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Deposito del 11/04/2008 (dalla 93 alla 101)

 
S.93/2008 del 02/04/2008
Udienza Pubblica del 26/02/2008, Presidente BILE, Relatore NAPOLITANO


Norme impugnate: Artt. da 1 a 8 della legge della Regione Piemonte 18/09/2006, n. 32.

Oggetto: Professioni - Norme della Regione Piemonte - Discipline bionaturali per il benessere - Individuazione - Pratiche e tecniche naturali non sanitarie finalizzate al raggiungimento dello stato di benessere della persona; Percorso formativo per il riconoscimento della qualifica di operatore nelle discipline bionaturali del benessere; Istituzione di un elenco regionale delle discipline bionaturali per il benessere - Affidamento alla Giunta regionale del compito di fissa re i requisiti per l'iscrizione; Finalità della legge - Istituzione del Comitato regionale delle discipline bionaturali per il benessere - Norme transitoria e finanziaria.

Dispositivo: illegittimità costituzionale
Atti decisi: ric. 110/2006
S.94/2008 del 02/04/2008
Udienza Pubblica del 26/02/2008, Presidente BILE, Relatore MAZZELLA


Norme impugnate: Legge 27/12/2006, n. 296 (legge finanziaria 2007); discussione limitata all'art. 1, c. 251°, 1227° e 1228°.

Oggetto: Demanio e patrimonio dello Stato e delle Regioni - Norme della legge finanziaria 2007 - Concessioni con finalità turistico-ricreative - Classificazioni, determinazione e riduzioni di canoni annui, obblighi dei concessionari, valori delle superfici.

Turismo - Norme della legge finanziaria 2007 - Promozione e sviluppo - Stanziamento di bilancio
Turismo - Norme della legge finanziaria 2007 - Misure statali per il sostegno del settore turistico - Determinazione degli interventi ed erogazione dei finanziamenti con atti governativi.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale - non fondatezza
Atti decisi: ric. 10 e 14/2007
S.95/2008 del 02/04/2008
Udienza Pubblica del 11/03/2008, Presidente BILE, Relatore MAZZELLA


Norme impugnate: Legge 27/12/2006, n. 296 (legge finanziaria 2007): discussione limitata all'art. 1, c. 5 60°.

Oggetto: Impiego pubblico - Norme della legge finanziaria 2007 - Assunzione di personale a tempo determinato - Riserva di una quota non inferiore al 60 per cento dei posti a favore dei collaboratori coordinati e continuativi

Ambiente - Norme della legge finanziaria 2007 - Conservazione degli habitat naturali - Obbligo di adeguamento all'ordinamento comunitario, sulla base di criteri minimi uniformi stabiliti con decreto ministeriale

Amministrazione pubblica - Norme della legge finanziaria 2007 - Partecipazioni pubbliche - Partecipazioni delle amministrazioni regionali e locali in società e consorzi - Obbligo di comunicazione annuale dei dati relativi al Dipartimento della funzione pubblica - Sanzioni per la mancata o incompleta comunicazione - Qualificazione delle norme come principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, ai fini del rispetto dei parametri stabiliti dal patto di stabilità e crescita dell'Unione europe a;
Bilancio e contabilità pubblica - Norme della legge finanziaria 2007 - Violazioni di obblighi comunitari comportanti procedure di infrazione - Rivalsa dello Stato per gli oneri finanziari sui soggetti responsabili, previa intesa - Prevista adozione di provvedimento del Presidente del Consiglio in caso di mancato raggiungimento dell'intesa

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ric. 13/2007
S.96/2008 del 02/04/2008
Udienza Pubblica del 11/03/2008, Presidente BILE, Relatore SILVESTRI


Norme impugnate: Artt. 28 e 29 della legge 13/06/1942, n. 794.

Oggetto: Avvocati e procuratori - Procedura camerale per la liquidazione delle spese, diritti ed onorari, stabilita per i procedimenti civili - Applicabilità ai giudizi davanti ai giudici amministrativi - Esclusione secondo il "diritto vivente".

Dispositivo: non fondatezza - inammissibilità
Atti decisi: ord. 284/2007
S.97/2008 del 02/04/2008
Udienza Pubblica del 11/03/2008, Presidente BILE, Relatore CASSESE


Conflitto: Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati 26/01/2006.

Oggetto: Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento penale nei confronti del deputato Fabrizio Cicchitto, per diffamazione aggravata nei confro nti del magistrato Mariaclementina Forleo - Deliberazione di insindacabilità della Camera dei deputati.

Dispositivo: accoglie il ricorso
Atti decisi: confl. pot. mer. 17/2006
S.98/2008 del 02/04/2008
Camera di Consiglio del 12/03/2008, Presidente BILE, Relatore TESAURO


Norme impugnate: Art. 26 del decreto legislativo 02/02/2006, n. 40.

Oggetto: Procedimento civile - Impugnazioni - Appellabilità delle sentenze rese nei giudizi di opposizione ad ordinanza ingiunzione applicativa di sanzione amministrativa pecuniaria - Previsione introdotta dal decreto legislativo n. 40 del 2006 - Estraneità all'oggetto della delega conferita al Gov erno per apportare modifiche al codice di procedura civile e concernente la disciplina del processo di cassazione e dell'arbitrato - Eccesso di delega.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 571 e 748/2007
O.99/2008 del 02/04/2008
Camera di Consiglio del 27/02/2008, Presidente BILE, Relatore DE SIERVO


Conflitto: Ammissibilità di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della violazione, per mancato adempimento, dell'art. 45, c. 4°, della legge 25/05/1970, n. 352.

Oggetto: Regioni - Variazioni territoriali - Referendum per la modificazione territoriale delle Regioni - Distacco dei comuni di Asiago, Conco, Enego, Foza, Gallio, Lusiana, Roana e Rotzo dalla Regione Veneto e aggregazione alla Regione Trentino Alto Adige - Provvedimento dell'Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di cassazione che dichiara accolta la proposta sottoposta a referendum - Mancata presentazione al Parlamento, da parte del Ministro per l'interno, entro sessanta giorni dalla pubblicazione del risultato del referendum nella Gazzetta Ufficiale, del disegno di legge di cui all'art. 132, secondo comma, Cost. - Denunciata violazione dell'art. 45, quarto comma, della legge n. 352/1970 - Richiesta alla Corte costituzionale di dichiarare la illegittimità costituzionale dell'art. 45, terzo comma, della legge n. 352/1970, nella parte in cui non prevede la trasmissione ai delegati comunali della copia del verbale dell'Ufficio centrale per il referendum attestante il risultato del referendum.

Dispositivo: inammissibilità
Atti decisi: co nfl. pot. amm. 13/2007
O.100/2008 del 02/04/2008
Udienza Pubblica del 11/03/2008, Presidente BILE, Relatore QUARANTA


Norme impugnate: Art. 6, c. 2°, della legge della Regione Basilicata 06/07/1978, n. 28, sostituito dall'art. 1 della legge della Regione Basilicata 13/05/2003, n. 17.

Oggetto: Edilizia e urbanistica - Regione Basilicata - Concessioni edilizie relative alla realizzazione di una nuova costruzione e impianto da ubicare nelle aree di sviluppo industriale, in quelle dei piani per insediamenti produttivi o della programmazione negoziata, destinati ad attività industriali o artigianali, il cui costo infrastrutturale non sia stato sostenuto dal comune o dai comuni in cui l'area rica de - Previsto rilascio in esenzione dal contributo relativo agli anni di utilizzazione.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 403/2006
O.101/2008 del 02/04/2008
Camera di Consiglio del 12/03/2008, Presidente BILE, Relatore SILVESTRI


Norme impugnate: Art. 438, c. 5°, del codice di procedura penale.

Oggetto: Processo penale - Giudizio abbreviato - Richiesta dell'imputato subordinata a una integrazione probatoria - Possibilità per la parte civile di chiedere l'ammissione di prova contraria - Mancata previsione.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 74/2006

pronuncia successiva

SENTENZA N. 93

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco         BILE       Presidente

- Giovanni Maria FLICK        Giudice

- Francesco      AMIRANTE        "

- Ugo            DE SIERVO       "

- Alfio          FINOCCHIARO     "

- Alfonso        QUARANTA        "

- Franco         GALLO           "

- Luigi          MAZZELLA        "

- Gaetano        SILVESTRI       "

- Sabino         CASSESE         "

- Maria Rita     SAULLE          "

- Giuseppe       TESAURO         "

- Paolo Maria    NAPOLITANO      "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3, 5 e 6 della legge della Regione Piemonte 18 settembre 2006, n. 32 (Norme in materia di discipline bio-naturali del benessere),  promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri notificato il 20 novembre 2006, depositato in cancelleria il 30 novembre 2006 e iscritto al n. 110 del registro ricorsi 2006.

    Visto l'atto di costituzione della Regione Piemonte;

    udito nell'udienza pubblica del 26 febbraio  2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;

    uditi l'avvocato dello Stato Giovanni Pietro de Figueiredo per il Presidente del Consiglio dei ministri e l'avvocato Anita Ciavarra per la Regione Piemonte.

Ritenuto in fatto

    1. - Con ricorso notificato il 20 novembre 2006 alla Regione Piemonte nella persona del Presidente pro tempore della Giunta regionale e, quindi, tempestivamente depositato presso la cancelleria della Corte costituzionale, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato, in via principale, questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3, 5 e 6  della legge della Regione Piemonte 18 settembre 2006, n. 32 (Norme in materia di discipline bio-naturali del benessere), pubblicata nel Bollettino ufficiale della Regione del 21 settembre 2006.

    Nell'atto introduttivo del giudizio, la Avvocatura erariale osserva che il legislatore regionale, pur non avendo individuato esplicitamente la attività che intende regolamentare, ha ecceduto, tuttavia, i limiti di competenza legislativa concorrente, sanciti dall'art. 117, terzo comma, della Costituzione, nella materia delle professioni.

    1.1. - In particolare, le censure hanno ad oggetto:

    a) l'art. 2, il quale individua le «discipline bio-naturali del benessere» nelle pratiche e tecniche naturali, non sanitarie, volte al raggiungimento, miglioramento o conservazione del benessere della persona;

    b) l'art. 3, il quale  definisce il percorso formativo per essere riconosciuti operatori nelle discipline bio-naturali del benessere;

    c) gli artt. 5 e 6 che dispongono la istituzione di un elenco regionale delle discipline bio-naturali, diviso in due sezioni - la prima relativa alle "agenzie formative" e la seconda relativa agli "operatori" - che attribuiscono alla Giunta regionale il compito di stabilire, sentito un apposito Comitato regionale ed a seguito di deliberazione consiliare, i requisiti richiesti per l'inserimento in detto elenco.

    Le disposizioni impugnate, ad avviso di parte ricorrente, sono in contrasto col principio fondamentale, più volte affermato dalla Corte costituzionale, secondo il quale è riservata alla legislazione statale la individuazione delle figure professionali, dei relativi profili, percorsi formativi e titoli abilitanti nonché la istituzione di albi, ordini e registri.

    1.2 - Nessun rilievo ha, per il ricorrente, il fatto che la legge precisi che le discipline in questione non sono volte alla cura di specifiche patologie e che colui che le pratica non «rivest[a] rilievo di carattere sanitario» né prescriva farmaci. Le espressioni legislative utilizzate, infatti, avrebbero un contenuto così ampio che esse potrebbero riguardare attività curative che, essendo ancora prive sia di obiettive evidenze scientifiche che di riscontri empirici, non forniscono assicurazioni sulla loro innocuità.

    Peraltro, la riserva allo Stato della competenza legislativa in materia di principi generali riguardo alle professioni non sarebbe riferibile solo alle professioni sanitarie ma, come evidenziato anche dal decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 30 (Ricognizione dei principi fondamentali in materia di professioni, ai sensi dell'art. 1 della legge 5 giugno 2003, n. 131), si riferirebbe a tutte le professioni.

    Ricordato che la Corte già ha dichiarato, con le sentenze n. 353 del 2003 e n. 424 del 2005, la illegittimità costituzionale di altre due leggi della Regione Piemonte riguardanti la stessa materia, il ricorrente osserva come, dato lo stretto vincolo esistente fra le disposizioni direttamente impugnate ed il restante contenuto della legge regionale n. 32 del 2006, la dichiarazione di incostituzionalità delle prime debba essere estesa, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), anche alle seconde.

    2. - Con atto del 12 dicembre 2006, resiste in giudizio la Regione Piemonte concludendo per il rigetto del ricorso.

    Affermato che la materia oggetto della legge impugnata rientra fra quelle che, ai sensi dell'art. 117, commi terzo e quarto, della Costituzione, sono di competenza regionale, la Regione rileva la contraddittorietà del fatto che lo Stato non abbia impugnato altre leggi regionali, tuttora vigenti, di contenuto analogo a quella ora in discussione.

    Aggiunge che, dopo aver enunciato il contrasto con l'art. 117, terzo comma, della Costituzione, il ricorrente non individua in quali norme statali sarebbe rinvenibile il principio generale che si assume violato.

    Ad avviso della Regione Piemonte la legge censurata è, invece, in linea con i principi contenuti nel d.lgs. n. 30 del 2006 e non viola il regime delle competenze legislative esistente nelle materie della tutela della salute, della istruzione e formazione professionale, dell'assistenza sociale e delle attività artigianali.

    2.1. - Successivamente - peraltro oltre il termine a questo fine fissato dall'art. 10 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale - la Regione ha depositato una memoria illustrativa nella quale, dopo aver ulteriormente svolto argomentazioni già contenute nell'atto del 12 dicembre, insiste per il rigetto del ricorso.

Considerato in diritto

    1. - Il Governo ha sollevato, in via principale, questione di legittimità costituzionale degli artt. 2, 3, 5 e 6 della legge della Regione Piemonte 18 settembre 2006, n. 32 (Norme in  materia di discipline bio-naturali del benessere), chiedendo, altresì, che gli effetti della pronunzia di illegittimità siano estesi, in via consequenziale, anche alle restanti disposizioni di detta legge regionale.

    Ad avviso del ricorrente, in particolare, la legge impugnata sarebbe in contrasto con l'art. 117, terzo comma, della Costituzione, in quanto eccederebbe i limiti della competenza regionale nella materia, di legislazione concorrente, delle professioni, violando i principi fondamentali previsti dalla normativa statale.

    2. - La questione è fondata.

    2.1. - Più volte questa Corte, chiamata a scrutinare - con riferimento alla dedotta violazione del riparto di competenze in materia di professioni previsto dall'art. 117, terzo comma, Cost. - la legittimità costituzionale di leggi regionali volte a disciplinare l'ordinamento di cosiddette "professioni emergenti", ha precisato che «la potestà legislativa regionale nella materia concorrente delle professioni deve rispettare il principio secondo cui l'individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato, rientrando nella competenza delle Regioni la disciplina di quegli aspetti che presentano uno specifico collegamento con la realtà regionale. Tale principio, al di là della pa rticolare attuazione ad opera dei singoli precetti normativi, si configura quale limite di ordine generale, invalicabile dalla legge regionale [.]. Da ciò deriva che non è nei poteri delle Regioni dar vita a nuove figure professionali» (sentenze n. 300 e n. 57 del 2007, n. 424 e n. 153 del 2006) non rilevando, a tal fine, che esse rientrino o meno nell'ambito sanitario (sentenza n. 355 del 2005).

    A tale considerazione, di carattere generale, questa Corte ha aggiunto, quale indice sintomatico della istituzione di una nuova professione, quello costituito dalla previsione di appositi elenchi, disciplinati dalla Regione, connessi allo svolgimento dell'attività che la legge regionale veniva a regolamentare. Ha, infatti, affermato che «l'istituzione di un registro professionale e la previsione delle condizioni per l'iscrizione ad esso hanno, già di per sé, una funzione individuatrice  della professione, preclusa alla competenza regionale» (sentenze n. 300 e  n. 57 del 2007 e n. 355 del 2005), anche prescindendo dal fatto che la iscrizione nel suddetto registro si ponga come condizione ne cessaria ai fini dell'esercizio della attività da esso contemplata.

    2.2. - Applicando tali principi al caso in questione, si deve rilevare come la legge censurata si caratterizzi sia per individuare un determinato percorso di formazione professionale ai fini dell'accesso all'esercizio delle «discipline bio-naturali del benessere» (come dispone l'art. 3), sia per prevedere (all'art. 6) la istituzione di un «elenco regionale delle discipline bio-naturali del benessere», articolato in due sezioni nelle quali possono essere, rispettivamente, iscritti, previa dimostrazione dello svolgimento di documentata attività per almeno un triennio, gli enti preposti alla formazione degli operatori e, a seguito della dimostrazione del possesso di apposito attestato di qualifica, gli operatori stessi suddivisi in «sottosezioni relative ad ogni specializzazione ».

    Il carattere non ancora compiutamente definito dei contenuti delle suddette «discipline bio-naturali del benessere» non viene a modificare le conclusioni cui questa Corte già è pervenuta con la sentenza n. 424 del 2005, relativa alla precedente legge regionale 31 maggio 2004, n. 13 (Regolamentazione delle discipline bio-naturali), della medesima Regione avente analogo oggetto, posto che è comunque sempre rimesso ai meccanismi procedurali previsti dagli artt. 5 e 6 della legge censurata (e cioè ad una decisione della Giunta regionale, sentito il Comitato regionale per le discipline bio-naturali del benessere e a seguito di deliberazione del Consiglio regionale) riempire i contenuti lasciati parzialmente aperti dall'art. 2. Il disposto di tale articolo è, infatti, già sufficien te per evidenziare che viene istituita una nuova professione, nonostante che dai principi fondamentali ricavabili dalla legislazione statale «non si [tragga alcuno] spunto che possa consentire iniziative legislative nell'ambito cui si riferisce la legge impugnata» (sentenza n. 424 del 2005).

    Non vi è, quindi, alcun dubbio che, per effetto delle ricordate previsioni legislative, la censurata legge regionale n. 32 del 2006 della Regione Piemonte abbia quella funzione individuatrice della nuova professione che, in base ai principi sopra esposti, è, invece, inibita alla potestà legislativa regionale, travalicandone i limiti.

    3. - Nessun rilievo può avere l'argomento difensivo, svolto dalla resistente Regione, in ordine al fatto che sussisterebbero altri esempi, nell'ambito della legislazione di altre Regioni - in particolare le Regioni Lombardia, Emilia-Romagna e Toscana - di testi normativi il cui contenuto sarebbe sostanzialmente analogo a quello ora impugnato e sul quale il Governo non ha sollevato questione di legittimità costituzionale.

