Deposito del 01-04-2011 (dalla 106 alla 111)

S.106/2011 del 23/03/2011
Udienza Pubblica del 08/02/2011, Presidente DE SIERVO, Redattore CRISCUOLO


Norme impugnate: Art. 2 della legge della Regione Veneto 04/03/2010, n. 17.

Oggetto: Sanità pubblica - Impiego pubblico - Norme della Regione Veneto - Dirigenza sanitaria, professionale, tecnica e amministrativa - Istituzione, da parte delle aziende unità locali socio sanitarie (ULSS), della Direzione aziendale delle professioni sanitarie infermieristiche e ostetriche e della Direzione aziendale delle professioni riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione - Mancata previsione che all'istituzione dei relativi posti si provveda attraverso le modificazioni compensative della dotazione organica complessiva aziendale, omessa garanzia circa l'invarianza della spesa, indebito intervento in materia disciplinata dal contratto collettivo, contrasto con la disciplina del contratto collettivo che prevede la previa adozione di un regolamento per la istituzione della qualifica unica di dirigente delle professioni sanitarie.

Dispositivo: illegittimità costituzionale
Atti decisi: ric. 80/2010


S.107/2011 del 23/03/2011
Udienza Pubblica del 22/02/2011, Presidente DE SIERVO, Redattore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Art. 3, c. 1°, paragrafo i) e paragrafo iii), della legge della Regione Basilicata 15/02/2010, n. 21.

Oggetto: Energia - Norme della Regione Basilicata - Progetti di impianti per la produzione di energia elettrica di microgenerazione da fonte eolica di potenza superiore a 200 kW ed inferiore ad 1 MW ovunque ubicati - Possibilità di costruzione e gestione con la D.I.A. ai sensi degli artt. 22 e 23 del d.P.R. n. 380 del 2001, se proposti dallo stesso soggetto e/o dallo stesso proprietario dei suoli di ubicazione dell'impianto, a condizione che siano posti ad una distanza non inferiore a 500 metri in linea d'aria - Contrasto con la normativa statale che consente il ricorso alla D.I.A. solo quando la capacità di generazione sia inferiore ai 60 kW;
Progetti di impianti fotovoltaici non integrati per la produzione di energia elettrica di microgenerazione di potenza superiore a 200 kW ed inferiore ad 1 MW ovunque ubicati - Possibilità di costruzione e gestione con la D.I.A. ai sensi degli artt. 22 e 23 del d.P.R. n. 380 del 2001, se proposti dallo stesso soggetto e/o dallo stesso proprietario dei suoli di ubicazione dell'impianto, a condizione che siano posti ad una distanza non inferiore a 500 metri in linea d'aria - Contrasto con la normativa statale che consente il ricorso alla D.I.A. solo quando la capacità di generazione sia inferiore ai 20 kw.

Dispositivo: illegittimità costituzionale
Atti decisi: ric. 61/2010


S.108/2011 del 23/03/2011
Udienza Pubblica del 22/02/2011, Presidente DE SIERVO, Redattore MAZZELLA


Norme impugnate: Legge della Regione Calabria 26/02/2010, n. 8; discussione limitata agli artt. 1, c. 3°, 13, 15, c. 1°, 3° e 5°, 16, c. 1° e 2°, 17, c. 4°, e 19.

Oggetto: Amministrazione pubblica - Impiego pubblico - Norme della Regione Calabria - Lavoratori dipendenti delle Comunità montane in servizio presso altri enti o aziende pubbliche - Inquadramento ope legis nell'ente o azienda pubblica utilizzatrice - Omesso riferimento della misura ai soli dipendenti a tempo indeterminato, con conseguente generalizzata modalità di inquadramento riservato;
Trasformazione del rapporto di lavoro, da tempo determinato a tempo indeterminato, dei lavoratori dei servizi irrigui, degli impianti a fune di Camigliatello Silano, Lorica e Ciricilla e degli addetti ai servizi istituzionali - Assunzione a tempo indeterminato del personale precario dell'ARSSA, ente strumentale della Regione, con proroga dei contratti nelle more dell'espletamento delle procedure concorsuali - Lamentato accesso riservato al pubblico impiego;
Trasformazione dei contratti part-time del personale ex LSU/LPU in rapporti di lavoro full-time - Contrasto con i vincoli imposti dalla normativa nazionale sulla spesa per il personale;
Trasformazione dei contratti part-time a 24 ore settimanali del personale ex LSU/LPU in rapporti di lavoro full-time a 36 ore settimanali - Lamentata interferenza nella materia dell'orario di lavoro disciplinata dalla contrattazione collettiva;
Personale ex LSU/LPU stabilizzato - Procedure finalizzate alla progressione di carriera mediante selezione interna - Contrasto con i vincoli imposti dalla normativa nazionale sulle progressioni di carriera;
Personale ex LSU/LPU - Inquadramento di unità che alla data del 1 aprile 2008 non avevano esercitato la facoltà di accedere al procedimento di stabilizzazione - Contrasto con la normativa nazionale sull'accesso al pubblico impiego;
Proroga al 31 dicembre 2012 del termine di validità delle graduatorie afferenti ai concorsi interni del personale regionale, già espletati mediante il sistema delle progressioni verticali e che non risultano esaurite per effetto dell'avvenuto scorrimento - Autorizzazione alla Giunta regionale ad avviare procedimenti finalizzati alla progressione di carriera - Contrasto con i vincoli imposti dalla normativa nazionale sulla spesa per il personale e con la normativa nazionale sull'accesso al pubblico impiego;
Trasferimento a domanda nei ruoli della Regione dei dipendenti in servizio al 1 gennaio 2010 in posizione di comando presso gli uffici della Giunta regionale, proveniente da enti pubblici e con almeno quattro anni di ininterrotto servizio - Esclusione del personale comandato presso diversi uffici e del personale comandato ai sensi delle leggi regionali n. 7/1996 e n. 8/1997;
Possibilità per la Giunta regionale di utilizzare le graduatorie del personale dichiarato idoneo con Det. 8 agosto 2002, n. 384, per l'inserimento negli organici degli enti regionali, sub-regionali, società regionali in house e nei ruoli disponibili dell'amministrazione regionale - Deroga alla normativa regionale sulle graduatorie predette, da ritenersi esaurite;
Ampliamento della platea dei destinatari di precedente norma regionale sulla stabilizzazione, con inclusione anche di lavoratori non impegnati in attività socialmente utili e di pubblica utilità - Lamentata configurazione di una ulteriore modalità di accesso riservato e contrasto con la normativa nazionale sull'accesso al pubblico impiego.

Dispositivo: illegittimità costituzionale
Atti decisi: ric. 65/2010


S.109/2011 del 23/03/2011
Udienza Pubblica del 22/02/2011, Presidente DE SIERVO, Redattore CRISCUOLO


Norme impugnate: Art. 17, c. 1°, primo e secondo periodo, e c. 2°, primo periodo , del decreto legge 30/12/2009, n. 195, convertito con modificazioni in legge 26/02/2010, n. 26.

Oggetto: Ambiente - Calamità pubbliche e protezione civile - Difesa del suolo dal rischio idrogeologico - Interventi urgenti nelle situazioni a più elevato rischio idrogeologico al fine di salvaguardare la sicurezza delle infrastrutture e il patrimonio ambientale e culturale - Attribuzione ad organi statali del potere di adottare piani straordinari e di nominare commissari straordinari, dotati di poteri sostitutivi e di deroga a disposizioni vigenti - Lamentata interferenza con la speciale disciplina sul rischio idrogeologico, concordata con lo Stato, applicabile nella Provincia di Trento, nonché in particolare sovrapposizione al Piano generale per l'utilizzazione delle acque pubbliche (PGUAP) - Lamentata esorbitanza rispetto alla disciplina della protezione civile, che prevede meccanismi di intesa e di coordinamento fra Stato e Provincia autonoma.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ric. 71/2010


O.110/2011 del 23/03/2011
Udienza Pubblica del 08/03/2011, Presidente DE SIERVO, Redattore CRISCUOLO


Norme impugnate: Art. 22, c. da 2° a 7° e 9°, della legge della Regione Molise 23/03/2010, n. 10.

Oggetto: Amministrazione pubblica - Impiego pubblico - Norme della Regione Molise - Dirigenza regionale - Trattamento economico dei responsabili dei Servizi di Gabinetto e dei direttori di servizio incaricati di specifiche funzioni - Attribuzione della retribuzione di posizione pari alla misura massima prevista dai contratti collettivi, incrementata di percentuali tra il 25 e il 40 per cento - Non imputabilità di tali incrementi al fondo del trattamento accessorio della dirigenza regionale - Lamentata interferenza in ambito riservato alla contrattazione collettiva.

Dispositivo: estinzione del processo
Atti decisi: ric. 83/2010


O.111/2011 del 23/03/2011
Camera di Consiglio del 09/03/2011, Presidente DE SIERVO, Redattore SILVESTRI


Norme impugnate: Art. 4 bis della legge 26/07/1975, n. 354.

Oggetto: Ordinamento penitenziario - Benefici penitenziari - Accesso per i condannati per i delitti di cui all'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 - Disciplina applicabile anche ai condannati per fatti commessi da minorenni (nella specie, per il delitto di cui all' art. 609-octies cod. pen.) - Denunciato automatismo.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 335/2010



pronuncia successiva

SENTENZA N. 106

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 2 della legge della Regione Veneto 4 marzo 2010, n. 17 (Istituzione delle direzioni aziendali delle professioni sanitarie infermieristiche e ostetriche e delle professioni riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 10-13 maggio 2010, depositato in cancelleria il 20 maggio 2010 ed iscritto al n. 80 del registro ricorsi 2010.

Visto l’atto di costituzione della Regione Veneto;

udito nell’udienza pubblica dell’8 febbraio 2011 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;

uditi l’avvocato dello Stato Diana Ranucci per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Ludovica Bernardi per la Regione Veneto.

Ritenuto in fatto

1. — Con ricorso consegnato per la notifica in data 8 maggio 2010, ricevuto dal destinatario il 13 maggio 2010 e depositato presso la Cancelleria della Corte costituzionale il 20 maggio 2010, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale, in via principale, della legge della Regione Veneto 4 marzo 2010, n. 17, pubblicata nel Bollettino Ufficiale Regionale del 9 marzo 2010, n. 21, recante «Istituzione delle direzioni aziendali delle professioni sanitarie infermieristiche e ostetriche e delle professioni riabilitative, tecnico – sanitarie e della prevenzione» e, in particolare, dell’articolo 2 della legge regionale citata, nonché delle «disposizioni a tale norma inscindibilmente connesse», per violazione degli articoli 81, quarto comma, 97 e 117, comma secondo, lettera l), della Costituzione.

2. — Il ricorrente premette che, con la legge n. 17 del 2010, la Regione Veneto si propone la valorizzazione e la responsabilizzazione delle funzioni e del ruolo delle professioni sanitarie infermieristiche, ostetriche, riabilitative, tecnico – sanitarie e della prevenzione, con il fine di contribuire alla realizzazione del diritto alla salute, all’integrazione socio sanitaria e al miglioramento dell’organizzazione multi professionale del lavoro (art. 1), attraverso l’istituzione di due nuove direzioni aziendali a struttura complessa, le cui articolazioni sono definite dai dirigenti generali delle aziende sanitarie regionali. L’istituzione di dette due nuove direzioni aziendali è diretta a perseguire l’obiettivo del miglioramento dei livelli assistenziali e delle prestazioni erogate, tramite la pianificazione del fabbisogno di risorse, la valutazione delle professionalità - con criteri predeterminati - e la valorizzazione dei professionisti (art. 3).

Ad avviso del ricorrente, la legge Regionale in esame presenta profili di illegittimità costituzionale in relazione all’art. 2 e «alle disposizioni con esso inscindibilmente connesse», per violazione dei suddetti parametri costituzionali.

In particolare, l’art. 2, al comma 1, prevede l’istituzione, da parte delle Unità locali socio sanitarie (ULSS), nonché da parte delle aziende ospedaliere, ospedaliere – universitarie integrate e da parte degli istituti pubblici di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCSS), della direzione aziendale delle professioni sanitarie infermieristiche ed ostetriche e della direzione aziendale delle professioni riabilitative, tecnico – sanitarie e della prevenzione. In ordine alla istituzione di queste due direzioni, non soltanto non sarebbe chiarito in qual modo la Regione intenda coprire i relativi posti, ma ancor più non sarebbe previsto che all’istituzione dei relativi posti si provveda attraverso le modificazioni compensative della dotazione organica complessiva aziendale, come indicate nell’art. 8, comma 2, del CCNL del 17 ottobre 2008, riguardante la dirigenza sanitaria, professionale, tecnica ed amministrativa.

Diretta conseguenza di tale mancata previsione, per cui i posti in organico delle nuove direzioni aziendali, potrebbero «ed anzi dovrebbero, essere coperti tramite personale reclutato aliunde, sarebbe la mancanza di garanzia circa l’invarianza della spesa, e ciò sotto un duplice profilo».

In primo luogo, ad avviso della difesa dello Stato, né la norma in esame, né le altre ad essa connesse prevedono la copertura finanziaria dei maggiori oneri di spesa che sicuramente derivano dall’istituzione delle due nuove direzioni; in secondo luogo, fermo restando che la legge non prevede la modalità per ricoprire i posti, neanche è precisato il numero dei relativi dirigenti, per cui sussiste incertezza sia sull’an sia sul quantum della dotazione organica.

Sotto tale aspetto, la normativa regionale, prevedendo maggiori costi senza la relativa copertura finanziaria, si porrebbe in contrasto con l’art. 81, quarto comma, Cost., secondo cui ogni nuova legge che comporti nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte.

Al riguardo, il ricorrente richiama la sentenza della Corte costituzionale, n. 141 del 2010, in cui è stato ribadito il principio del necessario rispetto, da parte delle Regioni, del precetto costituzionale indicato. Essa, in particolare, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Lazio 6 aprile 2009, n. 9 (Norme per la disciplina dei distretti socio-sanitari montani), istitutiva dei distretti socio – sanitari montani, ha chiarito che il legislatore regionale «non può sottrarsi a quella fondamentale esigenza di chiarezza e solidità del bilancio cui l’art. 81 Cost. si ispira (ex multis, sentenza n. 359 del 2007)»; e che «la copertura di nuove spese deve essere credibile, sufficientemente sicura, non arbitraria o irrazionale, in equilibrato rapporto con la spesa che si intende effettuare in esercizi futuri (sentenza n. 213 del 2008)».

La difesa dello Stato, inoltre, aggiunge che, sempre ad avviso della Corte costituzionale, in senso contrario non può valere il rilievo che le maggiori spese verranno concretamente disposte mediante i successivi regolamenti attuativi della disciplina legislativa in esame, giacché è proprio la legge regionale a costituire la «loro fonte primaria».

La norma denunciata, inoltre, intervenendo nella materia disciplinata dal contratto collettivo, violerebbe l’art.117, secondo comma, lettera l), Cost., secondo cui appartiene alla competenza esclusiva dello Stato la materia «giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa».

Ciò in quanto la norma denunciata non indicherebbe le modalità di copertura della dotazione organica delle istituende direzioni aziendali e, in particolare, non conterrebbe alcun rinvio alla normativa statale di riferimento, costituita dall’art. 8, comma 2, del CCNL 17 ottobre 2008 (riguardante la dirigenza sanitaria, professionale, tecnica ed amministrativa).

La disposizione contrattuale, prosegue il ricorrente, dispone che le aziende debbano provvedere all’istituzione dei posti della nuova figura dirigenziale sulla base delle proprie esigenze organizzative, mediante modifiche compensative della dotazione organica complessiva aziendale, effettuate ai sensi delle norme vigenti in materia, senza ulteriori oneri rispetto a quelli definiti dalle Regioni; dispone, inoltre, che la trasformazione della dotazione organica avviene nel rispetto delle relazioni sindacali di cui ai contratti collettivi nazionali di lavoro.

La Presidenza del Consiglio, pertanto, sostiene che il mancato riferimento al CCNL si porrebbe come diretta violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.

Un ulteriore profilo di illegittimità del denunciato art. 2 e «delle disposizioni a tale norma inscindibilmente connesse», sarebbe ravvisabile nel fatto che detta disposizione non reca alcun riferimento all’emanazione del regolamento previsto dall’art. 8, comma 7, del menzionato CCNL del 17 ottobre 2008, adempimento costituente condizione indefettibile e prioritaria rispetto alla entrata a regime della istituzione della qualifica unica di dirigente delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione e della professione ostetrica.

Il citato comma 7 dispone, infatti, che le aziende devono, prima di procedere alla nomina dei dirigenti di nuova istituzione, provvedere alla definizione delle attribuzioni della nuova qualifica dirigenziale ed alla regolazione, sul piano funzionale ed organizzativo, dei rapporti interni con altre professionalità della dirigenza sanitaria sulla base dei contenuti professionali del percorso formativo indicato nell’art. 6, comma 3, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421).

Ad avviso del ricorrente, la mancata previsione, relativa a tale adempimento, viola il principio di buon andamento della pubblica amministrazione di cui all’art. 97 Cost., nonché, intervenendo ancora una volta in materia disciplinata dal contratto collettivo , viola l’art. 117, comma secondo, lettera l), Cost.

Alla luce di quanto premesso, il ricorrente chiede che sia dichiarata la illegittimità costituzionale della legge della Regione Veneto n. 17 del 2010, «nell’art. 2 e nelle disposizioni a tale norma inscindibilmente connesse».

3. — Con atto depositato il 17 giugno 2010, la Regione Veneto si è costituita in giudizio per contestare l’ammissibilità e la fondatezza delle censure sollevate dal ricorrente.

In via preliminare, la resistente eccepisce il mancato rispetto del termine perentorio di cui all’art. 31, quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), così come sostituito dall’art. 9, comma 1, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla L.Cost. 18 ottobre 2001, n. 3).

La Regione, infatti, pone in rilievo che il ricorso è stato presentato agli ufficiali giudiziari per la notifica l’8 maggio 2010 e depositato presso la cancelleria della Corte costituzionale il 20 maggio 2010.

Pertanto, il detto deposito, compiuto a distanza di dodici giorni dalla notifica del ricorso, sarebbe stato eseguito in violazione della citata normativa, che fissa appunto un termine perentorio di dieci giorni per tale adempimento.

