i n vigore della legge reg. Calabria n. 24 del 2008.

3. - La questione è fondata.

3.1. - L'art. 8-bis del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell'articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), stabilisce che l'esercizio di attività sanitarie per conto ed a carico del Servizio sanitario nazionale è subordinato all'autorizzazione, all'accreditamento ed alla stipulazione degli accordi contrattuali, secondo le modalità prescritte dalle norme contenute nel medesimo atto legislativo. Per quanto riguarda, in particolare, l'accreditamento istituzionale, l'art. 8-quater attribuisce alle Regioni la competenza a rilasciarlo, subordinatamente alla rispondenza dei richiedenti a req uisiti ulteriori di qualificazione, alla loro funzionalità rispetto agli indirizzi di programmazione regionale e alla verifica positiva dell'attività svolta e dei risultati raggiunti. La norma citata aggiunge: «Al fine di individuare i criteri per la verifica della funzionalità rispetto alla programmazione nazionale e regionale, la regione definisce il fabbisogno di assistenza secondo le funzioni sanitarie individuate dal Piano sanitario regionale per garantire i livelli essenziali e uniformi di assistenza, nonché gli eventuali livelli integrativi locali e le esigenze connesse all'assistenza integrativa di cui all'art. 9. La regione provvede al rilascio dell'accreditamento ai professionisti, nonché a tutte le strutture pubbliche ed equiparate che soddisfano le condizioni di cui al primo periodo del presente comma, alle strutture private non lucrative di cui all'articolo 1, comma 18, e alle strutture private lucrative». Il comma 5 dello stesso artico lo stabilisce che sono le Regioni a definire, in conformità ai criteri generali uniformi previsti dallo Stato, i requisiti per l'accreditamento, nonché il procedimento per la loro verifica.

Il sistema basato sull'accreditamento e sulla successiva stipula di accordi contrattuali delineato dalle norme sopra citate non è stato sinora pienamente attuato. Di conseguenza permangono a tutt'oggi strutture sanitarie che forniscono prestazioni per conto ed a carico del Servizio sanitario nazionale (SSN) in virtù di accreditamenti "transitori" o "provvisori". Per porre fine a questa situazione, il legislatore statale, con l'art. 1, comma 796, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato. Legge finanziaria 2007), ha adottato misure per far cessare gli accreditamenti "provvisori" e "transitori", che non siano stati confermati da accreditamenti definitivi, e nello stesso tempo ha posto un limite al rilascio di nuovi accreditamenti da parte delle Regioni, in assenza di un p rovvedimento di ricognizione e determinazione del fabbisogno di prestazioni sanitarie, allo scopo di evitare un ulteriore aggravio della spesa in tale settore.

3.2. - Ricostruiti brevemente il quadro e l'evoluzione della legislazione statale in materia di accreditamento istituzionale delle strutture sanitarie, si deve rilevare che la disposizione regionale censurata per un verso pone un blocco a tempo indeterminato al rilascio di nuovi accreditamenti e per altro verso fa salve «le fattispecie regolate dalle disposizioni di sanatoria previste dalla legge regionale n. 8 del 2003 così come modificata e integrata dalla legge regionale n. 30 del 2003, le cui strutture interessate si intendono avere titolo, in base alle predette disposizioni, all'autorizzazione, ove sprovviste, ed all'accreditamento».

In sintesi, in base alla norma censurata, esistono in Calabria strutture sanitarie che, pur se sprovviste di autorizzazione, «si intendono» aver titolo non solo a quest'ultima, ma anche all'accreditamento, che richiede, secondo la disciplina riportata nel paragrafo precedente, «requisiti ulteriori». Vi sono, al tempo stesso, strutture sanitarie autorizzate, le quali, pur in possesso dei requisiti ulteriori per essere accreditate, si vedono escluse a causa del blocco previsto dalla norma censurata.

La situazione di cui sopra è prodotta, per un verso, mediante la proroga sine die di una precedente norma di sanatoria e, per altro verso, collegando soltanto a quest'ultima il titolo ad ottenere anche l'accreditamento. Ne consegue che una struttura potrebbe non avere i requisiti né per l'autorizzazione né per l'accreditamento e tuttavia aver ottenuto ope legis l'una e l'altro, a differenza di altre strutture che, pur avendo i requisiti previsti dalla legge, non possono ottenere né l'una né l'altro.

L'ingiustificata disparità di trattamento si manifesta in modo ancor più rilevante se si considera che la disposizione censurata risale al 2004 e la sanatoria, in essa richiamata, al 2003. L'esigenza di ancorare i criteri per il rilascio di accreditamenti all'individuazione del fabbisogno di assistenza, allo scopo di contenere in modo ragionevole la spesa sanitaria, è dunque stata disattesa dalla Regione Calabria, la quale, a detta della stessa difesa regionale, solo con delibera della Giunta regionale del 13 febbraio 2007, n. 94 (Approvazione delle «Linee di indirizzo per il riordino della organizzazione e delle attività sanitarie»), avrebbe provveduto a determinare il fabbisogno di prestazioni. Occorre sottolineare tuttavia che, anche dopo tale atto di governo, il blocco è rimasto operativo e continua a spiegare i suoi effetti, perpetuando una situazione di chiusura del sistema che, da una parte, impedisce a nuovi operatori di accedere all'accreditamento e, dall'altra, continua a consentire ad alcune strutture (quelle beneficiate dalla "sanatoria") l'esercizio di attività sulla base della presunzione assoluta, contenuta nella norma censurata, del possesso dei titoli richiesti dalle leggi vigenti. Difatti la delibera di Giunta, sopra citata, non realizza la condizione prevista dalla norma posta ad oggetto della questione in esame, in quanto da una parte non contiene alcun riferimento specifico alle prestazioni di diagnostica strumentale e di laboratorio e dall'altra si limita ad individuare standard di consumo, senza determinare il fabbisogno, che deve essere quantificato sulla base degli standard medesimi e non si identifica quindi con questi, come esplicitame nte prescrive la stessa norma.

Questa Corte, in materia di strutture sanitarie autorizzate e convenzionate con il SSN, ha precisato che le ripetute proroghe di situazioni illegali e la sanatoria di queste ultime, operate da leggi regionali, devono ritenersi costituzionalmente illegittime perché, in tal modo, o si sana soltanto la situazione di alcuni e non quella di altri, con violazione del principio di uguaglianza, oppure si proroga indefinitamente una situazione provvisoria, eludendo gli obblighi di adeguamento previsti dalle disposizioni statali (sentenza n. 93 del 1996).

3.3. - Non coglie nel segno l'osservazione della difesa regionale tendente a dimostrare che il rimettente chiederebbe a questa Corte di estendere gli effetti di una norma derogatoria, erroneamente assunta come tertium comparationis. In realtà il petitum del presente giudizio non è l'estensione della sanatoria, già disposta sino a una certa data, a soggetti che abbiano richiesto l'accreditamento in un momento successivo. Il giudice a quo non mira infatti ad ampliare la portata soggettiva della presunzione di possesso dei requisiti per l'autorizzazione, ma semplicemente a rimuovere un blocco ritenuto ingiustificato e irragionevole, che, oltre a limitare la libertà di scelta del cittadino - prevista dalla legislazione vigente e riconosciuta come meritevole di tutela da questa Corte -, provoca una differenza di trattamento tra strutture sanitarie che aspirano all'accreditamento, all'interno delle quali si opera un'ingiustificata distinzione fra quelle che si giovano della sanatoria e quelle che, pur avendo i requisiti, restano escluse sine die. Un ulteriore effetto può essere quello - discendente dalla suddetta sanatoria - di parificare situazioni regolari e irregolari.

Il blocco a tempo indeterminato non può essere giustificato dall'esigenza di contenere la spesa sanitaria, giacché tale legittimo e necessario obiettivo non può essere conseguito a costo della violazione del principio di uguaglianza, che impone la parità di trattamento tra i soggetti che si trovano in situazioni equivalenti. Nel caso di specie, si deve rilevare come siano favoriti coloro che potrebbero non avere i requisiti previsti dalla legge, mentre si impedisce, a chi chiede di essere sottoposto a verifica, di dimostrare il possesso dei requisiti medesimi, per il solo fatto di non essere rientrato nella sanatoria.

3.4. - Il richiamo alla legge finanziaria 2007, operato dalla difesa della Regione costituita, non è conferente, in primo luogo perché nel presente giudizio si valuta la conformità della norma regionale censurata ai principi di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. e non la conformità o meno della legge regionale alla normativa nazionale; in secondo luogo perché, nella legge statale citata - a prescindere da ogni valutazione su di essa - non si perpetuano situazioni precedenti "sanate" indipendentemente dal possesso dei requisiti di legge, ma si prescrive, al contrario, la cessazione, a decorrere dal 1° gennaio 2008, degli accreditamenti transitori non confermati da accreditamenti provvisori o definitivi e la cessazione, a far data dal 1° gennaio 2010, degli accreditamenti provvisori non confermati da ac creditamenti definitivi. La sospensione di nuovi accreditamenti non si accompagna quindi, nella legge statale, alla proroga a tempo indeterminato di quelli esistenti, presumendone la regolarità senza una verifica del possesso dei requisiti, ma è subordinata alla ricognizione del fabbisogno, mentre, nello stesso tempo, viene previsto, per le strutture già accreditate in via transitoria o provvisoria, un iter di regolarizzazione con date certe. Si tratta pertanto di normative, quella della Regione Calabria e quella nazionale, sostanzialmente diverse, accomunate solo dalla sospensione temporanea degli accreditamenti. Mentre però nella disciplina nazionale la sospensione si accompagna ad una progressiva e obbligatoria eliminazione delle situazioni precarie pregresse, in quella della Regione Calabria la sospensione si accompagna al congelamento delle posizioni esistenti, senza la previsione di un percorso di regolarizz azione.

3.5. - Non la semplice subordinazione dei nuovi accreditamenti alla ricognizione e determinazione del fabbisogno (condizione necessaria per evitare sprechi), ma l'effetto congiunto della perpetuazione della sanatoria, in favore di strutture delle quali la norma regionale censurata presume la regolarità, e della sospensione a tempo indeterminato di nuovi accreditamenti ha creato e mantiene un doppio regime giuridico irragionevolmente discriminatorio e pertanto incompatibile con il rispetto del principio di uguaglianza contenuto nell'art. 3, primo comma, Cost.

4. - Restano assorbiti gli altri profili di illegittimità costituzionale prospettati nell'ordinanza introduttiva del presente giudizio.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 15, comma 3, della legge della Regione Calabria 11 agosto 2004, n. 18 (Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e finanziario - Collegato alla manovra di assestamento di bilancio per l'anno 2004 ai sensi dell'art. 3, comma 4, della legge regionale 4 febbraio 2002, n. 8).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2008.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 7 novembre 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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SENTENZA N. 362

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-   Giovanni Maria  FLICK           Presidente

-   Ugo             DE SIERVO       Giudice

-   Paolo           MADDALENA           "

-   Alfio           FINOCCHIARO         "

-   Alfonso         QUARANTA            "

-   Franco          GALLO               "

-   Luigi           MAZZELLA            "

-   Gaetano         SILVESTRI           "

-   Sabino          CASSESE             "

-   Maria Rita      SAULLE              "

-   Giuseppe        TESAURO             "

-   Paolo Maria     NAPOLITANO          "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 55, della legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all'occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria), promossi con due ordinanze del 12 ottobre 2007 dalla Corte di cassazione nei procedimenti civili vertenti tra Intesa San Paolo S.p.A e Accinni Pia ed altri e tra Intesa San Paolo S.p.A. e Nugnes Giuseppe ed altri, iscritte ai nn. 62 e 63 del registro ordinanze 2008 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell'anno 2008.

Visti gli atti di costituzione di Intesa San Paolo S.p.A., di Lupoli Vittorio ed altri e di Nugnes Sergio ed altri nella qualità di eredi di Nugnes Giuseppe ed altri, nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell'udienza pubblica del 7 ottobre 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella;

uditi gli avvocati Roberto Pessi e Paolo Tosi per Intesa San Paolo S.p.A., Giuseppe Ferraro per Lupoli Vittorio ed altri e per Nugnes Sergio ed altri nella qualità di eredi di Nugnes Giuseppe ed altri e l'avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. - Nel corso di due giudizi civili aventi entrambi ad oggetto l'accertamento del diritto di alcuni ex dipendenti del Banco di Napoli alla perequazione automatica secondo la disciplina dettata dal decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357 (Disposizioni sulla previdenza degli enti pubblici creditizi), della quota di pensione a carico dell'istituto di credito, la Corte di cassazione, con due distinte ordinanze, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 102 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 55, della legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pen sionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all'occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria).

Nelle ordinanze di rimessione, di identico tenore, la Corte di cassazione premette che, nei due giudizi a quibus, i giudici d'appello hanno dichiarato il diritto degli attori (collocati a riposo anteriormente al 31 dicembre 1990) alla perequazione automatica delle pensioni in base alla disciplina del d. lgs. n. 357 del 1990, fino al 26 luglio 1996. Tali sentenze hanno fatto applicazione dei principi affermati, dalla stessa Corte di cassazione, nelle pronunce rese a sezioni unite n. 9023 e n. 9024 del 2001 (alle quali si è uniformata la successiva giurisprudenza), secondo cui il sistema di perequazione delle pensioni vigente per i dipendenti degli enti pubblici creditizi già pensionati alla data del 31 dicembre 1990 è sopravvissuto alla legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale) ed al decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell'articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), ritenuti applicabili esclusivamente ai lavoratori ancora in servizio alla predetta data del 31 dicembre 1990.

Tuttavia, successivamente alla pronuncia delle sentenze di appello, è entrata in vigore la legge n. 243 del 2004, il cui art. 1, comma 55, dispone che «Al fine di estinguere il contenzioso giudiziario relativo ai trattamenti corrisposti a talune categorie di pensionati già iscritti a regimi previdenziali sostitutivi, attraverso il pieno riconoscimento di un equo e omogeneo trattamento a tutti i pensionati iscritti ai vigenti regimi integrativi, l'articolo 3, comma 1, lettera p), della legge 23 ottobre 1992, n. 421, e l'articolo 9, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, devono intendersi nel senso che la perequazione automatica delle pensioni prevista dall'articolo 11 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, si applica al complessivo trattamento percepito dai pensionati di cui all'articolo 3 del decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357. All'assicurazione generale obbligatoria fa esclusivamente carico la perequazione sul trattamento pensionistico di propria pertinenza».