    Sul punto basti ricordare, senza che sia necessario effettuare una specifica esegesi delle leggi regionali indicate dalla Regione Piemonte al fine di verificare la sussistenza o meno delle dedotte coincidenze normative, che nei giudizi di legittimità costituzionale in via principale - data la loro natura dispositiva caratterizzata anche dall'esistenza di precisi termini per la proposizione - non è lecito inferire, anche nell'ipotesi di mancata impugnazione da parte del soggetto a ciò legittimato di altri atti aventi lo stesso contenuto, né la rinunzia all'impugnazione di disposizioni legislative analoghe o, addirittura, uguali, né, tanto meno, qualsivoglia giudizio in ordine alla loro corrispondenza ai parametri costituzionali.

    4. - Alla dichiarazione di illegittimità costituzionale delle disposizioni della legge regionale del Piemonte n. 32 del 2006 direttamente impugnate dal Governo, consegue, stante l'inscindibile connessione che le lega alle rimanenti - tale che, senza queste ultime, le medesime restano prive di specifica autonomia normativa - la estensione degli effetti della presente pronunzia anche alle restanti disposizioni contenute nella predetta legge regionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la illegittimità costituzionale degli artt. 2, 3, 5 e 6 della legge della Regione Piemonte 18 settembre 2006, n. 32 (Norme in  materia di discipline bio-naturali del benessere), nonché, di conseguenza, dei restanti articoli, 1, 4, 7 e 8 della medesima legge regionale.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 aprile 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 aprile 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
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a

SENTENZA N. 94

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE        Presidente

- Giovanni Maria  FLICK         Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1, commi 251, 1227 e 1228 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), promossi con ricorsi delle Regioni Veneto e Lombardia notificati il 23 e il 26 febbraio 2007, depositati in cancelleria il 1° e il 7 marzo 2007 ed iscritti ai nn. 10 e 14 del registro ricorsi 2007.

      Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 26 febbraio 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella;

    uditi gli avvocati Mario Bertolissi per la Regione Veneto, Beniamino Caravita di Toritto per la Regione Lombardia e l'avvocato dello Stato Gabriella D'Avanzo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

      1. Con ricorso notificato il 23 febbraio 2007 e depositato il 1° marzo 2007 (r. r. n. 10/2007), la Regione Veneto ha promosso varie questioni di legittimità costituzionale di più disposizioni della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), in quanto lesive dell'autonomia legislativa (art. 117 della Costituzione), amministrativa (art. 118 Cost.) e finanziaria regionale (art. 119 Cost.), oltre che del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni desumibile dagli artt. 5 e 120, secondo comma, Cost. e dall'art. 11 della legge costituzionale 18 ott obre 2001, n. 3.

      Per quanto qui interessa, la Regione ricorrente impugna l'art. 1, commi 251 e 1228, della citata legge n. 29 del 2006, il primo dei quali, nel sostituire il comma 1 dell'articolo 3 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 400 (Disposizioni per la determinazione dei canoni relativi a concessioni demaniali marittime), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 1993, n. 494, così dispone:

    «1. I canoni annui per concessioni rilasciate o rinnovate con finalità turistico-ricreative di aree, pertinenze demaniali marittime e specchi acquei per i quali si applicano le disposizioni relative alle utilizzazioni del demanio marittimo sono determinati nel rispetto dei seguenti criteri:

    a) classificazione, a decorrere dal 1° gennaio 2007, delle aree, manufatti, pertinenze e specchi acquei nelle seguenti categorie:

    1) categoria A: aree, manufatti, pertinenze e specchi acquei, o parti di essi, concessi per utilizzazioni ad uso pubblico ad alta valenza turistica;

    2) categoria B: aree, manufatti, pertinenze e specchi acquei, o parti di essi, concessi per utilizzazione ad uso pubblico a normale valenza turistica. L'accertamento dei requisiti di alta e normale valenza turistica è riservato alle regioni competenti per territorio con proprio provvedimento. Nelle more dell'emanazione di detto provvedimento la categoria di riferimento e' da intendersi la B. Una quota pari al 10 per cento delle maggiori entrate annue rispetto alle previsioni di bilancio derivanti dall'utilizzo delle aree, pertinenze e specchi acquei inseriti nella categoria A è devoluta alle regioni competenti per territorio;

    b) misura del canone annuo determinata come segue:

    1) per le concessioni demaniali marittime aventi ad oggetto aree e specchi acquei, per gli anni 2004, 2005 e 2006 si applicano le misure unitarie vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge e non operano le disposizioni maggiorative di cui ai commi 21, 22 e 23 dell'articolo 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, e successive modificazioni; a decorrere dal 1° gennaio 2007, si applicano i seguenti importi aggiornati degli indici ISTAT maturati alla stessa data:

    1.1) area scoperta: euro 1,86 al metro quadrato per la categoria A; euro 0,93 al metro quadrato per la categoria B;

    1.2) area occupata con impianti di facile rimozione: euro 3,10 al metro quadrato per la categoria A; euro 1,55 al metro quadrato per la categoria B;

    1.3) area occupata con impianti di difficile rimozione: euro 4,13 al metro quadrato per la categoria A; euro 2,65 al metro quadrato per la categoria B;

    1.4) euro 0,72 per ogni metro quadrato di mare territoriale per specchi acquei o delimitati da opere che riguardano i porti così come definite dall'art. 5 del testo unico di cui al regio decreto 2 aprile 1885, n. 3095, e comunque entro 100 metri dalla costa;

1.5) euro 0,52 per gli specchi acquei compresi tra 100 e 300 metri dalla costa; 1.6) euro 0,41 per gli specchi acquei oltre 300 metri dalla costa;

1.7) euro 0,21 per gli specchi acquei utilizzati per il posizionamento di campi boa per l'ancoraggio delle navi al di fuori degli specchi acquei di cui al numero 1.3);

2) per le concessioni comprensive di pertinenze demaniali marittime si applicano, a decorrere dal 1° gennaio 2007, i seguenti criteri:

2.1) per le pertinenze destinate ad attività commerciali, terziario-direzionali e di produzione di beni e servizi, il canone è determinato moltiplicando la superficie complessiva del manufatto per la media dei valori mensili unitari minimi e massimi indicati dall'Osservatorio del mercato immobiliare per la zona di riferimento. L'importo ottenuto è moltiplicato per un coefficiente pari a 6,5. Il canone annuo così determinato è ulteriormente ridotto delle seguenti percentuali, da applicare per scaglioni progressivi di superficie del manufatto: fino a 200 metri quadrati, 0 per cento; oltre 200 metri quadrati e fino a 500 metri quadrati, 20 per cento; oltre 500 metri quadrati e fino a 1.000 metri quadrati, 40 per cento; oltre 1.000 metri quadrati, 60 per cento. Qualora i valori dell'Osservatorio del mercato immobiliare non siano disponibili, si fa riferimento a quelli del più vicino comune costiero rispetto al manufatto nell'ambito territoriale della medesima regione;

2.2) per le aree ricomprese nella concessione, per gli anni 2004, 2005 e 2006 si applicano le misure vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge e non operano le disposizioni maggiorative di cui ai commi 21, 22 e 23 dell'art. 32 del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326, e successive modificazioni; a decorrere dal 1° gennaio 2007, si applicano quelle di cui alla lettera b), numero 1);

    c) riduzione dei canoni di cui alla lettera b) nella misura del 50 per cento:

1) in presenza di eventi dannosi di eccezionale gravità che comportino una minore utilizzazione dei beni oggetto della concessione, previo accertamento da parte delle competenti autorità marittime di zona;

2) nel caso di concessioni demaniali marittime assentite alle società sportive dilettantistiche senza scopo di lucro affiliate alle Federazioni sportive nazionali con l'esclusione dei manufatti pertinenziali adibiti ad attività commerciali;

d) riduzione dei canoni di cui alla lettera b) nella misura del 90 per cento per le concessioni indicate al secondo comma dell'articolo 39 del codice della navigazione e all'articolo 37 del regolamento per l'esecuzione del codice della navigazione, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 15 febbraio 1952, n. 328;

e) obbligo per i titolari delle concessioni di consentire il libero e gratuito accesso e transito, per il raggiungimento della battigia antistante l'area ricompresa nella concessione, anche al fine di balneazione;

f) riduzione, per le imprese turistico-ricettive all'aria aperta, dei valori inerenti le superfici del 25 per cento».

    Secondo la Regione ricorrente, la norma censurata víola il principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni, desumibile dagli artt. 5 e 120 Cost. e dall'art. 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001, in quanto introduce una disciplina più penalizzante per le Regioni rispetto a quella precedente dettata dal comma 1 dell'art. 3 del decreto-legge n. 400 del 1993, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 494 del 2003, secondo il quale: «I canoni annui per concessioni con finalità turistico-ricreative di aree, pertinenze demaniali marittime e specchi acquei per i quali si applicano le disposizioni relative alle utilizzazioni del demanio marittimo sono determinat i, a decorrere dal 1° gennaio 1994, con decreto del Ministro della marina mercantile, emanato sentita la Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, nel rispetto dei seguenti criteri direttivi: [...]»

    Secondo la Regione ricorrente, la norma impugnata determina direttamente e unilateralmente i canoni, senza prevedere alcun decreto ministeriale attuativo, né il benché minimo coinvolgimento delle Regioni.

    2. La Regione Veneto censura altresì l'articolo 1, comma 1228, della medesima legge n. 296 del 2006, il quale dispone che:

    «Per le finalità di sviluppo del settore del turismo e per il suo posizionamento competitivo quale fattore produttivo di interesse nazionale, anche in relazione all'esigenza di incentivare l'adeguamento dell'offerta delle imprese turistico-ricettive la cui rilevanza economica nazionale necessita di nuovi livelli di servizi definiti in base a parametri unitari ed omogenei, nonché al fine di favorire l'unicità della titolarità tra la proprietà dei beni ad uso turistico-ricettivo e la relativa attività di gestione, ivi inclusi i processi di crescita dimensionale nel rispetto del patrimonio paesaggistico ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, e al fine di promuovere forme di turismo eco compatibile, è autorizzata la spesa di 48 milioni di euro per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009. Per l'a pplicazione del presente comma il Presidente del Consiglio dei ministri adotta, entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, sentita la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, un decreto recante l'individuazione dei criteri, delle procedure e delle modalità di attuazione.».

      Secondo la ricorrente, tale norma, esplicando i suoi effetti nell'àmbito della materia «turismo» appartenente alla potestà legislativa esclusiva-residuale delle Regioni, ai sensi dell'art. 117, quarto comma, Cost., urta contro l'impossibilità per il legislatore statale di stabilire, in questa materia, un finanziamento a destinazione vincolata. Né, per superare tale ostacolo è sufficiente richiamare l'«interesse nazionale» e la «rilevanza economica nazionale» contenuti nel testo del comma 1228, trattandosi di mere clausole di stile.

    Sotto un ulteriore profilo, la Regione ricorrente denuncia, in subordine, la violazione del principio di leale collaborazione, invocando la sentenza costituzionale n. 222 del 2005 secondo cui, nell'àmbito di materie di competenza esclusiva regionale, per salvare la norma del legislatore statale da una dichiarazione di illegittimità costituzionale, è necessario che in essa si preveda il ricorso a una preventiva intesa tra Stato e Regioni, e non a un mero parere.

    3. Oltre al comma 1228 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006 (cui rivolge le medesime censure formulate dalla Regione Veneto), la Regione Lombardia, con ricorso notificato il 26 febbraio 2007 e depositato il 7 marzo 2007 (r.r. n. 14 del 2007) ha impugnato anche il comma 1227, il quale così dispone: «Per il sostegno del settore turistico è autorizzata la spesa di 10 milioni di euro annui per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009. Con regolamento da emanare ai sensi dell'articolo 17, comma 2, della legge 23 agosto 1988, n. 400, su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri - Dipartimento per lo sviluppo e la competitività del turismo, si provvede all'attuazione del presente comma».

    Secondo la Regione Lombardia, mentre il comma 1228 riduce il grado di partecipazione dei soggetti locali alla definizione delle politiche di settore, prevedendo la semplice consultazione con la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato e le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, in luogo della intesa, il comma 1227 «ristatalizza» politiche e funzioni attribuite ai soggetti regionali dalla Costituzione, nulla prevedendo in ordine al necessario coinvolgimento delle Regioni nell'adozione delle misure di sostegno al settore turistico.

    4. Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, si è costituito in entrambi i giudizi, chiedendo la reiezione dei ricorsi.

    Con riferimento al comma 251, la difesa erariale rileva che la questione è inammissibile sia perché genericamente prospettata, sia perché attiene ad una censura di mero fatto, che non riguarda la dedotta lesività della norma.

    In ogni - caso secondo la difesa erariale - non è ipotizzabile la violazione del principio di leale collaborazione, non essendo individuabile un fondamento costituzionale dell'obbligo di procedure legislative ispirate alla leale collaborazione tra Stato e Regioni (viene richiamata la sentenza costituzionale n. 196 del 1994).

    5. Quanto ai commi 1227 e 1228, osserva l'Avvocatura generale che l'asserita ascrivibilità della materia alla competenza regionale residuale di cui all'art. 117, quarto comma, Cost., non esclude, di per sé, la legittimità di un intervento legislativo di carattere finanziario ed aggiuntivo dello Stato, il quale resta giustificato dall'obiettivo di unificare in capo al turismo gli strumenti di politica economica che attengono allo sviluppo dell'intero Paese, riservando alle Regioni gli interventi sintonizzati sulla realtà produttiva locale (sono richiamate le sentenze n. 12 del 2004 e n. 242 del 2005).

    A giudizio dell'Avvocatura generale, il comma 1228, anche per i suoi collegamenti con il patrimonio paesaggistico e ambientale nazionale, non può essere ricondotto all'azione di governo delle Regioni singolarmente considerate.

    Quanto all'asserita carenza di coinvolgimento delle Regioni nella definizione delle politiche di settore (cui è diretto l'intervento contemplato nel comma 1228) la difesa erariale segnala che all'atto dell'emanazione della legge finanziaria 2007, nella materia del turismo era (ed è tuttora) vigente l'accordo tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, inerente i princípi per l'armonizzazione, la valorizzazione e lo sviluppo del sistema turistico, recepito con d.P.C.m. 13 settembre 2002. Questo accordo si ricollega all'art. 5, comma 5, della legge 20 marzo 2001, n. 135 (Riforma della legislazione nazionale del turismo), che, in perfetta coerenza con la normativa costituzionale, ha previsto un intervento statale per àmbiti di interesse interregionale o sovraregionale, rimettendo l' individuazione dei criteri procedimentali e relative modalità di gestione ad un provvedimento da emanarsi dalla competente autorità statale, sentita la Conferenza permanente tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano.

    Il decreto previsto dal comma 1228 è stato sottoposto, nella seduta del 1° febbraio 2007, all'esame della Conferenza permanente, la quale ha espresso parere favorevole, con osservazioni integralmente recepite nello schema di provvedimento, rientrando, quindi, l'accordo in tal sede raggiunto, sotto il profilo sostanziale, nella categoria delle "intese".

    In ogni caso - osserva la difesa erariale - trattasi di finanziamenti aggiuntivi che lo Stato attiva senza minimamente incidere né sulle attività di spesa delle Regioni, né sugli àmbiti riservati alle politiche regionali di settore, trattandosi di interventi destinati a favorire una più ampia e migliore prestazione dei servizi resi dalle imprese del comparto turistico, con l'obiettivo di ampliare l'attrattività del settore nell'arco dell'intero anno solare, in conformità con quanto avviene in altri Paesi CEE.

    Quanto alla proporzionalità, il comma in esame interviene esclusivamente in esercizio di competenza statale senza incidere sulle funzioni riservate alle Regioni. 

    6. In prossimità dell'udienza, la Regione Veneto ha depositato memoria, osservando che il carattere indebitamente "amministrativizzato" del comma 251 costituisce la vera ragione della violazione del principio di leale collaborazione, desumibile dall'art. 120, secondo comma, della Costituzione, in combinato disposto con gli artt. 5 e 11 della legge costituzionale n. 3 del 2001.

    Quanto al comma 1228, la Regione Veneto ribadisce che, rientrando la materia del turismo nell'area di competenza esclusiva regionale, in essa lo Stato non è legittimato neanche a dettare i princípi fondamentali. Né la previsione normativa è riconducibile alla "tutela della concorrenza".

    7. Con separata memoria, la Regione Lombardia insiste per la declaratoria di illegittimità costituzionale dei commi 1227 e 1228. Dopo aver ricordato la sentenza della Corte costituzionale n. 214 del 2006 (la quale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale delle disposizioni istitutive del Comitato nazionale per il turismo in quanto non era prevista alcuna forma di intesa con le Regioni), precisando che "l'ascesa" di funzioni in sussidiarietà è legittima «solo se la valutazione dell'interesse pubblico sottostante sia oggetto di coinvolgimento della Regione interessata», la Regione Lombardia ammette che in fase attuativa di entrambi i commi impugnati, i soggetti regionali sono stati interpellati ed hanno potuto esprimere osservazioni che hanno trovato qualche accoglimento nella redazione del d.P.C.m.16 febbraio 2007 e nel d.P.R. 24 luglio 2007, n. 158.

    8. In replica alle richiamate memorie, il Presidente del Consiglio dei ministri rileva che in base al comma 251, sub lettera a), l'accertamento dei requisiti di alta e normale valenza turistica è riservato esclusivamente alle Regioni competenti per territorio con proprio provvedimento, senza alcuna limitazione di apprezzamento, sicché deve escludersi ogni limitazione delle prerogative regionali.

    Né sussiste alcuna violazione del principio di leale collaborazione istituzionale, essendo pacifico che solo allo Stato - quale titolare dei beni demaniali - spetta la fissazione e la riscossione dei relativi canoni (viene richiamata la sentenza costituzionale n. 286 del 2004) nonché la facoltà di destinarne parte alle Regioni (sentenza n. 88 del 2007), restando comunque fermo che a queste ultime resta riservata, in piena autonomia, la determinazione della vocazione turistica dei terreni, senza alcuna interferenza statale.

    Quanto ai commi 1227 e 1228, la difesa erariale osserva che sia il d.P.R. 24 luglio 2007, n. 158, sia il d.P.C.m. 16 febbraio 2007, intervenuti nelle more del giudizio, documentano una attiva partecipazione delle Regioni tanto nella fase di presentazione quanto in quella successiva di gestione dei programmi di intervento a contributo statale.