Al riguardo, la resistente ricorda che – secondo i principi fissati nelle sentenze n. 250 del 2009, n. 477 del 2002 e n. 69 del 1994, ed, inoltre, sanciti dal legislatore con l’art. 2, comma 1, lettera e), della legge 28 dicembre 2005, n. 263 (Interventi correttivi alle modifiche in materia processuale civile introdotte con il D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla L. 14 maggio 2005, n. 80, nonché ulteriori modifiche al codice di procedura civile e alle relative disposizioni di attuazione, al regolamento di cui al R.D. 17 agosto 1907, n. 642, al codice civile, alla L. 21 gennaio 1994, n. 53, e disposizioni in tema di diritto alla pensione di reversibilità del coniuge divorziato), – la notifica di un atto processuale si intende perfezionata per l’istante, nel momento stesso in cui l’atto processuale viene affidato all’ufficiale giudiziario e, per il destinatario, nel momento in cui questi ne acquista legale conoscenza: realizzandosi in tal modo una vera e propria «scissione soggettiva del momento perfezionativo del procedimento notificatorio» (in questo senso, da ultimo, Cass., sentenza 13 gennaio 2010, n. 359).

Sulla base di quanto appena evidenziato, la resistente ritiene corretta l’interpretazione che assume quale dies a quo per la decorrenza del termine, fissato per il successivo deposito dell’atto processuale notificato, la data in cui la notifica stessa si è perfezionata per il richiedente, e non già quella in cui, invece, l’atto medesimo è pervenuto nella disponibilità del soggetto cui era indirizzato.

La difesa della Regione sostiene che, nel momento in cui ha luogo la materiale consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario, il notificante vede già maturati, a suo vantaggio, tutti gli effetti favorevoli prodotti dalla notificazione: in primis, quello di evitare lo spirare di termini di decadenza o prescrizione che le norme processuali abbiano fissato, ad esempio, per l’impugnazione di un determinato provvedimento.

Ad avviso della resistente, dunque, il richiedente, nei cui confronti la notifica si è perfezionata in virtù della consegna al soggetto notificatore, deve essere tenuto a computare il decorso del termine, ad esempio stabilito per il deposito dell’atto, appunto a partire da tale data: non potendo invece pretendere di assumere quale dies a quo quello in cui la notifica ha spiegato i propri effetti nei confronti del destinatario della notifica stessa.

Ciò posto, il ricorrente non ignora che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 318 del 2009, ha affermato che «l’anticipazione del perfezionamento della notifica al momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario (o all’agente postale) non ha ragione di operare con riguardo ai casi in cui detto perfezionamento assume rilievo non già ai fini dell’osservanza di un termine in quel momento pendente nei confronti del notificante, bensì per stabilire il dies a quo inerente alla decorrenza di un termine successivo del processo, qual è nella specie il deposito del ricorso notificato (ai sensi del citato art. 31, comma 4). Pertanto, detto termine decorre dal momento in cui l’atto perviene al destinatario».

La resistente sostiene che l’interpretazione fornita dalla Corte costituzionale nella pronunzia citata sarebbe contraddittoria, in quanto non potrebbe ritenersi la notifica perfezionata in momenti diversi a seconda dei fini per cui essa è presa in considerazione.

In particolare, la difesa regionale osserva che, se il notificante sceglie di avvalersi degli effetti che la «scissione soggettiva del momento perfezionativo del procedimento notificatorio» importa a suo vantaggio, soggiace – per coerenza logica – all’onere di rispettare il termine processuale che da quel momento decorre: non potendo invece assumere quale dies a quo il giorno in cui la notifica si è perfezionata nei confronti di un soggetto diverso, al solo fine di ottenere un maggior lasso di tempo per provvedere all’adempimento cui è tenuto. La difesa regionale, dunque, ritiene che se il richiedente fruisce di una disciplina di favore – tanto da vedere perfezionata nei suoi confronti, la notifica con la semplice consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario – deve accettarne tutte le conseguenze che vi si collegano, comprese quelle derivanti in ordine al computo del termine per il successivo deposito dell’atto processuale in giudizio.

Nel caso in esame, l’Avvocatura dello Stato, dopo aver consegnato in data 8 maggio 2010 agli ufficiali giudiziari il ricorso proposto contro la Regione Veneto, avrebbe avuto a disposizione un termine di dieci giorni, spirante il 18 maggio 2010, per provvedere al suo deposito, il che tuttavia non è avvenuto.

Alla luce delle esposte argomentazioni, dunque, la difesa della Regione Veneto chiede che l’impugnazione sia dichiarata improcedibile.

Inoltre, prima ancora di esaminare il merito delle censure proposte con il ricorso, la difesa regionale eccepisce l’inammissibilità delle censure perché formulate in modo generico, non contenendo una puntuale enunciazione delle ragioni di inconciliabilità con le norme della Costituzione. A tal proposito sono richiamate le sentenze della Corte costituzionale nn. 341, 251, 232 del 2009.

In primo luogo, sarebbe indeterminato, o eccessivamente generico, l’oggetto stesso dell’impugnazione, in quanto sarebbe posta in discussione la legittimità costituzionale della legge n. 17 del 2010, «nell’art. 2 e nelle disposizioni a tale norma inscindibilmente connesse», senza alcuna precisazione in grado di circostanziare l’oggetto del decidere.

Di fatto il gravame investirebbe l’intera legge dal momento che tutte le disposizioni, ad eccezione forse dell’art. 5 (sperimentazioni assistenziali), si ricollegherebbero all’istituzione delle due nuove direzioni aziendali delle professioni sanitarie non mediche.

Pertanto, dovrebbe ritenersi inammissibile il tentativo di estendere l’impugnazione, mediante l’uso di una semplice formula di stile, quale sarebbe quella che contiene il riferimento alle “norme inscindibilmente connesse”, anche a parti della normativa regionale non colpite da alcuna critica e addirittura non menzionate nel ricorso (sotto tale profilo, la difesa regionale richiama la pronunzia della Corte costituzionale n. 201 del 2008).

La resistente menziona, inoltre, la decisione n. 284 del 2009, in cui la Corte ha affermato che l’impugnazione proposta in via principale deve necessariamente consentire di «individuare l’oggetto delle singole questioni, i parametri evocati e gli specifici profili di illegittimità costituzionale».

Quanto, poi, alla specifica impugnazione proposta contro l’art. 2 della legge n.17 del 2010, la resistente pone in evidenza come il ricorso si limiti ad enunciare alcune presunte violazioni della Carta costituzionale, senza corredare di motivazione i vizi indicati.

In particolare, in ordine all’asserito contrasto con l’art. 81, quarto comma, Cost., non sarebbe chiarito perché l’istituzione delle nuove direzioni aziendali comporti sicuramente maggiori oneri di spesa, privi di adeguata copertura.

Un tale assunto, ad avviso della resistente, oltre ad essere infondato nel merito, non sarebbe argomentato in modo concreto, risolvendosi in una mera affermazione di carattere apodittico.

Con riferimento, poi, alla violazione degli artt. 97 e 117, secondo comma lettera l) Cost., mancherebbe, ad avviso della difesa regionale, una spiegazione soddisfacente circa le ragioni dell’asserito contrasto, in relazione a ciascuno dei detti parametri.

In particolare, per quanto concerne l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., l’Avvocatura dello Stato si limiterebbe solo a dichiarare che la legge regionale veneta interverrebbe in una materia disciplinata dal contratto collettivo, invadendo così la sfera di competenza legislativa esclusiva dello Stato indicata come «giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa».

Inoltre, la difesa regionale sostiene che non sarebbe specificato quale passaggio della legge n. 17 del 2010 meriti una simile critica, ed inoltre non sarebbe indicato il motivo per cui la legge stessa verrebbe in conflitto con la specifica competenza riservata alla potestà legislativa esclusiva.

Ciò posto, la resistente esamina il merito delle censure.

In primo luogo, affronta l’asserita violazione, da parte dell’art. 2 della legge n. 17 del 2010, dell’art. 81, quarto comma, Cost.

La difesa regionale pone in evidenza che, nella prospettazione dell’Avvocatura dello Stato, le maggiori spese deriverebbero, come risulterebbe dal ricorso che sul punto non sarebbe affatto chiaro, dalla necessità di provvedere alla copertura dei posti in organico delle direzioni aziendali in questione, mediante reclutamento di nuovo personale da inserire nelle strutture delle Aziende UULLSSSS, delle Aziende ospedaliere e degli IRCCSS e, dunque, mediante l’aumento dell’organico alle dipendenze del Servizio Sanitario Regionale.

Pertanto, dal momento che la legge regionale non specificherebbe come intenda procedere a dotare di organico le direzioni aziendali appena istituite, né prevederebbe che sia dato luogo a modifiche compensative dell’organico già esistente, violerebbe il parametro di cui al citato art. 81, quarto comma, Cost., a tenore del quale ogni legge che importi nuove o maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte.

La resistente ritiene le dette censure infondate e pone in evidenza come l’assunto da cui muove il ricorrente sarebbe erroneo, in quanto non risponderebbe al vero che la previsione delle nuove direzioni aziendali possa comportare un aumento di spesa per gli enti coinvolti, e quindi per la Regione Veneto.

La disciplina regionale censurata, ad avviso della difesa regionale, avrebbe un carattere organizzativo o di principio, in quanto si inquadrerebbe in un ambito normativo già ricco di vincoli rigorosi dettati a contenimento dei costi in materia sanitaria e, pertanto, non sarebbe in grado di provocare alcun incremento dei medesimi.

Sotto tale profilo la resistente pone in evidenza che la Regione Veneto, proprio nello stesso giorno in cui è stata promulgata la legge n. 17 del 2010, è intervenuta con l’art. 9 della legge regionale n. 16 del 2010 (Interventi per la razionalizzazione della spesa delle aziende e degli enti del servizio sanitario regionale), il quale dispone che «la disciplina di cui all’art. 37, commi 2, 3, 4 e 5 della legge regionale 19 febbraio 2007, n. 2 (legge finanziaria regionale per l’esercizio 2007) è confermata per il triennio 2010 – 2012».

Sarebbe stata, quindi, prorogata la vigenza di una disposizione avente lo scopo di contingentare rigidamente i costi del personale operante nel Servizio Sanitario della Regione Veneto e che, tra le molteplici prescrizioni, prevede che per il triennio 2007 – 2009 le Aziende e gli enti del Servizio Sanitario Regionale adottino «misure di contenimento della spesa per il personale, complessivamente inteso, idonee a garantire che la spesa stessa risulti compatibile con gli obiettivi di bilancio assegnati dalla Regione a ciascuna Azienda od ente» e che devono in ogni caso osservare il limite del costo del personale sostenuto nell’anno 2006, fatti salvi i maggiori oneri derivanti dall’applicazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro.

Mediante l’art. 37 della legge regionale n. 2 del 2007, dunque, la Regione Veneto avrebbe inteso adeguarsi alle prescrizioni dettate a livello statale dall’art. 1, comma 565, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriannuale dello Stato (finanziaria del 2007)», stabilendo che la spesa per il personale operante nel settore sanitario debba non solo rimanere invariata, ma addirittura ridursi.

A riprova di quanto affermato, la difesa regionale indica, ed allega, alcune delibere della Giunta regionale veneta con cui sono state impartite delle direttive agli enti del SSR, al fine di farli adeguare al previsto contingentamento dei costi; si tratta delle delibere n. 855 del 2010, n. 4209 del 2009, n. 2061 e 886 del 2007.

La Regione Veneto ha, quindi, imposto ai direttori generali delle aziende UULL SSSS, delle Aziende Ospedaliere e degli IRCSS operanti nel suo territorio di procedere all’organizzazione degli uffici in un’ottica di assoluta invarianza (e anzi di auspicabile contrazione) dei costi economici ricollegabili al personale.

La resistente, inoltre, pone in rilievo come l’art. 3, comma 1, del d.lgs. n. 502 del 1992 assegni a tali enti una marcata autonomia stabilendo che «in funzione del perseguimento dei loro fini istituzionali, le USL si costituiscono in Aziende con personalità giuridica pubblica e autonomia imprenditoriale; la loro organizzazione ed il funzionamento sono disciplinati con atto aziendale di diritto privato, nel rispetto dei principi e criteri dettati da disposizioni regionali. L’atto aziendale individua le strutture operative dotate di autonomia gestionale o tecnico – professionale, soggette a rendicontazione analitica».

Sarebbe, però, altrettanto vero che l’atto aziendale deve soggiacere ai vincoli provenienti dalla Regione e, dunque, nel caso della Regione Veneto, anche al principio per cui l’organizzazione delle strutture delle Aziende UULLSS, delle Aziende Ospedaliere e degli IRCCS deve attuarsi con l’osservanza di quanto stabilito dall’art. 37 della legge regionale n. 2 del 2007 (prorogato dall’art. 9 della legge regionale n. 16 del 2010).

In altri termini, i singoli direttori generali responsabili degli enti del Servizio Sanitario regionale godrebbero sì di ampia discrezionalità nell’individuare la più appropriata articolazione degli enti medesimi, ben potendo istituire nell’atto aziendale – ad esempio – anche delle strutture nuove; tuttavia, alla condizione imprescindibile che non vengano aggravati i costi del personale fissati per legge.

Proprio per tale motivo la resistente precisa che gli atti aziendali sono sottoposti al vaglio della Regione, per il tramite della Segreteria Regionale Sanità Sociale, la quale avrebbe sempre cura di ribadire, quale prescrizione generale, che «l’attivazione di dipartimenti così come quella di tutte le nuove strutture complesse e semplici deve avvenire in un contesto di iso – risorse, e cioè nel limite delle unità di personale presenti in azienda al 31 dicembre 2006 e nel rispetto dei vincoli di spesa di cui all’art. 37, l.r. 19 febbraio 2007 n. 2 e relative deliberazioni attuative 3 aprile 2007, n.886 e 3 luglio 2007 n. 2061» (a titolo semplificativo la resistente allega alla memoria la nota inviata in data 3 dicembre 2009 al Direttore Generale dell’Azienda ULSS 10 “Veneto Orientale”).

Alla luce di questa ampia premessa la resistente ritiene, dunque, che i direttori generali delle Aziende UULLSSSS, delle Aziende Ospedaliere e degli IRCCS operanti nel Veneto siano tenuti a istituire le nuove direzioni, senza alcuna variazione dei costi complessivi sopportati dall’ente per il personale impiegato.

Da ciò discenderebbe che, per mantenere inalterata la spesa totale, gli enti in questione sarebbero obbligati ad attuare modifiche compensative nel proprio organico, ovvero a procedere a forme di turnover con le modalità stabilite dalla Giunta del Veneto con le note prima citate.

Ciò premesso, l’istituzione delle direzioni aziendali dedicate al personale sanitario non medico sarebbe insuscettibile, per i motivi sopra indicati, di comportare l’aggravio di spesa paventato dal ricorrente, così da rendere inutile anche l’indicazione di una copertura finanziaria.

Con riferimento, poi, all’assunto secondo cui la legge regionale in esame non recherebbe alcuna indicazione circa le modalità secondo cui dotare di organico le nuove direzioni, la resistente pone in rilievo l’art. 4 della legge censurata, norma alla quale non sarebbe attribuito alcun rilievo da parte del ricorrente.

Tale disposizione stabilisce che ai dirigenti delle nuove direzioni aziendali gli incarichi sono conferiti secondo le modalità previste dalle leggi vigenti in materia di personale dirigente del ruolo sanitario.

Per un verso, ad avviso della difesa regionale, la disposizione in esame andrebbe intesa quale richiamo dei vincoli alla spesa del personale nel comparto sanitario di cui si è già detto: evidenziandosi, così, ad abundantiam, che l’attribuzione di incarichi ai dirigenti delle professioni sanitarie non mediche soggiacerebbe al contingentamento voluto dalla Regione Veneto e, prima ancora, dallo Stato attraverso le fonti normative prima passate in rassegna.

Sotto altro verso, la disposizione di cui all’art. 4 citato varrebbe anche come rinvio alle fonti di origine statale dettate in ordine alla istituzione della qualifica di dirigente delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica.

Tra le dette fonti, andrebbe senza dubbio ricompresa la legge 10 agosto 2000, n. 251 (Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche della riabilitazione, della prevenzione, nonché della professione ostetrica), la quale all’art. 6, comma 2, prevede che «Le regioni possono istituire la nuova qualifica di dirigente del ruolo sanitario nell’ambito del proprio bilancio, operando con modificazioni compensative delle piante organiche su proposta delle aziende sanitarie locali e delle aziende ospedaliere».

Ma l’art. 4 della legge impugnata varrebbe anche quale rinvio ai contratti collettivi intervenuti in materia ed in particolare all’art. 8, comma 2, dell’accordo sottoscritto il 17 ottobre 2008, là dove si legge che «le aziende provvedono all’istituzione dei posti della nuova figura dirigenziale sulla base delle proprie esigenze organizzative mediante modifiche compensative della dotazione organica complessiva aziendale, effettuate ai sensi delle norme vigenti in materia, senza ulteriori oneri rispetto a quelli definiti dalle Regioni. La trasformazione della dotazione organica avviene nel rispetto delle relazioni sindacali di cui ai CC.CC.NN.L.».

Ad avviso della resistente, ciò significa che, in forza dell’art. 4 legge regionale n. 17 del 2010, la Regione Veneto ha voluto vincolare le aziende UULLSS, le Aziende Ospedaliere e gli IRCCS, sia pur utilizzando una formula breviloquente, al rispetto delle modalità di reclutamento del personale delle nuove direzioni già previste dalla disciplina vigente sia di fonte normativa, sia di origine pattizia.

In definitiva, essendo le modifiche compensative dell’organico esistente l’unica via percorribile per procedere alla copertura dei posti in questione, anche in base alle fonti contrattuali richiamate dall’art. 4 della normativa regionale censurata, risulterebbe evidente che nessuna nuova spesa può derivare dall’applicazione di quest’ultima, con conseguente inapplicabilità dell’art. 81, quarto comma, Cost.

Con riferimento, poi, all’asserita violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., la resistente osserva che la formulazione della questione di legittimità costituzionale sarebbe tutt’altro che chiara, in quanto non si capirebbe perché la disciplina impugnata – per il semplice fatto «di intervenire in materia disciplinata dal contratto collettivo» – dovrebbe sconfinare nella «materia giurisdizione e norme processuali; ordinamento civile e penale; giustizia amministrativa», in cui lo Stato ha una potestà legislativa esclusiva.

La Regione assume, al riguardo, che l’oggetto delle disposizioni da essa emanate non sarebbe riconducibile al parametro costituzionale che si ritiene violato da parte dell’Avvocatura generale dello Stato.