La rimettente prosegue affermando che la San Paolo IMI S.p.A. ha proposto ricorsi per cassazione contro le due sentenze di secondo grado, deducendo, quale primo motivo di impugnazione, il sopravvenuto art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004. Di qui la rilevanza della questione di legittimità costituzionale di tale norma, la cui applicazione ai giudizi a quibus determinerebbe l'accoglimento dei ricorsi, così come già stabilito dalla giurisprudenza di legittimità in precedenti occasioni.

Circa la non manifesta infondatezza della questione, la Corte di cassazione premette che l'art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 ha sicuramente natura interpretativa, perché esso utilizza un'espressione («devono intendersi») equivalente all'espressione «devono interpretarsi».

Il giudice a quo, poi, riconosce che una norma di interpretazione autentica non è illegittima per il solo fatto di discostarsi dall'interpretazione sostenuta dalla giurisprudenza univoca o maggioritaria e che essa non può ritenersi irragionevole ove si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto. Secondo la rimettente, quest'ultima circostanza ricorre nella fattispecie e, tuttavia, la fissazione con norma interpretativa di una delle possibili letture del testo originario escluderebbe l'irragionevolezza della norma medesima solamente quando si accompagnasse ad una situazione di incertezza del dato normativo. Infatti, poiché l'irragionevolezza ricorre allorché sussista un'evid ente sproporzione tra i mezzi approntati ed il fine asseritamente perseguito, sarebbe insufficiente, per escludere il dubbio di ragionevolezza, la semplice circostanza della corrispondenza del significato attribuito dalla legge interpretativa ad una delle possibili letture del testo interpretato, dovendosi invece esaminare tutte le peculiarità connotanti la vicenda legislativa.

Nella fattispecie, dai lavori preparatori e dalla testuale formulazione dell'art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 risulta espressamente che il legislatore si è assegnato la finalità di estinguere il contenzioso giudiziario relativo ai trattamenti corrisposti ad alcune categorie di pensionati, obiettivo da perseguire attraverso il pieno riconoscimento di un equo e omogeneo trattamento a tutti i pensionati iscritti ai vigenti regimi integrativi. Pertanto, ad avviso della rimettente, la ragionevolezza dell'intervento legislativo in esame deve essere valutata con riferimento alla suindicata finalità. 

Al riguardo, il giudice a quo evidenzia che la norma di interpretazione autentica è intervenuta dopo molto tempo (circa dodici anni) dall'entrata in vigore di quelle oggetto dell'interpretazione medesima; inoltre, la norma originaria riguarda i soggetti collocati in pensione entro il 31 dicembre 1990 e dunque una categoria destinata a ridursi col trascorrere del tempo e, presumibilmente, assai meno numerosa nel 2004 di quanto non fosse nel 1990; infine, la pluralità di sensi desumibili dalle norme oggetto dell'interpretazione autentica ha dato luogo ad un nutrito contenzioso giudiziario pervenuto, sin dalla seconda metà degli anni novanta, all'esame della Corte di cassazione che su di esso si è pronunciata, dapprima con sent enze in senso diverso, ma successivamente con le sentenze n. 9023 e 9024 del 2001 delle sezioni unite che hanno composto i contrasti interpretativi esistenti, enunciando un indirizzo interpretativo al quale si sono prontamente conformate le successive pronunce di legittimità e di merito. 

In questa concreta situazione, l'intervento legislativo di oltre tre anni successivo alle pronunce delle sezioni unite ed al conseguente assestamento in senso univoco della giurisprudenza, rischierebbe di alimentare (piuttosto che estinguere) il contenzioso giudiziario considerato che, in ragione del lungo tempo trascorso dal pensionamento, deve presumersi insignificante il numero dei pensionati che non abbiano ancora intrapreso azione giudiziaria: dunque il contenzioso sul quale può concretamente incidere la norma interpretativa è quello già pendente, rispetto al quale la certezza giuridica raggiunta, grazie alla pronuncia delle sezioni unite, aveva offerto un parametro di assestamento e che invece, per effetto del mutamento del quadro giuridico, riceve nuovo impulso ed in centivo.

Alla luce di tali considerazioni, la rimettente ritiene che il mezzo utilizzato dal legislatore sia sproporzionato e addirittura controproducente rispetto al fine asseritamente perseguito.

Esso, inoltre, fa dipendere l'assetto definitivo degli interessi delle parti in conflitto da un fattore - quale la durata della lite - di per sé contrario alla Costituzione (art. 111, secondo comma, Cost.) ed introduce una disparità di trattamento tra quanti hanno ottenuto, nei tre anni che separano la norma censurata dalle pronunce delle sezioni unite, una sentenza definitiva e quanti hanno ancora una lite pendente.

Infine, ad avviso del giudice a quo, la norma della cui legittimità si dubita sacrifica senza plausibili ragioni il ruolo nomofilattico della Corte di cassazione, favorendo le spinte a "premere" sul legislatore per piegarne la funzione, non all'imposizione di regole generali e astratte, ma ad un ruolo di giudice di quarta istanza, con ulteriore alimento ad un contenzioso giudiziario intrapreso solo nella speranza di un intervento ad hoc.

2. - Si è costituita la Intesa San Paolo S.p.A. che chiede che la questione sia dichiarata infondata.

La società deduce che, poiché la norma censurata attribuisce alle disposizioni interpretate uno dei possibili significati già in esse contenuto, non possono esservi dubbi sulla sua ragionevolezza la quale, comunque, non può essere vagliata alla luce delle vicende dell'applicazione giurisprudenziale delle norme interpretate, poiché, pur a fronte di una formulazione più o meno criptica di queste ultime, la composizione dei dissensi da parte delle sezioni unite e della sezione lavoro della Corte di cassazione non priva le norme medesime dell'originario equivoco, sempre suscettibile di favorire nuovi orientamenti dissenzienti.

Ad avviso della Intesa San Paolo S.p.A., poi, la norma censurata non potrebbe essere giudicata irragionevole per la sua inidoneità al conseguimento dell'obiettivo dell'estinzione del contenzioso. Infatti, in primo luogo, la rimettente ignorerebbe l'altra finalità dichiarata dal legislatore e cioè quella di scongiurare le disparità di trattamento derivanti dall'interpretazione affermata dalle sezioni unite della Corte di cassazione. Obiettivo che deve essere considerato quello primario della norma censurata e di per sé sufficiente a ritenerla ragionevole.

In secondo luogo, ad avviso della società, la rimettente, nel valutare l'idoneità dell'art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 a realizzare l'obiettivo deflativo, si affida a mere illazioni prognostiche ovvero a valutazioni ex post prive di supporto documentale e di valenza retrospettiva. Al contrario, nel momento in cui il legislatore è intervenuto, la norma interpretativa poteva sicuramente apparire idonea, con plausibile prevedibilità, a favorire il superamento di un contenzioso ampio ed articolato, come confermato dalle successive vicende giudiziarie. Infatti, si è subito formato, sia nella giurisprudenza di legittimità, sia in qu ella di merito, un orientamento concorde sull'applicazione della norma interpretativa e sulla sua legittimità costituzionale tale da favorire non solo la soluzione rapida ed univoca del contenzioso in essere, ma anche la prevenzione di quello futuro (come, ad esempio, quello relativo alla quantificazione degli importi spettanti a pensionati che avevano pendenti giudizi relativi al solo an della prestazione).

Quanto alla disparità di trattamento che la norma censurata determinerebbe con riferimento ai pensionati che avevano già ottenuto un giudicato favorevole, la Intesa San Paolo S.p.A. deduce che, nel periodo di tempo intercorso tra le sentenze delle sezioni unite e l'entrata in vigore dell'art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004, il giudicato si è formato solamente in una controversia (peraltro coinvolgente 1724 pensionati) e che, comunque, la ragionevolezza di una norma non può essere valutata alla stregua di circostanze casuali derivanti da vicende giudiziarie. Inoltre, proprio dall'eventuale dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 derivere bbe, per una consistente platea di pensionati, sempre a causa di occasionali giudicati, una disparità di trattamento a danno dei pensionati che hanno promosso i giudizi nei quali la Corte di cassazione ha definitivamente respinto - applicando la norma denunciata - le domande di perequazione automatica.

Ad avviso della società, non può neppure sostenersi che la norma censurata sia irragionevole per aver leso aspettative ormai radicate in capo agli interessati; essa, infatti, è intervenuta a stretto ridosso del superamento del contrasto giurisprudenziale (realizzatosi grazie alle sentenze delle sezioni unite del luglio 2001) e delle pronunce del periodo settembre 2003-luglio 2004 con cui la sezione lavoro della Corte di cassazione si è adeguata al principio affermato dalle sezioni unite e, dunque, quando la norma censurata è stata emanata, non potevano dirsi maturate aspettative circa l'esito favorevole delle liti.

Infine, la Intesa San Paolo S.p.A. contesta che l'art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 realizzi un'illegittima incursione del legislatore nell'area riservata alla funzione giurisdizionale.

Infatti, la Corte costituzionale ha costantemente affermato che una norma interpretativa, la quale non pretenda di incidere direttamente sui processi e sui loro esiti, ma operi esclusivamente a livello di fonti, non può essere considerata lesiva delle prerogative della funzione giurisdizionale, perché il legislatore ben può intervenire per rimediare a un'opzione interpretativa consolidata nella giurisprudenza in un senso divergente dalla linea di politica del diritto da lui giudicata più opportuna.

      3. - Si sono costituiti alcuni dei pensionati controricorrenti nei giudizi a quibus, i quali concludono chiedendo che sia dichiarata l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004.

      Peraltro queste parti private sostengono anzitutto che la corretta interpretazione della norma denunciata è diversa da quella affermata nelle ordinanze di rimessione. Precisamente, tale norma stabilirebbe che il sistema di perequazione legale di cui all'art. 11 del d. lgs. n. 503 del 1992 - che l'art. 59, comma 4, della legge 27 dicembre 1997, n. 449 (Misure per la stabilizzazione della finanza pubblica) ha esteso a tutte le forme di trattamenti pensionistici a decorrere dal 1° gennaio 1998 - si applica, appunto dal 1° gennaio 1998, oltre che alla quota di trattamento pensionistico a carico dell'assicurazione generale obbligatoria, anche alla quota rimasta a carico degli enti creditizi.

Interpretando invece l'art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 nel senso sostenuto dalla Corte di cassazione, ne discenderebbe, a parere delle parti private, che la norma censurata non potrebbe essere considerata interpretativa, poiché essa non si limita ad esplicitare il significato già desumibile dal testo normativo, ma introduce elementi totalmente innovativi.

Se, poi, l'art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 fosse considerato una norma interpretativa, ad avviso dei pensionati esso sarebbe incostituzionale sotto vari profili.

Innanzitutto, nella fattispecie non sussisterebbero le esigenze straordinarie che possono giustificare un intervento legislativo con efficacia retroattiva. Tale non potrebbe essere considerata, in particolare, quella di estinguere il contenzioso giudiziario dichiarata dalla stessa norma censurata. Infatti, considerata l'unanimità degli esiti giurisprudenziali in senso favorevole ai pensionati, il contenzioso era imputabile esclusivamente alla resistenza ad oltranza frapposta dagli istituti di credito, comportamento che sarebbe premiato dall'intervento legislativo. Inoltre, dopo l'intervento delle pronunce delle sezioni unite della Corte di cassazione, tutta la giurisprudenza si esprimeva in termini conformi ed il contenzioso poteva pertanto ritenersi avviato ad esaurimento.

L'intervento legislativo retroattivo sarebbe inoltre sproporzionato (trattandosi di un contenzioso concernente qualche migliaio di pensionati e di importo complessivamente trascurabile per un istituto di credito), ingiusto (perché non soddisferebbe interessi prioritari della collettività, né ridurrebbe oneri gravanti sulla finanza pubblica, bensì inciderebbe su un conflitto tra privati, sottraendo risorse economiche alla parte più debole ed attribuendole a quella più forte), contraddittorio (perché sarebbe destinato a riaccendere un contenzioso che andava esaurendosi).

      I pensionati sostengono altresì che la norma censurata lederebbe il diritto di difesa garantito dall'art. 24 Cost., l'autonomia della funzione giurisdizionale (tutelata dagli artt. 101, 102, 104, 105 e 111 Cost.), il principio di uguaglianza di cui agli artt. 3, 36 e 38 Cost., i principi costituzionali in materia di libertà ed attività sindacale (artt. 18, 39 e 40 Cost., in connessione con l'art. 3 Cost.), l'art. 117, primo comma, Cost. (che impone al legislatore di rispettare gli obblighi internazionali), gli artt. 3, 24, 97 e 113 Cost. (trattandosi di una legge-provvedimento).

      4. - E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

      La difesa erariale sostiene che l'art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 è una norma di interpretazione autentica che enuncia una delle possibili letture delle disposizioni originarie e non è viziata da irragionevolezza, tendendo a realizzare un'uniformità tra tutti i beneficiari del trattamento pensionistico ed a salvaguardare le esigenze di riequilibrio delle risorse in materia pensionistica.

      Inoltre, ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, la norma censurata non è fonte né di proliferazione del contenzioso, né di irragionevole aumento della durata dei processi che invece, proprio grazie ad essa, saranno presumibilmente definiti in tempi brevissimi.

      Infine, quanto al principio di eguaglianza, avendo la Corte di cassazione già applicato la norma interpretativa in altre controversie, sarebbe proprio la dichiarazione di illegittimità costituzionale che provocherebbe una disparità di trattamento tra i pensionati i cui giudizi si sono già esauriti con esito per essi negativo e pensionati il cui contenzioso sia ancora pendente.

      5. - La Intesa San Paolo S.p.A. ha depositato memorie nelle quali sostiene anzitutto che la questione deve essere esaminata dalla Corte esclusivamente con riferimento ai parametri dell'art. 102 e dell'art. 111 Cost., perché la rimettente non deduce la violazione dell'art. 3 Cost. come vizio autonomo, ma esclusivamente in connessione con i predetti due precetti costituzionali.