Considerato in diritto

    1. La Regione Veneto ha impugnato i commi 251 e 1228 dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), sostenendo che essi, rispettivamente, nell'introdurre nuovi criteri di determinazione dei canoni annui  per le concessioni di aree e pertinenze demaniali  marittime con finalità turistico-ricreative, e nell'autorizzare una spesa straordinaria di 48 milioni di euro annui (per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009) per finalità di incremento dell'offerta turistica, sarebbero lesivi, da una parte, del principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni desumibile dagli artt. 5 e 120, secondo comma, della Costituzione e dall'art. 1 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, e dall'altra, della competenza residuale esclusiva regionale nella materia del turismo, ponendosi così in contrasto con gli artt. 117, quarto comma, 118, 119 della Costituzione, nonché, in via subordinata, con il principio di leale collaborazione appena richiamato.

    2. La Regione Lombardia, oltre al citato comma 1228, ha impugnato anche il comma 1227 dell'art. 1 della medesima legge, contenente la previsione di una spesa di 10 milioni di euro annui, per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009, per il sostegno del settore turistico, senza prevedere alcun coinvolgimento della Regione nell'adozione dei provvedimenti specifici di riparto ed erogazione degli importi in sede attuativa.

    3. Riservata a separate pronunzie la decisione sull'impugnazione - effettuata con i medesimi ricorsi - di altre disposizioni della stessa legge n. 296 del 2006, l'identità della materia, nonché l'analogia delle questioni prospettate, rendono opportuna la riunione dei giudizi, per la loro trattazione congiunta e per la loro decisione con unica sentenza.

    4. Va preliminarmente esaminata l'eccezione di inammissibilità della questione avente ad oggetto il comma 251 sollevata dall'Avvocatura erariale sia perché genericamente prospettata, sia perché attinente ad una censura di mero fatto, che non riguarda la dedotta lesività della norma.

L'eccezione non è fondata.

    La Regione Veneto lamenta l'estromissione della Regione dal  procedimento di determinazione dei canoni per le concessioni di aree e pertinenze demaniali marittime con finalità turistico-ricreative. Tale estromissione non sarebbe a suo giudizio giustificata in una materia, quella del turismo, di sua competenza residuale esclusiva.

    In tali termini, la censura non è né generica né fondata su circostanze di mero fatto.

    5. Nel merito, in ordine al medesimo comma 251, la Regione Veneto sostiene che tale norma determina unilateralmente i canoni concessori, senza il benché minimo coinvolgimento delle Regioni.

    La questione non è fondata.

    La competenza legislativa residuale delle Regioni in materia di turismo, ai sensi dell'art. 117, quarto comma, Cost., è pacifica. Questa Corte, però, a proposito della attribuzione della potestà di imposizione e riscossione del canone per la concessione di aree del demanio marittimo, ha ritenuto determinante la titolarità del bene anziché la titolarità di funzioni legislative e amministrative spettanti alle Regioni in ordine all'utilizzazione dei beni stessi (sent. n. 286 del 2004).

    Orbene, relativamente al procedimento di determinazione dei canoni d'uso per le concessioni dei beni demaniali marittimi, nella normativa precedente a quella impugnata, l'art. 3 del decreto-legge 5 ottobre 1993, n. 400 (Disposizioni per la determinazione dei canoni relativi a concessioni demaniali marittime), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 dicembre 1993, n. 494, prevedeva espressamente il coinvolgimento diretto delle Regioni. Queste ultime, chiamate a classificare le aree protette, in ragione della diversa valenza turistica delle stesse, dovevano essere sentite in sede di Conferenza Stato-Regioni. Nel caso di mancata adozione del decreto interministeriale, conseguente alla Conferenza permanente, entro il 30 giugno 2004, l'ammontare dei canoni era fissato unilateralmente dalla legge. 

      In termini certamente più rispettosi delle prerogative regionali, si è espresso, invece, il comma 251 della legge n. 296 del 2006, il quale riconosce alle Regioni la competenza esclusiva in ordine all'accertamento dei requisiti di alta e normale valenza turistica.

    Non è, pertanto, ravvisabile alcuna violazione del principio di leale collaborazione. Il legislatore ha tenuto ben distinte le due competenze, statale e regionale. Allo Stato - quale titolare dei beni demaniali - ha demandato la fissazione e la riscossione dei relativi canoni, nonché la facoltà di destinarne parte alle Regioni (sentenza n. 88 del 2007). Alle Regioni ha riservato, in piena autonomia, e senza alcuna interferenza statale, la classificazione turistica dei terreni.

    6. Quanto al comma 1228, la Regione Veneto sostiene che esso stabilisce nella materia in questione un finanziamento a destinazione vincolata, la cui illegittimità non potrebbe essere sanata dal richiamo né all'interesse nazionale, né alla asserita «rilevanza economica nazionale», trattandosi di mere clausole di stile. Inoltre esso non contiene - a giudizio della Regione - la puntuale individuazione degli enti destinatari, prescritta dall'art. 119, quinto comma, Cost.

      In subordine, la ricorrente denuncia la violazione del principio di leale collaborazione, essendo prevista solo un'audizione e non la preventiva intesa, con la conseguenza che, in presenza di un dissenso all'interno della Conferenza permanente, lo Stato potrebbe provvedere unilateralmente.

    La questione è fondata.

    Anche se la Corte ha avuto modo di precisare che l'ascrivibilità della materia "turismo" alla competenza regionale residuale (art. 117, quarto comma, Cost.) non esclude di per sé la legittimità di un intervento legislativo di carattere finanziario ed aggiuntivo dello Stato giustificato dall'obiettivo di rafforzare le capacità competitive delle strutture turistiche nazionali, l'adozione di un decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, «sentita» la Conferenza permanente Stato-Regioni, recante l'individuazione dei criteri, delle procedure e delle modalità di attuazione, è insufficiente.

    E' bensì vero che nel d.P.C.m. 16 febbraio 2007, adottato con il parere favorevole di tutti i soggetti partecipanti alla Conferenza permanente, si è previsto (art. 2, lettera b, n. 2) che «Con atti del Capo del Dipartimento per lo sviluppo e la competitività del turismo adottati in raccordo con le Regioni, sono attuate le misure relative alla tipologia di agevolazione, l'individuazione dei criteri e delle modalità per la presentazione e valutazione delle domande e per l'erogazione delle agevolazioni», e che a questi ultimi adempimenti provvede un apposito comitato paritetico tra la Presidenza del Consiglio dei ministri e le Regioni, ma è altrettanto incontestabile che la previsione, "a regime" di un coinvolgimento meramente cognitivo delle Regioni lascia aperta la possibilità, per lo Stato, di provvedere, in modo unilaterale negli anni successivi, anche in dissenso con gli orientamenti manifestatisi all'interno della Conferenza permanente Stato-Regioni.

    E' necessario, quindi, che sia garantita anche per il futuro una partecipazione delle Regioni conforme ai canoni dettati dall'art. 117 Cost.; risultato, questo, che può ottenersi solo attraverso una declaratoria di illegittimità costituzionale del comma 1228, limitata alla parte in cui non prevede una "intesa" con la Conferenza permanente Stato-Regioni.

    7. Quanto al comma 1227, la Regione Lombardia rileva che esso, nell'ignorare ogni forma di partecipazione dei soggetti regionali, non si dà cura neppure di richiamare interessi o aspetti che richiedano interventi di livello statale.

    La Regione ricorrente dà atto che nella fase attuativa della norma, i soggetti regionali hanno potuto esprimere osservazioni che hanno trovato puntuale accoglimento nella redazione del d.P.R. 24 luglio 2007, n. 158, ma segnala l'esigenza, pur in presenza di un riparto condiviso delle disponibilità finanziarie, di tradurre questa prassi in principio di diritto.

    La questione è fondata.

    Anche il comma 1227 interferisce con una competenza regionale risultante da un complesso quadro normativo (si vedano: l'art. 56 del d.P.R. 27 luglio 1977, n. 616 recante «Attuazione della delega di cui all'art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382», concernente le funzioni amministrative relative a «tutti i servizi, le strutture e le attività pubbliche e private riguardanti l'organizzazione e lo sviluppo del turismo regionale»; la legge 17 maggio 1983, n. 217, recante «Legge quadro per il turismo e interventi per il potenziamento e la qualificazione dell'offerta turistica»; l'art. 43 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, recante «Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59»; nonché la legge 29 marzo 200 1, n. 135, recante « Riforma della legislazione nazionale del Turismo»).

    E' vero che in coerenza con questo quadro normativo, il d.P.R. 24 luglio 2007, n. 158, nell'attuare il comma 1227, ha dato atto dell'acquisizione del parere favorevole della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, ma non è legittimo il silenzio della norma impugnata in ordine ad ogni qualsiasi partecipazione della Regione al procedimento formativo del decreto governativo.

    Il ricorso va pertanto accolto, per la parte in cui la disposizione in esame non prevede l'obbligatorietà dell'intesa con la Conferenza permanente.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

      riservata a separate pronunce la decisione delle altre questioni di legittimità costituzionale promosse con i ricorsi nn. 10 e 14 del registro ricorsi 2007 dalle Regioni Veneto e Lombardia;

      riuniti i giudizi,

    1) dichiara l'illegittimità costituzionale dei commi 1227 e 1228 dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), nella parte in cui non stabiliscono che i decreti ministeriali ivi previsti siano precedu ti dall'intesa con la Conferenza permanente Stato-Regioni;

    2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 251, della medesima legge n. 296 del 2006, promossa dalla Regione Veneto per contrasto con il principio di leale collaborazione tra Stato e Regioni, desumibile, in particolare, dagli artt. 5 e 120, secondo comma della Costituzione e dall'art. 11 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3, con il ricorso indicato in epigrafe.

      Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 aprile 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 aprile 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
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SENTENZA N. 95

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 560, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria anno 2007), promosso con ricorso della Provincia autonoma di Trento, notificato il 26 febbraio 2007, depositato in cancelleria il 6 marzo 2007 ed iscritto al n. 13 del registro ricorsi 2007.

    Visto  l'atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica dell'11 marzo 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella;

    uditi l'avvocato Giandomenico Falcon per la Provincia autonoma di Trento e gli avvocati dello Stato Giuseppe Fiengo e Michele Dipace per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

    1. - Con ricorso ritualmente notificato e depositato, la Provincia autonoma di Trento ha proposto in via principale, tra le altre, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 560, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), lamentando la violazione dell'art. 117, quarto comma, della Costituzione, dell'art. 8 del d. P. R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), e dell'art. 2 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento).

      La ricorrente premette che la clausola di salvaguardia contenuta nell'art. 1, comma 1363, della legge n. 296 del 2006 - secondo la quale «Le disposizioni della presente  legge sono applicabili nelle Regioni a  statuto speciale e nelle Province autonome di Trento e di Bolzano compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti e delle relative norme  di  attuazione» - non può operare in relazione a norme, quale quella oggetto della presente questione, che, espressamente o implicitamente, dispongano la propria applicazione alla Provincia autonoma di Trento. 

      La Provincia autonoma aggiunge che l'art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006 stabilisce che, «Ai fini del  concorso  delle autonomie regionali e locali al rispetto degli obiettivi di finanza pubblica di cui ai commi da 655 a 695, gli enti sottoposti al patto di stabilità interno assicurano la riduzione delle spese di personale, garantendo il contenimento della dinamica retributiva e occupazionale, anche attraverso la razionalizzazione delle strutture burocratico-amministrative», e che, a tal fine, possono fare riferimento ai princípi desumibili, tra l'altro, dal succ essivo comma 560, il quale dispone che «Per il triennio 2007-2009 le amministrazioni di cui al comma 557, che procedono all'assunzione di personale a tempo determinato, nei limiti e alle condizioni previste dal comma 1-bis dell'articolo 36 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, nel  bandire le relative  prove selettive riservano una quota non inferiore al 60 per cento  del totale dei posti programmati ai soggetti con i quali hanno stipulato uno o più contratti di collaborazione coordinata e continuativa, esclusi gli incarichi di nomina politica, per la durata complessiva di almeno un anno raggiunta alla data del 29 settembre 2006».

    La ricorrente afferma che tale norma interviene nella materia dell'«ordinamento  degli  uffici  provinciali e del personale ad essi addetto», che appartiene alla  competenza  legislativa  primaria della Provincia, ai sensi dell'art. 8, numero 1, del d. P. R. n. 670 del 1972, ed alla competenza residuale delle Regioni ordinarie prevista dall'art. 117, quarto comma, della Costituzione. Quest'ultimo titolo di competenza legislativa, ad avviso della Provincia autonoma di Trento, opererebbe nella fattispecie in virtù dell'art. 10 della legge costituzion ale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), poiché prevede una forma di autonomia più ampia rispetto alla competenza legislativa attribuita dalle norme statutarie. Ne conseguirebbe l'illegittimità della norma impugnata che disciplina, con precetti direttamente applicabili e di dettaglio, le assunzioni di personale a tempo determinato  che  avvengano  nel  triennio  2007-2009.

    La ricorrente aggiunge che l'art. 1, comma 560, della legge n. 296 del 2006 sarebbe lesivo della sua competenza legislativa anche applicando le regole ed i limiti  di  cui all'alinea dell'art. 8 dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige e persino nella prospettiva di una competenza concorrente, poiché esso detta regole alle quali non può essere  riconosciuto il rango di princípi fondamentali o di princípi di riforma economico-sociale, operando invece scelte specifiche e concrete circa la quota da riservare a chi  abbia già avuto occasioni di lavoro non subordinato con la Provi ncia, precisando l'entità minima della quota riservata ed i requisiti che debbono possedere i riservatari.

    Infine, la Provincia autonoma di Trento deduce che, trattandosi di norme che non richiedono alcuna specificazione e dunque direttamente applicabili, sarebbe violato anche l'art. 2 del d. lgs. n. 266 del 1992, il quale preclude la diretta applicabilità delle  leggi  statali  nelle  materie  di  competenza provinciale.

    2. - Si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri che ha concluso per l'infondatezza della questione.

    A parere del resistente la norma impugnata deve essere considerata unitamente alle altre disposizioni in materia di impiego pubblico contenute nella legge finanziaria che hanno come finalità il riequilibrio della spesa pubblica. Tale finalità è espressamente richiamata nell'art. 1, comma 557, della legge n. 296 del 2006 che, con riferimento alle disposizioni dei successivi commi da 665 a 695, impone alle Regioni ed agli enti locali sottoposti al patto di stabilità interno di concorrere agli obiettivi di finanza pubblica attraverso la riduzione della spesa per il personale. Si tratta, ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, di princípi fondamentali delle riforme economico-sociali e di princípi di coordinamento della finanza p ubblica ispirati al principio di leale collaborazione.

    Il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene, poi, che l'art. 1, comma 560, della legge n. 296 del 2006 mira, in particolare, ad evitare il proliferare di rapporti di collaborazione e che, anche ritenendo che contenga disposizioni di dettaglio, esso non víola la competenza legislativa della Provincia autonoma di Trento, perché è legittimato dal principio fondamentale rispetto al quale le disposizioni di dettaglio sono strumentali e perché è imposto dalla necessità di garantire su tutto il territorio nazionale regole unitarie per una tendenziale stabilizzazione del personale pubblico (obiettivo cui si ispira l'art. 1, comma 558, della legge n. 296 del 2006) e per assicurare la trasparenza della spesa pubblica necessaria al fine dell'adozione delle opportune misure di contenimento.

      3. - In prossimità dell'udienza di discussione, le parti hanno depositato memorie nelle quali hanno ribadito le rispettive conclusioni.

      La Provincia autonoma di Trento, in particolare, contesta che l'art. 1, comma 560, della legge n. 296 del 2006 possa essere qualificato come principio di coordinamento della finanza pubblica, sia perché esso non garantisce una limitazione della spesa pubblica, sia perché riguarda una minuta voce di spesa e impone le modalità per conseguire l'obiettivo.

      Il Presidente del Consiglio dei ministri, nella propria memoria, ribadisce invece che la norma impugnata è una disposizione di principio, perché il legislatore, per mezzo di essa e mediante il precedente comma 529 dello stesso art. 1 (che detta analogo precetto con riferimento alle amministrazioni statali ed agli enti pubblici non economici), ha inteso introdurre un sistema uniforme di razionalizzazione delle collaborazioni coordinate e continuative.

Considerato in diritto

      1. - La Provincia autonoma di Trento ha proposto questioni di legittimità costituzionale di alcune disposizioni dell'art. 1, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007) e, tra queste, del comma 560, in riferimento all'art. 117, quarto comma, della Costituzione, all'art. 8 del d. P. R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), e all'art. 2 del decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige con cernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento).

    La norma censurata dispone che, per il triennio 2007-2009, le amministrazioni soggette al patto di stabilità interno che procedono all'assunzione di personale a tempo determinato, nel  bandire le relative prove selettive, debbono riservare una quota non inferiore al 60 per cento del totale dei posti programmati ai soggetti con i quali hanno stipulato uno o più contratti di collaborazione coordinata e continuativa, esclusi gli incarichi di nomina politica, per la durata complessiva di almeno un anno raggiunta alla data del 29 settembre 2006.

    1.1. - Ad avviso della ricorrente, tale disposizione legislativa viola l'art. 117, quarto comma, Cost., precetto nella fattispecie applicabile anche alla Provincia autonoma di Trento in virtù dell'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), poiché prevede una forma di autonomia più ampia rispetto alla competenza legislativa riconosciuta alla stessa Provincia dall'art. 8, numero 1, del d. P. R. n. 670 del 1972 in materia di «ordinamento degli  uffici provinciali e del personale ad essi addetto».

    La Provincia aggiunge che l'art. 1, comma 560, della legge n. 296 del 2006, contenendo una norma di dettaglio, è lesivo della sua competenza legislativa anche ritenendo applicabile l'art. 8 dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige.

    1.2. - Il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene che la questione è infondata, perché la norma censurata costituisce principio fondamentale delle riforme economico-sociali e principio di coordinamento della finanza pubblica, mirando ad evitare la proliferazione di rapporti di collaborazione ed essendo giustificata dalla necessità di garantire su tutto il territorio nazionale regole unitarie per una tendenziale stabilizzazione del personale pubblico e per assicurare la trasparenza della spesa pubblica.

    2. - La questione è fondata.

    2.1. - La norma impugnata non può essere qualificata come principio di coordinamento della finanza pubblica.