In particolare, la legge regionale n. 17 del 2010 e, nello specifico, l’art. 2 della legge, ad avviso della difesa regionale, non detta regole che incidono sulla giurisdizione, né sullo svolgimento dei processi civili o amministrativi, né tanto meno sull’ordinamento civile e penale. La normativa in parola, invece, “tocca” la materia di legislazione concorrente indicata dall’art. 117 Cost. come tutela della salute, ovvero, in via gradata, quella delle professioni.

A riprova di ciò, la resistente ritiene utile soffermarsi sulle finalità della legge regionale indicate nell’art. 1, nonché «sugli obiettivi delle direzioni» indicati nell’art. 3.

Dal combinato disposto di dette due disposizioni emergerebbe che lo scopo della normativa regionale censurata sarebbe quello di coinvolgere in modo ancora più proficuo ed efficiente gli operatori sanitari non medici nell’erogazione delle prestazioni latu sensu assistenziali, così da migliorare il livello qualitativo di queste ultime. Ciò posto, il mancato espresso richiamo del CCNL del 17 ottobre 2008 non costituirebbe una violazione dei precetti costituzionali.

La disciplina pattizia sarebbe stata tenuta ben presente dal legislatore veneto, il quale ad essa si sarebbe collegato per il tramite dell’art. 4 della legge regionale, oggetto di censura: ben consapevole che il rinvio alle “leggi vigenti” sarebbe suscettibile di ricomprendere anche i prodotti della contrattazione collettiva nazionale, cui la dottrina tende ad attribuire, interpretando l’art. 2077 del codice civile, una efficacia normativa assimilabile a quella delle disposizioni inderogabili di legge.

Da parte della Regione Veneto, in particolare, non si dubiterebbe che l’istituzione delle direzioni aziendali e la copertura dei relativi posti in organico debba avvenire per il tramite di quanto disposto dall’art. 8 del CCNL del 17 ottobre 2008, e con l’osservanza dei vincoli finanziari ivi previsti: ciò significherebbe che le Aziende UULLSS, le Aziende Ospedaliere e gli IRCCS sarebbero tenuti a provvedere alle necessarie modifiche compensative delle dotazioni organiche, senza variazioni di bilancio, per far fronte alle «proprie esigenze organizzative».

La circostanza per cui il CCNL non sia stato espressamente citato dalla legge regionale censurata resterebbe del tutto irrilevante, tanto più che esso ripropone dettati normativi già contenuti in leggi (in senso stretto) vigenti, tra le quali la legge 10 agosto 2000, n. 251, già citata e qui rilevante in relazione all’art. 6, comma 2.

L’asserita violazione dell’art. 97 Cost. consisterebbe nel fatto che la disciplina in questione non reca alcun riferimento all’emanazione del regolamento previsto dall’art. 8, comma 7, del CCNL del 17 ottobre 2008, da intendersi, ad avviso del ricorrente, una condizione indefettibile e prioritaria rispetto all’entrata a regime della istituzione della qualifica unica di dirigente delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche, della riabilitazione, della prevenzione e della professione ostetrica.

Ferma restando l’estrema stringatezza della motivazione in ordine alla violazione del parametro costituzionale citato, la resistente osserva come la censura muova da un presupposto non condivisibile.

Essa, infatti, pone in rilievo che dalla lettura della citata disposizione pattizia (che a sua volta rinvia all’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992 ed al decreto del Ministro dell’università, ricerca scientifica e tecnologica del 2 aprile 2001) sarebbe «agevole constatare che il CCNL 17 ottobre 2008 pone direttamente in capo agli enti del Servizio Sanitario datori di lavoro l’obbligo di provvedere all’adozione di una disciplina di dettaglio, da racchiudersi in un apposito testo regolamentare»

Non si vedrebbe, dunque, il motivo per cui la Regione avrebbe dovuto ripetere una simile previsione. Inoltre, l’emanazione del regolamento sarebbe funzionale all’immissione nel nuovo ruolo della dirigenza unica dei professionisti sanitari non medici: non certo, invece, alla mera istituzione delle direzioni aziendali, che di per sé rappresentano soltanto le strutture complesse preposte all’organizzazione e all’aggregazione dei professionisti medesimi.

Pertanto, prosegue la resistente, se è vero che, come stabilito nell’accordo collettivo, è necessario provvedere all’adozione del regolamento in questione prima di procedere all’assunzione dei dirigenti di nuova istituzione, non altrettanto vale con riferimento all’inserimento delle dette direzioni nell’ambito organizzativo delle Aziende UULLSSSS, delle Aziende Ospedaliere e degli IRCSS: in quest’ultimo caso, si tratta soltanto di una previsione da inserire nell’atto aziendale di cui all’art. 3 del d.lgs. del 1992 n. 502, nel rispetto di vincoli economici di cui si è già detto.

La difesa regionale, infine, aggiunge che l’Avvocatura non avrebbe in alcun modo motivato sulle ragioni per cui la mancata menzione della previsione di cui all’art. 8, comma 2, dell’accordo collettivo citato, di per sé sola violerebbe il principio di buon andamento della pubblica amministrazione.

Tale violazione, peraltro, non sussisterebbe anche per l’insuperabile constatazione che la normativa regionale censurata non reca previsioni incompatibili con quelle contemplate dall’art. 8 del più volte citato accordo collettivo, di cui, quindi, postula la perdurante vigenza e cogenza.

4. — In data 17 gennaio 2011 la Regione Veneto ha depositato una memoria illustrativa con la quale ha ribadito le argomentazioni sostenute nell’atto di costituzione in giudizio.

Considerato in diritto

1. — Il Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe, ha promosso questione di legittimità costituzionale della legge della Regione Veneto 4 marzo 2010, n. 17, pubblicata sul Bollettino Ufficiale Regionale del 9 marzo 2010, recante «Istituzione delle direzioni aziendali delle professioni sanitarie infermieristiche e ostetriche e delle professioni riabilitative, tecnico – sanitarie e della prevenzione».

Ad avviso del ricorrente, la legge censurata presenterebbe «profili di illegittimità costituzionale nel suo articolo 2, e nelle disposizioni con esso inscindibilmente connesse, per violazione degli artt. 81, 117 comma II, lett. l, 97 della Costituzione».

In particolare, sarebbe prevista l’istituzione delle due suddette direzioni aziendali non soltanto senza specificare in qual modo la Regione intenda coprire i relativi posti, ma anche senza prevedere che all’istituzione di tali posti si faccia luogo attraverso le modificazioni compensative della dotazione organica complessiva aziendale. Da ciò deriverebbe che i posti in organico delle nuove direzioni dovrebbero essere coperti mediante personale reclutato aliunde, in assenza di garanzie circa l’invarianza della spesa, sia perché non sarebbe prevista la copertura finanziaria dei maggiori oneri derivanti dall’istituzione delle direzioni, sia perché non sarebbe precisato il numero dei nuovi dirigenti, onde sarebbero incerti l’an e il quantum della dotazione organica, con diretta violazione dell’art. 81, quarto comma, Cost.

La normativa denunciata, inoltre, intervenendo in materia disciplinata dal contratto collettivo, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., e non recherebbe alcun riferimento all’emanazione del regolamento previsto dall’art. 8, comma 7, del CCNL del 17 ottobre 2008, in violazione dell’art. 97 Cost.

2. — La Regione Veneto eccepisce l’improcedibilità del ricorso, stante il mancato rispetto del termine perentorio stabilito per il deposito di esso dall’art. 31, quarto comma, legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), come sostituito dall’art. 9, comma 1, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l'adeguamento dell'ordinamento della Repubblica alla L.Cost. 18 ottobre 2001, n. 3).

Infatti, il ricorso, presentato agli ufficiali giudiziari di Roma per la notifica l’8 maggio 2010, risulta depositato presso la cancelleria della Corte costituzionale il 20 maggio 2010.

Questo secondo adempimento, quindi, compiuto dalla difesa dello Stato a distanza di dodici giorni dal primo, sarebbe tardivo, in quanto eseguito in violazione del citato art. 31, quarto comma, che stabilisce per il deposito del ricorso notificato il termine perentorio di dieci giorni dalla notificazione. Ciò perché, ad avviso della resistente, la decorrenza del detto termine andrebbe calcolata a far tempo dalla data in cui l’atto è consegnato agli ufficiali giudiziari, in forza dei principi stabiliti da questa Corte con le sentenze n. 250 del 2009, n. 477 del 2002 e n. 69 del 1994, e in base al disposto dell’art.149, terzo comma, del codice di procedura civile (aggiunto dall’art. 2, comma 1, lettera e), legge 28 dicembre 2005, n. 263, recante «Interventi correttivi alle modifiche in materia processuale civile introdotte con il D.L. 14 marzo 2005, n. 35, convertito, con modificazioni, dalla L. 14 maggio 2005, n. 80, nonché ulteriori modifiche al codice di procedura civile e alle relative disposizioni di attuazione, al regolamento di cui al R.D. 17 agosto 1907, n. 642, al codice civile, alla L. 21 gennaio 1994, n. 53, e disposizioni in tema di diritto alla pensione di reversibilità del coniuge divorziato»), ai sensi del quale «La notifica si perfeziona, per il soggetto notificante, al momento della consegna del plico all’ufficiale giudiziario e, per il destinatario, dal momento in cui lo stesso ha la legale conoscenza dell’atto». Sarebbe contraddittorio che, nei confronti di uno stesso soggetto (cioè la parte che richiede la notifica), quest’ultima «venga a perfezionarsi in due distinti momenti, a seconda dei fini per cui essa è presa in considerazione: quando provvede alla consegna all’Ufficiale giudiziario, se si tratta di evitare una decadenza o una prescrizione: quando ha luogo il recapito dell’atto al destinatario, se si tratta di far decorrere il termine per il deposito dell’atto medesimo nel processo».

2.1. — L’eccezione non è fondata.

Questa Corte, con sentenza n. 318 del 2009, ha affermato che il principio generale relativo alla scissione dei momenti in cui la notifica si perfeziona per il notificante e per il destinatario, con conseguente anticipazione di tale perfezionamento a favore del primo al momento della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario (o all’agente postale), è correlato all’esigenza di tutelare il diritto di difesa del notificante, essendo altresì irragionevole che un effetto di decadenza possa discendere dal ritardo nel compimento di un’attività riferibile a soggetti diversi dal medesimo notificante (l’ufficiale giudiziario o l’agente postale) e perciò destinata a restare estranea alla sua sfera di disponibilità.

Invece, la ratio del suddetto effetto anticipato (che, proprio perché tale, ha anche carattere provvisorio, essendo destinato a consolidarsi soltanto nel momento in cui il destinatario ha legale conoscenza dell’atto) rimane estranea ai casi in cui il perfezionamento della notificazione vale a stabilire il dies a quo inerente alla decorrenza di un termine successivo del processo, qual è nella specie quello per il deposito del ricorso notificato. In tal caso non viene in rilievo alcuna esigenza di tutelare il diritto di difesa del notificante; non è identificabile un momento analogo a quello della consegna dell’atto all’ufficiale giudiziario o all’agente postale; l’attività da compiere non dipende da altri soggetti; infine, il notificante ha interesse a verificare, allorché procede al deposito, che la notifica dell’atto sia stata raggiunta nei confronti del destinatario.

Ne deriva che l’art. 31, quarto comma, della legge n. 87 del 1953 (e successive modificazioni) deve essere interpretato nel senso che il dies a quo del termine ivi contemplato inizia a decorrere nel momento in cui la notificazione si è perfezionata nei confronti del notificante e del destinatario.

Nel caso di specie, come risulta dall’avviso di ricevimento, prodotto dall’Avvocatura dello Stato e non contestato, il plico contenente il ricorso pervenne al destinatario il 13 maggio 2010. Il ricorso medesimo, con i relativi allegati, fu poi depositato nella cancelleria di questa Corte il 20 maggio 2010.

Pertanto, l’adempimento risulta tempestivo.

3. — La Regione Veneto ha, poi, eccepito l’inammissibilità del ricorso, per il carattere generico delle censure mosse con lo stesso.

In particolare, l’oggetto dell’impugnazione del Governo risulterebbe indeterminato, essendo messa in discussione la legittimità costituzionale della legge regionale n. 17 del 2010 «nell’art. 2 e nelle disposizioni a tale norma inscindibilmente connesse», senza alcuna precisazione idonea a circostanziare il thema decidendum.

Il gravame, quindi, di fatto investirebbe l’intera legge regionale, in quanto tutte le sue disposizioni – ad eccezione, forse, dell’art. 5, in tema di «sperimentazioni assistenziali» – si ricollegherebbero direttamente all’istituzione delle due nuove direzioni aziendali delle professioni sanitarie non mediche.

Tuttavia, in realtà, l’unica norma censurata sarebbe quella dettata dall’art. 2 della legge de qua, mentre nessun contrasto con la Costituzione sarebbe prospettato con riguardo alle altre disposizioni della medesima legge. Pertanto, il tentativo di estendere l’impugnazione, mediante una semplice clausola di stile (il riferimento alle «norme inscindibilmente connesse»), anche a parti della disciplina regionale non investite dalle censure sarebbe inammissibile.

Inoltre, anche in relazione al citato art. 2 della legge impugnata, la difesa dello Stato si limiterebbe ad enunciare alcune presunte violazioni della Costituzione, senza motivarle.

Infatti, circa l’asserito contrasto con l’art. 81, quarto comma, Cost., non sarebbe chiarito perché mai l’istituzione delle nuove direzioni aziendali dovrebbe comportare maggiori oneri di spesa privi di adeguata copertura. Tale censura si risolverebbe in una mera affermazione di carattere apodittico.

Anche il motivo, per il quale la disciplina regionale risulterebbe in contrasto con gli artt. 97 e 117, secondo comma, lettera l), Cost., non sarebbe stato chiarito, in assenza di un’adeguata spiegazione relativa alle asserite violazioni.

Neppure tale eccezione è fondata.

Il ricorso, in forma concisa ma chiara, illustra le ragioni delle censure, ponendo l’accento sul fatto che il citato art. 2, pur prevedendo l’istituzione di due direzioni aziendali, non soltanto non specifica le modalità di copertura dei relativi posti ma non indica in alcuna parte che a detta copertura si provveda mediante modificazioni compensative della dotazione organica complessiva aziendale. Diretta conseguenza di tale mancata previsione sarebbe il difetto di garanzie circa l’invarianza della spesa, sia perché nella legge non sarebbe individuata la copertura finanziaria dei maggiori oneri di spesa derivanti dall’istituzione delle nuove direzioni, sia perché non sarebbe neppur precisato il numero dei relativi dirigenti.

Sono poi esposte, sia pure in termini sintetici, le ragioni di censura riferite agli artt. 97 e 117, comma secondo, lettera l), Cost.

Il ricorso, dunque, risulta sorretto da un sufficiente apparato argomentativo.

Né può condividersi l’assunto secondo cui l’unica norma censurata sarebbe quella dettata dall’art. 2 della legge regionale. In effetti, come la stessa resistente rileva, tutte le disposizioni di detta legge «si ricollegano direttamente all’istituzione delle due nuove direzioni aziendali delle professioni sanitarie non mediche». Ne deriva che le censure mosse all’art. 2 finiscono per estendersi, in via consequenziale, all’intera legge regionale.

4. — La questione è fondata.

Si deve premettere che l’applicazione alle Regioni dell’obbligo di copertura finanziaria delle disposizioni legislative è stata sempre ribadita da questa Corte (ex plurimis, tra le più recenti: sentenze nn. 141 e 100 del 2010, nn. 386 e 213 del 2008, n. 359 del 2007), con la precisazione che il legislatore regionale non può sottrarsi alla fondamentale esigenza di chiarezza ed equilibrio del bilancio cui l’art. 81 Cost. s’ispira. Essa, inoltre, ha chiarito che la copertura di nuove spese deve essere credibile, sufficientemente sicura, non arbitraria o irrazionale, in adeguato rapporto con la spesa che s’intende effettuare (sentenze n. 100 del 2010 e n. 213 del 2008).

La legge della Regione Veneto n. 17 del 2010, non è conforme a tali principi e, quindi, al disposto del citato precetto costituzionale.

Essa è composta da sette articoli. Il primo determina le finalità della normativa, individuandole nel «contribuire alla realizzazione del diritto alla salute, all’integrazione socio sanitaria e al miglioramento dell’organizzazione multi professionale del lavoro, attraverso l’istituzione delle direzioni aziendali delle professioni sanitarie infermieristiche ed ostetriche e delle professioni riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione». Il secondo stabilisce, nel comma 1, che «Le aziende unità locali socio sanitarie (ULSS), fermo restando quanto previsto dagli articoli 22, 23 e 24 della legge regionale 14 settembre 1994, n. 56 […], con particolare riferimento alla gestione unitaria del distretto socio-sanitario, dell’ospedale e del dipartimento di prevenzione, nonché le aziende ospedaliere e ospedaliere – universitarie integrate e gli istituti pubblici di ricovero e cura a carattere scientifico (IRCSS) istituiscono quali strutture complesse la direzione aziendale delle professioni sanitarie infermieristiche ed ostetriche e la direzione aziendale delle professioni riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione, di seguito denominate Direzioni». Il comma 2 aggiunge che «I direttori generali delle aziende ULSS, ospedaliere e ospedaliere – universitarie integrate e degli IRCSS, nell’atto aziendale di cui all’art. 3, comma 1-bis, del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 […], e successive modificazioni, definiscono l’articolazione delle direzioni in relazione alla complessità dei processi strategici, organizzativi, gestionali e formativi da garantire». L’art. 3 determina gli obiettivi delle direzioni; l’art. 4 dispone che ai dirigenti gli incarichi dirigenziali «sono conferiti secondo le modalità previste dalle leggi vigenti in materia di personale dirigente del ruolo sanitario»; l’art. 5 prevede le sperimentazioni assistenziali, con la possibilità per le aziende ULSS, previa autorizzazione da parte della Giunta regionale, di attivare «specifiche strutture residenziali a prevalente gestione infermieristica e ambulatori territoriali affidati a personale appartenente alle professioni sanitarie di cui alla presente legge, nel rispetto di quanto previsto dalla legge regionale 16 agosto 2002, n. 22 [….]; l’art. 6 detta una norma di coordinamento con altra legge regionale»; infine, l’art. 7 demanda alla Giunta regionale la definizione delle linee guida per l’elaborazione dell’atto aziendale di cui all’art. 2, comma 2, della legge medesima.