      Così delimitata la questione, essa, ad avviso della società, deve essere dichiarata infondata perché la norma censurata non è idonea né ad alimentare il contenzioso, né ad incidere negativamente sulla durata dei processi pendenti e perché essa agisce esclusivamente sul piano delle fonti senza operare alcuna ingerenza nella decisione delle singole controversie.

      La Intesa San Paolo S.p.A. contesta, poi, l'esattezza dell'interpretazione dell'art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 sostenuta dai pensionati, interpretazione smentita già dalla giurisprudenza di legittimità, e ribadisce le argomentazioni a sostegno dell'infondatezza della questione di legittimità costituzionale già svolte negli atti di costituzione.

      Infine la società eccepisce l'irrilevanza (e, in subordine, l'infondatezza) dei parametri costituzionali evocati dalla difesa dei pensionati e non menzionati nelle ordinanze di rimessione.

6. - Anche i pensionati controricorrenti nei giudizi a quibus hanno depositato una memoria. In essa sostengono l'illegittimità costituzionale della norma censurata in quanto avrebbe contenuto provvedimentale, dettando una disciplina puntuale che concerne una platea ristretta e ben individuata di destinatari (gli ex dipendenti del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia che avevano ottenuto una sentenza favorevole), con conseguente sottrazione di quelle fattispecie al controllo giurisdizionale (previsto dagli artt. 24 e 113 Cost.) e privazione delle garanzie del giusto procedimento (artt. 3, 97, 24 e 113 Cost.).

      Le parti private ribadiscono, poi, che l'art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 attribuisce alle disposizioni interpretate un significato che non poteva ragionevolmente considerarsi in esse contenuto; che la norma censurata è irragionevole perché non estingue il contenzioso (bensì lo incrementa); che essa contrasta con gli artt. 111 e 117 Cost. (in relazione alle previsioni della CEDU); che essa è fonte di discriminazioni tra chi era pensionato alla data del 31 dicembre 1990 e chi invece era ancora in servizio, nonché tra chi aveva già ottenuto una sentenza favorevole passata in giudicato e coloro i cui giudizi erano ancora pendenti, nonché tra i pensionati del Banco di Napoli e del Banco di Sicilia e quelli degli altri istituti di credito pubblici o privati che, fino al 31 dicembre 1997, hanno pacificamente usufruito di forme di adeguamento delle pensioni collegate alla dinamica retributiva del personale in servizio.

      Le stesse parti private aggiungono che la norma oggetto della presente questione è estranea alla categoria di norme interpretative ritenute legittime dalla Corte costituzionale, sia perché nella fattispecie vi è stato un precedente intervento chiarificatore delle sezioni unite della Corte di cassazione, sia perché l'art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 interviene in un conflitto giudiziario tra parti private al quale sono estranei interessi pubblici meritevoli di tutela ed esigenze di finanza pubblica.

Considerato in diritto

      1. - La Corte di cassazione dubita, in riferimento agli artt. 3, 102 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 55, della legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all'occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria).

1.1. - La questione attiene al meccanismo di perequazione automatica applicabile alla quota integrativa di pensione spettante ai dipendenti degli enti pubblici creditizi cessati dal servizio entro il 31 dicembre 1990.

      Per costoro, il decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357 (Disposizioni sulla previdenza degli enti pubblici creditizi), emanato in attuazione della delega prevista dall'art. 3 della legge 30 luglio 1990, n. 218 (Disposizioni in materia di ristrutturazione e integrazione patrimoniale degli istituti di credito di diritto pubblico), dispose che l'Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) avrebbe assunto a proprio carico una quota del trattamento pensionistico già in godimento (art. 3). La quota residua (cosiddetta "quota integrativa", da calcolare sottraendo l'importo erogato dall'INPS a quello risultante applicando la disciplina dei previgenti regimi esclusivi o esonerativi goduti dai dipendenti degli enti pubblici creditizi) sar ebbe rimasta a carico dei datori di lavoro ovvero dei fondi o casse costituiti in base alla legge 20 febbraio 1958, n. 55 (Estensione del trattamento di riversibilità ed altre provvidenze in favore dei pensionati dell'assicurazione obbligatoria per la invalidità, la vecchiaia ed i superstiti), contestualmente trasformati, per effetto dell'art. 5 dello stesso d. lgs. n. 357 del 1990, in fondi integrativi dell'assicurazione generale obbligatoria (art. 4).

1.2. - La successiva legge 23 ottobre 1992, n. 421 (Delega al Governo per la razionalizzazione e la revisione delle discipline in materia di sanità, di pubblico impiego, di previdenza e di finanza territoriale), nel delegare il Governo ad emanare uno o più decreti legislativi per il riordino del sistema previdenziale (art. 3), dettò un principio direttivo anche in ordine alla perequazione automatica. Precisamente, secondo la lettera q) del citato art. 3, l'emananda disciplina avrebbe dovuto «garantire, tenendo anche conto del sistema relativo ai lavoratori in attività, la salvaguardia del loro potere di acquisto» e, in virtù di quanto disposto dallo stesso art. 3, lettera p), tale principio direttivo si sarebbe dovuto applicare anche «al personale di cui all'articolo 2 del decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 537».

In esecuzione della delega fu emanato il decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503 (Norme per il riordinamento del sistema previdenziale dei lavoratori privati e pubblici, a norma dell'articolo 3 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), il cui art. 11 (compreso nel titolo III del decreto legislativo stesso) dispose, quale principio generale in materia pensionistica, che gli aumenti a titolo di perequazione automatica si dovessero applicare sulla base del solo adeguamento al costo della vita con cadenza annuale ed in misura pari alla variazione dell'indice ISTAT dei prezzi al consumo per famiglie di operai ed impiegati.

      L'art. 9 dello stesso d. lgs. n. 503 del 1992, intitolato «Trattamenti di pensione ai lavoratori di cui al decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357», al comma 1, stabilì che «Le disposizioni di cui ai titoli I e III del presente decreto riferite ai lavoratori dipendenti dell'assicurazione generale obbligatoria trovano applicazione anche per gli iscritti alla gestione speciale di cui al decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357, relativamente alle pensioni o quote di esse a carico della gestione medesima». Il comma 2 aggiunse che «Gli articoli 2, 3, 8, 10, 11, 12 e 13 trovano applicazione nei confronti dei regimi aziendali integrativi ai quali è iscritto il personale di cui all'articolo 2 del decreto legislativo 20 novembre 199 0, n. 357».

1.3. - Con riferimento agli ex dipendenti degli enti pubblici creditizi che il 31 dicembre 1990 erano già in pensione, sorse il dubbio se, anche per essi, in virtù delle norme da ultimo menzionate, l'unico meccanismo perequativo operante fosse ormai quello dell'art. 11, oppure se quest'ultimo si applicasse solamente alla quota di pensione loro erogata dall'INPS, mentre, al fine di determinare il complessivo trattamento pensionistico cui essi avevano diritto - e, dunque, la quota integrativa a carico dei datori di lavoro ovvero dei fondi integrativi - dovesse continuare ad operare il diverso meccanismo perequativo proprio delle forme di previdenza esclusive o esonerative dell'assicurazione generale obbligatoria di cui i lavoratori in questione godevano prima della riforma operata dalla legge n. 218 del 1990 e dal d. lgs. n. 537 del 1990: meccanismo che assicurava il collegamento del trattamento dei lavoratori ormai cessati dal servizio con quello dei lavoratori ancora in attività, prevedendo c he gli aumenti stipendiali conseguiti dai secondi si riflettessero automaticamente anche sull'ammontare delle pensioni godute dai primi (cosiddetta "clausola oro").

Ne scaturiva un contenzioso sfociato, dopo un primo contrasto, nelle sentenze n. 9023 e n. 9024 del 2001, con le quali le sezioni unite della Corte di cassazione affermavano che l'art. 9 d. lgs. n. 503 del 1992 aveva lasciato operare la "clausola oro", limitatamente alla quota delle pensioni erogata dai datori di lavoro o dai fondi integrativi, per chi era già pensionato alla data del 31 dicembre 1990.

1.4. - E' quindi intervenuta la disposizione censurata, a norma della quale «Al fine di estinguere il contenzioso giudiziario relativo ai trattamenti corrisposti a talune categorie di pensionati già iscritti a regimi previdenziali sostitutivi, attraverso il pieno riconoscimento di un equo e omogeneo trattamento a tutti i pensionati iscritti ai vigenti regimi integrativi, l'articolo 3, comma 1, lettera p), della legge 23 ottobre 1992, n. 421, e l'articolo 9, comma 2, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, devono intendersi nel senso che la perequazione automatica delle pensioni prevista dall'articolo 11 del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 503, si applica al complessivo trattamento percepito dai pensionati di cui all'articolo 3 del decreto legislativo 20 novembre 1990, n. 357. All'assicurazione generale obbligatoria fa esclusivamente carico la perequazione sul trattamento pensionistico di propria pertinenza».

La giurisprudenza di legittimità si è subito ed unanimemente indirizzata nel senso che, in base ad essa, deve ritenersi che il meccanismo perequativo di cui all'art. 11 del d. lgs. n. 503 del 1992 si applica anche alla quota di trattamento pensionistico spettante al personale già pensionato alla data del 31 dicembre 1990 ed erogata dai datori di lavoro o dai fondi integrativi.

Invece, nelle due ordinanze di cui qui ci si occupa, la Corte di cassazione sostiene che l'art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004 violerebbe l'art. 3 «in connessione con gli articoli 102 e 111» Cost., sotto tre profili: a) il ricorso alla norma di interpretazione autentica sarebbe nella fattispecie irragionevole perché sproporzionato e addirittura controproducente rispetto al fine asseritamente perseguito (cioè quello di estinzione del contenzioso giudiziario); b) la disposizione censurata farebbe dipendere l'assetto definitivo degli interessi delle parti in conflitto da un fattore (la durata della lite) contrario alla Costituzione ed introdurrebbe una disparità di trattamento tra quanti hanno già ottenuto una sentenza definitiva e quanti hanno ancora una lite pendente; c) la norma sacrificherebbe senza ragione il ruolo nomofilattico della Corte di cassazione.

      2. - Le due ordinanze di rimessione sono di identico tenore ed i due giudizi vanno dunque riuniti per essere decisi con un'unica pronuncia.

      3. - La questione non è fondata.

3.1. - Va premesso che l'oggetto del giudizio incidentale di costituzionalità è individuato esclusivamente dall'ordinanza di rimessione e che non possono quindi essere esaminati gli autonomi vizi eccepiti dai controricorrenti nei giudizi principali costituitisi nel presente giudizio, relativi alla pretesa violazione degli artt. 3, 18, 24, 36, 38, 39, 40, 97, 101, 104, 105, 113 e 117 Cost., tutti parametri non evocati dalla rimettente.

      3.2. - Come è stato affermato dall'unanime giurisprudenza di legittimità, con l'art. 1, comma 55, della legge n. 243 del 2004, il legislatore ha introdotto una disposizione interpretativa dell'art. 9, comma 2, del d. lgs. n. 503 del 1992, secondo cui il meccanismo di perequazione automatica, previsto dall'art. 11 dello stesso d. lgs. n. 503 del 1992, deve applicarsi a tutte le pensioni integrative dei dipendenti degli enti pubblici creditizi, qualunque sia la data del loro pensionamento.

La natura interpretativa risulta chiara dal fatto che il legislatore si è limitato, con la predetta norma, ad assegnare alle disposizioni interpretate un significato rientrante tra le possibili letture del testo originario (si vedano in tal senso le stesse ordinanze di rimessione). D'altra parte, già prima dell'intervento delle sezioni unite sopra menzionato, una parte della giurisprudenza di legittimità aveva statuito che, in virtù delle disposizioni contenute negli artt. 9 ed 11 del d. lgs. n. 503 del 1992, gli ex dipendenti degli enti pubblici creditizi già pensionati alla data del 31 dicembre 1990 non si sottraevano alle nuove regole uniformi stabilite per la perequazione di tutte le pensioni.

      Orbene, questa Corte ha ripetutamente affermato la legittimità di norme di interpretazione autentica che attribuiscono alla disposizione interpretata uno dei significati ricompresi nell'area semantica della disposizione stessa (tra le più recenti, sentenza n. 74 del 2008 e ordinanza n. 41 del 2008).

      Le censure di irragionevolezza contenute nelle ordinanze di rimessione sono formulate, peraltro, con riferimento ad uno soltanto degli scopi della norma. Il giudice a quo si è limitato a ritenere irragionevole la disposizione censurata solo perché ritenuta inidonea a conseguire uno dei suoi obiettivi.

Il ricorso alla norma di interpretazione autentica, secondo la rimettente, nella fattispecie sarebbe sproporzionato e addirittura controproducente rispetto al fine asseritamente perseguito che sarebbe quello dell'estinzione del contenzioso giudiziario. Così limitando la sua censura, la Corte di cassazione non tiene conto del fatto che la norma oggetto della questione di costituzionalità enuncia, tra i propri scopi, anche quello, non irragionevole, di realizzare «il pieno riconoscimento di un equo e omogeneo trattamento a tutti i pensionati iscritti ai vigenti regimi integrativi». Circa l'idoneità o meno della disposizione a realizzare tale ulteriore obiettivo, nulla è detto nelle ordinanze di rimessione.

La stessa inidoneità  della norma censurata a realizzare il primo obiettivo, quello deflattivo, è affermata dalla rimettente sulla base di mere presunzioni (come quella secondo cui sarebbe inesistente o trascurabile il numero di pensionati che non hanno ancora promosso azione giudiziaria) prive di effettivi riscontri. Né il giudice a quo spiega come la norma in questione (tra l'altro immediatamente oggetto di un'applicazione uniforme da parte della giurisprudenza di legittimità) possa addirittura alimentare il contenzioso, quando - proprio grazie ad essa - ne appare prevedibile l'esito.