    Essa, infatti, non impone alle amministrazioni soggette al patto di stabilità interno alcun limite quantitativo o di spesa per le assunzioni di personale o la stipulazione di contratti di collaborazione coordinata e continuativa, né, tantomeno, vieta di instaurare simili rapporti, ma dispone che, se e quando le amministrazioni soggette al patto di stabilità interno decidano, nel triennio 2007-2009, di procedere ad assunzioni di personale a tempo determinato, debbono obbligatoriamente riservare una quota di posti (non inferiore al 60 per cento) a favore di chi abbia già intrattenuto (con l'amministrazione banditrice del concorso) rapporti di collaborazione coordinata e continuativa per la durata complessiva di almeno un anno alla data del 29 settembre 2006.

    Tale norma - imponendo che una quota del nuovo personale da assumere a tempo determinato debba possedere certi requisiti - attiene alla disciplina delle modalità di accesso all'impiego presso gli enti soggetti al patto di stabilità interno. Come questa Corte ha già affermato (sentenza n. 380 del 2004), la regolamentazione delle modalità di accesso al lavoro pubblico regionale è riconducibile alla materia dell'organizzazione amministrativa delle Regioni e degli enti pubblici regionali e rientra nella competenza residuale delle Regioni di cui all'art. 117, quarto comma, della Costituzione. Ciò, ai sensi dell'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, vale anche per la Provincia ricorrente, perché il menzionato art. 117, quarto comma, p revede una forma di autonomia più ampia rispetto a quella attribuita dallo statuto speciale del Trentino-Alto Adige. Quest'ultimo, infatti, all'alinea dell'art. 8, condiziona al rispetto dei limiti indicati dal precedente art. 4 l'esercizio della potestà legislativa della Provincia autonoma in materia di «ordinamento degli uffici provinciali e del personale ad essi addetto».

    L'art. 1, comma 560, della legge n. 296 del 2006 è, dunque, illegittimo nella parte in cui si applica anche alle Regioni ed alle Province autonome di Trento e di Bolzano.

    La dichiarazione di illegittimità costituzionale nei termini appena precisati non può essere evitata facendo leva sull'art. 1, comma 1363, della legge n. 296 del 2006, a norma del quale «Le disposizioni della presente legge sono applicabili nelle regioni a statuto speciale e nelle province autonome di Trento e di Bolzano compatibilmente con le norme dei rispettivi statuti e delle relative norme d'attuazione». Infatti, come affermato da questa Corte (si vedano, tra le altre, le sentenze 443 e n. 117 del 2007), tali clausole di salvaguardia, per la loro genericità e per il loro riferirsi ad una serie eterogenea di disposizioni comprese nello stesso atto legislativo, non sono idonee ad escludere il sindacato di legittimità costituzionale sulle norme ritenute da Regioni e Province autonome pienamente applicabili nel loro territorio.

Per questi motivi

la corte costituzionale

      riservata a separate pronunce la decisione sull'impugnazione delle altre disposizioni contenute nell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007);

      dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 1, comma 560, della legge n. 296 del 2006, nella parte in cui si applica anche alle Regioni ed alle Province autonome di Trento e di Bolzano.

      Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 aprile 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 aprile 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
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SENTENZA N. 96

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 28 e 29 della legge 13 giugno 1942, n. 794 (Onorari di avvocato e di procuratore per prestazioni giudiziali in materia civile) promosso con ordinanza del 9 novembre 2006 dal Consiglio di Stato sul ricorso proposto da A.A.T. contro A.G., iscritta al n. 284 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visti l'atto di costituzione di A.A.T. nonché gli atti di intervento di L.V. e della Società italiana degli avvocati amministrativisti e del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica dell'11 marzo 2008 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;

    uditi gli avvocati Giuseppe Abbamonte, Stefano Crisci e Filippo Lubrano per A.A.T. e per L.V. e la Società italiana degli avvocati amministrativisti e l'avvocato dello Stato Fabio Tortora per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

    1.− Con ordinanza depositata il 9 novembre 2006 il Consiglio di Stato, sezione VI, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione, degli artt. 28 e 29 della legge 13 giugno 1942, n. 794 (Onorari di avvocato e di procuratore per prestazioni giudiziali in materia civile), nella parte in cui, secondo il diritto vivente, non consentono che il procedimento semplificato ivi previsto, avente ad oggetto la liquidazione dei compensi spettanti agli avvocati in relazione all'attività prestata nei giudizi civili, si applichi nei giudizi amministrativi, per la liquidazione dei compensi riguardanti l'attività defensionale in essi svolta.

    Nel giudizio principale si discute dell'appello proposto da un avvocato avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale dell'Abruzzo, che ha dichiarato inammissibile, per difetto di giurisdizione, il ricorso promosso ai sensi dell'art. 28 della legge n. 794 del 1942, dal medesimo professionista, per la liquidazione degli onorari professionali.

    Il rimettente dà atto di condividere l'orientamento «pressoché uniforme» della Corte di cassazione (sono richiamate le sentenze: sez. II civile, 29 luglio 2004, n. 14394; sez. II civile, 27 marzo 2001, n. 4419; sez. II civile, 12 settembre 2000, n. 12035; sez. II civile, 27 marzo 1995, n. 3603; sez. II civile, 18 luglio 1991, n. 7993), e prevalente presso il Consiglio di Stato (sez. IV, 14 aprile 2006, n. 2133; sez. IV, decr. Pres. 21 ottobre 2005, n. 5957; in senso contrario, sez. VI, 1 marzo 2005, n. 820), secondo il quale il procedimento camerale previsto dagli artt. 28 e 29 della legge n. 794 del 1942 non è applicabile alla domanda di pagamento di compensi professionali formulata davanti al giudice amministrativo, per attività di patrocinio svolta nell'ambito della relativa giurisdizione. Più in general e, riferisce il giudice a quo, la costante giurisprudenza della Cassazione ritiene che lo speciale procedimento camerale non sia applicabile ai processi penali, amministrativi ovvero in materia di compensi riferiti ad attività stragiudiziali, ed anche la dottrina perviene alle medesime conclusioni.

    Con riguardo al profilo di interesse, il rimettente espone gli argomenti che militano a sostegno dell'interpretazione restrittiva, richiamando in primo luogo il dato letterale, quale emerge sia dal titolo della legge n. 794 del 1942, che concerne la liquidazione dei corrispettivi dovuti agli avvocati per prestazioni rese nei giudizi civili, sia dal riferimento, contenuto negli artt. 28, 29 e 30 della citata legge, ad istituti propri del processo civile e all'organizzazione degli uffici giudiziari civili. Inoltre, il giudice a quo osserva come, «nel presupposto pacifico della giurisdizione del giudice civile su controversie inerenti alla determinazione di onorari professionali», la configurazione dello speciale procedimento abbia comportato l'intervento del legislat ore sulla competenza, attribuita all'ufficio giudiziario che ha conosciuto l'attività defensionale oggetto di liquidazione.

    Il rimettente si sofferma, quindi, sul profilo del riparto di giurisdizione, per affermare che «una giurisdizione esclusiva del GA in tema di diritti soggettivi patrimoniali necessiterebbe, specie alla luce dei canoni restrittivi enucleati dalle sentenze nn. 204/2004 e 191/2006 della Consulta, di un'espressa menzione legislativa che difetta nel testo normativo di cui trattasi».

    Dopo aver illustrato gli argomenti a sostegno della soluzione interpretativa «conforme alla legislazione vigente come interpretata dal Giudice della giurisdizione», il Consiglio di Stato ritiene tuttavia che la stessa esponga «la norma a dubbi di costituzionalità rilevanti (atteso l'oggetto del presente giudizio di appello) e non manifestamente infondati».

    A fronte dell'ampia discrezionalità che va riconosciuta al legislatore nella regolamentazione degli istituti processuali e nella previsione di forme di tutela differenziate, il giudice a quo ritiene che la censurata esclusione non trovi giustificazione sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto le situazioni poste a confronto sarebbero in tutto sovrapponibili, coincidendo l'oggetto della tutela (compensi professionali) e sussistendo, anche per il processo amministrativo, l'esigenza di dotare il professionista «di un efficiente strumento procedurale, aggiuntivo alla procedura finalizzata all'emissione di un decreto ingiuntivo ex art. 633 c.p.c., dato dalla via del ricorso al capo dell'ufficio giudiziario adito per il processo».

    Il rimettente individua la ratio dell'istituto nella «connessione ontologica» tra il contenzioso introdotto dal professionista per il recupero del compenso e la controversia di base, il che per un verso giustifica la previsione dell'«incidente di esecuzione» davanti al giudice della cognizione e, per altro verso, vale anche a differenziare «tali questioni»  dagli altri crediti pecuniari, per i quali risulta esperibile soltanto la procedura di ingiunzione di cui agli artt. 633 e seguenti cod. proc. civ.

    Tale connessione, secondo il giudice a quo, verrebbe in rilievo anche nel processo amministrativo, con la conseguenza che la «scelta omissiva» del legislatore, il quale ha configurato il procedimento in esame per la liquidazione dei compensi soltanto in ambito giudiziale civile, si porrebbe in contrasto con i parametri costituzionali della ragionevolezza (art. 3), del diritto di difesa (art. 24), e della pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale davanti al giudice amministrativo (artt. 24, 103 e 113).

    2. - Con memoria depositata il 22 maggio 2007 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, ed ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata.

    La difesa erariale evidenzia, in primo luogo, che il rimettente non ha precisato se il compenso professionale oggetto di domanda afferisca a materia rientrante nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo; inoltre, avuto riguardo alla formulazione delle censure, osserva come la questione sia posta cumulativamente con riferimento ai parametri evocati, e manchi dell'esposizione analitica delle ragioni di contrasto con ciascuno di essi, con sostanziale esclusiva denunzia della irragionevolezza delle norme censurate.

    Ancora, secondo la difesa dello Stato, la questione risulterebbe inammissibile sia perché il rimettente avrebbe omesso la doverosa verifica della possibilità di pervenire ad una interpretazione costituzionalmente orientata, sia in quanto il predetto chiede alla Corte costituzionale un intervento manipolativo, quale sarebbe l'introduzione di una nuova ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo.

    L'Avvocatura generale richiama quindi la sentenza n. 204 del 2004 della Corte costituzionale, ove si afferma che l'art. 103 Cost. non ha attribuito al legislatore una discrezionalità assoluta ed incondizionata nella individuazione delle materie devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, «ma gli ha conferito il potere di indicare "particolari materie" nelle quali "la tutela nei confronti della pubblica amministrazione" investe "anche" diritti soggettivi». Da ciò consegue che nel caso in esame, mancando il collegamento funzionale tra il contenzioso finalizzato al recupero del credito professionale e la posizione autoritativa della pubblica amministrazione, non sarebbe configurabile una nuova ipotesi di giurisdizione esclusiva.

    La difesa erariale rileva inoltre che gli artt. 103 e 113 Cost. sono inconferenti rispetto all'oggetto della questione, posto che «non di tutela nei confronti della pubblica amministrazione si verte nel giudizio principale, ma di diritti sorti tra privati o azionati iure privatorum».

    Quanto al merito della questione posta in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., infine, l'Avvocatura generale ritiene che la stessa sia manifestamente infondata.

    La difesa erariale richiama la costante giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di discrezionalità del legislatore nel predisporre gli strumenti della tutela giurisdizionale e quindi osserva come, a fronte dell'adeguatezza degli strumenti a disposizione degli avvocati per il recupero dei compensi professionali, la previsione di uno strumento ulteriore e specifico, in relazione ad una categoria di giudizi (quelli civili), costituisca un plus che non vulnera la garanzia e l'effettività della generale tutela assicurata agli avvocati i quali prestano la loro opera professionale nei giudizi diversi da quello civile. In ogni caso, conclude l'Avvocatura generale, «una norma eccezionale non può costituire parametro di riferimento per una disciplina generale».

    3. - Con atto depositato il 21 maggio 2007 si è costituita la parte appellante nel giudizio a quo, A.A.T., la quale insiste per l'accoglimento della questione.

    La parte privata richiama l'iter argomentativo dell'ordinanza di rimessione, evidenziando, in riferimento alla violazione dell'art. 3 Cost., l'identità del rapporto che intercorre tra professionista e cliente nei giudizi civili e in quelli amministrativi, a fronte della quale sarebbe irrilevante la natura dell'oggetto del giudizio.

    La limitazione del procedimento speciale ai soli giudizi civili determinerebbe, inoltre, un trattamento deteriore dell'avvocato che svolge la propria attività nei giudizi amministrativi, incidendo in generale sull'esercizio del diritto di azione e sulla sua realizzazione concreta.

    Ancora, secondo la parte privata, la normativa censurata sarebbe in contrasto con l'art. 103 Cost., il quale, riconoscendo nella giurisdizione amministrativa lo strumento per la tutela degli interessi legittimi e dei diritti soggettivi, qualifica tali situazioni giuridiche «su un piano di parità rispetto alle analoghe situazioni di pertinenza del Giudice civile e, invece, di fatto differenziate per la carenza organizzativa del sistema per quanto attiene ai rapporti tra il professionista e il cliente nei giudizi di pertinenza del Giudice amministrativo».

    Risulterebbe vulnerato, infine, il precetto di cui all'art. 113 Cost., il quale, nel prevedere che «contro gli atti della pubblica amministrazione è sempre ammessa la tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi dinanzi agli organi di giurisdizione ordinaria e amministrativa», esige che la tutela debba realizzarsi su un piano di assoluta parità nell'ambito dei due tipi di giudizio, laddove, per effetto della «scelta omissiva del Legislatore», in relazione ai giudizi amministrativi, la tutela risulta ingiustificatamente differenziata.

    La parte privata richiama, quindi, due decisioni del Consiglio di Stato (sez. V, 31 gennaio 2007, n. 385 e n. 386), nella quali si legge che è tuttora operante «il principio secondo il quale sono applicabili al giudizio amministrativo le norme della procedura civile che, costituendo espressione di principi generali sul processo, risultano, in mancanza di apposita disciplina, compatibili con le peculiarità del processo amministrativo». La normativa censurata sarebbe perciò applicabile al giudizio amministrativo, essendo oltretutto indubitabile che il giudice amministrativo, per le cause rientranti nella propria competenza, sia l'autorità giurisdizionale che meglio può apprezzare il valore della prestazione resa dal difensore.

    4. - Con atto depositato il 21 maggio 2007, sono intervenuti in giudizio L.V. e la Società italiana degli avvocati amministrativisti, al fine di sostenere la fondatezza della questione.

    4.1. - Preliminarmente, gli intervenienti affermano di essere entrambi parti in due giudizi sospesi dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (n. 1 e n. 2 del 2007), in attesa della decisione della presente questione, in quanto aventi il medesimo oggetto del giudizio principale. Tale circostanza fonderebbe la titolarità, per entrambi i soggetti intervenuti, di un interesse qualificato a partecipare al presente giudizio di costituzionalità, laddove, diversamente opinando, «si dovrebbe sollevare la questione di legittimità costituzionale del limite che sarebbe derivato dalla particolare situazione in questione per violazione dei principi di cui agli artt. 3 e 24 della Costituzione in relazione al carattere generale, assoluto ed indifferenziato del titolo a partecipare al giudizio (anche costituzionale) pe r la tutela dei propri diritti e interessi legittimi».

    La Società italiana degli avvocati amministrativisti afferma poi che la propria legittimazione a partecipare al giudizio costituzionale discenderebbe anche dalla previsione contenuta nell'art. 2 dello statuto sociale, ai sensi del quale essa «concorre alla soluzione dei problemi degli avvocati che esercitano la loro attività professale nel settore del diritto amministrativo» (primo comma), a tal fine «assumendo ogni altra iniziativa ritenuta opportuna per la realizzazione dello scopo, anche dinanzi alle pubbliche amministrazioni ed agli organi giudiziari» (secondo comma).

    4.2. - Nel merito della questione, la difesa dei soggetti intervenuti prospetta argomenti in tutto coincidenti con quelli svolti nella memoria di costituzione della parte privata A.A.T., già sintetizzata al paragrafo 3, al quale si rinvia.

    5. - In data 26 febbraio 2008 la parte privata A.A.T. ha depositato memoria illustrativa per argomentare ulteriormente in merito alla fondatezza della questione.

    L'interveniente si sofferma sulle pronunce della Corte costituzionale che hanno già esaminato il procedimento previsto dagli artt. 28 e seguenti della legge n. 794 del 1942, e richiama in particolare la sentenza n. 197 del 1998, nella quale si trova affermato che «il rito camerale disciplinato dall'art. 29 della legge n. 794 del 1942 si correla ontologicamente ad uno specifico giudizio contenzioso finalizzato soltanto alla sollecita liquidazione degli onorari di avvocato e di procuratore, che il professionista chiede con il ricorso previsto dal precedente art. 28, avente natura di semplice domanda». Da tale affermazione, secondo la parte privata, discenderebbe che lo speciale procedimento può essere utilizzato in tutti i casi in cui il legale agisca per il soddisfacimento del proprio credito per spese, onor ari e diritti per prestazioni giudiziali in materia civile od equiparata, e quindi anche per i compensi per prestazioni rese in ambito processuale amministrativo, rimanendo escluse le sole ipotesi in cui il credito dell'avvocato riguardi compensi per prestazioni in materia penale o per attività stragiudiziali.

    L'interveniente rileva ancora come le caratteristiche del giudizio camerale, nelle cui forme si svolge il procedimento semplificato, appartengano anche al processo amministrativo, e che «l'interesse - di cui il rito camerale è portatore - alla sollecita liquidazione delle parcelle degli avvocati, essendo correlato alla sussistenza di una connessione "ontologica" di detto contenzioso con la controversia di base, prescinde dalla natura del giudizio in cui il credito del professionista è maturato tutte le volte in cui il giudizio stesso, per il modo in cui è strutturato e disciplinato, non ponga ostacoli concreti all'esperibilità del rito speciale» (è citata la decisione del Consiglio di Stato, sez. VI, 1 marzo 2005, n. 820, che ha ritenuto l'applicabilità del procedimento in esame al giudizio amministrativo).

    La parte privata richiama quindi parte della giurisprudenza costituzionale sul principio di uguaglianza (sentenze n. 24 del 2004, n. 441 del 2000, n. 89 del 1996 e n. 82 del 1973), evidenziando, quanto all'ampiezza del sindacato sul merito delle scelte legislative, che detto sindacato «è possibile solo ove esse trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell'arbitrio, come avviene allorquando la sperequazione normativa tra fattispecie omogenee assuma aspetti e dimensioni tali da non potersi considerare sorretta da alcuna ragionevole giustificazione» (sentenza n. 394 del 2006).