Come si vede, nella legge in questa sede censurata nulla si dice circa la consistenza delle direzioni e non si trova alcun cenno alla copertura finanziaria.

Al riguardo, non può porsi in dubbio che la normativa introdotta comporti nuove spese, ancorché il suo carattere generico non ne consenta una precisa determinazione. La legge censurata, nell’art. 2, prevede l’istituzione di due «strutture complesse» (così definite nell’art. 2, comma 1), in assenza però di indicazioni circa il relativo organico e la disponibilità dei mezzi necessari per il loro funzionamento, nonché senza stabilire che alla detta istituzione si debba provvedere mantenendo invariati i costi complessivi sopportati dagli enti per il personale impiegato e per le strutture occorrenti al fine di renderlo operativo.

La tesi della Regione Veneto, secondo cui la disciplina introdotta con la legge regionale n. 17 del 2010 verrebbe ad inserirsi in un quadro normativo già ricco di vincoli rigorosi volti al contenimento dei costi in materia sanitaria, onde non sarebbe in grado di provocare alcun incremento dei medesimi, non può essere condivisa.

Invero, il detto assunto si pone in contrasto con l’art. 81 Cost. che, dopo aver disposto nel terzo comma che con la legge di approvazione del bilancio non si possono stabilire nuovi tributi e nuove spese, aggiunge nel quarto comma che «Ogni altra legge che importi nuove e maggiori spese deve indicare i mezzi per farvi fronte».

Esiste, dunque, uno stretto collegamento tra la legge, la nuova e maggior spesa che essa comporta e la relativa copertura finanziaria, che non può essere ricercata in altre disposizioni, ma deve essere indicata nella legge medesima, al fine di evitare che gli effetti di essa (eventualmente in deroga alle altre disposizioni) possano realizzare stanziamenti privi della corrispondente copertura.

Né giova il richiamo della difesa regionale alle modifiche compensative che gli enti, cui è demandata l’istituzione delle nuove direzioni, dovrebbero eseguire nei propri organici, ovvero a forme di turnover con le modalità stabilite dalla Giunta regionale.

Ribadito che nessun cenno al riguardo si trova nella normativa de qua, e rilevato che le stesse modalità alternative prospettate dalla Regione conferiscono un carattere d’incertezza alla copertura finanziaria (che, invece, dovrebbe essere «credibile, sufficientemente sicura, non arbitraria o irrazionale», come dianzi precisato), si deve ancora osservare che sia la legge statale 10 agosto 2000, n. 251 (Disciplina delle professioni sanitarie infermieristiche, tecniche della riabilitazione, della prevenzione nonché della professione ostetrica), nell’art. 6, comma 2, ultimo periodo, sia l’art. 4 della legge in questa sede censurata, sia il contratto collettivo nazionale di lavoro cui la difesa regionale si richiama (in particolare, art. 8) si riferiscono, nella previsione delle modifiche compensative della dotazione organica complessiva aziendale, alle figure dirigenziali, onde restano indeterminate la consistenza del restante personale, le modalità di formazione della relativa dotazione organica e l’organizzazione delle nuove strutture.

In questo quadro, la normativa censurata viola il precetto dettato dall’art. 81, quarto comma, Cost.; e la violazione si estende all’intera legge, sia per la natura del vizio di legittimità riscontrato, sia perché tutte le disposizioni di essa presentano uno stretto collegamento con l’art. 2, cui le censure del ricorrente direttamente si riferiscono.

Pertanto, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Veneto n. 17 del 2010, per contrasto con il parametro da ultimo citato.

Ogni altra questione resta assorbita.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Veneto 4 marzo 2010, n. 17 (Istituzione delle direzioni aziendali delle professioni sanitarie infermieristiche e ostetriche e delle professioni riabilitative, tecnico-sanitarie e della prevenzione).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 marzo 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'1 aprile 2011.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI


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SENTENZA N. 107

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, paragrafo i) e paragrafo iii), della legge della Regione Basilicata 15 febbraio 2010 n. 21 (Modifiche ed integrazioni alla Legge regionale 19 gennaio 2010, n. 1 e al Piano di Indirizzo Energetico Ambientale Regionale) promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 19-22 aprile 2010, depositato in cancelleria il 26 aprile 2010 ed iscritto al n. 61 del registro ricorsi 2010.

Udito nell’udienza pubblica del 22 febbraio 2011 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro;

udito l’avvocato dello Stato Maria Letizia Guida per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso notificato alla Regione Basilicata il 19 aprile 2010 e depositato presso la cancelleria della Corte costituzionale il 26 aprile 2010 (reg. ric. n. 61 del 2010), il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge della Regione Basilicata 15 febbraio 2010, n. 21 (Modifiche ed integrazioni alla Legge regionale 19 gennaio 2010, n. 1 e al Piano di Indirizzo Energetico Ambientale Regionale), in particolare dei paragrafi i) e iii), che modificano, rispettivamente, il paragrafo 1.2.2.1. ed il paragrafo 2.2.2. della Appendice A del Piano di Indirizzo Energetico Ambientale Regionale, parte integrante della legge della Regione Basilicata 19 gennaio 2010, n. 1 (Norme in materia di energia e Piano di Indirizzo Energetico Ambientale Regionale d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 – l.r. n. 9/2007), in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

1.1. – Il ricorrente espone che l’art. 3 della legge regionale n. 21 del 2010 apporta varie modifiche all’Appendice A del Piano di Indirizzo Energetico Ambientale Regionale, il quale, a sua volta, costituisce parte integrante e sostanziale della citata legge regionale n. 1 del 2010. La norma censurata estende l’ambito di applicabilità del regime semplificato della denuncia di inizio attività (DIA), in relazione alla installazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, attribuendo, a tal fine, rilevanza alla collocazione e alle caratteristiche degli impianti stessi.

In primo luogo, il paragrafo i) dell’art. 3, comma 1, nel riformulare il paragrafo 1.2.2.1. della suddetta Appendice A della legge n. 1 del 2010 (in particolare il terzo capoverso), stabilisce che «il progetto di impianti per la produzione di energia elettrica di microgenerazione da fonte eolica di potenza superiore a 200 kW ed inferiore ad 1 MW ovunque ubicati, proposti dallo stesso soggetto, sia egli persona fisica o giuridica, e/o dallo stesso proprietario dei suoli di ubicazione dell’impianto, possono essere costruiti ed eserciti DIA ai sensi degli articoli 22 e 23 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, a condizione che siano posti ad una distanza non inferiore a 500 metri in linea d’aria».

In coerenza con tale previsione, il successivo paragrafo ii) dello stesso comma aggiunge, sempre nel contesto del paragrafo 1.2.2.1. della citata Appendice A, alla dicitura (del quinto capoverso) «Requisiti tecnici minimi» le seguenti parole: «per gli impianti di potenza superiore a 200 kW». Diversamente, la normativa statale (art. 12, comma 5, del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387, Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità), con riferimento alla installazione di impianti della suddetta tipologia, consente il ricorso alla disciplina della DIA di cui alle menzionate disposizioni del d.P.R. n. 380 del 2001 «quando la capacità di generazione sia inferiore alle soglie individuate dalla tabella A» dello stesso decreto legislativo, vale a dire quando quest’ultima sia inferiore ai 60 kW.

1.2. – Ancora, l’art. 3, comma 1, paragrafo iii), della legge regionale impugnata, modifica la citata Appendice A nella parte dedicata alle procedure per la costruzione e l’esercizio degli impianti fotovoltaici di microgenerazione (par. 2.2.2), stabilendo (con la riformulazione del quinto capoverso) che il progetto di impianti fotovoltaici non integrati per la produzione di energia elettrica di microgenerazione di potenza superiore a 200 kW ed inferiore ad 1 MW, ovunque ubicati, proposti dallo stesso soggetto, sia egli persona fisica o giuridica, e/o dallo stesso proprietario dei suoli di ubicazione dell’impianto, possono essere costruiti ed eserciti con la DIA, ancora a condizione che siano posti ad una distanza non inferiore a 500 metri in linea d’aria. Con riguardo alla fonte solare fotovoltaica, la normativa statale (art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 387 del 2003, e relativa Tabella A) consente, invece, il ricorso alla disciplina della DIA solo con riferimento agli impianti con capacità di generazione inferiore ai 20 kW.

1.3. – Con riferimento a entrambe le tipologie di impianti, le disposizioni regionali aumenterebbero, secondo il ricorrente, le soglie massime entro le quali è consentita l’effettuazione degli interventi di installazione di impianti da fonte rinnovabile, tramite DIA, ai sensi della tabella A allegata al d.lgs. n. 387 del 2003, ponendosi in tal modo il contrasto con quanto previsto dall’art. 12, comma 5, dello stesso decreto legislativo, per cui «maggiori soglie di capacità di generazione e caratteristiche dei siti di installazione per i quali si procede con la medesima disciplina della denuncia di inizio attività» possono essere individuate solo con decreto del Ministro dello sviluppo economico di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, d’intesa con la Conferenza unificata. Si configurerebbe, pertanto, una violazione dell’art. 12, comma 5, del d.lgs. n. 387 del 2003 e della tabella A allegata allo stesso, in cui è da ravvisare un principio fondamentale della materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» che, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, della Cost., vincola la potestà legislativa concorrente delle Regioni.

2. – Non ha svolto attività difensiva la Regione Basilicata.

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 3, comma 1, della legge della Regione Basilicata 15 febbraio 2010, n. 21 (Modifiche ed integrazioni alla Legge regionale 19 gennaio 2010, n. 1 e al Piano di Indirizzo Energetico Ambientale Regionale), in particolare i paragrafi i) e iii), che modificano, rispettivamente, il paragrafo 1.2.2.1. ed il paragrafo 2.2.2. della Appendice A del Piano di Indirizzo Energetico Ambientale Regionale, che è parte integrante della legge della Regione Basilicata 19 gennaio 2010, n. 1 (Norme in materia di energia e Piano di Indirizzo Energetico Ambientale Regionale d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 – l.r. n. 9/2007), in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione.

2. – Le questioni sono fondate.

2.1. – La norma censurata estende l’ambito di applicabilità del regime semplificato della denuncia di inizio attività (DIA) di cui agli articoli 22 e 23 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), in relazione alla installazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, attribuendo, a tal fine, rilevanza alla collocazione e alle caratteristiche degli impianti stessi.

Il nuovo testo dell’Allegato A del Piano di Indirizzo Energetico Ambientale Regionale (PIEAR), che è parte integrante della legge della Regione Basilicata del 2010, n. 1, al paragrafo 1.2.2.1., terzo capoverso, come riformulato dal paragrafo i) dell’art. 3, comma 1, della legge regionale n. 21 del 2010, stabilisce che gli impianti per la produzione di energia elettrica di microgenerazione da fonte eolica di potenza superiore a 200 kW ed inferiore ad 1 MW ovunque ubicati, proposti dallo stesso soggetto, sia egli persona fisica o giuridica, e/o dallo stesso proprietario dei suoli di ubicazione dell’impianto, possono essere «costruiti ed eserciti con la DIA», a condizione che siano posti ad una distanza non inferiore a 500 metri in linea d’aria.

La norma viene ad innalzare la soglia di potenza individuata, per gli impianti eolici, in kW 60, dalla tabella A richiamata dall’art. 12, comma 5, del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità).

L’aumento della soglia di potenza per la quale, innalzando la capacità, dai limiti ben più contenuti di cui alla tabella A allegata al d.lgs. n. 387 del 2003, la costruzione dell’impianto risulta subordinata a procedure semplificate, comporta l’illegittimità della norma regionale, posto che maggiori soglie di capacità di generazione e caratteristiche dei siti di installazione, per i quali si proceda con diversa disciplina, possono essere individuate solo con decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, d’intesa con la Conferenza unificata, senza che la Regione possa provvedervi autonomamente (sentenze nn. 194, 124 e 119 del 2010).

Emerge in tal modo la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., avendo la legge regionale violato i principi della legge statale, nella materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», di competenza concorrente (sentenze nn. 366, 332, 168 e 124 del 2010).

3. – Analogamente, il nuovo testo del paragrafo 2.2.2. (quinto capoverso) dell’Allegato A del PIEAR, come riformulato dal paragrafo iii) dell’art. 3, comma 1, della legge regionale n. 21 del 2010, stabilisce che gli impianti fotovoltaici non integrati per la produzione di energia elettrica di microgenerazione di potenza superiore a 200 kW ed inferiore ad 1 MW, ovunque ubicati, proposti dallo stesso soggetto, sia egli persona fisica o giuridica, e/o dallo stesso proprietario dei suoli di ubicazione dell’impianto, possono essere «costruiti ed eserciti con la DIA», anch’essi a condizione che siano posti ad una distanza non inferiore a 500 metri in linea d’aria.

Anche in tal caso, la norma regionale, prevedendo una soglia superiore a quella stabilita dalla legge statale per tali tipi di impianti di produzione di energia elettrica da fonte rinnovabile (20 kW), si pone in contrasto con l’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2009, che contiene la normativa statale di principio in materia di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia». Ne va, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, paragrafo i), della legge della Regione Basilicata 15 febbraio 2010, n. 21 (Modifiche ed integrazioni alla Legge regionale 19 gennaio 2010, n. 1 e al Piano di Indirizzo Energetico Ambientale Regionale), che modifica il terzo capoverso del paragrafo 1.2.2.1. dell’Appendice A al PIEAR, parte integrante della legge della Regione Basilicata 19 gennaio 2010, n. 1 (Norme in materia di energia e Piano di Indirizzo Energetico Ambientale Regionale d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 – l.r. n. 9/2007);

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, paragrafo iii), della stessa legge della Regione Basilicata n. 21 del 2010, che modifica il quinto capoverso del paragrafo 2.2.2. dell’Appendice A al PIEAR, parte integrante della citata legge della Regione Basilicata n. 1 del 2010.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 marzo 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'1 aprile 2011.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI


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SENTENZA N. 108

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 3, 13, 15, commi 1, 3 e 5, 16, commi 1 e 2, 17, comma 4, e 19, della legge della Regione Calabria 26 febbraio 2010, n. 8, «Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e finanziario (collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2010, art. 3, comma 4 della legge reg. n. 8 del 2002). Modifiche all’art. 11 della legge reg. 30 dicembre 2009, n. 42», promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 21-26 aprile 2010, depositato in cancelleria il 28 aprile 2010 ed iscritto al n. 65 del registro ricorsi 2010.

Udito nell’udienza pubblica del 22 febbraio 2011 il Giudice relatore Luigi Mazzella;

udito l’avvocato dello Stato Pierluigi Di Palma per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso depositato in cancelleria il 28 aprile 2010, il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso, con riferimento agli artt. 3, 97, 117 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 3, 13, 15, commi 1, 3 e 5, 16, commi 1 e 2, 17, comma 4, e 19 della legge della Regione Calabria 26 febbraio 2010, n. 8, «Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e finanziario (collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2010, art. 3, comma 4 della legge reg. n. 8 del 2002). Modifiche all’art. 11 della legge reg. 30 dicembre 2009, n. 42».

2. – L’art. 1, comma 3, prevede che «i lavoratori dipendenti delle Comunità montane che, all’entrata in vigore della impugnata legge regionale, prestano servizio presso altri Enti o aziende pubbliche, possono essere trasferiti ed inquadrati negli Enti o azienda pubbliche utilizzatrici». Secondo il Presidente del Consiglio, tale disposizione, nella parte in cui non circoscrive la sua stessa efficacia ai soli dipendenti a tempo indeterminato, introduce una generalizzata modalità di inquadramento riservato, in violazione del principio del concorso pubblico e dei principi di uguaglianza, buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione di cui agli artt. 3 e 97 della Costituzione.

2.1. – Il Presidente del Consiglio censura poi l’art. 13 della legge reg. n. 8 del 2010, il quale, al comma 1, in materia di lavoro precario, dispone la trasformazione, da tempo determinato a tempo indeterminato, del rapporto di lavoro dei lavoratori dei servizi irrigui degli impianti a fune di Camigliatello Silano, Lorica e Ciricilla e degli addetti ai servizi istituzionali e, al comma 2, prevede l’assunzione a tempo indeterminato del personale precario dell’ARSSA, disponendo che, nelle more, «i contratti in essere vengono prorogati fino all’espletamento delle procedure concorsuali finalizzate all’assunzione a tempo indeterminato». Secondo il ricorrente, anche tale disposizione, prevedendo forme di assunzione a tempo indeterminato in assenza di concorso, viola il principio del pubblico concorso, di cui all’art. 97 Cost.

2.2. – Il ricorrente censura poi i commi 1 e 3 dell’art. 15 della legge reg. n. 8 del 2010. Entrambe tali disposizioni – prevedendo, il primo la trasformazione dei contratti part-time del personale ex LSU/LPU [lavori socialmente utili/lavori di pubblica utilità] in rapporti lavoro full-time e il secondo le procedure finalizzate alla progressione di carriera mediante selezione interna – non sarebbero in linea con la normativa statale vigente e, in particolare, con l’art. 1, comma 557, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007) e con l’art. 76, comma 6, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, legge 6 agosto 2008, n. 133, che impone agli Enti pubblici una rigorosa programmazione di spesa per il personale e fissa, per tale tipologia di spesa, una disciplina vincolistica. In tal modo, la norma violerebbe l’art. 117, comma 3, Cost., costituendo le norme statali interposte principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica.

2.2.1 – Il solo comma 1, poi, secondo il ricorrente, si porrebbe anche in contrasto con il Titolo III (da art. 40 e ss.) del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), invadendo la competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile, di cui all’art. 117, comma 2, lettera l), Cost.

2.2.2. – D’altro canto, il comma 3, introducendo meccanismi di progressione di carriera mediante selezione interna, si porrebbe in contrasto con l’art. 24 del d.lgs 27 ottobre 2009, n.150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni) e con l’art. 5 della legge 4 marzo 2009, n. 15 (Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e alla Corte dei conti) e violerebbe, al contempo, i principi di uguaglianza, buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione di cui agli artt. 3 e 97 Cost.

2.3.– Analoga censura è sollevata anche con riferimento all’art. 15, comma 5, della legge reg. n. 8 del 2010, il quale, disponendo che la Giunta regionale è autorizzata a stabilizzare, su espressa domanda degli interessati, le unità LSU/LPU in servizio presso gli uffici regionali che, alla data del 1° aprile 2008, non hanno esercitato la facoltà di accedere al procedimento di stabilizzazione, configurerebbe, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, una modalità di accesso riservato e lederebbe, in tal modo, il principio del concorso pubblico.