3.3. - Infondata è anche la censura secondo cui la norma farebbe dipendere l'assetto definitivo degli interessi delle parti in conflitto dalla durata della lite e sarebbe fonte di disparità di trattamento tra quanti hanno già ottenuto una sentenza definitiva e quanti hanno ancora una lite pendente. Gli inconvenienti lamentati derivano invero da circostanze di fatto casuali, di per sé inidonee a giustificare il giudizio di illegittimità di una norma.

3.4. - Neppure la censura relativa alla pretesa compromissione del ruolo nomofilattico della Corte di cassazione è fondata, perché il legislatore può porre norme che precisino il significato di altre norme, non solo ove sussistano situazioni di incertezza nell'applicazione del diritto o siano insorti contrasti giurisprudenziali, ma pure in presenza di indirizzi omogenei (anche di legittimità), se la scelta imposta per vincolare il significato ascrivibile alla legge anteriore rientra tra le possibili varianti di senso del testo originario (sentenze n. 374 del 2002 e n. 525 del 2000).

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 55, della legge 23 agosto 2004, n. 243 (Norme in materia pensionistica e deleghe al Governo nel settore della previdenza pubblica, per il sostegno alla previdenza complementare e all'occupazione stabile e per il riordino degli enti di previdenza ed assistenza obbligatoria), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 102 e 111 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2008.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 7 novembre 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 363

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Giovanni Maria FLICK       Presidente

-  Francesco      AMIRANTE      Giudice

-  Ugo            DE SIERVO         "

-  Paolo          MADDALENA         "

-  Alfio          FINOCCHIARO       "

-  Alfonso        QUARANTA          "

-  Franco         GALLO             "

-  Luigi          MAZZELLA          "

-  Gaetano        SILVESTRI         "

-  Maria Rita     SAULLE            "

-  Giuseppe       TESAURO           "

-  Paolo Maria    NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 3 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), promosso con ordinanza del 4 luglio 2007 dalla Commissione tributaria provinciale di Roma nel giudizio vertente tra Sergio Santoro e l'Agenzia delle entrate, ufficio di Roma 1, iscritta al n. 90 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell'anno 2008.

Visti l'atto di costituzione di Sergio Santoro e l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 24 settembre 2008 il Giudice relatore Franco Gallo;

udito l'avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto che, nel corso di un giudizio, promosso da un contribuente, avente ad oggetto l'impugnazione sia di una cartella di pagamento emessa a séguito di controllo sulla dichiarazione dei redditi per l'anno d'imposta 2000, sia della relativa iscrizione di ipoteca effettuata ai sensi dell'art. 77 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), la Commissione tributaria provinciale di Roma, con ordinanza depositata il 4 luglio 2007, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale de ll'art. 3 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), nella parte in cui «non consente al giudice tributario che declini la giurisdizione di disporre la continuazione del processo con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda»;

che la Commissione rimettente premette, in punto di fatto, che: a) il ricorrente ha impugnato la cartella di pagamento, sulla cui base era stata iscritta dal concessionario per la riscossione la predetta ipoteca, allegando l'inesistenza della notifica della cartella medesima e la decadenza dell'ufficio dal potere di procedere alla riscossione in relazione all'anno d'imposta 2000; b) il ricorrente aveva avuto notizia di detta cartella solo a séguito della ricezione dell'avviso di iscrizione dell'ipoteca di cui all'art. 77 del d.P.R. n. 602 del 1973, in quanto in detto avviso era fatta menzione della cartella de qua; c) resistono in giudizio, chiedendo la reiezione del ricorso, sia l'Agenzia delle entrate, ufficio di Roma 1, sia il concessionario per la riscossione, quest'ultimo eccependo anche il difetto di giurisdizione del giudice adíto;

che il giudice a quo premette altresí, in punto di diritto, che: a) la giurisdizione del giudice tributario in ordine alle controversie relative all'iscrizione delle ipoteche effettuate a garanzia di crediti tributari è stata disposta, successivamente all'instaurazione del giudizio, dall'art. 35, comma 26-quinquies, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito con modificazioni dall'art. 1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248, che ha a tal fine modificato, con effetto dal 12 agosto 2006, l'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992; b) tale norma attributiva di giurisdizione non può trovare applicazio ne nel giudizio principale, perché quest'ultimo è stato instaurato, appunto, anteriormente all'entrata in vigore della norma; c) in forza dell'art. 3 del d.lgs. n. 546 del 1992, la Commissione adíta deve dunque limitarsi, nella specie, a declinare la propria giurisdizione, senza disporre la translatio iudicii della causa innanzi al giudice dotato di giurisdizione e, di conseguenza, senza «salvare gli effetti sostanziali e processuali della domanda»;

che, quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, il rimettente afferma che la disposizione denunciata - non prevedendo che il giudice tributario, nel dichiarare il proprio difetto di giurisdizione, disponga la translatio iudicii innanzi al giudice dotato di giurisdizione - víola gli artt. 24, 111 e 113 della Costituzione;

che, quanto alla violazione degli artt. 24 e 113 Cost., il giudice a quo afferma che la mancata previsione della translatio iudicii nel caso di declinatoria della giurisdizione - escludendo la conservazione degli effetti sostanziali e processuali della domanda tempestivamente proposta davanti al giudice tributario - comporterebbe «di fatto», in caso di successiva proposizione della stessa domanda innanzi al giudice giurisdizionalmente competente, il decorso medio tempore del termine decadenziale di sessanta giorni dalla data di notificazione dell'atto impugnato fissato dall'art. 21 del d.lgs. n. 546 del 1992 per la proposizione del ricorso dinnanzi al giudice tributario;

che, quanto invece alla violazione dell'art. 111 Cost., il rimettente ritiene che la disposizione censurata - nella parte in cui non prevede la translatio iudicii - víola il principio della ragionevole durata del processo, perché «vanificherebbe l'attività processuale svolta» davanti al giudice privo di giurisdizione e, quindi, risulterebbe «collidente con il diritto costituzionale alla durata ragionevole del processo che metta capo ad una pronuncia sul merito»;

che, sulla rilevanza delle sollevate questioni, il giudice rimettente, richiamando le proprie premesse in punto di diritto, afferma di essere privo di giurisdizione, ratione temporis, in ordine alla controversia sull'iscrizione ipotecaria oggetto del giudizio principale e di non poter disporre la translatio iudicii;

che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è ritualmente intervenuto in giudizio, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate;

che, secondo la difesa erariale, in primo luogo la rimettente Commissione tributaria non ha considerato che, nella fattispecie, essa ha giurisdizione a conoscere della causa, alla luce del prevalente orientamento di legittimità secondo cui l'art. 5 del codice di procedura civile - nello stabilire in generale il principio della perpetuatio iurisdictionis - non si applica qualora un sopravvenuto mutamento legislativo comporti l'attribuzione della giurisdizione al giudice che, al momento della domanda, ne era privo;

che pertanto, conclude la difesa erariale, tali questioni sono inammissibili, in quanto fondate su un erroneo presupposto interpretativo;

che, in secondo luogo, dette questioni sono inammissibili - sempre secondo l'Avvocatura generale - perché il diritto vivente già riconosce la possibilità che, a séguito della pronuncia declinatoria della giurisdizione, le parti proseguano la causa dinnanzi al giudice fornito di giurisdizione «con salvezza dei diritti acquisiti» e, perciò, il risultato perseguíto dal giudice rimettente è già raggiungibile in via ermeneutica;

che infine, per la difesa erariale, un ulteriore profilo di inammissibilità deriva dal fatto che le questioni, come sollevate, sono prive di rilevanza nel giudizio a quo, in quanto «la sede in cui avrebbe potuto assumere rilievo l'eventuale incostituzionalità di una normativa che non riconoscesse la translatio iudicii sarebbe soltanto il giudizio di prosecuzione»;

che il contribuente si è costituito con un atto depositato fuori termine.

Considerato che la Commissione tributaria provinciale di Roma dubita, in riferimento agli artt. 24, 111 e 113 della Costituzione, della legittimità dell'art. 3 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), nella parte in cui detta disposizione - nel disporre che «Il difetto di giurisdizione delle commissioni tributarie è rilevato, anche d'ufficio, in ogni stato e grado del processo» (comma 1) e che «È ammesso il regolamento preventivo di giurisdizione previsto dall'art. 41 , primo comma, del codice di procedura civile» (comma 2) - «non consente al giudice tributario che declini la giurisdizione di disporre la continuazione del processo con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda»;

che, secondo la Commissione rimettente, la norma denunciata - non prevedendo, nel caso di declinatoria della giurisdizione, la translatio iudicii innanzi al giudice giurisdizionalmente competente, con salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda - víola: a) gli artt. 24 e 113 Cost., perché determina «la decadenza dal diritto di proporre ricorso nel termine perentorio di sessanta giorni dalla data di notificazione dell'atto impugnato, ex art. 21, comma primo del citato d.lgs. n. 546 del 1992» e, conseguentemente, «la perdita del diritto alla tutela delle proprie situazioni giuridiche soggettive»; b) l'art. 111 Cost., perché «vanific[a] l'attività processuale svolta» davanti al giudice privo di giurisdizione e, quindi, risulta «collidente c on il diritto costituzionale alla durata ragionevole del processo che metta capo ad una pronuncia sul merito»;

che, quanto alla rilevanza, il giudice rimettente, dopo aver riferito che il giudizio principale ha ad oggetto due diverse controversie - riguardanti, rispettivamente, una cartella di pagamento e l'iscrizione ipotecaria effettuata a garanzia dei crediti indicati nella cartella medesima -, afferma di essere privo di giurisdizione, ratione temporis, in ordine alla controversia sull'iscrizione ipotecaria e di dover emettere, pertanto, una pronuncia di declinatoria della giurisdizione, senza poter disporre la translatio iudicii;

che le questioni sollevate sono manifestamente inammissibili per una pluralità di motivi;

che, in primo luogo, il giudice rimettente fonda la rilevanza delle sollevate questioni muovendo da interpretazioni della normativa in tema di perpetuatio iurisdictionis e di translatio iudicii che sono non solo immotivatamente difformi da quelle accolte dal diritto vivente, ma anche non conformi a Costituzione;

che, in particolare, il rimettente ritiene: a) in base agli artt. 5 del codice di procedura civile, nonché 2, 3 e 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, di non aver giurisdizione, ratione temporis, in ordine alla controversia - costituente uno degli oggetti del giudizio principale - riguardante l'iscrizione di ipoteca effettuata a garanzia di crediti tributari; b) in base al citato art. 3 del d.lgs. n. 546 del 1992, di non poter disporre la translatio iudicii a séguito della declinatoria della propria giurisdizione;

che, quanto al presupposto interpretativo sub a), il medesimo giudice correttamente rileva che solo successivamente alla proposizione del ricorso è entrato in vigore l'art. 35, comma 26-quinquies, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 4 agosto 2006, n. 248, il quale, modificando l'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, ha attribuito alla giurisdizione del giudice tributario, a partire dal 12 agosto 2006, la cognizione delle controversie relat ive all'iscrizione delle predette ipoteche;

che da tale corretto rilievo il giudice a quo giunge, tuttavia, alla non consequenziale conclusione che il menzionato ius superveniens costituito dall'art. 35, comma 26-quinquies, del decreto-legge n. 223 del 2006 non ha l'effetto di attribuire la giurisdizione tributaria anche in ordine alle controversie, concernenti le iscrizioni ipotecarie effettuate a garanzia di crediti tributari, instaurate davanti al giudice tributario (come nella specie) anteriormente al 12 agosto 2006;

che, il rimettente, infatti, omette di considerare che, in base al diritto vivente, l'art. 5 cod. proc. civ. - secondo cui «La giurisdizione e la competenza si determinano con riguardo alla legge vigente e allo stato di fatto esistente al momento della proposizione della domanda, e non hanno rilevanza rispetto ad esse i successivi mutamenti della legge o dello stato medesimo» - va interpretato in conformità alla sua ratio, che è quella di favorire e non di impedire la perpetuatio iurisdictionis, con la conseguenza che il giudice originariamente privo di giurisdizione (o competenza) non può, per ragioni di economia processuale, dichiarare la propria carenza di giurisdizione (o competenza), ove nel corso del giudizio sia sopravvenuta u na legge idonea ad attribuirgli la giurisdizione (o competenza) medesima (ex plurimis, le pronunce della Corte di cassazione, sezioni unite: ordinanza n. 857 del 2008; sentenze n. 16289 del 2007, n. 20322 del 2006, n. 18126 del 2005, n. 4820 del 2005, n. 3877 del 2004);

che, pertanto - in base alla regola della "competenza sopravvenuta" desumibile da tale consolidata interpretazione dell'art. 5 cod. proc. civ. -, il citato art. 35, comma 26-quinquies, del decreto-legge n. 223 del 2006, è idoneo a radicare, nella controversia relativa all'iscrizione ipotecaria oggetto del giudizio principale, la giurisdizione del giudice tributario a quo, adíto anteriormente al 12 agosto 2006, quando era ancora privo di giurisdizione al riguardo;

che, quanto al presupposto interpretativo sub b) - per cui, in base alla disposizione denunciata, il giudice non potrebbe disporre la translatio iudicii a séguito della declinatoria della propria giurisdizione - il rimettente omette di considerare sia che, a séguito della pronuncia di questa Corte n. 77 del 2007 (anteriore all'ordinanza di rimessione), la normativa in materia deve interpretarsi nel senso che va «espunto dall'ordinamento» il «principio per cui la declinatoria della giurisdizione comporta l'esigenza di instaurare ex novo il giudizio senza che gli effetti sostanziali e processuali prodotti dalla domanda originariamente proposta si conservino nel nuovo giudizio»; sia che, ancor prima d i detta pronuncia, la giurisprudenza di legittimità, in via interpretativa, aveva ammesso la translatio iudicii tra giudici speciali e giudice ordinario (Cassazione, sezioni unite civili, sentenze n. 5431 del 2008 e n. 4109 del 2007);

che, dunque, il giudice rimettente non ha neppure tentato di attribuire alle disposizioni in tema di perpetuatio iurisdictionis e di translatio iudicii interpretazioni diverse da quelle da lui prospettate e tali da escludere l'illegittimità costituzionale della disposizione denunciata: tanto più che, nel caso di specie, tali interpretazioni conformi alla Costituzione non solo sono possibili, ma sono state recepite dalla giurisprudenza di legittimità o da questa stessa Corte (con la citata sentenza n. 77 del 2007);