    La mancata estensione del procedimento semplificato ai giudizi amministrativi, a parere dell'interveniente, non risponde ad alcun interesse qualificato a soddisfare un'esigenza propria o esclusiva del processo civile, essendo di carattere storico le ragioni per cui le norme censurate fanno riferimento al solo giudizio civile: all'epoca, infatti, era ancora prevista la giurisdizione in unico grado del Consiglio di Stato, avente carattere di giurisdizione superiore, e come tale esclusa dalla disciplina in esame, al pari di quella riferibile alla Corte di cassazione.

    Diversamente oggi, nel mutato contesto ordinamentale, non troverebbe più giustificazione il diritto vivente che esclude l'applicabilità della procedura semplificata al giudizio amministrativo «da un lato in forza di un'interpretazione strettamente letterale della stessa, dall'altro nella considerazione del difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in materia di controversie tra privati». Quanto al profilo della carenza di giurisdizione del giudice amministrativo in materia di controversie tra privati, il deducente sottolinea come il ricorso proposto ai sensi dell'art. 28 della legge n. 794 del 1942 introduca una «domanda meramente conseguente, eventuale ed accessoria al giudizio principale (radicato nel rispetto delle regole della giurisdizione)», così risultando correttamente introdotta davanti a l giudice che ha conosciuto il predetto giudizio.

    La parte privata evidenzia ancora come l'estensione al giudice amministrativo della «nuova competenza giurisdizionale ex lege n. 794/1942 in materia di diritti soggettivi, sottrae alla giurisdizione civile ordinaria soltanto la cognizione dei procedimenti camerali, lasciando impregiudicata quella sui procedimenti instaurati con il rito ordinario e quella sulle procedure monitorie previste dagli artt. 633 e seguenti del codice di procedura civile». Il risultato dell'estensione, quindi, non sarebbe la creazione di una sorta di "ulteriore giurisdizione esclusiva" del giudice amministrativo, rimanendo ferma la giurisdizione del giudice ordinario tutte le volte in cui, per scelta del professionista, o in conseguenza del comport amento processuale della controparte, il giudizio camerale non possa avere luogo.

    6. - In data 26 febbraio 2008 hanno depositato ulteriore memoria L.V. e la Società italiana degli avvocati amministrativisti.

    Gli intervenienti richiamano l'orientamento restrittivo della giurisprudenza costituzionale in tema di ammissibilità dell'intervento di soggetti che non siano parti del giudizio principale (in particolare, ordinanze n. 162 del 2002 e n. 361 del 1988), ritenendo, tuttavia, che nel caso di specie possa trovare applicazione il principio derogatorio espresso dalla stessa Corte con riferimento alle situazioni in cui il giudizio di costituzionalità risulti direttamente incidente su posizioni giuridiche soggettive «quando non vi sia la possibilità per i titolari delle medesime posizioni di difenderle come parti nel processo stesso» (sentenze n. 315 e n. 314 del 1992).

    Con riferimento al merito della questione, nella memoria sono sviluppati argomenti in tutto identici a quelli prospettati nella memoria della parte privata A.A.T., già sintetizzata al paragrafo 5, al quale si rinvia.

Considerato in diritto

    1. − Il Consiglio di Stato ha sollevato questioni di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3, 24, 103 e 113 della Costituzione, degli artt. 28 e 29 della legge 13 giugno 1942, n. 794, nella parte in cui non consentono, secondo il diritto vivente, che il procedimento semplificato ivi previsto, avente ad oggetto la liquidazione dei compensi spettanti agli avvocati in relazione all'attività prestata nei giudizi civili, si applichi nei giudizi amministrativi, per la liquidazione dei compensi riguardanti l'attività defensionale in essi svolta.

    2. - Devono essere dichiarati inammissibili gli interventi di L.V. e della Società italiana degli avvocati amministrativisti, che non sono parti nel giudizio a quo, ma in giudizi aventi analogo oggetto e sospesi in attesa della decisione sulla presente questione. È costante giurisprudenza di questa Corte che possono partecipare al giudizio di legittimità costituzionale le sole parti del giudizio principale ed i terzi portatori di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto nel giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma oggetto di censura.

    3. - Preliminarmente occorre rilevare che il richiamo, da parte del rimettente, agli artt. 103 e 113 Cost. è privo di argomentazioni atte a rendere comprensibile il legame tra tali parametri costituzionali e le controversie nascenti tra avvocati e clienti, aventi ad oggetto il recupero di crediti professionali. Sia la prima che la seconda delle norme costituzionali citate si riferiscono in modo chiaro e incontrovertibile alla tutela nei confronti della pubblica amministrazione, mentre nel caso di specie si tratta di controversie insorte tra privati, a seguito di un contratto di prestazione d'opera professionale. La carenza di motivazione in ordine alla pertinenza dei suddetti parametri rende pertanto inammissibile la questione sollevata in riferimento agli stessi.

    4.1. - In riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., la questione non è fondata.

    4.2. - La normativa denunciata presenta caratteristiche di marcata specialità, essendo stata dettata dal legislatore in considerazione della omogeneità del ramo di giurisdizione e della identità dell'ufficio giudiziario esistenti tra la lite instaurata per recuperare il credito insoddisfatto, vantato dall'avvocato nei confronti del proprio cliente per prestazioni giudiziali in materia civile, ed il giudice davanti al quale si può svolgere la procedura camerale semplificata prevista dall'art. 29 della legge n. 794 del 1942. Si tratta infatti di un credito di natura squisitamente civilistica, nascente da un contratto di prestazione d'opera professionale stipulato tra l'avvocato ed il cliente normalmente prima dell'instaurazione della controversia giudiziaria e in ogni caso distinto e separato rispetto alla st essa. Questa Corte ha già avuto modo di precisare, con riguardo alla procedura de qua, che «il procedimento trova giustificazione e limite nella peculiarità delle fattispecie che ne consentono l'instaurazione e ne consigliano la definizione possibilmente in via conciliativa». A tale argomentazione fondamentale si può aggiungere «la relativa semplicità degli accertamenti di fatto, solitamente desumibili dagli atti del processo nel quale le prestazioni sono state eseguite o che, comunque, in riferimento alla controversia, sono normale esplicazione di attività di patrocinio» (sentenza n. 22 del 1973). Proprio per la particolarità del contenzioso a cui è applicabile il procedimento semplificato previsto dalle norme censurate, «non appare arbitrario né irrazionale che tale trattamento non sia stato esteso a tutti i professionisti di cui all'art. 633 del codice di procedura civile» (sentenza n. 238 del 1976).

    4.3. - Alla base del procedimento previsto dall'art. 29 della legge n. 794 del 1942 non sta la qualità del creditore (avvocato), bensì il collegamento della domanda mirante al pagamento del compenso con un ben delimitato tipo di controversie (civili), che, come specificato dall'art. 28, si sono svolte nell'ambito dello stesso ufficio giudiziario.

    La specificità di cui sopra esclude che il rito camerale previsto dalle norme censurate possa estendersi ad altri tipi di controversie, in quanto tale rito «si correla ontologicamente ad uno specifico giudizio contenzioso finalizzato soltanto alla sollecita liquidazione degli onorari di avvocato e procuratore» (sentenza n. 197 del 1998). La giurisprudenza di questa Corte non ha pertanto affermato una inesistente connessione «ontologica» tra il contenzioso volto al recupero del compenso professionale e la controversia di base, come invece ritenuto dal giudice rimettente e ribadito dalla parte privata regolarmente costituita in questo giudizio, ma, al contrario, ha messo in rilievo il legame, questo sì ontologico, tra il rito camerale previsto dall'art. 29 ed il giudizio specifico mirante al pagamento degli o norari per prestazioni effettuate in un procedimento giudiziale civile.

    Nel caso, invece, di prestazioni professionali date nell'ambito di un procedimento svoltosi davanti al giudice amministrativo, emerge in modo evidente l'eterogeneità tra la controversia di base - volta alla tutela di situazioni giuridiche soggettive asseritamente lese dalla pubblica amministrazione o da soggetti privati posti in particolare posizione di preminenza (quali, ad esempio, i concessionari di pubblici servizi) - e lo specifico contenzioso volto ad ottenere l'adempimento di un obbligo nascente da un rapporto contrattuale intercorrente tra soggetti privati. Quest'ultimo è da considerare estraneo rispetto alle «particolari materie» ritenute dalla giurisprudenza di questa Corte suscettibili di essere inserite, anche dallo stesso legislatore, nella sfera della giurisdizione esclusiva del giudice ammini strativo, quale configurata dall'art. 103, primo comma, Cost. Non ricorre difatti la figura della pubblica amministrazione-autorità, necessario presupposto perché possa estendersi la giurisdizione esclusiva (sentenze n. 204 del 2004 e n. 191 del 2006), ma rilevano soltanto un attore e un convenuto, entrambi soggetti privati, al di fuori di qualsiasi esercizio di poteri autoritativi.

    Né vale obiettare - come fa la parte privata costituita - che la richiesta pronuncia additiva si limiterebbe ad introdurre una possibilità aggiuntiva rispetto a quelle offerte dal rito civile (processo ordinario di cognizione, giudizio monitorio ex art. 633 cod. proc. civ.), giacché l'esclusività della giurisdizione amministrativa sarebbe data, nella fattispecie, in caso di accoglimento della questione, dalla competenza del giudice amministrativo a giudicare su controversie aventi ad oggetto diritti soggettivi, al di fuori da ogni connessione degli stessi con l'operare della pubblica amministrazione come autorità. Il fatto che restino percorribili altre vie, davanti al giudice civile, per il recupero giudiziario del credito insoddisfatto, non fa venir meno la circo stanza che la pronuncia richiesta a questa Corte dovrebbe, secondo il rimettente, creare un nuovo ed inedito caso di cognizione piena del giudice amministrativo su diritti soggettivi, senza i presupposti individuati da questa Corte come unici compatibili con l'art. 103 Cost.

    4.4. - Alla luce di quanto detto sopra, quella che viene definita dal giudice a quo una irragionevole «scelta omissiva», si presenta invece come una non irragionevole restrizione all'accesso alla procedura speciale di cui agli artt. 28 e 29 della legge n. 794 del 1942, imposta dalle regole generali di riparto delle giurisdizioni, che impediscono una completa equiparazione a tal fine - postulata dal rimettente e dalla parte privata costituita - tra giudizi civili e giudizi amministrativi.

    D'altra parte, la tutela dei diritti degli avvocati che prestano la loro opera in giudizi diversi da quelli civili o in sede extragiudiziaria è comunque assicurata in modo pieno, in via generale per tutti i professionisti, sia dall'ordinario giudizio di cognizione che dal procedimento d'ingiunzione di cui agli artt. 633 e seguenti del codice di procedura civile. La norma assunta dal rimettente come tertium comparationis è senza dubbio derogatrice della disciplina generale di cui sopra e deve ritenersi giustificata, come già detto, dalla omogeneità del tipo di giurisdizione e dalla identità dell'ufficio giudiziario. Questa Corte peraltro ha fissato il principio che «quando si adotti come tertium comparationis la norma derog atrice, la funzione del giudizio di legittimità costituzionale non può essere se non il ripristino della disciplina generale, (.), non l'estensione ad altri casi di quest'ultima» (sentenza n. 298 del 1994).

    Si può aggiungere che l'estensione di una disciplina derogatrice più favorevole, dettata dal legislatore per una fattispecie particolare, ad una fattispecie altrettanto particolare, ancorché simile, non deve porsi in contrasto con principi insiti nel sistema costituzionale (nel caso di specie quelli che presiedono al riparto delle giurisdizioni), salvo che sia necessario assicurare l'adeguata tutela di un diritto fondamentale, in ipotesi carente nella legislazione ordinaria. Tale eventualità, come chiarito prima, non ricorre nel presente giudizio.

    4.5. - Prova ulteriore della perdurante non irragionevolezza della scelta operata dal legislatore del 1942 è la circostanza che una eventuale estensione del rito speciale previsto dalle norme censurate - nel quale, per esplicita previsione legislativa, non sono ammesse impugnazioni, ma solo, per giurisprudenza costante di legittimità, il ricorso per cassazione - produrrebbe paradossalmente una diminuzione di tutela poiché, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 111 Cost., contro le decisioni dei giudici amministrativi il ricorso per cassazione è ammesso per i soli motivi inerenti alla giurisdizione. Per evitare tale inaccettabile conseguenza, occorrerebbe pertanto parificare il ricorso al Consiglio di Stato avverso la decisione di un TAR ad un ricorso per cassazione ed escludere del tutto l'invocata tutela sp eciale per i compensi dovuti in seguito a prestazioni effettuate nell'ambito di cause svoltesi davanti al medesimo supremo organo della giurisdizione amministrativa.

    Le difficoltà sistemiche sopra evidenziate contribuiscono a far ritenere non irragionevole l'attuale restrizione ai soli giudizi civili dell'applicabilità del procedimento semplificato previsto dalle norme censurate.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara inammissibili gli interventi di L.V. e della Società italiana degli avvocati amministrativisti;

    dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 28 e 29 della legge 13 giugno 1942, n. 794 (Onorari di avvocato e di procuratore per prestazioni giudiziali in materia civile) sollevate, in riferimento agli art. 103 e 113 della Costituzione, dal Consiglio di Stato con l'ordinanza citata in epigrafe;

    dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale delle medesime disposizioni sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., dal Consiglio di Stato con la stessa ordinanza.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 aprile 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 aprile 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 97

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Luigi           MAZZELLA          "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati del 26 gennaio 2006 (doc. IV-ter, n. 17-A), relativa alla insindacabilità, ai sensi dell'art. 68, primo comma, Cost., delle opinioni espresse dal deputato Fabrizio Cicchitto nei confronti della dottoressa Maria Clementina Forleo, promosso con ricorso del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Roma, notificato il 5 gennaio 2007, depositato in cancelleria il 24 gennaio 2007 ed iscritto al n. 17 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2006, fase di merito.

    Visto l'atto di costituzione della Camera dei deputati;

    udito nell'udienza pubblica dell'11 marzo 2008 il Giudice relatore Sabino Cassese;

    udito l'avvocato Massimo Luciani per la Camera dei deputati.

Ritenuto in fatto

    1. - Il Tribunale di Roma - sezione dei giudici per l'udienza preliminare, ha sollevato, con ordinanza - ricorso del 21 giugno 2006, conflitto di attribuzione nei confronti della Camera dei deputati in relazione alla delibera adottata nella seduta del 26 gennaio 2006 (doc. IV-ter, n. 17-A) con la quale è stata dichiarata, ai sensi del primo comma dell'art. 68 della Costituzione, l'insindacabilità delle dichiarazioni del deputato Fabrizio Cicchitto, rispetto alle quali pende un procedimento penale.

    Il Tribunale ricorrente - riportando il capo di imputazione - espone che si procede nei confronti del deputato Fabrizio Cicchitto per il  reato continuato di diffamazione a mezzo stampa, aggravato dall'aver attribuito un fatto determinato, per avere, mediante una serie di dichiarazioni alla agenzia ANSA in data 25 gennaio 2005 «(riprese dal quotidiano "Secolo d'Italia" del 26 gennaio 2005)» ed in data 4 febbraio 2005 «(il cui contenuto deve intendersi qui integralmente trascritto)», offeso la reputazione del magistrato Maria Clementina Forleo in relazione al provvedimento dalla stessa emesso in data 24 gennaio 2005 nella sua funzione di giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Milano. In tali dichiarazioni, testualmente, a ffermava che «la sentenza di Milano rappresenta un colpo durissimo alla lotta al terrorismo, dà prospettive di impunità a quei fondamentalisti che tuttora lavorano in Italia per fare proselitismo [.] una sentenza così aberrante [.] determinata da una forte motivazione politica fondata sulla solidarietà con la resistenza irachena, tipica dei gruppi politici più estremi che evidentemente hanno trovato una sponda anche in qualche esponente della magistratura [.] è legittimo porsi l'interrogativo su quale ruolo stia svolgendo la dott.ssa Forleo nei confronti della lotta al terrorismo».

    Il Tribunale ricorrente richiama, inoltre, il contenuto della proposta della Giunta per le autorizzazioni a procedere in giudizio, a firma del relatore Mazzoni, nella quale, dopo una sommaria ricostruzione della vicenda - che aveva visto protagonista la dottoressa Forleo in relazione ad un procedimento nei confronti di Mohamed Daki e altri, conclusosi dinanzi alla stessa, in sede di giudizio abbreviato, con l'assoluzione di alcuni imputati per il reato di terrorismo - si legge che: «sicuramente sono affermazioni forti, ma non si può negare il collegamento stretto e funzionale, per essere più tecnici, con il ruolo istituzionale e politico dell'on. Cicchitto. Egli è infatti deputato e vice coordinatore nazionale di Forza Italia ed ha avuto più volte occasione di intervenire doverosamente in quest'aula e al di fuori di essa sugli argomenti gravissimi e delicatissimi legati alla minaccia del terrorismo internazionale (...). L'interpretazione contenuta in quella sentenza è stata successivamente posta in discussione tant'è vero che tale decisione è stata anche annullata. Chiaramente ciò rappresenta un motivo aggiunto rispetto alla fondatezza dei rilievi formulati dall'onorevole Cicchitto, sebbene con espressioni forti, nei confronti della sentenza. Il riferimento alla dott.ssa Forleo si può definire, nel caso di specie, solo casuale; le considerazioni che l'on. Cicchitto ha formulato sono chiaramente riferite ad un caso politico grave, di cui anche le aule parlamentari si sono ulteriormente occupate, promuovendo un intervento modificativo dell'articolo del codice penale richiamato nel processo che vedeva imputati i cinque extracomunitari, per precisare ed approfondire la nozione di rea to di terrorismo. Credo quindi nel caso di specie sussistano tutti gli elementi per accogliere la richiesta di insindacabilità avanzata dall'onorevole Cicchitto».

    Il Tribunale di Roma osserva, in via preliminare, di ritenere ammissibile l'opposizione alla richiesta di archiviazione presentata dalla persona offesa e di riservare l'esame delle questioni attinenti alla natura eventualmente diffamatoria delle affermazioni contenute nelle dichiarazioni e nel comunicato in oggetto, all'esito della risoluzione del conflitto di attribuzioni.

    Ad avviso del Tribunale, secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale della Corte costituzionale, le dichiarazioni del deputato Cicchitto, oggetto di conflitto, non sembra possano essere ricondotte ad uno degli atti previsti dall'art. 68, primo comma, Cost.

    Evidenzia altresì il Tribunale come non sia stato prodotto né depositato alcun atto parlamentare del quale le dichiarazioni costituirebbero divulgazione ovvero riproduzione.

    Il Tribunale di Roma, sospeso il giudizio, ha quindi sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati e ha chiesto alla Corte costituzionale di dichiarare che non spetta alla stessa Camera affermare l'insindacabilità, a norma dell'art. 68, primo comma, Cost., della condotta attribuita al deputato e, conseguentemente, di annullare la delibera adottata nella seduta del 26 gennaio 2006.

    2. - Con ordinanza n. 446 del 2006 è stato ritenuto ammissibile il conflitto.

    3. - Si è costituita in giudizio la Camera dei deputati, sostenendo che il ricorso sarebbe inammissibile in quanto l'ordinanza che promuove il conflitto non descrive «con il minimo indispensabile di precisione» quali siano le opinioni del deputato oggetto di contestazione.

    Ad avviso della Camera dei deputati, il Tribunale ricorrente si sarebbe limitato a riprodurre il capo di imputazione contestato al deputato, senza riportare compiutamente le frasi pronunciate da quest'ultimo, né avrebbe precisato quali di esse siano state pronunciate in occasione delle dichiarazioni alle agenzie di stampa del 25 gennaio 2005 e quali in occasione di quelle del 4 febbraio 2005, né avrebbe riferito la vicenda da cui scaturivano tali dichiarazioni e tali omissioni non sarebbero sanate neppure dall'aver riportato nel ricorso il contenuto della relazione della Giunta per le autorizzazioni a procedere in giudizio. Pertanto, a parere della Camera dei deputati, l'atto introduttivo del ricorso sarebbe carente per insufficiente indicazione, da un lato, delle ragioni del conflitto, dall'altro, del «petitum».

    Nel merito, la Camera dei deputati chiede il rigetto del ricorso, atteso che il contenuto delle opinioni extra moenia manifestate dal deputato è sostanzialmente identico alle critiche da questi formulate in atti parlamentari di funzione (interrogazione n. 4/13312 del 7 marzo 2005). Aggiunge la Camera dei deputati che altri parlamentari, anche dello stesso gruppo del deputato Cicchitto (Forza Italia), hanno manifestato opinioni del tutto simili in atti funzionali (interrogazione n.3/04135 del 26 gennaio 2005 a firma dell'on. La Russa - sottoscritta da ben ottantaquattro deputati del gruppo di Alleanza Nazionale -, interrogazione n. 3/04134 del 26 gennaio 2005 a firma dell'on. Cè, interrogazione n. 3/04133 del 26 gennaio 2005 a firma dell'on. Paniz e interrogazione n. 4/12869 del 10 febbraio 2005 a firma dell'on. Fragalà). La difesa, pur consapevole del consolidato orientamento della Corte costituzionale in materia, ne chiede la revisione e osserva che l'interrogazione n. 3/04133 presentata il 26 gennaio 2005, primo firmatario on. Paniz, ha natura di interrogazione a risposta immediata, cosiddetta question time, prevista dall'art. 135-bis, comma 2, del rego lamento della Camera dei deputati, ammessa «una sola per gruppo parlamentare, da presentarsi per il tramite del Presidente del gruppo» e che, pertanto, le interrogazioni presentate in tale occasione «per conto di tutto il gruppo» debbono essere considerate al fine di verificare la sussistenza del nesso funzionale, anche se l'autore delle dichiarazioni oggetto di conflitto, pur se appartenente a quel gruppo, non ne sia firmatario.

    4. - In prossimità della data fissata per l'udienza, la Camera dei deputati, ha depositato una memoria con cui ribadisce l'eccezione di inammissibilità del conflitto e, nel merito, insiste per il rigetto del ricorso e richiama il contenuto di due interventi in aula del deputato nei quali lo stesso avrebbe continuato «a dimostrare interesse per il tema» (dell'8 marzo e del 12 luglio 2005).

Considerato in diritto

    1. - Il Tribunale di Roma - sezione dei giudici per l'udienza preliminare, ha sollevato, con ordinanza - ricorso del 21 giugno 2006, conflitto di attribuzione nei confronti della Camera dei deputati in relazione alla delibera adottata nella seduta del 26 gennaio 2006 (doc. IV-ter, n. 17-A) con la quale è stata dichiarata, ai sensi del primo comma dell'art. 68 della Costituzione, l'insindacabilità delle dichiarazioni del parlamentare Fabrizio Cicchitto, rispetto alle quali pende un procedimento penale.

    Ad avviso del Tribunale, le dichiarazioni del parlamentare, oggetto di conflitto, non possono essere ricondotte ad alcuno degli atti previsti dall'art. 68, primo comma, Cost.

    In particolare, il giudice rimettente rileva come non sia stato prodotto alcun atto parlamentare del quale le dichiarazioni costituirebbero divulgazione ovvero riproduzione.

    2. - Preliminarmente, va confermata l'ammissibilità del conflitto, sussistendone i presupposti soggettivi e oggettivi, come già ritenuto da questa Corte con l'ordinanza n. 446 del 2006.

    Non può essere accolta in proposito l'eccezione formulata dalla Camera dei deputati, basata sul rilievo che l'atto introduttivo del conflitto sarebbe carente sotto il profilo della compiuta esposizione dei fatti, giacché - si sostiene - le dichiarazioni su cui dovrebbe vertere il conflitto non sarebbero state riportate compiutamente dal ricorrente, né sarebbe precisato quali di esse siano state pronunciate in occasione delle dichiarazioni alle agenzie di stampa del 25 gennaio 2005 e quali in occasione di quelle del 4 febbraio 2005.

    La descrizione delle dichiarazioni oggetto di conflitto appare sufficiente per la loro compiuta identificazione, tenuto conto che il giudice, per un verso, riproduce integralmente il capo di imputazione ascritto al deputato (sentenza n. 271 del 2007) e, per l'altro, riporta il testo della relazione della Giunta per le autorizzazioni a procedere in giudizio in ordine al contenuto e alla successione temporale degli atti funzionali (sentenza n. 28 del 2008 e sentenza n. 331 del 2006).

    3. - Nel merito, il ricorso è fondato.

    4. - Gli atti funzionali compiuti dal deputato sono una interrogazione (n. 4/13312 del 7 marzo 2005) e due interventi in aula (dell'8 marzo e del 12 luglio 2005), ai quali per il loro contenuto possono essere riferite le opinioni oggetto di conflitto.

    Questa Corte ha riconosciuto la possibilità che l'atto funzionale segua alle dichiarazioni esterne entro «un arco temporale talmente compresso» da potersi affermare la sostanziale contestualità tra l'uno e le altre (sentenza n. 221 del 2006); ma tale ipotesi non ricorre nel caso in esame, sussistendo uno spazio temporale considerevole tra le dichiarazioni alla stampa e gli atti funzionali. Questi ultimi sono successivi e si collocano in un arco temporale da un mese fino a cinque mesi posteriore alle esternazioni (sentenza n. 335 del 2006).

    Sono indicati atti funzionali a firma di altri parlamentari (interrogazione n.3/04135 del 26 gennaio 2005 a firma dell'on. La Russa, interrogazione n. 3/04134 del 26 gennaio 2005 a firma dell'on. Cè, interrogazione n. 3/04133 del 26 gennaio 2005 a firma dell'on. Paniz e interrogazione n. 4/12869 del 10 febbraio 2005 a firma dell'on. Fragalà) che, per consolidato orientamento di questa Corte, sono «irrilevanti» ai fini della sussistenza della prerogativa costituzionale prevista dall'art. 68 della Costituzione (sentenze numeri 151 e 97 del 2007). Questa Corte ha già ripetutamente affermato che la verifica del nesso funzionale deve essere effettuata con riferimento alla stessa persona, non potendosi configurare «una sorta di insindacabilità di gruppo» (sentenza n. 28 del 2008). Né per lo stesso motivo può condividersi la tesi della difesa della Camera dei deputati secondo cui «la natura specificatamente politica del rapporto rappresentativo dei parlamentari» imporrebbe «la spersonalizzazione di tutti gli elementi del conflitto».

    Conclusivamente, la delibera della Camera dei deputati ha violato l'art. 68, primo comma, Cost., ledendo le attribuzioni dell'autorità giudiziaria ricorrente, e deve essere annullata.

    per questi motivi

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara che non spettava alla Camera dei deputati affermare che i fatti per i quali pende un procedimento penale a carico del deputato Fabrizio Cicchitto davanti al Tribunale di Roma, di cui al ricorso indicato in epigrafe, costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell'esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell'art. 68, primo comma, della Costituzione;

    annulla, per l'effetto, la delibera di insindacabilità adottata dalla Camera dei deputati nella seduta 26 gennaio 2006 (doc. IV-ter, n. 17-A).

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 aprile 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Sabino CASSESE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 aprile 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 98

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

    - Franco            BILE               Presidente

    - Giovanni Maria    FLICK                Giudice

    - Francesco         AMIRANTE                "

    - Ugo               DE SIERVO               "

    - Paolo             MADDALENA               "

    - Alfio             FINOCCHIARO             "

    - Alfonso           QUARANTA                "

    - Franco            GALLO                   "

    - Gaetano           SILVESTRI               "

    - Sabino            CASSESE                 "

    - Maria Rita        SAULLE                  "

    - Giuseppe          TESAURO                 "

    - Paolo Maria       NAPOLITANO              "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'articolo 26, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell'articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80), promossi con ordinanze dell'8 marzo 2007 dalla Corte d'appello di Brescia nel procedimento civile vertente tra Savio Domenico e la Provincia di Brescia e del 16 novembre 2006 dal Tribunale di Reggio Emilia nel procedimento civile vertente tra il Comune di Reggio Emilia e Tedone Michele ed altra, iscritte ai nn. 571 e 748 del registr o ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 34 e 44, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 12 marzo 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro.

Ritenuto in fatto

    1. - Il Tribunale ordinario di Reggio Emilia (r.o. n. 748 del 2007) e la Corte d'appello di Brescia (r.o. n. 571 del 2007), con ordinanze del 16 novembre 2006 e dell'8 marzo 2007, hanno sollevato, in riferimento agli artt. 76 e 77, primo comma, della Costituzione (la seconda ordinanza soltanto con riguardo al primo di detti parametri) ed in relazione all'art. 1 della legge 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), questione di legittimità costituzionale dell'art. 26, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell'articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80), che ha abrogato l'ultimo comma dell'art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), rendendo appellabile la sentenza che decide l'opposizione avverso il provvedimento che irroga una sanzione amministrativa, prima soltanto ricorribile per cassazione.

    2. - Il Tribunale di Reggio Emilia premette che il giudizio principale ha ad oggetto l'appello avverso una sentenza emessa dal Giudice di pace di detta città, che ha deciso l'opposizione ad un'ordinanza-ingiunzione, di irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria.

    Il rimettente espone che la norma censurata, applicabile nel giudizio principale ratione temporis, ha abrogato l'ultimo comma dell'art. 23 della legge n. 689 del 1981, rendendo in tal modo impugnabile con l'appello la sentenza che decide l'opposizione all'ordinanza-ingiunzione, di irrogazione di una sanzione amministrativa.

    A suo avviso, la norma violerebbe gli artt. 76 e 77, primo comma, Cost., in relazione all'art. 1, commi 2 e 3, della legge n. 80 del 2005, in quanto la delega oggetto di quest'ultima disposizione concerneva esclusivamente l'introduzione di modificazioni al codice di procedura civile ed al processo di cassazione, non all'art. 23 della legge n. 689 del 1981.

    Inoltre, il citato art. 1, comma 3, lettera a), aveva conferito al Governo il potere di modificare il processo di legittimità e di prevedere «la non ricorribilità immediata delle sentenze che decidono di questioni insorte senza definire il giudizio», ipotesi differente da quella disciplinata dalla norma censurata.

    2.1. - L'ordinanza di rimessione della Corte d'appello di Brescia espone che nel giudizio principale è stata impugnata una sentenza del Tribunale di Brescia, avente ad oggetto l'opposizione ad un'ordinanza-ingiunzione, di irrogazione di una sanzione amministrativa.

    Secondo il giudice a quo, l'appello è ammissibile proprio in virtù della norma censurata che, tuttavia, si porrebbe in contrasto con l'art. 76 Cost., in quanto la delega dell'art. 1, commi 2 e 3, della legge n. 80 del 2005 non avrebbe permesso di modificare la disciplina del regime di impugnazione delle sentenze rese all'esito del giudizio di cui all'art. 23 della legge n. 689 del 1981.

    A suo avviso, la previsione di una nuova fase di merito non sarebbe neppure strumentale rispetto all'obiettivo della legge-delega, di garantire l'efficienza della funzione nomofilattica.

    Le sentenze in esame sono, infatti, pronunciate all'esito di un giudizio di carattere "demolitorio", deciderebbero della legittimità di un provvedimento amministrativo e della sussistenza di un illecito ed avrebbero un contenuto tipico, tale da definire il giudizio.

    Secondo il giudice a quo, la previsione dell'appellabilità di dette sentenze realizzerebbe una irragionevole duplicazione della prima fase di merito, quindi l'assenza nella legge-delega dell'espresso riferimento alle medesime sarebbe stata giustificata dall'esigenza di salvaguardare «una logica di sistema». Inoltre, l'art. 1, comma 4, della legge n. 80 del 2005, disponendo che il legislatore delegato avrebbe potuto «revisionare la formulazione letterale [.] delle altre norme processuali civili vigenti non direttamente investite dai principi di delega», neanche legittimerebbe la norma censurata.

    L'art. 26 del d.lgs. n. 40 del 2006 non sarebbe, infine, in armonia con le altre disposizioni contenute in questo atto normativo, concernenti il processo di legittimità e dirette a realizzare modifiche che neppure indirettamente investono una norma la quale, per le sentenze in esame, prevedeva una forma esclusiva di controllo di legalità, mediante una eccezione rispetto al principio stabilito dall'art. 339, primo comma, del codice di procedura civile, coerente con la specificità della materia e con la natura dell'accertamento oggetto del relativo giudizio. Pertanto, l'eventuale ambiguità della lettera dell'art. 1, comma 4, della legge n. 80 del 2005, poiché ai sensi dell'art. 76 Cost. la delega deve avere oggetto definito, non potrebbe comunque fondare una norma di contenuto non pertinente con la «materia delegata».

    3. - In entrambi i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo, con separati atti, di contenuto sostanzialmente coincidente, che la questione sia dichiarata non fondata.

    Secondo la difesa erariale, la norma censurata sarebbe coerente con i princípi generali della legge-delega, in quanto diretta a rafforzare la funzione nomofilattica. L'attribuzione al giudice di pace di larga parte dei giudizi in materia di sanzioni amministrative aveva, infatti, comportato un incremento del numero dei ricorsi per cassazione, mirando le parti ad ottenere un sindacato indiretto sul merito della controversia, in contrasto con la funzione nomofilattica e con l'effetto di gravare la Corte suprema di cassazione di un numero di giudizi tale da pregiudicare l'efficiente svolgimento di detta funzione.

    Questo obiettivo dovrebbe essere apprezzato anche alla luce dell'art. 1, comma 2, della legge-delega il quale, stabilendo che il Governo, con il decreto delegato, avrebbe dovuto provvedere «a realizzare il necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti», renderebbe chiara l'esigenza di evitare il persistere di situazioni pregiudizievoli al corretto svolgimento della funzione nomofilattica, che ha reso imprescindibile la modifica realizzata dalla norma censurata.

Considerato in diritto

    1. - Le questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia e dalla Corte d'appello di Brescia investono l'art. 26, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell'articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80), che ha abrogato l'ultimo comma dell'art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), rendendo appellabile la sentenza che decide l'opposizione avverso il provvedimento che irroga una sanzione amministrativa, prima soltanto ricorribile per cassazione.

    Secondo entrambi i rimettenti, la norma censurata, prevedendo la proponibilità dell'appello avverso sentenze prima impugnabili soltanto con ricorso per cassazione, violerebbe l'art. 76 della Cosituzione, nonché, ad avviso del Tribunale ordinario di Reggio Emilia, l'art. 77, primo comma, Cost., in quanto la delega oggetto dell'art. 1 della legge 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), concerneva esclusivamente l 'introduzione di modificazioni al codice di procedura civile ed al processo di cassazione, non all'art. 23 della legge n. 689 del 1981.

    Il primo dei due giudici a quibus deduce, inoltre, che neanche l'art. 1, comma 3, lettera a), della legge n. 80 del 2005, attribuendo al legislatore delegato il potere di stabilire la «non ricorribilità immediata delle sentenze che decidono di questioni insorte senza definire il giudizio», legittimerebbe la modifica della disciplina dell'impugnazione delle sentenze oggetto del citato art. 23.

    Secondo la Corte d'appello di Brescia, la previsione di una nuova fase di merito neppure sarebbe strumentale rispetto all'obiettivo della legge-delega, di garantire l'efficienza della funzione nomofilattica.

    Le sentenze oggetto del citato art. 23 sarebbero, infatti, pronunciate all'esito di un giudizio di carattere "demolitorio", deciderebbero della legittimità di un provvedimento amministrativo e della sussistenza di un illecito ed avrebbero un contenuto tipico, tale da definire il giudizio. La mancanza nella legge-delega di un espresso riferimento a dette pronunce sarebbe stata giustificata dall'esigenza di garantire «una logica di sistema», in coerenza con la specificità della materia e con la natura dell'accertamento oggetto del relativo giudizio che, in passato, avevano appunto indotto ad escluderne l'appellabilità. Pertanto, l'eventuale ambiguità della lettera dell'art. 1, comma 4, della legge n. 80 del 2005 e l'attribuzione al legislatore delegato del potere di «revisionar e la formulazione letterale [.] delle altre norme processuali civili vigenti non direttamente investite dai principi di delega» neanche costituirebbero idonea base giuridica di una norma di contenuto non pertinente con la «materia delegata».

    2. - I giudizi, avendo ad oggetto la stessa norma, censurata in riferimento a parametri costituzionali in parte coincidenti, sotto profili e con argomentazioni sostanzialmente analoghe, devono essere riuniti e decisi con un'unica sentenza.

    3. - Le questioni non sono fondate.

    3.1. - Il controllo della conformità della norma delegata alla norma delegante, secondo la giurisprudenza di questa Corte, richiede un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli: l'uno, relativo alla norma che determina l'oggetto, i princípi e i criteri direttivi della delega; l'altro, relativo alla norma delegata, da interpretare nel significato compatibile con questi ultimi (tra le più recenti, sentenze n. 340, n. 170 e n. 50 del 2007).

    Relativamente al primo di essi, va ribadito che il contenuto della delega deve essere identificato tenendo conto del complessivo contesto normativo nel quale si inseriscono la legge-delega ed i relativi princípi e criteri direttivi, nonché delle finalità che la ispirano, verificando, nel silenzio del legislatore delegante sullo specifico tema, che le scelte del legislatore delegato non siano in contrasto con gli indirizzi generali della medesima (sentenze n. 341 del 2007; n. 426 del 2006; n. 285 del 2006).

    I princípi posti dal legislatore delegante costituiscono poi non solo base e limite delle norme delegate, ma anche strumenti per l'interpretazione della loro portata; e tali disposizioni devono essere lette, fintanto che sia possibile, nel significato compatibile con detti princípi (sentenza n. 96 del 2001), i quali, a loro volta, vanno interpretati alla luce della ratio della legge delega (sentenze n. 413 del 2002; n. 307 del 2002; n. 290 del 2001). Peraltro, come questa Corte ha anche affermato, la varietà delle materie riguardo alle quali si può ricorrere alla delega legislativa comporta che neppure è possibile enucleare una nozione rigida valevole per tutte le ipotesi di "principi e criteri direttivi", quindi «il Parlamento, approvando una legge di delegazione, non è certo tenuto a rispettare regole metodologicamente rigorose» (sentenze n. 340 del 2007; n. 250 del 1991).

    Relativamente al secondo dei suindicati processi ermeneutici, va confermato l'orientamento di questa Corte, secondo il quale la delega legislativa non esclude ogni discrezionalità del legislatore delegato, che può essere più o meno ampia, in relazione al grado di specificità dei criteri fissati nella legge delega (ordinanze n. 213 del 2005; n. 490 del 2000). Pertanto, per valutare se il legislatore abbia ecceduto tali - più o meno ampi - margini di discrezionalità, occorre individuare la ratio della delega, per verificare se la norma delegata sia con questa coerente (sentenze n. 199 del 2003; n. 503 del 2003). L'art. 76 Cost. non osta, infatti, all'emanazione di norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, un completa mento delle scelte espresse dal legislatore delegante, poiché deve escludersi che la funzione del legislatore delegato sia limitata ad una mera scansione linguistica delle previsioni stabilite dal primo; dunque, nell'attuazione della delega è possibile valutare le situazioni giuridiche da regolamentare ed effettuare le conseguenti scelte, nella fisiologica attività di riempimento che lega i due livelli normativi (sentenze n. 163 del 2000; n. 198 del 1998; ordinanza n. 213 del 2005).

    3.2. - Posti siffatti princípi, occorre osservare che la delega dell'art. 1 della legge n. 80 del 2005 ha avuto ad oggetto l'emanazione di un decreto legislativo «recante modificazioni al codice di procedura civile», con il quale il Governo avrebbe dovuto provvedere anche a «realizzare il necessario coordinamento con le altre disposizioni vigenti» (comma 2), nell'osservanza, tra gli altri, dei seguenti princípi e criteri direttivi: «disciplinare il processo di cassazione in funzione nomofilattica» (comma 3, lettera a); «revisionare la formulazione letterale e la collocazione degli articoli del vigente codice e delle altre norme processuali civili vigenti non dir ettamente investiti dai princípi di delega» (comma 4).

    La corretta interpretazione di dette norme deve tenere conto del complessivo contesto esistente alla data della loro emanazione, caratterizzato, tra l'altro, dalla presentazione, nella stessa legislatura, di un disegno di legge (n. 4578/C, presentato il 19 dicembre 2003), che aveva quale obiettivo espresso quello di «recuperare la dimensione nomofilattica» della Corte suprema di cassazione, «schiacciata da un carico di ricorsi eccessivo», la cui rivitalizzazione richiedeva appunto una riduzione del novero delle sentenze non appellabili, quindi immediatamente ricorribili per cassazione.

    La configurazione dell'appello come «filtro» al ricorso per cassazione, l'esigenza e l'auspicio della sua introduzione, costituivano, peraltro, alla data di approvazione della legge delega, un obiettivo largamente condiviso, al punto che, all'esito di un dibattito ultradecennale sulla Corte suprema di cassazione, l'espressione «disciplina del processo in funzione nomofilattica», nell'accezione comune ed in quella tecnico-giuridica, ha finito con l'assumere il significato anche di rafforzamento di detta funzione.

    Di questo contesto, dà conto anche la Relazione ministeriale allo schema di decreto-delegato, correttamente esplicitando sul punto che «il recupero e la valorizzazione della funzione nomofilattica della Corte - che costituisce il principio orientatore della delega - [.] non può non passare attraverso una razionalizzazione delle attività della Corte e delle ipotesi di intervento della stessa attualmente contemplate dall'ordinamento», e cioè anche attraverso un riduzione dei casi di inappellabilità delle sentenze, «al fine di evitare che il giudizio di diritto, e dunque l'esercizio della funzione nomofilattica, vengano inquinati da impropri elementi di fatto, riversati sulla Corte proprio a causa dell'assenza d el filtro intermedio».

    Lo scopo di disciplinare il processo di legittimità in funzione nomofilattica, alla luce del significato assunto da tale espressione, di rafforzamento di detta funzione, costituisce pertanto una direttiva ermeneutica che deve presiedere all'interpretazione del contenuto della delega e che rende chiara la facoltà del legislatore delegato di ridurre i casi di immediata ricorribilità per cassazione delle sentenze, mediante l'introduzione dell'appello quale «filtro». Alla luce di questa direttiva, la norma che ha attribuito al legislatore delegato il potere di «revisionare la formulazione letterale [.] delle altre norme processuali civili vigenti non direttamente investite dai principi di delega» (art. 1, comma 4, della legge n. 80 del 2005) neppure può essere riferita soltanto a d interventi di mero carattere lessicale e sintattico, risultando invece espressiva della facoltà di introdurre modifiche anche a norme non collocate nel codice di rito civile se, come è accaduto per la disposizione censurata, siano coerenti con la finalità della legge-delega.

    Le considerazioni che, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte suprema di cassazione, il giudizio di opposizione a sanzione amministrativa è strutturato come giudizio di accertamento sul fondamento della pretesa sanzionatoria; che il sindacato svolto in sede di legittimità, in relazione ai soli vizi denunciabili con il ricorso per cassazione, è più limitato, comunque diverso, rispetto a quello possibile al giudice del merito nella fase di gravame; e che l'ordinamento prevedeva già casi di impugnabilità con l'appello delle sentenze che decidono un'opposizione a sanzione amministrativa (in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie, ai sensi dell'art. 35 della legge n. 689 del 1981), rendono infine palese l'impossibilità di invocare una asserita «logica di siste ma» a conforto di una interpretazione restrittiva della legge-delega.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell'art. 26, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell'articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80), sollevate, in riferimento agli artt. 76 e 77, primo comma, della Costituzione ed in relazione all'art. 1 della legge 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia e dalla Corte d'appello di Brescia, con le ordinanze indicate in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 aprile 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 aprile 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
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ORDINANZA N. 99

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE               Presidente

- Giovanni Maria  FLICK                Giudice

- Francesco       AMIRANTE                "

- Ugo             DE SIERVO               "

- Alfio           FINOCCHIARO             "

- Alfonso         QUARANTA                "

- Franco          GALLO                   "

- Luigi           MAZZELLA                "

- Gaetano         SILVESTRI               "

- Sabino          CASSESE                 "

- Maria Rita      SAULLE                  "

- Giuseppe        TESAURO                 "

- Paolo Maria     NAPOLITANO              "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della mancata presentazione al Parlamento, da parte del Ministro dell'interno, entro sessanta giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del risultato del referendum (che ha approvato la proposta di distacco dei Comuni di Asiago, Conco, Enego, Foza, Gallio, Lusiana, Roana e Rotzo dalla Regione Veneto e la loro aggregazione alla Regione Trentino-Alto Adige), del disegno di legge di cui all'articolo 132, secondo comma, della Costituzione in ossequio all'articolo 45, quarto comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa leg islativa del popolo), promosso con ricorso di Rodeghiero Francesco Valerio, delegato effettivo dei suindicati comuni nonché nella qualità di rappresentante del «Comitato per il referendum per il passaggio dell'Altipiano dei sette Comuni alla Provincia di Trento» e di elettore del Comune di Enego e di Frattolin Francesco, coordinatore dell'«Unione Comuni Italiani per cambiare Regione», depositato in cancelleria il 30 ottobre 2007 ed iscritto al n. 13 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2007, fase di ammissibilità.

      Udito nella camera di consiglio del 27 febbraio 2008 il Giudice relatore Ugo De Siervo.

    Ritenuto che, con ricorso depositato in data 30 ottobre 2007, il sig. Francesco Valerio Rodeghiero, nella qualità di delegato effettivo dei Comuni di Asiago, Conco, Enego, Foza, Gallio, Lusiana, Roana e Rotzo, tutti ubicati in provincia di Vicenza, designato con deliberazioni dei consigli comunali dei citati enti ai sensi dell'art. 42, terzo comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo), in qualità di rappresentante del «Comitato per il referendum per il passaggio dello Altipiano dei Sette Comuni alla Provincia di Trento», nonché in qualità di elettore del Comune di Enego, ed il sig. Francesco Frattolin, in qualità di coordinatore e legale rappresentante dell'«Unione Comuni Italiani per cambiare Regione», hanno sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato contro il Ministro dell'interno e «ove occorra» contro il Governo, in persona del Presidente del Consiglio dei ministri;

    che il conflitto è proposto per l'accertamento dell'avvenuto inadempimento da parte del Ministro dell'interno dell'obbligo previsto dall'art. 45, quarto comma, della legge n. 352 del 1970 di attuazione dell'art. 132, secondo comma, della Costituzione in relazione alla procedura per il distacco dei Comuni sopra indicati dalla Regione Veneto e per la loro aggregazione alla Regione Trentino-Alto Adige;

    che i ricorrenti riferiscono che nei giorni 6 e 7 maggio 2007 nei predetti Comuni si è svolto il referendum avente ad oggetto il seguente quesito: «Volete voi che il territorio dei Comuni di Asiago, Conco, Enego, Foza, Gallio, Lusiana, Roana e Rotzo sia separato dalla regione Veneto per entrare a far parte integrante della Regione Trentino-Alto Adige?»;

    che l'Ufficio centrale per il referendum, con verbale pubblicato il 22 maggio 2007, ha dichiarato approvata la proposta sottoposta a referendum;

    che nei sessanta giorni successivi alla suddetta pubblicazione il Ministro dell'interno non ha presentato al Parlamento il disegno di legge per il distacco dei Comuni sopra citati dalla Regione Veneto e la loro aggregazione alla regione Trentino Alto-Adige, così come previsto dall'art. 45, quarto comma, della legge n. 352 del 1970;

    che, in ordine all'ammissibilità del conflitto sotto il profilo soggettivo, i ricorrenti sostengono che il delegato effettivo, insieme a quello supplente, costituisce «il soggetto direttamente interessato a seguire la procedura di variazione territoriale di uno o più Comuni ad altra Regione», appositamente designato dal consiglio comunale, ai sensi dell'art. 42, terzo comma, della legge n. 352 del 1970, e si configura come «potere dello Stato esterno allo Stato-apparato, che rappresenta il corpo elettorale comunale coinvolto nella consultazione popolazione (recte: popolare) ex art. 132, secondo comma, Cost. o quanto meno la frazione del corpo elettorale comu nale favorevole alla modificazione dell'appartenenza regionale»;

    che, inoltre, il delegato comunale nella procedura di cui all'art. 132, secondo comma, Cost., è sicuramente qualificabile come potere dello Stato, poiché risulta «in grado di esprimere una manifestazione costituzionalmente tutelata di volontà popolare», in quanto non essendo portatore di un'attribuzione propria del Comune bensì dell'effettivo esercizio della funzione referendaria e, «quindi, dell'attribuzione costituzionale di cui è titolare l'articolazione del corpo elettorale»;

    che la funzione del delegato comunale si esaurisce solo a seguito della presentazione del disegno di legge da parte del Ministro dell'interno al Parlamento;

    che il ricorrente Rodeghiero, nella sua qualità di rappresentante del comitato promotore del referendum, è «del tutto equiparabile a quello costituito per il referendum abrogativo ex art. 75 Cost.», riconosciuto come potere dello Stato rientrante tra le figure soggettive esterne allo Stato-apparato con la sentenza della Corte costituzionale n. 69 del 1978;

    che anche il ricorrente Frattolin, quale coordinatore e rappresentante dell'Unione Comuni Italiani per cambiare Regione, è legittimato a sollevare conflitto di attribuzione tra poteri dal momento che rappresenta il corpo elettorale comunale o frazione di esso e, in quanto tale, costituisce un potere dello Stato "esterno" allo Stato-apparato;

    che i ricorrenti, peraltro, chiedono alla Corte costituzionale di sollevare innanzi a sé questione di legittimità costituzionale dell'art. 45, terzo comma, della legge n. 352 del 1970, che introdurrebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra i rappresentanti del Governo, del Parlamento e delle Regioni interessate, ai quali è trasmessa copia del verbale dell'Ufficio centrale per il referendum attestante il risultato, mentre alcuna trasmissione è prevista ai delegati comunali;

    che il soggetto «resistente al ricorso» va individuato «in primis» nel Ministro dell'interno, in quanto costituirebbe autonomo potere dello Stato che tutela attribuzioni costituzionali proprie, il quale agisce come organo di trasmissione, dovendo presentare al Parlamento il disegno di legge di variazione territoriale entro il preciso termine stabilito dall'art. 45, quarto comma, della legge n. 352 del 1970;

    che, tuttavia, i ricorrenti propongono il conflitto anche nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, per il caso in cui si dovesse ritenere che la presentazione del disegno di legge di cui all'art. 45 della legge n. 352 del 1970 debba essere previamente deliberata dal Consiglio dei ministri;

    che, per i ricorrenti, il Ministro dell'interno avrebbe violato l'art. 45, quarto comma, della legge n. 352 del 1970 non presentando al Parlamento il disegno di legge di modifica territoriale, né motivando il ritardo rispetto ad un termine che i ricorrenti ritengono perentorio e quindi inderogabile, come tutta la scansione temporale caratterizzante l'intero procedimento di distacco-aggregazione di cui all'ex art. 132, secondo comma, Cost., come attuato dalla legge n. 352 del 1970;

    che, ad avviso dei ricorrenti, il comportamento del Ministro lederebbe il diritto costituzionalmente garantito «all'autodeterminazione territoriale delle popolazioni appartenenti a soggetti aventi autonomia ancorata in Costituzione, come i Comuni, in forza del combinato disposto degli artt. 5 e 132 della Costituzione»;

    che oggetto di censura in sede di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato potrebbe essere anche il comportamento omissivo di uno dei poteri confliggenti;

    che i ricorrenti chiedono, quindi, che la Corte costituzionale accerti l'inadempimento posto in essere dal Ministro dell'interno - o, in subordine, dal Governo - all'obbligo di cui all'art. 45, quarto comma, della legge n. 352 del 1970, attraverso la mancata presentazione del disegno di legge al Parlamento per il distacco dei Comuni di Asiago, Conco, Enego, Foza, Gallio, Lusiana, Roana e Rotzo, tutti ubicati in provincia di Vicenza, dalla Regione Veneto e la loro aggregazione alla Regione Trentino Alto-Adige, ed adotti, altresì, una pronuncia sostitutiva dell'ingiustificato rifiuto da parte del Ministro dell'interno o, in subordine, del Governo «a dar vita a tale atto vincolato, affinché sia in tal modo ordinata la presentazione al Parlamento del suesposto disegno di legge».

    Considerato che, ai sensi dell'art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, questa Corte è chiamata, in via preliminare, a decidere, con ordinanza in camera di consiglio, senza contraddittorio, se il ricorso sia ammissibile sotto il profilo dell'esistenza della materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza, valutando, in particolare, se sussistano i requisiti oggettivi e soggettivi di un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato;

    che, quanto ai presupposti soggettivi, devono essere esaminate distintamente le diverse posizioni in forza delle quali i ricorrenti agiscono;

    che, per quanto riguarda il delegato comunale, questa Corte ha già affermato che «la legislazione vigente in tema di referendum di cui all'art. 132, secondo comma, Cost. non riconosce alcun potere» a tale soggetto nella fase della proclamazione dei risultati referendari da parte dell'Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione (ordinanza n. 69 del 2006);

    che tale conclusione vale a maggior ragione con riguardo alla fase successiva alla proclamazione dei risultati referendari, qual è quella in cui si trova il procedimento relativo al distacco dei Comuni di Asiago, Conco, Enego, Foza, Gallio, Lusiana, Roana e Rotzo dalla Regione Veneto e all'aggregazione alla Regione Trentino-Alto Adige;

    che, inoltre, le stesse deliberazioni dei Comuni ove si è svolto il referendum hanno specificamente circoscritto il ruolo e la funzione del delegato alle sole attività consistenti nel «deposito presso la Cancelleria della Corte di cassazione della richiesta di referendum e di quant'altro necessario ed utile al buon esito della procedura referendaria, ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 41 e 42 della legge 352/70»;

    che per quanto riguarda la legittimazione attiva del rappresentante del "Comitato per il referendum per il passaggio dello Altipiano dei Sette Comuni alla Provincia di Trento", la Corte ha riconosciuto la qualità di figura soggettiva esterna allo Stato apparato, a cui l'ordinamento conferisce la titolarità e l'esercizio di funzioni pubbliche costituzionalmente rilevanti e garantite, soltanto al comitato per il referendum di cui all'art. 75 Cost., dal momento che esso è espressamente previsto dall'art. 7 della legge n. 352 del 1970, che ne disciplina le specifiche funzioni (sentenza n. 69 del 197 8), mentre il comitato promotore del referendum di cui all'ex art. 132, secondo comma, Cost. non è contemplato da alcuna disposizione normativa, essendo l'iniziativa referendaria attribuita dalla legge ai Comuni interessati;

    che deve essere altresì esclusa la legittimazione attiva del coordinatore e legale rappresentante dell'«Unione Comuni Italiani per cambiare Regione», dal momento che a tale figura non può «essere riconosciuta alcuna attribuzione costituzionale in relazione ai procedimenti referendari» concernenti il distacco di taluni Comuni da una Regione (ordinanza n. 296 del 2006);

    che la accertata carenza di legittimazione attiva dei ricorrenti determina senz'altro l'inammissibilità del conflitto per difetto del requisito soggettivo.

PER QUESTI MOTIVI

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara inammissibile il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto dal signor Francesco Valerio Rodeghiero, nella qualità di delegato dei Comuni di Asiago, Conco, Enego, Foza, Gallio, Lusiana, Roana e Rotzo, nonché di rappresentante del «Comitato per il referendum per il passaggio dello Altipiano dei Sette Comuni alla Provincia di Trento» e di elettore del Comune di Enego, e dal signor Francesco Frattolin nella qualità di coor dinatore e legale rappresentante dell'«Unione Comuni Italiani per cambiare Regione», con il ricorso indicato in epigrafe.

      Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 aprile 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Ugo DE SIERVO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 aprile 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
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ORDINANZA N. 100

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-     Franco            BILE         Presidente

-     Giovanni Maria    FLICK          Giudice

-     Francesco         AMIRANTE          "

-     Ugo               DE SIERVO         "

-     Paolo             MADDALENA         "

-     Alfonso           QUARANTA          "

-     Franco            GALLO             "

-     Luigi             MAZZELLA          "

-     Gaetano           SILVESTRI         "

-     Sabino            CASSESE           "

-     Maria Rita        SAULLE            "

-     Giuseppe          TESAURO           "

-     Paolo Maria       NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 2, della legge della Regione Basilicata 6 luglio 1978, n. 28 (Norme di attuazione della legge 28 gennaio 1977, n. 10 in materia di edificazione dei suoli), come sostituito dall'art. 1 della legge della Regione Basilicata 13 maggio 2003, n. 17 (Modifica del comma 2 dell'art. 6 della legge regionale n. 28 del 6 luglio 1978), promosso con ordinanza del 20 giugno 2006 dal Tribunale amministrativo regionale per la Basilicata, sul ricorso proposto dalla società Logistica s.p.a. contro il Comune di Melfi ed altro, iscritta al n. 403 del registro ordinanze 2006 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell'anno 2006.

    Visto l'atto di costituzione del Comune di Melfi;

    udito nell'udienza pubblica dell'11 marzo 2008 il Giudice relatore Alfonso Quaranta;

    udito l'avvocato Enrico Follieri per il Comune di Melfi.

    Ritenuto che il Tribunale amministrativo regionale per la Basilicata, con ordinanza depositata il 20 giugno 2006, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 2, della legge della Regione Basilicata 6 luglio 1978, n. 28 (Norme di attuazione della legge 28 gennaio 1977, n. 10 in materia di edificazione dei suoli), come sostituito dall'art. 1 della successiva legge regionale 13 maggio 2003 , n. 17 (Modifica del comma 2 dell'art. 6 della legge regionale n. 28 del 6 luglio 1978), in riferimento agli artt. 117 e 119 della Costituzione;

    che la disposizione è oggetto di censura nella parte in cui prevede che «le concessioni edilizie, relative alla realizzazione di una nuova costruzione o impianto, ovvero all'ammodernamento o all'ampliamento di costruzioni o di impianti esistenti destinati ad attività industriali e artigianali ubicate nelle aree di sviluppo industriale, in quelle dei Piani per Insediamenti Produttivi o della Programmazione Negoziata, il cui costo infrastrutturale non sia stato sostenuto in alcun modo dal Comune o dai Comuni in cui l'area ricade, sono rilasciate in esenzione del contributo relativo agli oneri di urbanizzazione»;

    che, nel descrivere la vicenda processuale, il TAR premette che la società ricorrente agisce nei confronti del Comune di Melfi, da un lato, per l'accertamento, nei propri confronti, dell'inesistenza dell'obbligo del pagamento degli oneri di urbanizzazione relativi al permesso di costruire per la realizzazione di un opificio da destinare alla trasformazione di prodotti anche alimentari (richiesto il 30 luglio 2003 e rilasciato il successivo 24 ottobre); dall'altro, per l'annullamento della relativa ingiunzione di pagamento del 29 gennaio 2004;

    che la medesima società ha prodotto in giudizio un attestato del Consorzio per lo sviluppo industriale della Provincia di Potenza, in data 17 marzo 2004, nel quale si dà atto che l'urbanizzazione relativa all'area interessata dalla realizzazione dell'opificio é a totale ed esclusivo carico del Consorzio medesimo;

    che proprio l'esame della fattispecie, ad avviso del rimettente, pone in evidenza la rilevanza della sollevata questione;

    che, quanto alla non manifesta infondatezza della questione medesima, il TAR, preliminarmente, esclude - contrariamente alla prospettazione effettuata dalla difesa del Comune nel giudizio a quo - che possa delinearsi un contrasto della disposizione denunciata con l'art. 87 del Trattato CE, nella parte in cui stabilisce che «sono incompatibili con il mercato comune, nella misura in cui incidano sugli scambi tra Stati membri, gli aiuti concessi dagli Stati, ovvero mediante risorse statali, sotto qualsiasi forma che, favorendo talune imprese o talune produzioni, falsino o minaccino di falsare la concorrenza», in quanto la misura in questione non sarebbe selettiva, non riguardando solo alcune imprese o alcune produzioni;

    che la disposizione regionale, invece, ad avviso del rimettente, si palesa viziata per contrasto con gli artt. 117 e 119 della Costituzione;

    che il TAR, a sostegno della dedotta illegittimità costituzionale, ritiene che la norma attenga alla materia «governo del territorio», la quale rientra nell'àmbito della potestà legislativa concorrente di Stato e Regioni;

    che, quindi, il rimettente osserva come la giurisprudenza costituzionale, formatasi anteriormente alla novella del 2001 (sono richiamate le sentenze n. 13 del 1980 e n. 1033 del 1988), abbia affermato, da un lato, che il principio di onerosità della concessione edilizia − previsto dall'art. 3 della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli) il cui contenuto normativo è stato trasfuso nell'art. 16 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) − rientra tra le norme fondamentali delle riforme economico-sociali; dall'altro, che le deroghe e le eccezioni a tale principio, proprio perché legate da un rapporto di coessenzialità o di integrazione necessaria, partecipano del la stessa natura di riforma economico-sociale;

    che da ciò discenderebbe che le ipotesi di esenzione dal pagamento del contributo relativo agli oneri di urbanizzazione, operando come deroga al principio di onerosità della concessione edilizia, dovrebbero essere stabilite con legge dello Stato, al quale spetta di dettare i princípi fondamentali nella materia «governo del territorio»;

    che, secondo il rimettente, la norma regionale censurata non appare giustificata dalla previsione della sua operatività nella sola ipotesi in cui il costo infrastrutturale non sia in alcun modo sostenuto dal Comune o dai Comuni in cui l'area ricade;

    che, a tale proposito, il rimettente richiama la giurisprudenza amministrativa (in particolare, Cons. Stato, Sezione V, decisione n. 1072 del 1997) secondo la quale gli oneri di urbanizzazione non costituiscono il corrispettivo per la costruzione dei necessari elementi infrastrutturali, ma sono correlati al maggior carico urbanistico sopportato dall'ente comunale in ragione dell'intervento edilizio;

    che, infine, la prevista ipotesi di esenzione dal pagamento del contributo relativo agli oneri di urbanizzazione darebbe luogo ad una lesione dell'autonomia finanziaria dei Comuni in materia di entrata, garantita dall'art. 119 Cost., dal momento che, ai sensi dell'art. 16, comma 2, del d.P.R. n. 380 del 2001, detto contributo è corrisposto al Comune all'atto del rilascio del permesso di costruire;

    che, con atto depositato il 15 settembre 2006, si è costituito il Comune di Melfi, parte resistente del giudizio a quo, il quale, aderendo alla prospettazione del giudice rimettente, ha chiesto che sia dichiarata la illegittimità costituzionale della norma regionale denunciata;

    che in data 27 febbraio 2008, il Comune di Melfi ha depositato memoria con la quale ha ribadito le difese svolte e ha dedotto, altresì, la violazione dell'art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., che attribuisce allo Stato la potestà legislativa in materia di tutela della concorrenza.

    Considerato che il Tribunale amministrativo regionale per la Basilicata dubita della legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 2, della legge della Regione Basilicata 6 luglio 1978, n. 28 (Norme di attuazione della legge 28 gennaio 1977, n. 10 in materia di edificazione dei suoli), come sostituito dall'art. 1 della successiva legge regionale 13 maggio 2003, n. 17 (Modifica del comma 2 dell'art. 6 della legge regionale n. 28 del 6 luglio 1978), ritenendo che lo stesso leda gli artt. 117 e 119 della Costituzione;

    che la suddetta norma, infatti, nel prevedere che «le concessioni edilizie, relative alla realizzazione di una nuova costruzione o impianto, ovvero all'ammodernamento o all'ampliamento di costruzioni o di impianti esistenti destinati ad attività industriali e artigianali ubicate nelle aree di sviluppo industriale, in quelle dei Piani per Insediamenti Produttivi o della Programmazione Negoziata, il cui costo infrastrutturale non sia stato sostenuto in alcun modo dal Comune o dai Comuni in cui l'area ricade, sono rilasciate in esenzione del contributo relativo agli oneri di urbanizzazione», conterrebbe una disciplina in contrasto con i princípi fondamentali dettati dal legislatore statale nella materia «governo del territorio», di cui all'art. 117, terzo comma, della Cost ituzione, àmbito al quale deve essere ricondotta la normativa sul permesso di costruire;

    che quanto previsto dalla norma denunciata, inoltre, inciderebbe sull'autonomia finanziaria dei Comuni, così ledendo l'art. 119 Cost.;

    che la norma censurata collega il previsto esonero dal pagamento del contributo di urbanizzazione alla circostanza che «il costo infrastrutturale» non sia stato sostenuto «in alcun modo» dal Comune o dai Comuni in cui l'area ricade;

    che il giudice rimettente non ha chiarito le ragioni che, a suo avviso, rendono applicabile la norma censurata nel giudizio a quo, limitandosi ad affermare che «l'esenzione dal pagamento del contributo (.) andrà riconosciuta o meno a seconda che la norma denunziata non sia o sia dichiarata incostituzionale;

    che nell'esposizione del fatto, tuttavia, si dà atto della produzione in giudizio, ad opera della parte ricorrente, a sostegno della propria domanda, di un attestato del Consorzio per lo sviluppo industriale della Provincia di Potenza, nel quale si afferma che l'urbanizzazione relativa all'area interessata dalla realizzazione dell'opificio è a totale ed esclusivo carico del Consorzio medesimo;

    che di tale Consorzio, in ragione della disciplina dettata dalla legge della Regione Basilicata 3 novembre 1998, n. 41 (Disciplina dei consorzi per lo sviluppo industriale), come modificata dalla successiva legge regionale 11 maggio 1999, n. 16 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 3 novembre 1998, n. 41), fa notoriamente parte, tra gli altri, anche il Comune di Melfi, in qualità di socio;

    che la richiamata legge regionale n. 41 del 1998 prevede il pagamento da parte dei soci consortili della quota di partecipazione o della quota di funzionamento;

    che, pertanto, il giudice rimettente, ai fini di una compiuta prospettazione argomentativa sulla rilevanza della questione, anche in ragione della produzione documentale della società ricorrente, avrebbe dovuto adeguatamente motivare sulla sussistenza delle condizioni per poter dare applicazione alla norma denunciata, secondo quanto dalla stessa stabilito, ponendosi il problema di stabilire se possa, nella specie, effettivamente sostenersi che il Comune interessato non partecipi «in alcun modo» a sopportare, ancorché in modo indiretto, l'onere derivante dal costo infrastrutturale per la realizzazione delle necessarie opere di urbanizzazione;

    che, invece, il giudice a quo, sotto il profilo dell'applicabilità della norma al caso di specie, si limita ad affermazioni apodittiche;

    che, conseguentemente, l'ordinanza di rimessione è priva di specifica motivazione sul punto e non permette a questa Corte l'apprezzamento della rilevanza della questione nel giudizio a quo;

    che, pertanto, la questione di legittimità costituzionale sollevata deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 2, della legge della Regione Basilicata 6 luglio 1978, n. 28 (Norme di attuazione della legge 28 gennaio 1977, n. 10 in materia di edificazione dei suoli), come sostituito dall'art. 1 della legge della Regione Basilicata 13 maggio 2003, n. 17 (Modifica del comma 2 dell'art. 6 della legge regionale n. 28 del 6 luglio 1978), sollevata, in riferimento agli artt. 11 7 e 119 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Basilicata con l'ordinanza di cui in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 aprile 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Alfonso QUARANTA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 aprile 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedente

ORDINANZA N. 101

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco          BILE         Presidente

- Giovanni Maria  FLICK          Giudice

- Francesco       AMIRANTE          "

- Ugo             DE SIERVO         "

- Paolo           MADDALENA         "

- Alfio           FINOCCHIARO       "

- Alfonso         QUARANTA          "

- Franco          GALLO             "

- Gaetano         SILVESTRI         "

- Sabino          CASSESE           "

- Maria Rita      SAULLE            "

- Giuseppe        TESAURO           "

- Paolo Maria     NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 438, comma 5, del codice di procedura penale, promosso con ordinanza del 13 dicembre 2005 dal Tribunale di Pescara, iscritta al n. 74 del registro ordinanze 2006 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell'anno 2006.

      Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

      udito nella camera di consiglio del 12 marzo 2008 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.

    Ritenuto che il Tribunale di Pescara, con ordinanza del 13 dicembre 2005, ha sollevato - in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione - questioni di legittimità costituzionale dell'art. 438, comma 5, del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede per il solo pubblico ministero, e non anche per la parte civile costituita, la possibilità di chiedere l'ammissione di prova contraria nel caso di giudizio abbreviato sollecitato dall'imputato subordinatamente ad una integrazi one probatoria;

    che nel giudizio a quo, secondo quanto riferito dal rimettente, l'imputato ha formulato richiesta condizionata di giudizio abbreviato, instando per l'audizione di due testimoni, ed il difensore della parte civile costituita ha chiesto, di conseguenza, l'ammissione di prova contraria;

    che lo stesso difensore, per il caso la richiesta di prova contraria non fosse ritenuta ammissibile, ha sollecitato il Tribunale a sollevare questione di legittimità della disciplina preclusiva;

    che in effetti il comma 5 dell'art. 438 cod. proc. pen., secondo il rimettente, riserva al solo pubblico ministero la facoltà di chiedere la prova contraria in caso di domanda condizionata di accesso al rito, così impedendo al giudice di «accogliere la richiesta di giudizio abbreviato presentata dall'imputato e nel contempo ammettere l'esame dei testimoni indicati dalla parte civile»;

    che tale disciplina priverebbe la parte danneggiata del diritto di «esercitare il contraddittorio sulle prove addotte "a sorpresa" dalla controparte», diritto che non potrebbe considerarsi assorbito da quello riconosciuto alla pubblica accusa, né assicurato da una generica facoltà di interlocuzione con il giudice;

    che, di conseguenza, risulterebbero violati il principio di parità tra le parti ed il diritto delle medesime al contraddittorio, come enunciati nell'art. 111 Cost.;

    che inoltre, secondo il giudice a quo, vi sarebbe violazione dell'art. 3 Cost., per la lesione del principio di uguaglianza di ogni cittadino dinanzi alla legge, e dell'art. 24 Cost., nella parte in cui tale norma conferisce a ciascun cittadino il potere di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, qualificando la difesa come un diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento;

    che infine il rimettente osserva, in punto di rilevanza, come il procedimento non possa a suo giudizio essere definito indipendentemente dalla soluzione della questione prospettata, dovendosi prendere atto, tra l'altro, che nella specie la pubblica accusa non ha esercitato la facoltà di sollecitare la prova contraria, «così ancor più evidenziandosi il mancato rispetto del principio del contraddittorio»;

    che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato l'11 aprile 2006;

    che la questione sollevata, secondo la difesa erariale, sarebbe inammissibile, non risultando dal testo dell'ordinanza di rimessione se il giudice a quo, prima di deliberare l'ordinanza medesima, avesse già accolto la richiesta condizionata di giudizio abbreviato;

    che la questione, in ogni caso, sarebbe manifestamente infondata, posto che la parte civile può scegliere se partecipare o non al giudizio penale, e che dunque la sua posizione non può essere assimilata a quella di una parte essenziale dello stesso giudizio, qual è il pubblico ministero.

    Considerato che il Tribunale di Pescara dubita - in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione - della legittimità costituzionale dell'art. 438, comma 5, del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede per il solo pubblico ministero, e non anche per la parte civile costituita, la possibilità di chiedere l'ammissione di prova contraria nel caso di giudizio abbreviato sollecitato dall'imputato subordinatamente ad una integrazione probatoria;

    che dal testo dell'ordinanza di rimessione non risulta che il giudice a quo abbia accolto la domanda condizionata di accesso al rito ed anzi emerge, senza soluzione di continuità, una sequenza tra richiesta difensiva, domanda della parte civile e deliberazione dell'ordinanza medesima;

    che la richiesta di giudizio abbreviato subordinata all'integrazione probatoria deve essere valutata, ed eventualmente accolta, in base alle condizioni descritte nel comma 5 dell'art. 438 cod. proc. pen. (necessità ai fini della decisione e compatibilità con le finalità di economia processuale proprie del provvedimento);

    che dunque, fino a quando la richiesta difensiva non sia valutata ed accolta, è posta prematuramente ogni questione riguardante il diritto alla prova che, nel giudizio abbreviato, spetta alle parti diverse dall'imputato;

    che infatti, per lo stesso pubblico ministero, la cui facoltà di chiedere l'ammissione di prova contraria è assunta dal rimettente quale elemento di comparazione, la richiesta è consentita solo nel caso che il giudice disponga il giudizio abbreviato;

    che, per costante giurisprudenza, la necessità per il rimettente di fare immediata applicazione della norma censurata è condizione di ammissibilità della relativa questione di legittimità costituzionale (ex multis, ordinanze n. 56 del 2007 e n. 142 del 2006);

    che dunque la questione in esame, mancando una descrizione della fattispecie adeguata alla verifica di rilevanza, va dichiarata manifestamente inammissibile (ex multis, ordinanze n. 60 del 2008 e n. 421 del 2007).

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di illegittimità costituzionale dell'art. 438, comma 5, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Pescara, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 aprile 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 aprile 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA



 
    I testi delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale, trasmessi dalla newsletter "Palazzo della Consulta" sono offerti alla consultazione per fini esclusivamente di informazione.

    Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16 marzo 1956).

   Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale su quello qui riportato in caso di divergenza.