2.4. – Viene poi impugnata la norma contenuta nell’art. 16, comma 1, della legge reg. n. 8 del 2010. Questa, disponendo la proroga, sino al 31 dicembre 2012, della validità delle graduatorie afferenti ai concorsi interni del personale regionale, già espletati mediante il sistema di progressioni verticali e che non risultano esaurite per effetto dell’avvenuto scorrimento ed autorizzando la Giunta regionale ad avviare procedimenti finalizzati alla progressione di carriera, si porrebbe in contrasto con la disciplina vincolistica dettata in materia di contenimento delle spese di personale della Regione dall’art. 24 del d.lgs. n. 150 del 2009 e dall’art. 5 della legge n. 15 del 2009, che prevedono l’obbligo del pubblico concorso, riservando al personale interno solo il 50 % dei posti disponibili e violerebbe, da un lato, l’art. 117, comma 3, Cost. (coordinamento della finanza pubblica), e, dall’altro il principio del pubblico concorso, di cui agli artt. 3 e 97 Cost.

2.5. – Secondo il ricorrente, è illegittimo anche l’art. 16, comma 2, della legge reg. n. 8 del 2010, il quale prevede che i dipendenti in servizio al 1º gennaio 2010 in posizione di comando presso gli uffici della Giunta regionale, proveniente da enti pubblici, che abbiano maturato, in tale posizione, almeno quattro anni di ininterrotto servizio, sono trasferiti, a domanda, nei ruoli organici della Regione, escludendo dal trasferimento il personale comandato ai sensi della legge reg. 13 maggio 1996, n. 7 (Norme sull’ordinamento della struttura organizzativa della Giunta regionale e sulla dirigenza regionale), della legge reg. 26 marzo 1997, n. 8 (Norme sul riordino e sul funzionamento delle strutture speciali della Regione Calabria) e successive modifiche e integrazioni. Tale norma creerebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra gli stessi soggetti comandati presso la Regione, e in particolare tra quelli comandati presso gli uffici della Giunta e gli altri comandati presso altri uffici, escludendo, peraltro, gli altri soggetti in posizione di comando ai sensi delle leggi reg. n. 7 del 1996 e n. 8 del 1997, ancorché versino nelle medesime condizioni. La norma, pertanto, sarebbe priva di razionalità e violerebbe i principi di uguaglianza, oltre a quelli di buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, di cui agli artt. 3 e 97 Cost.

2.6. – Il Presidente del Consiglio, poi, chiede che sia dichiarato illegittimo l’art. 17, comma 4, della medesima legge reg. n. 8 del 2010. Tale norma, autorizzando la Giunta regionale ad utilizzare – per l’inserimento negli organici degli Enti regionali, sub-regionali, società regionali in house e nei ruoli disponibili dell’Amministrazione regionale – le graduatorie del personale dichiarato idoneo con Det. 8 agosto 2002, n. 384, contrasterebbe con l’art. 1 della legge reg. 20 novembre 2009, n. 27 (Integrazioni alla legge reg. 31 luglio 2007, n. 32, recante “Norme regionali in materia di autorizzazione, accreditamento istituzionale e accordi contrattuali delle strutture sanitarie e socio-sanitarie pubbliche e private”), che non consentirebbe un simile scorrimento di graduatoria, in tal modo violando anch’essa gli artt. 3 e 97 Cost. ed i principi, ivi contenuti, di ragionevolezza, uguaglianza e buon andamento della pubblica amministrazione.

2.7. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, infine, censura l’art. 19 della predetta legge regionale, il quale, nel modificare l’art. 2, comma 1, della legge reg. 19 novembre 2003, n. 20 (Norme volte alla stabilizzazione occupazionale dei lavoratori impegnati in lavori socialmente utili e di pubblica utilità), amplia la platea dei destinatari dell’originaria norma, dando vita ad una forma di stabilizzazione anche per il personale dipendente degli Enti non utilizzatori di lavoratori impegnati in attività socialmente utili e di pubblica utilità. In tal modo, anche tale norma configurerebbe una forma di accesso riservato, in violazione del principio del concorso pubblico e dei principi di uguaglianza, buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione di cui agli artt. 3 e 97 Cost.

Considerato in diritto.

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso, con riferimento agli artt. 3, 97, 117, secondo comma, lettera l), e terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 3, 13, 15, commi 1, 3 e 5, 16, commi 1 e 2, 17, comma 4, e 19 della legge della Regione Calabria 26 febbraio 2010, n. 8, «Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e finanziario (collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2010, art. 3, comma 4 della legge reg. n. 8 del 2002). Modifiche all’art. 11 della legge reg. 30 dicembre 2009, n. 42».

2. – L’art. 1, comma 3, della legge regionale impugnata dispone che i lavoratori dipendenti delle Comunità montane che, all’entrata in vigore della legge censurata, prestano servizio presso altri Enti o aziende pubbliche, possano essere trasferiti ed inquadrati negli Enti o aziende pubbliche utilizzatrici.

2.1. – Il successivo art. 13, comma 1, autorizza la trasformazione del rapporto di lavoro dei lavoratori dei servizi irrigui, degli impianti a fune di Camigliatello Silano, Lorica e Ciricilla e degli addetti ai servizi istituzionali, da tempo determinato a tempo indeterminato, stabilendo che il Commissario Liquidatore dell’Azienda Forestale della Regione Calabria provveda all’assunzione a tempo indeterminato del personale precario individuato dall’art. 25, comma 1, della legge reg. 13 giugno 2008, n. 15, recante «Provvedimento generale di tipo ordinamentale e finanziario (collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2008 ai sensi dell’art. 3, comma 4, della legge reg. 4 febbraio 2002, n. 8)» e che, nelle more, i contratti in essere vengono prorogati fino all’espletamento delle procedure concorsuali finalizzate all’assunzione a tempo indeterminato.

2.2. – L’art. 15, comma 1, della legge regionale richiamata dispone che, per garantire il più corretto utilizzo del personale ex LSU/LPU [Lavori socialmente utili / Lavori di pubblica utilità], assunto a tempo indeterminato con contratto part-time alle dipendenze della Regione ai sensi, il rapporto di lavoro del personale stabilizzato part-time verticale a 24 ore settimanali sia trasformato in rapporto di lavoro a tempo pieno a 36 ore settimanali.

La stessa disposizione, al comma 3, al fine di favorire lo sviluppo professionale delle risorse umane di cui al comma 1, autorizza la Giunta regionale ad avviare, nell’ambito della programmazione triennale, procedimenti finalizzati alla progressione di carriera mediante selezione interna effettuata tra il personale appartenente a tutte le categorie.

Il comma 5 del predetto art. 15, infine, autorizza la Giunta regionale a stabilizzare, su espressa domanda, le unità LSU/LPU in servizio presso gli uffici regionali che alla data del 1° aprile 2008 non hanno esercitato la facoltà di accedere al procedimento di stabilizzazione, disponendo che anche a tali unità di personale si applichino le disposizioni di cui al comma 1.

2.3. – Il successivo art. 16, comma 1, della legge regionale in discorso, poi, proroga al 31 dicembre 2012 il termine di validità delle graduatorie afferenti ai concorsi interni del personale regionale, già espletati mediante il sistema delle progressioni verticali e che non risultano esaurite per effetto dell’avvenuto scorrimento, autorizzando la Giunta regionale ad avviare nell’ambito della programmazione triennale, procedimenti finalizzati alle progressioni di carriera. Inoltre, al comma 2, la norma dispone che i dipendenti in servizio al 1° gennaio 2010 in posizione di comando presso gli uffici della Giunta regionale proveniente da Enti pubblici, che abbiano maturato in tale posizione almeno quattro anni di ininterrotto servizio, siano trasferiti, a domanda, nei ruoli organici della Regione, nei limiti della dotazione organica prevista nella programmazione triennale del personale e delle risorse disponibili.

2.4. – L’art. 17, comma 4, della legge regionale censurata, autorizza la Giunta ad utilizzare – per l’inserimento negli organici degli Enti regionali, sub-regionali, società regionali in house e nei ruoli disponibili dell’Amministrazione regionale – le graduatorie del personale già dichiarato idoneo con det. 8 agosto 2002, n. 384, ribaltando quanto in precedenza disposto da altra legge della Regione Calabria, la n. 27 del 2009. Quest’ultima, a sua volta, interpretando restrittivamente due precedenti disposizioni di legge regionale, chiariva che le stabilizzazioni (mediante concorso riservato) disposte dalle disposizioni previgenti, dovessero intendersi una tantum, e vietava esplicitamente lo scorrimento di graduatoria.

2.5. – L’art. 19 della predetta legge reg. n. 8 del 2010, infine, modifica l’art. 2, comma 1, della legge reg. 19 novembre 2003, n. 20 (Norme volte alla stabilizzazione occupazionale dei lavoratori impegnati in lavori socialmente utili e di pubblica utilità), inserendo, dopo le parole «Enti attuatori» le parole «nonché i soggetti avviati al lavoro ai sensi dell’articolo 7 del D. Dirig. reg. 6 aprile 2006, n. 3902 , «pubblicato sul B.U.R.C. supplemento ordinario, n. 3 del 7 aprile 2006», disponendo che i benefici di cui alla legge reg. 19 novembre 2003, n. 20 siano applicabili anche ai lavoratori precari di cui all’art. 7 del citato D. Dirig. reg. 6 aprile 2006, n. 3902.

3. – La questione relativa all’art. 1, comma 3, della legge regionale impugnata, sollevata con riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., è fondata.

Detta disposizione consente che i lavoratori dipendenti delle Comunità montane che, all’entrata in vigore della legge stessa, prestino servizio presso altri Enti o aziende pubbliche, siano inquadrati alle dipendenze dell’Ente o azienda presso cui sono utilizzati. In tal modo, si consente la stabilizzazione dei lavoratori comandati nei nuovi Enti, anche se titolari di meri rapporti precari. La norma censurata realizza, quindi, per tali lavoratori, una forma di assunzione riservata, senza predeterminazione di criteri selettivi di tipo concorsuale. Simile modalità di assunzione, escludendo o riducendo irragionevolmente la possibilità di accesso al lavoro dall’esterno, viola il principio del pubblico concorso, di cui agli artt. 3 e 97 Cost. La natura comparativa e aperta della procedura è, infatti, elemento essenziale del concorso pubblico, come questa Corte ha più volte ribadito (sentenze n. 7 del 2011, n. 235 del 2010, n. 149 del 2010, n. 293 del 2009, n. 215 del 2009, n. 363 del 200, n. 205 del 2006).

3.1. – Anche la questione relativa all’art. 13 della legge regionale censurata, sollevata con riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., è fondata.

Il primo comma della predetta disposizione, invero, autorizza la stabilizzazione di lavoratori precari dei servizi irrigui e degli impianti a fune, senza concorso e senza alcuna verifica attitudinale, in contrasto con il principio di cui all’art. 97, terzo comma, Cost.

Il secondo comma, analogamente, dispone l’assunzione a tempo indeterminato, presso l’azienda forestale della Regione Calabria, di personale precario, senza predeterminazione di criteri attitudinali e senza richiedere la partecipazione ad alcuna prova selettiva concorsuale; in alternativa, la norma autorizza la proroga dei contratti a tempo determinato fino all’espletamento di concorsi, ma non prevede alcun termine per l’indizione dei medesimi. Pertanto, entrambe le modalità di assunzione comportano, di fatto, una sorta di stabilizzazione senza concorso dei lavoratori precari, in violazione del principio del pubblico concorso, di cui all’art. 97 Cost. (ex plurimis sentenza n. 7 del 2011).

3.2. – La questione relativa all’art. 15, comma 1, della legge regionale censurata è fondata, sia con riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. (ordinamento civile), sia con riferimento alla dedotta violazione di principi fondamentali della legislazione statale in materia di coordinamento della finanza pubblica (art. 117, terzo comma, Cost.).

L’art. 15, comma 1, prevedendo la trasformazione dei contratti a tempo parziale del personale ex LSU/LPU in rapporti di lavoro a tempo pieno, incide sulla disciplina dell’orario, regolato dalla contrattazione collettiva. In tal modo, la disposizione regionale detta una norma attinente alla disciplina privatistica del rapporto di lavoro e, dunque, incide sulla materia dell’ordinamento civile, di competenza esclusiva del legislatore statale (sentenze n. 69 del 2011 e n. 324 del 2010).

La norma regionale censurata è, inoltre, illegittima anche con riferimento alla lesione dei principi fondamentali della legislazione statale in materia di coordinamento della finanza pubblica, di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. Con l’introduzione di procedure finalizzate alla progressione di carriera mediante selezione interna, la stessa si pone in contrasto con l’art. 1, comma 557, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), che obbliga le Regioni alla riduzione delle spese per il personale e al contenimento della dinamica retributiva, e con il comma 557-bis della medesima disposizione della predetta legge statale, che estende tale obbligo di riduzione anche ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e a tutti i rapporti precari in organismi e strutture facenti capo alla Regione. Inoltre, la norma censurata contrasta anche con l’art. 76, comma 6, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, legge 6 agosto 2008, n. 133, che, al comma 6, prevede l’adozione di un d.P.C.M. per la riduzione delle spese del personale e, al comma 7, vieta esplicitamente agli Enti nei quali l’incidenza delle spese del personale è pari al 40% di procedere ad assunzioni con qualsivoglia tipologia contrattuale. Tali norme statali, ispirate alla finalità del contenimento della spesa pubblica, costituiscono princìpi fondamentali nella materia del coordinamento della finanza pubblica, in quanto pongono obiettivi di riequilibrio, senza, peraltro, prevedere strumenti e modalità per il perseguimento dei medesimi. Invero, come ha chiarito questa Corte, «…la spesa per il personale, per la sua importanza strategica ai fini dell’attuazione del patto di stabilità interna (data la sua rilevante entità), costituisce non già una minuta voce di dettaglio, ma un importante aggregato della spesa di parte corrente, con la conseguenza che le disposizioni relative al suo contenimento assurgono a principio fondamentale della legislazione statale» (sentenza n. 69 del 2011, che richiama la sentenza n. 169 del 2007).

3.3. – La questione, relativa all’art. 15, comma 3, della legge regionale censurata, è fondata.

Detta norma autorizza la Giunta regionale ad avviare procedimenti per la progressione di carriera, mediante selezione interna effettuata tra il personale appartenente a tutte le categorie, laddove l’art. 24 del d.lgs n.150 del 2009 e l’art. 5 della legge n. 15 del 2009 prevedono espressamente, per le progressioni di carriera, l’obbligo del pubblico concorso, riservando al personale interno solo il 50% dei posti disponibili. La disposizione viola i principi di uguaglianza e buon andamento della pubblica amministrazione, di cui agli artt. 3 e 97 Cost. Come, infatti, questa Corte, ha più volte chiarito, la progressione nei pubblici uffici deve avvenire sempre per concorso e previa rideterminazione della dotazione organica complessiva (sentenze n. 7 del 2011, n. 159 del 2005, n. 274 del 2003, n. 218 del 2002, n. 1 del 1999 e n. 478 del 1995).

L’accoglimento della questione sollevata con riferimento ai principi suindicati comporta l’assorbimento della censura sollevata con riferimento all’art. 117, comma 3, Cost.

3.4. – La questione avente ad oggetto l’art. 15, comma 5, della legge regionale censurata, è fondata.

La norma autorizza la Giunta regionale, su espressa domanda degli interessati facenti parti delle unità LSU/LPU in servizio presso gli uffici regionali che, alla data del 1° aprile 2008, non abbiano esercitato la facoltà di accedere al procedimento appositamente previsto, a stabilizzare senza concorso tutti i lavoratori socialmente utili già impiegati dalla Regione, senza porre limiti percentuali al ricorso a tale tipo di assunzione. Essa, ponendosi in contrasto con le nuove previsioni recate dall’art. 17, commi 10 - 13, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, legge 3 agosto 2009, n. 102, che, con riferimento alla generalità delle amministrazioni pubbliche, stabilisce nuove modalità di valorizzazione dell’esperienza professionale acquisita dal personale non dirigente, attraverso l’espletamento di concorsi pubblici con parziale riserva dei posti, configura una modalità di accesso riservato agli uffici pubblici, ritenuta costituzionalmente illegittima dalla costante giurisprudenza della Corte. Quest’ultima, infatti, nella prospettiva di valorizzare le professionalità maturate all’interno dell’amministrazione, ha ammesso la stabilizzazione di contratti di lavoro precario, in deroga al principio del concorso pubblico di cui all’art. 97 Cost., solo entro limiti percentuali tali da non pregiudicare il prevalente carattere aperto delle procedure di assunzione nei pubblici uffici (sentenze n. 7 del 2011, n. 235 e n. 149 del 2010, n. 293 e n. 215 del 2009, n. 363 e n. 205 del 2006).

3.5. – Anche la questione, riguardante l’art. 16, commi 1 e 2, della predetta legge regionale, è fondata.

Il primo comma della norma censurata prevede una modalità di progressione verticale nel sistema di classificazione, basata sui risultati di un concorso già espletato e non già sull’indizione di nuovi concorsi ad hoc. Essa, invero, dispone che i candidati vincitori dei concorsi precedentemente svolti siano riclassificati e che le relative graduatorie siano rese utilizzabili per i successivi tre anni. In tal modo, essa si pone in contrasto con il principio, costantemente affermato da questa Corte, in base al quale la progressione nei pubblici uffici deve avvenire sempre per concorso e previa rideterminazione della dotazione organica complessiva (sentenze n. 7 del 2011 e n. 478 del 1995).

Il secondo comma dello stesso articolo dispone che i dipendenti in servizio al 1° gennaio 2010 in posizione di comando presso gli uffici della Giunta regionale proveniente da Enti pubblici, che abbiano maturato in tale posizione almeno quattro anni di ininterrotto servizio, siano trasferiti, a domanda, nei ruoli organici della Regione. In tal modo, esso autorizza la stabilizzazione di tutto il personale comandato, senza limitazioni percentuali e senza predeterminazione di requisiti attitudinali. Viola, pertanto, il principio dell’accesso agli uffici pubblici mediante pubblico concorso, di cui all’art. 97 Cost., anche con riferimento al necessario carattere aperto dello stesso (sentenze n. 7 del 2011, n. 235 e n. 149 del 2010, n. 293 e n. 215 del 2009, n. 363 e n. 205 del 2006). Inoltre, indirizzandosi ai soli soggetti comandati presso le Giunte regionali e non a quelli ugualmente comandati presso altre strutture regionali, la norma censurata determina anche una disparità di trattamento di situazioni uguali, in violazione del principio di cui all’art. 3, Cost.