che la mancata utilizzazione dei poteri interpretativi che la legge riconosce, in via esclusiva, al giudice rimettente e la mancata esplorazione di diverse soluzioni ermeneutiche al fine di far fronte al dubbio di costituzionalità ipotizzato integrano omissioni tali da rendere manifestamente inammissibili le sollevate questioni di legittimità costituzionale (ex plurimis: ordinanze n. 85 del 2007; n. 32 del 2007; n. 299 del 2006; n. 315 del 2002);

che, in secondo luogo, le motivazioni addotte in ordine alla non manifesta infondatezza delle sollevate questioni si pongono in insanabile contrasto con le stesse premesse da cui muove il rimettente, con conseguente manifesta inammissibilità delle questioni medesime;

che, in particolare, il giudice a quo riferisce che il giudizio principale, ai sensi del terzo periodo del comma 3 dell'art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992 (secondo cui «la mancata notificazione di atti autonomamente impugnabili, adottati precedentemente all'atto notificato, ne consente l'impugnazione unitamente a quest'ultimo»), ha ad oggetto l'impugnazione: a) di una cartella di pagamento concernente crediti tributari, in relazione alla quale il contribuente deduce come unico motivo di invalidità l'inesistenza della sua notificazione, con conseguente decadenza dell'amministrazione finanziaria dal potere di procedere alla riscossione; b) dell'avviso, regolarmente notificato, dell'iscrizione ipotecaria effettuata a garanzia dei crediti tributari indicati nella suddetta cartella, in relazion e al quale il contribuente deduce, come unico motivo di invalidità, l'inesistenza della notificazione dell'atto presupposto costituito dalla citata cartella;

che, pertanto, la definizione nel merito della controversia sub a) (relativa alla omessa notificazione della cartella di pagamento ed agli effetti, conseguenti a tale omissione, sul potere di procedere alla riscossione del credito tributario) è logicamente e giuridicamente pregiudiziale rispetto alla definizione nel merito della controversia sub b) (relativa alla invalidità dell'iscrizione ipotecaria, derivante dall'asserita inesistenza della notificazione della predetta cartella), nel senso che l'accoglimento od il rigetto del ricorso relativo alla cartella di pagamento comporta necessariamente l'accoglimento od il rigetto del ricorso relativo all'avviso di iscrizione ipotecaria: e ciò indipendentemente dall'individuazione dei giudi ci giurisdizionalmente competenti a decidere ciascuna delle due controversie;

che, in ordine alla menzionata controversia sub a), relativa alla cartella di pagamento, lo stesso giudice tributario a quo esattamente ritiene sussistere la propria giurisdizione in forza del combinato disposto degli artt. 2, comma 1, e 19, comma 1, lettera d), del citato d.lgs. n. 546 del 1992;

che, per l'effetto, la sua decisione su detta controversia non potrebbe mai comportare, nella specie, la paventata «perdita del diritto alla tutela delle [.] situazioni giuridiche soggettive» del contribuente; e ciò neppure nel caso (peraltro insussistente, come sopra rilevato) in cui il giudice tributario difettasse di giurisdizione in ordine all'altra controversia oggetto del giudizio principale, relativa all'iscrizione ipotecaria, e non fosse consentita la translatio iudicii al giudice ordinario;

che, infatti, il giudice tributario rimettente non si avvede che la pronuncia che egli deve emettere sulla validità della cartella di pagamento (in esito ad una controversia in ordine alla quale non deve declinare la giurisdizione) non risulterebbe affatto "vanificata" dalla pronuncia di declinatoria di giurisdizione in ordine alla diversa e consequenziale controversia sull'iscrizione ipotecaria, perché il giudice ordinario - anche se adíto ex novo (senza, cioè, translatio iudicii) in ordine a tale ultima controversia - dovrebbe comunque sostanzialmente conformarsi, nel merito, al decisum del giudice tributario sulla controversia pregiudiziale relativa alla cartella di pagamento, né potrebbe applicare, in quanto giudice ordinario (come già rilevato in precedenza), termini di decadenza previsti dalla legge esclusivamente per il ricorso davanti al giudice tributario;

che dunque, anche sotto tale profilo, le questioni sono manifestamente inammissibili per illogicità, perché le censure prospettate dal giudice a quo presuppongono necessariamente la carenza di giurisdizione del giudice tributario anche in ordine alla controversia sulla cartella di pagamento: carenza di giurisdizione che, però, è negata dallo stesso giudice.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 3 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell'art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), sollevate, in riferimento agli artt. 24, 111 e 113 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Roma con l'ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2008.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 7 novembre 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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ORDINANZA N. 364

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Giovanni Maria FLICK        Presidente

-  Francesco      AMIRANTE       Giudice

-  Ugo            DE SIERVO         "

-  Paolo          MADDALENA         "

-  Alfio          FINOCCHIARO       "

-  Alfonso        QUARANTA          "

-  Franco         GALLO             "

-  Luigi          MAZZELLA          "

-  Gaetano        SILVESTRI         "

-  Sabino         CASSESE           "

-  Maria Rita     SAULLE            "

-  Giuseppe       TESAURO           "

-  Paolo Maria    NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 86 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), nel testo risultante dalla sostituzione del primo comma ad opera dell'art. 1, comma 1, lettera q), del decreto legislativo 27 aprile 2001, n. 193 (Disposizioni integrative e correttive dei Decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46, e Decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112, in materia di riordino della disciplina relativa alla riscossione), e quale interpretato autenticamente dall' art. 3, comma 41, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, promosso con ordinanza depositata il 23 novembre 2007 dalla Commissione tributaria provinciale di Cosenza, nel giudizio vertente tra Marcello Deietti e Concessionario E.TR. Esazione Tributi s.p.a., iscritta al n. 125 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell'anno 2008.

Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 8 ottobre 2008 il Giudice relatore Franco Gallo.

Ritenuto che, nel corso di un giudizio avente ad oggetto l'impugnazione del preavviso del fermo amministrativo dell'autovettura di un contribuente - preavviso notificato il 28 dicembre 2005 ed emesso dalla competente società concessionaria per la riscossione dei tributi, in relazione al mancato pagamento di tre cartelle di pagamento del canone RAI e della TARSU, per un credito complessivo di ? 846,34 -, la Commissione tributaria provinciale di Cosenza, con ordinanza depositata il 23 novembre 2007, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 41, 97 e 111 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell'art. 86 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), nel testo risultante dalla sostituzione del primo comma ad opera dell'art. 1, comma 1, lettera q), del decreto legislativo 27 aprile 2001, n. 193 (Disposizioni integrative e correttive dei Decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46, e Decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112, in materia di riordino della disciplina relativa alla riscossione), e quale interpretato autenticamente dall'art. 3, comma 41, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, nella parte in cui: a) non fissa criteri e limiti ai poteri del concessionario della riscossione in ordine all'adozione del provvedimento di fermo di beni mobili registrati; b) non prevede che detto provvedimento sia motivato con riferimento alla sussistenza del fondato timore di perdere la garanzia del credito ovvero alla necessità, in relazione alla consistenza patrimoniale del contribuente, di emetterlo;

che la Commissione rimettente preliminarmente osserva che la resistente società concessionaria per la riscossione ha provato in giudizio l'avvenuta notificazione di almeno due delle tre cartelle di pagamento poste a base del preavviso di fermo, mentre il contribuente non ha dimostrato di aver effettuato il pagamento relativo a dette cartelle;

che, secondo il medesimo rimettente, sono infondate tutte le censure proposte dal ricorrente avverso il provvedimento impugnato e cioè: a) l'eccepita decadenza della resistente dal potere di riscossione, per la tardiva iscrizione a ruolo del credito tributario; b) la dedotta illegittimità del fermo per la mancata preventiva notificazione dell'avviso previsto dall'art. 50, secondo comma, del d.P.R. n. 602 del 1973; c) l'eccepita prescrizione dei crediti fatti valere dalla suddetta concessionaria;

che, in particolare, detta Commissione afferma che: a) la denunciata decadenza non sussiste, perché attiene ad una «fase di competenza dell'ente impositore», non evocato in giudizio; b) la notifica del citato avviso di cui all'art. 50, secondo comma, del d.P.R. n. 602 del 1973 è «necessaria solo prima che si inizi la fase della espropriazione forzata in senso proprio»; c) i crediti fatti valere dalla concessionaria non sono prescritti, «non essendo decorso il termine di prescrizione decennale dalla notifica delle cartelle di pagamento»;

che, quanto al giudizio principale, la medesima Commissione afferma, altresì, che: a) l'art. 35, comma 26-quinquies, del decreto legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248 - nel modificare l'art. 19 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 - ha attribuito alla giurisdizione del giudice tributario la cognizione delle controversie concernenti il fermo sui mobili registrati, quale delineato dalle ultime modifiche legislative di tale istituto; b) pur risultando infondati i motivi del ricorso e «sussistent i i presupposti formali per l'adozione del provvedimento» di fermo, «va [.] esaminata la questione relativa alla legittimità del fermo in sé»;

che, su queste premesse, il giudice rimettente afferma, quanto alla non manifesta infondatezza delle sollevate questioni, che la norma censurata víola: a) gli artt. 3 e 97 Cost., perché il provvedimento di fermo: a.1) può essere disposto dal concessionario anche per crediti «assolutamente irrisori», come nella specie (? 846,34), posto che l'art. 12-bis del «d.lgs. n. 46/1999» (recte: d.P.R. n. 602 del 1973, articolo introdotto dall'art. 4 del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46, recante «Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell'articolo1 della legge 28 settembre 1998, n. 337») vieta l'iscrizione a ruolo solo dei crediti inferiori a lire 20.000 (corrispondenti a ? 10,33); a.2) non deve essere motivato in ordine al fumus boni iuris ed al periculum in mora; a.3) non è sottoposto ad alcun preventivo vaglio giurisdizionale di ammissibilità, a differenza delle ipotesi di ipoteca e sequestro conservativo previste dall'art. «11» (recte: 22) del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, in materia di sanzioni amministrative tributarie; a.4) è rimesso all'assoluta ed insindacabile discrezionalità del concessionario, cosí da rendere possibile, in concreto, una ingiustificata disparità di trattamento di casi analoghi; a.5) non è soggetto ad un termine finale di efficacia, potendo essere emesso dopo l'inutile decorso del termine di sessanta giorni dalla notificazione della cartella di pagamento (tramite il richiamo, contenuto nel primo comma del denunciato art. 86 del d.P.R. n. 602 del 1973, al primo comma dell'art. 50 dello stesso decreto) e potendo conservare la sua efficacia, nelle more, anche se «l'esecuzione sia iniziata negli ordinari termini di prescrizione del titolo»; b) l'art. 111 Cost., perché, non consentendo alcun sindacato in ordine alla legittimità sostanziale del provvedimento di fermo (provvedimento che, pure, «comporta gravi limitazioni di diritti costituzionalmente protetti per il contribuente»), si pone in contrasto con il principio della parità delle armi nel processo; c) l'art. 24 Cost., perché - a differenza dell'art. 496 del codice di procedura civile, il quale prevede la riducibilità del pignoramento quando il valore del bene pignorato superi l'importo del credito per cui si procede e delle spese - non consente la riduzione del fermo quando l'importo del credito sia manifestamente sproporzionato, per difetto, al valore del bene mobile registrato assoggettato al fermo; d) gli artt. 4 e 41 Cost., perché, l'iscrizione del fermo su un veicolo, comportando l'assoluta indisponibilità, anche «di fatto», del bene (data la confisca e la sanzione amministrativa previste, per il caso di circolazione del veicolo sottoposto a fermo, dall'art. 214, comma 8, del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, recante il «Nuovo codice della strada»), incide irragionevolmente, «non essendo previsto alcun rapporto di proporzionalità», sulla sfera di diritti costituzionalmente garantiti del contribuente, «quali il diritto al lavoro ed alla libera iniziativa economica»;

che, quanto alla rilevanza, il giudice a quo osserva che, in difetto dell'accoglimento delle sollevate questioni, «del tutto legittimo sotto il profilo formale si appaleserebbe il provvedimento del concessionario», «avendo il concessionario dimostrato pienamente l'avvenuta notifica di almeno due delle cartelle di pagamento poste a base del provvedimento impugnato»;

che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in giudizio, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate;

che, secondo la difesa erariale, le questioni sono inammissibili per manifesta irrilevanza, attenendo a profili estranei al thema decidendum, «essendo precluso, in materia, un sindacato ex officio sul provvedimento»;

che, nel merito, sempre per la difesa erariale, le questioni sono manifestamente infondate, perché il provvedimento di fermo dei beni mobili registrati: a) è atto funzionale all'espropriazione forzata (viene citata la sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 2053 del 2006) e, pertanto, i suoi limiti quantitativi e temporali di efficacia trovano rispondenza nell'entità del credito e nella durata dell'inadempimento; b) è soggetto al pieno sindacato giurisdizionale, nelle forme dell'opposizione all'esecuzione o agli atti esecutivi, come previsto dall'art. 57 del d.P.R. n. 602 del 1973 (vengono citate, oltre alla già menzionata sentenza delle sezioni unite della Corte di cassazione, le ordinanze della Corte costituzionale n. 297 e n. 161 del 2007);

che, sempre sul merito delle questioni, l'Avvocatura Generale osserva che: a) la riduzione del fermo, auspicata dal rimettente, non è tecnicamente possibile, posto che «l'autovettura o circola o non circola»; b) per tornare nella piena disponibilità del veicolo è sufficiente il pagamento del debito.

