Ultime pronunce pubblicate deposito del 24/04/2008
 
112/2008 pres. BILE, rel. TESAURO   visualizza pronuncia 112/2008
113/2008 pres. BILE, rel. SAULLE   visualizza pronuncia 113/2008
114/2008 pres. BILE, rel. TESAURO   visualizza pronuncia 114/2008
115/2008 pres. BILE, rel. AMIRANTE   visualizza pronuncia 115/2008
116/2008 pres. BILE, rel. MAZZELLA   visualizza pronuncia 116/2008
117/2008 pres. BILE, rel. NAPOLITANO   visualizza pronuncia 117/2008
118/2008 pres. BILE, rel. SAULLE   visualizza pronuncia 118/2008
119/2008 pres. BILE, rel. AMIRANTE   visualizza pronuncia 119/2008
120/2008 pres. BILE, rel. GALLO   visualizza pronuncia 120/2008

 
 

Deposito del 24/04/2008 (dalla 112 alla 120)

 
S.112/2008 del 14/04/2008
Udienza Pubblica del 26/02/2008, Presidente BILE, Relatore TESAURO


Norme impugnate: Art. 245, c. 2°, del decreto legislativo 10/02/2005, n. 30.

Oggetto: Brevetti, marchi e privative industriali - Controversie devolute alla cognizione delle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale istituite presso le corti d'appello e i tribunali indicati dall'art. 1 del decreto legislativo n. 168 del 2003 - Giudizio di appello - Devoluzione alla cognizione delle sezioni specializzate (nella specie, la sezione istituita presso la corte d'appello di Milano) delle controversie in grado di appello introdotte dopo l'entrata in vigore del codice della proprietà industriale, anche se il giudizio di primo grado o il giudizio arbitrale sono iniziati e si sono svolti secondo le norme precedentemente in vigore - Previsione introdotta dal decreto legislativo n. 30 del 2005, recante il codice della proprietà industriale - Contrasto con la disciplina transitoria di cui all'art. 6 del decreto legislativo n. 168 del 2003 secondo cui le controversie già pendenti alla data del 30 giugno 2003 restano assegnate al giudice competente in base alla normativa previgente, nella specie, la corte d'appello di Brescia.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ord. 509, 568/2007
O.113/2008 del 14/04/2008
Camera di Consiglio del 13/02/2008, Presidente BILE, Relatore SAULLE


Norme impugnate: Art. 1 ter, c. 6°, del decreto legge 30/12/1989, n. 416, conv. in legge 28/02/1990, n. 39.

Oggetto: Straniero e apolide - Procedura per il riconoscimento dello 'status' di rifugiato politico - Ricorso al Tribunale in composizione monocratica territorialmente competente avverso la decisione della Commissione territoriale di diniego dello 'status' di rifugiato politico - Efficacia sospensiva sul provvedimento di allontanamento del territorio nazionale - Esclusione.

Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens
Atti decisi: ord. 522 e 669/2007
O.114/2008 del 14/04/2008
Camera di Consiglio del 27/02/2008, Presidente BILE, Relatore TESAURO


Norme impugnate: Art. 25, c. 2°, del decreto legislativo 28/08/2000, n. 274.

Oggetto: Processo penale - Procedimento davanti al giudice di pace - Richieste del pubblico ministero - Obbligo del pubblico ministero di formulare l'imputazione anche nel caso in cui abbia espresso parere contrario alla citazione - Mancata previsione.

Dispositivo: manifesta infondatezza
Atti decisi: ord. 172/2007
O.115/2008 del 14/04/2008
Udienza Pubblica del 11/03/2008, Presidente BILE, Relatore AMIRANTE


Norme impugnate: Art. 14 septies, c. 4° e 5°, del decreto legge 30/12/1979, n. 663, aggiunto dalla legge 29/02/1980, n. 33.

Oggetto: Previdenza e assistenza - Pensione di inabilità civile - Requisiti reddituali del richiedente - Esclusione dal computo dei redditi di quelli percepiti dagli altri componenti del nucleo familiare - Mancata previsione secondo il "diritto vivente".

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 194/2007
O.116/2008 del 14/04/2008
Camera di Consiglio del 12/03/2008, Presidente BILE, Relatore MAZZELLA


Norme impugnate: Artt. 2 e 2 bis della legge 12/06/1990, n. 146.

Oggetto: Processo penale - Astensione collettiva degli avvocati dalle udienze - Mancata previsione a carico degli avvocati dell'obbligo di versare ad un costituendo fondo una somma corrispondente al valore-udienza ovvero di altro strumento che consenta di equiparare sotto il profilo economico l'astensione dell'avvocato a quella del lavoratore dipendente.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 672/2007
O.117/2008 del 14/04/2008
Camera di Consiglio del 12/03/2008, Presidente BILE, Relatore NAPOLITANO


Norme impugnate: Art. 24, c. 2°, del regio decreto 16/03/1942, n. 267, come sostituito dall'art. 21 del decreto legislativo 09/01/2006, n. 5.

Oggetto: Fallimento e procedure concorsuali - Ricorso proposto da curatore fallimentare per ottenere declaratoria di inefficacia, nei confronti della massa, di rimesse confluite, in epoca successiva alla sentenza di fallimento, su conto corrente bancario intestato alla società fallita - Applicabilità, ove non diversamente disposto, delle norme del codice di procedura civile in materia di procedimenti in camera di consiglio alle azioni derivanti dal fallimento e, conseguentemente, attratte alla competenza del tribunale fallimentare - Previsione introdotta dal decreto legislativo n. 5 del 2006, recante la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali - Eccesso di delega.

Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens
Atti decisi: ord. 701/2007
O.118/2008 del 14/04/2008
Camera di Consiglio del 02/04/2008, Presidente BILE, Relatore SAULLE


Norme impugnate: Art. 19, c. 2°, lett. c) e d), del decreto legislativo 25/07/1998, n. 286.

Oggetto: Straniero - Espulsione - Divieto di espulsione del convivente, padre del nascituro, della donna in stato di gravidanza - Mancata previsione - Ingiustificato deteriore trattamento del convivente padre rispetto al marito, cui si applica il divieto di espulsione in conseguenza della sentenza della Corte n. 376/2000.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 637/2007
O.119/2008 del 14/04/2008
Udienza Pubblica del 12/02/2008, Presidente BILE, Relatore AMIRANTE


Norme impugnate: Art. 99, c. 2°, del decreto del Presidente della Repubblica 29/12/1973, n. 1092.

Oggetto: Previdenza e assistenza sociale - Pensioni dei dipendenti pubblici - Soggetto titolare di più pensioni - Divieto di cumulo dell'indennità integrativa speciale sui diversi trattamenti pensionistici - Determinazione della misura del trattamento pensionistico complessivo oltre il quale diventi operante il divieto di cumulo dell'indennità integrativa speciale - Mancata previsione.

Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens
Atti decisi: ord. 304, 432 e 540/2006
S.120/2008 del 14/04/2008
Udienza Pubblica del 29/01/2008, Presidente BILE, Relatore GALLO


Norme impugnate: Legge 27/12/2006, n. 296 (legge finanziaria 2007); discussione limitata all'art. 1, c. 565°.

Oggetto: Sanità pubblica - Norme della legge finanziaria 2007 - Servizio sanitario nazionale - Misure di contenimento della spesa per il personale - Limite di spesa fissato con riferimento all'ammontare dell'analoga spesa nell'anno 2004, diminuito dell'1,4 per cento - Introduzione di dettagliata disciplina delle attività che devono essere intraprese a tal fine dagli enti del Ssn.

Dispositivo: non fondatezza - inammissibilità
Atti decisi: ric. 9 e 10/2007

pronuncia successiva

SENTENZA N. 112

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

    - Franco            BILE               Presidente

    - Giovanni Maria    FLICK                Giudice

    - Francesco         AMIRANTE                "

    - Ugo               DE SIERVO               "

    - Alfio             FINOCCHIARO             "

    - Alfonso           QUARANTA                "

    - Franco            GALLO                   "

    - Luigi             MAZZELLA                "

    - Gaetano           SILVESTRI               "

    - Sabino            CASSESE                 "

    - Maria Rita        SAULLE                  "

    - Giuseppe          TESAURO                 "

    - Paolo Maria       NAPOLITANO              "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 245, comma 2, del decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 (Codice della proprietà industriale, a norma dell'articolo 15 della legge 12 dicembre 2002, n. 273), promossi con ordinanze del 15 febbraio e del 13 marzo 2007 dalla Corte d'appello di Milano nei procedimenti civili vertenti tra la Company Shirt s.r.l. in liquidazione e la Stefano Conti s.r.l. ed altri e tra la Alpi s.p.a. e la Alpilegno s.n.c. di Pao lo Capra & C., iscritte ai nn. 509 e 568 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale  della Repubblica nn. 27 e 33, prima serie speciale, dell'anno 2007.

      Visto l'atto di costituzione della Kamiciando s.n.c.;

      udito nell'udienza pubblica del 26 febbraio 2008 e nella camera di consiglio del 27 febbraio 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro.

Ritenuto in fatto

    1. -  La Corte d'appello di Milano, con due ordinanze in data 15 febbraio e 13 marzo 2007, emesse nel corso di altrettanti giudizi, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell'art. 245, comma 2, del decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 (Codice della proprietà industriale, a norma dell'articolo 15 della legge 12 dicembre 2002, n. 273), in riferimento all'art. 76 della Costituzione ed in relazione all'art. 15 della legge 12 dicembre 2002, n. 273 (Misure per favorire l'iniziativa privata e lo sviluppo della concorrenza).

    2. - La prima ordinanza (r.o. n. 509 del 2007) premette che il giudizio principale ha ad oggetto una domanda di risarcimento dei danni derivanti dalla violazione dei diritti di esclusiva vantati su di un marchio registrato, definito in primo grado con sentenza del Tribunale ordinario di Brescia depositata il 20 giugno 2005. La società soccombente ha proposto appello avverso detta pronuncia con atto di citazione notificato il 20 ottobre 2005, convenendo in giudizio le altre parti innanzi alla Corte d'appello di Milano.

    Una delle parti appellate ha eccepito sia l'incompetenza del giudice adito, indicando quale giudice competente la Corte d'appello di Brescia, sia l'illegittimità costituzionale dell'art.  245 del d.lgs. n. 30 del 2005, che stabilisce la competenza della Corte d'appello di Milano.

    Secondo il rimettente, la questione di legittimità costituzionale è rilevante, in quanto l'eccezione di incompetenza è stata ritualmente proposta e la competenza della Corte d'appello di Milano sussiste soltanto in virtù della norma censurata, la quale, tuttavia, si porrebbe in contrasto con l'art. 76 Cost.

    Ad avviso del giudice a quo, la legge n. 273 del 2002 ha conferito al Governo due distinte deleghe, aventi rispettivamente ad oggetto: la prima, «il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di proprietà industriale» (art. 15); la seconda, l'istituzione presso tribunali e corti d'appello di sezioni specializzate in materia di proprietà industriale e intellettuale (art. 16; di seguito, sezioni specializzate).

    La seconda delega è stata attuata con il d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168 (Istituzione di Sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale presso tribunali e corti d'appello, a norma dell'articolo 16 della legge 12 dicembre 2002, n. 273) che, tra l'altro, ha stabilito la competenza delle sezioni specializzate istituite presso il Tribunale ordinario di Milano e presso la Corte d'appello della stessa città in ordine alle controversie che, secondo i criteri ordinari di competenza territoriale, sono relative ai «territori ricompresi nei distretti di corte d'appello di Milano e Brescia» (art. 4, comma 1, lettera f).

    L'art. 6 del d.lgs. n. 168 del 2003 ha attribuito alle sezioni specializzate i giudizi iscritti a ruolo dal 1° luglio 2003, disponendo che le controversie pendenti alla data del 30 giugno 2003 restano assegnate al giudice competente in base alla normativa previgente, in applicazione del criterio direttivo che imponeva di non gravare dette sezioni di un carico iniziale di procedimenti pregiudizievole del loro efficiente funzionamento (art. 16, comma 3, della legge n. 273 del 2002).

    Il citato art. 16 è stato interpretato nel senso che gli appelli avverso le sentenze di primo grado pronunciate nei giudizi instaurati anteriormente al 30 giugno 2003 dovevano essere proposti innanzi alle sezioni ordinarie, in conformità dei principi enunciati dalla giurisprudenza di legittimità in riferimento alle norme transitorie aventi ad oggetto l'introduzione di una nuova disciplina processuale e di nuove regole di competenza ed in coerenza con le nozioni di «controversia» e «giudizio» utilizzabili a questo scopo.

    L'art. 245, comma 2, del d.lgs. n. 30 del 2005 ha, invece, disposto: «sono devolute alla cognizione delle sezioni specializzate di cui all'articolo 134, comma 3, le controversie in grado d'appello iniziate dopo l'entrata in vigore del codice anche se il giudizio di primo grado o il giudizio arbitrale sono iniziati e si sono svolti secondo le norme precedentemente in vigore».

    Ad avviso del giudice a quo, detta norma ha introdotto una regola difforme dai principi sopra richiamati, benché la delega dell'art. 16 della legge n. 273 del 2002 (concernente l'istituzione delle sezioni specializzate, la disciplina della competenza ed il regime processuale transitorio) fosse stata già esercitata con l'emanazione del d.lgs. n. 168 del 2003 e si era esaurita alla data di emanazione del d.lgs. n. 30 del 2005. Quest'ultimo decreto legislativo ha, invece, attuato la delega dell'art. 15 della legge n. 273 del 2002, il quale non autorizzava il Governo ad intervenire sulla disciplina del processo e su quella oggetto della delega dell'art. 16, non sussistendo esigenze sopravvenute di «adeguamento» e «co ordinamento» in grado di giustificare la modificazione delle regole della competenza per i giudizi instaurati anteriormente al 30 giugno 2003.

    Sotto un ulteriore profilo, la legge 29 settembre 2003, n. 229 (Interventi in materia di qualità della regolazione, riassetto normativo e codificazione - Legge di semplificazione 2001) non conterrebbe disposizioni in grado di fondare la norma censurata, neppure coerente con i principi generali dell'ordinamento processuale civile. L'art. 5 del codice di procedura civile stabilisce, infatti, che la competenza del giudice non può essere modificata da leggi emanate successivamente alla proposizione della domanda, enunciando una regola che costituirebbe un utile canone ermeneutico per la definizione ed interpretazione dei principi presupposti e sottesi alla legge-delega, rispettati dall'art. 6 del d.lgs. n. 168 del 2003 e disattesi dalla norma censurata.< /o:p>

    2.1. - La seconda ordinanza (r.o. n. 568 del 2007) premette che il giudizio principale ha ad oggetto una domanda di accertamento della violazione dei diritti di esclusiva vantati su di un marchio registrato e l'adozione dei provvedimenti conseguenziali, definito in primo grado con sentenza del Tribunale ordinario di Brescia depositata il 25 ottobre 2004. La società soccombente ha proposto appello avverso detta pronuncia con atto di citazione notificato in data 11-13 ottobre 2005; la società appellata ha eccepito l'incompetenza del giudice adito, indicando quale giudice competente la Corte d'appello di Brescia.

    Secondo il rimettente, l'eccezione è stata ritualmente proposta e la competenza della Corte d'appello di Milano può essere ritenuta sussistente soltanto in forza della norma censurata, la quale, tuttavia, si porrebbe in contrasto con l'art. 76 Cost.

    A conforto della questione di legittimità costituzionale il giudice a quo richiama espressamente le argomentazioni svolte dalla Corte d'appello di Milano nell'ordinanza sopra richiamata, che riproduce quasi testualmente.