3.6. – La questione, riguardante l’art. 17, comma 4, della legge regionale censurata, è fondata.

Detta norma consente alla Giunta di utilizzare – per l’inserimento negli organici degli Enti regionali e pararegionali – le graduatorie del personale dichiarato idoneo sulla base di un concorso espletato in data anteriore al 2002 e non aperto al pubblico, autorizzando, dunque, lo scorrimento delle graduatorie in assenza di un nuovo pubblico concorso ad hoc. In tal modo, la disposizione viola il principio del pubblico concorso per l’accesso ai pubblici uffici e quelli di uguaglianza e buon andamento della Pubblica Amministrazione, di cui agli artt. 3 e 97 Cost. (v. sentenza n. 7 del 2011).

3.7. – E’, infine, fondata, anche la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 19 della predetta legge regionale, come integrato dall’errata corrige pubblicata sul BUR del 1° aprile 2010.

Detta norma, nel modificare l’art. 2, comma 1, della legge reg. n. 20 del 2003, individua alcune categorie di soggetti quali destinatari delle misure e delle azioni di stabilizzazione occupazionale dei bacini, precisando che i benefici di cui alla legge citata sono applicabili anche ai lavoratori precari di cui all’art. 7 del decreto dirigenziale regionale 6 aprile 2006, n. 3902.

In tal modo, la norma regionale determina un sostanziale ampliamento della platea dei destinatari della originaria norma di stabilizzazione, consentendone l’assunzione in mancanza di pubblico concorso, e configura, per tali lavoratori, una modalità di accesso riservato, in contrasto con il carattere aperto e pubblico del reclutamento nei pubblici uffici, richiesto dall’art. 97 Cost. (sentenze n. 7 del 2011, n. 235 e n. 149 del 2010, 293 e n. 215 del 2009, n. 363 e n. 205 del 2006).

per questi motivi

la corte costituzionale

dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 1, comma 3, 13, 15, commi 1, 3 e 5, 16, commi 1 e 2, 17, comma 4, e 19 della legge della Regione Calabria 26 febbraio 2010, n. 8, «Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e finanziario (collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2010, art. 3, comma 4 della legge reg. n. 8 del 2002). Modifiche all’art. 11 della legge reg. 30 dicembre 2009, n. 42».

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 marzo 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'1 aprile 2011.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI


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SENTENZA N. 109

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, primo e secondo periodo, e comma 2, primo periodo del decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 195 (Disposizioni urgenti per la cessazione dello stato di emergenza in materia di rifiuti nella regione Campania, per l’avvio della fase post emergenziale nel territorio della regione Abruzzo ed altre disposizioni urgenti relative alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed alla protezione civile) convertito, con modificazioni, in legge 26 febbraio 2010, n. 26, promosso dalla Provincia autonoma di Trento con ricorso notificato il 28 aprile 2010, depositato in cancelleria il 3 maggio 2010 ed iscritto al n. 71 del registro ricorsi 2010.

Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 22 febbraio 2011 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;

uditi gli avvocati Giandomenico Falcon e Andrea Manzi per la Provincia autonoma di Trento e l’avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. — La Provincia autonoma di Trento, in persona del Presidente della Giunta provinciale, con ricorso notificato il 28 aprile 2010 al Presidente del Consiglio dei ministri, depositato in cancelleria il 3 maggio 2010, ha promosso in via principale questione di legittimità costituzionale dell’articolo 17, comma 1, primo e secondo periodo, e comma 2, primo periodo, del decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 195 (Disposizioni urgenti per la cessazione dello stato di emergenza in materia di rifiuti della Regione Campania, per l’avvio della fase post emergenziale nel territorio della Regione Abruzzo ed altre disposizioni urgenti relative alla Presidenza del Consiglio dei Ministri ed alla protezione civile), come convertito, con modificazioni, dalla legge 26 febbraio 2010, n. 26, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale 27 febbraio 2010, n. 48, S.O., «nelle parti, nei termini e sotto i profili esposti nel presente ricorso, ed in particolare nella parte in cui rende applicabile tale disposizione alla Provincia autonoma di Trento».

2. — La Provincia ha prospettato, in ordine alla norma censurata, la violazione: 1) dello Statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige di cui al d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), e precisamente: dell’articolo 8, comma primo, nn. 1, 5, 6, 13, 17 e 24; dell’articolo 9, nn. 9 e 10; dell’art. 14, commi 2 e 3; dell’art. 16, nonché del titolo VI; 2) delle norme di attuazione di cui al d.P.R. 20 gennaio 1973, n. 115 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di trasferimento alle province autonome di Trento e Bolzano dei beni demaniali e patrimoniali dello Stato e della Regione); di cui al d.P.R. 22 marzo 1974, n. 381 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige in materia di urbanistica ed opere pubbliche); di cui al d.P.R. 26 marzo 1977, n. 235 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige in materia di energia); di cui al d. lgs. 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento); di cui al d.lgs. 16 marzo 1992, n. 268 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige in materia di finanza regionale e provinciale); 3) del principio di leale collaborazione.

La ricorrente osserva che le Province autonome hanno competenza legislativa primaria in materia di «opere di prevenzione e di pronto soccorso per calamità pubbliche» (art. 8, n. 13, dello statuto), di «opere idrauliche della terza, quarta e quinta categoria» (art. 8, n. 24, dello statuto), di «viabilità, acquedotti e lavori pubblici di interesse provinciale» (art. 8, n. 17, dello statuto), di «urbanistica e piani regolatori» (art. 8, n. 5, dello statuto), di «tutela del paesaggio» (art. 8, n. 6, dello statuto). Inoltre, le Province autonome sono dotate di competenza legislativa concorrente in materia di «utilizzazione delle acque pubbliche» (art. 9, n. 9, dello statuto) e di «igiene e sanità» (art. 9, n. 10, dello statuto).

Ai sensi dell’art. 16 dello statuto, nelle materie di competenza legislativa provinciale spettano alle Province autonome le relative potestà amministrative.

Il titolo VI dello statuto speciale e le relative norme di attuazione (d.lgs. n. 268 del 1992 cit.) assicurano alle Province autonomia finanziaria nelle materie di propria competenza.

L’art. 14 dello statuto medesimo dispone (tra l’altro) che «l’utilizzazione delle acque pubbliche da parte dello Stato e della Provincia, nell’ambito della rispettiva competenza, ha luogo in base ad un piano generale stabilito d’intesa tra i rappresentanti dello Stato e della Provincia in seno ad un apposito comitato».

La ricorrente prosegue rimarcando che le menzionate norme statutarie sono state attuate ed integrate dalle norme di attuazione di cui agli atti normativi dianzi citati.

In particolare, a suo avviso, viene in rilievo il d.P.R. n. 381 del 1974, il cui art. 1 trasferisce alle Province autonome (tra l’altro) le attribuzioni dell’amministrazione dello Stato in materia di urbanistica, di edilizia sovvenzionata, di utilizzazione delle acque pubbliche, di opere idrauliche, di opere di prevenzione e pronto soccorso per calamità pubbliche, mentre l’art. 5, comma 1, del medesimo decreto demanda alle Province stesse tutte le attribuzioni inerenti alla titolarità del demanio idrico (del pari trasferito) e il comma 4 aggiunge che il piano generale per l’utilizzazione delle acque pubbliche (PGUAP), contemplato dall’art. 14 del d.P.R. n. 670 del 1972, vale anche, per il rispettivo territorio, quale piano di bacino di rilievo nazionale.

Inoltre, l’art. 7 del citato d.P.R. delega alle Province autonome l’esercizio delle funzioni statali in materia di opere idrauliche di prima e seconda categoria e l’art. 8, comma 1, nel disciplinare il piano generale per l’utilizzazione delle acque pubbliche, stabilisce che esso (tra l’altro) deve contenere «le linee fondamentali per una sistematica regolazione dei corsi d’acqua con particolare riguardo alle esigenze di tutela del suolo, nel reciproco rispetto delle competenze dello Stato e della Provincia interessata».

La ricorrente riferisce, poi, che con d.P.R. 15 febbraio 2006 è stato reso esecutivo il Piano generale di utilizzazione delle acque pubbliche relativo alla Provincia di Trento e ne illustra i contenuti con particolare riguardo alle esigenze di difesa del suolo, nonché alla tutela dal rischio idrogeologico e alle misure di prevenzione per le aree a rischio. Osserva che il capo IV del d.P.R. ora citato è dedicato appunto alle «aree a rischio idrogeologico», delle quali definisce la nozione e la suddivisione in quattro classi di gravosità crescente, in funzione del livello di pericolosità dell’evento, della possibilità di perdite di vite umane e del valore dei beni presenti (art. 15). Infine, sottolinea che, a parte le competenze specifiche nel settore della difesa del suolo e delle acque, i lavori connessi alla difesa del suolo si traducono tutti in lavori pubblici di interesse provinciale, di competenza piena della Provincia.

In questo quadro, la ricorrente ritiene palese che, in virtù delle disposizioni statutarie, delle citate norme di attuazione nonché delle determinazioni assunte dallo Stato e dalla Provincia stessa in esecuzione di esse, la ricorrente medesima sia dotata di competenza legislativa ed amministrativa nella materia della difesa del suolo dal rischio idrogeologico.

Tanto premesso, essa illustra le norme censurate, costituenti – in quanto riferite alla Provincia di Trento – oggetto dell’impugnazione.

Tali disposizioni (art. 17, comma 1, primo e secondo periodo, e comma 2, primo periodo, del d.l. n. 195 del 2009, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 26 del 2010), stabiliscono che, nelle circostanze in esse previste – connesse alla necessità d’intervenire con urgenza nelle situazioni a più elevato rischio idrogeologico – in sede di prima applicazione dei piani straordinari diretti a rimuovere dette situazioni, e comunque non oltre tre anni dall’entrata in vigore del decreto-legge, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentiti il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e il Dipartimento della protezione civile, nonché i Presidenti delle Regioni o delle Province autonome interessate, possono essere nominati commissari straordinari delegati. La nomina avviene ai sensi dell’art. 20 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185 (Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anticrisi il quadro strategico nazionale), convertito con modificazioni dall’art. 1 della legge 28 gennaio 2009, n. 2 (primo periodo). I commissari attuano gli interventi previsti dalla norma in questione (secondo periodo). Infine, il comma 2, primo periodo, riguarda l’attività di coordinamento delle fasi relative alla programmazione e alla realizzazione degli interventi, nonché quella di verifica, attuata dai commissari che promuovono le occorrenti intese tra i soggetti pubblici e privati interessati e, se del caso, emanano gli atti e i provvedimenti e curano tutte le attività di competenza delle amministrazioni pubbliche necessarie alla realizzazione degli interventi stessi, nel rispetto delle disposizioni comunitarie, avvalendosi, ove necessario, dei poteri di sostituzione e di deroga di cui al citato art. 20, comma 4.

La Provincia ricorda che i piani straordinari diretti a rimuovere le situazioni a più elevato rischio idrogeologico, cui la normativa censurata si riferisce, sono attualmente disciplinati dall’art. 67, comma 2, del d.lgs. n. 152 del 2006, che demanda l’approvazione dei piani stessi alle Autorità di bacino, le quali provvedono anche sulla base delle proposte delle regioni e degli enti locali.

Lo stesso testo dispone che i detti piani straordinari devono ricomprendere in via prioritaria le aree a rischio idrogeologico per le quali è stato dichiarato lo stato di emergenza, ai sensi dell’art. 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225 (Istituzione del Servizio nazionale della protezione civile), e che essi «contengono in particolare l’individuazione e la perimetrazione delle aree a rischio idrogeologico molto elevato per l’incolumità delle persone e per la sicurezza delle infrastrutture e del patrimonio ambientale e culturale».

La ricorrente segnala ancora che la legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Legge finanziaria per l’anno 2010), nell’art. 2, comma 240, dispone degli stanziamenti destinandoli ai menzionati piani straordinari; e, quanto al ruolo dei commissari, menziona l’art. 20 del d.l. 29 novembre 1998 (recte: 2008), n. 185 (Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anti-crisi il quadro strategico nazionale), a sua volta richiamato dalla normativa censurata, sottolineando, in particolare, il comma 4 che contempla i poteri dei detti commissari.

Dopo aver posto in luce che la normativa de qua certamente si applica anche al territorio provinciale (come si evince dal riferimento ai presidenti delle Province autonome, di cui all’impugnato art. 17, comma 1), la ricorrente deduce la violazione delle proprie competenze legislative ed amministrative, facendo leva sulle disposizioni che le conferiscono la competenza in materia di opere idrauliche e di prevenzione e pronto soccorso per calamità pubbliche, nonché su quelle che attribuiscono al PGUAP lo scopo di difesa del suolo e lo equiparano ai piani di bacino di rilievo nazionale. Proprio sulla base di tale competenza essa si è dotata, d’intesa con lo Stato, di uno strumento completo di tutela dal rischio idrogeologico, qual è appunto il PGUAP, reso esecutivo col d.P.R. 15 febbraio 2006.

Pertanto – prosegue la Provincia di Trento – la difesa del suolo dal rischio idrogeologico avrebbe, nel territorio della Provincia stessa, una disciplina speciale, di derivazione statutaria, concordata con lo Stato, che pienamente le riconoscerebbe la relativa competenza.

Invece, le norme impugnate regolerebbero gli interventi diretti a rimuovere le suddette situazioni di rischio prevedendo la possibilità di attribuire la competenza operativa ad un organo straordinario statale, dotato di ampi poteri sostitutivi e di deroga ad ogni disposizione vigente, nonché con ampiezza di poteri tale da interferire con il sistema trentino di tutela, sovrapponendosi in particolare al PGUAP. Ne deriverebbe la violazione delle citate norme statutarie e di attuazione, nonché dell’art. 2 del d.lgs. n. 266 del 1992, che esclude la diretta applicabilità delle leggi statali nelle materie di competenza provinciale.

Questa competenza non potrebbe essere negata riconducendo la difesa del suolo alla materia ambientale e da ciò traendo la conclusione per affermare la competenza statale in forza dell’art. 117, comma secondo, lettera s), Cost. Infatti, come ribadito da questa Corte con la sentenza n. 45 del 2010 in relazione alla parallela competenza provinciale in materia di lavori pubblici, la “maggiore autonomia” conferita alla Provincia dallo statuto impedirebbe che ad essa possano applicarsi come tali le clausole di competenza statale, fermi restando i meccanismi che nel quadro statutario prevedono il coordinamento delle competenze provinciali con quelle statali (è richiamata anche la sentenza n. 226 del 2009).

Inoltre, le opere in cui si dovrebbe tradurre l’attività dei commissari rientrerebbero tutte nella categoria dei lavori pubblici di interesse provinciale, spettante alla piena competenza della ricorrente sia legislativa che amministrativa.

Ancora, sarebbe violato anche l’art. 4 del d.lgs. n. 266 del 1992, in forza del quale «nelle materie di competenza propria della regione o delle province autonome la legge non può attribuire agli organi statali funzioni amministrative, comprese quelle di vigilanza, di polizia amministrativa e di accertamento di violazioni amministrative, diverse da quelle spettanti allo Stato secondo lo statuto speciale e le relative norme di attuazione». Invero, aggiunge la ricorrente, le norme censurate conferiscono ad organi statali funzioni amministrative in una materia spettante alle Province autonome.

Né la competenza statale potrebbe giustificarsi sulla base del riferimento alle particolari ragioni di urgenza connesse alla necessità d’intervenire nelle situazioni a più elevato rischio idrogeologico, perché l’urgenza non sarebbe un presupposto sufficiente per superare il riparto di competenze fissato dalle norme di attuazione. Tali situazioni andrebbero affrontate con gli strumenti previsti dalle medesime norme, cioè con i poteri di ordinanza fatti salvi dall’art. 2, comma 5, del d.lgs. n. 266 del 1992 e con i poteri sostitutivi statali, nei limiti in cui essi siano consentiti.

La ricorrente chiarisce che, con la proposta impugnazione, non intende negare le competenze che – nell’evidente interesse della popolazione provinciale – le stesse norme di attuazione assegnano allo Stato nella materia della protezione civile, previste dal d.P.R. n. 381 del 1974. Al contrario, la struttura stessa di tali competenze, e i rapporti che ne risultano tra lo Stato e la Provincia autonoma, dimostrerebbero la fondatezza delle censure formulate.

La Provincia di Trento richiama l’art. 33 delle citate norme di attuazione, che rende applicabili nel territorio della Regione Trentino-Alto Adige le norme di cui alla legge 8 dicembre 1970, n. 996 (Norme sul soccorso e l’assistenza alle popolazioni colpite da calamità-Protezione civile), qualora insorgano «situazioni di danno o di pericolo che per la loro natura ed estensione non possono essere fronteggiate con l’esercizio delle competenze proprie o delegate delle Province e con l’impiego delle organizzazioni di uomini e di mezzi di cui dispongono»; l’art. 34 delle medesime, in base al quale alla dichiarazione di cui all’art. 5 della legge n. 996 del 1970, ed alla nomina del commissario ivi previsto, si provvederà d’intesa con i presidenti delle giunte provinciali, ovvero con il presidente della giunta della provincia interessata; l’art. 35, il quale precisa che «gli interventi dello Stato hanno carattere aggiuntivo rispetto a quelli regionali e provinciali e l’applicazione delle norme di cui alla legge 8 dicembre 1970, n. 998, non incide sulla competenza della regione e delle province né implica sostituzione di organismi regionali e provinciali che continuano ad operare alla stregua dei propri ordinamenti» e che «ai fini dell’applicazione del quarto comma dell’articolo 5 della legge 8 dicembre 1970, n. 996, il commissario provvede in particolare al coordinamento degli interventi dello Stato con quelli effettuati dagli organismi della regione e delle province, nel rispetto del disposto di cui al comma precedente».

Sarebbe evidente, dunque, che persino nel quadro della protezione civile resterebbe esclusa qualsiasi competenza dello Stato in casi diversi da quelli indicati e che il pur necessario intervento statale, in situazioni destinate a superare le possibilità d’intervento della Provincia, sarebbe previsto in un quadro d’intesa e di condivisione.

In ogni caso, qualora gli interventi di cui alle disposizioni impugnate si dovessero ritenere riferiti alle situazioni di emergenza, come definite nel quadro della normativa ora ricordata, la Provincia non negherebbe certo, in tali limiti, la competenza statale, a condizione che s’intendano richiamati anche i meccanismi d’intesa e di coordinamento di cui alle citate disposizioni.