Considerato che la Commissione tributaria provinciale di Cosenza dubita, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 41, 97 e 111 della Costituzione, della legittimità dell'art. 86 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) - nel testo risultante dalla sostituzione del primo comma ad opera dell'art. 1, comma 1, lettera q), del decreto legislativo 27 aprile 2001, n. 193 (Disposizioni integrative e correttive dei Decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46, e Decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112, in materia di riordino della disciplina relativa alla riscossione), e quale interpretato autenticamente dall'art. 3, comma 41, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248 -, nella parte in cui: a) non fissa criteri e limiti ai poteri del concessionario della riscossione in ordine all'adozione del provvedimento di fermo di beni mobili registrati; b) non prevede che detto provvedimento sia motivato con riferimento alla sussistenza del fondato timore di perdere la garanzia del credito ovvero alla necessità, in relazione alla consistenza patrimoniale del contribuente, di emetterlo;

che, in particolare, ad avviso del rimettente, la norma censurata víola gli artt. 3 e 97 Cost., perché il provvedimento di fermo: può essere disposto dal concessionario anche per crediti «assolutamente irrisori»; non deve essere motivato in ordine al fumus boni iuris ed al periculum in mora; non è sottoposto ad alcun preventivo vaglio giurisdizionale di ammissibilità; è rimesso all'assoluta ed insindacabile discrezionalità del concessionario, cosí da rendere possibile, in concreto, una ingiustificata disparità di trattamento di casi analoghi; non è soggetto ad un termine finale di efficacia;

che, sempre ad avviso del rimettente, la norma censurata víola altresì: a) l'art. 111 Cost., perché, non consentendo alcun sindacato in ordine alla legittimità sostanziale del provvedimento, si pone in contrasto con il principio della parità delle armi nel processo; b) l'art. 24 Cost., perché - a differenza dell'art. 496 del codice di procedura civile - non consente la riduzione del fermo quando l'importo del credito sia manifestamente sproporzionato, per difetto, al valore del bene mobile registrato assoggettato al fermo; c) gli artt. 4 e 41 Cost., perché, l'iscrizione del fermo su un veicolo, comportando l'assoluta indisponibilità del bene (date la confisca e la sanzione amministrativa previste, per il caso di circolazione del veicolo sottoposto a fermo, dall'art. 214 , comma 8, del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285, recante il «Nuovo codice della strada»), incide irragionevolmente sulla sfera di diritti costituzionalmente garantiti del contribuente, «quali il diritto al lavoro ed alla libera iniziativa economica»;

che tali questioni sono manifestamente inammissibili, per difetto di rilevanza nel giudizio a quo e, comunque, per difetto di motivazione in ordine alle ragioni per le quali profili di illegittimità dell'impugnato provvedimento di fermo non prospettati dalle parti rientrebbero nel thema decidendum del giudizio principale;

che, infatti, secondo quanto si evince dal testo dell'ordinanza di rimessione, l'oggetto del giudizio principale attiene alla legittimità del provvedimento del fermo sotto i soli profili: a) della decadenza del Concessionario dal potere di riscossione per la tardiva iscrizione a ruolo del credito tributario; b) della mancata preventiva notificazione dell'avviso previsto dall'art. 50, secondo comma, del d.P.R. n. 602 del 1973; c) della prescrizione dei crediti fatti valere dal suddetto Concessionario;

che, tuttavia, la medesima Commissione tributaria rimettente ritiene non fondate tali censure;

che, pertanto, esulano dalla prospettazione del ricorrente nel giudizio principale tutti i profili in relazione ai quali il giudice a quo ha sollevato d'ufficio questioni di legittimità costituzionale, e cioè, come già sopra visto: a) l'arbitrio del concessionario nel disporre la misura; b) l'omessa previsione legislativa di un obbligo di motivazione della misura medesima; c) la mancata previsione di un preventivo vaglio giurisdizionale della stessa; d) l'omessa previsione di un termine finale di efficacia del fermo; e) la lesione del diritto di difesa del contribuente; f) la lesione, ad opera dell'iscrizione del fermo su un veicolo, di ulteriori diritti costituzionalmente garantiti del contribuente medesimo;

che l'invocata dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma oggetto di censura non può avere alcuna incidenza nel giudizio a quo, dovendo essa essere pronunciata con riferimento a circostanze, quali quelle sopra menzionate, che risultano estranee al thema decidendum del giudizio principale (ex plurimis, ordinanza n. 149 del 2006).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell'art. 86 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), nel testo risultante dalla sostituzione del primo comma ad opera dell'art. 1, comma 1, lettera q), del decreto legislativo 27 aprile 2001, n. 193 (Disposizioni integrative e correttive dei Decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46, e Decreto legislativo 13 aprile 1999, n. 112, in materia di riordino della disciplina relativa alla riscossione), e quale interpretato autenticamente dall'art. 3, comma 41, del decreto-legge 30 settembre 2005, n. 203 (Misure di contrasto all'evasione fiscale e disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dall'art. 1, comma 1, della legge 2 dicembre 2005, n. 248, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 41, 97 e 111 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Cosenza con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2008.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 7 novembre 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 365

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Giovanni Maria  FLICK          Presidente

- Francesco       AMIRANTE         Giudice

- Ugo             DE SIERVO           "

- Paolo           MADDALENA           "

- Alfio           FINOCCHIARO         "

- Alfonso         QUARANTA            "

- Franco          GALLO               "

- Luigi           MAZZELLA            "

- Gaetano         SILVESTRI           "

- Sabino          CASSESE             "

- Maria Rita      SAULLE              "

- Giuseppe        TESAURO             "

- Paolo Maria     NAPOLITANO          "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 41, commi primo e quarto, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), come sostituiti dagli artt. 31 e 39 del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), promosso con ordinanza del 15 dicembre 2007 dal Tribunale ordinario di Firenze nella procedura fallimentare relativa al Fallimento 51 s.a.s., iscritta al n. 119 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella < I style="mso-bidi-font-style: normal">Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell'anno 2008.

    Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio dell'8 ottobre 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.

Ritenuto che, con ordinanza depositata il 15 dicembre 2007, il Tribunale ordinario di Firenze, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 41, commi primo e secondo (recte: quarto), del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), come sostituiti dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80);

che, in via subordinata, lo stesso rimettente ha, con la medesima ordinanza, sollevato anche questione di legittimità costituzionale, sempre in relazione agli artt. 3 e 76 della Costituzione, del solo art. 35 del regio decreto n. 267 del 1942;

che il Tribunale rimettente premette, in fatto, che il 6 dicembre 2007 il giudice delegato del fallimento della società 51 s. a. s. gli riferiva: a) di essere stato informato dal curatore di quel fallimento che, a seguito della autorizzazione del comitato dei creditori, era imminente il perfezionamento di un atto di transazione e vendita a trattativa privata di una quota significativa di beni immobili facenti parte dell'attivo della procedura, ad un prezzo pari al valore di stima; b) di aver rilevato che, non essendo stata data pubblicità alla predetta vendita, non era dato sapere se fosse possibile ottenere un prezzo più elevato; c) di aver ritenuto, pertanto, che tale v endita a trattativa privata poteva risultare viziata sia  sotto il profilo di merito, in quanto inidonea a realizzare il massimo interesse del «ceto creditorio», sia sotto il profilo della legittimità, in quanto in contrasto con la previsione dall'art. 107, primo comma, del r.d. n. 267 del 1942, il quale prescrive, per la vendita dei beni immobili fallimentari, che il curatore segua «procedure competitive», assicurando, «con adeguate forme di pubblicità», la massima partecipazione degli interessati;

che il collegio, ritenuti primo visu non infondati i rilievi del giudice delegato, emetteva decreto col quale disponeva che il curatore non desse corso al perfezionamento degli atti di transazione e vendita, fissando per il successivo 12 dicembre l'udienza camerale per l'adozione degli ulteriori provvedimenti;

che, in tale sede, il Tribunale, con l'ordinanza di rimessione, osservava che il nuovo art. 41 del r.d. n. 267 del 1942 attribuisce il potere di autorizzare gli atti del curatore al comitato dei creditori, risultando confinata solo ad ipotesi residuali l'attribuzione di tale potere al giudice delegato e che, al di fuori di tali ipotesi, al giudice delegato spetta la potestà autorizzatoria principalmente in caso di approvazione del piano di liquidazione ai sensi dell'art. 104-ter del r.d. n. 267 del 1942;

che, aggiunge il rimettente, essendo, tuttavia, compito del giudice delegato esercitare il controllo e la vigilanza sulla regolarità della procedura, non sarebbe chiaro come tale funzione di controllo si possa esplicare, in presenza di atti illegittimi o comunque in contrasto con gli interessi dei creditori;

che, ad avviso del giudice a quo, la previsione contenuta nell'art. 35 del r.d. n. 267 del 1942, che impone al curatore di informare preventivamente il giudice delegato degli atti di straordinaria amministrazione aventi significativo contenuto economico e di tutte le transazioni, è, appunto, volta a consentire l'esercizio del potere di vigilanza e di controllo, il quale non potrebbe più esplicarsi direttamente attraverso strumenti di tipo inibitorio, in quanto non previsti, ma si svolgerebbe attualmente tramite la informativa al collegio, secondo la procedura di cui all'art. 25, primo comma, numero 1), del r.d. n. 267 del 1942, a seguito della quale il collegio avrebbe il potere di verificare la legittimità formale e sostanziale dell'atto di straordinaria amministrazione;

che, opina ancora il rimettente, nell'esercizio di tale potere spetterebbe al collegio anche la competenza ad adottare quei provvedimenti, inibitori o confermativi della iniziativa del curatore, idonei ad assicurare il regolare svolgimento della procedura;

che, peraltro, la possibilità del collegio di entrare nel merito delle osservazioni del giudice delegato, valutando la legittimità della iniziativa del curatore fallimentare, presuppone - sempre a giudizio del rimettente collegio - che «il sistema autorizzatorio delineato dagli artt. 41 e 35 L. F. sia costituzionalmente legittimo o, in via subordinata, che sia tale l'esclusione di un autonomo potere di intervento da parte del G.D.»;

che, in tal senso, la questione di legittimità costituzionale delle indicate disposizioni normative sarebbe rilevante;

che il Tribunale di Firenze argomenta prioritariamente, riguardo alla non manifesta infondatezza della questione, con riferimento alla conformità delle predette disposizioni all'art. 76 della Costituzione, dubitando che l'indicato sistema autorizzatorio trovi un «conforto» nella legge 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali);

che, ad avviso del rimettente, le due disposizioni in questione, ponendo, salvo ipotesi residuali, il potere autorizzatorio in capo al comitato dei creditori - così «stravolgendo per riflesso la funzione del G.D.», che verrebbe ridimensionato nella sua funzione di «organo di garanzia della tutela degli interessi sottesi al fallimento» - non troverebbero fondamento in alcuno dei principi e criteri direttivi contenuti nella legge di delega;

che, in particolare, non sarebbe consentito rinvenirne la giustificazione nella possibilità prevista dall'art. 1, comma 6, lettera a), numero 1), della legge n. 80 del 2005, di procedere al coordinamento dei poteri degli organi della procedura;

che il rimettente osserva come tale criterio di delega non preveda un mutamento delle attribuzioni dei «poteri» agli organi della procedura, ma solo un coordinamento degli stessi, stanti le più ampie «competenze» assegnate al comitato dei creditori;

che, peraltro, ad avviso del rimettente, l'ampliamento delle competenze del comitato dei creditori previsto dalla legge di delega sarebbe finalizzato ad estendere la partecipazione di questo alla "gestione" della crisi dell'impresa, di tal che, dovendosi escludere che il potere autorizzatorio sia riconducibile ad un profilo "gestorio", essendo, invece, esso riferibile ad una funzione di carattere direttivo, la descritta estensione delle competenze del comitato dei creditori esulerebbe comunque dai limiti della delega;

che, aggiunge il rimettente, parrebbe difficile ipotizzare che una modifica quale quella di trasferire dal giudice delegato al comitato dei creditori - organo non neutrale e non rappresentativo di tutti gli interessi rilevanti (certamente non di quelli del fallito) - il potere di autorizzare gli atti del curatore, potere connotato da finalità di garanzia e tutela, non sarebbe stata oggetto di una specifica direttiva nella delega legislativa ove il legislatore delegante l'avesse effettivamente voluta;

che, sotto altro profilo, il rimettente ritiene che il sistema autorizzatorio ricavabile dagli artt. 41, primo e quarto comma, e 35 del r.d. n. 267 del 1942 sia in contrasto col canone della ragionevolezza, presidiato dall'art. 3 della Costituzione;

che, rileva il rimettente, potendo detto sistema trovare applicazione solo nelle procedure in cui è possibile costituire un efficiente comitato dei creditori, si determina un'irragionevole disparità di trattamento, stante il fatto che, spettando, in caso di assenza o di mancato funzionamento di detto comitato, il potere di autorizzazione al giudice delegato, il «ceto creditorio» ed il fallito saranno tutelati tramite l'esercizio di tale potere da parte di un organo giurisdizionale solo in tale ipotesi, mentre, nell'ipotesi di esistenza e di funzionamento del comitato dei creditori, il potere di controllo sarà esercitato da un organo di matrice privatistica, non rappresentativo, in quanto non nominato da costoro, nemmeno di tutti i creditori;

che l'irragionevolezza delle disposizioni censurate è riscontrabile anche nel fatto che, anche all'interno di una stessa procedura, se l'atto di straordinaria amministrazione è previsto all'interno del programma di liquidazione o di un suo supplemento, esso sarà oggetto dell'autorizzazione del giudice delegato, se, invece, è estraneo al programma di liquidazione sarà soggetto all'autorizzazione del comitato dei creditori;

che, pertanto, la diversa tutela offerta ai creditori ed al fallito dipende, irragionevolmente, da un fattore casuale o, comunque, da una scelta del curatore del fallimento;

che, in via subordinata, il Tribunale di Firenze solleva, sempre in relazione agli artt. 3 e 76 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del solo art. 35 del r.d. n. 267 del 1942, nella parte in cui non prevede in capo al giudice delegato la possibilità di intervenire, inibendo il perfezionamento di un atto di straordinaria amministrazione del curatore ritenuto illegittimo o contrario agli interessi dei creditori o del fallito;

che, ad avviso del rimettente, nella legge di delega non sarebbe rinvenibile alcun principio che autorizzi la trasformazione del giudice delegato in un organo passivo, destinato ad esercitare le sue attribuzioni solo a seguito della iniziativa di terzi;

che, competendo al giudice delegato il controllo sulla procedura fallimentare - anche a voler ammettere l'avvenuto trasferimento al comitato dei creditori del potere di autorizzare il compimento di atti di straordinaria amministrazione - ove si intenda dare un effettivo contenuto al predetto potere di controllo, sarebbe, quantomeno, necessario configurare un potere di intervento sugli atti autorizzati o autorizzandi in capo al giudice delegato;