    3. - Nel giudizio introdotto dalle prima delle succitate ordinanze, si è costituita la Kamiciando s.n.c. di Piazza Lucia, parte del processo principale, chiedendo l'accoglimento della questione in base ad argomentazioni sostanzialmente coincidenti con quelle svolte nell'ordinanza di rimessione.

Considerato in diritto

    1. - La questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Corte d'appello di Milano investe l'art. 245, comma 2, del decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 (Codice della proprietà industriale, a norma dell'articolo 15 della legge 12 dicembre 2002, n. 273), nella parte in cui stabilisce che sono devolute alla cognizione delle sezioni specializzate di cui all'articolo 134, comma 3, di detto decreto le controversie in grado d'appello iniziate dopo l'entrata in vigore del codice, anche se il giudizio di primo grado è stato iniziato e si è svolto secondo le norme precedentemente in vigore.

    Secondo le ordinanze di rimessione, detta norma si porrebbe in contrasto con l'art. 76 della Costituzione, in relazione all'art. 15 della legge 12 dicembre 2002, n. 273 (Misure per favorire l'iniziativa privata e lo sviluppo della concorrenza), in quanto la delega contenuta in quest'ultima norma non concerneva la disciplina della competenza ed il regime transitorio applicabile alle controversie attribuite alle sezioni specializzate in materia di proprietà industriale ed intellettuale (di seguito, sezioni specializzate), materie, queste, oggetto della distinta delega dell'art. 16 della legge n. 273 del 2002, esercitata, ed esauritasi, con l'emanazione del d.lgs. 27 giugno 2003, n. 168 (Istituzione di Sezioni specializzate in materia di proprietà industrial e ed intellettuale presso tribunali e corti d'appello, a norma dell'articolo 16 della legge 12 dicembre 2002, n. 273).

    2. - I giudizi, poiché hanno ad oggetto la stessa norma, censurata in riferimento al medesimo parametro costituzionale, per profili e con argomentazioni sostanzialmente coincidenti, e pongono la medesima questione, devono essere riuniti e decisi con un'unica sentenza.

    3. - La questione è fondata.

    Preliminarmente, va osservato che la questione è rilevante in riferimento alla parte in cui la norma censurata stabilisce che sono devolute alla cognizione delle sezioni specializzate le controversie in grado d'appello iniziate dopo l'entrata in vigore del codice, anche se il giudizio di primo grado è iniziato e si è svolto secondo le norme precedentemente in vigore.

    3.1. - Il sindacato di costituzionalità sulla delega legislativa, secondo la giurisprudenza di questa Corte, si svolge attraverso un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli concernenti, rispettivamente, la norma delegante (al fine di individuarne l'esatto contenuto, nel quadro dei principi e criteri direttivi e del contesto in cui questi si collocano, nonché delle ragioni e finalità della medesima) e la norma delegata, da interpretare nel significato compatibile con i principi ed i criteri direttivi della delega (tra le più recenti, sentenze n. 341, n. 340 e n. 170 del 2007).

    Il contenuto delle deleghe oggetto degli artt. 15 e 16 della legge n. 273 del 2002 e la relazione esistente tra le stesse sono state, di recente, approfondite da questa Corte nella sentenza n. 170 del 2007, che ha deciso una questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto una diversa disposizione del d.lgs. n. 30 del 2005.

    Alla luce delle argomentazioni svolte in detta pronuncia, occorre anzitutto osservare che la norma censurata ha la sua base esclusivamente nell'art. 15 della legge n. 273 del 2002, tenuto conto sia della indicazione in tal senso contenuta nella premessa del decreto legislativo n. 30 del 2005, sia della circostanza che il termine per l'esercizio della delega dell'art. 16 della legge n. 273 del 2002 era scaduto alla data di emanazione di detto decreto legislativo.

    La lettera del citato art. 15 (avente ad oggetto «il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di proprietà industriale»), i relativi principi e criteri direttivi ed il contesto normativo nel quale detta norma è inserita, quindi anche il contenuto della delega dell'art. 16 della stessa legge, impongono di ribadire che i profili inerenti alla istituzione ed organizzazione delle sezioni specializzate, in linea generale, erano estranei alla delega oggetto della prima di queste due norme.

    La delega all'istituzione ed alla disciplina delle sezioni specializzate è, infatti, contenuta nell'art. 16 della legge n. 273 del 2002, il quale stabilisce altresì uno specifico principio direttivo in materia di disposizioni transitorie, in virtù del quale il Governo doveva avere «cura di evitare che le sezioni specializzate di cui al comma 1, lettera a), siano gravate da un carico iniziale di procedimenti che ne impedisca l'efficiente avvio» (comma 3).

    In attuazione di detto principio, l'art. 6 del d.lgs. n. 168 del 2003 ha assegnato alle sezioni specializzate soltanto i giudizi «iscritti a ruolo a far data dal 1° luglio 2003» (comma 1), disponendo che le controversie «già pendenti alla data del 30 giugno 2003, restano assegnate al giudice competente in base alla normativa previgente» (comma 2). Quest'ultima norma - in particolare, il comma 2 - è stata interpretata dalla Corte suprema di cassazione nel senso che «non può riferirsi [.] che all'introduzione della causa in primo grado, quale che sia il grado del giudizio nel quale essa si trovi al momento dell'entrata in vigore della legge» (ordinanza 1° febbraio 2007, n. 2203).

    La norma censurata non è, dunque, riconducibile al «riassetto delle disposizioni vigenti in materia di proprietà industriale», e cioè alla delega dell'art. 15 della legge n. 273 del 2002. Quest'ultima concerne, infatti, anche le disposizioni di diritto processuale previste dalle leggi speciali oggetto del riassetto e la disciplina dei procedimenti amministrativi richiamati nella medesima, ma soltanto in riferimento alle modificazioni strumentali rispetto allo scopo di comporle in un testo normativo unitario, di adeguarle alla disciplina internazionale e comunitaria, organizzarle in un quadro nuovo e porre in rilievo i nessi sistematici esistenti tra i molteplici diritti di proprietà industriale.

    L'art. 245, comma 2, del d.lgs. n. 30 del 2005 ha, invece, disciplinato un oggetto estraneo al contenuto della delega, peraltro realizzando una scelta incoerente rispetto a quella che, nell'osservanza del principio stabilito dall'art. 16 della legge n. 273 del 2002, era stata  operata con l'art. 6 del d.lgs. n. 168 del 2003. Pertanto, la norma neppure è riconducibile alla discrezionalità del legislatore delegato, in quanto non costituisce coerente sviluppo e completamento delle scelte espresse dal legislatore delegante, ma si pone anzi in contrasto con la soluzione realizzata nell'esercizio della delega che aveva ad oggetto le sezioni speci alizzate.

    Deve essere, dunque, dichiarata, per violazione dell'art. 76 Cost., l'illegittimità costituzionale, dell'art. 245, comma 2, nella parte in cui stabilisce che sono devolute alla cognizione delle sezioni specializzate le controversie in grado d'appello iniziate dopo l'entrata in vigore del codice, anche se il giudizio di primo grado è iniziato e si è svolto secondo le norme precedentemente in vigore.

      PER QUESTI MOTIVI

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 245, comma 2, del decreto legislativo 10 febbraio 2005, n. 30 (Codice della proprietà industriale, a norma dell'articolo 15 della legge 12 dicembre 2002, n. 273), nella parte in cui stabilisce che sono devolute alla cognizione delle sezioni specializzate le controversie in grado d'appello iniziate dopo l'entrata in vigore del codice, anche se il giudizio di primo grado è iniziato e si è svolto secondo le norme precedentemente in vigore.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 aprile 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 113

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco             BILE            Presidente

- Giovanni Maria     FLICK             Giudice

- Francesco          AMIRANTE             "

- Ugo                   DE SIERVO              "

- Paolo              MADDALENA            "

- Alfio              FINOCCHIARO          "

- Alfonso            QUARANTA             "

- Franco             GALLO                "

- Luigi              MAZZELLA             "

- Gaetano            SILVESTRI            "

- Sabino             CASSESE              "

- Maria Rita         SAULLE               "

- Giuseppe           TESAURO              "

- Paolo Maria        NAPOLITANO           "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1-ter, comma 6, del decreto-legge  30 dicembre 1989, n. 416 (Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari ed apolidi, già presenti nel territorio dello Stato), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, promossi con ordinanze del 14 febbraio e del 26 aprile 2007 dal Giudice di pace di Trieste sui ricorsi proposti rispettivamente da K.D. e da S.U. contro il Prefetto di Trieste, iscritte ai numeri 522 e 669 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 28 e 39, prima serie speciale, dell'anno 2007.

   

    udito nella camera di consiglio del 13 febbraio 2008 il Giudice relatore Maria Rita Saulle.

    Ritenuto che, con due ordinanze di analogo contenuto (r.o. nn. 522 e 669 del 2007), depositate rispettivamente il 14 febbraio ed il 26 aprile 2007, il Giudice di pace di Trieste ha sollevato, in riferimento all'art. 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 1-ter, comma 6, del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416 (Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e soggiorno dei cittadini extracomunitari ed apolidi, già presenti nel territorio dello Stato), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, nella parte in cui prevede che il ricors o avverso il diniego della Commissione territoriale del riconoscimento dello status di rifugiato non sospende il provvedimento di allontanamento dello straniero dal territorio nazionale;

    che i giudizi a quibus  hanno ad oggetto l'opposizione avverso i decreti di espulsione ed i consequenziali ordini di allontanamento dal territorio nazionale emessi nei confronti di due cittadini extracomunitari;

    che, a parere del rimettente, la norma censurata contrasterebbe con l'evocato parametro costituzionale, in quanto impedirebbe allo straniero, destinatario di un provvedimento di espulsione, in pendenza del ricorso avverso il cennato diniego, «di essere sentito personalmente e di fornire eventuali informazioni utili all'approfondimento dell'istruttoria»;

    che, per il giudice a quo, «la previa audizione dell'interessato» non costituisce «una mera facoltà», bensì un obbligo del giudice, che attiene al «rispetto di un valore costituzionale», quale «l'inviolabilità del diritto alla difesa in ogni tipo di giudizio»;

    che  il rimettente, in punto di rilevanza, osserva che, ove la norma censurata fosse dichiarata illegittima, il Tribunale, competente a conoscere del ricorso avverso il diniego dello status di rifugiato politico, potrebbe sospendere il provvedimento di allontanamento dal territorio nazionale;

    che nel giudizio di costituzionalità promosso con l'ordinanza iscritta al n. 522 del 2007, è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata;

    che, con successivo atto depositato il 6 settembre 2007, l'Avvocatura ha dichiarato di ritirare detto atto di intervento.

    Considerato che il Giudice di pace di Trieste dubita, in riferimento all'art. 24 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 1-ter, comma 6, del decreto-legge 30 dicembre 1989, n. 416 (Norme urgenti in materia di asilo politico, di ingresso e  soggiorno dei cittadini extracomunitari ed apolidi già presenti nel territorio dello Stato), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 1990, n. 39, nella parte in cui non prevede la sospensione dell'ordine di allontanamento dal territorio dello Stato in pendenza del ricorso avverso il din iego del riconoscimento dello status di rifugiato;

    che le ordinanze di rimessione propongono identica questione, onde i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con un'unica decisione;

    che, successivamente all'emanazione di entrambe le ordinanze di rimessione, è mutato il quadro normativo di riferimento in cui si iscrivono i giudizi a quibus;

    che, in particolare, è entrato in vigore il decreto legislativo 28 gennaio 2008, n. 25 (Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato), il quale,  all'art. 40, dispone l'abrogazione della norma censurata;

    che, in forza di tale jus superveniens, si impone la restituzione degli atti al giudice rimettente, per una nuova valutazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza della questione proposta.

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

      per questi motivi

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    riuniti i giudizi,

    ordina la restituzione degli atti al Giudice di pace di Trieste.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 aprile 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Maria Rita SAULLE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 114

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

    - Franco            BILE               Presidente

    - Giovanni Maria    FLICK                Giudice

    - Francesco         AMIRANTE                "

    - Ugo               DE SIERVO               "

    - Alfio             FINOCCHIARO             "

    - Alfonso           QUARANTA                "

    - Franco            GALLO                   "

    - Luigi             MAZZELLA                "

    - Gaetano           SILVESTRI               "

    - Sabino            CASSESE                 "

    - Maria Rita        SAULLE                  "

    - Giuseppe          TESAURO                 "

    - Paolo Maria       NAPOLITANO              "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 25, comma 2, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), promosso, nell'ambito di un procedimento penale, dal Giudice di pace di Chioggia con ordinanza del 17 luglio 2006, iscritta al n. 172 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell'anno 2007.

      Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

      udito nella camera di consiglio del 27 febbraio 2008 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro.

    Ritenuto che il Giudice di pace di Chioggia, con ordinanza del 17 luglio 2006, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art.  25,   comma 2,  del decreto

legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), nella parte in cui non prevede che, a séguito di ricorso immediato della persona offesa, «il pubblico ministero, anche quando esprime parere contrario alla citazione, debba formulare l'imputazione»;

    che il rimettente, adito con ricorso della persona offesa ai sensi dell'art. 21 del d. lgs. n. 274 del 2000, si duole che al giudice di pace non sia consentito un «compiuto esercizio delle proprie prerogative» nei casi, come quello di specie, in cui non condivida il parere contrario espresso dal pubblico ministero in ordine alla citazione a giudizio della persona alla quale viene attribuito il reato;

    che, infatti, l'art. 25, comma 2, del d. lgs. n. 274 del 2000, riconoscendo al rappresentante della pubblica accusa un vaglio preventivo in ordine all'ammissibilità ed alla fondatezza del ricorso della persona offesa, si limita a stabilire che il pubblico ministero formula l'imputazione solo se non esprime parere contrario alla citazione, mentre, in base agli artt. 26 e 27 del citato decreto delegato, il giudice di pace, ove non ritenga il ricorso inammissibile o manifestamente infondato o presentato per un reato di competenza di altro giudice, deve convocare le parti in udienza con un decreto, che contiene necessariamente la «trascrizione dell'imputazione»;

    che il rimettente, pur dissentendo dal parere del pubblico ministero, ritiene di non poter emettere ugualmente il decreto di convocazione, ostandovi la lettera dell'art. 27 del d. lgs. n. 274 del 2000, che sanziona con la nullità la mancata «trascrizione dell'imputazione»;

    che, per far fronte alla paralisi del procedimento, egli non potrebbe ordinare al pubblico ministero di formulare l'imputazione, in analogia con quanto previsto dall'art. 17, comma 4, del d. lgs. n. 274 del 2000 e dall'art. 409, comma 5, del codice di procedura penale, poiché tali disposizioni disciplinano situazioni diverse da quella in esame, nelle quali il giudice che dispone la cosiddetta imputazione coatta non si identifica con il giudice competente a conoscere del merito del procedimento;

    che neppure potrebbe riportare nel decreto di convocazione l'addebito contenuto nel ricorso immediato, dato che, in base alla lettera dell'art. 27, comma 3, lettera d), del d. lgs. n. 274 del 2000, il contenuto della trascrizione deve necessariamente «preesistere in un testo», e che, comunque, avallando tale opzione ermeneutica, «si ammetterebbe il pieno ed esclusivo esercizio dell'azione penale in capo al ricorrente, sottraendolo al pubblico ministero», in contrasto con l'art. 112 della Costituzione;

    che, escluse le soluzioni della cosiddetta imputazione coatta e della trascrizione dell'addebito formulato dal ricorrente, al giudice di pace non resterebbe che disporre la restituzione degli atti al pubblico ministero, onde consentire a quest'ultimo di procedere nelle forme ordinarie, ma anche tale soluzione non pare al rimettente esente da censure, poiché, con essa, si attribuisce al pubblico ministero «una sorta di potere di veto sulla procedura del ricorso»;

    che, pertanto, il giudice a quo solleva questione di costituzionalità dell'art. 25, comma 2, del d. lgs. n. 274 del 2000, il quale, non prevedendo che «il pubblico ministero, anche quando esprime parere contrario alla citazione, debba formulare l'imputazione», si porrebbe in contrasto con gli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione;

    che la denunciata norma violerebbe innanzitutto il principio di ragionevolezza, in quanto obbligherebbe il giudice a restituire gli atti al pubblico ministero, «contrariamente all'ipotesi, inversa, in cui l'avvenuta formulazione dell'imputazione non impedisce al giudice di ritenere, nel pieno esercizio delle proprie prerogative, il ricorso inammissibile, infondato ovvero presentato dinanzi a un giudice incompetente»;

    che, inoltre, la disposizione censurata lederebbe il diritto di difesa del ricorrente, il quale, con la restituzione degli atti al pubblico ministero, «verrebbe privato di un importante strumento processuale riconosciutogli dal legislatore», per di più per ragioni non condivise dal giudice;

    che, infine, il citato art. 25, comma 2, violerebbe il principio della ragionevole durata del processo, poiché, una volta restituiti gli atti al pubblico ministero, il procedimento seguirebbe l'iter ordinario, con tempi notevolmente più lunghi rispetto a quelli stabiliti per il ricorso immediato, che consente l'instaurazione del giudizio senza la fase delle indagini preliminari;

    che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo di dichiarare la questione inammissibile, per non avere il rimettente utilizzato tutti i poteri interpretativi che la legge gli riconosce, o infondata;

    che, a sostegno della ragionevolezza della previsione della restituzione degli atti al pubblico ministero che abbia espresso parere contrario alla citazione, la difesa erariale osserva che di norma spetta proprio al pubblico ministero «scegliere la forma di esercizio dell'azione penale», mentre, secondo uno schema che si ripete in altri casi, il giudice può rilevare che il rito speciale «è stato promosso fuori dei presupposti di legge».