Infine, in via subordinata, qualora questa Corte dovesse ritenere non fondate le censure illustrate, l’art. 17, comma 1, primo e secondo periodo, sarebbe comunque illegittimo per violazione del principio di leale collaborazione, non essendo sufficiente, nelle situazioni date, la mera consultazione dei Presidenti delle Regioni, ed essendo invece necessaria l’intesa con la Provincia, sia ai fini della nomina dei commissari, sia nella fase di attuazione degli interventi, avuto riguardo all’evidente intreccio tra questi e le competenze provinciali sopra elencate. Anche l’art. 17, comma 2, si porrebbe in contrasto col principio di leale collaborazione, non prevedendo l’intesa nel momento in cui il Ministero svolge l’attività di verifica e coordinamento degli interventi.

3. — Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito in giudizio con atto depositato il giorno 1 giugno 2010, chiedendo il rigetto del ricorso.

Dopo aver richiamato il tenore delle disposizioni impugnate, la difesa dello Stato sostiene che gli argomenti addotti dalla Provincia autonoma sarebbero non fondati perché, come riconosciuto dalla medesima ricorrente, le citate disposizioni riguarderebbero interventi diretti a disciplinare la difesa del suolo, materia non compresa tra quelle statutarie e rientrante, invece, nella competenza esclusiva statale, relativa alla «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema», come affermato, anche di recente, da questa Corte con sentenza n. 232 del 2009.

La competenza in materia di tutela dell’ambiente risulterebbe attribuita alla competenza esclusiva dello Stato ancor prima della legge costituzionale n. 3 del 2001, mentre non risulterebbe attribuita da alcuna disposizione statutaria alla competenza provinciale.

Sarebbe vero che la disciplina impugnata andrebbe ad intrecciarsi con ambiti di competenza statutaria, anche di tipo primario, ma sarebbe anche vero che la competenza primaria della Provincia dovrebbe essere esercitata nei limiti di cui all’art. 4 (dello statuto di autonomia), che prevede in modo espresso la soglia dell’armonia con la Costituzione e con i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica.

Pertanto il legislatore statale non dovrebbe prevedere forme d’intesa con la Provincia autonoma, le cui competenze risulterebbero rispettate con l’acquisizione del previsto parere del Presidente della Provincia interessata.

4. — In prossimità dell’udienza di discussione, la ricorrente ha depositato memoria con la quale, ribadendo gli argomenti già formulati, ha insistito per l’accoglimento del ricorso.

Considerato in diritto

1. — La Provincia autonoma di Trento, con il ricorso indicato in epigrafe, ha promosso in via principale questione di legittimità costituzionale – in riferimento: A) allo Statuto speciale della Regione Trentino-Alto Adige di cui al d.P.R. 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino Alto Adige) e precisamente: all’articolo 8, comma primo, numeri 1, 5, 6, 13, 17 e 24; all’articolo 9, numeri 9 e 10; all’articolo 14, commi 2 e 3; all’articolo 16; al titolo VI; B) alle norme di attuazione di cui al d.P.R. 20 gennaio 1973, n. 115 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino Alto Adige in materia di trasferimento alle province autonome di Trento e Bolzano dei beni demaniali e patrimoniali dello Stato e della Regione); di cui al d.P.R. 22 marzo 1974, n. 381 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la Regione Trentino Alto Adige in materia di urbanistica ed opere pubbliche); di cui al d.P.R. 26 marzo 1977, n. 235 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la Regione Trentino Alto Adige in materia di energia); di cui al d.lgs. 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento); di cui al d.lgs. 16 marzo 1992, n. 268 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino Alto Adige in materia di finanza regionale e provinciale); C) al principio di leale collaborazione – dell’articolo 17, comma 1, primo e secondo periodo, e comma 2, primo periodo, del decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 195 (Disposizioni urgenti per la cessazione dello stato di emergenza in materia di rifiuti nella Regione Campania, per l’avvio della fase post emergenziale nel territorio della Regione Abruzzo e altre disposizioni urgenti relative alla Presidenza del Consiglio dei ministri e alla protezione civile), come convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 febbraio 2010, n. 26, «nelle parti, nei termini e sotto i profili esposti nel presente ricorso, ed in particolare nella parte in cui rende applicabile tale disposizione alla Provincia autonoma di Trento».

2. — La norma impugnata – sotto la rubrica «Interventi urgenti nelle situazioni a più elevato rischio idrogeologico e al fine di salvaguardare la sicurezza delle infrastrutture e il patrimonio ambientale e culturale» – per quanto qui interessa, dispone che: «1. In considerazione delle particolari ragioni di urgenza connesse alla necessità dì intervenire nelle situazioni a più elevato rischio idrogeologico e al fine di salvaguardare la sicurezza delle infrastrutture e il patrimonio ambientale e culturale, in sede di prima applicazione dei piani straordinari diretti a rimuovere le situazioni a più elevato rischio idrogeologico e comunque non oltre i tre anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentito il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e il Dipartimento della protezione civile per i profili di competenza, ed i presidenti delle regioni o delle province autonome interessate, possono essere nominati commissari straordinari delegati, ai sensi dell’articolo 20 del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, e successive modificazioni, con riferimento agli interventi da effettuare nelle aree settentrionale, centrale e meridionale del territorio nazionale, come individuate ai sensi del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152. I commissari attuano gli interventi, provvedono alle opportune azioni di indirizzo e di supporto promuovendo le occorrenti intese tra i soggetti pubblici e privati interessati e, se del caso, emanano gli atti e i provvedimenti e curano tutte le attività di competenza delle amministrazioni pubbliche necessarie alla realizzazione degli interventi, nel rispetto delle disposizioni comunitarie, avvalendosi, ove necessario, dei poteri di sostituzione e di deroga di cui al citato articolo 20, comma 4, del citato n. 185 del 2008. (….)».

2. L’attività di coordinamento delle fasi relative alla programmazione e alla realizzazione degli interventi di cui al comma 1, nonché quella di verifica, fatte salve le competenze attribuite dalla legge alla Presidenza del Consiglio dei ministri – Dipartimento della protezione civile, sono curate dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, che vi provvede sentiti il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e il Dipartimento della protezione civile per i profili di competenza, con le proprie strutture anche vigilate, ivi incluso un ispettorato generale, cui è preposto un dirigente di livello dirigenziale generale e con due dirigenti di livello dirigenziale del medesimo Ministero, con incarico conferito anche in soprannumero rispetto all’attuale dotazione organica, ai sensi dell’articolo 19, comma 10, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni. (….)».

3. — La ricorrente rileva che le Province autonome hanno competenza legislativa primaria in materia di «opere di prevenzione e di pronto soccorso per calamità pubbliche» (art. 8, n. 13 dello statuto), e richiama le specifiche disposizioni statutarie e di attuazione che, a suo avviso, danno fondamento alla competenza suddetta (come meglio esposto in narrativa). Pone l’accento, tra l’altro, sull’art. 14 dello statuto medesimo, in forza del quale «l’utilizzazione delle acque pubbliche da parte dello Stato e della Provincia, nell’ambito della rispettiva competenza, ha luogo in base ad un piano generale stabilito d’intesa tra i rappresentanti dello Stato e della Provincia in seno ad un apposito comitato»; ed osserva che con d.P.R. 15 febbraio 2006 è stato reso esecutivo il detto piano generale relativo alla Provincia di Trento e ne illustra i contenuti con particolare riguardo alle esigenze di difesa del suolo, nonché alla tutela dal rischio idrogeologico e alle misure di prevenzione per le aree a rischio.

La Provincia di Trento, poi, illustra il contenuto delle disposizioni oggetto dell’impugnazione, rimarca che esse certamente si applicano anche al territorio provinciale (come si evince dal riferimento ai presidenti delle Province autonome), ribadisce la propria competenza nella materia de qua e, dopo aver chiarito che, con la proposta impugnazione, essa non intende negare le competenze che – nell’evidente interesse della popolazione provinciale – le stesse norme di attuazione assegnano allo Stato nella materia della protezione civile (sono richiamati, in particolare, gli artt. 33, 34 e 35 del d.P.R. n. 381 del 1974), deduce che, persino nel quadro di essa, resterebbe esclusa qualsiasi competenza dello Stato in casi diversi da quelli indicati e che il pur necessario intervento statale, in situazioni destinate a superare le possibilità d’intervento della Provincia, sarebbe previsto in un contesto d’intesa e di condivisione.

In via subordinata, la normativa impugnata sarebbe illegittima per violazione del principio di leale collaborazione.

4. — La questione è fondata, nei sensi di seguito precisati.

4.1. — La normativa censurata ha chiaramente carattere straordinario, come si evince dal rilievo che è destinata ad operare, al fine di salvaguardare la sicurezza delle infrastrutture e il patrimonio ambientale e culturale, «in sede di prima applicazione dei piani straordinari diretti a rimuovere le situazioni a più elevato rischio idrogeologico e comunque non oltre i tre anni dalla data di entrata in vigore del presente decreto». Essa si applica all’intero territorio nazionale, essendo relativa «agli interventi da effettuare nelle aree settentrionale, centrale e meridionale», come individuate ai sensi del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), ed attribuisce al Presidente del Consiglio dei ministri la possibilità di nominare, con la procedura nella normativa stessa prevista, commissari straordinari delegati.

Tali organi attuano gli interventi, provvedono alle opportune azioni di indirizzo e di supporto promuovendo le occorrenti intese tra i soggetti pubblici e privati interessati, e, se del caso, emanano gli atti e i provvedimenti e curano tutte le attività necessarie per la realizzazione degli interventi stessi.

Ciò posto, si osserva che, come questa Corte ha già chiarito, le attività relative alla difesa del suolo, anche con riguardo alla salvaguardia per i rischi derivanti da dissesto idrogeologico, rientrano nella materia della tutela dell’ambiente, di esclusiva competenza statale, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. (ex plurimis: sentenze n. 341 del 2010; n. 254, n. 246 e n. 232 del 2009).

Tuttavia, nel caso di specie, sussiste anche una competenza primaria della Provincia autonoma di Trento.

Essa è desumibile, in primo luogo, dall’art. 8, primo comma, n. 13, dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, che demanda alle Province la potestà di emanare norme legislative, entro i limiti indicati dall’art. 4 (cioè in armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica e con il rispetto degli obblighi internazionali e degli interessi nazionali, nonché delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica), in materia, tra l’altro, di opere di prevenzione e di pronto soccorso per calamità pubbliche. A tale nozione (con particolare riguardo al concetto di “prevenzione”) è riconducibile anche il rischio idrogeologico, ancorché esso non formi oggetto di una previsione specifica, considerata anche la competenza legislativa attribuita alla provincia in materia di utilizzazione delle acque pubbliche (escluse le grandi derivazioni a scopo idroelettrico), ai sensi dell’art. 9, primo comma, n. 9, dello statuto di autonomia.

Inoltre, va richiamato l’art. 14, terzo comma, dello statuto speciale, a norma del quale «L’utilizzazione delle acque pubbliche da parte dello Stato e della provincia, nell’ambito della rispettiva competenza, ha luogo in base a un piano generale stabilito d’intesa tra i rappresentanti dello Stato e della provincia in seno ad un apposito comitato». L’art. 1 del d.P.R. n. 381 del 1974 dispone che le attribuzioni dell’amministrazione dello Stato in materia (tra l’altro) di urbanistica, di utilizzazione delle acque pubbliche, di opere idrauliche, di opere di prevenzione e pronto soccorso per calamità pubbliche, di lavori pubblici d’interesse provinciale, esercitate sia direttamente dagli organi centrali e periferici dello Stato, sia per il tramite di enti e di istituti pubblici a carattere nazionale o sovra provinciali e quelle già spettanti alla Regione Trentino-Alto Adige nelle stesse materie, sono esercitate per il rispettivo territorio dalle province di Trento e di Bolzano ai sensi e nei limiti di cui agli artt. 8, 9 e 16 dello statuto di autonomia, e con l’osservanza delle norme di cui allo stesso decreto n. 381 del 1974.

L’art. 5, quarto comma, di quest’ultimo atto prescrive che il detto piano (denominato piano generale per l’utilizzazione delle acque pubbliche) vale anche, per il rispettivo territorio, quale piano di bacino di rilievo nazionale, aggiungendo che «Il Ministro dei lavori pubblici nella sua qualità di presidente del comitato istituzionale delle relative autorità di bacino di rilievo nazionale, ed il presidente della provincia interessata assicurano, mediante apposite intese, il coordinamento e l’integrazione delle attività di pianificazione nell’ambito delle attribuzioni loro conferite dal presente decreto e dalla legge 18 maggio 1989, n. 183». L’art. 8 dello stesso decreto, nel primo comma, stabilisce che il piano generale «deve programmare l’utilizzazione delle acque per i diversi usi e contenere le linee fondamentali per una sistematica regolazione dei corsi d’acqua, con particolare riguardo alle esigenze di difesa del suolo, nel reciproco rispetto delle competenze dello Stato e della provincia interessata». La medesima norma, nel secondo comma, precisa che «Il progetto di piano è predisposto per ciascuna provincia in seno ad un apposito comitato, d’intesa tra tre rappresentanti dello Stato e tre rappresentanti della provincia interessata, entro sei mesi dall’entrata in vigore del presente decreto. I rappresentanti sono designati rispettivamente dal presidente del Consiglio dei ministri e dalla giunta provinciale». I commi successivi, poi, dettano il procedimento per l’adozione del piano, disponendo che esso, una volta deliberato d’intesa tra i rappresentanti statali e provinciali, «è reso esecutivo con decreto del Presidente della Repubblica su proposta, conforme all’intesa raggiunta, del Ministro per i lavori pubblici e del presidente della provincia interessata».

In forza di tali disposizioni, il piano generale relativo al territorio della provincia autonoma di Trento è stato reso esecutivo con d.P.R. 15 febbraio 2006. Esso contiene, tra l’altro, una specifica disciplina delle aree a rischio idrogeologico, suddivise, ai sensi degli artt. 15 e seguenti, in quattro classi di gravosità crescente (da R1 a R4), individuate, perimetrate e classificate secondo i criteri nella disciplina stessa previsti.

Va, ancora, considerato che il citato d.P.R. n. 381 del 1974, all’art. 33, stabilisce che, nel territorio della Regione Trentino-Alto Adige, le norme di cui alla legge 8 dicembre 1970, n. 996 (Norme sul soccorso e l’assistenza alle popolazioni colpite da calamità-Protezione civile), trovano applicazione all’insorgere di situazioni di danno o di pericolo, che per la loro natura ed estensione non possono essere fronteggiate con l’esercizio delle competenze proprie o delegate delle Province e con l’impiego delle organizzazioni di uomini e di mezzi di cui dispongono. Il successivo art. 34 dispone che alla dichiarazione di cui all’art. 5 della legge n. 996 del 1970, ed alla nomina del commissario previsto dal medesimo articolo, si provvederà d’intesa con i Presidenti delle giunte provinciali, ove la calamità riguardi i territori di entrambe le Province, ovvero con il Presidente della giunta della provincia interessata ove solo una delle due sia stata colpita. L’art. 35 precisa che gli interventi dello Stato hanno carattere aggiuntivo rispetto a quelli regionali e provinciali e che l’applicazione delle norme di cui alla legge n. 996 del 1970 non incide sulla competenza della Regione e delle Province né implica sostituzione di organismi regionali e provinciali che continuano ad operare alla stregua dei propri ordinamenti. Aggiunge, altresì, nel secondo comma, che, ai fini dell’applicazione dell’art. 5, comma 4, della legge ora citata (norma che, ai fini della necessaria unità, affida al commissario la direzione dei servizi di soccorso, con l’obbligo di avvalersi della collaborazione degli organi regionali e degli enti locali interessati), il detto commissario provvede in particolare al coordinamento degli interventi dello Stato con quelli effettuati dagli organismi della Regione e delle Province, nel rispetto del disposto di cui al comma precedente.

5. — In questo quadro normativo – fermo il punto che, ai sensi dell’art. 16, primo comma, dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige, nelle materie e nei limiti entro cui la Regione o la Provincia può emanare norme legislative, le relative potestà amministrative, che in base all’ordinamento preesistente erano attribuite allo Stato, sono esercitate rispettivamente dalla Regione e dalla Provincia – si deve osservare che, con riferimento alla difesa del suolo dal rischio idrogeologico, sussiste un concorso di competenze di cui lo stesso legislatore statale ha tenuto conto, prevedendo incisive forme di collaborazione.

Ciò si evince dalla normativa dianzi citata, nella quale è frequente la previsione dell’intesa ed è posta in luce l’esigenza del reciproco rispetto delle competenze statali e della Provincia interessata.

La normativa impugnata, però, pur facendosi carico della necessità d’intervenire con urgenza nelle situazioni a più elevato rischio idrogeologico in attesa di completare la riforma della disciplina relativa alla difesa del suolo, non ha tenuto adeguato conto dei suddetti profili, nell’introdurre la possibilità di nominare commissari straordinari, cui sono affidati poteri molto ampi, nonché i poteri di sostituzione e di deroga di cui all’art. 20, comma 4, del decreto-legge 29 novembre 2008, n. 185 (Misure urgenti per il sostegno a famiglie, lavoro, occupazione e impresa e per ridisegnare in funzione anticrisi il quadro strategico nazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 28 gennaio 2009, n. 2, e successive modificazioni. Quest’ultima norma attribuisce al commissario, fin dal momento della nomina, i poteri, anche sostitutivi degli organi ordinari o straordinari, provvedendo in deroga ad ogni disposizione vigente e nel rispetto comunque della normativa comunitaria sull’affidamento di contratti relativi a lavori, servizi e forniture, nonché dei principi generali dell’ordinamento giuridico, fermo restando l’osservanza di quanto disposto dall’art. 8, comma 1, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133.

La nomina dei commissari avviene con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentiti gli organi e gli uffici nella norma indicati, tra cui i Presidenti delle Regioni o delle Province autonome interessate.