che la mancata attribuzione di siffatto potere violerebbe l'art. 76 della Costituzione, in quanto la previsione, non solo sarebbe stata introdotta in carenza di una disposizione di delega, ma sarebbe anche in contrasto col principio direttivo che prevede il coordinamento fra i poteri degli organi della procedura; infatti, pur ammettendo la legittimità costituzionale del trasferimento del potere autorizzatorio dal giudice delegato al comitato dei creditori, risponderebbe a tale principio direttivo la previsione di un residuo potere di intervento in capo al giudice delegato;

che, infine, la mancata previsione del ricordato potere di intervento risulterebbe irragionevole, sia per la contraddittorietà insita nel prevedere un obbligo di informazione cui non è correlata alcuna possibilità di intervenire da parte del soggetto informato, sia perché la già dianzi descritta disparità di trattamento che sussiste fra chi (qualora l'atto di straordinaria amministrazione sia inserito nel programma di liquidazione) goda della tutela offerta dal meccanismo di autorizzazione da parte di un organo giudiziario e quanti (qualora l'atto si collochi al di fuori di tale programma) non possano godere di detta tutela, è resa ancor più intensa dal fatto che costoro, stante la mancata previsione di un apposito strumento inibitorio, non possono effettivamente usufruire neppure del controllo ex post del giudice delegato;

che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la inammissibilità e, comunque, per l'infondatezza della questione;

che, quanto alla inammissibilità della questione, la Avvocatura ne contesta la rilevanza;

che, infatti, secondo la difesa pubblica, nel giudizio a quo, in cui non è in discussione la legittimità o meno di eventuali provvedimenti inibitori emessi dal giudice delegato, ma, semmai, l'ampiezza dei poteri di controllo spettanti al collegio a seguito della relazione ad esso indirizzata, ai sensi dell'art. 25, primo comma, numero 1), del r.d. n. 267 del 1942, dallo stesso giudice delegato, l'eventuale accoglimento della sollevata questione non spiegherebbe alcun effetto;

che, sempre secondo la difesa erariale, un ulteriore profilo di inammissibilità della questione deriverebbe dal fatto che, diversamente da quanto ritenuto dal rimettente, il giudizio a quo non avrebbe ad oggetto un generico atto di straordinaria amministrazione ma un vero e proprio atto di liquidazione dell'attivo fallimentare, la cui disciplina, contenuta nell'art. 104-ter del r.d. n. 267 del 1942, prevede che esso sia autorizzato dal giudice delegato, dopo che ne ha verificato la legittimità;

che, quanto al merito, la interveniente difesa, ritenuto corretto inquadrare la fattispecie nell'ambito degli atti di liquidazione dell'attivo fallimentare, osserva che la norma da sottoporre a scrutinio di costituzionalità doveva essere l'art. 104-ter del r.d. n. 267 del 1942, norma quest'ultima che, anche alla luce delle correzioni intervenute a seguito della entrata in vigore del decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell'art. 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80), è perfettamente in linea sia col criterio direttivo contenuto nell'art. 1, comma 6, numero 10), della legge n. 80 del 2005, sia con quello contenuto nell'art. 1, comma 6, lettera a), numero 1), della stessa legge, il quale introduce la distinzione tra controllo sugli atti di gestione del curatore fallimentare, assegnato al comitato dei creditori, e controllo di legittimità sugli atti medesimi, riservato al giudice delegato.    

Considerato che il Tribunale ordinario di Firenze dubita, con riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 35 e 41, commi primo e quarto, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), come sostituiti dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), nella parte in cui prevedono che, affinché il curatore fallimentare possa effettuare atti di straordinaria amministrazione, sia necessaria la previa autorizzazione del comitato dei creditori e non più quella del giudice delegato, così come era, invece, previsto anteriormente alla riforma della procedure concorsuali realizzata con il d.lgs. n. 5 del 2006;

che, subordinatamente all'eventuale rigetto della questione di legittimità costituzionale ora indicata, il medesimo Tribunale dubita, ancora con riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 35 del r.d. n. 267 del 1942, come sostituito dal d.lgs. n. 5 del 2006, nella parte in cui, pur prevedendo che il curatore del fallimento, in caso di effettuazione di atti di straordinaria amministrazione il cui valore sia superiore a cinquantamila euro, o in ogni caso per le transazioni, debba previamente informare il giudice delegato, non attribuisce a quest'ultimo, ove ravvisi ipotesi di illegittimità formale o sostanziale dell'atto in questione, il potere di inibirne il compimento;

che, in particolare, con riferimento alla censura principale, il rimettente ritiene che il trasferimento del potere di autorizzare gli atti di straordinaria amministrazione del curatore fallimentare dall'ambito delle attribuzioni del giudice delegato a quello del comitato dei creditori non trovi riscontro in alcuno dei criteri e principi direttivi di cui alla delega legislativa contenuta nella legge 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), e che, d 'altra parte, la circostanza che il potere autorizzatorio continui ad essere attribuito al giudice delegato nel caso di procedura fallimentare in cui non sia possibile il funzionamento del comitato dei creditori, ovvero in cui questo rimanga inerte, determina un'irragionevole disparità di trattamento;

che ulteriore disparità di trattamento viene ravvisata dal rimettente nel fatto che, diversamente da quanto si verifica per gli atti di straordinaria amministrazione di cui al citato art. 35 del r.d. n. 267 del 1942, gli atti di straordinaria amministrazione contenuti nel programma di liquidazione predisposto dal curatore del fallimento, ai sensi dell'art. 104-ter del r.d. n. 267 del 1942, sono autorizzati dal giudice delegato, sicché la forma di controllo più intensa affidata ad un organo della giurisdizione dipenderebbe da una scelta del curatore del fallimento;

che, con riguardo alla censura formulata in via subordinata, il rimettente, oltre a dubitare del fatto che - avendo il legislatore delegante previsto, fra i compiti del legislatore delegato, in considerazione dell'ampliamento delle competenze del comitato dei creditori, quello di provvedere al coordinamento degli altri organi della procedura fallimentare - sia rispettosa di tale delega la mancata previsione del potere del giudice delegato di intervenire con strumenti inibitori sul perfezionamento degli atti di straordinaria amministrazione del curatore, autorizzati del comitato dei creditori, ritiene, altresì, che sia intrinsecamente irragionevole avere previsto, per gli atti di significativo valore economico, ed in ogni caso per le transazioni, la necessaria previa informativa al giudice delegato, laddove non s ia stata anche prevista - quale strumento per l'attuazione dei compiti di controllo e vigilanza sulla procedura demandati al giudice delegato ed in relazione ai quali si giustifica la necessità della previa informativa - la attribuzione a detto giudice dell'autonomo potere di impedire il perfezionamento di tali atti;

che, d'altra parte, tale circostanza risulterebbe foriera anche di una disparità di trattamento, in quanto, diversamente da ciò che si verifica nelle sopraindicate residuali e derogatorie ipotesi in cui la competenza autorizzatoria è rimasta in capo al giudice delegato, nella disciplina ordinaria non sarebbe consentito neppure un efficace controllo ex post del giudice delegato sull'operato del curatore del fallimento;

che, a prescindere dal problematico inquadramento normativo attribuito dal giudice rimettente alla fattispecie al suo esame, risultando dubbio che essa sia riconducibile alla previsione dell'art. 35 del r.d. n. 267 del 1942, piuttosto che a quella dell'art. 104-ter del r.d. n. 267 del 1942 - disposizione questa, peraltro, modificata successivamente al deposito dell'ordinanza di rimessione dall'art. 7 del decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell'art. 1, commi 5, 5-bis, e 6 della legge 14 maggio 2005, n. 80), nel senso dell'estensione anche al programma di liquidazione del potere di approvazione del comitato dei creditori, residuando al giudice delegato solo il compito di autorizzare l'esecuzione dei singoli atti ad esso conformi - la questione di legittimità costituzionale, sia come formulata in via principale sia come formulata in via subordinata, appare manifestamente inammissibile in quanto irrilevante nell'ambito della fase processuale durante la quale l'incidente di costituzionalità è stato sollevato;

che, in particolare, essendo stato il giudice collegiale rimettente oramai già investito dal giudice delegato - in applicazione del generale potere di "relazione" al collegio a lui attribuito dall'art. 25, primo comma, numero 1), del r.d. n. 267 del 1942 - della valutazione sulla legittimità dell'operato del curatore del fallimento non ha più alcuna attualità - ed è, pertanto, privo di rilevanza - il quesito sia in ordine alla legittimità costituzionale del trasferimento dal giudice delegato al comitato dei creditori del potere di autorizzare gli atti di straordinaria amministrazione del curatore fallimentare, sia in ordine alla ragionevolezza della mancata previsione di un immediato potere di intervento del giudice delegato per impedire il perfezionamento dell'atto del curator e fallimentare autorizzato dal comitato dei creditori;

che, infatti, il giudice delegato, cui semmai spettava di dolersi di quanto successivamente lamentato dal giudice collegiale (sulla legittimazione del giudice delegato a sollevare questione incidentale di legittimità costituzionale si vedano la sentenza n. 71 del 1994 e le ordinanze n. 168 e n. 75 del 2002), ha, viceversa, ritenuto di definire la vicenda procedurale di fronte a sé attraverso il deferimento di essa alla cognizione del giudice collegiale, privando in tal modo di rilevanza la dedotta questione.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. 

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 41, commi primo e quarto, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), come sostituiti dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 76 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Firenze con l'ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2008.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 7 novembre 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 366

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Giovanni Maria    FLICK     Presidente

- Francesco         AMIRANTE    Giudice

- Ugo               DE SIERVO      "

- Paolo             MADDALENA      "

- Alfio             FINOCCHIARO    "

- Alfonso           QUARANTA       "

- Franco            GALLO          "

- Luigi             MAZZELLA       "

- Gaetano           SILVESTRI      "

- Sabino            CASSESE        "

- Maria Rita        SAULLE         "

- Giuseppe          TESAURO        "

- Paolo Maria       NAPOLITANO     "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di ammissibilità del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri in relazione al decreto del Ministro di grazia e giustizia del 10 luglio 1971, con il quale la competenza a legalizzare le firme sugli atti e documenti formati nello Stato e da valere all'estero davanti ad Autorità estere, attribuita al Ministero di grazia e giustizia dall'art. 17, primo comma, della legge 4 gennaio 1968, n. 15, modificato dall'art. 4, primo comma, della legge 11 maggio 1971, n. 390, è delegata ai Procuratori della Repubblica presso i Tribunali nella cui giurisdizione territoriale gli atti medesimi sono formati, e alla circolare dello stesso Ministro n. 1/1-36(65) 705 del 6 febbraio 1978 - avente ad oggetto la Convenzione riguardante l'abolizione della legalizzazione degli atti pubblici stranieri, adottata a l'Aja il 5 ottobre 1961, ratificata con legge 20 dicembre 1966, n. 1253 - con cui è stata attribuita alle Procure della Repubblica la competenza a deliberare le apostille, promosso con ricorso della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pistoia, depositato in cancelleria il 21 maggio 2008 ed iscritto al n. 13 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2008, fase di ammissibilità.

    Udito nella camera di consiglio dell'8 ottobre 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.

    Ritenuto che, con ricorso datato 15 maggio 2008 e depositato nella cancelleria della Corte  il successivo 21 maggio, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pistoia ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, sia in relazione al decreto dell'allora Ministro di grazia e giustizia del 10 luglio 1971, con cui è stata delegata ai Procuratori della Repubblica la competenza a legalizzare le firme sugli atti e i do cumenti formati nello Stato e da valere all'estero davanti ad autorità estere, sia in relazione alla circolare  dello stesso Ministro del 6 febbraio 1978, prot. n. 1/1-36 (65) 705, con la quale si è attribuita alle Procure della Repubblica la competenza a deliberare le apostille;

    che il presente giudizio è volto ad ottenere l'annullamento dei predetti atti, «previa declaratoria di non spettanza al Ministero di Grazia e Giustizia del potere di delegare alle Procure della Repubblica l'attività di legalizzazione e di apporre le apostille»;

    che  il ricorrente, in fatto, riassume brevemente come si  sarebbe giunti all'emanazione del censurato decreto con cui è stata delegata, dall'allora Ministro di grazia e giustizia,  tale competenza alle Procure della Repubblica;

    che, in particolare, riferisce che l'impugnato decreto ministeriale è stato emanato dall'allora Ministro di grazia e giustizia, in base a quanto disposto dall'art. 4 - recte: dall'art. 17, primo comma - della legge 4 gennaio 1968, n. 15 (Norme sulla documentazione amministrativa e sulla legalizzazione e autenticazione di firme), come modificato dall'art. 4 della legge 11 maggio 1971, n. 390 (Modifiche ed integrazioni alla legge 4 gennaio 1968, n. 15, contenente norme sulla documentazione amministrativa e sulla legalizzazione ed autenticazione di firme), ed ora recepito dall'art. 33, comma 1, del d.P.R. 28 dicembre del 2000, n. 445, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di documentazio ne amministrativa», testo unico  abrogativo della legge n. 15 del 1968;

    che, in base a tale disposizione, l'allora Ministro di grazia e giustizia, con decreto del 10 luglio 1971, delegava ai Procuratori della Repubblica la competenza a legalizzare le firme sugli atti e documenti formati nello Stato e da valere all'estero, competenza, sino a tutt'oggi, propria delle Procure della Repubblica;

    che, in relazione, poi, alla Convenzione adottata a l'Aja il 5 ottobre 1961 (ratificata con legge 20 dicembre 1966, n. 1253, recante "Ratifica ed esecuzione della Convenzione riguardante l'abolizione della legalizzazione di atti pubblici stranieri, adottata a l'Aja il 5 ottobre 1961"), l'allora Ministro di grazia e giustizia ugualmente, con  la circolare del 6 febbraio 1978, prot. n. 1/1 - 36(65) 705, delegava ai Procuratori della Repubblica la competenza a rilasciare le «apostille» per attestare la veridicità della firma o l'identificazione del contrassegno o del timbro che contrassegna il documento, in quanto «funzionari incaricati della legalizzazione delle firme ai sensi della legge 1968 n. 15»;  

    che, ritenendo tali atti lesivi di proprie prerogative costituzionali, e lamentando la violazione degli artt. 104 e 112 della Costituzione, la Procura  di Pistoia ha promosso il presente conflitto;

    che, per quanto concerne l'ammissibilità del conflitto, la Procura della Repubblica rileva, preliminarmente, sotto il profilo soggettivo, come la giurisprudenza  della Corte abbia riconosciuto tanto la propria legittimazione attiva (sentenze n. 26 del 2008; n. 150 e n. 132 del 1981; n. 231 del 1975), quanto quella passiva del Presidente del Consiglio dei ministri (ordinanza n. 221 del 2004) e, come, poi, in ordine al termine per proporre ricorso, la Corte  abbia ritenuto non esistere un termine finale per sollevare conflitti di attribuzione tra poteri data l'esigenza, avvertita dal legislatore, «di favorirne al massim o la composizione» (sentenza n. 116 del 2003);

    che, entrando, quindi, nel merito, la Procura ricorrente - ricostruito sinteticamente l'istituto della legalizzazione, il quale, a suo giudizio, deve essere classificato  come «un atto amministrativo dichiarativo di certazione» - conclude nel senso che il Ministro è venuto a delegare alle Procure della Repubblica, alle quali l'art. 112 Cost. riserva l'esercizio dell'azione penale, una competenza amministrativa;

    che, sempre a detta del ricorrente, tale delega sarebbe stata, per di più, conferita con un provvedimento amministrativo puntuale e concreto, quale l'impugnato decreto del 10 luglio 1971, non avente natura normativa, in quanto privo dei requisiti  della generalità ed astrattezza;

    che, dunque,  viene promosso  conflitto di attribuzione perchè si contesta che l'allora Ministro di grazia e giustizia potesse delegare un'attività amministrativa ad un soggetto appartenente alla Magistratura, «ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» ai sensi dell'art. 104 Cost, e tanto più alle Procure della Repubblica, le quali, ai sensi dell'art. 112 Cost., esercitano l'azione penale, potendo il Ministro stesso delegare tale attività solo ad organi amministrativi centrali o periferici del medesimo Ministero o ad altri organi della pubblica amministrazione;

    che, del resto, secondo il ricorrente, la ratio dell'art. 4 della legge n. 390 del 1971 è quella di riconoscere a tutti i Ministeri che hanno tra le proprie attribuzioni quella di «formazione di atti e documenti che possono avere una destinazione estera» la facoltà di operare una «delega interorganica e intersoggettiva», conseguentemente possibile solo nei confronti di organi della pubblica  amministrazione;

    che, quindi, sempre secondo il ricorrente, non  risultando l'ufficio del pubblico ministero un organo e neppure un'autorità amministrativa, ma un soggetto appartenente alla Magistratura, il quale non perde questa sua connotazione soggettiva neanche quando viene a svolgere funzioni non giurisdizionali nei casi previsti dall'art. 73 del regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12, ne deriva che «il Ministero di giustizia», nel delegare alle Procure l'attività di legalizzazione in oggetto avrebbe compiuto «un atto abnorme»;

    che, prosegue il ricorrente, tale abnormità sarebbe stata, poi, reiterata dallo stesso Ministero con l'emanazione della circolare del 6 febbraio 1978, prot. n. 1/1 - 36(65) 705;

    che, specificamente, poi, per quanto riguarda la violazione dell'art. 104 Cost., il ricorrente - dopo aver qualificato il conflitto sollevato come rientrante tra quelli cosiddetti per menomazione o interferenza - lamenta che, con gli atti impugnati, l'allora Ministro di grazia e giustizia verrebbe ad assoggettare le Procure della Repubblica, per effetto della delega, ad un potere di direttiva (circa gli atti da compiere) e di controllo con poteri di sostituzione nei casi di inerzia, nonché di annullamento degli atti compiuti in sede di autotutela;

    che, conseguentemente, con i provvedimenti impugnati, il «Ministero di Giustizia», avendo costituito un rapporto di controllo e di interferenza sui «magistrati del pubblico ministero», avrebbe oltrepassato i limiti segnati dagli artt. 107, secondo comma, e 110 Cost., venendo ad interferire e a menomare la funzione che la Costituzione assegna al pubblico ministero, minando anche l'autonomia e l'indipendenza garantita dall'art. 104 della Costituzione;

    che sarebbe stato, altresì, violato, con gli atti impugnati, l'art. 112 Cost., in quanto l'attribuzione della potestà di legalizzazione «distoglie le Procure dall'esercizio dell'azione penale, competenza che la Costituzione conferisce al pubblico ministero configurandola, peraltro, come obbligatoria»;

    che, segnala ancora il ricorrente, il procedimento di legalizzazione comporta possibili responsabilità penali per il pubblico ministero (ex art. 479 del codice penale) e civili per il Ministro della giustizia, il quale potrebbe, a sua volta, «mediante l'esercizio dell'azione contabile», rivalersi nei confronti del pubblico ministero;

    che, infine, la Procura di Pistoia ritiene ammissibile il presente conflitto, in quanto la fattispecie di cui trattasi sarebbe parzialmente difforme da quelle che hanno dato origine a precedenti decisioni della Corte (ordinanze n. 84 e n. 86 - recte: 87 - del 1978), con le quali è stata dichiarata l'inammissibilità di conflitti di attribuzione in casi apparentemente simili a quello in esame;  

    che, in ogni caso, prosegue la Procura ricorrente, il conflitto viene promosso nella convinzione che la Corte costituzionale addivenga, nel caso di specie, ad un «auspicato revirement», sulla base della considerazione che la garanzia costituzionale dell'indipendenza dei giudici non debba  riguardare solo l'esercizio della funzione giurisdizionale;

    che, pertanto, la ricorrente Procura chiede che, «previa declaratoria della non spettanza al Ministero di Grazia e Giustizia del potere di delegare alla Procure della Repubblica l'attività di legalizzazione e di apporre le apostille», la Corte costituzionale «[v]oglia annullare il decreto 10 luglio 1971  e la circolare n. 1/1 - 36(65) del 6-2-1978». 

    Considerato che, in questa fase del giudizio, a norma dell'art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, la Corte costituzionale è chiamata a deliberare, senza contraddittorio, circa l'esistenza o meno della «materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza»;

     che, sotto il profilo soggettivo, la giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere legittimati ad essere parti di conflitti di attribuzione i singoli organi giurisdizionali, in relazione al carattere diffuso che contrassegna il potere di cui fanno parte e alla loro competenza a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartengono, ma limitatamente all'esercizio dell'attività giurisdizionale assistita da garanzia costituzionale (ordinanze n. 338 del 2007; n. 340 e n. 244 del 1999; n. 87 del 1978);

    che, nel caso di specie, la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pistoia è manifestamente priva di legittimazione attiva, in quanto né l'attività di legalizzazione, né quella di apposizione delle apostille, delegate alle Procure della Repubblica, possono essere riconnesse all'esercizio della funzione giurisdizionale, trattandosi di funzioni meramente amministrative;

    che il ricorso è inammissibile anche per carenza del requisito oggettivo, in quanto la controversia relativa all'annullamento di atti che non riguardano il potere di giudicare - quali qulli relativi alle attività che l'allora Ministero di grazia e giustizia ha delegato alle Procure della Repubblica con il decreto ministeriale del 10 luglio 1971  e la circolare ministeriale n. 1/1 - 36(65) del 6 febbraio 1978 - trova la sua  disciplina in norme di carattere  organizzativo e ordinamentale, e,  non toccando la delimitazione della sfera di attribuzioni determinate da norme costituzionali, «n on attinge al livello del conflitto tra poteri dello Stato, la cui risoluzione spetta alla Corte costituzionale» (ordinanza n. 90 del 1996);

    che, dunque, non sussiste neppure il requisito oggettivo della esistenza della materia del conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato;

    che, pertanto, va dichiarata l'inammissibilità del ricorso.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara inammissibile, ai sensi dell'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dalla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Pistoia nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2008.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 7 novembre 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedente

ORDINANZA N. 367

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Giovanni Maria  FLICK              Presidente

- Francesco       AMIRANTE             Giudice

- Ugo             DE SIERVO               "

- Paolo           MADDALENA               "

- Alfio           FINOCCHIARO             "

- Alfonso         QUARANTA                "

- Franco          GALLO                   "

- Luigi           MAZZELLA                "

- Gaetano         SILVESTRI               "

- Sabino          CASSESE                 "

- Maria Rita      SAULLE                  "

- Giuseppe        TESAURO                 "

- Paolo Maria     NAPOLITANO              "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi per conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato sorti a seguito degli articoli 1, comma 10, e 4, comma 6, della legge 21 dicembre 2005, n. 270, (Modifiche alle norme per l'elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica), e dell'articolo 17 del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l'elezione del Senato della Repubblica), promossi con ricorsi di Guido Anetrini e Filippo Fiandrotti, depositati in cancelleria il 17 aprile 2008 ed iscritti ai nn. 8 e 9  del registro conflitti tra poteri dello Stato 2008, fase di ammissibilità.

    Udito nella camera di consiglio del 22 ottobre 2008 il Giudice relatore Ugo De Siervo.

    Ritenuto che con ricorso depositato il 17 aprile 2008 (iscritto al reg. confl. poteri amm. n. 8 del 2008), il signor Guido Anetrini ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Parlamento della Repubblica, «in persona del Presidente pro tempore del Senato della Repubblica e del Presidente pro tempore della Camera dei Deputati»;

    che il ricorrente denuncia, in riferimento agli articoli 1, 10 e 67 della Costituzione ed all'articolo 3 del Protocollo addizionale alla Convezione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, gli articoli 1, comma 10, e 4, comma 6, della legge 21 dicembre 2005, n. 270 (Modifiche alle norme per l'elezione della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica), nella «parte in cui inibiscono al popolo sovrano di esprimere la propria preferenza nei confronti dei candidati alla elezione del Senato della Repubblica e della Camera dei Deputati»;

    che, quanto all'ammissibilità del presente conflitto, il ricorrente sostiene che il potere riconosciuto al popolo nel suo complesso di partecipare, direttamente o indirettamente, alle supreme decisioni politiche, è «attribuito, senza frazionamento o limitazione alcuna, a ciascun cittadino elettore, inteso quale cardine di quella sovranità che, nel nostro sistema, si realizza attraverso il suffragio universale»;

    che per il ricorrente le censurate disposizioni determinano la violazione delle attribuzioni costituzionali riconosciute ad ogni singolo elettore, in quanto il divieto di esprimere preferenze conduce alla «spoliazione totale ed assoluta della sovranità popolare sulla quale si fonda la Repubblica»;

    che, attesa l'intima connessione tra il divieto di esprimere preferenze ed altre norme del vigente sistema elettorale, il ricorrente chiede, altresì, a questa Corte di sollevare questione di legittimità costituzionale dell'articolo 1, comma 12, della legge n. 270 del 2005 e dell'articolo 17 del decreto legislativo 20 dicembre 1993, n. 533 (Testo unico delle leggi recanti norme per l'elezione del Senato della Repubblica), come modificato dalla legge n. 270 del 2005, nella parte in cui assegnano il premio di maggioranza a prescindere dal conseguimento di un quorum minimo di consensi, per violazione dell'articolo 3 della Costituzione;

    che con ricorso depositato il 17 aprile 2008 (iscritto al reg. confl. poteri amm. n. 9 del 2008), il signor Filippo Fiandrotti ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Parlamento della Repubblica, «in persona del Presidente pro tempore del Senato della Repubblica e del Presidente pro tempore della Camera dei Deputati», sviluppando identiche argomentazioni, in punto di ammissibilità e di merito, del ricorso iscritto al reg. confl. amm. n. 8 del 2008.

    Considerato che i due ricorsi presentano identico contenuto e che, pertanto, i relativi giudizi di ammissibilità possono essere riuniti per essere decisi con unica ordinanza;

    che in questa fase la Corte è chiamata, ai sensi dell'art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), ad accertare se il sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sia ammissibile, valutando, senza contraddittorio tra le parti, se ne sussistano i requisiti soggettivo ed oggettivo, restando impregiudicata ogni ulteriore decisione anche in punto di ammissibilità;

    che, sotto il profilo soggettivo, entrambi i conflitti sono inammissibili in quanto proposti da singoli cittadini, seppur autoqualificatisi componenti «dell'organo costituzionale "corpo elettorale"»;

    che, invero, questa Corte ha affermato che «in nessun caso [.] il singolo cittadino può [.] ritenersi investito di una funzione costituzionalmente rilevante tale da legittimarlo a sollevare conflitto di attribuzione ai sensi degli artt. 134 Cost. e 37 legge n. 87 del 1953» (ordinanza s.n. del 27 luglio 1988; dello stesso tenore le ordinanze n. 189 del 2008; n. 296 del 2006; n. 57 del 1971);

    che questa Corte ribadisce l'infondatezza dell'assunto da cui muovono i ricorrenti, secondo il quale, «in virtù di una malintesa percezione del "potere diffuso", ciascun componente del corpo elettorale sarebbe configurato come un organo che ne esercita le funzioni», mentre «queste ultime sono [.] attribuite all'intero corpo elettorale o a quelle frazioni dello stesso legittimate a richiedere le procedure referendarie» (ordinanza n. 284 del 2008);

    che anche il requisito oggettivo risulta insussistente, giacché entrambi i ricorsi risultano volti non già a sollevare un conflitto di attribuzione, quanto piuttosto ad ottenere la dichiarazione di illegittimità costituzionale di talune disposizioni legislative, attraverso una sorta di ricorso diretto a questa Corte (si vedano le ordinanze n. 284 e n. 189 del 2008).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    dichiara inammissibili, ai sensi dell'art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, i conflitti di attribuzione proposti dai signori Guido Anetrini e Filippo Fiandrotti nei confronti del Parlamento della Repubblica con i ricorsi indicati in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 3 novembre 2008.

F.to:

Giovanni Maria FLICK, Presidente

Ugo DE SIERVO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 7 novembre 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA




 
   

    Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16 marzo 1956).

   Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale su quello trasmesso dalla , in caso di divergenza.