    Considerato che il Giudice di pace di Chioggia dubita, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell'art. 25, comma 2, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), nella parte in cui non prevede che, a seguito di ricorso immediato della persona offesa, «il pubblico ministero, anche quando esprime parere contrario alla citazione, debba formulare l' imputazione»;

    che il ricorso immediato della persona offesa deve essere previamente comunicato al pubblico ministero e questi, entro dieci giorni, ai sensi dell'art. 25, comma 2, del d. lgs. n. 274 del 2000, se ritiene il ricorso inammissibile o manifestamente infondato, esprime parere contrario alla citazione altrimenti formula l'imputazione, confermando o modificando l'addebito contenuto nel ricorso;

    che, a norma dell'art. 26 del citato decreto delegato, il giudice di pace, anche se il pubblico ministero non ha formulato richieste, ove ritenga il ricorso inammissibile o manifestamente infondato, ne dispone la trasmissione all'organo della pubblica accusa per l'ulteriore corso del procedimento, mentre, secondo l'art. 27 del d. lgs. n. 274 del 2000, «se non deve provvedere ai sensi dell'articolo 26», convoca le parti in udienza con un decreto, il quale deve contenere la trascrizione dell'imputazione;

    che il rimettente si duole che, sulla base di tale disciplina, il giudice di pace sia costretto a disporre la trasmissione degli atti al pubblico ministero, anche qualora non condivida il parere negativo da questi espresso sul ricorso, ostando alla emissione del decreto di convocazione delle parti la mancanza di una imputazione da trascrivervi;

    che, a suo avviso, l'art. 25, comma 2, del d. lgs. n. 274 del 2000, là dove non prevede che il pubblico ministero debba formulare l'imputazione anche se esprime parere contrario alla citazione, víola: l'art. 3 della Costituzione, per l'irragionevolezza di una disciplina che, obbligando il giudice alla trasmissione degli atti, attribuisce efficacia vincolante al parere del pubblico ministero, diversamente da quanto accade nel caso della «avvenuta formulazione dell'imputazione», in cui il giudice ben può disattendere la richiesta del rappresentante della pubblica accusa; l'art. 24, secondo comma, della Costituzione, in quanto, con la trasmissione degli atti al pubblico ministero, il ricorrente viene privato «di un importante strumento processuale riconosciutogli dal legislato re»; l'art. 111, secondo comma, della Costituzione, perché, una volta trasmessi gli atti al pubblico ministero, il procedimento segue l'iter ordinario, con tempi notevolmente più lunghi rispetto a quelli stabiliti per il ricorso immediato;

    che l'eccezione d'inammissibilità sollevata dalla difesa erariale non è fondata, poiché il rimettente ha adeguatamente esplorato le diverse opzioni ermeneutiche offerte dal dato normativo, censurando infine l'interpretazione oramai fatta propria dal giudice di legittimità, secondo la quale al parere contrario del pubblico ministero consegue necessariamente la trasmissione degli atti;

    che, nel merito, questa Corte ha già avuto modo di rilevare come, nel procedimento introdotto dal ricorso immediato della persona offesa, il pubblico ministero sia tenuto a formulare l'imputazione solo in presenza di una richiesta di citazione che egli consideri non inammissibile e non manifestamente infondata (ordinanza n. 381 del 2005);

    che nella denunciata disciplina trova coerente espressione la scelta del legislatore delegato di riconoscere esclusivamente al pubblico ministero la titolarità dell'iniziativa penale in ordine ai reati di competenza del giudice di pace perseguibili a querela;

    che, infatti, la portata preclusiva del parere sfavorevole del rappresentante della pubblica accusa deriva quale conseguenza necessitata della configurazione del nuovo istituto del ricorso immediato della persona offesa come atto meramente propositivo, rispetto al quale è rimesso al pubblico ministero di aderire o meno, nell'esercizio delle funzioni connesse all'anzidetta prerogativa;

    che la previsione dell'art. 26 del d. lgs. n. 274 del 2000, che consente al giudice di trasmettere gli atti al pubblico ministero anche se questi abbia formulato l'imputazione, lungi dal dimostrare, come vorrebbe il rimettente, l'esistenza di un'aporia nell'impianto delineato dal decreto delegato, costituisce attuazione del principio per cui, nel sistema processuale penale, le iniziative del pubblico ministero devono ritenersi normalmente soggette al controllo del giudice competente;

    che la trasmissione degli atti non inibisce la prosecuzione del procedimento nelle forme ordinarie, con la possibilità per il giudice di pace di disporre la cosiddetta imputazione coatta ai sensi dell'art. 17, comma 4, del d. lgs. n. 274 del 2000, ove il pubblico ministero, all'esito di ulteriori indagini, avanzi richiesta di archiviazione (ordinanze n. 43 del 2007, n. 381 e n. 361 del 2005);

    che, stante il disposto dell'art. 21, comma 5, del d. lgs. n. 274 del 2000, secondo cui la presentazione del ricorso produce gli stessi effetti della presentazione della querela, deve poi escludersi che dalla trasmissione degli atti al pubblico ministero derivi una irrazionale compressione del diritto di difesa del ricorrente, le ragioni del quale possono adeguatamente farsi valere nell'ulteriore corso di un procedimento che, peraltro, resta connotato dal costante coinvolgimento della persona offesa, in correlazione con la finalità conciliativa della giurisdizione penale del giudice di pace (ordinanza n. 28 del 2007);

    che, infine, il principio della ragionevole durata del processo non risulta leso da una disciplina che deve considerarsi frutto di coerenti scelte normative in ordine alla conformazione dei diversi moduli introduttivi del giudizio innanzi al giudice di pace (ordinanze n. 67 del 2007, n. 225 del 2003);

    che, in conclusione, la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata.

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 25, comma 2, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell'articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, dal Giudice di pace di Chioggia.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 aprile 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 115

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-     Franco            BILE         Presidente

-     Giovanni Maria    FLICK          Giudice

-     Francesco         AMIRANTE          "

-     Ugo               DE SIERVO         "

-     Paolo             MADDALENA         "

-     Alfonso           QUARANTA          "

-     Franco            GALLO             "

-     Luigi             MAZZELLA          "

-     Gaetano           SILVESTRI         "

-     Sabino            CASSESE           "

-     Maria Rita        SAULLE            "

-     Giuseppe          TESAURO           "

-     Paolo Maria       NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 14-septies, quarto e quinto comma, del decreto-legge 30 dicembre 1979, n. 663 (Finanziamento del Servizio sanitario nazionale nonché proroga dei contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni in base alla legge 1° giugno 1977, n. 285, sulla occupazione giovanile), convertito, con modificazioni, dalla legge 29 febbraio 1980, n. 33, promosso dal Tribunale di La Spezia nel procedimento civile vertente tra L. D. e il Ministero dell'economia e delle finanze ed altri, con ordinanza del 25 settembre 2006 iscritta al n. 194 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 15, prima serie speciale, dell'anno 2007.

    Visti gli atti di costituzione di L. D. e dell'INPS nonché l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica dell'11 marzo 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante;

    uditi gli avvocati Sante Assennato per L. D., Alessandro Riccio per l'INPS e l'avvocato dello Stato Fabio Tortora per il Presidente del Consiglio dei ministri.

    Ritenuto che il Tribunale di La Spezia, sezione lavoro, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, primo e secondo comma, e 38, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell'art. 14-septies, quarto e quinto comma, della legge 29 febbraio 1980, n. 33 - recte: del decreto-legge 30 dicembre 1979, n. 663 (Finanziamento del Servizio sanitario nazionale nonché proroga dei contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni in base alla legge 1° giugno 1977, n. 285, sulla occupazione giovanile), convertito, con modificazioni, dalla legge 29 febbraio 1980, n. 33 - «nella parte in cui non prevede, anche per il richiedente la pensione di inabilità, di cui all'art. 12 della legge 30 gennaio 1971, n. 118» (Conversione in legge del decreto legge 30 gennaio 1971, n. 5 e nuove norme in favore dei mutilati ed invalidi civili), «l'esclusione dal computo dei redditi di quelli percepiti dagli altri componenti il suo nucleo familiare»;

    che, quanto alla rilevanza della questione, il remittente espone che la ricorrente nel giudizio a quo, assumendo di essere invalida civile assoluta, ha chiesto la pensione d'inabilità negatale dall'INPS in sede amministrativa in quanto il suo reddito, cumulato con quello del coniuge, superava il limite di legge mentre, se fosse stato escluso il cumulo, l'entità del solo reddito dell'interessata le avrebbe consentito di godere della prestazione assistenziale in argomento;

    che la questione sarebbe non manifestamente infondata con riferimento ad entrambi i parametri evocati, in quanto, per il soggetto parzialmente invalido, ai fini dell'attribuzione dell'assegno mensile, la legge stabilisce che non si tenga conto dei redditi degli altri componenti del nucleo familiare, sicché è irragionevole, secondo il remittente, stabilire più restrittivi limiti di reddito per soggetti più gravemente inabili rispetto a chi aspira all'assegno (per esserlo solo parzialmente);

    che non ha rilievo l'affermazione, contenuta nella sentenza di questa Corte n. 88 del 1992, secondo cui, anche ai fini dell'attribuzione della pensione d'inabilità, non si deve tener conto del reddito del coniuge dell'interessato, perché si tratta di un'affermazione fatta incidentalmente, non necessaria ai fini della decisione, e costantemente contraddetta dall'orientamento della Corte di cassazione;

    che, ad avviso del remittente, un diverso indirizzo giurisprudenziale, rinvenibile in parte della giurisprudenza di merito, non può essere seguito perché in contrasto con l'univoco dettato normativo;

    che il giudice a quo sottolinea come la diversità di normativa sulla determinazione del requisito reddituale tra pensione ed assegno non sia originaria, bensì insorta successivamente attraverso modifiche non ben coordinate della disciplina, la cui necessità di razionalizzazione era stata posta in evidenza da questa Corte con la suddetta sentenza n. 88 del 1992;

    che si sono costituiti in giudizio sia la parte privata sia l'INPS;

    che la prima aderisce alle considerazioni del remittente e chiede quindi l'accoglimento della questione;

    che l'Istituto previdenziale sostiene, invece, l'infondatezza della questione sul rilievo secondo cui la pensione di inabilità, di importo notevolmente superiore all'assegno, trova la sua giustificazione nella impossibilità di sopperire alle necessità dell'inabile mediante l'attuazione degli obblighi di solidarietà familiare, con la conseguenza che è il reddito familiare ad essere rilevante;

    che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la non fondatezza della questione in quanto spetta al legislatore bilanciare le necessità dell'inabile e gli obblighi della solidarietà familiare e dell'intera collettività.

    Considerato che alcune carenze di motivazione riscontrabili nell'ordinanza di rimessione in punto di rilevanza non consentono l'esame nel merito della  questione di legittimità costituzionale la quale, pertanto, deve essere dichiarata manifestamente inammissibile;

    che, anzitutto, se può considerarsi non implausibile la motivazione con cui il giudice remittente ha ritenuto di dover sollevare la questione di legittimità costituzionale ancor prima di disporre consulenza tecnica per la valutazione delle condizioni fisiche della ricorrente, la mancanza di qualsiasi accenno alle medesime ed alla relativa documentazione non consente neppure, sotto tale profilo, una delibazione sulla fondatezza della pretesa;

    che, in secondo luogo, poiché  la Direzione centrale dell'INPS, con messaggio n. 9879 del 17 aprile 2007 - confermativo, però, di un precedente, risalente indirizzo enunciato in altro atto generale, e con riferimento anche alla citata sentenza di questa Corte n. 88 del 1992 - inviato a tutte le sedi regionali, provinciali e alle agenzie, ha affermato che, in tema di pensioni d'inabilità civile, il requisito reddituale va riscontrato tenendo conto del «solo reddito personale del richiedente, come per gli assegni d'invalidità parziale», il remittente avrebbe dovuto chiarire quale fosse a tal riguardo l'atteggiamento in causa dell'INPS, su quale dei requisiti per l'a ssegnazione della pensione vertessero le sue contestazioni e con quali argomentazioni fossero sostenute.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell'art. 14-septies, quarto e quinto comma, del decreto-legge 30 dicembre 1979, n. 663 (Finanziamento del Servizio sanitario nazionale nonché proroga dei contratti stipulati dalle pubbliche amministrazioni in base alla legge 1° giugno 1977, n. 285, sulla occupazione giovanile), convertito, con modificazioni, dalla legge 29 febbraio 1980, n. 33, sollevata, in riferimento agli articoli 3, primo e secondo comma, e 38, primo comma, della Costituzione, dal Tribunale di La Spezia, sezione lavoro, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 aprile 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Francesco AMIRANTE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 116

ANNO 2008

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-     Franco            BILE         Presidente

-     Giovanni Maria    FLICK          Giudice

-     Francesco         AMIRANTE          "

-     Ugo               DE SIERVO         "

-     Paolo             MADDALENA         "

-     Alfonso           QUARANTA          "

-     Luigi             MAZZELLA          "

-     Gaetano           SILVESTRI         "

-     Sabino            CASSESE           "

-     Maria Rita        SAULLE            "

-     Giuseppe          TESAURO           "

-     Paolo Maria       NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2 e 2-bis della legge 12 giugno 1990, n. 146 (Norme sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell'attuazione della legge), promosso con ordinanza del 15 dicembre 2006  dal Tribunale di Pesaro nel procedimento penale a carico di B.B., iscritta al n. 672 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell'anno 2007.

      Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 12 marzo 2008 il Giudice relatore Luigi Mazzella.

    Ritenuto che, con ordinanza emessa in data 15 dicembre 2006, il Tribunale di Pesaro ha sollevato, con riferimento agli articoli 3, 40, 39 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 2 e 2-bis della legge 15 giugno 1990, n. 146 (Norme sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell'attuazione della legge), nelle parti in cui non prevedono l'imposizione a carico degli avvocati c he intendono astenersi dalle udienze, in adesione ad astensioni collettive proclamate dagli organismi sindacali dell'Avvocatura, di oneri economici equiparabili alla mancata percezione del salario o dello stipendio dal lavoratore dipendente;

    che il rimettente riferisce che il difensore dell'imputato ha comunicato la propria adesione all'astensione collettiva nazionale dalle udienze proclamata dall'Organismo Unitario dell'Avvocatura per i giorni 14, 15 e 16 dicembre 2007, con delibera del 30 novembre 2006 e che è stato quindi nominato un difensore di ufficio, in sostituzione del difensore di fiducia, ex art. 97, quarto comma,del codice di procedura penale;

    che, prosegue il Tribunale, la Corte costituzionale, con sentenza n. 171 del 1996, ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 2, commi 1 e 5, della legge n. 146 del 1990, nella parte in cui non prevedeva, in caso di astensione collettiva dall'attività giudiziaria degli avvocati e dei procuratori legali, l'obbligo d'un congruo preavviso e di un ragionevole limite temporale dell'astensione e non prevedeva altresì gli strumenti idonei a individuare e assicurare le prestazioni essenziali, nonché le procedure e le misure conseguenziali nell'ipotesi di inosservanza;

    che, nel giudizio pendente, la proclamazione dell'astensione dalle udienze per i giorni 14, 15 e 16 dicembre è stata effettivamente comunicata con congruo preavviso;

    che, tuttavia, a parere del rimettente, nell'attuale disciplina dell'astensione collettiva degli avvocati dalle udienze residuerebbero elementi di contrasto con principi costituzionali, che, in caso di dichiarazione di illegittimità, comporterebbero l'illiceità dell'astensione collettiva proclamata e, conseguentemente, l'inammissibilità del rinvio del processo ad altra udienza;

    che, prosegue il rimettente, nella sentenza n. 171 del 1996 si ribadisce che, per quanto l'astensione collettiva dalle udienze promossa dalle organizzazioni forensi non è riconducibile alla nozione di sciopero, nondimeno alla stessa deve ritenersi applicabile in parte qua la disciplina della legge n. 146 del 1990;

    che, secondo il rimettente, presupposto logico dell'applicazione della disciplina dello sciopero nei servizi pubblici essenziali all'astensione degli avvocati dalle udienze, affermata dalla Corte nella citata sentenza, è il fatto che tale astensione presenti gli elementi essenziali dello sciopero, uno dei quali certamente è costituito dal costo economico che grava sul singolo lavoratore, concretantesi nella perdita del salario o dello stipendio relativo al periodo di sciopero;

    che tale perdita costituirebbe anche una remora all'eccesso o all'abuso del diritto di sciopero;

    che, secondo il rimettente, il rispetto e la tutela che progressivamente lo sciopero ha acquistato, sarebbero dovuti anche al fatto che ogni sciopero ha un costo per il lavoratore, laddove l'astensione dalle udienze non costerebbe nulla all'avvocato, dato che il rinvio dell'udienza ad altra data, a suo dire, comporterebbe al massimo il rinvio della maturazione e percezione dei diritti ed onorari che l'avvocato avrebbe conseguito a seguito dell'attività processuale rinviata, ma non la loro perdita;

    che inoltre, aggiunge il rimettente, poiché generalmente, nel processo penale, l'imputato ha interesse a procrastinare la conclusione del processo perché il tempo gioca a suo favore, l'astensione dalle udienze non solo non costerebbe nulla all'avvocato ma nella maggior parte dei casi, giovando alla parte, gioverebbe anche a lui;

    che la mancanza di remore di carattere economico alla proclamazione delle astensioni dalle udienze farebbe sì che gli organismi professionali possano ricorrervi con notevole libertà e disinvoltura, ben diversamente da quanto è concesso ai sindacati dei lavoratori dipendenti, ai quali ogni giorno di sciopero costa una corrispondente quota della retribuzione, con la conseguente attribuzione all'avvocatura di un enorme potere di incidenza sulle condizioni di funzionamento dell'amministrazione della giustizia e turbativa della dialettica sindacale;

    che ciò determinerebbe l'illegittimità costituzionale della legge n. 146 del 1990 nella parte in cui, per effetto della sentenza n. 171 del 1996 della Corte costituzionale, disciplina, oltre all'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, l'esercizio del diritto di astensione dalle udienze proclamato dalle organizzazioni sindacali degli avvocati, senza prevedere a carico degli avvocati oneri economici equiparabili alla mancata percezione del salario o dello stipendio dal lavoratore dipendente;

    che secondo il rimettente, il fatto che gli avvocati non siano lavoratori dipendenti ma liberi professionisti non esclude, anzi impone la previsione legislativa dell'obbligo, a carico dell'avvocato che intenda astenersi dall'udienza, di versare ad un fondo apposito, costituito eventualmente presso l'amministrazione della giustizia, in quanto danneggiata dall'astensione, una somma corrispondente al valore-udienza, da determinarsi per legge in relazione alla natura dell'attività giudiziaria in concreto mancata per effetto dell'astensione, o comunque la previsione di strumenti che consentano di equiparare in concreto, sotto il profilo economico, l'astensione dell'avvocato a quella del lavoratore dipendente;

    che la mancata previsione legislativa di siffatto obbligo sarebbe in contrasto con gli articoli 3, 40, 39 e 97 della Costituzione;

    che la violazione dell'art. 3 discenderebbe dalla macroscopica e irragionevole disparità di trattamento tra situazioni analoghe con riferimento sia alla condotta (astensione dalle udienze) che agli effetti (turbativa dell'amministrazione della giustizia), a causa delle diverse condizioni personali e sociali dei soggetti che si astengono dalle udienze: lavoratori autonomi gli avvocati, lavoratori dipendenti i magistrati e il personale amministrativo;

    che la violazione dell'art. 40, unica fonte di legittimità della legge n. 146 del 1990, si concreterebbe nella equiparazione allo sciopero di una attività priva di un elemento essenziale, inscindibile dalla nozione storica e giuridica dello sciopero;

    che la violazione dell'art. 39 sarebbe insita nella disparità di trattamento riservato dalla legge n. 146 del 1990 alle attività sindacali comportanti l'astensione dalle udienze poste in essere dalla organizzazione degli avvocati rispetto a quelle poste in essere dalle organizzazioni dei magistrati e del personale amministrativo.

    che, infine, la violazione dell'art. 97 conseguirebbe al fatto che ogni astensione determina il rinvio di processi e di udienze, anche a data lontana di mesi e talora di anni, e sconvolge i calendari delle udienze;

    che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato dall'Avvocatura generale dello Stato, e ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata;

    che, sottolinea in primo luogo l'Avvocatura, il rimettente avrebbe del tutto omesso la motivazione circa la rilevanza della questione in relazione all'art. 2 della legge n. 146 del 1990, a suo giudizio inapplicabile alla fattispecie, interamente regolata dall'art. 2-bis;

    che, quanto a quest'ultima norma, il rimettente avrebbe poi omesso di illustrare le ragioni per cui, a suo avviso, la regolamentazione dell'astensione collettiva dalle udienze, prevista dal predetto articolo e affidata alla Commissione di Garanzia di cui all'art. 12 della legge citata, non consentirebbe di ritenere superati gli evidenziati profili di incostituzionalità; o, in ogni caso, le ragioni per le quali egli non abbia ritenuto di disapplicare direttamente la regolamentazione provvisoria adottata dalla Commissione di garanzia, di rango subprimario;

    che, in secondo luogo, l'Avvocatura dello Stato sottolinea la inammissibilità della questione per il carattere additivo della invocata pronuncia;

    che, nel merito, l'Avvocatura evidenzia l'infondatezza della questione, sia per l'erroneità del presupposto logico da cui parte il rimettente, ossia l'equiparazione dell'astensione degli avvocati allo sciopero dei lavoratori subordinati, che presuppone un rapporto di subordinazione, del tutto assente nel mandato professionale, come dimostrato dalle responsabilità professionali gravanti sull'avvocato anche in caso di sua adesione all'astensione; sia per l'infondatezza dell'affermazione circa la mancanza di ogni danno economico per gli avvocati nell'adesione all'astensione dalla propria attività professionale, danno da ravvisarsi nel rischio di perdita del cliente e nella perdita degli onorari.

    Considerato che il Tribunale di Pesaro dubita, con riferimento agli articoli 3, 40, 39 e 97 della Costituzione, della legittimità costituzionale degli articoli 2 e 2-bis della legge 15 giugno 1990, n. 146 (Norme sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell'attuazione della legge), nelle parti in cui non prevedono l'imposizione, a carico degli avvocati che intendono astenersi dalle udienze, in adesione ad aste nsioni collettive proclamate dagli organismi sindacali dell'Avvocatura, di oneri economici equiparabili alla mancata percezione del salario o dello stipendio dal lavoratore dipendente;

    che le due norme vengono censurate nella parte in cui non prevedono a carico degli avvocati «oneri economici equiparabili alla mancata percezione del salario o dello stipendio dal lavoratore dipendente», senza che il rimettente specifichi, se non a titolo meramente esemplificativo, la natura, le modalità di pagamento e la destinazione degli oneri che dovrebbero essere imposti;

    che lo stesso rimettente, sostanzialmente, invoca una sentenza additiva, in una materia riservata alla discrezionalità del legislatore, proprio in virtù della varietà e  pluralità delle soluzioni possibili (in tal senso, ex plurimis, ordinanze n. 380 del 2006, n. 199 e n. 225 del 2007);

    che, pertanto, la questione deve ritenersi, sotto l'indicato profilo, manifestamente inammissibile.

    Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli articoli 2 e 2-bis della legge 15 giugno 1990, n. 146 (Norme sull'esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell'attuazione della legge), sollevata dal Tribunale di Pesaro, in riferimento agli articoli 3, 39, 40 e 97 della Costituzione, con l'ordinanza in epigrafe.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, 14 aprile 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA
pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 117

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco             BILE      Presidente

- Giovanni Maria     FLICK       Giudice

- Francesco          AMIRANTE       "

- Ugo                DE SIERVO      "

- Paolo              MADDALENA      "

- Alfio              FINOCCHIARO    "

- Alfonso            QUARANTA       "

- Franco             GALLO          "

- Gaetano            SILVESTRI      "

- Sabino             CASSESE        "

- Maria Rita         SAULLE         "

- Giuseppe           TESAURO        "

- Paolo Maria        NAPOLITANO     "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 24, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), come sostituito dall'art. 21 del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), promosso con ordinanza del 21 maggio 2007 dal Tribunale ordinario di Lucca nel procedimento civile vertente tra la Curatela del Fallimento del Calzaturificio Fiorina s.p.a. e la Cariprato - Cassa di Risparmio di Prato s.p.a., iscritta al n. 701 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 2007.

      Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 12 marzo 2008 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.

    Considerato che, con ordinanza depositata il 21 maggio 2007, il Tribunale ordinario di Lucca ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 76 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 24, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), come sostituito dall'art. 21 del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80);

    che il rimettente riferisce di essere chiamato a decidere su una controversia, introdotta dal curatore di una procedura fallimentare, avente ad oggetto la declaratoria di inefficacia rispetto alla massa fallimentare di talune rimesse operate dal fallito sul proprio conto corrente bancario in epoca successiva alla dichiarazione di fallimento e che il giudizio è stato iniziato in data 20 febbraio 2007 mediante il deposito di un ricorso, ai sensi dell'art. 24, secondo comma, della legge fallimentare, nel testo risultante a seguito delle modifiche contenute nella riforma delle procedure concorsuali attuata col d. lgs. n. 5 del 2006;

    che il rimettente - disattesa l'eccezione formulata da parte resistente riguardo alla irritualità della introduzione del giudizio, essendo, a suo avviso, applicabile la versione modificata dell'art. 24, secondo comma, della legge fallimentare anche alle procedure aperte, come quella in discorso, prima del 16 luglio 2007 - ha sollevato questione di legittimità costituzionale del ricordato art. 24, secondo comma, della legge fallimentare nella parte in cui dispone che, salva diversa previsione, si applicano alle controversie che derivano dal fallimento le norme previste dagli artt. da 737 a 742 del codice di procedura civile, regolanti il cosiddetto rito camerale;        

    che, quanto alla rilevanza della questione, il rimettente ritiene di dover applicare la norma censurata nel giudizio a quo, sostenendo che la azione proposta - volta, come detto, a far affermare la inefficacia rispetto alla massa di talune rimesse finanziarie effettuate dal fallito successivamente alla dichiarazione di fallimento -, in quanto derivante dal fallimento e instaurata successivamente al 16 luglio 2006, è, in base ai principi generali, soggetta alla nuova disciplina che prevede il rito camerale;

    che, aggiunge il giudice a quo, a conclusioni non diverse si giunge esaminando quanto previsto dall'art. 150 del d. lgs. n. 5 del 2006, il quale, dettando la disciplina transitoria applicabile alle disposizioni contenute nello stesso decreto legislativo, prevede, per quanto qui interessa, la perdurante applicabilità della previgente legislazione ai ricorsi per dichiarazione di fallimento presentati prima della entrata in vigore della riforma e alle procedure fallimentari già pendenti alla stessa data escludendo, quindi, dato il chiaro tenore di detta norma, che ne identifica e delimita l'oggetto, l'applicabilità della precedente disciplina alle azioni che, c ome quella di cui al giudizio a quo, pur derivando dal fallimento sono, comunque, autonome rispetto alla procedura concorsuale;

    che la non manifesta infondatezza della questione è prioritariamente dedotta dal Tribunale di Lucca  con riferimento alla violazione dell'art. 76, sesto comma, della Costituzione;

    che, infatti, per il rimettente, la legge 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell'ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), ha delegato al Governo il potere di «modificare la disciplina del fallimento»,  nel rispetto del criterio direttivo volto a «semplificare la disciplina attraverso l'estensione dei soggetti esonerati dall'applicabilità dell'istituto e l'accelerazione dell e procedure applicabili alle controversie in materia»;

    che da ciò il rimettente deduce che l'intervento legislativo delegato debba essere contenuto «nei limiti dell'oggetto della disciplina del processo fallimentare» e che, quindi, esso debba essere rivolto solo all'accelerazione delle procedure applicabili ai ricorsi per dichiarazione di fallimento e alle successive controversie endofallimentari, con esclusione dei processi ordinari semplicemente derivanti dal fallimento;

    che, a comprova di ciò, il rimettente rileva che nessuno dei restanti principi e criteri direttivi della delega appare consentire una nuova disciplina processuale delle azioni ordinarie che derivano dal fallimento;

    che, sempre secondo il Tribunale di Lucca, stando così le cose il legislatore delegato, nell'estendere a tutte le azioni derivanti dal fallimento il modello camerale, avrebbe ecceduto i limiti della delega;     

    che la disposizione censurata sarebbe, altresì, in contrasto anche con i parametri fissati dagli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, primo comma, della Costituzione;

    che, quanto al primo profilo, sarebbe in contrasto col canone della ragionevolezza imporre il modello processuale camerale «al di fuori dell'ambito funzionale di esso proprio», in particolare con riferimento a controversie «involgenti la tutela di diritti soggettivi», dato che sarebbe un modello processuale neutro, privo di regolamentazione della fase della cognizione, rimesso alla discrezionalità del giudice e destinato a concludersi con un provvedimento, in forma di decreto, caratterizzato dalla non definitività;

    che, in particolare, per il rimettente, il procedimento camerale sarebbe idoneo alla tutela solo di «mere e specifiche» facoltà, laddove garanzia fondamentale dei processi a cognizione piena, siano essi speciali o ordinari, è la predeterminazione delle forme e la suscettibilità dell'accertamento della situazione soggettiva a costituire giudicato;

    che, oltre che dall'irragionevolezza, la scelta del legislatore delegato sarebbe viziata anche dal diverso trattamento riservato a situazioni analoghe, diversità determinata solo dall'essere stata, o meno, una delle parti dichiarata fallita;

    che, per il rimettente, risulterebbe, altresì, violato l'art. 24, secondo comma, della Costituzione, posto che la norma censurata avrebbe l'effetto di esporre le parti a regole processuali legate a incerte «direttive giurisdizionali» variabili in ragione dei singoli uffici giudiziari;

    che la disposizione censurata sarebbe, infine, in contrasto con l'art. 111 della Costituzione, il quale impone che il giusto processo sia «regolato per legge», onde perseguire il fine suo proprio, «apparendo - la ricordata generalizzata estensione del modello camerale - in contrasto con l'intima essenza dello stesso principio del giusto processo»;

    che è intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato;

    che l'Avvocatura statale, in via preliminare, osserva che, a seguito della entrata in vigore del decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell'art. 1, commi 5, 5-bis, e 6 della legge 14 maggio 2005, n. 80), è stata abrogata la norma oggetto di incidente di costituzionalità;

    che, pertanto, l'Avvocatura sollecita la restituzione degli atti al giudice rimettente acciocché questi valuti la perdurante rilevanza della sollevata questione;

    che, nel merito, la questione sarebbe comunque infondata, posto che non potrebbe dubitarsi che la azione proposta nel giudizio a quo, volta alla determinazione della massa fallimentare, debba essere fatta rientrare nel concetto di «procedura concorsuale» di cui alla delega legislativa;

    che, quanto agli altri profili di illegittimità costituzionale dedotti, la difesa pubblica nega che il procedimento camerale fornisca minori garanzie rispetto al giudizio ordinario, essendo regolato dal codice di rito, assicurando la tutela delle parti in causa  e potendo condurre, coma da consolidata giurisprudenza, ad una decisione dotata della forza del giudicato;

    Ritenuto che, successivamente al deposito della ordinanza con la quale il Tribunale ordinario di Lucca ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 76 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 24, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa), come sostituito dall'art. 21 del decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell'art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), è entrato in vigore il decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nonché al decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell'art. 1, commi 5, 5-bis, e 6 della legge 14 maggio 2005, n. 80), che, all'art. 3, comma 1, ha espressamente previsto la abrogazione della disposizione oggetto del dubbio di legittimità costituzionale;

    che tale evenienza, frutto di sopravvenienza normativa, impone la restituzione degli atti al giudice rimettente, affinché questi valuti la perdurante rilevanza nel giudizio a quo della questione da lui sollevata.

      per questi motivi

    LA CORTE COSTITUZIONALE

    ordina la restituzione degli atti al Tribunale ordinario di Lucca.

    Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 aprile 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 118

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

- Franco             BILE            Presidente

- Giovanni Maria     FLICK             Giudice

- Ugo                   DE SIERVO              "

- Paolo              MADDALENA            "

- Alfio              FINOCCHIARO          "

- Alfonso            QUARANTA             "

- Franco             GALLO                "

- Luigi              MAZZELLA             "

- Gaetano            SILVESTRI            "

- Sabino             CASSESE              "

- Maria Rita         SAULLE               "

- Giuseppe           TESAURO              "

- Paolo Maria        NAPOLITANO           "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 19, comma 2, lettere c) e  d) del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), promosso con ordinanza del 3 aprile 2007 dal Giudice di pace di Novara sul ricorso proposto da H.A. contro il Prefetto di Novara, iscritta al n. 637 del registro ordinanze 2007 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell'anno 2007.

      Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nella camera di consiglio del 2 aprile 2008 il Giudice relatore Maria Rita Saulle.

    Ritenuto che, con ordinanza del 3 aprile 2007, il giudice di pace di Novara ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 19, comma 2, lettere c) e d), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nella parte in cui non estende il divieto di espulsione «allo straniero clandestino che sia convivente di una cittadina italiana, no nché padre del nascituro»;

    che il giudizio a quo ha ad oggetto il ricorso proposto da H. A., cittadino tunisino, avverso il provvedimento di espulsione emesso nei suoi confronti dal Prefetto di Novara;

    che il rimettente, dopo aver riferito che il provvedimento impugnato è stato adottato in quanto il ricorrente non ha provveduto al rinnovo del permesso di soggiorno, osserva che dalle dichiarazioni rese da H. A. e dalla sua convivente, di nazionalità italiana, nonché da fonti di prova documentale, risulterebbe che il ricorrente, oltre a convivere con la suddetta cittadina italiana, ha provveduto a riconoscere il nascituro concepito nel corso di tale relazione;

    che, a parere del rimettente, la mancata previsione, nei casi di specie, di un divieto di espulsione per lo straniero clandestino si pone in contrasto con l'art. 30 della Costituzione che, nel riconoscere piena tutela ai figli nati fuori dal matrimonio, riconosce il diritto di questi ultimi a crescere accanto ai propri genitori, i quali, a loro volta, hanno il diritto-dovere di educarli e istruirli;

    che, sempre secondo il giudice a quo, l'art. 19, comma 2, lettere c) e d), del d.lgs. n. 286 del 1998, viola l'art. 2 della Costituzione, rientrando tra i diritti inviolabili dell'uomo quello alla paternità ed all'unità della famiglia;

    che, a parere del rimettente, la disposizione censurata violerebbe, altresì, l'art. 3 della Costituzione, ponendo in essere una disparità di trattamento tra il figlio minore di genitori sposati e quello di genitori semplicemente conviventi, non potendo l'assenza del vincolo coniugale ridondare a danno del minore, il cui superiore interesse trova specifica tutela nell'art. 31 della Costituzione;

    che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sollevata sia dichiarata manifestamente inammissibile o manifestamente infondata;

    che, a parere della difesa erariale, difetterebbe il requisito della rilevanza, in quanto risulta privo di prova l'assunto, da cui muove il rimettente, secondo il quale vi sarebbe una reale ed effettiva relazione affettiva tra il ricorrente nel giudizio principale e la cittadina italiana, potendo la loro dedotta unione essere solo funzionale alla regolarizzazione della situazione di irregolarità dello straniero clandestino;

    che l'Avvocatura, dopo aver richiamato la giurisprudenza costituzionale che ha dichiarato manifestamente infondate analoghe questioni - sul presupposto che nella convivenza more uxorio difetta il requisito della certezza dei rapporti giuridici che giustifica il divieto di espulsione del solo marito cittadino extracomunitario - rileva che, in materia di immigrazione, dare rilevanza a rapporti di fatto potrebbe comportare una sostanziale elusione delle norme che disciplinano i flussi migratori.

    Considerato che il giudice di pace di Novara dubita della legittimità costituzionale dell'art. 19, comma 2, lettere c) e d), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), in riferimento agli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 della Costituzione, nella parte in cui non estende il divieto di espulsione «allo straniero clandestino che sia convivente di una cittadina italiana, nonché padre del nascituro»;

    che la sollevata questione si fonda su un doppio presupposto: l'esistenza di un rapporto di convivenza tra una cittadina italiana e uno straniero irregolare e il concepimento durante tale rapporto di un nascituro;

    che, a prescindere da quanto affermato da questa Corte sui rapporti tra famiglia legittima e relazioni di fatto e sulla relativa certezza delle relazioni familiari da queste ultime conseguenti (ex plurimis, ordinanza n. 444 del 2006), il rimettente nella propria ordinanza, in punto di rilevanza, afferma che se la questione sollevata «venisse ritenuta fondata dalla Ecc.ma Corte il ricorso dovrebbe essere accolto (laddove, su un piano di fatto, il ricorrente fosse in grado di provare - come è verosimile che avvenga - sia la convivenza con la cittadina italiana che la condizione di padre del nascituro)»;

    che, pertanto, la sollevata questione è posta in modo meramente ipotetico ed eventuale, non essendo certa l'esistenza del rapporto di convivenza e della conseguente paternità dedotti dal ricorrente nel giudizio principale e, pertanto, ne va dichiarata la manifesta inammissibilità (ex plurimis, ordinanza n. 311 del 2007);

     Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

   per questi motivi

    LA CORTE COSTITUZIONALE

      dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell'art. 19, comma 2, lettere c) e d), del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3, 29, 30 e 31 della Costituzione, dal giudice di pace di Novara, con l'ordinanza indicata in epigrafe.

      Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 aprile 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Maria Rita SAULLE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 119

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-     Franco            BILE         Presidente

-     Giovanni Maria    FLICK          Giudice

-     Francesco         AMIRANTE          "

-     Ugo               DE SIERVO         "

-     Alfio             FINOCCHIARO       "

-     Alfonso           QUARANTA          "

-     Luigi             MAZZELLA          "

-     Gaetano           SILVESTRI         "

-     Sabino            CASSESE           "

-     Maria Rita        SAULLE            "

-     Giuseppe          TESAURO           "

-     Paolo Maria       NAPOLITANO        "

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 99, secondo comma, del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), promossi dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Abruzzo, dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale centrale e dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Toscana, con ordinanze del 10 marzo 2006, del 16 maggio 2006 e del 30 marzo 2006 rispettivamente iscritte ai nn. 304, 432 e 540 del registro ordinanze 2006 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 37, 43 e 48, prima serie speciale, dell'anno 2006.

    Visti gli atti di costituzione dell'INPDAP, di L. A. ed altri, nonché l'atto di intervento, fuori termine, di S. S. e gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

    udito nell'udienza pubblica del 12 febbraio 2008 il Giudice relatore Francesco Amirante;

    uditi gli avvocati Filippo De Jorio per S. S., Paolo Guerra per L. A. ed altri, Dario Marinuzzi per l'INPDAP e l'avvocato dello Stato Giuseppe Nucaro per il Presidente del Consiglio dei ministri.

    Ritenuto che nel corso di un giudizio in cui il ricorrente, titolare di pensione diretta e di trattamento di reversibilità, aveva richiesto l'accertamento del diritto a percepire per intero l'indennità integrativa speciale su entrambe le pensioni (compresa la tredicesima mensilità), la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Abruzzo, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 36 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 99, secondo comma, del d.P.R. 29 dicembr e 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato);

    che il remittente ricorda come questa Corte, con la sentenza n. 494 del 1993, abbia dichiarato illegittima la norma impugnata nella parte in cui non prevedeva che, nei confronti dei titolari di due pensioni, pur restando vietato il cumulo delle indennità integrative speciali, dovesse comunque farsi salvo l'importo corrispondente al trattamento minimo di pensione previsto per il Fondo pensioni lavoratori dipendenti, sicché si deve ritenere che il menzionato divieto di cumulo continui a sussistere nel nostro ordinamento in caso di contestuale titolarità di due pensioni, anche se mitigato dalla necessità di assicurare su una delle due pensioni il trattamento minimo previsto per il suddetto Fondo;

    che il giudice a quo osserva come la citata decisione n. 494 del 1993 si colleghi logicamente con la precedente sentenza n. 566 del 1989, che aveva dichiarato l'illegittimità costituzionale, con una formula semplicemente ablativa, del quinto comma del medesimo art. 99 - il quale disponeva la sospensione dell'indennità integrativa speciale nei confronti dei pensionati che prestassero opera retribuita presso lo Stato, le amministrazioni pubbliche e gli enti pubblici - in quanto la norma non stabiliva il limite dell'emolumento dell'attività esplicata, al di sotto del quale la decurtazione fosse operante;

    che, pertanto, mentre nel caso di concorso di trattamenti pensionistici sarebbe stata la giurisprudenza di questa Corte ad individuare il livello del secondo reddito da salvaguardare (il trattamento minimo di pensione previsto per il Fondo pensioni lavoratori dipendenti), nel caso di concorso di pensione e di retribuzione detta giurisprudenza avrebbe disposto l'immediata rimozione dall'ordinamento del divieto di cumulo dell'indennità integrativa speciale, facendo salvo l'intervento del legislatore per stabilire il limite di retribuzione al di sotto del quale era ritenuto ammissibile il cumulo integrale fra il trattamento pensionistico e la retribuzione;

    che la Corte dei conti remittente esclude di poter interpretare il dispositivo della sentenza n. 494 del 1993 nel senso di dedurne la cancellazione dal nostro ordinamento del divieto di cumulo dell'indennità integrativa speciale nel caso di contestuale godimento di più trattamenti pensionistici, nonostante i successivi interventi di questa Corte sull'argomento (ordinanze n. 438 del 1998 e n. 517 del 2000 e sentenza n. 516 del 2000) possano, apparentemente, indurre ad una diversa conclusione;

    che simile restrittiva interpretazione sarebbe conforme anche a quanto ritenuto dalle Sezioni riunite della Corte dei conti con la sentenza n. 2/2006/QM;

    che, pertanto, il mancato intervento del legislatore nel senso ipotizzato dalla Corte costituzionale ha finito per rendere stabile e duraturo l'integrale cumulo dell'indennità integrativa speciale in caso di contestuale riscossione di pensione e trattamento retributivo (in ipotesi anche elevato), mentre il divieto di doppia percezione continua a sussistere, ancorché mitigato dall'erogazione comunque del trattamento minimo previsto per il Fondo pensioni lavoratori dipendenti, nel caso di due trattamenti pensionistici, benché, in buona parte dei casi, si tratti di pensioni di modesta entità;

    che il permanere di tale diversità comporta, ad avviso del remittente, una disparità di trattamento non compatibile con il principio di eguaglianza fissato dall'art. 3 della Costituzione, poiché il lavoratore subisce una «consistente falcidia del reddito complessivo per la perdita dell'indennità integrativa speciale goduta sulla pensione e per il minor importo tra stipendio e nuovo trattamento di pensione», di tal che, almeno per i casi più frequenti, resta vanificata «la funzione sociale connessa all'istituto dell'indennità integrativa speciale, con la conseguenza di un vulnus recato alle finalità perseguite dall'art. 36 della Costituzione»;

    che, inoltre, avendo l'art. 15 della legge 23 dicembre 1994, n. 724 stabilito il conglobamento dell'indennità integrativa speciale nella retribuzione prima, e nella successiva pensione poi, senza problemi di cumulo, si verrebbe a determinare un'ulteriore disparità di trattamento a seconda della data di collocamento in pensione, in quanto coloro i quali sono a riposo da un periodo antecedente il 1° gennaio 1995 si vedono applicato il divieto di cumulo che, viceversa, non sussiste per gli altri;

    che nel giudizio davanti a questa Corte si è costituito l'Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti dell'amministrazione pubblica, chiedendo che la questione venga dichiarata inammissibile o, in subordine, non fondata;

    che nel corso di un giudizio di appello - nel quale l'INPDAP aveva chiesto la riforma della sentenza con cui era stato riconosciuto il diritto dell'appellato a percepire l'indennità integrativa speciale in misura intera su ambedue i trattamenti di pensione di cui era titolare - la Corte dei conti, terza sezione giurisdizionale centrale, ha sollevato, in riferimento all'art. 3 Cost., questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 99, secondo comma, del d.P.R. n. 1092 del 1973;

    che il remittente premette di essersi in precedenza sempre pronunciato nel senso del riconoscimento del diritto alla corresponsione dell'indennità integrativa speciale in misura intera su più trattamenti di pensione, ma afferma di aver cambiato il proprio orientamento e di dover condividere ora l'orientamento indicato dalle sezioni riunite della Corte dei conti con la menzionata sentenza n. 2/QM/2006, in base al quale l'appello proposto dall'INPDAP dovrebbe essere accolto, con conseguente negazione del diritto di parte appellata alla corresponsione del richiesto emolumento, il che darebbe conto della rilevanza della questione;

    che un tale esito del giudizio, però, non sembra costituzionalmente legittimo, in quanto l'orientamento indicato dalla citata decisione delle sezioni riunite, da ritenere ormai «diritto vivente», fa sì che la doppia indennità integrativa speciale possa essere erogata solo al pensionato-lavoratore e non anche al titolare di due pensioni, in tal modo prospettandosi un'evidente discriminazione denunciabile con riguardo all'art. 3 Cost., tanto più che, tra le due situazioni, quella del percettore di reddito da sole pensioni è sicuramente più degna di tutela;

    che anche in questo giudizio si è costituito l'INPDAP che, con argomentazioni analoghe a quelle esposte nel precedente giudizio, ha chiesto che la questione venga, in via principale, dichiarata inammissibile, in quanto già decisa e non sollevata con riferimento a motivi nuovi o, in subordine, non fondata;

    che si è, altresì, costituita la parte privata appellata nel giudizio pendente, la quale ha chiesto che, in ipotesi di dichiarazione d'inammissibilità della questione, la Corte voglia ribadire, contrariamente a quanto sostenuto dalle sezioni riunite della Corte dei conti e fatto proprio dal giudice a quo, che il giudice di merito, anche nella ipotesi in esame, ha il potere-dovere di interpretare la norma in armonia con la Costituzione, nel rispetto delle regole indicate da questa Corte con i suoi più recenti interventi;

    che è tardivamente intervenuta in questo giudizio S.S., pur non essendo parte nel giudizio a quo;

    che nel corso di due giudizi nei quali i ricorrenti avevano chiesto il cumulo dell'indennità integrativa speciale su due distinti trattamenti pensionistici, la Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Toscana, ha sollevato questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 99, secondo comma, del d.P.R. n. 1092 del 1973, in riferimento agli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione;

    che il giudice a quo afferma che la questione è rilevante poiché l'art. 99, secondo comma, in oggetto, letto alla luce della sentenza costituzionale n. 494 del 1993, dovrebbe condurre al rigetto dei ricorsi, mentre la decisione sarebbe opposta in caso di accoglimento della prospettata questione;

    che la Corte dei conti precisa, in ordine all'ammissibilità dell'odierno dubbio di legittimità costituzionale, di volersi uniformare al più volte citato recente orientamento delle sezioni riunite della Corte dei conti (sentenza n. 2/QM/2006), secondo cui in caso di cumulo di più trattamenti pensionistici permane il divieto di cumulo dell'indennità integrativa speciale, con la sola salvezza del cosiddetto trattamento minimo INPS;

    che, richiamando ampi stralci della sentenza appena citata, il giudice a quo osserva come la legge n. 724 del 1994 segni il discrimine temporale dell'evoluzione normativa dell'indennità integrativa speciale - com'è stato riconosciuto anche dalla più recente giurisprudenza costituzionale e, soprattutto, dall'ordinanza n. 89 del 2005 di questa Corte - poiché il legislatore ha trasformato quella che era una retribuzione (differita) accessoria in retribuzione primaria, con ciò evidenziando il suo chiaro intento di non riproporre il precedente divieto, benché stemperato dalla tutela del minimo pensionistico;

    che la Corte remittente conclude chiedendo una pronuncia d'incostituzionalità della norma censurata «sotto la nuova ottica (rispetto all'assetto normativo che ha conosciuto il giudice costituzionale del 1993), in quanto, diversamente opinando, si verserebbe nella macroscopica disparità di trattamento tra i percettori di plurimi pensionistici ante legge n. 724 del 1994 (che godrebbero del mantenimento di più indennità integrative speciali, ma ancorate inevitabilmente al cosiddetto minimo INPS) e i percettori di plurime pensioni post legge n. 724 del 1994 (i quali, a parità di condizioni e di trattamenti pensionistici, solo temp oralmente differenziati quanto al momento della loro liquidazione, godrebbero di indennità integrative speciali senz'altro integrali)»;

    che nel giudizio davanti a questa Corte si sono costituite le parti ricorrenti, con un'ampia memoria difensiva, concludendo nel senso che l'originario divieto di cumulo, dichiarato più volte illegittimo, non può rivivere sulla base del solo dettato della sentenza n. 494 del 1993 - in quanto questa pronuncia va letta alla luce dei successivi provvedimenti di questa Corte - ed aggiungendo che, ove così non fosse, questa Corte «non potrebbe non riesaminare la legittimità della norma dichiarata illegittima con sentenza additiva-manipolativa, scrutinandola, questa volta, sotto altri parametri di costituzionalità e dichiarandola illegittima con sentenza "ablatoria" in difetto d'intervento da parte del legislatore»;

    che in tutti e tre i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la non fondatezza della questione.

    Considerato che la sezione giurisdizionale per la Regione Abruzzo e la sezione giurisdizionale per la Regione Toscana della Corte dei conti, nonché la terza sezione giurisdizionale centrale della medesima Corte hanno sollevato, in riferimento agli artt. 3, 36 e 38 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell'art. 99, secondo comma, del d. P.R. 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato);

    che, preliminarmente ed indipendentemente dalla tardività, deve essere dichiarato inammissibile l'intervento di S.S., trattandosi di soggetto parte di un diverso giudizio, genericamente ritenuto simile a quello promosso dalla Corte dei conti, terza sezione giurisdizionale centrale (come da ordinanza letta all'udienza del 12 febbraio 2008);

    che, successivamente alla proposizione delle questioni, è entrata in vigore la legge 27 dicembre 2006, n. 296;

    che l'art. 1, comma 776, di tale legge ha abrogato l'art. 15, comma 5, della legge n. 724 del 1994, mentre l'art. 1, comma 774, della medesima ha dettato una norma di interpretazione autentica relativa al computo dell'indennità integrativa speciale per le pensioni di reversibilità, applicabile indipendentemente dalla data di decorrenza della pensione diretta (si veda sul punto la recente sentenza n. 74 del 2008);

    che la citata abrogazione dell'art. 15, comma 5, della legge n. 724 del 1994 ha, di fatto, eliminato anche il riferimento alla perdurante applicabilità - quanto alle pensioni dirette liquidate fino al 31 dicembre 1994 e a quelle di riversibilità ad esse riferite - delle disposizioni relative alla corresponsione dell'indennità integrativa speciale sui trattamenti di pensione previste dall'art. 2 della legge n. 324 del 1959 e successive modificazioni;

    che, alla luce di tali modifiche del quadro normativo, costituenti ius superveniens nell'ambito dei giudizi a quibus, appare opportuno restituire gli atti ai giudici remittenti affinché procedano - anche ai fini della verifica delle condizioni di ammissibilità - ad una nuova valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza delle questioni da loro sollevate.

Per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara inammissibile l'intervento di S.S.;

    ordina la restituzione degli atti alla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Abruzzo, sezione giurisdizionale per la Regione Toscana e terza sezione giurisdizionale centrale.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 aprile 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Francesco AMIRANTE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA

   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Allegato:

ordinanza letta all'udienza del 12 febbraio 2008

 

ORDINANZA

    Ritenuto che al giudizio incidentale di legittimità costituzionale possono partecipare soltanto i soggetti che siano parti del giudizio a quo o siano titolari di un interesse autonomo, idoneo ad essere pregiudicato dalla decisione;

    che tale situazione, secondo la costante giurisprudenza della Corte stessa, non può essere riconosciuta in capo alle parti di giudizi che si assumono simili a quello in cui è stata emessa l'ordinanza di rimessione;

    che in tale situazione si trova S. S. il cui intervento è pertanto inammissibile indipendentemente dalla sua tardività.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    dichiara inammissibile l'intervento di S. S.

   

    F.to: Franco BILE, Presidente
pronuncia precedente

SENTENZA N. 120

ANNO 2008

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori:

-  Franco         BILE               Presidente

-  Giovanni Maria FLICK                Giudice

-  Francesco      AMIRANTE                "

-  Ugo            DE SIERVO               "

-  Paolo          MADDALENA               "

-  Alfio          FINOCCHIARO             "

-  Alfonso        QUARANTA                "

-  Franco         GALLO                   "

-  Luigi          MAZZELLA                "

-  Gaetano        SILVESTRI               "

-  Sabino         CASSESE                 "

-  Maria Rita     SAULLE                  "

-  Giuseppe       TESAURO                 "

-  Paolo Maria    NAPOLITANO              "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 565, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), promossi con i ricorsi delle Regioni Valle D'Aosta e Veneto notificati il 22 e il 23 febbraio 2007, depositati in cancelleria il 28 febbraio e il 1° marzo 2007 ed iscritti ai numeri 9 e 10 del registro ricorsi 2007.

      Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

      udito nell'udienza pubblica del 29 gennaio 2008 il Giudice relatore Franco Gallo;

      uditi gli avvocati Francesco Saverio Marini per la Regione Valle d'Aosta, Mario Bertolissi per la Regione Veneto e l'avvocato dello Stato Gabriella D'Avanzo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

    1. - Le Regioni Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste e Veneto hanno promosso questioni di legittimità costituzionale di numerose disposizioni della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), e, tra queste, dell'art. 1, comma 565.

    1.1. - Il comma 565 - «in attuazione del protocollo d'intesa tra il Governo, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano, per un patto nazionale per la salute, sul quale la Conferenza delle regioni e delle province autonome, in data 28 settembre 2006, ha espresso la propria condivisione» - detta una complessa disciplina delle spese relative al personale degli enti del Servizio sanitario nazionale al fine precipuo di «garantire il rispetto degli obblighi comunitari e la realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica per il triennio 2007-2009».

    In particolare, detto comma, alla lettera a), dispone che «gli enti del Servizio sanitario nazionale, fermo restando quanto previsto per gli anni 2005 e 2006 dall'articolo 1, commi 98 e 107, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e, per l'anno 2006, dall'articolo 1, comma 198, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, concorrono alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica adottando misure necessarie a garantire che le spese del personale, al lordo degli oneri riflessi a carico delle amministrazioni e dell'IRAP, non superino per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009 il corrispondente ammontare dell'anno 2004 diminuito dell'1,4 per cento». La medesima disposizione chiarisce che «A tale fine si considerano anc he le spese per il personale con rapporto di lavoro a tempo determinato, con contratto di collaborazione coordinata e continuativa, o che presta servizio con altre forme di rapporto di lavoro flessibile o con convenzioni».

    Secondo la successiva lettera b), «ai fini dell'applicazione delle disposizioni di cui alla lettera a), le spese di personale sono considerate al netto: 1) per l'anno 2004, delle spese per arretrati relativi ad anni precedenti per rinnovo dei contratti collettivi nazionali di lavoro; 2) per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009, delle spese derivanti dai rinnovi dei contratti collettivi nazionali di lavoro intervenuti successivamente all'anno 2004». Secondo il dettato normativo, «Sono comunque fatte salve, e pertanto devono essere escluse sia per l'anno 2004 sia per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009, le spese di personale totalmente a carico di finanziamenti comunita ri o privati nonché le spese relative alle assunzioni a tempo determinato e ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa per l'attuazione di progetti di ricerca finanziati ai sensi dell'articolo 12-bis del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502, e successive modificazioni».

    La lettera c) prevede che «gli enti destinatari delle disposizioni di cui alla lettera a), nell'ambito degli indirizzi fissati dalle regioni nella loro autonomia, per il conseguimento degli obiettivi di contenimento della spesa previsti dalla medesima lettera: 1) individuano la consistenza organica del personale dipendente a tempo indeterminato in servizio alla data del 31 dicembre 2006 e la relativa spesa; 2) individuano la consistenza del personale che alla medesima data del 31 dicembre 2006 presta servizio con rapporto di lavoro a tempo determinato, con contratto di collaborazione coordinata e continuativa o con altre forme di lavoro flessibile o con convenzioni e la relativa spesa; 3) predispongono un programma annuale di revisione delle predette consistenze finalizzato alla riduzione della spesa complessiva di personale [.]; 4) fanno riferimento, per la determinazione dei fondi per il finanziamento della contrattazione integrativa, alle disposizioni recate dall'articolo 1, commi 189, 191 e 194, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, al fine di rendere coerente la consistenza dei fondi stessi con gli obiettivi di riduzione della spesa complessiva di personale e di rideterminazione della consistenza organica». Per quanto riguarda il suddetto programma annuale di revisione, la medesima lettera stabilisce inoltre che, «nel rispetto dell'obiettivo di cui alla lettera a), può essere valutata la possibilità di trasformare le posizioni di lavoro già ricoperte da personale precario in posizioni di lavoro dipendente a tempo indeterminato». «A tale fine» - prosegue detta disposizione - «le regioni nella definizion e degli indirizzi di cui alla presente lettera possono nella loro autonomia far riferimento ai princípi desumibili dalle disposizioni di cui ai commi da 513 a 543».

    La lettera d), nel perseguire l'implicito obiettivo di coordinamento del quadro normativo vigente in materia di riduzione delle spese per il personale degli enti del Servizio sanitario nazionale, dispone invece che «a decorrere dalla data di entrata in vigore della presente legge per gli enti del Servizio sanitario nazionale le misure previste per gli anni 2007 e 2008 dall'articolo 1, comma 98, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e dall'articolo 1, commi da 198 a 206, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, sono sostituite da quelle indicate nel presente comma».

    La lettera e) del medesimo comma stabilisce, infine, che «alla verifica dell'effettivo conseguimento degli obiettivi previsti dalle disposizioni di cui alla lettera a) per gli anni 2007, 2008 e 2009, nonché di quelli previsti per i medesimi enti del Servizio sanitario nazionale dall'articolo 1, commi 98 e 107, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, per gli anni 2005 e 2006 e dall'articolo 1, comma 198, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, per l'anno 2006, si provvede nell'ambito del Tavolo tecnico per la verifica degli adempimenti di cui all'articolo 12 dell'intesa 23 marzo 2005, sancita dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le regioni e le province au tonome di Trento e di Bolzano, pubblicata nel supplemento ordinario n. 83 alla Gazzetta Ufficiale n. 105 del 7 maggio 2005». Detta lettera, al riguardo, chiarisce che «La regione è giudicata adempiente accertato l'effettivo conseguimento degli obiettivi previsti». «In caso contrario» - prosegue la medesima lettera e) - «la regione è considerata adempiente solo ove abbia comunque assicurato l'equilibrio economico».

    2. - Con ricorso notificato il 22 febbraio 2007, depositato il successivo 28 febbraio ed iscritto al n. 9 del registro ricorsi 2007, la Regione Valle d'Aosta ha promosso questioni di legittimità costituzionale del citato comma 565 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006.

    2.1. - Dopo aver affermato che la disposizione impugnata «incide sulla competenza legislativa in materia di "igiene e sanità, assistenza ospedaliera e profilattica" spettante alla regione ai sensi dell'art. 3, lett. l) dello Statuto speciale», la ricorrente deduce, con un primo motivo di censura, la violazione dell'art. 117, terzo e quarto comma, della Costituzione, in combinato disposto con l'art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione), in quanto «a seguito della riforma del Titolo V della Parte seconda della Costituzione» la citata previsione «delinea forme di autonomia più ampie di quelle già attribuite dallo Statuto». Secondo la Regione, il comma 565, riferendosi ad una specifica voce di spesa (quella riguardante il personale degli enti del Servizio sanitario nazionale), lede la competenza legislativa residuale in materia di «organizzazione dei servizi sanitari», in cui le Regioni, prosegue la ricorrente medesima, ben «possono adottare "una propria disciplina anche sostitutiva di quella statale"» in forza dell'art. 117, quarto comma, Cost.

    Sempre secondo la ricorrente, «Anche qualora si ritenesse che l'organizzazione dei servizi sanitari non costituisca una materia di competenza residuale regionale ai sensi del quarto comma dell'art. 117 della Costituzione, ma un aspetto rientrante nella materia tutela della salute di competenza concorrente ai senso del terzo comma del medesimo art. 117», la disposizione censurata lederebbe comunque la sfera delle competenze legislative regionali perché detta una disciplina che «esorbita dall'àmbito dei princípi fondamentali» della materia («solo a titolo esemplificativo», la Regione ricorda che la disposizione censurata individua in modo puntuale specifiche voci di spesa, determina l'entità delle riduzioni, stabilisce le tipologie di personale oggetto dell'intervento, fissa le modalità di calcolo della spesa da ridurre).

    Né potrebbe ritenersi - prosegue la ricorrente - che l'intervenuta «condivisione» degli obiettivi di finanza pubblica per il triennio 2007-2009 in seno alla Conferenza delle Regioni e delle province autonome possa giustificare dette misure, non concernendo l'assenso dato in quella sede le specifiche modalità attuative contenute nel comma censurato, ma solo gli obiettivi di massima presupposti da queste ultime.

    Sempre con il primo motivo di censura, la ricorrente deduce altresí la violazione degli artt. 117, terzo comma, e 119, secondo comma, Cost., in combinato disposto con l'art. 10 della legge cost. n. 3 del 2001. Secondo la Regione, il comma 565 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006 non si limita infatti ad introdurre un vincolo complessivo alla spesa regionale, ma disciplina una specifica voce di spesa, in netto e diretto contrasto con l'art. 119, secondo comma, Cost., che, appunto, «arresta la competenza statale esclusivamente alla determinazione dei princípi di coordinamento e determina l'illegittimità di norme, quali quelle contenute nel comma censurato, che si spingono ben al di là di t ale soglia». La ricorrente richiama al riguardo la giurisprudenza di questa Corte secondo cui le norme che fissano vincoli puntuali a singole voci di spesa dei bilanci delle Regioni e degli enti locali non costituiscono princípi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica.

    Né - secondo la Regione - la lettera e) del comma impugnato (secondo cui «la regione è considerata adempiente solo ove abbia comunque assicurato l'equilibrio economico») consentirebbe di escludere la lamentata violazione dell'autonomia finanziaria regionale. Al riguardo, la ricorrente ritiene che questa disposizione non faccia venire meno gli obblighi (sia di riduzione della spesa, sia di compimento delle relative attività ricognitive ed attuative) comunque gravanti sugli enti del Servizio sanitario nazionale, ma si limiti piuttosto «a prevedere una modalità alternativa di accertamento del raggiungimento di quegli obiettivi».

    2.2. - Con un secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione dei princípi di leale collaborazione e di ragionevolezza, in quanto la previsione del tetto di spesa per il personale del Servizio sanitario nazionale nel triennio 2007-2009 «non tiene conto delle misure e degli atti» già adottati dalla Regione in ottemperanza a quanto disposto dalle precedenti leggi finanziarie per il triennio 2006-2008, periodo per il quale dette leggi finanziarie fissavano una riduzione della stessa voce di spesa «solo» dell'1 per cento.

    Detti princípi imporrebbero invece - secondo la Regione - di «non introdurre unilateralmente variazioni, anche di carattere normativo, in grado di determinare un vulnus al legittimo affidamento, sulla base del quale siano stati assunti, dagli altri enti, atti e comportamenti specifici che, in seguito a dette variazioni, si rivelino per esse irrimediabilmente pregiudizievoli».

    In sostanza, la normativa censurata, proprio perché è in grado di porre ex ante la Regione in una situazione di «irrimediabile inadempimento» rispetto ai nuovi parametri, anche ove essa tenesse d'ora in avanti un comportamento «virtuoso ed ineccepibile», contrasterebbe in modo insanabile con i suindicati princípi.

    3. - Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate infondate.

    La difesa erariale afferma che le impugnate misure di contenimento della spesa - inerendo ad una «complessiva manovra» volta al rispetto degli obblighi comunitari concernenti il riequilibrio dei conti pubblici - rientrano nell'ambito di materie attribuite alla competenza legislativa esclusiva statale, quali «rapporti dello Stato con l'Unione Europea» e «moneta [.] e mercati finanziari» (art. 117, secondo comma, rispettivamente lettere a ed e, Cost.). Inoltre, la difesa erariale afferma che il comma impugnato non introduce vincoli a singole voci di spesa, ma solo «una disciplina di principio, che lascia agli enti territoriali e locali un'ampia autonomia nella gestione del la spesa».

    Anche laddove la disposizione censurata richiede lo svolgimento di specifiche attività (lettera c, numeri 1, 2 e 3), essa - secondo l'Avvocatura generale - riconosce adeguati spazi all'autonomia regionale, stante la clausola di cui alla medesima lettera c), secondo la quale gli enti del Servizio sanitario nazionale provvedono a dette attività «nell'ambito degli indirizzi fissati dalle regioni nella loro autonomia».

    4. - La Regione Veneto, con ricorso regolarmente notificato il 23 febbraio 2007, depositato il successivo 1 marzo ed iscritto al n. 10 del registro ricorsi 2007, ha promosso questioni di legittimità costituzionale dell'art. 1, comma 565, della legge n. 296 del 2006.

    La Regione preliminarmente afferma che essa è «pienamente legittimata» e ha «pieno interesse» ad impugnare la suddetta disposizione in quanto quest'ultima è finalizzata a garantire il rispetto di quegli obblighi comunitari e di quegli obiettivi che riguardano anche le Regioni, quali enti tenuti al rispetto del Patto di stabilità interno. Tale conclusione - prosegue la Regione - è confermata dal riferimento espresso a detti enti territoriali contenuto nella lettera e) del comma impugnato.

    4.1. - Quanto al merito delle censure, la ricorrente afferma che detta disposizione, dal «carattere estremamente dettagliato», deve essere inquadrata nell'àmbito della materia «armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario», rimessa alla potestà legislativa concorrente di Stato e Regioni (art. 117, terzo comma, Cost.). Secondo la Regione Veneto, il comma impugnato víola pertanto il terzo comma dell'art. 117 Cost., perché la materia oggetto dell'intervento legislativo censurato rientra in un ambito in cui allo Stato spetta solo il potere di dettare i princípi fondamentali della materia e non disposizioni, quali quelle impugnate, che invece introducono precetti specifici e puntuali.

    4.2. - Sotto altro profilo, la Regione rileva che la medesima disposizione impugnata introduce un limite puntuale ad una singola voce di spesa, in modo tale da non lasciare a detto ente alcuna libertà in ordine all'allocazione delle risorse fra i diversi possibili àmbiti e obiettivi di spesa (sentenza n. 36 del 2004). Il comma 565 viola cosí, secondo la ricorrente, anche l'autonomia finanziaria regionale garantita dall'art. 119 Cost., che avrebbe richiesto la fissazione ad opera dello Stato del solo «limite complessivo» alla spesa regionale.

    Anzi, secondo la medesima Regione Veneto, «quando, come avviene nel caso di specie, una norma statale preveda limiti all'entità di una singola voce di spesa, essa è in palese contrasto sia con l'art. 117, terzo comma, Cost., da cui si ricava che lo Stato deve fissare solo i princípi fondamentali nella materia "coordinamento della finanza pubblica", sia con l'art. 119 Cost., da cui si ricava che le regioni hanno autonomia di spesa».

    4.3. - Sempre ad avviso della ricorrente, «Da quanto fin qui detto, consegue, de plano, anche la violazione dell'art. 118 Cost.».

    5. - Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate infondate e ribadendo, quanto al merito delle censure, le medesime argomentazioni già formulate nell'atto di costituzione nel giudizio sul ricorso iscritto al n. 9 del registro ricorsi del 2007.

    In particolare, l'Avvocatura rileva che la disposizione impugnata rientra negli àmbiti di potestà legislativa esclusiva statale di cui all'art. 117, secondo comma, lettere a) ed e), Cost., e che il comma impugnato non introduce vincoli a singole voci di spesa, ma solo una disciplina di principio.

    6. - In data 15 gennaio 2008 la Regione Veneto ha depositato una memoria con cui ribadisce la propria legittimazione ed il proprio interesse al ricorso e, quanto al merito, precisa che: a) la disposizione impugnata non può essere inquadrata nell'ambito delle materie di cui all'art. 117, secondo comma, lettere a) ed e), Cost. - come ritenuto dall'Avvocatura erariale - in quanto tale impostazione condurrebbe alla conseguenza di considerare come rientrante nei medesimi àmbiti costituzionali di competenza «una moltitudine di materie, visto l'incisivo "condizionamento" esercitato dalle fonti comunitarie europee nel contesto dell'ordinamento italiano»; b) «la norma de qua non può essere considerata norma di principio volta al coordinamento della finanza pubblica» in quanto «introduce un limite puntuale ad una singola voce di spesa»; c) la medesima disposizione non soddisfa comunque i requisiti richiesti dalla giurisprudenza costituzionale affinché le norme statali che fissino limiti alla spesa regionale possano qualificarsi come principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica, in quanto detta norma, da un lato, non ha carattere temporaneo e, dall'altro, impone agli enti del Servizio sanitario nazionale di operare una riduzione di spesa in un àmbito, quello della spesa per il personale, che è in ampia misura vincolato alla retribuzione di dipendenti a tempo indeterminato, sicché la medesima disposizione finirebbe con l'introdurre surrettiziamente misure sostanzialmente «obbligate».

Considerato in diritto

    1. - I giudizi di legittimità costituzionale indicati in epigrafe sono stati promossi dalle Regioni Veneto e Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste, e hanno per oggetto vari commi dell'art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), tra i quali, per quanto qui interessa, il comma 565, nella versione precedente alle modificazioni, prive di efficacia retroattiva, apportate dall'art. 1, comma 115, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008).

    Il comma impugnato stabilisce che le spese per il personale del Servizio sanitario nazionale non devono superare - per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009 - il corrispondente ammontare dell'anno 2004 diminuito dell'1,4 per cento (lettera a). Esso prevede modalità di computo della spesa oggetto della riduzione (lettera b) e richiede, a carico degli enti destinatari della misura di cui alla medesima lettera a), lo svolgimento di determinate attività amministrative (individuazione della consistenza del personale dipendente a tempo determinato ed indeterminato, predisposizione di un programma annuale di revisione delle predette co nsistenze). Alla lettera c), il medesimo comma, da un lato, autorizza gli enti del Servizio sanitario nazionale a valutare «la possibilità di trasformare le posizioni di lavoro già ricoperte da personale precario in posizioni di lavoro dipendente a tempo indeterminato» e, dall'altro, prevede che questi ultimi enti «fanno riferimento, per la determinazione dei fondi per il finanziamento della contrattazione integrativa, alle disposizioni recate dall'art. 1, commi 198, 191 e 194, della legge 23 dicembre 2005, n. 266». Infine, oltre a disporre l'abrogazione delle precedenti misure incompatibili con quelle da esso stesso stabilite (lettera d), il comma 565 individua in un tavolo tecnico - quello previsto dall'articolo 12 dell'intesa raggiunta il 23 marzo 2005 in seno alla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano - la sede per la verifica dell'effettivo conseguimento dei previsti obiettivi di contenimento della spesa (lettera e).

    1.1. - La ricorrente Regione Veneto censura detta disposizione nel suo complesso e in ciascuna delle indicate lettere di cui questa si compone, in riferimento agli artt. 117, terzo comma, e 119, secondo comma, della Costituzione, per violazione dell'autonomia legislativa e finanziaria della Regione, in quanto pone, per il triennio dal 2007 al 2009, un limite puntuale e specifico alla spesa per il personale degli enti del Servizio sanitario nazionale (in misura pari a quella dell'anno 2004, ridotta dell'uno virgola quattro per cento) e non rientra, perciò, tra i princípi fondamentali del coordinamento della finanza pubblica, la cui fissazione è riservata alla competenza leg islativa dello Stato. La medesima ricorrente afferma, altresí, che «Da quanto fin qui detto, consegue, de plano, anche la violazione dell'art. 118 Cost.».

    1.2. - La Regione Valle d'Aosta, sul presupposto che i parametri del Titolo V della Parte II della Costituzione prevedono una forma di autonomia più ampia di quella attribuitale dallo statuto speciale, censura - in riferimento all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001 - il medesimo comma 565 nel suo complesso per violazione: a) del quarto comma dell'art. 117 Cost., in quanto la disposizione censurata attiene alla materia dell'organizzazione dei servizi sanitari, rientrante nella competenza legislativa residuale delle Regioni; b) in subordine, del terzo comma dello stesso art. 117 Cost., in quanto la disposizione medesima detterebbe una disciplina che «esorbita dall'ambito d ei princípi fondamentali» nella materia della tutela della salute, materia rientrante, invece, nella potestà legislativa concorrente; c) degli artt. 117, terzo comma, e 119, secondo comma, Cost., in quanto il comma censurato non contiene un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, ma determina in modo specifico e puntuale la voce di spesa riguardante il personale del Servizio sanitario nazionale, ledendo, cosí, l'autonomia finanziaria regionale, tanto più che, ai sensi dell'art. 34, comma 3, della legge 23 dicembre 1994, n. 724, gli enti del servizio sanitario nazionale sono interamente finanziati dalla Regione ricorrente, senza alcun apporto dello Stato.

    Infine, la Regione lamenta la violazione del principio di ragionevolezza e del principio di leale collaborazione, perché la disposizione censurata, non tenendo conto degli atti e degli impegni di spesa già legittimamente adottati dalla Regione secondo le leggi finanziarie per il triennio dal 2006 al 2008, introdurrebbe unilateralmente «variazioni, anche di carattere normativo», in grado sia di «determinare un vulnus al legittimo affidamento» dell'ente territoriale nella stabilità del quadro normativo, sia di porre la Regione medesima nella condizione di non poter adempier e agli obblighi di legge.

    2. - La trattazione delle indicate questioni di legittimità costituzionale, concernenti il comma 565 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, viene qui separata da quella delle questioni riguardanti altri commi dell'art. 1, promosse con i medesimi ricorsi, per le quali è opportuno procedere ad un esame distinto.

    Le questioni cosí separate, relative al solo comma 565, vanno quindi riunite per essere congiuntamente trattate e decise con un'unica pronuncia,  in considerazione della rilevata identità della disposizione censurata e della parziale coincidenza delle censure prospettate.

    3. - Va preliminarmente rilevato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, le Regioni sono legittimate a denunciare una legge statale che introduca limiti di spesa per gli enti del servizio sanitario nazionale, data la stretta connessione sussistente tra la spesa di tali enti e l'equilibrio complessivo della finanza regionale (sentenze n. 169 e n. 162 del 2007). Nella specie, tale conclusione trova conferma nella lettera e) della medesima disposizione, la quale stabilisce che è a carico delle Regioni l'"adempimento" degli obiettivi di contenimento della spesa relativa anche agli enti del Servizio sanitario nazionale di cui alla lettera a) dello stesso comm a.

    4. - Sempre in via preliminare, deve essere dichiarata inammissibile per insufficiente motivazione la questione posta dalla Regione Veneto con riferimento all'art. 118 Cost. Manca infatti una seppur minima motivazione della censura proposta. È costante giurisprudenza di questa Corte che il ricorso in via principale non solo deve identificare esattamente la questione nei suoi termini specifici, ma deve anche contenere una seppur sintetica argomentazione di merito, a sostegno della richiesta declaratoria d'incostituzionalità, sussistendo l'esigenza di un'adeguata (e non meramente assertiva) motivazione delle ragioni dell'impugnativa (ex plurimis, sentenze n. 38 del 2007; n. 233 del 2 006).

    5. - Le altre questioni di legittimità costituzionale del comma 565 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, promosse dalla ricorrente Regione Veneto, non sono fondate.

    Nella giurisprudenza di questa Corte è ormai consolidato l'orientamento secondo cui norme statali che fissano limiti alla spesa delle Regioni e degli enti locali possono qualificarsi princípi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica alla seguente duplice condizione: in primo luogo, che si limitino a porre obiettivi di riequilibrio della medesima, intesi nel senso di un transitorio contenimento complessivo, anche se non generale, della spesa corrente; in secondo luogo, che non prevedano in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi (sentenze n. 412 e n. 169 del 2007; n. 88 del 2006).

    Contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, la disposizione denunciata - in particolare la lettera a) del comma 565 - risponde a entrambe dette condizioni.

    La prima è soddisfatta, perché il censurato limite fissato dal legislatore ha natura transitoria, operando solo per il triennio 2007-2009, e riguarda la spesa complessiva per il personale degli enti del Servizio sanitario nazionale, cioè un rilevante aggregato della spesa di parte corrente, che costituisce una delle più frequenti e rilevanti cause del disavanzo pubblico. Il legislatore, dunque, ha perseguito generali obiettivi di riequilibrio della finanza pubblica, incidendo temporaneamente su una complessiva e non minuta voce di spesa (per una analoga fattispecie: sentenza n. 169 del 2007).

    La seconda condizione è soddisfatta, perché la norma censurata non determina gli strumenti e le modalità per il perseguimento del predetto obiettivo, ma lascia libere le Regioni di individuare le misure necessarie al fine del contenimento della spesa per il personale. Al riguardo, la lettera e) del medesimo comma 565 stabilisce, anzi, che la Regione «è considerata adempiente» alle prescrizioni della legge anche quando non abbia raggiunto l'obiettivo di contenimento della spesa del personale degli enti del Servizio sanitario nazionale, purché essa «abbia comunque assicurato l'equilibrio economico».

    La disposizione di cui alla lettera a) del comma 565 va qualificata, dunque, come principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica e, conseguentemente, vanno dichiarate non fondate le proposte questioni di legittimità costituzionale.

    6. - Dalla riconosciuta natura di principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica della disposizione di cui alla lettera a) del comma 565 discende la non fondatezza delle censure relative alle lettere b) ed e) del medesimo comma. Queste disposizioni, infatti, hanno la stessa natura di principio fondamentale della suddetta lettera a), perché si limitano ad integrarne il contenuto.

    6.1. - In particolare, la lettera b) determina le modalità di computo della spesa per il personale oggetto della riduzione di cui alla lettera a), prevedendo che «le spese di personale sono considerate al netto: 1) per l'anno 2004, delle spese per arretrati relativi ad anni precedenti per rinnovo dei contratti collettivi nazionali di lavoro; 2) per ciascuno degli anni 2007, 2008 e 2009, delle spese derivanti dai rinnovi dei contratti collettivi nazionali di lavoro intervenuti successivamente all'anno 2004».

    6.2. - La lettera e) dello stesso comma 565 individua in un "tavolo tecnico" - quello previsto dall'articolo 12 dell'intesa raggiunta il 23 marzo 2005 in seno alla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano - la sede per la verifica dell'effettivo conseguimento degli obiettivi di contenimento della spesa stabiliti, per il personale del Servizio sanitario nazionale, sia dalla lettera a) del medesimo comma 565 (per gli anni 2007, 2008 e 2009), sia dal comma 198 dell'art. 1 della legge 266 del 2005 (per l'anno 2006), sia dai commi 98 e 107 dell'art. 1 della legge n. 311 del 2004 (per gli anni 2005 e 2006). La citata lettera e), quindi, per quanto rileva ai fini del presente giudizio, stabilisce le modalità di verifica del rispetto degli adempimenti previsti dalla lettera a).

    7. - Anche le questioni poste con riferimento alla lettera c) del comma 565 non sono fondate.

    Quanto alle disposizioni dei numeri 1, 2 e 3 di tale lettera, esse, al fine dell'attuazione del menzionato principio di contenimento della spesa di cui alla lettera a), si limitano a richiedere - «nell'ambito degli indirizzi fissati dalle Regioni nella loro autonomia» - lo svolgimento di attività amministrative meramente ricognitive dello stato di fatto e, pertanto, attività strumentali all'attuazione della citata lettera a) (individuazione della consistenza del personale dipendente a tempo determinato ed indeterminato, predisposizione di un programma annuale di revisione delle predette consistenze: numeri 1, 2, 3, primo periodo). Nello stesso tempo, attribu iscono ai loro destinatari la mera facoltà e non l'obbligo di effettuare valutazioni ai fini della trasformazione dei rapporti di lavoro (numero 3, secondo e terzo periodo).

    Quanto al numero 4 della medesima lettera c), esso prevede che gli enti del Servizio sanitario nazionale «fanno riferimento, per la determinazione dei fondi per il finanziamento della contrattazione integrativa, alle disposizioni recate dall'articolo 1, commi 189, 191 e 194 della legge 23 dicembre 2005, n. 266, al fine di rendere coerente la consistenza dei fondi stessi con gli obiettivi di riduzione della spesa complessiva di personale e di rideterminazione della consistenza organica». Tale disposizione si limita, dunque, ad indicare agli enti destinatari, quale generico parametro di coerenza per la determinazione della consistenza dei richiamati fondi, il corrisp ondente regime fissato per le amministrazioni statali ed altri enti pubblici dai commi 189, 191 e 194 dell'art. 1 della legge 23 dicembre 2005, n. 266. E ciò pur sempre - come previsto dall'alinea della citata lettera c) - «nell'ambito degli indirizzi fissati dalle regioni nella loro autonomia, per il conseguimento degli obiettivi di contenimento della spesa» e, quindi, senza stabilire per tali enti il medesimo vincolo di spesa previsto da detti commi.

    8. - Nemmeno le questioni poste con riferimento alla lettera d) del comma 565 sono fondate. Tale norma, infatti, nel disporre per gli enti del Servizio sanitario nazionale che «le misure previste per gli anni 2007 e 2008 dall'articolo 1, comma 98, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e dall'articolo 1, commi da 198 a 206, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, sono sostituite da quelle indicate nel presente comma», si limita a ribadire una sostituzione che le altre lettere dello stesso comma hanno già previsto.

    9. - Anche le questioni sollevate dalla Regione Valle d'Aosta, aventi ad oggetto il medesimo comma 565, non sono fondate.

    9.1. - Al riguardo, va premesso che la ricorrente Regione a statuto speciale muove da una erronea ricostruzione del quadro normativo in cui si inserisce il denunciato comma 565. La ricorrente, infatti, non tiene conto che il comma 660 dell'art. 1 della stessa legge prevede che «le disposizioni stabilite per le regioni a statuto ordinario» circa il livello complessivo delle spese correnti e in conto capitale trovano applicazione alle Regioni a statuto speciale solo nel caso di mancato raggiungimento di un accordo in proposito tra tali Regioni e il Ministero dell'economia, da stipulare in coerenza con gli obiettivi di finanza pubblica per il periodo 2007-2009. Da tale comma risulta , dunque, che il livello complessivo delle spese e dei relativi pagamenti è rimesso in via prioritaria a detto accordo e che il denunciato comma 565 è applicabile alle Regioni a statuto speciale, in via sussidiaria e transitoria, solo qualora l'accordo medesimo non sia raggiunto (per un'analoga fattispecie, sentenze n. 169 e n. 82 del 2007).

    Poiché, secondo tale comma 660, un limite alle spese del personale degli enti del Servizio sanitario nazionale deriva, per gli enti ad autonomia speciale, dagli accordi di cui sopra e non dalla diretta applicazione del comma 565, è evidente che, in caso di intervenuto accordo, la norma censurata non può comportare alcuna violazione dell'autonomia legislativa e finanziaria della Regione Valle d'Aosta. Né l'espressione «in coerenza con gli obiettivi di finanza pubblica», contenuta nel comma 660, può significare che detti accordi debbano fissare limiti coincidenti con quelli del comma 565. Tale espressione costituisce, infatti, solo un generico parametro di «coerenza», cui le parti contraenti debbono attenersi ai fini della determinazione del livello delle s pese, livello che non può porsi in radicale contraddizione con gli altri obiettivi di finanza pubblica (sentenza n. 169 del 2007).

    Da quanto precede deriva che le norme censurate si applicano alla ricorrente, in via sussidiaria e transitoria, solo nel caso di mancato raggiungimento degli accordi previsti dal citato comma 660. Pertanto, le censure proposte dalla ricorrente vanno esaminate qui di seguito, con esclusivo riferimento a tale eventualità.

    9.2. - La ricorrente deduce, in riferimento all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, la violazione: a) in via principale, del quarto comma dell'art. 117 Cost., in quanto la disposizione censurata atterrebbe alla materia dell'organizzazione dei servizi sanitari, rientrante nella sua competenza legislativa residuale; b) in via subordinata, del terzo comma dello stesso art. 117 Cost., perché la disposizione censurata non costituirebbe un principio fondamentale nella materia della tutela della salute, di competenza legislativa concorrente.

    Ambedue le questioni non sono fondate. Si è visto, infatti, che la disposizione censurata, in quanto rivolta al contenimento della spesa per il personale, costituisce un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, la cui fissazione è di competenza statale (si veda sopra, punto 4).

    9.3. - La ricorrente deduce anche la violazione dell'art. 119, secondo comma, Cost., in quanto la norma censurata non conterrebbe un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica, ma porrebbe un vincolo specifico e puntuale alla voce di spesa riguardante il personale del Servizio sanitario nazionale.

    La questione non è fondata, per le stesse ragioni esposte al punto 8.2., in relazione alla dedotta violazione dei commi terzo e quarto dell'art. 117 Cost., e ai punti 4 e 5, con riferimento al ricorso della Regione Veneto, perché la norma censurata pone un principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica attinente alla spesa; principio che, come più volte affermato da questa Corte, deve ritenersi applicabile «anche alle autonomie speciali, in considerazione dell'obbligo generale di partecipazione di tutte le Regioni, ivi comprese quelle a statuto speciale, all'azione di risanamento della finanza pubblica» (sentenze n. 169 e n. 82 del 2007).

    9.4. - Infine, la Regione lamenta la violazione dei princípi di ragionevolezza e di leale collaborazione, perché la disposizione censurata, non tenendo conto degli atti e degli impegni di spesa già legittimamente adottati dalla Regione secondo le leggi finanziarie per il triennio dal 2006 al 2008, introdurrebbe unilateralmente «variazioni, anche di carattere normativo», idonee sia a «determinare un vulnus al legittimo affidamento» dell'ente territoriale nella stabilità del quadro normativo, sia a porre la Regione medesima nella condizione di non poter adempiere agli obbli ghi di legge.

    La questione non è fondata.

    Al riguardo, si deve procedere, preliminarmente, ad una complessiva ricognizione del quadro normativo in tema di vincoli alle spese per il personale del Servizio sanitario nazionale.

    Con riferimento agli enti sottoposti al patto di stabilità interno, l'art. 1, comma 557, della stessa legge n. 296 del 2006 ha ridotto agli anni 2005 e 2006 l'operatività dei limiti alla spesa per detto personale originariamente previsti, per il triennio dal 2006 al 2008, dall'art. 1, comma 98, della legge n. 311 del 2004 ed al solo anno 2006 l'operatività dei medesimi limiti di spesa previsti, per il triennio dal 2006 al 2008, dal comma 198 dell'art. 1 della legge n. 266 del 2005. Conseguentemente, il legislatore, alla lettera d) del comma 565 della legge n . 296 del 2006, ha avuto cura di precisare che «per gli enti del Servizio sanitario nazionale le misure previste per gli anni 2007 e 2008 dall'articolo 1, comma 98, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e dall'articolo 1, commi da 198 a 206, della legge 23 dicembre 2005, n. 266, sono sostituite da quelle indicate nel presente comma».

    Ciò premesso, va in primo luogo rilevato che la suddetta disciplina non víola il principio di ragionevolezza, neppure sotto l'evocato profilo del legittimo affidamento nella stabilità del quadro normativo. Infatti, le norme citate, disponendo solo per l'avvenire e non ponendo per il passato vincoli più gravosi di quelli già posti dalla legislazione previgente, hanno espressamente escluso ogni interferenza delle precedenti previsioni con quella censurata, la quale resta, perciò, l'unica applicabile per il triennio dal 2007 al 2009. Né le Regioni possono vantare per il futuro legittime aspettative nella invariabilità della misura dei vincoli di spesa. Questi hanno l'obiettivo di «garantire il rispetto degli obblighi comunitari» (comma 565, alinea) e presupp ongono, perciò, la possibilità, per il legislatore statale, di una loro revisione periodica, in relazione all'andamento dei conti pubblici. E ciò anche nel caso in cui un determinato contenimento della spesa medesima sia stato originariamente stabilito per più anni. Il necessario concorso delle Regioni e degli enti locali alla realizzazione degli obiettivi di finanza pubblica, adottati con l'adesione al patto di stabilità e crescita definito in sede di Unione Europea, postula, infatti, che il legislatore statale possa intervenire sui coefficienti di riduzione della spesa già definiti, qualora lo richieda il complessivo andamento del disavanzo dei conti pubblici, con il solo limite della palese arbitrarietà e della manifesta irragionevolezza della variazione. La sostituzione dei vincoli di contenimento per la spesa pubblica già previsti dall'art. 1, comma 98, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e dall'art. 1, commi da 198 a 206, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 - operata dall'impugnato comma 565 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006 - non è dunque di per sé irragionevole ed è anzi determinata dalla necessità di rispettare i vincoli alla spesa pubblica derivanti dall'adesione dell'Italia all'Unione Europea.

    In secondo luogo, deve osservarsi che, quanto alla dedotta irragionevolezza dell'entità dei vincoli, la ricorrente non ha indicato alcuno specifico elemento idoneo a dimostrare che il limite imposto con le disposizioni censurate sia talmente gravoso da renderne impossibile il rispetto da parte della Regione medesima in ragione degli impegni di spesa precedentemente assunti. Ne consegue che, anche sotto tale aspetto, la censura è infondata.

    Infine, la Regione non può lamentare neppure la violazione del principio di leale collaborazione.

    Le esigenze di leale collaborazione invocate dalla ricorrente sono, infatti, già pienamente soddisfatte dalla previsione, ad opera del citato comma 660, di un meccanismo di accordo tra lo Stato e gli enti ad autonomia speciale; fermo restando che la disciplina censurata è applicabile - come già sopra rilevato - solo in via sussidiaria e transitoria nel caso del mancato raggiungimento di detto accordo.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

    riservata a separate pronunce la decisione delle restanti questioni di legittimità costituzionale della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), sollevate con i ricorsi indicati in epigrafe,

    riuniti i giudizi,

    1) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale del comma 565 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006 promosse, con i ricorsi indicati in epigrafe, dalla Regione Veneto, con riferimento agli artt. 117, terzo comma, e 119, secondo comma, della Costituzione, e dalla Regione Valle d'Aosta/Vallée d'Aoste, con riferimento agli artt. 3, lettera f), dello statuto speciale per la Regione Valle d'Aosta, 117, terzo e quar to comma, e 119, secondo comma, della Costituzione, in relazione all'art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, nonché ai princípi dell'affidamento e della leale collaborazione;

    2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del comma 565 dell'art. 1 della legge n. 296 del 2006, promossa, con il ricorso indicato in epigrafe, dalla Regione Veneto, con riferimento all'art. 118 Cost.

    Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 aprile 2008.

F.to:

Franco BILE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 24 aprile 2008.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA




 
    I testi delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale, trasmessi dalla newsletter "Palazzo della Consulta" sono offerti alla consultazione per fini esclusivamente di informazione.

    Le sentenze e le ordinanze della Corte costituzionale sono pubblicate nella prima serie speciale della Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana (a norma degli artt. 3 della legge 11 dicembre 1984, n. 839 e 21 del decreto del Presidente della Repubblica 28 dicembre 1985, n. 1092) e nella Raccolta Ufficiale delle sentenze e ordinanze della Corte costituzionale (a norma dell'art. 29 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, approvate dalla Corte costituzionale il 16 marzo 1956).

   Il testo pubblicato nella Gazzetta Ufficiale fa interamente fede e prevale su quello qui riportato, in caso di divergenza.