Questo è l’unico momento di coinvolgimento previsto per la Provincia ricorrente, momento che non può certo considerarsi adeguato, sia perché circoscritto alla sola fase iniziale della nomina, sia perché limitato alla forma partecipativa più debole, cioè al parere, mentre nulla è stabilito, con riguardo al ruolo della Provincia autonoma, per le fasi e le determinazioni successive. La normativa impugnata, dunque, in relazione al territorio della Provincia di Trento si rivela lesiva della competenza legislativa primaria di quest’ultima, ponendosi in contrasto con gli artt. 8, primo comma, n. 13, 9, primo comma, n. 9, 14, terzo comma e 16, primo comma, dello statuto di autonomia, in riferimento agli artt. 1, 5, quarto comma, 8, 33, 34 e 35 del d.P.R. n. 381 del 1974 (come questa Corte ha più volte affermato, anche le norme di attuazione dello statuto speciale possono essere utilizzate come parametro del giudizio di costituzionalità: ex multis: sentenze nn. 287 e 263 del 2005).

In effetti, proprio i tre articoli da ultimo citati (in materia di protezione civile) ben definiscono i rapporti tra lo Stato e le Province autonome in relazione al territorio di queste ultime, realizzando un equilibrato bilanciamento tra le competenze sopra ricordate, con il richiamo alla legge n. 996 del 1970 nei sensi previsti dall’art. 33, la previsione dell’intesa di cui all’art. 34 e l’attribuzione agli interventi dello Stato del carattere aggiuntivo rispetto a quelli regionali e provinciali (art. 35), con la precisazione che l’applicazione delle norme di cui alla citata legge n. 996 del 1970 non incide sulle competenze della Regione e delle Province autonome né implica sostituzione di organismi regionali e provinciali che continuano ad operare alla stregua dei propri ordinamenti.

Pertanto, sulla base delle considerazioni che precedono, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, primo e secondo periodo, e comma 2, primo periodo, del decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 195, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 febbraio 2010, n. 26, nella parte in cui non rinvia, per l’applicazione di detta normativa al territorio della Provincia autonoma di Trento, alle procedure di cui agli artt. 33, 34 e 35 del d.P.R. n. 381 del 1974.

Ogni altro profilo rimane assorbito.

La dichiarazione d’illegittimità costituzionale nei sensi predetti, essendo basata sulla violazione del sistema statutario del Trentino-Alto Adige, deve estendere la sua efficacia anche alla Provincia autonoma di Bolzano.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 1, primo e secondo periodo, e comma 2, primo periodo, del decreto-legge 30 dicembre 2009, n. 195 (Disposizioni urgenti per la cessazione dello stato di emergenza in materia di rifiuti nella Regione Campania, per l’avvio della fase post emergenziale nel territorio della Regione Abruzzo e altre disposizioni urgenti relative alla Presidenza del Consiglio dei Ministri e alla protezione civile), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 26 febbraio 2010, n. 26, per la parte in cui non rinvia, per l’applicazione di detta normativa al territorio delle Province autonome di Trento e di Bolzano, alle procedure di cui agli articoli 33, 34 e 35 del d.P.R. 22 marzo 1974, n. 381 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la Regione Trentino-Alto Adige in materia di urbanistica ed opere pubbliche).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 marzo 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'1 aprile 2011.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI


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ORDINANZA N. 110

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 22, commi 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 9, della legge della Regione Molise 23 marzo 2010, n. 10 (Norme in materia di organizzazione dell’amministrazione regionale e del personale con qualifica dirigenziale), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 31 maggio – 7 giugno 2010, depositato in cancelleria l’8 giugno 2010 ed iscritto al n. 83 del registro ricorsi 2010.

Udito nell’udienza pubblica dell’8 marzo 2011 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;

udito l’avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto che, con ricorso notificato il 31 maggio 2010 e depositato l’8 giugno 2010, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato – in riferimento agli articoli 117, secondo comma, lettera l), 3 e 97 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’articolo 22, commi 2, 3, 4, 5, 6, 7 e 9, della legge della Regione Molise 23 marzo 2010, n. 10, pubblicata nel Bollettino ufficiale regionale n. 10 del 1° aprile 2010;

che la norma impugnata, avente come rubrica iniziale «Trattamento economico dei responsabili dei Servizi di Gabinetto e dei direttori di servizio incaricati di specifiche funzioni», disciplinava tale trattamento, prevedendo tra le componenti retributive la «retribuzione di posizione», (espressione che indica una o più voci retributive accessorie distinte dallo stipendio tabellare e riferibili alle attività concretamente svolte dal dirigente, integrate da altra voce variabile connessa ai risultati gestionali conseguiti), incrementata secondo valori percentuali stabiliti nella medesima norma;

che, come il ricorrente espone, «la materia retributiva, a mente della previsione degli artt. 40 e seguenti del D. Lgs. n. 165/2001, è regolata dalla Contrattazione Collettiva Nazionale»;

che, ad avviso della difesa dello Stato, le disposizioni censurate sarebbero state in palese contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che devolve alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia dell’ordinamento civile e quindi dei rapporti di lavoro regolati, come nella specie, mediante la contrattazione collettiva, con efficacia vincolante anche per le Regioni (è richiamata la sentenza della Corte costituzionale n. 2 del 2004);

che, nel caso in esame, la Regione Molise non si sarebbe limitata a disciplinare la procedura della contrattazione nella parte di sua competenza, ma avrebbe disposto direttamente della retribuzione dei dirigenti regionali, determinandone il quantum e prevedendo sensibili incrementi rispetto a quanto stabilito in sede di contrattazione collettiva;

che, inoltre, le disposizioni censurate sarebbero state in contrasto con il principio costituzionale di uguaglianza (art. 3 Cost.), nonché con il principio di buon andamento ed imparzialità dell’amministrazione;

che, infatti, il restante personale appartenente al comparto di pertinenza (Regioni e autonomie locali), rispetto al personale della Regione Molise, si sarebbe trovato ad avere una diversa qualificazione e quantificazione degli emolumenti, priva di razionale giustificazione e lesiva dei principi regolatori dell’operare della pubblica amministrazione;

che la Regione Molise non si è costituita nel presente giudizio;

che, con legge 20 agosto 2010, n. 16 (Misure di razionalizzazione della spesa regionale), la Regione Molise ha provveduto ad abrogare i commi oggetto di censure, nonché a modificare la rubrica e il comma 1 dell’art. 22, e a sostituire il comma 9 (art. 5, comma 1, lettere e, f, g, h, i della citata legge n. 16 del 2010);

che, successivamente, con legge 1° febbraio 2011, n. 2 (Legge finanziaria regionale 2011), la detta Regione ha effettuato nuove rettifiche del comma 1 e del comma 9 (art. 1, comma 5, lettera a, della citata legge regionale n. 2 del 2011);

che, con delibera del Consiglio dei ministri in data 17 dicembre 2010, è stata approvata la rinunzia all’impugnazione, comunicata in udienza dall’Avvocatura dello Stato.

Considerato che, in mancanza di costituzione in giudizio della Regione, la rinunzia al ricorso comporta, ai sensi dell’art. 23 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, l’estinzione del processo (ex multis, tra le più recenti: ordinanze n. 348, n. 323 e n. 206 del 2010, n. 292 del 2009).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara estinto il processo.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 marzo 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'1 aprile 2011.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI


pronuncia precedente

ORDINANZA N. 111

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, commi 1 e 1-quater, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dal Tribunale per i minorenni di Bologna, con ordinanza del 28 giugno 2010, iscritta al n. 335 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 44, prima serie speciale, dell'anno 2010.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 9 marzo 2011 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.

Ritenuto che, con ordinanza deliberata il 23 giugno 2010, il Tribunale per i minorenni di Bologna, in funzione di giudice di sorveglianza, ha sollevato, in riferimento agli artt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, commi 1 e 1-quater, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà);

che le suddette norme sono censurate nella parte in cui si applicano anche al condannato per fatti commessi da minorenne, con conseguente preclusione dei benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione, in caso di condanna per il delitto previsto dall’art. 609-octies del codice penale, ove non ricorra la «collaborazione» del condannato e questi non sia stato sottoposto all’osservazione scientifica della personalità, attuata in regime di restrizione, per almeno un anno;

che il rimettente è chiamato a provvedere, in sede di giudizio di rinvio, sull’istanza di affidamento in prova al servizio sociale presentata da un minorenne, condannato alla pena di anni due e mesi nove di reclusione per i reati previsti dagli artt. 609-octies e 594 cod. pen.;

che il giudice a quo riferisce di come il condannato sia rimasto ristretto solo per un breve periodo, in quanto il magistrato di sorveglianza ha disposto la provvisoria sospensione della pena, ai sensi dell’art. 47, comma 4, ord. pen., e lo stesso Tribunale, successivamente, ha accolto l’istanza di ammissione del condannato alla misura dell’affidamento in prova al servizio sociale;

che in epoca ancora successiva, sul ricorso proposto dal pubblico ministero, la Corte di cassazione ha annullato l’ordinanza con cui era stata disposta la misura alternativa alla detenzione, rinviando al rimettente per un nuovo esame della medesima istanza;

che, osserva il giudice a quo, sulla base della normativa vigente, l’istanza in esame dovrebbe essere dichiarata inammissibile o comunque rigettata, «tenuto conto della previsione dell’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 e delle indicazioni interpretative fornite dalla sentenza della Corte di cassazione che ha annullato la precedente ordinanza emessa dal Tribunale, nell’ambito di questo stesso procedimento, che aveva pure tentato di dare alla norma una lettura costituzionalmente orientata e di effettuare una valutazione flessibile ed individualizzata»;

che a ciò consegue, secondo il rimettente, l’indubbia rilevanza della questione avente ad oggetto l’art. 4-bis, commi 1 e 1-quater, ord. pen., tenuto conto che la condanna riguarda anche il delitto di cui all’art. 609-octies cod. pen. «e non ricorrono per il condannato né la condizione della collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58-ter ord. pen., né l’osservazione condotta almeno per un anno all’interno dell’istituto penitenziario»;

che il Tribunale evidenzia come l’applicazione rigida ed automatica della detenzione carceraria nei confronti del condannato minorenne, «senza possibilità di valutare l’idoneità ed opportunità di eventuali misure alternative alla detenzione», risulti in contrasto con la finalità rieducativa della pena, e come, pertanto, le preclusioni contenute nella norma censurata siano inconciliabili con il disposto degli artt. 27 e 31 Cost., in base ai quali deve ritenersi sicuramente prevalente l’esigenza di garantire il recupero sociale del minorenne, attraverso la valorizzazione delle sue caratteristiche individuali;

che la necessità di diversificare il trattamento dell’imputato e del condannato ancora minorenni è stata più volte evidenziata dalla Corte costituzionale, la quale ha affermato l’incompatibilità tra le disposizioni dell’esecuzione penale, che prevedono divieti generalizzati ed automatici, e i parametri costituzionali evocati dal rimettente (sono richiamate le sentenze n. 436 del 1999; n. 450 del 1998; n. 403 del 1997; n. 168 del 1994);

che nella specie, prosegue il giudice a quo, il fatto ascritto al condannato istante, pur grave nell’astratta previsione di legge, ha «assunto […] modalità di attuazione del tutto peculiari, essendosi concluso in pochi attimi e senza evidenziare particolari profili di pericolosità o allarme sociale»;

che l’assenza di pericolosità del condannato sarebbe confermata dalla circostanza che il predetto non è stato sottoposto a misura cautelare per il fatto oggetto della condanna, né risulta denunciato in altre occasioni;

che il rimettente ha cura di precisare che il giudizio a carico dei coimputati del condannato istante, svoltosi dopo che era intervenuta la sentenza di condanna in primo grado del predetto, si è concluso con sentenza di proscioglimento;

che inoltre, e sempre con riferimento alla valutazione della personalità del condannato, il Tribunale segnala che l’osservazione condotta durante il breve periodo di restrizione in carcere ha evidenziato la disponibilità del giovane a relazionarsi in modo autentico con gli operatori, riconoscendone la funzione di protezione e sostegno, mentre è emersa una personalità fragile e facilmente influenzabile, la cui positiva evoluzione non è favorita dall’ambiente detentivo;

che, nel delineato contesto, la norma censurata imporrebbe al rimettente di ripristinare la detenzione in carcere, senza poter valutare gli effetti della sanzione sul percorso evolutivo del minore, essendo in particolare impediti «quell’esame e quella valutazione flessibile ed individualizzata che sono indispensabili perché l’esecuzione della pena sia conforme alle esigenze costituzionali di protezione della personalità del minore e rieducazione-recupero del condannato»;

che, inoltre, il giudice a quo segnala come il condannato si trovi tutt’ora in regime di affidamento in prova al servizio sociale, secondo il disposto dell’ordinanza annullata dalla Corte di cassazione, sicché il ripristino della detenzione carceraria avrebbe anche l’effetto di interrompere un percorso di recupero positivamente avviato;

che con atto depositato il 23 novembre 2010 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha concluso chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata;

che la difesa dello Stato non condivide l’assunto del rimettente, secondo il quale l’art. 4-bis ord. pen. non permetterebbe di tenere conto della specificità del detenuto minorenne, le cui esigenze di risocializzazione sono particolarmente significative e non ammettono divieti rigidi nell’applicazione dei benefici penitenziari;

che, in realtà, la disposizione censurata non porrebbe divieti assoluti, in quanto il comma 1-bis del medesimo art. 4-bis ord. pen. introduce alcuni temperamenti al richiesto atteggiamento collaborativo, e il comma 1-quater, con riferimento specifico ai condannati per i delitti di violenza sessuale, previsti dagli artt. 609-bis, 609-ter, 609-quater e 609-octies cod. pen., richiede, ai fini della concessione dei benefici penitenziari, l’osservazione scientifica della personalità condotta per almeno un anno;

che in entrambe le situazioni, secondo l’Avvocatura generale, la norma censurata affida al giudice di sorveglianza la valutazione della personalità del reo, introducendo alcuni indici rivelatori, quali l’eventuale collaborazione o le ragioni della mancata collaborazione, la scarsa rilevanza della condotta criminosa, nonché i risultati dell’osservazione scientifica della personalità, allo scopo di assicurare la maggiore tutela sociale nei confronti degli autori di reati gravissimi;

che nel caso oggetto del giudizio principale, osserva ancora la difesa dello Stato, non risulta che il minorenne, condannato per il delitto di cui all’art. 609-octies cod. pen., abbia collaborato con la giustizia, né che abbia allegato alcun elemento dal quale emerga che la sua collaborazione era impossibile ovvero che la sua partecipazione al reato sia stata di minima importanza e, d’altra parte, nemmeno è stata effettuata l’osservazione scientifica della personalità, con la conseguenza che non ricorrono le condizioni per l’ammissibilità alla misura alternativa richiesta;

che, in questa prospettiva, non sarebbe riscontrabile alcuna analogia tra la norma censurata e quelle disposizioni che, in quanto prevedono divieti rigidi e generalizzati per l’accesso ai benefici penitenziari, sono state dichiarate illegittime nella parte in cui si applicano ai minorenni (sono richiamate le sentenze n. 436 del 1999, n. 450 del 1998, n. 403 del 1997 della Corte costituzionale).

Considerato che il Tribunale per i minorenni di Bologna, in funzione di giudice di sorveglianza, solleva, in riferimento agli artt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, commi 1 e 1-quater, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà);

che le suddette norme sono censurate nella parte in cui si applicano anche al condannato per fatti commessi da minorenne, con conseguente preclusione dei benefici penitenziari e delle misure alternative alla detenzione, in caso di condanna per il delitto previsto dall’art. 609-octies del codice penale, ove non ricorra la «collaborazione» del condannato e questi non sia stato sottoposto all’osservazione scientifica della personalità, attuata in regime di restrizione, per almeno un anno;

che il rimettente è chiamato a deliberare sull’istanza di affidamento in prova al servizio sociale proposta da un minorenne, condannato a due anni e nove mesi di reclusione per i reati di cui agli artt. 609-octies e 594 cod. pen., dopo che la propria precedente ordinanza, di accoglimento dell’istanza, è stata annullata con rinvio dalla Corte di cassazione;

che lo stesso rimettente segnala di avere tentato, nella predetta ordinanza, una lettura costituzionalmente orientata della norma censurata, ma che «le indicazioni interpretative fornite dalla Corte di cassazione», con la sentenza di annullamento, gli impongono di sottoporre l’art. 4-bis, commi 1 e 1-quater, ord. pen. allo scrutinio di legittimità costituzionale, nella parte in cui si applica anche al condannato per fatti commessi da minorenne;

che, in definitiva, il giudice a quo assume che il vincolo derivante dalla pronuncia della Corte di cassazione non gli consente di superare le preclusioni, poste dalla norma censurata, alla concessione dei benefici penitenziari ai soggetti condannati per il delitto di cui all’art. 609-octies cod. pen., con la conseguenza che l’istanza del condannato minorenne non potrebbe trovare accoglimento;

che, a fronte di tale prospettazione, il rimettente non fornisce le necessarie specificazioni in riferimento sia all’interpretazione costituzionalmente orientata, che pure afferma di aver tentato nella precedente ordinanza, sia alle ragioni per le quali la predetta ordinanza è stata annullata dalla Corte di cassazione;

che l’omessa compiuta descrizione della fattispecie, avuto riguardo al contenuto del contrasto interpretativo che costituirebbe il presupposto dell’incidente di costituzionalità, non consente di verificare la rilevanza della questione;

che, invero, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 77 del 2007, n. 58 del 1995, n. 257 del 1994, n. 138 del 1993) il giudice di rinvio è legittimato a sollevare dubbi di costituzionalità in base all’opzione interpretativa risultante dal principio di diritto enunciato dalla Corte di cassazione, e ciò in quanto egli deve fare applicazione della norma nel significato attribuitole con la decisione di annullamento;

che, d’altra parte, soltanto sollevando il dubbio di costituzionalità il giudice del rinvio può superare il vincolo interpretativo, in ciò risiedendo la rilevanza della relativa questione;

che diversamente, nel caso in cui non sia precisata la portata dell’interpretazione vincolante, come avviene nella specie, questa Corte non è posta in condizione di valutare se, effettivamente, da tale interpretazione discendano le conseguenze denunciate dal rimettente in termini di incompatibilità della norma censurata con i parametri evocati, ovvero se, invece, il vincolo interpretativo riguardi profili diversi dell’applicazione della stessa norma, non ricollegabili alla sollevata questione di legittimità costituzionale;

che le evidenziate carenze descrittive, in quanto impediscono il controllo sulla rilevanza della questione, ne determinano la manifesta inammissibilità (ex plurimis, ordinanze n. 320 e n. 85 del 2010).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, commi 1 e 1-quater, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevata, in riferimento agli artt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale per i minorenni di Bologna, in funzione di giudice di sorveglianza, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 marzo 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'1 aprile 2011.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI