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Deposito del 11-03-2011 (dalla 77 alla 89)

 
S.77/2011 del 07/03/2011
Udienza Pubblica del 08/02/2011, Presidente DE SIERVO, Redattore MAZZELLA


Norme impugnate: Artt. 18, c. 4° e 7°, e 19, c. 1°, 2°, 3°, 4°, 5° e 7°, della legge della Regione Molise 22/01/2010, n. 3.

Oggetto: Impiego pubblico - Norme della Regione Molise - Personale dipendente dell'Amministrazione regionale - Buoni pasto - Assegnazione di non più di 120 buoni pasto all'anno per ogni dipendente, e per gli autisti assegnazione di una quota aggiuntiva calcolata su base storica in relazione al servizio svolto - Lamentato intervento in materia riservata alla contrattazione collettiva - Contrasto con la normativa statale sulla contrattazione collettiva che individua le procedure da seguire e sancisce l'obbligo del rispetto della normativa contrattuale;
Ripristino temporaneo e rideterminazione dell'indennità dell'Area Quadri, istituita dall'art. 29-bis della legge regionale n. 7 del 1997, relativamente al personale inquadrato nella categoria D nei profili professionali D1 e D3 - Lamentato intervento in materia riservata alla contrattazione collettiva - Contrasto con la normativa statale sulla contrattazione collettiva che individua le procedure da seguire e sancisce l'obbligo del rispetto della normativa contrattuale;
Sanità pubblica - Impiego pubblico - Norme della Regione Molise - Servizio sanitario regionale - Interventi riferiti al personale - Possibilità di prorogare i rapporti di lavoro flessibile, a tempo determinato e di co.co.co. per la durata massima del piano di rientro nel rispetto dei limiti annuali di spesa - Proroga di incarichi già conferiti per lo svolgimento delle funzioni di direttore di unità operativa complessa in mancanza della copertura del posto a tempo indeterminato per il periodo corrispondente al piano di rientro - Predisposizione da parte dell'azienda sanitaria di un piano di riorganizzazione del personale coerente con il riassetto della rete ospedaliera e con il piano di rientro anche ai fini dell'applicazione dell'art. 3 della l. r. n. 1/2009 - Lamentata precostituzione di vincoli alla futura adozione di specifici programmi operativi per la realizzazione del piano di rientro sanitario per gli anni 2007-2009 - Contrasto con le determinazioni adottate per il 2010 in sede di Conferenza permanente per i rapporti fra Stato e Regioni, nonché con la normativa nazionale di settore;
Possibilità di stipulare contratti per l'attuazione di progetti di ricerca sanitaria o di progetti finalizzati previsti da normative dello Stato - Lamentato ampliamento dell'ambito applicativo delle norme statali, da ritenersi principi fondamentali in materia di tutela della salute;
Professioni - Norme della Regione Molise - Previsione che la Giunta regionale promuova e disciplini le funzioni dell'informatore medicoscientifico aziendale, ai fini del controllo della spesa farmaceutica e di una corretta informazione sulle prescrizioni farmaceutiche da parte dei medici - Lamentata creazione di nuova figura professionale sanitaria - Contrasto con la normativa nazionale che pone i principi fondamentali in materia di figure professionali sanitarie;
Amministrazione pubblica - Norme della Regione Molise - Attività del commissario ad acta e del subcommissario, nominati dal Consiglio dei ministri per il Piano di rientro - Possibilità di assumere nuovo personale per le segreterie particolari - Contrasto con la normativa statale che impone di provvedere alla gestione commissariale con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente.

Dispositivo: illegittimità costituzionale - non fondatezza - estinzione del processo
Atti decisi: ric. 55/2010
S.78/2011 del 07/03/2011
Udienza Pubblica del 08/02/2011, Presidente DE SIERVO, Redattore QUARANTA


Norme impugnate: Artt. 31, c. 2°, 3° e 8°, lett. c), 32 e 33 della legge della Regione Molise 22/02/2010, n. 8.

Oggetto: Sanità pubblica - Norme della Regione Molise - Disciplina sull'assetto programmatorio, contabile, gestionale e di controllo dell'Azienda sanitaria regionale del Molise - Attribuzione alla Giunta regionale del potere di esercitare il controllo su tutti gli atti del Direttore Generale dell'Azienda sanitaria regionale, previsione che gli atti adottati dalla Giunta nell'esercizio delle sue funzioni di vigilanza non sono soggetti a controllo, previsione che gli atti del Direttore Generale adottati in punto di bilanci e di riequilibrio della situazione economica sono soggetti al solo visto di congruità della Giunta regionale, nonché attribuzione alla Giunta del potere di deliberare la risoluzione del contratto con il Direttore Generale e la sua contestuale sostituzione, qualora questi non provveda nei termini all'adozione del bilancio e/o alla proposta per la copertura della perdita d'esercizio - Lamentata indebita menomazione delle attribuzioni del commissario ad acta nominato per l'attuazione del piano di rientro del disavanzo sanitario, assenza del necessario raccordo istituzionale.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ric. 73/2010
S.79/2011 del 07/03/2011
Udienza Pubblica del 22/02/2011, Presidente DE SIERVO, Redattore SILVESTRI


Norme impugnate: Art. 4, c. 6°, 7° e 8°, del decreto legge 25/03/2010, n. 40.

Oggetto: Regione Emilia-Romagna - Opere pubbliche - Trasporti pubblici - Porti - Revoca del finanziamento statale già concesso e deliberato dal CIPE per la realizzazione della metropolitana del Comune di Parma - Riutilizzo, per diverse finalità, delle disponibilità derivanti dalla liberazione delle predette risorse, al netto degli importi necessari a far fronte agli obblighi giuridici sorti a seguito della già avvenuta individuazione del soggetto attuatore e del Contraente Generale, da determinarsi a titolo di indennizzo in sede di transazione - Destinazione della quota di finanziamento statale residua, su richiesta dell'ente pubblico di riferimento del beneficiario originario, ad altri investimenti pubblici, e qualora residui una parte, trasferimento al Fondo per le infrastrutture portuali, in favore delle Autorità Portuali - Lamentato annullamento unilaterale di un'opera concordata fra Stato e Regione, nell'ambito della speciale procedura prevista per la realizzazione del programma degli interventi facenti parte della legge obiettivo n. 443/2001 - Lamentata estromissione della Regione, e assunzione della decisione unicamente fra il Comune di Parma e alcune Autorità centrali - Lamentato trasferimento dei finanziamenti regionali ad un fondo statale in assenza di coinvolgimento della Regione e senza garanzia di destinazione ad infrastrutture portuali della stessa.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale - non fondatezza - inammissibilità
Atti decisi: ric. 81/2010
S.80/2011 del 07/03/2011
Udienza Pubblica del 25/01/2011, Presidente DE SIERVO, Redattore FRIGO


Norme impugnate: Art. 4 della legge 27/12/1956, n. 1423; art. 2 ter della legge 31/05/1965, n. 575.

Oggetto: Misure di prevenzione - Procedimento per l'applicazione delle misure di prevenzione - Giudizio di cassazione - Svolgimento, su istanza delle parti, nelle forme dell'udienza pubblica - Preclusione.

Dispositivo: non fondatezza - inammissibilità
Atti decisi: ord. 177/2010
S.81/2011 del 07/03/2011
Udienza Pubblica del 08/02/2011, Presidente DE SIERVO, Redattore GROSSI


Conflitto: Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati del 19/12/2008.

Oggetto: Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento penale per il reato di diffamazione a carico del senatore, allora deputato, Maurizio Gasparri per le opinioni da questi espresse nel corso di una trasmissione radiofonica nei confronti del magistrato Henry John Woodcock - Deliberazione di insindacabilità della Camera dei deputati.

Dispositivo: accoglie il ricorso
Atti decisi: confl. pot. mer. 4/2009
S.82/2011 del 07/03/2011
Udienza Pubblica del 08/02/2011, Presidente DE SIERVO, Redattore GROSSI


Conflitto: Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione del Senato della Repubblica del 12/02/2009.

Oggetto: Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento penale per il reato di diffamazione a mezzo stampa a carico dell'on. Giorgio Stracquadanio, senatore all'epoca dei fatti, per le opinioni da questi espresse nei confronti del dott. Giuseppe De Michelis di Slonghello, già ambasciatore della Repubblica - Deliberazione di insindacabilità del Senato della Repubblica.

Dispositivo: accoglie il ricorso
Atti decisi: confl. pot. mer. 1/2010
S.83/2011 del 07/03/2011
Camera di Consiglio del 09/02/2011, Presidente DE SIERVO, Redattore CRISCUOLO


Norme impugnate: Art. 250 del codice civile

Oggetto: Filiazione naturale - Riconoscimento del figlio naturale minore di sedici anni già riconosciuto da un genitore - Rifiuto di consenso opposto da quest'ultimo - Procedimento diretto ad ottenere sentenza che tenga luogo del consenso mancante - Nomina di un curatore speciale al minore, affinché sia "autonomamente rappresentato e difeso in giudizio" - Esclusione in base alla giurisprudenza di legittimità, secondo cui il minore infrasedicenne non assume qualità di parte.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 255/2010
O.84/2011 del 07/03/2011
Camera di Consiglio del 26/01/2011, Presidente DE SIERVO, Redattore CRISCUOLO


Norme impugnate: Art. 10 bis del decreto legislativo 25/07/1998, n. 286, aggiunto dall'art. 1, c. 16°, lett. a), della legge 15/07/2009, n. 94.

Oggetto: Straniero - Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato - Configurazione della fattispecie come reato.

Dispositivo: manifesta infondatezza - manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 206, 208 e 262/2010
O.85/2011 del 07/03/2011
Camera di Consiglio del 09/02/2011, Presidente DE SIERVO, Redattore TESAURO


Norme impugnate: Art. 18, c. 1°, lett. r), della legge 22/04/2005, n. 69.

Oggetto: Estradizione - Mandato d'arresto europeo - Consegna per l'estero - Consegna esecutiva - Rifiuto della consegna - Previsione che la Corte di appello rifiuti la consegna se il mandato di arresto europeo sia stato emesso ai fini dell'esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale, qualora la persona ricercata sia cittadino italiano, sempre che la Corte di appello disponga che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al suo diritto interno - Mancata previsione del rifiuto della consegna del residente non cittadino.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 259/2010
O.86/2011 del 07/03/2011
Camera di Consiglio del 09/02/2011, Presidente DE SIERVO, Redattore GROSSI


Norme impugnate: Art. 10 bis del decreto legislativo 25/07/1998, n. 286, aggiunto dall'art. 1, c. 16°, lett. a),della legge 15/07/2009, n. 94.

Oggetto: Straniero - Ingresso e soggiorno illegale nel territorio dello Stato - Configurazione della fattispecie come reato.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 242, 243, 244, 245, 246, 247, 248 e 249/2010
O.87/2011 del 07/03/2011
Camera di Consiglio del 09/02/2011, Presidente DE SIERVO, Redattore QUARANTA


Conflitto: Ammissibilità di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati del 28/10/2009.

Oggetto: Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento penale per il reato di diffamazione a carico del deputato Carmine Santo Patorino per le opinioni da questi espresse nei confronti del sindaco di Castellaneta Nicola Putignano - Deliberazione di insindacabilità della Camera dei deputati.

Dispositivo: ammissibile
Atti decisi: confl. pot. amm. 5/2010
S.88/2011 del 07/03/2011
Udienza Pubblica del 25/01/2011, Presidente DE SIERVO, Redattore DE SIERVO


Norme impugnate: Art. 8, c. 2°, della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 17/02/2010, n. 5.

Oggetto: Minoranze linguistiche - Circolazione stradale - Norme della Regione Friuli-Venezia Giulia - Interventi nel settore toponomastica e cartellonistica - Sostegno, accordato dalla Regione, agli enti locali e ai soggetti pubblici e privati che operano nei settori della cultura, dello sport, dell'economia e del sociale per l'utilizzo di cartellonistica, anche stradale, nei dialetti di origine veneta nelle seguenti espressioni: triestino, bisiaco, gradese, maranese, muggesano, liventino, veneto dell'Istria e della Dalmazia, nonchè veneto goriziano, pordenonese e udinese - Contrasto con la normativa nazionale a tutela delle minoranze linguistiche storiche e con la normativa nazionale in materia di circolazione stradale.

Dispositivo: non fondatezza - inammissibilità
Atti decisi: ric. 63/2010
S.89/2011 del 07/03/2011
Camera di Consiglio del 09/02/2011, Presidente DE SIERVO, Redattore NAPOLITANO


Norme impugnate: Artt. 7, c. 2°, e 6 della legge della Provincia autonoma di Bolzano 08/02/2010, n. 4.

Oggetto: Comuni, Province e città metropolitane - Referendum - Norme della Provincia di Bolzano - Istituzione e disciplina del Consiglio dei Comuni - Possibilità che il Consiglio dei Comuni, con il voto favorevole dei due terzi dei componenti, possa richiedere il referendum popolare per l'abrogazione totale o parziale di una legge provinciale riguardante, tra le altre, le materie dei tributi locali o della finanza locale.

Dispositivo: cessata materia del contendere
Atti decisi: ric. 64/2010

pronuncia successiva

SENTENZA N. 77

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 18, commi 4 e 7, e 19, commi 1, 2, 3, 4, 5 e 7, della legge della Regione Molise 22 gennaio 2010, n. 3 (Legge finanziaria regionale 2010), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 26 marzo - 1° aprile 2010, depositato in cancelleria il 6 aprile 2010 ed iscritto al n. 55 del registro ricorsi 2010.

Udito nell’udienza pubblica dell’8 febbraio 2011 il Giudice relatore Luigi Mazzella;

udito l’avvocato dello Stato Giacomo Aiello per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso notificato il 1° aprile 2010, depositato il 6 aprile 2010 e iscritto al n. 55 del ruolo ricorsi dell’anno 2010, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, secondo e terzo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 18, commi 4 e 7, e 19, commi 1, 2, 3, 4, 5 e 7, della legge della Regione Molise 22 gennaio 2010, n. 3 (Legge finanziaria regionale 2010).

2. – L’art. 18, comma 4, della predetta legge regionale dispone che «La Giunta regionale adotta con proprio atto una nuova disciplina riguardante le spese per i buoni pasto spettanti al personale dipendente dell’Amministrazione regionale, prevedendo annualmente l’utilizzo di non più di 120 buoni pasto per ogni dipendente. Al personale con mansioni di autista è assegnata una quota aggiuntiva calcolata su base storica in relazione al servizio svolto».

Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, tale norma vìola l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che riserva alla competenza esclusiva dello Stato la materia dell’ordinamento civile e, quindi, sia i rapporti di diritto privato regolabili dal codice civile, tra i quali rientra il rapporto di impiego privatizzato, sia i contratti collettivi. Essa, infatti, disciplina una materia (spese per i buoni pasto) rientrante nel trattamento economico da collegare all’orario di lavoro dei dipendenti e riservata alla contrattazione collettiva, con conseguente contrasto con le disposizioni contenute nel titolo III (artt. 40-50) del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), che individua le procedure da seguire in sede di contrattazione e sancisce per tutte le amministrazioni pubbliche l’obbligo del rispetto della normativa contrattuale.

3. – Il successivo comma 7 dell’art. 18 della legge della Regione Molise n. 3 del 2010, nel sostituire l’art. 3, comma 6, della legge della Regione Molise 13 gennaio 2009, n. 1 (Legge finanziaria regionale 2009), dispone che «Nelle more della revisione dei sistemi di incentivazione della qualità delle prestazioni lavorative di cui al decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, con effetto dal 1° gennaio 2010 e fino al 30 giugno 2010 sono ripristinate le misure percentuali delle indennità dell’istituto di cui all’articolo 29-bis della legge regionale 8 aprile 1997, n. 7, così come rideterminate dall’articolo 1 della legge regionale 2 ottobre 2006, n. 33».

Ad avviso del ricorrente anche tale norma, incidendo, temporaneamente rideterminandola, sull’indennità economica istituita dal richiamato art. 29-bis, contrasta con l’art. 117 Cost., secondo comma, lettera l), Cost., per gli stessi motivi indicati a proposito del precedente comma 4 del medesimo art. 18.

Il contrasto con il predetto parametro costituzionale sussisterebbe, secondo la difesa dello Stato, anche ipotizzando che la disciplina delle procedure e delle modalità della contrattazione collettiva sia riservata all’autonomia degli enti direttamente interessati. Infatti, nella fattispecie, il legislatore regionale non ha disciplinato il regime procedimentale della contrattazione, ma ha inciso sulla misura percentuale delle indennità da corrispondere ad una determinata categoria di personale, aspetto che deve invece essere regolato dalla contrattazione collettiva.

4. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato anche i commi 1, 2 e 3 dell’art. 19 della legge della Regione Molise n. 3 del 2010, a norma dei quali: i contratti del personale di tutto il servizio sanitario regionale, utilizzato ai sensi dell’art. 36, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001, o assunto a tempo determinato oppure con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, possono essere prorogati, in caso di riscontrata carenza di organico, per la durata massima del Piano di rientro sanitario, nel rispetto dei relativi limiti annuali di spesa (comma 1); l’Azienda sanitaria regionale per il Molise può prorogare, per il periodo corrispondente al Piano di rientro e per un termine di sei mesi rinnovabile una sola volta, gli incarichi di direttore di unità operativa complessa già conferiti a seguito di apposita selezione (comma 2); l’Azienda sanitaria regionale del Molise predispone un piano di riorganizzazione del personale coerente con il piano di riassetto della rete ospedaliera e con il Piano di rientro (comma 3). Si tratta, pertanto, di una serie di interventi (proroga del rapporto con personale dipendente; predisposizione di un piano di riorganizzazione del personale) correlati al Piano di rientro sanitario (riferito agli anni dal 2007 al 2009) la cui prosecuzione presuppone l’adozione di specifici programmi operativi.

Il ricorrente sostiene che tali interventi precostituiscono vincoli alla futura adozione dei programmi operativi, incidendo sugli stessi e potenzialmente pregiudicandone fin d’ora la coerenza con gli obiettivi programmati, con conseguente compromissione della piena attuazione dell’art. 2, comma 88, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2010), che così recita: «Per le Regioni già sottoposte ai piani di rientro e già commissariate alla data di entrata in vigore della presente legge restano fermi l’assetto della gestione commissariale previgente per la prosecuzione del Piano di rientro, secondo programmi operativi, coerenti con gli obiettivi finanziari programmati, predisposti dal commissario ad acta, nonché le relative azioni di supporto contabile e gestionale. È fatta salva la possibilità per la Regione di presentare un nuovo Piano di rientro ai sensi della disciplina recata dal presente articolo. A seguito dell’approvazione del nuovo piano cessano i commissariamenti, secondo i tempi e le procedure definiti nel medesimo piano per il passaggio dalla gestione straordinaria commissariale alla gestione ordinaria regionale». Poiché tale disposizione costituisce norma di coordinamento di finanza pubblica, risulterebbe leso l’art.117, terzo comma, Cost.

In secondo luogo, i singoli interventi in oggetto non sarebbero in linea con quanto disposto nel tavolo tecnico per i programmi operativi del nuovo Patto per la salute sottoscritto, in data 3 dicembre 2009, in sede di Conferenza Permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province Autonome di Trento e Bolzano che prevede, per l’anno 2010, il contenimento del costo del personale con il conseguente blocco del turn-over, la rideterminazione dei fondi della contrattazione collettiva, nonché la diminuzione delle posizioni organizzative.

Invece l’art. 19, comma 1, della legge della Regione Molise n. 3 del 2010 prevede la possibilità di prorogare i rapporti di lavoro flessibile, a tempo determinato e di collaborazione coordinata e continuativa per la durata del Piano di rientro nel rispetto dei limiti annuali di spesa; il comma 2 dispone la proroga di incarichi già conferiti per lo svolgimento di direttore di unità operativa complessa; il comma 3 prevede la predisposizione da parte dell’azienda sanitaria di un piano di riorganizzazione del personale coerente con il riassetto della rete ospedaliera e con il Piano di rientro anche ai fini dell’applicazione di cui all’art. 3 della legge della Regione Molise n. 1 del 2009.

Il Presidente del Consiglio dei ministri, con specifico riferimento ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa, deduce che essi, per loro natura, non possono ritenersi prorogabili, se non limitatamente al compimento di un’attività avviata, in quanto la loro durata è predeterminata in relazione allo specifico aspetto o fase dell’attività per il quale sono stati stipulati. Invece, rispetto al rinvio diretto all’applicazione dell’art. 3 della legge della Regione Molise n. 1 del 2009, il ricorrente sostiene che esso si risolve, di fatto, nell’attuazione di procedure di stabilizzazione del personale precario difformi da quelle previste dal legislatore statale all’art. 17, commi da 10 a 13, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito dalla legge 3 agosto 2009, n. 102. Pertanto, per le ragioni che precedono, i commi 1, 2 e 3 dell’art. 19 della legge della Regione Molise n. 3 del 2010, contrasterebbero anche con gli artt. 3 e 97 Cost., in riferimento ai principi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, e con il principio di leale collaborazione Stato-Regioni.

5. – Il comma 4 del medesimo art. 19 della legge molisana n. 3 del 2010 stabilisce che «La Regione Molise, ai fini dell’attuazione di progetti di ricerca sanitaria o di progetti finalizzati alla realizzazione degli obiettivi di carattere prioritario e di rilievo nazionale ex articolo 1, commi 34 e 34-bis, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, e per gli interventi finanziati ai sensi dell’articolo 79, comma 1-sexies, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni ed integrazioni, può stipulare i contratti previsti dall’articolo 15-octies del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502». Tale ultima disposizione consente la stipula di contratti per l’attuazione di progetti finalizzati non sostitutivi dell’attività ordinaria, con i quali «le aziende unità sanitarie locali e le aziende ospedaliere possono, nei limiti delle risorse di cui all’art. 1, comma 34-bis della legge 23 dicembre 1996, n. 662, a tal fine disponibili, assumere con contratti di diritto privato a tempo determinato soggetti in possesso di diploma di laurea ovvero di diploma universitario, di diploma di scuola secondaria di secondo grado o di titolo di abilitazione professionale nonché di abilitazione all’esercizio della professione, ove prevista».

Il legislatore regionale avrebbe dunque illegittimamente ampliato l’ambito applicativo della norma statale, estendendo la sua applicazione anche a fattispecie non contemplate dall’art. 15-octies del decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421).

In particolare, la stipula dei contratti è consentita dalla norma impugnata, non solo per i progetti di cui all’art. 1, comma 34-bis, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), nell’ottica del perseguimento degli obiettivi di carattere prioritario e di rilievo nazionale indicati nel Piano sanitario nazionale, ma anche per le fattispecie previste dall’art. 1, comma 34, della medesima legge (progetti sulla tutela della salute materno-infantile, della salute mentale, della salute degli anziani, nonché per quelli finalizzati alla prevenzione, e in particolare alla prevenzione delle malattie ereditarie) e per gli interventi diretti a garantire la disponibilità di dati economici, gestionali e produttivi delle strutture sanitarie contemplati dall’art. 79, comma 1-sexies, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito dalla legge 6 agosto 2008, n. 133.

Poiché le disposizioni contenute nell’art. 15-octies del d.lgs. n. 502 del 1992 devono essere considerate principi fondamentali in materia di tutela della salute, il ricorrente sostiene che l’art. 19, comma 4, legge della Regione Molise n. 3 del 2010, vìola l’art. 117, terzo comma, Cost., nonché il principio di leale collaborazione Stato-Regioni.

Inoltre, nella parte in cui la medesima norma regionale disciplina i contratti di diritto privato previsti dall’art. 15-octies del d.lgs. n. 502 del 1992, ampliando la sfera di applicazione dello stesso, essa sarebbe lesiva anche dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che attribuisce allo Stato la competenza esclusiva in materia di ordinamento civile.

6. – L’art. 19, comma 5, della legge della Regione Molise n. 3 del 2010 prevede che, «ai fini del controllo della spesa farmaceutica e di una corretta informazione sulle prescrizioni farmaceutiche da parte dei medici, la Giunta regionale promuove e disciplina le funzioni dell’informatore medicoscientifico aziendale».

Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, la norma individua una nuova figura professionale nell’ambito delle professioni sanitarie, ponendosi in contrasto con l’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992 (secondo il quale «Il Ministro della sanità individua con proprio decreto le figure professionali da formare ed i relativi profili»), legge che pone i principi fondamentali in materia (art. 19, comma 1, d.lgs. n. 502 del 1992), violando sotto un duplice profilo il disposto dell’art. 117, terzo comma, Cost., che prevede la competenza legislativa statale concorrente in materia di professioni e di tutela della salute.

7. – L’art. 19, comma 7, della legge della Regione Molise n. 3 del 2010 dispone che «In attuazione di quanto stabilito dall’art. 4, comma 2, del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159, relativamente alle modalità organizzative dell’attività del commissario ad acta e del subcommissario, nominati dal Consiglio dei ministri per il Piano di rientro, è applicabile l’art. 8 della legge regionale 12 settembre 1991, n. 15, come modificata dalla legge regionale 6 aprile 2009, n. 15. È autorizzata l’imputazione della spesa per il compenso spettante al subcommissario ad acta alla UPB n. 198, capitolo 2100». A sua volta, l’art. 8 della legge della Regione Molise 12 settembre 1991, n. 15 (Norme integrative e complementari alla legge regionale «Stato giuridico e trattamento economico del personale regionale e degli Enti pubblici della Regione Molise - Triennio 1988-1990» e provvedimenti urgenti per l’organizzazione amministrativa della Regione), concernente la disciplina delle segreterie particolari, prevede, tra l’altro, la possibilità di assumere nuovo personale per l’organizzazione amministrativa.

Ad avviso del ricorrente, l’art. 19, comma 7, della legge della Regione Molise n. 3 del 2010 si porrebbe pertanto in contrasto con l’art. 4, comma 2, del decreto-legge 1º ottobre 2007, n. 159 (Interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, legge 29 novembre 2007, n. 222, nella parte in cui dispone che le Regioni provvedono agli adempimenti relativi alla gestione commissariale con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, con conseguente lesione dei principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica che l’art.117, terzo comma, Cost. riserva alla competenza statale.

8. – Con atto ritualmente notificato e depositato l’11 gennaio 2011, il Presidente del Consiglio dei ministri ha rinunciato al ricorso limitatamente all’impugnazione dell’art. 18, comma 7, della legge reg. Molise n. 3 del 2010.

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso, in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, secondo e terzo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale di alcune norme della legge della Regione Molise 22 gennaio 2010, n. 3 (Legge finanziaria regionale 2010).

1.1. – In particolare, il ricorrente ha impugnato l’art. 18, comma 4, della predetta legge regionale, affermando che esso, disponendo che «La Giunta regionale adotta con proprio atto una nuova disciplina riguardante le spese per i buoni pasto spettanti al personale dipendente dell’Amministrazione regionale, prevedendo annualmente l’utilizzo di non più di 120 buoni pasto per ogni dipendente. Al personale con mansioni di autista è assegnata una quota aggiuntiva calcolata su base storica in relazione al servizio svolto» e, quindi, disciplinando un aspetto del trattamento economico dei dipendenti regionali, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che riserva alla competenza esclusiva dello Stato la materia dell’ordinamento civile e, dunque, sia i rapporti di diritto privato regolati dal codice civile (tra i quali rientra il rapporto di impiego privatizzato), sia i contratti collettivi.

1.2. – Per il medesimo motivo il Presidente del Consiglio dei ministri censura l’art. 18, comma 7, della legge della Regione Molise n. 3 del 2010, il quale, stabilendo che «con effetto dal 1° gennaio 2010 e fino al 30 giugno 2010 sono ripristinate le misure percentuali delle indennità dell’istituto di cui all’articolo 29-bis della legge regionale 8 aprile 1997, n. 7, così come rideterminate dall’articolo 1 della legge regionale 2 ottobre 2006, n. 33», disciplina un aspetto del trattamento economico di una determinata categoria di dipendenti regionali.

1.3. – Il ricorrente impugna, poi, l’art. 19, commi 1, 2 e 3, della legge della Regione Molise n. 3 del 2010, i quali dispongono, rispettivamente, che: i contratti del personale di tutto il servizio sanitario regionale, utilizzato ai sensi dell’art. 36, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), o assunto a tempo determinato oppure con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, possono essere prorogati, in caso di riscontrata carenza di organico, per la durata massima del Piano di rientro sanitario, nel rispetto dei relativi limiti annuali di spesa (comma 1); l’Azienda sanitaria regionale per il Molise può prorogare, per il periodo corrispondente al Piano di rientro e per un termine di sei mesi rinnovabile una sola volta, gli incarichi di direttore di unità operativa complessa già conferiti a seguito di apposita selezione (comma 2); l’Azienda sanitaria regionale del Molise predispone un piano di riorganizzazione del personale coerente con il piano di riassetto della rete ospedaliera e con il Piano di rientro, anche ai fini dell’applicazione dell’art. 3 della legge della Regione Molise 13 gennaio 2009, n. 1 (Legge finanziaria regionale 2009) (comma 3). Ad avviso della difesa dello Stato, tali disposizioni lederebbero l’art. 117, terzo comma, Cost., trattandosi di interventi che precostituiscono vincoli alla futura adozione dei programmi operativi, incidendo sugli stessi e potenzialmente pregiudicandone fin d’ora la coerenza con gli obiettivi programmati, con conseguente compromissione della piena attuazione dell’art. 2, comma 88, della legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2010), costituente principio fondamentale in materia di coordinamento della finanza pubblica. Esse, inoltre, violerebbero gli artt. 3 e 97 Cost., in riferimento ai principi di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, e il principio di leale collaborazione Stato-Regioni, poiché, quanto ai contratti di collaborazione coordinata e continuativa, questi, per loro natura, non possono ritenersi prorogabili, se non limitatamente al compimento di un’attività avviata e, quanto al rinvio diretto all’applicazione dell’art. 3 della legge della Regione Molise n. 1 del 2009, esso si risolve nell’attuazione di procedure di stabilizzazione del personale precario difformi da quelle previste dal legislatore statale all’art. 17, commi da 10 a 13, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini).

1.4. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato anche l’art. 19, comma 4, della legge della Regione Molise n. 3 del 2010, il quale stabilisce che la stipula dei contratti di lavoro di diritto privato a tempo determinato previsti dall’art. 15-octies del d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria, a norma dell’art. 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421), è consentita anche per le fattispecie previste dall’art. 1, comma 34, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica) e per quelli finanziati ai sensi dell’art. 79, comma 1-sexies, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria). Tale norma regionale lederebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., e il principio di leale collaborazione Stato-Regioni, contrastando con l’art. 15-octies del d.lgs. n. 502 del 1992 (che deve essere considerato principio fondamentale in materia di tutela della salute), il quale consente la stipula dei predetti contratti solamente per i progetti di cui all’art. 1, comma 34-bis, della legge n. 662 del 1996. Essa contrasterebbe, poi, con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., che attribuisce allo Stato la competenza esclusiva in materia di ordinamento civile, perché amplia la sfera di applicazione dell’art. 15-octies del d.lgs. n. 502 del 1992, il quale disciplina contratti di diritto privato.

1.5. – Il ricorrente censura, inoltre, l’art. 19, comma 5, della legge della Regione Molise n. 3 del 2010, perché esso, stabilendo che, «ai fini del controllo della spesa farmaceutica e di una corretta informazione sulle prescrizioni farmaceutiche da parte dei medici, la Giunta regionale promuove e disciplina le funzioni dell’informatore medicoscientifico aziendale», violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., che prevede la competenza legislativa statale concorrente in materia di professioni e di tutela della salute, poiché individua una nuova figura professionale nell’ambito delle professioni sanitarie, ponendosi in contrasto con l’art. 6, comma 3, del d.lgs. n. 502 del 1992 (secondo il quale «Il Ministro della sanità individua con proprio decreto le figure professionali da formare ed i relativi profili»), norma che detta i principi fondamentali in materia.

1.6. – Infine, il Presidente del Consiglio dei ministri denuncia l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, comma 7, della legge della Regione Molise n. 3 del 2010, il quale così recita: «In attuazione di quanto stabilito dall’art. 4, comma 2, del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159, relativamente alle modalità organizzative dell’attività del commissario ad acta e del subcommissario, nominati dal Consiglio dei ministri per il Piano di rientro, è applicabile l’art. 8 della legge regionale 12 settembre 1991, n. 15, come modificata dalla legge regionale 6 aprile 2009, n. 15. È autorizzata l’imputazione della spesa per il compenso spettante al subcommissario ad acta alla UPB n. 198, capitolo 2100». L’Avvocatura generale dello Stato afferma che tale norma lederebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., poiché l’art. 8 della legge della Regione Molise 12 settembre 1991, n. 15 (Norme integrative e complementari alla legge regionale «Stato giuridico e trattamento economico del personale regionale e degli Enti pubblici della Regione Molise - Triennio 1988-1990» e provvedimenti urgenti per l’organizzazione amministrativa della Regione), concernente la disciplina delle segreterie particolari, prevede, tra l’altro, la possibilità di assumere nuovo personale per l’organizzazione amministrativa e pertanto la norma impugnata si pone in contrasto con l’art. 4, comma 2, del decreto-legge 1º ottobre 2007, n. 159 (Interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, legge 29 novembre 2007, n. 222, nella parte in cui questo dispone che le Regioni provvedono agli adempimenti relativi alla gestione commissariale con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente, con conseguente lesione dei principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica.

2. – Preliminarmente – ricordato che la Regione Molise non si è costituita nel presente giudizio di costituzionalità – deve essere dichiarata l’estinzione del processo limitatamente alla questione relativa all’art. 18, comma 7, della legge della Regione Molise n. 3 del 2010, avendo il Presidente del Consiglio dei ministri rinunciato alla sua impugnazione (art. 23 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale).

3. – La questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 4, della legge della Regione Molise n. 3 del 2010, sollevata in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., è fondata.

Tale norma prevede che la Giunta regionale adotti una nuova disciplina in materia di buoni pasto, spettanti ai dipendenti regionali, e stabilisce anche il numero massimo annuale di essi concedibili a ogni lavoratore.

I buoni pasto costituiscono, come noto, una sorta di rimborso forfettario delle spese che il lavoratore, tenuto a prolungare la propria permanenza in servizio oltre una certa ora, deve affrontare per consumare il pranzo. Si tratta, quindi, di una componente del trattamento economico spettante ai dipendenti pubblici, che rientra nella regolamentazione del contratto di diritto privato che lega tali dipendenti “privatizzati” all’ente di appartenenza. Questa Corte ha già affermato che detta disciplina rientra nella materia dell’ordinamento civile (sentenze n. 324 del 2010 e n. 151 del 2010) e che a questa materia è riconducibile anche il trattamento economico (sentenza n. 332 del 2010) dei dipendenti pubblici, il cui rapporto di impiego sia stato privatizzato e, conseguentemente, disciplinato dalla contrattazione collettiva (sentenza n. 189 del 2007).

Pertanto, la norma regionale in esame, disciplinando un aspetto del trattamento economico dei dipendenti della Regione, il cui rapporto di impiego è stato privatizzato, invade la competenza esclusiva statale in materia di ordinamento civile e deve conseguentemente essere dichiarata illegittima.

4. – Anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, commi 1 e 2, della legge della Regione Molise n. 3 del 2010, sollevata in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., è fondata.

Il Molise è una Regione per l’attuazione del cui Piano di rientro della spesa sanitaria è stato nominato un commissario ad acta. Orbene, questa Corte ha ripetutamente qualificato come principi di coordinamento della finanza pubblica le norme statali che perseguivano in vario modo la finalità di contenimento della spesa sanitaria (sentenze n. 100 e n. 40 del 2010, n. 94 del 2009). Anche l’art. 2, comma 88, legge n. 191 del 2009, il quale mantiene fermo l’assetto della gestione commissariale previgente per la prosecuzione del Piano di rientro, costituisce un principio fondamentale in materia di coordinamento della finanza pubblica. Con tale principio confliggono i commi 1 e 2 dell’art. 19 impugnato.

In particolare, il comma 1 dispone una proroga talmente ampia dei contratti di lavoro in essere con il personale precario (essa concerne, infatti, i contratti del personale di tutto il servizio sanitario regionale utilizzato con modalità di lavoro flessibili o assunto a tempo determinato o con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa) da comportare il serio rischio di pregiudicare l’obiettivo dei programmi operativi finalizzati all’attuazione del Piano di rientro.

Identica considerazione vale per il comma 2, che prevede la possibilità per la Azienda sanitaria molisana di prorogare per il periodo corrispondente al Piano di rientro gli incarichi di direttore di unità operativa complessa già conferiti. E’ ovvio, infatti, che simili proroghe impediscono di realizzare immediatamente il risparmio di spesa conseguente alla soppressione delle corrispondenti unità complesse eventualmente disposta dal commissario ad acta.

Va quindi dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, commi 1 e 2, della legge della Regione Molise n. 3 del 2010.

Restano assorbite le censure svolte in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost.

5. – Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 3, della legge della Regione Molise n. 3 del 2010 non sono fondate.

Tale norma stabilisce che la Azienda sanitaria molisana propone un piano di riorganizzazione del personale coerente con il riassetto della rete ospedaliera e con il Piano di rientro «anche ai fini dell’applicazione dell’art. 3 della legge regionale 13 gennaio 2009, n. 1». Quest’ultimo articolo, al comma 8, prevede la stabilizzazione per il personale assunto con contratti a tempo determinato. Contrariamente a quanto temuto dal ricorrente, una simile disposizione non comporta un rischio di compromissione dell’obiettivo del rientro della spesa sanitaria regionale, perché vale, anche per le procedure di stabilizzazione che la Regione potrebbe eventualmente attivare, il limite costituito dalla necessaria coerenza con il piano di riassetto della rete ospedaliera e con il Piano di rientro. Non è ravvisabile, dunque, contrasto con il principio fondamentale espresso dall’art. 2, comma 88, della legge n. 191 del 2009, né, conseguentemente, con l’art. 117, terzo comma, Cost.

Neppure sussiste la lesione degli artt. 3 e 97 Cost. denunciata dal ricorrente con riferimento al rinvio, contenuto nella disposizione impugnata, diretto all’applicazione dell’art. 3 della legge regionale n. 1 del 2009, che, ad avviso della difesa dello Stato, si risolverebbe nell’attuazione di procedure di stabilizzazione del personale precario difformi da quelle previste dal legislatore statale all’art. 17, commi da 10 a 13, del decreto-legge n. 78 del 2009. Infatti, l’art. 19, comma 3, della legge della Regione Molise n. 3 del 2010 non costituisce la fonte del potere dell’amministrazione molisana di procedere alla stabilizzazione dei precari, fonte che invece va individuata nell’art. 3 della precedente legge regionale n. 1 del 2009, non impugnata dallo Stato e, pertanto, ancora in vigore. La norma oggi censurata semplicemente prevede che, nel piano di riorganizzazione del personale, l’Azienda sanitaria molisana tenga conto anche del personale precario da stabilizzare in virtù della precedente normativa del 2009.

6. – La questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 4, della legge della Regione Molise n. 3 del 2010, sollevata in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., è fondata.

Tale norma dispone che la Regione può stipulare i contratti previsti dall’art. 15-octies del d.lgs. n. 502 del 1992 (si tratta di contratti di diritto privato a tempo determinato) per l’attuazione di progetti di ricerca sanitaria ovvero finalizzati alla realizzazione di obiettivi di carattere prioritario e di rilievo nazionale ex artt. 34 e 34-bis della legge n. 662 del 1996 e per gli interventi finanziati ai sensi dell’art. 79, comma 1-sexies, del decreto-legge n. 112 del 2008.

L’art. 15-octies del d.lgs. n. 502 del 1992 prevede la possibilità per le aziende sanitarie locali di stipulare i predetti contratti di lavoro a tempo determinato «Per l’attuazione di progetti finalizzati, non sostitutivi dell’attività ordinaria […], nei limiti delle risorse di cui all’articolo 1, comma 34-bis della legge 23 dicembre 1996, n. 662, a tal fine disponibili».

Tale norma statale esprime un principio fondamentale in materia di tutela della salute, poiché disciplina le condizioni generali di applicabilità – nel settore sanitario – di un istituto (le assunzioni a termine) che ha una rilevanza del tutto particolare nell’àmbito dell’impiego alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni.

L’art. 19, comma 4, legge della Regione Molise n. 3 del 2010, nel consentire la stipulazione di contratti di lavoro a tempo determinato anche in relazione ad iniziative diverse da quelle contemplate dalla summenzionata norma statale, si pone in contrasto con la disciplina posta da quest’ultima e, pertanto, vìola l’art. 117, terzo comma, Cost., che attribuisce allo Stato la competenza a dettare i principi fondamentali in materia di tutela della salute.

Resta assorbita la censura formulata in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost.

7. – La questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 5, della legge della Regione Molise n. 3 del 2010, sollevata in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., è fondata.

Questa Corte ha ripetutamente affermato che l’individuazione delle figure professionali, con i relativi profili e titoli abilitanti, è riservata, per il suo carattere necessariamente unitario, allo Stato.

La norma regionale oggetto della presente questione sostanzialmente istituisce una nuova professione (quella dell’informatore medicoscientifico aziendale), rinviando addirittura ad una disciplina di rango secondario la definizione delle funzioni e tutta la regolamentazione di tale nuova professione.

Deve dunque essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, comma 5, della legge della Regione Molise n. 3 del 2010.

8. – Anche la questione di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 7, della legge della Regione Molise n. 3 del 2010, è fondata.

La norma impugnata, infatti, prevede che, in relazione all’attività del commissario ad acta e del subcommissario (nominati dal Consiglio dei ministri per il Piano di rientro dal disavanzo nella spesa sanitaria), è applicabile l’art. 8 della legge della Regione Molise n. 15 del 1991 che, con riferimento al personale delle segreterie particolari degli organi, prevede anche la possibilità di assumere con contratto di diritto privato a tempo determinato personale esterno all’Amministrazione regionale (comma 7).

Orbene, l’art. 4, comma 2, del decreto-legge n. 159 del 2007 stabilisce che le Regioni provvedono agli adempimenti relativi alla gestione commissariale dei Piani di rientro «utilizzando le risorse finanziarie, umane e strumentali disponibili a legislazione vigente». Tale disposizione ha natura di principio fondamentale in materia di coordinamento della finanza pubblica. E’ evidente quindi che la facoltà di ricorrere a nuove assunzioni per le esigenze della gestione commissariale si pone in aperto contrasto con il vincolo posto dall’art. 4, comma 2, del decreto-legge n. 159 del 2007, con conseguente violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost.

Va dunque dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, comma 7, della legge della Regione Molise n. 3 del 2010.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 4, della legge della Regione Molise 22 gennaio 2010, n. 3 (Legge finanziaria regionale 2010);

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, commi 1, 2, 4, 5 e 7 della legge della Regione Molise n. 3 del 2010;

dichiara estinto il processo relativamente alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 7, della legge della Regione Molise n. 3 del 2010, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 19, comma 3, della legge della Regione Molise n. 3 del 2010 promosse, in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, terzo comma, Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 marzo 2011.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI


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SENTENZA N. 78

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 31, commi 2, 3 e 8 lettera c); 32 e 33 della legge della Regione Molise 22 febbraio 2010, n. 8 (Disciplina sull’assetto programmatorio, contabile, gestionale e di controllo dell’Azienda sanitaria regionale del Molise – Abrogazione della legge regionale 14 maggio 1997, n. 12), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 29 aprile – 7 maggio 2010, depositato in cancelleria il 6 maggio 2010 ed iscritto al n. 73 del registro ricorsi 2010.

Udito nell’udienza pubblica dell’8 febbraio 2011 il Giudice relatore Alfonso Quaranta;

udito l’avvocato dello Stato Diana Ranucci per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.— Con ricorso del 29 aprile 2010, depositato presso la cancelleria della Corte il successivo 6 maggio (ric. n. 73 del 2010), il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questione di legittimità costituzionale degli articoli 31, commi 2, 3 e 8, lettera c); 32 e 33 della legge della Regione Molise 22 febbraio 2010, n. 8 (Disciplina sull’assetto programmatorio, contabile, gestionale e di controllo dell’Azienda sanitaria regionale del Molise – Abrogazione della legge regionale 14 maggio 1997, n. 12), per violazione dell’articolo 120 della Costituzione.

1.1.— Il ricorrente premette che la Regione Molise rientra tra quelle Regioni che «hanno sottoscritto l’accordo con lo Stato per il rientro dai deficit sanitari», ai sensi dell’art. 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005), nel testo modificato dall’art. 4 del decreto-legge 14 marzo 2003, n. 35 (Disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 14 maggio 2005, n. 80.

Sottolinea, inoltre, che tale accordo – la cui attuazione costituisce condizione per la rinnovata attribuzione del finanziamento statale – comporta, tra l’altro, l’impegno da parte delle Regioni interessate a procedere ad una ricognizione delle cause dei disavanzi e ad elaborare un programma operativo di riorganizzazione, riqualificazione o di potenziamento del servizio sanitario regionale, nella prospettiva di individuare gli interventi necessari al perseguimento dell’equilibrio economico, nel rispetto dei livelli essenziali di assistenza sanitaria.

Analogamente, l’art. 1, comma 796, lettera b), della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007) ha istituito un fondo transitorio, da ripartirsi tra le Regioni interessate, subordinando l’accesso anche a tali ulteriori risorse alla sottoscrizione di un apposito accordo, nuovamente comprensivo di un piano di rientro dai disavanzi, il cui azzeramento era previsto entro l’anno 2010. La medesima norma conferisce, poi, al Ministero della salute, di concerto con quello dell’economia e finanze, un’attività di affiancamento delle Regioni, per la verifica ed il monitoraggio dei singoli piani di rientro.

Qualora, poi, nell’ambito del procedimento di verifica e monitoraggio dei singoli piani, sottolinea ancora la difesa statale, risulti la mancata attuazione, da parte di taluna delle Regioni interessate, degli adempimenti posti a loro carico, è previsto che il Presidente del Consiglio dei ministri – ai sensi dell’art. 4 del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159 (Interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 29 novembre 2007, n. 222 – diffidi la Regione ad adottare, entro quindici giorni, tutti gli atti normativi, amministrativi, organizzativi e gestionali idonei a garantire il conseguimento degli obiettivi del piano. In caso di persistente inadempimento regionale, ovvero di verificata inidoneità od insufficienza degli atti ed azioni posti in essere, il Consiglio dei ministri nomina un commissario ad acta, per l’intero periodo di vigenza del piano di rientro, con facoltà – tra l’altro – di proporre alla Regione la sostituzione dei direttori generali delle aziende sanitarie locali ovvero delle aziende ospedaliere.

Orbene, non avendo realizzato la Regione Molise gli obiettivi previsti dal piano di rientro, il Presidente del Consiglio dei ministri, in base alle citate disposizioni legislative, ha nominato il Presidente della Regione commissario ad acta per la realizzazione del piano stesso.

1.2.— È in tale contesto, dunque, che si inserisce la legge regionale n. 8 del 2010, che ha previsto l’adozione di una serie di misure di natura programmatica, economica, finanziaria e patrimoniale al fine di individuare gli obiettivi da assegnare al servizio sanitario regionale, le fonti di finanziamento delle aziende sanitarie regionali, le modalità di ripartizione di tali risorse, il controllo sulla gestione delle aziende sanitarie regionali per assicurare efficacia ed efficienza nella acquisizione e nella gestione delle risorse.

In particolare, gli artt. 31, 32 e 33 attribuiscono alla Giunta regionale il controllo regionale, il visto regionale e l’attività di controllo regionale in materia amministrativo-contabile.

Tuttavia, atteso l’intervenuto commissariamento della Regione Molise, risulterebbero costituzionalmente illegittime le previsioni legislative secondo cui: è la Giunta ad esercitare il controllo su tutti gli atti del Direttore generale dell’Azienda sanitaria della Regione Molise (art. 31, comma 2); gli atti adottati dalla Giunta nell’esercizio della funzione di vigilanza non sono soggetti a controllo (art. 31, comma 3); la Giunta può deliberare la risoluzione del contratto con il Direttore generale e la sua contestuale sostituzione, qualora questi non provveda nei termini all’adozione del bilancio e/o alla proposta per la copertura della perdita d’esercizio (art. 31, comma 8, lettera c).

Difatti, osserva il ricorrente, il citato art. 31, comma 2, «tende a realizzare una funzione di controllo sugli atti del Direttore generale, in punto di bilancio, riequilibrio della situazione economica e gestione delle risorse», nell’ottica dell’attuazione del piano di rientro dal disavanzo sanitario. Nondimeno, nella specie, sulla base della disciplina legislativa impugnata, tale finalità è «destinata a realizzarsi solo attraverso l’opera degli organi ordinari della Regione, senza alcun riferimento alle competenze e funzioni del commissario, in assenza del necessario raccordo istituzionale imposto dal principio di leale collaborazione» e, pertanto, in violazione dell’art. 120 Cost.

Alla stessa censura si esporrebbe il successivo comma 3 del medesimo art. 31, posto che «la previsione della assenza di controllo sugli atti adottati dalla Giunta regionale ai sensi del precedente comma 2» si tradurrebbe «ancora una volta in una violazione del principio di leale collaborazione, esautorando di fatto il commissario ad acta di un’ampia sfera di poteri, primo fra tutti il controllo sugli atti del Direttore generale, con implicito disconoscimento dello stesso potere sostitutivo».

Infine, il comma 8 dello stesso articolo – secondo cui la Giunta può deliberare la risoluzione del contratto con il Direttore generale e la sua contestuale sostituzione, qualora questi non provveda nei termini all’adozione del bilancio e/o alla proposta per la copertura della perdita d’esercizio – violerebbe l’art. 4, comma 2, del decreto-legge n. 159 del 2007, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge n. 222 del 2007, ovvero la norma che attribuisce al commissario ad acta la facoltà, nell’esercizio dei suoi poteri, di disporre la sospensione dei Direttori generali.

Anche nel caso in esame la disciplina recata dalla norma impugnata si tradurrebbe nella negazione della facoltà spettante al commissario di proporre alla Regione la sostituzione del Direttore generale, e dunque in “un disconoscimento” di quel potere di sostituzione degli organi regionali preordinato alla tutela di interessi essenziali unitariamente facenti capo allo Stato ed esercitati dal Governo con la nomina del predetto commissario (è richiamata la sentenza n. 2 del 2010 di questa Corte). Difatti, «in forza di quanto disposto dal citato art. 4, comma 2, rientra tra le facoltà del commissario ad acta – dopo la modifica apportata al testo di tale norma dall’art. 1, comma 1, del decreto-legge 7 ottobre 2008, n. 154 (Disposizioni urgenti per il contenimento della spesa sanitaria e in materia di regolazioni contabili con le autonomie locali), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 4 dicembre 2008, n. 189 – il potere non già soltanto di proporre alla Regione la sostituzione dei Direttori generali delle aziende sanitarie locali e delle aziende ospedaliere, bensì quello di motivatamente disporre la sospensione dalle funzioni dei Direttori generali, facoltà che implica, evidentemente, anche quella della loro sostituzione, trattandosi di assicurare, con tale misura, la continuità nello svolgimento di incarichi che – per il loro carattere apicale – non tollerano alcuna vacatio» (così la già citata sentenza n. 2 del 2010, che ha dichiarato costituzionalmente illegittima la proroga automatica dei Direttori generali delle aziende sanitarie locali disposta da una norma contenuta in una legge della Regione Lazio).

Analogamente, violerebbero le prerogative del commissario ad acta (e, pertanto, l’art. 120 Cost.) anche gli artt. 32 e 33 della legge regionale impugnata.

Ed invero, il primo di tali articoli stabilisce che gli atti del Direttore generale, adottati in punto di bilancio e di riequilibrio della situazione economica, siano soggetti al solo visto di congruità della Giunta regionale. Si è in presenza, pertanto, di atti di natura economico-finanziaria e di programmazione – osserva il ricorrente – «diretti ad inserirsi nell’ambito di una politica regionale di ripianamento dei disavanzi», alla quale è «completamente estranea la previsione della partecipazione del commissario ad acta, essendo lasciati alla integrale realizzazione degli organi ordinari della Regione».

Del pari, l’art. 33 riserva alla Regione l’attività di controllo e vigilanza sugli atti di programmazione aziendale dell’Azienda sanitaria regionale, sia sotto il profilo economico di bilancio, sia sotto quello gestionale di analisi e verifica dei risultati raggiunti, con eguale menomazione delle attribuzioni del commissario ad acta.

Di qui, in conclusione, il contrasto di tutte le norme impugnate con l’art. 120 Cost., giacché «la scelta di riservare esclusivamente agli organi ordinari della Regione la modifica delle “disposizioni finanziarie, di bilancio e contabili”, pur quando esse presentino profili di interferenza con l’attuazione del piano di rientro dal disavanzo sanitario, si risolve in un obiettivo svuotamento dei poteri del commissario ad acta, e dunque in una violazione dell’art. 120, secondo comma, Cost.» (così, la già citata sentenza n. 2 del 2010).

2.— Non si è costituita in giudizio la Regione Molise.

Considerato in diritto

1.— Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questione di legittimità costituzionale degli articoli 31, commi 2, 3 e 8, lettera c); 32 e 33 della legge della Regione Molise 22 febbraio 2010, n. 8 (Disciplina sull’assetto programmatorio, contabile, gestionale e di controllo dell’Azienda sanitaria regionale del Molise – Abrogazione della legge regionale 14 maggio 1997, n. 12), per violazione dell’articolo 120 della Costituzione.

1.1.— Premette in punto di fatto il ricorrente che il Presidente della Regione Molise è stato nominato commissario ad acta per il rientro dal deficit nel settore sanitario, giacché il Molise è una di quelle Regioni che – dopo aver sottoscritto gli accordi diretti alla riduzione del disavanzo, ai sensi dell’art. 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005) – hanno disatteso l’impegno ad adottare tutti gli atti normativi, amministrativi, organizzativi e gestionali idonei a garantire il conseguimento degli obiettivi del piano di rientro, giustificando, con tale inerzia, l’esercizio del potere sostitutivo statale previsto dall’art. 4 del decreto-legge 1° ottobre 2007, n. 159 (Interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 29 novembre 2007, n. 222.

1.2.— Ciò posto, il Presidente del Consiglio dei ministri assume che la disciplina recata dalle disposizioni impugnate si risolverebbe in un obiettivo svuotamento dei poteri del commissario ad acta, e dunque in una violazione dell’art. 120, secondo comma, Cost.

In particolare, le norme suddette dispongono che: è la Giunta ad esercitare il controllo su tutti gli atti del Direttore generale dell’Azienda sanitaria regionale (art. 31, comma 2); gli atti adottati dalla Giunta nell’esercizio della funzione di vigilanza non sono soggetti a controllo (art. 31, comma 3); la Giunta può deliberare la risoluzione del contratto con il Direttore generale e la sua contestuale sostituzione, qualora questi non provveda nei termini all’adozione del bilancio e/o alla proposta per la copertura della perdita d’esercizio (art. 31, comma 8, lettera c).

In tal modo, osserva il ricorrente, il citato art. 31, comma 2, «tende a realizzare una funzione di controllo sugli atti del Direttore generale, in punto bilancio, riequilibrio della situazione economica e gestione delle risorse», nell’ottica dell’attuazione del piano di rientro dal disavanzo sanitario; nondimeno, tale finalità è «destinata a realizzarsi solo attraverso l’opera degli organi ordinari della Regione, senza alcun riferimento alle competenze e funzioni del commissario, in assenza del necessario raccordo istituzionale imposto dal principio di leale collaborazione» e, pertanto, in violazione dell’art. 120 Cost.

Alla stessa censura si esporrebbe il successivo comma 3 del medesimo art. 31, posto che «la previsione della assenza di controllo sugli atti adottati dalla Giunta regionale ai sensi del precedente comma 2» si tradurrebbe «ancora una volta in una violazione del principio di leale collaborazione, esautorando di fatto il commissario ad acta da un’ampia sfera di poteri, primo fra tutti il controllo sugli atti del Direttore generale, con implicito disconoscimento dello stesso potere sostitutivo».

Infine, il comma 8 dello stesso articolo – secondo cui la Giunta può deliberare la risoluzione del contratto con il Direttore generale e la sua contestuale sostituzione, qualora questi non provveda nei termini all’adozione del bilancio e/o alla proposta per la copertura della perdita d’esercizio – violerebbe l’art. 4, comma 2, del citato decreto-legge n. 159 del 2007, ovvero la norma che attribuisce al commissario ad acta la facoltà, nell’esercizio dei suoi poteri, di disporre la sospensione del Direttore generale.

In particolare, la disciplina recata dalla disposizione impugnata si tradurrebbe nella negazione della facoltà spettante al commissario di proporre alla Regione la sostituzione del Direttore generale, e dunque in “un disconoscimento” di quel potere di sostituzione degli organi regionali preordinato alla tutela di interessi essenziali unitariamente facenti capo allo Stato ed esercitati dal Governo con la nomina del predetto commissario (è richiamata, al riguardo, la sentenza n. 2 del 2010).

Analogamente, violerebbero le prerogative del commissario ad acta (e, pertanto, l’art. 120 Cost.) anche gli artt. 32 e 33 della legge regionale della Regione Molise n. 8 del 2010.

Ed invero, il primo di tali articoli stabilisce che gli atti del Direttore generale, adottati in punto di bilanci e di riequilibrio della situazione economica, sono soggetti al solo visto di congruità della Giunta regionale. Si è in presenza, pertanto, di atti di natura economico-finanziaria e di programmazione – osserva il ricorrente – «diretti ad inserirsi nell’ambito di una politica regionale di ripianamento dei disavanzi», alla quale è «completamente estranea la previsione della partecipazione del commissario ad acta, essendo lasciati alla integrale realizzazione degli organi ordinari della Regione».

Del pari, l’art. 33 riserverebbe alla Regione l’attività di controllo e vigilanza sugli atti di programmazione aziendale dell’Azienda sanitaria regionale, sia sotto il profilo economico di bilancio, sia sotto quello gestionale di analisi e verifica dei risultati raggiunti, con eguale menomazione delle attribuzioni del commissario ad acta.

2.— La questione è fondata.

3.— In via preliminare, occorre precisare che nel presente giudizio di costituzionalità non viene in rilievo l’esercizio di poteri normativi da parte del commissario ad acta, bensì l’interferenza, sui poteri dallo stesso esercitati sul piano amministrativo, di talune scelte compiute dal legislatore regionale molisano con la legge n. 8 del 2010.

Resta, pertanto, estraneo all’odierno thema decidendum il problema esaminato dalla recente sentenza n. 361 del 2010, con la quale questa Corte ha affermato che la disciplina contenuta nel secondo comma dell’art. 120 Cost. non può essere interpretata come implicitamente legittimante il conferimento di poteri di tipo legislativo ad un soggetto che sia stato nominato commissario del Governo.

4.— Nel caso ora in esame, si tratta soltanto di stabilire se ricorrano le condizioni per estendere all’odierna questione la ratio decidendi della citata sentenza n. 2 del 2010.

4.1.— Sul punto, occorre rammentare che tale pronuncia ha dichiarato costituzionalmente illegittima una normativa legislativa della Regione Lazio che si caratterizzava per riservare esclusivamente agli organi ordinari della Regione la modifica delle disposizioni finanziarie, di bilancio e contabili, pur quando esse presentino profili di interferenza con l’attuazione del piano di rientro dal disavanzo sanitario; ciò che, secondo questa Corte, costituiva «un obiettivo svuotamento dei poteri del commissario ad acta», e si traduceva dunque in una violazione dell’art. 120, secondo comma, Cost. Analogamente, la scelta del legislatore regionale del Lazio di disporre la proroga dei Direttori generali, nonché dei Direttori sanitari e amministrativi è stata ritenuta in contrasto con il potere del commissario non già soltanto di proporre alla Regione la sostituzione dei Direttori generali delle aziende sanitarie locali e delle aziende ospedaliere, bensì di motivatamente disporne la sospensione dalle funzioni, facoltà che implica, evidentemente, anche quella della loro sostituzione (sentenza n. 2 del 2010).

4.2.— Tanto premesso, sebbene nel caso oggi in esame – diversamente da quanto avvenuto in quello deciso dalla citata sentenza n. 2 del 2010 – non sia ravvisabile un diretto contrasto con i poteri del commissario, ricorre comunque una situazione di interferenza sulle funzioni commissariali, idonea ad integrare la violazione dell’art. 120, secondo comma, Cost.

Giova, infatti, rammentare – come già ha sottolineato in passato questa Corte, sin dalla sentenza n. 193 del 2007 – che l’operato del commissario ad acta, incaricato dell’attuazione del piano di rientro dal disavanzo sanitario previamente concordato tra lo Stato e la Regione interessata, sopraggiunge all’esito di una persistente inerzia degli organi regionali, essendosi questi ultimi sottratti – malgrado il carattere vincolante (art. 1, comma 796, lettera b), della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007») dell’accordo concluso dal Presidente della Regione – ad un’attività che pure è imposta dalle esigenze della finanza pubblica.

È, dunque, proprio tale dato – in uno con la constatazione che l’esercizio del potere sostitutivo è, nella specie, imposto dalla necessità di assicurare la tutela dell’unità economica della Repubblica, oltre che dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti un diritto fondamentale (art. 32 Cost.), qual è quello alla salute – a legittimare la conclusione secondo cui le funzioni amministrative del commissario, ovviamente fino all’esaurimento dei suoi compiti di attuazione del piano di rientro, devono essere poste al riparo da ogni interferenza degli organi regionali, senza che possa essere evocato il rischio di fare di esso l’unico soggetto cui spetti di provvedere per il superamento della situazione di emergenza sanitaria in ambito regionale.

Da ciò consegue che devono essere dichiarate costituzionalmente illegittime le disposizioni contenute nell’art. 31, commi 2, 3 e 8, lettera c), e negli artt. 32 e 33 della legge regionale impugnata, nella parte in cui non escludono dall’ambito della loro operatività le funzioni e le attività del commissario ad acta nominato dal Governo per l’attuazione del piano di rientro dal disavanzo regionale in materia sanitaria.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 31, commi 2, 3 e 8, lettera c); 32 e 33 della legge della Regione Molise 22 febbraio 2010, n. 8 (Disciplina sull’assetto programmatorio, contabile, gestionale e di controllo dell’Azienda sanitaria regionale del Molise – Abrogazione della legge regionale 14 maggio 1997, n. 12), nella parte in cui non escludono dall’ambito della loro operatività le funzioni e le attività del commissario ad acta nominato dal Governo per l’attuazione del piano di rientro dal disavanzo regionale in materia sanitaria.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Alfonso QUARANTA , Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 marzo 2011.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI


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SENTENZA N. 79

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 6, 7 e 8, del decreto-legge 25 marzo 2010, n. 40 (Disposizioni urgenti tributarie e finanziarie in materia di contrasto alle frodi fiscali internazionali e nazionali operate, tra l’altro, nella forma dei cosiddetti «caroselli» e «cartiere», di potenziamento e razionalizzazione della riscossione tributaria anche in adeguamento alla normativa comunitaria, di destinazione dei gettiti recuperati al finanziamento di un Fondo per incentivi e sostegno della domanda in particolari settori), promosso dalla Regione Emilia-Romagna con ricorso notificato il 25 maggio 2010, depositato in cancelleria il 1° giugno 2010 ed iscritto al n. 81 del registro ricorsi 2010.

Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 22 febbraio 2011 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;

uditi gli avvocati Franco Mastragostino e Andrea Manzi per la Regione Emilia-Romagna e l’avvocato dello Stato Pierluigi Di Palma per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso notificato il 25 maggio 2010 e depositato il successivo 1° giugno, la Regione Emilia-Romagna ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 6, 7 e 8, del decreto-legge 25 marzo 2010, n. 40 (Disposizioni urgenti tributarie e finanziarie in materia di contrasto alle frodi fiscali internazionali e nazionali operate, tra l’altro, nella forma dei cosiddetti «caroselli» e «cartiere», di potenziamento e razionalizzazione della riscossione tributaria anche in adeguamento alla normativa comunitaria, di destinazione dei gettiti recuperati al finanziamento di un Fondo per incentivi e sostegno della domanda in particolari settori), nel testo anteriore alla conversione in legge, operata, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 maggio 2010, n. 73. La questione è stata promossa per violazione degli artt. 70, 77, 97, 117, terzo e quarto comma, e 118 della Costituzione.

Le tre disposizioni censurate prevedono: a) la revoca del finanziamento statale, già concesso e deliberato dal CIPE, per la realizzazione del «Sistema di trasporto rapido di massa a guida vincolata» (metropolitana) del Comune di Parma (comma 7); b) il riutilizzo, per diverse finalità, delle risorse a tal fine stanziate, al netto degli importi necessari a far fronte agli obblighi giuridici sorti a seguito della individuazione del soggetto attuatore (società Metro Parma s.p.a., costituita dal Comune di Parma) e del contraente generale, come determinati in sede di transazione fra questi ultimi (comma 7); c) la devoluzione, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro competente, della quota di finanziamento statale residua ad altri investimenti pubblici, su richiesta dell’ente pubblico di riferimento del beneficiario originario (comma 8); d) la destinazione dell’ulteriore parte residua del finanziamento al «Fondo per le infrastrutture portuali», destinato alla realizzazione di opere infrastrutturali nei porti di rilevanza nazionale (comma 6).

La ricorrente lamenta che il Governo abbia disposto unilateralmente la revoca di un finanziamento statale (deliberato dal CIPE nel 2005), volto alla realizzazione di una infrastruttura strategica, concordata fra lo Stato e la Regione Emilia-Romagna, nell’ambito della procedura prevista dalla legge 21 dicembre 2001, n. 443 (Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive). La revoca del finanziamento sarebbe, invero, il frutto di una serie di decisioni assunte unicamente dal Comune di Parma e dal Governo, al di fuori degli accordi quadro stipulati sin dal 2003 fra lo Stato e la Regione Emilia-Romagna.

1.1. – Prima di esaminare il merito delle questioni, la difesa regionale riassume le vicende che hanno preceduto l’adozione delle norme impugnate. In data 19 dicembre 2003 è stata stipulata – ai sensi dell’art. 13, comma 3, della legge 1 agosto 2002, n. 166 (Disposizioni in materia di infrastrutture e trasporti), modificativo dell’art. 1, comma 1, della legge n. 443 del 2001 – l’Intesa Generale Quadro fra il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti ed il Presidente della Regione Emilia-Romagna, avente ad oggetto le infrastrutture approvate dal CIPE con la deliberazione 21 dicembre 2001, n. 121 (Legge obiettivo: 1° Programma delle infrastrutture strategiche), da realizzare nel territorio regionale.

Con l’Intesa in questione sono state integrate le previsioni contenute nella precedente delibera CIPE e, fra le «infrastrutture aggiuntive “di interesse regionale per le quali concorre l’interesse nazionale”», è stato inserito il trasporto rapido di Parma.

La ricorrente sottolinea come l’Intesa Generale Quadro sia stata formulata e sottoscritta anche alla luce di quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 303 del 2003. La Regione Emilia-Romagna richiama altresì il contenuto del primo e del secondo Atto aggiuntivo all’Intesa, rispettivamente, del 17 dicembre 2007 e del 1° agosto 2008, con i quali sono stati confermati la rilevanza strategica delle infrastrutture già previste nell’Intesa medesima e il quadro delle opere prioritarie per l’Emilia-Romagna, fra cui il trasporto rapido (metropolitana) di Parma.

La Regione Emilia-Romagna, in base a quanto stabilito dall’art. 161 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), ha quindi partecipato a tutte le fasi inerenti alle attività di progettazione dell’opera da realizzare. Al contempo, con le delibere CIPE 27 maggio 2005, n. 64 (1° Programma delle opere strategiche – legge n. 443/2001 – Sistema di trasporto rapido di massa a guida vincolata per la città di Parma) e 2 dicembre 2005, n. 158 (Primo programma delle opere strategiche – legge n. 443/2001 – Sistema di trasporto rapido di massa a guida vincolata per la città di Parma – Modifica soggetto aggiudicatore), è stato assegnato un finanziamento, in termini di volume di investimento, di 172.112.022 euro ed è stato modificato il soggetto aggiudicatore (individuato nella Metro Parma s.p.a.). Successivamente, con delibera CIPE 29 marzo 2006, n. 92 (1° Programma delle infrastrutture strategiche – legge n. 433/2001 – Sistema di trasporto rapido di massa a guida vincolata per la città di Parma) è stato approvato un “primo” progetto definitivo.

A questo punto, secondo la difesa regionale, sarebbero emerse «le prime dissonanze nel comportamento dei soggetti che a livello centrale sono coinvolti nel procedimento di approvazione di tale opera». La Regione Emilia-Romagna asserisce di non aver potuto esprimere il proprio parere sul “nuovo” progetto definitivo, redatto dalla Metro Parma s.p.a., e di aver appreso, solo in sede di valutazione del progetto definitivo, della maggiorazione del costo complessivo dell’opera.

La difesa regionale colloca in questa fase della progettazione lo svolgimento di trattative fra Governo e Comune di Parma, volte a concordare una rinuncia alla realizzazione dell’opera. In particolare, la ricorrente richiama una nota informativa predisposta dal Ministero delle infrastrutture e dei trasporti per la seduta del CIPE del 17 dicembre 2009, nella quale si precisa che, nella riunione del 31 luglio 2009 del medesimo organo, si è fatto «esplicito riferimento» all’art. 9-bis del decreto-legge 1 luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 3 agosto 2009, n. 102.

Il citato art. 9-bis prevede che i mutui concessi dalla Cassa depositi e prestiti s.p.a., interamente o parzialmente non erogati, possono essere oggetto di rinuncia, anche parziale, a seguito di deliberazione del soggetto beneficiario o dell’ente pubblico di riferimento.

La Regione Emilia-Romagna sottolinea, altresì, che solo dopo essere venuta in possesso del documento sopra citato, predisposto per la seduta del CIPE del 31 luglio 2009, ha appreso della decisione del Comune di Parma di rinunciare al finanziamento statale per la realizzazione dell’opera in questione. In tal modo, l’ente comunale avrebbe stravolto un impegno già programmato, approvato e finanziato, rientrante fra gli obiettivi comuni del Programma delle infrastrutture e dei progetti strategici, di preminente interesse nazionale e concorrente interesse regionale. In particolare, la difesa regionale stigmatizza il comportamento del Comune di Parma, il quale non avrebbe potuto esercitare alcuna azione, indipendentemente da una congiunta, reciproca e condivisa valutazione da parte della Regione Emilia-Romagna. Peraltro, secondo quest’ultima, la decisione di rinunciare al finanziamento sarebbe stata assunta sulla base di una erronea applicazione dell’art. 9-bis del d.l. n. 78 del 2009.

Le norme oggetto dell’odierno giudizio costituirebbero, pertanto, «la conclusione di una procedura del tutto inusitata, che presenta numerosi profili di illegittimità costituzionale».

1.2. – Nel merito, secondo la ricorrente, le norme impugnate violerebbero, innanzitutto, gli artt. 70 e 77 Cost.

Al riguardo, la difesa regionale premette di essere consapevole della giurisprudenza della Corte costituzionale secondo cui sono inammissibili le questioni sollevate per contrasto con norme costituzionali non attinenti alle attribuzioni delle Regioni, qualora le asserite infrazioni non riverberino, a loro volta, sulle competenze di queste ultime.

Ciò nondimeno, nel presente caso sarebbero evidenti «le strette connessioni e l’interdipendenza causale» fra la violazione dei parametri costituzionali evocati e la lesione delle attribuzioni regionali.

La Regione Emilia-Romagna sottolinea come l’abuso dello strumento della decretazione d’urgenza assuma rilievo rispetto agli interessi della Regione, in quanto è «solo attraverso il dibattito pubblico, che costituisce la principale e insostituibile caratteristica che conferisce valore alla procedura nelle Assemblee parlamentari, che gli interessi pubblici possono essere rappresentati e tenuti nel debito conto nell’assunzione delle decisioni collettive». Pertanto, la scelta del procedimento di approvazione (parlamentare o mediante decretazione d’urgenza) di una norma lesiva delle attribuzioni regionali non sarebbe affatto indifferente per la ricorrente.

Da quanto appena detto discenderebbe l’interesse della Regione a contestare l’introduzione, in un decreto-legge, di una disposizione che la riguarda direttamente e che è palesemente sprovvista dei requisiti di necessità ed urgenza. Infatti, le tre norme impugnate costituirebbero «un corpo estraneo in un decreto-legge la cui necessità ed urgenza è motivata dalla contingenza della crisi economica, […] rispetto alla quale né la risoluzione di una convenzione per la realizzazione di un’opera pubblica, né il reinvestimento delle somme che ne residuano, assume alcuna rilevanza». Lo stesso fondo, previsto nel comma 6, non servirebbe a sostenere gli altri interventi previsti nel decreto-legge per i settori in crisi. Inoltre, le norme impugnate non avrebbero effetti immediati, in quanto, come evidenziato dalla stessa relazione governativa al decreto-legge, l’ammontare degli importi reinvestibili potrà essere conosciuto solo a conclusione dell’intero procedimento amministrativo, della transazione con l’affidatario e delle decisioni autonomamente assunte dalla Amministrazione comunale.

In definitiva, secondo la difesa regionale, le norme impugnate non avrebbero nulla in comune con il titolo del decreto, né con il suo oggetto, né con le motivazioni addotte per giustificarne la straordinarietà, la necessità e l’urgenza.

Nel caso di specie, poi, la ricorrente ritiene che il generale interesse dell’ente regionale al rispetto delle attribuzioni parlamentari e alla delimitazione rigorosa della decretazione di urgenza assuma una colorazione del tutto peculiare. A suo dire, infatti, il Governo avrebbe fatto ricorso all’espediente di inserire le disposizioni contestate nel corpo di un decreto-legge, per rivestire della forza di legge una decisione che non avrebbe alcuna natura normativa ma costituirebbe un semplice provvedimento amministrativo. Ciò sarebbe avvenuto al solo scopo di aggirare le procedure di leale collaborazione, altrimenti vincolanti. La difesa regionale richiama, in proposito, la giurisprudenza costituzionale consolidata secondo cui per il legislatore ordinario non sussistono obblighi di leale collaborazione, salvo che non sia possibile farli risalire ad un vincolo costituzionale.

La ricorrente evidenzia altresì che se la revoca del finanziamento per la metropolitana di Parma fosse stata disposta con una delibera CIPE, quest’ultima sarebbe stata dichiarata illegittima in sede di conflitto di attribuzione per violazione del principio di leale collaborazione (è citata la sentenza n. 233 del 2004 della Corte costituzionale). Nella specie si sarebbe realizzato, pertanto, «un caso plateale di “truffa delle forme giuridiche” ossia dell’uso di forme legislative […] per aggirare i vincoli procedimentali che […] discendono proprio dalla giurisprudenza di questa Corte, facendo così venir meno le garanzie costituzionali che la Corte riconosce alle Regioni in sede di chiamata in sussidiarietà».

1.3. – La Regione Emilia-Romagna impugna le norme in oggetto anche per violazione dell’art. 117, terzo e quarto comma, Cost. e dell’art. 118 Cost.

Preliminarmente, la difesa regionale asserisce che la materia di pertinenza delle norme impugnate è quella dei “trasporti locali”, «di sicura competenza residuale delle Regioni», con la conseguenza che sarebbe illegittimo l’intervento della legge statale, come pure la previsione di fondi autonomi o di finanziamenti vincolati.

La ricorrente evidenzia come la Corte costituzionale, nella sentenza n. 303 del 2003, abbia riconosciuto allo Stato la possibilità di impiegare, per la realizzazione delle grandi opere infrastrutturali – rispetto alle quali è configurabile una competenza legislativa concorrente (trattandosi di grandi reti di trasporto) – lo strumento della cosiddetta “chiamata in sussidiarietà” delle funzioni amministrative. La validità di siffatto meccanismo è però subordinata al rispetto delle regole di leale collaborazione, che vincolano l’azione del Governo sia nella fase di programmazione generale delle opere e della loro distribuzione sul territorio nazionale, attraverso una procedura di intesa “forte” in Conferenza Stato-Regioni, sia nella fase di applicazione del programma generale nelle singole Regioni, attraverso un’intesa con ciascuna di esse.

Secondo la ricorrente, dallo stesso principio dell’intesa deriverebbe l’impossibilità per lo Stato di sovvertire con una decisione autonoma quanto concordato con la Regione. In questo senso, la sentenza n. 233 del 2004 della Corte costituzionale, relativa all’analogo caso della metropolitana di Bologna, costituirebbe un precedente specifico.

La difesa regionale ritiene che il Governo abbia deciso di sovvertire, con un atto avente forza di legge, quanto stabilito sul piano amministrativo, proprio per sottrarsi all’obbligo dell’intesa.

In proposito, non rileverebbe il fatto che lo Stato abbia agito su richiesta dell’amministrazione comunale di Parma, in quanto l’accordo tra Stato e Comune non può comunque derogare alle attribuzioni costituzionali delle Regioni.

1.4. – La violazione delle regole procedurali, appena descritta, determinerebbe, ad avviso della Regione Emilia-Romagna, un ulteriore profilo di illegittimità costituzionale, derivante dal contrasto con l’art. 97 Cost., sotto il profilo della buona amministrazione e della razionalità della spesa pubblica.

La revoca del finanziamento e quindi la rinuncia alla realizzazione dell’opera comporterà, infatti, un rilevante esborso a carico del bilancio statale per rifondere le spese di progettazione dell’opera. Peraltro, quanto disposto dalle norme impugnate non potrebbe essere giustificato in termini di contenimento della spesa pubblica o di riconversione delle risorse liberatesi, poiché i finanziamenti revocati sono stornati verso altre opere non ricadenti nella Regione.

A questo proposito, la ricorrente asserisce che l’assenza di un vincolo di destinazione dei fondi residui, a favore di opere da realizzarsi in Emilia-Romagna, determini la violazione di uno dei principi impliciti nella già richiamata sentenza n. 303 del 2003, laddove essa fa carico al Governo di concordare con tutte le Regioni in sede di Conferenza, il Piano degli investimenti. In particolare, la difesa regionale rileva come il consenso espresso in sede di Conferenza dalle singole Regioni sia collegato, anche se non solo, ai benefici derivanti dagli investimenti pubblici nel proprio territorio.

1.5. – Da ultimo, la ricorrente prospetta la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. da parte dell’impugnato comma 6.

L’istituzione del «Fondo per le infrastrutture portuali» in una materia di potestà concorrente («porti e aeroporti civili») determinerebbe, infatti, la lesione delle regole della leale collaborazione, il cui rispetto è richiesto per giustificare un intervento in sussidiarietà. In particolare, la difesa regionale si duole del fatto che non sia previsto alcun coinvolgimento delle Regioni, in qualsiasi fase del procedimento, né la destinazione ad infrastrutture portuali della Regione Emilia-Romagna delle somme residue a seguito della revoca del finanziamento per la metropolitana di Parma.

2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito in giudizio chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o manifestamente infondate.

2.1. – In via preliminare, la difesa statale deduce l’inammissibilità delle questioni prospettate in rapporto agli artt. 70 e 77 Cost.; in particolare, la censura rispetto all’art. 70 sarebbe immotivata e generica, mentre il contrasto con il secondo dei parametri indicati non ridonderebbe in una lesione delle attribuzioni regionali.

L’Avvocatura generale rileva altresì come non sia dimostrato l’assunto da cui muove la Regione, cioè che il ricorso allo strumento del decreto-legge costituisca un espediente per aggirare le procedure di leale collaborazione.

Nel merito, non vi sarebbe l’evidente carenza dei presupposti di necessità e di urgenza che possono determinare, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale, l’illegittimità delle norme impugnate. In proposito, la difesa statale sottolinea come l’esigenza di rilanciare l’economia, evitando la stagnazione della domanda interna attraverso la spesa pubblica, configuri un valido presupposto per un intervento di urgenza, sebbene il completamento degli investimenti richieda tempi non brevi. Pertanto, le norme impugnate avrebbero lo scopo di accelerare la realizzazione degli investimenti pubblici, collocandosi armonicamente in un decreto-legge contenente disposizioni a sostegno della domanda.

Quanto all’asserita natura di legge provvedimento delle disposizioni impugnate, la difesa statale richiama la giurisprudenza costituzionale secondo cui è ammessa l’approvazione di una legge a contenuto particolare e concreto, sia pure entro i limiti del rispetto della funzione giurisdizionale in ordine alla decisione delle cause in corso, e del principio di ragionevolezza e non arbitrarietà.

Peraltro, nel caso di specie i suddetti limiti non sembrerebbero violati, anche alla luce del fatto che già in altri casi sono state approvate leggi a contenuto singolare in materia di finanziamento di infrastrutture strategiche (sono richiamati l’art. 1, comma 981, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007», e l’art. 2, comma 255, della legge 24 dicembre 2007, n. 244, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008»).

2.2. – In merito al secondo motivo di censura, il Presidente del Consiglio ritiene che non possa essere condiviso l’inquadramento delle norme impugnate nella materia del trasporto pubblico locale. Piuttosto, le norme in esame rappresenterebbero un caso di chiamata in sussidiarietà, trattandosi della revoca di un finanziamento in materia di infrastrutture strategiche di interesse nazionale, per le quali la citata sentenza n. 303 del 2003 ha ammesso la conformità a Costituzione dell’attrazione in sussidiarietà da parte statale.

Al riguardo, dopo aver riassunto la normativa in materia di infrastrutture strategiche, l’Avvocatura generale sottolinea come l’intesa con la Regione riguardi solo gli aspetti di localizzazione delle opere, non quelli finanziari. Di conseguenza, nel caso di finanziamenti statali individuati e stanziati in vista della realizzazione di un programma che lo Stato assume in base ai principi di sussidiarietà e di adeguatezza, non sarebbe apprezzabile alcuna lesione dell’autonomia finanziaria delle Regioni (è richiamata la sentenza n. 303 del 2003 della Corte costituzionale).

Del resto, prosegue la difesa statale, la garanzia procedimentale dell’intesa è assicurata nella sola fase amministrativa, non in quella legislativa. Infatti, il principio di leale collaborazione non è invocabile, quale requisito di legittimità costituzionale, a proposito dell’esercizio della funzione legislativa, poiché non è riscontrabile un fondamento costituzionale dell’obbligo di adottare procedure collaborative atte a condizionare la funzione suddetta.

2.3. – In relazione alla presunta violazione dell’art. 97 Cost., la difesa statale ritiene la questione inammissibile per difetto di interesse, in quanto non è prospettata una lesione delle competenze legislative regionali ma l’inefficienza e lo sperpero di risorse pubbliche.

Inoltre, la censura risulterebbe contraddittoria, in quanto non sarebbe chiaro se la ricorrente solleciti una sentenza additiva, che imponga di destinare tutte le risorse residue alla Regione Emilia-Romagna, o la mera illegittimità della norma.

2.4. – Quanto all’impugnativa dei commi 6 e 8, l’Avvocatura generale asserisce che la ricorrente non potrebbe trarre nessuna utilità, diretta ed immediata, da un’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale; ciò in ragione del fatto che il destinatario del finanziamento revocato non è la Regione stessa ma la Metro Parma s.p.a.

Al contrario, l’indennizzo a favore del contraente generale e lo spostamento delle risorse risulterebbero coerenti con il principio di buona amministrazione e con un razionale utilizzo delle risorse disponibili. Al riguardo, secondo la difesa statale, la Regione avrebbe dovuto provare il cattivo uso delle risorse, dimostrando che l’utilizzo delle stesse, previsto dalle norme impugnate, sia meno efficiente del finanziamento revocato.

Infine, la pretesa della Regione di interloquire in merito alla destinazione delle risorse resesi disponibili potrebbe ritenersi soddisfatta dalla previsione secondo cui siffatte risorse possono essere devolute, su richiesta dell’ente pubblico di riferimento del beneficiario originario, ad altri investimenti (comma 8).

2.5. – Infine, in relazione all’ultima censura, il Presidente del Consiglio rileva come la Corte costituzionale abbia più volte ribadito che il titolo di competenza statale, che permette l’istituzione di un fondo con vincolo di destinazione, non debba necessariamente identificarsi in una delle materie espressamente elencate nel secondo comma dell’art. 117 Cost., ma possa consistere anche nella pertinenza del fondo medesimo a materie oggetto di “chiamata in sussidiarietà” da parte dello Stato.

Nel caso di specie, trattandosi di porti di rilevanza nazionale, la disciplina impugnata sarebbe riconducibile ad una materia di competenza esclusiva statale per chiamata in sussidiarietà, di talché il vincolo di destinazione apposto al finanziamento non sarebbe in contrasto con la Costituzione.

Peraltro, aggiunge la difesa statale, in caso di accoglimento dell’impugnazione, la Corte dovrebbe inserire nella disposizione in oggetto l’obbligo di sentire le Regioni nel corso del procedimento di riparto delle risorse.

3. – In prossimità dell’udienza, la Regione Emilia-Romagna e il Presidente del Consiglio dei ministri hanno depositato memorie nelle quali insistono nelle conclusioni già rassegnate, rispettivamente, nel ricorso e nell’atto di costituzione.

Considerato in diritto

1. – La Regione Emilia-Romagna ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 6, 7 e 8, del decreto-legge 25 marzo 2010, n. 40 (Disposizioni urgenti tributarie e finanziarie in materia di contrasto alle frodi fiscali internazionali e nazionali operate, tra l’altro, nella forma dei cosiddetti «caroselli» e «cartiere», di potenziamento e razionalizzazione della riscossione tributaria anche in adeguamento alla normativa comunitaria, di destinazione dei gettiti recuperati al finanziamento di un Fondo per incentivi e sostegno della domanda in particolari settori), nel testo anteriore alla conversione in legge, operata, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 22 maggio 2010, n. 73. La questione è stata promossa per violazione degli artt. 70, 77, 97, 117, terzo e quarto comma, e 118 della Costituzione.

La Regione Emilia-Romagna ha impugnato le suddette norme nella parte in cui dispongono la revoca del finanziamento statale previsto per l’opera «Sistema di trasporto rapido di massa a guida vincolata per la città di Parma» (metropolitana), prevedono la riassegnazione delle somme e rimettono ad una transazione la tacitazione di ogni pretesa del soggetto affidatario, mediante indennizzo.

2. – Preliminarmente, deve essere rilevata l’inammissibilità delle questioni prospettate in relazione agli artt. 70 e 97 Cost.

In particolare, la censura formulata riguardo all’art. 70 Cost. risulta priva di un’adeguata motivazione, mentre, con riferimento all’art. 97 Cost., la ricorrente non indica le ragioni per le quali l’asserita violazione ridonderebbe in una lesione delle attribuzioni costituzionali della Regione.

3. – La questione prospettata con riferimento all’art. 117, quarto comma, Cost. non è fondata.

La ricorrente invoca la propria competenza legislativa residuale in materia di “trasporto pubblico locale”, per chiedere la dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme impugnate. Si deve però osservare che l’inserimento, con il consenso della stessa Regione, della metropolitana di Parma nel Programma Infrastrutture Strategiche ha determinato la cosiddetta attrazione in sussidiarietà allo Stato sia delle funzioni amministrative in materia, sia di quelle legislative, con la conseguenza che non è più possibile oggi, da parte della Regione, rivendicare la potestà legislativa residuale, che si è trasferita allo Stato per il motivo anzidetto.

Altre e distinte questioni concernono la validità della revoca del finanziamento statale ed i suoi effetti, di cui si tratterà nei paragrafi seguenti.

4. – La questione relativa alla presunta violazione dell’art. 77 Cost. non è fondata.

La ricorrente si duole dell’uso improprio dello strumento del decreto-legge, che avrebbe consentito al Governo di aggirare le procedure di leale collaborazione, rese necessarie – secondo le regole fissate da questa Corte sin dalla sentenza n. 303 del 2003 – dall’avvenuto spostamento della competenza legislativa dalla Regione allo Stato. In termini più espliciti, lo Stato avrebbe fatto leva sulla giurisprudenza costituzionale, che esclude le procedure di leale collaborazione per l’esercizio della funzione legislativa, allo scopo di raggiungere l’obiettivo di porre nel nulla un’intesa con la Regione, riguardante la progettazione e la realizzazione di un’opera pubblica. La mancata acquisizione del preventivo assenso della Regione avrebbe prodotto la conseguenza di rompere la simmetria tra fase costitutiva e fase estintiva, assoggettando la Regione stessa agli effetti di un atto unilaterale dello Stato. A tale considerazione si collega l’ulteriore osservazione della ricorrente circa l’estraneità delle norme impugnate rispetto all’oggetto del decreto-legge in cui sono state inserite; ciò dimostrerebbe, secondo la giurisprudenza di questa Corte invocata dalla difesa regionale, l’evidente mancanza dei presupposti di necessità e urgenza richiesti dall’art. 77 Cost. per l’esercizio della potestà legislativa da parte del Governo, in assenza di delega.

Ove tali doglianze fossero fondate, l’eventuale uso improprio del decreto-legge produrrebbe, come effetto immediato, una lesione della sfera di attribuzioni costituzionalmente garantite della Regione. Si deve pertanto rigettare l’eccezione di inammissibilità, sollevata dalla difesa statale, relativa alla estraneità della censura, riferita all’art. 77 Cost., rispetto alle competenze regionali tutelabili in sede di giudizio in via principale.

Nel merito, occorre tuttavia notare che il titolo stesso del decreto-legge in questione contiene un riferimento, ancorché generico, alle norme impugnate, laddove si legge che l’atto stesso è volto anche alla «destinazione dei gettiti recuperati al finanziamento di un Fondo per incentivi e sostegno alla domanda in particolari settori». L’uso della parola «gettito» deve intendersi riferito a tutte le somme disponibili nel bilancio dello Stato, che vengono riutilizzate per effetto delle disposizioni contenute nel medesimo decreto-legge. Si deve inoltre rilevare che le norme impugnate non sono state inserite nel suddetto atto con forza di legge in sede di conversione parlamentare, ma erano presenti nel testo originario, nel complesso indirizzato al recupero di risorse per il sostegno della domanda interna, secondo una riconsiderazione, da parte del Governo nazionale, delle necessità e delle priorità.

Il fatto che le somme rese disponibili dalla revoca del finanziamento della metropolitana di Parma non siano ancora quantificabili, dovendosi attendere l’esito della prevista transazione con la società aggiudicataria, non incide sulla necessità e urgenza di destinare altrimenti il finanziamento già deliberato. Non è manifestamente irragionevole che sia stato ritenuto necessario e urgente bloccare il proseguimento dell’erogazione dei fondi per le successive fasi di realizzazione, nelle more del perfezionamento delle procedure di intesa o del procedimento ordinario di formazione della legge. Una ulteriore dilatazione delle spese, connessa al progressivo avanzamento dell’opera, si sarebbe posta in contrasto con la nuova valutazione politico-economica del Governo nazionale, che avrebbe perso in effettività riguardo ai diversi obiettivi da finanziare.

Per le ragioni sopra esposte non è riscontrabile, nella fattispecie, quella «evidente mancanza» dei presupposti di necessità e di urgenza, che legittima questa Corte a sindacare la scelta governativa di avvalersi di tale strumento legislativo (ex plurimis, sentenze n. 128 del 2008 e n. 171 del 2007).

5. – Secondo la Regione ricorrente, le norme impugnate violerebbero il principio di leale collaborazione, al cui rispetto è subordinata la validità di quel particolare processo di spostamento della competenza legislativa dalle Regioni allo Stato, noto ormai con l’espressione sintetica di “chiamata in sussidiarietà”.

Occorre innanzitutto ricordare che questa Corte, con giurisprudenza costante, ha affermato che le procedure collaborative tra Stato e Regioni non rilevano ai fini del sindacato di legittimità degli atti legislativi (ex plurimis, tra le più recenti, sentenze n. 278 del 2010, n. 371 del 2008 e n. 387 del 2007), salvo che l’osservanza delle stesse sia imposta, direttamente o indirettamente, dalla Costituzione (sentenze n. 33 del 2011 e n. 278 del 2010). L’esclusione della rilevanza di tali procedure, che è formulata in riferimento al procedimento legislativo ordinario, «vale a maggior ragione per una fonte come il decreto-legge, la cui adozione è subordinata, in forza del secondo comma dell’art. 77 Cost., alla mera occorrenza di “casi straordinari di necessità e d’urgenza”» (sentenza n. 298 del 2009).

Dalla prospettazione della ricorrente si ricava che, nel caso di specie, il rispetto del principio di leale collaborazione sarebbe imposto indirettamente dalla Costituzione, nella forma dell’intesa con la Regione, a causa dell’attrazione in sussidiarietà delle funzioni amministrative e della relativa competenza legislativa, operata a seguito dell’inserimento fra le infrastrutture strategiche, di interesse nazionale, della progettazione e realizzazione della metropolitana di Parma. D’altra parte, il pieno coinvolgimento della Regione interessata, richiesto dall’art. 1 della legge 21 dicembre 2001, n. 443 (Delega al Governo in materia di infrastrutture ed insediamenti produttivi strategici ed altri interventi per il rilancio delle attività produttive), non potrebbe negarsi nell’ipotesi di sopravvenuto dissenso di una delle due parti sulla realizzazione dell’opera.

Si deve rilevare, in contrario, come la necessità di osservare le procedure collaborative, che sfociano nell’intesa tra Stato e Regione, riguardi soltanto la fase di decisione e di localizzazione dell’opera, la quale astrattamente rientrerebbe nella competenza residuale delle Regioni, ma che, in seguito all’attrazione in sussidiarietà determinata dal suo inserimento tra le infrastrutture strategiche, si sposta nell’ambito della competenza statale. La deroga alla competenza regionale si accompagna, in definitiva, alla classificazione dell’opera tra quelle di valore strategico nazionale ed alla conseguente provvista, da parte dello Stato, dei mezzi finanziari per realizzarla.

Da questa premessa scaturisce la logica conclusione che non è possibile che lo Stato “costringa” una Regione alla realizzazione, sul proprio territorio, di un’opera rientrante nella sua competenza residuale, dalla Regione stessa non voluta o voluta in un sito diverso da quello proposto. Allo stesso modo però non è ammissibile che la Regione “costringa” lo Stato a mantenere una qualificazione di importanza strategica ad un’opera che, in seguito a successiva valutazione politico-economica (presa peraltro in accordo con l’ente locale direttamente interessato), ha perso tale carattere. L’intesa nella fase di progettazione e di localizzazione è indispensabile per dare validità ad uno spostamento di competenza legislativa ed amministrativa; la stessa intesa, uguale e contraria, non è invece necessaria se lo Stato decide di revocare il proprio finanziamento, senza tuttavia impedire alla Regione di esercitare la sua competenza, legislativa e amministrativa, sul medesimo oggetto.

La decisione statale di escludere l’opera dal novero di quelle ritenute strategiche sul piano nazionale – e di revocare, di conseguenza, il relativo finanziamento – non incide pertanto sulle competenze legislative e amministrative della Regione, in quanto non impedisce a quest’ultima di realizzarla con fondi propri, né si concretizza in un intervento unilaterale nella sfera regionale, come sarebbe avvenuto, ad esempio, nell’ipotesi di dirottamento delle risorse su altre opere, non concordate, da realizzarsi nel territorio regionale, o di mutamento della localizzazione della stessa opera oggetto dell’intesa. Con la revoca del finanziamento statale – a seguito di valutazione di politica economica non censurabile in sede di sindacato di legittimità costituzionale – vengono meno le ragioni che avevano giustificato l’attrazione in sussidiarietà. L’assetto dei rapporti tra Stato e Regione, per questo particolare profilo, ritorna così nell’alveo ordinario, quale tracciato dall’art. 117 Cost.

6. – La questione relativa al comma 6 dell’art. 4 del d.l. n. 40 del 2010, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., è fondata nei termini di seguito specificati.

La suddetta disposizione istituisce, presso il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, il «Fondo per le infrastrutture portuali», destinato a finanziare le opere infrastrutturali nei porti di rilevanza nazionale. Per la ripartizione di tale Fondo è previsto il parere del CIPE, ma non è prevista né l’intesa con la Conferenza Stato-Regioni, né l’intesa con le singole Regioni interessate.

In proposito occorre considerare che il suddetto Fondo si riferisce ad interventi che rientrano nella materia «porti e aeroporti civili», rimessa alla competenza legislativa concorrente dal terzo comma dell’art. 117 Cost. Tuttavia, poiché si tratta di porti a rilevanza nazionale, si deve ritenere che la competenza legislativa in materia sia attratta in sussidiarietà allo Stato.

Al riguardo, va ricordato che questa Corte ha ritenuto ammissibile la previsione di un fondo a destinazione vincolata anche in materie di competenza regionale, residuale o concorrente, precisando che «il titolo di competenza statale che permette l’istituzione di un Fondo con vincolo di destinazione non deve necessariamente identificarsi con una delle materie espressamente elencate nel secondo comma dell’art. 117 Cost., ma può consistere anche nel fatto che detto fondo incida su materie oggetto di “chiamata in sussidiarietà” da parte dello Stato, ai sensi dell’art. 118, primo comma, Cost.» (sentenza n. 16 del 2010, in conformità a sentenza n. 168 del 2008).

Dalla giurisprudenza costituzionale sopra richiamata discende, nel caso di specie, l’illegittimità della norma impugnata nella parte in cui non prevede alcuna forma di leale collaborazione tra Stato e Regione, che deve invece esistere per effetto della deroga alla competenza regionale. Fermo restando pertanto il potere dello Stato di istituire un Fondo per le infrastrutture portuali di rilevanza nazionale, si deve aggiungere che la ripartizione di tale fondo è subordinata al raggiungimento di un’intesa con la Conferenza Stato-Regioni, per i piani generali di riparto delle risorse allo scopo destinate, e con le singole Regioni interessate, per gli interventi specifici riguardanti singoli porti.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, comma 6, del decreto-legge 25 marzo 2010, n. 40 (Disposizioni urgenti tributarie e finanziarie in materia di contrasto alle frodi fiscali internazionali e nazionali operate, tra l'altro, nella forma dei cosiddetti «caroselli» e «cartiere», di potenziamento e razionalizzazione della riscossione tributaria anche in adeguamento alla normativa comunitaria, di destinazione dei gettiti recuperati al finanziamento di un Fondo per incentivi e sostegno della domanda in particolari settori), nella parte in cui non prevede che la ripartizione delle risorse del «Fondo per le infrastrutture portuali» avvenga previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni, per i programmi nazionali di riparto, e con le singole Regioni interessate, per finanziamenti specifici riguardanti singoli porti;

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 6, 7 e 8, del d.l. n. 40 del 2010, promosse, in riferimento agli artt. 70 e 97 della Costituzione, dalla Regione Emilia-Romagna, con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4, commi 6, 7 e 8, del d.l. n. 40 del 2010, promosse, in riferimento agli artt. 77, 117, terzo e quarto comma, e 118 Cost., dalla Regione Emilia-Romagna, con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 marzo 2011.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI


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SENTENZA N. 80

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e dell’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), promosso dalla Corte di cassazione nel procedimento penale a carico di D.P.E. con ordinanza del 12 novembre 2009, iscritta al n. 177 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 24, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto l’atto di costituzione di D.P.E.;

udito nell’udienza pubblica del 25 gennaio 2011 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;

udito l’avvocato Alfredo Gaito per D.P.E.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza del 12 novembre 2009, la Corte di cassazione, seconda Sezione penale, ha sollevato, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e dell’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), nella parte in cui «non consentono che, a richiesta di parte, il procedimento in materia di misure di prevenzione si svolga in udienza pubblica».

Il giudice a quo riferisce che con decreto del 9 giugno 2008 la Corte d’appello di Catania aveva confermato il decreto emesso dal Tribunale di Siracusa il 7 febbraio 2008, con il quale una persona indiziata di appartenenza a una associazione di stampo mafioso era stata sottoposta, in applicazione della legge n. 575 del 1965, alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale e dell’obbligo di soggiorno presso il Comune di residenza per la durata di un anno ed erano stati, altresì, confiscati un immobile e un’autovettura intestati alla moglie del proposto.

Il decreto del giudice d’appello era stato impugnato con ricorso per cassazione dai difensori dell’interessato. Facendo leva sui principi affermati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia, uno dei difensori aveva, tra l’altro, eccepito, ai sensi dell’art. 609, comma 2, del codice di procedura penale, la violazione del principio di pubblicità delle procedure giudiziarie, sancito dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti: «CEDU»). Il medesimo difensore aveva chiesto, quindi, che il ricorso venisse trattato in udienza pubblica in applicazione «estensiva» dell’art. 441, comma 3, cod. proc. pen., attribuendo a tale istanza «conseguenze invalidanti per le decisioni di merito», in quanto «ambedue scaturite all’esito di procedure da ritenere illegali ora per allora».

Con ordinanza del 14 maggio 2009, il Collegio rimettente, rilevato che le questioni di diritto sottoposte al suo esame avevano dato luogo o potevano dare luogo a un contrasto giurisprudenziale, aveva rimesso il ricorso alle Sezioni unite. Il Presidente aggiunto della Corte di cassazione, con provvedimento del 22 giugno 2009, aveva restituito tuttavia il procedimento, ritenendo che la Sezione avesse omesso «di soffermarsi adeguatamente sulla specialità che connota il giudizio di cassazione» e che non dovesse trascurarsi, inoltre, la circostanza che, in materia di misure di prevenzione, il ricorso per cassazione è ammesso solo per violazione di legge (art. 4, undicesimo comma, della legge n. 1423 del 1956).

Fissata quindi una nuova camera di consiglio per l’esame del ricorso davanti alla Sezione rimettente, il ricorrente aveva depositato memoria, insistendo nelle richieste formulate.

Tanto premesso, il giudice a quo osserva che, con la citata sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha rilevato che la pubblicità delle procedure giudiziarie, garantita dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU (secondo cui «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge»), tutela le persone soggette a una giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge al controllo del pubblico, e costituisce uno dei mezzi idonei per preservare la fiducia nei giudici, concorrendo all’attuazione dell’equo processo. La citata norma della Convenzione – ha soggiunto la Corte europea – non esclude che le autorità giudiziarie possano derogare al principio di pubblicità, tenuto conto delle particolarità della causa sottoposta al loro esame. La situazione è, tuttavia, diversa allorché – come avviene, nell’ordinamento italiano, per il procedimento di applicazione delle misure di prevenzione – una procedura si svolge a porte chiuse in virtù di una norma generale e assoluta, senza che la persona soggetta a giurisdizione abbia la possibilità di sollecitare una pubblica udienza: non potendo una simile procedura ritenersi conforme all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione.

In replica ai rilievi del Governo italiano – che aveva allegato, a giustificazione della mancanza di pubblicità, il carattere altamente tecnico della procedura di applicazione delle misure patrimoniali – la Corte di Strasburgo ha rilevato che non si può comunque «perdere di vista la posta in gioco» nelle procedure di cui si discute e gli effetti che esse possono produrre sulle persone coinvolte: prospettiva nella quale non è possibile affermare che il controllo del pubblico non rappresenti una condizione necessaria alla garanzia dei diritti dell’interessato. Di conseguenza, ha giudicato «essenziale» che le persone sottoposte a giurisdizione nell’ambito di dette procedure «si vedano almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello».

Tale conclusione è stata successivamente ribadita dalla Corte di Strasburgo con la sentenza 8 luglio 2008, Perre e altri contro Italia, così da potersi parlare di un indirizzo interpretativo consolidato.

Il Collegio rimettente ricorda, in pari tempo, come la Corte costituzionale, con le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, abbia chiarito che le norme della CEDU, nella interpretazione offertane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, integrino, quali «norme interposte», il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone al legislatore il rispetto degli obblighi assunti dall’Italia a livello internazionale. Con la conseguenza che spetta al giudice comune interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti in cui ciò sia consentito dal dato testuale; mentre, qualora tale operazione non sia possibile – esclusa una diretta disapplicazione della norma interna da parte del giudice – quest’ultimo deve investire la Corte costituzionale della relativa questione di legittimità costituzionale, in riferimento al parametro dianzi indicato.

Nel caso in esame non sarebbe, in effetti, possibile interpretare la norma interna in senso conforme alla disposizione convenzionale, ostandovi l’evidenza del dato testuale. L’art. 4 della legge n. 1423 del 1956, ai commi sesto, decimo e undicesimo, prevede, infatti, in modo specifico e inequivoco – con disposizioni valevoli, oltre che per le misure personali, anche per quelle a carattere patrimoniale previste dalla speciale normativa antimafia, di cui all’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965 – che il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolge, in tutti i suoi gradi, in camera di consiglio. Né potrebbe applicarsi in via analogica alla procedura in esame l’art. 441, comma 3, cod. proc. pen., il quale stabilisce che il giudizio abbreviato si svolge in camera di consiglio, ma che se tutti gli imputati ne fanno richiesta esso ha luogo in udienza pubblica. Una simile operazione ermeneutica risulterebbe impedita, per un verso, dal fatto che il ricorso all’analogia è consentito solo per regolare ipotesi non previste dalla legge; per altro verso, dalla natura eccezionale della norma da ultimo citata.

Neppure, poi, potrebbe condividersi la tesi, accolta in altre occasioni dalla stessa giurisprudenza di legittimità, stando alla quale i principi affermati dalla Corte europea nella sentenza del 13 novembre 2007 non sarebbero di ostacolo alla trattazione dei ricorsi per cassazione in materia di misure di prevenzione con la procedura camerale – e, in particolare, con la cosiddetta procedura «non partecipata», di cui all’art. 611 cod. proc. pen. (caratterizzata da un contraddittorio esclusivamente scritto) – posto che la predetta sentenza non reca alcun riferimento al giudizio che si svolge dinanzi alla Corte di cassazione.

Se è vero, infatti, che la Corte di Strasburgo ha in più occasioni affermato che il diritto a un’udienza pubblica dipende dalla natura delle questioni da trattare e che esso può venire, in particolare, escluso quando debbano trattarsi unicamente questioni di diritto; la medesima Corte ha, però, anche precisato che l’assenza dell’udienza pubblica, nei gradi successivi al primo, può trovare giustificazione solo se in primo grado la pubblicità sia stata garantita.

Il ricordato indirizzo della giurisprudenza di legittimità potrebbe essere, d’altro canto, condiviso solo se la procedura camerale fosse l’unico tipo di procedimento previsto davanti alla Corte di cassazione: laddove, al contrario, il giudizio può svolgersi tanto in pubblica udienza che in camera di consiglio e, in questo secondo caso, tanto nella forma «non partecipata» che in quella prevista dall’art. 127 cod. proc. pen. La regola generale, al riguardo, è che «la corte procede in camera di consiglio quando deve decidere su ogni ricorso contro provvedimenti non emessi nel dibattimento» (art. 611 cod. proc. pen.): il che non esclude, tuttavia, che la pubblica udienza sia talora prevista anche quando la sentenza impugnata è stata pronunciata in camera di consiglio (come avviene, in specie, per le sentenze emesse a norma dell’art. 442 cod. proc. pen.).

Irrilevante sarebbe, inoltre, la circostanza che, nei procedimenti di prevenzione, il ricorso per cassazione possa proporsi solo per violazione di legge (vizio peraltro configurabile anche nel caso di mancanza della motivazione del provvedimento impugnato o di carenze della stessa tali da renderla meramente apparente), poiché, quali che siano i motivi deducibili, il giudizio di cassazione resta comunque un giudizio di legittimità.

Non resterebbe, pertanto, che prendere atto dell’incompatibilità delle norme censurate con l’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui non contemplano la «garanzia minima» pretesa dalla Corte di Strasburgo ai fini considerati: ossia la possibilità che, a richiesta di parte, il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolga in udienza pubblica.

La questione sarebbe, altresì, rilevante nel giudizio a quo sotto due profili.

In primo luogo, perché, come già ricordato, il rito davanti alla Corte di cassazione segue quello adottato nei giudizi di merito: regola, questa, che dovrebbe essere nella specie applicata tenendo conto anche di un’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme impugnate, nella parte in cui impongono lo svolgimento in camera di consiglio del procedimento di cui si discute. Inoltre, una volta che si colleghi la scelta del rito a una opzione del soggetto interessato, questa non dovrebbe essere necessariamente effettuata «in limine, potendosi esprimere anche in successivi gradi di giudizio».

Sotto diverso profilo, poi, l’esito del giudizio di costituzionalità condizionerebbe la decisione sulla «deduzione difensiva di conseguenze invalidanti delle pronunce di merito “scaturite all’esito di procedure da ritenere illegali ora per allora”». L’eventuale dichiarazione di illegittimità costituzionale delle norme impugnate, infatti, «non potrebbe non spiegare i suoi effetti su un processo ancora in corso che, per essere sostanzialmente giusto, deve avere la capacità di emendarsi, per adeguarsi a regole costituzionalmente corrette».

2. – Si è costituito D. P. E., ricorrente nel giudizio a quo.

La parte privata svolge, in via preliminare, deduzioni adesive alle tesi del giudice a quo, traendone la conclusione che – alla luce della ricostruzione operata dalla giurisprudenza costituzionale a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 – le disposizioni censurate violerebbero, in effetti, l’art. 117, primo comma, Cost., stante la configurabilità delle disposizioni della CEDU come «norme interposte» rispetto a tale parametro.

La difesa della parte privata pone, nondimeno, l’accento su due rilevanti elementi di novità, intervenuti successivamente all’ordinanza di rimessione.

Il primo è costituito dall’entrata in vigore – avvenuta il 1° dicembre 2009 – del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008, n. 130: Trattato che, imprimendo una diversa configurazione al rapporto tra le norme della CEDU e l’ordinamento interno, avrebbe reso non più attuale la concezione delle «norme interposte».

Il vigente art. 6 del Trattato sull’Unione europea – quale risultante a seguito delle modifiche apportate dal Trattato di Lisbona – stabilisce, infatti, al paragrafo 1, che «l’Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati»; precisando, poi, che «i diritti, le libertà e i principi della Carta sono interpretati in conformità delle disposizioni generali del titolo VII della Carta che disciplinano la sua interpretazione e applicazione e tenendo in debito conto le spiegazioni cui si fa riferimento nella Carta, che indicano le fonti di tali disposizioni». Inoltre, ai successivi paragrafi 2 e 3, lo stesso art. 6 prevede che «l’Unione europea aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali»; e che «i diritti fondamentali», garantiti da detta Convenzione «e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali».

Secondo la parte privata, alla luce di tali previsioni, indipendentemente dalla formale adesione alla CEDU da parte dell’Unione europea – non ancora avvenuta, ma comunque preannunciata – i diritti elencati dalla Convenzione sarebbero stati ricondotti all’interno delle fonti dell’Unione addirittura sotto un duplice profilo. Da un lato, cioè, in via diretta e immediata, tramite il loro riconoscimento come «principi generali del diritto dell’Unione»; dall’altro lato, in via mediata, ma non meno rilevante, come conseguenza della «trattatizzazione» della Carta di Nizza.

L’art. 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – contenuto nel titolo VII, cui lo stesso art. 6 del Trattato fa espresso rinvio – prevede, infatti, che ove la Carta «contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione»: fermo restando che tale disposizione «non preclude che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa».

Di conseguenza, tutti i diritti previsti dalla CEDU che trovino un «corrispondente» all’interno della Carta di Nizza dovrebbero ritenersi «tutelati (anche) a livello comunitario (rectius, europeo, stante l’abolizione della divisione in “pilastri”), quali diritti sanciti […] dal Trattato dell’Unione». Ciò avverrebbe anche per il diritto alla pubblicità delle procedure giudiziarie, che trova riconoscimento nell’art. 47 della Carta in termini identici, anche sul piano testuale, a quelli dell’art. 6 della Convenzione («ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata […] pubblicamente»).

A fronte di ciò, il giudice comune sarebbe tenuto quindi a disapplicare qualsiasi norma nazionale in contrasto con i diritti fondamentali sanciti dalla CEDU, in base al principio, fondato sull’art. 11 Cost., secondo cui «le norme di diritto comunitario sono direttamente operanti nell’ordinamento interno».

L’altro elemento di novità è costituito dalla sentenza di questa Corte n. 93 del 2010, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale, in riferimento al parametro evocato dall’odierno rimettente, dell’art. 4 della legge n. 1423 del 1956 e dell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, «nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica».

La parte privata rimarca, peraltro, come l’odierna questione di costituzionalità sia più ampia di quella decisa con la citata pronuncia, attenendo al rispetto del diritto alla pubblicità delle udienze non soltanto nei gradi di merito, ma anche nel giudizio davanti alla Corte di cassazione.

Circoscrivere la declaratoria di illegittimità costituzionale ai soli gradi di merito equivarrebbe, in effetti, a creare «pericolosi vuoti di tutela» in tutti quei casi in cui non siano previsti «meccanismi correttivi che consentano di recuperare, ora per allora, la pubblicità, dapprima negata o semplicemente non richiesta, sollevando la questione per la prima volta solo dinanzi alla Corte di cassazione». In ogni caso, una volta che si affidi la scelta del rito alla parte, non si vedrebbe perché la pubblicità dell’udienza possa essere richiesta solo nei gradi di merito e non, anche per la prima volta, davanti alla Corte di cassazione.

La parte privata chiede, pertanto, che la Corte dichiari l’illegittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 1423 del 1956 e, conseguentemente, dell’art. 611 cod. proc. pen., nella parte in cui prevedono che il giudizio di legittimità che abbia ad oggetto misure di prevenzione debba svolgersi in camera di consiglio «non partecipata», sia quando l’interessato abbia fatto espressa istanza di trattazione in udienza pubblica dinanzi ai giudici di merito, sia quando analoga richiesta sia stata presentata per la prima volta dinanzi al giudice di legittimità.

La parte privata chiede, altresì, che la Corte dichiari, in via conseguenziale, l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, sesto e decimo comma, della legge n. 1423 del 1956 e dell’art. 2-ter, secondo comma, della legge n. 575 del 1965, nella parte in cui prevedono che il provvedimento conclusivo dei giudizi di primo grado e di appello venga adottato nella forma del decreto motivato, e non della sentenza, anche qualora su istanza dell’interessato il procedimento si sia svolto in pubblica udienza; nonché l’illegittimità costituzionale dell’art. 4, decimo e undicesimo comma, della legge n. 1423 del 1956 e dell’art. 3-ter della legge n. 575 del 1965, nella parte in cui stabiliscono che, anche quando il procedimento di merito si è svolto in pubblica udienza, il termine per proporre appello e ricorso per cassazione è di soli dieci giorni. L’opzione dell’interessato per un accertamento in udienza pubblica «con i crismi propri del giudizio di cognizione» non potrebbe, infatti, non incidere anche sulla forma dell’atto terminativo del giudizio – male adattandosi a tale tipo di accertamento la forma del decreto – oltre che sul termine per proporre impugnazione contro il medesimo.

Considerato in diritto

1. – La Corte di cassazione, seconda Sezione penale, dubita della legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e dell’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), nella parte in cui «non consentono che, a richiesta di parte, il procedimento in materia di misure di prevenzione si svolga in udienza pubblica».

Il giudice a quo pone a base delle proprie censure l’affermazione della Corte europea dei diritti dell’uomo secondo la quale, ai fini del rispetto del principio di pubblicità delle procedure giudiziarie, sancito dall’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, le persone coinvolte nei procedimenti per l’applicazione di misure di prevenzione debbono vedersi «almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello» (sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia).

La Corte rimettente rileva, altresì, che, secondo la più recente giurisprudenza costituzionale, le norme della CEDU, nell’interpretazione loro attribuita dalla Corte di Strasburgo, costituiscono «norme interposte» ai fini della verifica del rispetto dell’art. 117, primo comma, Cost.: con la conseguenza che, ove il giudice ravvisi un contrasto, non componibile per via di interpretazione, tra una norma interna e una norma della Convenzione, egli non può disapplicare la norma interna, ma deve sottoporla a scrutinio di costituzionalità in rapporto al parametro dianzi indicato.

Nella specie, non sarebbe possibile interpretare le norme censurate in senso conforme alla Convenzione, stante l’univocità del dato testuale, a fronte del quale il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolge, in tutti i suoi gradi, in camera di consiglio (e, dunque, senza la presenza del pubblico); né sussisterebbero i presupposti per l’estensione analogica alla fattispecie considerata dell’art. 441, comma 3, del codice di procedura penale, in tema di giudizio abbreviato.

Sarebbe, dunque, inevitabile la conclusione che le norme denunciate violano l’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui non accordano all’interessato la garanzia «minimale» richiesta dalla Corte europea, ossia la facoltà di chiedere che il procedimento si svolga in udienza pubblica.

Detta facoltà andrebbe riconosciuta, peraltro, non soltanto in relazione ai giudizi di merito, ma anche con riguardo al giudizio di cassazione, senza che rilevi, in senso contrario, la circostanza che di quest’ultimo non venga fatta menzione nella citata sentenza della Corte europea. Se pure è vero, infatti, che la Corte di Strasburgo ha affermato in più occasioni che il diritto a un’udienza pubblica può essere escluso quando debbano trattarsi esclusivamente questioni di diritto, essa ha, tuttavia, anche precisato che l’assenza dell’udienza pubblica, nei gradi successivi al primo, può giustificarsi solo se in primo grado la pubblicità sia stata garantita.

D’altro canto, una volta che la scelta del rito venga affidata alla parte, non si vedrebbe perché la relativa opzione possa essere effettuata solo «in limine», e non «anche in successivi gradi di giudizio».

2. – Posteriormente all’ordinanza di rimessione, questa Corte, con la sentenza n. 93 del 2010, ha dichiarato costituzionalmente illegittime le norme sottoposte a scrutinio, per violazione del medesimo parametro evocato dall’odierno rimettente, «nella parte in cui non consentono che, su istanza degli interessati, il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolga, davanti al tribunale e alla corte d’appello, nelle forme dell’udienza pubblica» (giudizi, quelli davanti al tribunale e alla corte d’appello, ai quali le censure formulate nell’occasione dal giudice a quo dovevano ritenersi circoscritte).

Nella circostanza, questa Corte ha anzitutto ricordato – e giova qui ribadirlo, in rapporto a quanto più avanti si osserverà – come, a partire dalle sentenze n. 348 e n. 349 del 2007, la giurisprudenza costituzionale sia costante nel ritenere che le norme della CEDU – nel significato loro attribuito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, specificamente istituita per dare a esse interpretazione e applicazione (art. 32, paragrafo 1, della Convenzione) – integrino, quali «norme interposte», il parametro costituzionale espresso dall’art. 117, primo comma, Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali» (sentenze n. 317 e n. 311 del 2009, n. 39 del 2008). In questa prospettiva, ove si profili un eventuale contrasto fra una norma interna e una norma della CEDU, il giudice comune deve verificare anzitutto la praticabilità di una interpretazione della prima in senso conforme alla Convenzione, avvalendosi di ogni strumento ermeneutico a sua disposizione; e, ove tale verifica dia esito negativo – non potendo a ciò rimediare tramite la semplice non applicazione della norma interna contrastante – egli deve denunciare la rilevata incompatibilità, proponendo questione di legittimità costituzionale in riferimento all’indicato parametro. A sua volta, la Corte costituzionale, investita dello scrutinio, pur non potendo sindacare l’interpretazione della CEDU data dalla Corte europea, resta legittimata a verificare se, così interpretata, la norma della Convenzione – la quale si colloca pur sempre a un livello sub-costituzionale – si ponga eventualmente in conflitto con altre norme della Costituzione: «ipotesi eccezionale nella quale dovrà essere esclusa la idoneità della norma convenzionale a integrare il parametro considerato».

Su tale premessa, questa Corte ha quindi rilevato come il sesto e il decimo comma dell’art. 4 della legge n. 1423 del 1956 – con disposizioni valevoli anche in rapporto alle misure patrimoniali antimafia previste dall’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965 (il cui primo comma richiama il procedimento regolato dalla legge del 1956) – stabiliscano specificamente che il giudizio per l’applicazione delle misure di prevenzione si svolge, sia in primo grado che nel giudizio di impugnazione davanti alla corte d’appello, «in camera di consiglio»: perciò, «senza la presenza del pubblico», secondo il generale disposto, in tema di procedura camerale, dell’art. 127, comma 6, cod. proc. pen.

Si è rilevato, altresì, come tale assetto normativo sia stato in più occasioni censurato dalla Corte di Strasburgo, per contrasto con il principio di pubblicità dei procedimenti giudiziari sancito dall’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, in forza del quale «ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata […] pubblicamente […] da un tribunale indipendente e imparziale, costituito per legge» (sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia, cui hanno fatto seguito, in senso conforme, le sentenze 8 luglio 2008, Perre e altri contro Italia; 5 gennaio 2010, Bongiorno contro Italia, e 2 febbraio 2010, Leone contro Italia). La Corte europea ha ribadito, al riguardo, che la pubblicità delle procedure giudiziarie tutela le persone soggette a una giurisdizione contro una giustizia segreta, che sfugge al controllo del pubblico, e costituisce anche uno strumento per preservare la fiducia nei giudici, concorrendo con ciò all’attuazione dello scopo dell’art. 6 della Convenzione: ossia l’equo processo. Come attestano le eccezioni previste dalla seconda parte della norma, questa non impedisce, in assoluto, alle autorità giudiziarie di derogare al principio di pubblicità: ma l’udienza a porte chiuse, per tutta o parte della sua durata, deve essere comunque «strettamente imposta dalle circostanze della causa». Alcune circostanze eccezionali, attinenti alla natura delle questioni da trattare – quale, ad esempio, il carattere «altamente tecnico» del contenzioso – possono giustificare, in effetti, che si faccia a meno di un’udienza pubblica: ma nella maggior parte dei casi in cui la giurisprudenza della Corte di Strasburgo è pervenuta a tale conclusione in rapporto a procedimenti davanti ad autorità giudiziarie «civili» chiamate a decidere nel merito, il ricorrente aveva avuto, comunque, la possibilità di chiedere che la causa fosse trattata in udienza pubblica. La situazione è diversa, per contro, quando, sia in primo grado che in appello, una procedura «sul merito» si svolge a porte chiuse in virtù di una norma generale e assoluta, senza che la persona soggetta a giurisdizione fruisca dell’anzidetta facoltà: non potendo una simile procedura considerarsi conforme all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione.

Con riguardo alla fattispecie in discussione, la Corte di Strasburgo – in replica ai rilievi svolti dal Governo italiano – non ha contestato che il procedimento per l’applicazione delle misure di prevenzione (e, in particolare, delle misure patrimoniali) possa presentare un elevato grado di tecnicismo, in quanto tendente al «controllo delle finanze e dei movimenti di capitali»; ovvero che possa coinvolgere «interessi superiori, quali la protezione della vita privata di minori o di terze persone indirettamente interessate dal controllo finanziario». Ciò non consente, tuttavia, di trascurare l’entità della «posta in gioco» nelle procedure stesse, le quali incidono in modo diretto e significativo sulla situazione personale e patrimoniale della persona soggetta a giurisdizione: il che induce a dover reputare essenziale, ai fini della realizzazione della garanzia prefigurata dalla norma convenzionale, «che le persone […] coinvolte in un procedimento di applicazione delle misure di prevenzione si vedano almeno offrire la possibilità di sollecitare una pubblica udienza davanti alle sezioni specializzate dei tribunali e delle corti d’appello».

A fronte di tali indicazioni, questa Corte ha quindi concluso che le norme censurate violavano, in parte qua, l’art. 117, primo comma, Cost., dovendo senz’altro escludersi che la norma convenzionale, come interpretata dalla Corte europea, «contrasti con le conferenti tutele offerte dalla nostra Costituzione». Per consolidata giurisprudenza della Corte, infatti, pure in assenza di un esplicito richiamo in Costituzione, «la pubblicità del giudizio, specie di quello penale, costituisce principio connaturato ad un ordinamento democratico fondato sulla sovranità popolare, cui deve conformarsi l’amministrazione della giustizia, la quale – in forza dell’art. 101, primo comma, Cost. – trova in quella sovranità la sua legittimazione» (ex plurimis, sentenze n. 373 del 1992, n. 69 del 1991 e n. 50 del 1989). D’altra parte, pur dovendosi anche precisare che il principio in questione «non ha valore assoluto, potendo cedere in presenza di particolari ragioni giustificative», ciò tuttavia si giustifica solo quando le stesse risultino «obiettive e razionali» (sentenza n. 212 del 1986), e, nel caso del dibattimento penale, «collegate ad esigenze di tutela di beni a rilevanza costituzionale» (sentenza n. 12 del 1971).

Questa Corte ha anche escluso la praticabilità di una interpretazione conforme alla Convenzione delle norme censurate, basata, in specie, sull’applicazione analogica dell’art. 441, comma 3, cod. proc. pen., in forza del quale il giudizio abbreviato – normalmente trattato in camera di consiglio – si svolge in udienza pubblica se tutti gli imputati ne fanno richiesta. Difettano, infatti, «le condizioni legittimanti tale operazione ermeneutica, sia perché il ricorso all’analogia presuppone il riconoscimento di un vuoto normativo, qui non ravvisabile in presenza di una specifica disposizione contraria» (art. 127, comma 6, cod. proc. pen.); «sia a fronte delle marcate differenze strutturali e funzionali dei procedimenti in questione (giudizio abbreviato e procedimento di prevenzione)».

3. – La pronuncia di illegittimità costituzionale ora ricordata non è, peraltro, integralmente satisfattiva delle richieste dell’odierno rimettente. Il quesito di costituzionalità oggi sottoposto al vaglio della Corte è, difatti, più ampio della questione decisa con la sentenza n. 93 del 2010, anche se la comprende, attenendo inequivocamente a tutti i gradi di giudizio in materia di misure di prevenzione: non solo, cioè, ai giudizi di merito, ma anche a quello di legittimità.

Ai fini della decisione, si rende pertanto necessario scindere l’una doglianza dall’altra.

Quanto alla questione concernente il difetto di pubblicità delle udienze di prevenzione nei gradi di merito, la stessa è inammissibile per sopravvenuta mancanza di oggetto. La norma per questo verso censurata – vale a dire, quella che non consente agli interessati di chiedere che, davanti ai tribunali e alle corti d’appello, il procedimento di prevenzione si svolga in forma pubblica – è già stata, infatti, rimossa dall’ordinamento dalla ricordata declaratoria di illegittimità costituzionale con efficacia ex tunc (ex plurimis, ordinanze n. 306 e n. 78 del 2010, n. 327 e n. 82 del 2009). Codesto profilo di inammissibilità è assorbente rispetto a quello, pur riconoscibile, che deriva dal difetto di rilevanza della questione nel giudizio a quo, non risultando dall’ordinanza di rimessione che l’interessato, ricorrente per cassazione, abbia formulato nei precedenti gradi di giudizio alcuna istanza di trattazione in forma pubblica del procedimento.

4. – Con riferimento alla preclusione dello svolgimento in forma pubblica del procedimento davanti alla Corte di cassazione, la questione – non esaminata dalla citata sentenza n. 93 del 2010 – risulta, per converso, senz’altro rilevante nel giudizio principale. Essa condiziona, infatti, la decisione della Sezione rimettente sulla richiesta di trattazione del ricorso per cassazione in udienza pubblica, formulata dal ricorrente.

L’art. 4, undicesimo comma, della legge n. 1423 del 1956 stabilisce, in effetti, che anche il ricorso per cassazione in materia di misure di prevenzione venga trattato «in camera di consiglio». Tale previsione si salda col disposto dell’art. 611 cod. proc. pen., in forza del quale la Corte di cassazione procede in camera in consiglio – oltre che, per regola generale, «quando deve decidere su ogni ricorso contro provvedimenti non emessi in dibattimento, fatta eccezione delle sentenze pronunciate a norma dell’articolo 442» – anche, e prima di tutto, «nei casi particolarmente previsti dalla legge». In assenza di diversa indicazione normativa, la trattazione dei ricorsi in materia di misure di prevenzione ha luogo, d’altro canto, con la cosiddetta procedura camerale «non partecipata», disciplinata dallo stesso art. 611 cod. proc. pen.: procedura che – in deroga al generale disposto dell’art. 127 cod. proc. pen. – non contempla l’«intervento dei difensori», basandosi su un contraddittorio esclusivamente scritto.

5. – Rispetto allo scrutinio del merito della questione, assume tuttavia rilievo preliminare il problema – sottoposto specificamente all’attenzione di questa Corte dalla parte privata – degli effetti della sopravvenuta entrata in vigore del Trattato di Lisbona del 13 dicembre 2007, ratificato e reso esecutivo con legge 2 agosto 2008, n. 130, che modifica il Trattato sull’Unione europea e il Trattato che istituisce la Comunità europea.

Secondo la parte privata, le innovazioni recate da detto Trattato (entrato in vigore il 1° dicembre 2009) avrebbero comportato un mutamento della collocazione delle disposizioni della CEDU nel sistema delle fonti, tale da rendere ormai inattuale la ricordata concezione delle «norme interposte». Alla luce del nuovo testo dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea, dette disposizioni sarebbero divenute, infatti, parte integrante del diritto dell’Unione: con la conseguenza che – almeno in fattispecie quale quella di cui al presente si discute – i giudici comuni (ivi compreso, dunque, il giudice a quo) risulterebbero abilitati a non applicare le norme interne ritenute incompatibili con le norme della Convenzione, senza dover attivare il sindacato di costituzionalità. Varrebbe, infatti, al riguardo, la ricostruzione dei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno, quali sistemi distinti e autonomi, operata dalla consolidata giurisprudenza di questa Corte sulla base del disposto dell’art. 11 Cost. (secondo cui l’Italia «consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni»). Alla stregua di tale ricostruzione le norme derivanti da fonte comunitaria dovrebbero ricevere diretta applicazione nell’ordinamento italiano, ma rimangono estranee al sistema delle fonti interne e, se munite di effetto diretto, precludono al giudice nazionale di applicare la normativa interna con esse reputata incompatibile (ex plurimis, sentenze n. 125 del 2009, n. 168 del 1991 e n. 170 del 1984). Un effetto diretto non potrebbe essere, d’altronde, negato alle norme della CEDU, segnatamente allorché – come nell’ipotesi in esame – sia già intervenuta una sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo che abbia riconosciuto una violazione da parte dell’Italia, riconducibile a uno specifico difetto “strutturale” del sistema normativo interno.

Benché la stessa parte privata, nel formulare le proprie conclusioni, abbia poi insistito per la declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme censurate (e, in via conseguenziale, anche di ulteriori disposizioni), appare evidente che, ove la tesi ora ricordata fosse corretta, la questione dovrebbe essere dichiarata inammissibile: essendo, quello denunciato, un contrasto che spetterebbe ormai allo stesso giudice comune – e non più a questa Corte – accertare e dirimere (ex plurimis, in tema di contrasto fra norme interne e norme comunitarie con effetto diretto, sentenze n. 284 del 2007 e n. 170 del 1984). Donde, appunto, la pregiudizialità del problema evidenziato dalla parte privata rispetto all’analisi del merito del quesito.

5.1. – A tale proposito, occorre quindi ricordare come l’art. 6 del Trattato sull’Unione europea, nel testo in vigore sino al 30 novembre 2009, stabilisse, al paragrafo 2, che l’«Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali […] e quali risultano dalle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri, in quanto principi del diritto comunitario».

In base a tale disposizione – che recepiva un indirizzo adottato dalla Corte di giustizia fin dagli anni settanta dello scorso secolo – tanto la CEDU quanto le «tradizioni costituzionali comuni» degli Stati membri (fonti esterne all’ordinamento dell’Unione) non assumevano rilievo come tali, ma in quanto da esse si traevano «i principi generali del diritto comunitario» che l’Unione era tenuta a rispettare. Sicché, almeno dal punto di vista formale, la fonte della tutela dei diritti fondamentali nell’ambito dell’Unione europea era unica, risiedendo, per l’appunto, nei «principi generali del diritto comunitario», mentre la CEDU e le «tradizioni costituzionali comuni» svolgevano solo un ruolo “strumentale” all’individuazione di quei principi.

Coerentemente questa Corte ha in modo specifico escluso che dalla «qualificazione […] dei diritti fondamentali oggetto di disposizioni della CEDU come principi generali del diritto comunitario» – operata dapprima dalla Corte di giustizia, indi anche dall’art. 6 del Trattato – potesse farsi discendere la riferibilità alla CEDU del parametro di cui all’art. 11 Cost. e, con essa, la spettanza al giudice comune del potere-dovere di non applicare le norme interne contrastanti con la Convenzione (sentenza n. 349 del 2007). L’affermazione per cui l’art. 11 Cost. non può venire in considerazione rispetto alla CEDU, «non essendo individuabile, con riferimento alle specifiche norme convenzionali in esame, alcuna limitazione della sovranità nazionale» (sentenza n. 188 del 1980, già richiamata dalla sentenza n. 349 del 2007 succitata), non poteva ritenersi, infatti, messa in discussione da detta qualificazione per un triplice ordine di ragioni.

In primo luogo, perché «il Consiglio d’Europa, cui afferiscono il sistema di tutela dei diritti dell’uomo disciplinato dalla CEDU e l’attività interpretativa di quest’ultima da parte della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo, è una realtà giuridica, funzionale e istituzionale, distinta dalla Comunità europea creata con i Trattati di Roma del 1957 e dall’Unione europea oggetto del Trattato di Maastricht del 1992» (sentenza n. 349 del 2007).

In secondo luogo, perché, i «princìpi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario assicura il rispetto», ispirandosi alle tradizioni costituzionali comuni degli Stati membri e alla CEDU, «rilevano esclusivamente rispetto a fattispecie alle quali tale diritto sia applicabile: in primis gli atti comunitari, poi gli atti nazionali di attuazione di normative comunitarie, infine le deroghe nazionali a norme comunitarie asseritamente giustificate dal rispetto dei diritti fondamentali (sentenza 18 giugno 1991, C-260/89, ERT)»; avendo «la Corte di giustizia […] precisato che non ha tale competenza nei confronti di normative che non entrano nel campo di applicazione del diritto comunitario (sentenza 4 ottobre 1991, C-159/09, Society for the Protection of Unborn Children Ireland; sentenza 29 maggio 1998, C-299/05, Kremzow)».

In terzo luogo e da ultimo, perché «il rapporto tra la CEDU e gli ordinamenti giuridici degli Stati membri, non essendovi in questa materia una competenza comune attribuita alle (né esercitata dalle) istituzioni comunitarie, è un rapporto variamente ma saldamente disciplinato da ciascun ordinamento nazionale» (sentenza n. 349 del 2007).

5.2. – L’art. 6 del Trattato sull’Unione europea è stato, peraltro, incisivamente modificato dal Trattato di Lisbona, in una inequivoca prospettiva di rafforzamento dei meccanismi di protezione dei diritti fondamentali.

Il nuovo art. 6 esordisce, infatti, al paragrafo 1, stabilendo che l’«Unione riconosce i diritti, le libertà e i principi sanciti nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 7 dicembre 2000, adattata il 12 dicembre 2007 a Strasburgo, che ha lo stesso valore giuridico dei trattati». La norma prosegue – per quanto ora interessa – prevedendo, al paragrafo 2, che «l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali»; per chiudersi, al paragrafo 3, con la statuizione in forza della quale «i diritti fondamentali, garantiti dalla Convenzione […] e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali».

Alla luce della nuova norma, dunque, la tutela dei diritti fondamentali nell’ambito dell’Unione europea deriva (o deriverà) da tre fonti distinte: in primo luogo, dalla Carta dei diritti fondamentali (cosiddetta Carta di Nizza), che l’Unione «riconosce» e che «ha lo stesso valore giuridico dei trattati»; in secondo luogo, dalla CEDU, come conseguenza dell’adesione ad essa dell’Unione; infine, dai «principi generali», che – secondo lo schema del previgente art. 6, paragrafo 2, del Trattato – comprendono i diritti sanciti dalla stessa CEDU e quelli risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri.

Si tratta, dunque, di un sistema di protezione assai più complesso e articolato del precedente, nel quale ciascuna delle componenti è chiamata ad assolvere a una propria funzione. Il riconoscimento alla Carta di Nizza di un valore giuridico uguale a quello dei Trattati mira, in specie, a migliorare la tutela dei diritti fondamentali nell’ambito del sistema dell’Unione, ancorandola a un testo scritto, preciso e articolato.

Sebbene la Carta «riafferm[i]», come si legge nel quinto punto del relativo preambolo, i diritti derivanti (anche e proprio) dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri e dalla CEDU, il mantenimento di un autonomo richiamo ai «principi generali» e, indirettamente, a dette tradizioni costituzionali comuni e alla CEDU, si giustifica – oltre che a fronte dell’incompleta accettazione della Carta da parte di alcuni degli Stati membri (si veda, in particolare, il Protocollo al Trattato di Lisbona sull’applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea alla Polonia e al Regno Unito) – anche al fine di garantire un certo grado di elasticità al sistema. Si tratta, cioè, di evitare che la Carta “cristallizzi” i diritti fondamentali, impedendo alla Corte di giustizia di individuarne di nuovi, in rapporto all’evoluzione delle fonti indirettamente richiamate.

A sua volta, la prevista adesione dell’Unione europea alla CEDU rafforza la protezione dei diritti umani, autorizzando l’Unione, in quanto tale, a sottoporsi a un sistema internazionale di controllo in ordine al rispetto di tali diritti.

5.3. – Con riferimento a fattispecie quali quella che al presente viene in rilievo, da nessuna delle predette fonti di tutela è, peraltro, possibile ricavare la soluzione prospettata dalla parte privata.

Nessun argomento in tale direzione può essere tratto, anzitutto, dalla prevista adesione dell’Unione europea alla CEDU, per l’assorbente ragione che l’adesione non è ancora avvenuta.

A prescindere da ogni altro possibile rilievo, la statuizione del paragrafo 2 del nuovo art. 6 del Trattato resta, dunque, allo stato, ancora improduttiva di effetti. La puntuale identificazione di essi dipenderà ovviamente dalle specifiche modalità con cui l’adesione stessa verrà realizzata.

5.4. – Quanto, poi, al richiamo alla CEDU contenuto nel paragrafo 3 del medesimo art. 6 – secondo cui i diritti fondamentali garantiti dalla Convenzione «e risultanti dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali» – si tratta di una disposizione che riprende, come già accennato, lo schema del previgente paragrafo 2 dell’art. 6 del Trattato sull’Unione europea: evocando, con ciò, una forma di protezione preesistente al Trattato di Lisbona.

Restano, quindi, tuttora valide le considerazioni svolte da questa Corte in rapporto alla disciplina anteriore, riguardo all’impossibilità, nelle materie cui non sia applicabile il diritto dell’Unione (come nel caso sottoposto a questa Corte), di far derivare la riferibilità alla CEDU dell’art. 11 Cost. dalla qualificazione dei diritti fondamentali in essa riconosciuti come «principi generali» del diritto comunitario (oggi, del diritto dell’Unione). Le variazioni apportate al dettato normativo – e, in particolare, la sostituzione della locuzione «rispetta» (presente nel vecchio testo dell’art. 6 del Trattato) con l’espressione «fanno parte» – non sono, in effetti, tali da intaccare la validità di tale conclusione. Come sottolineato nella citata sentenza n. 349 del 2007, difatti, già la precedente giurisprudenza della Corte di giustizia – che la statuizione in esame è volta a recepire – era costante nel ritenere che i diritti fondamentali, enucleabili dalla CEDU e dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, facessero «parte integrante» dei principi generali del diritto comunitario di cui il giudice comunitario era chiamato a garantire il rispetto (ex plurimis, sentenza 26 giugno 2007, C-305/05, Ordini avvocati contro Consiglio, punto 29).

Rimane, perciò, tuttora valida la considerazione per cui i principi in questione rilevano unicamente in rapporto alle fattispecie cui il diritto comunitario (oggi, il diritto dell’Unione) è applicabile, e non anche alle fattispecie regolate dalla sola normativa nazionale.

5.5. – Quest’ultimo rilievo è riferibile, peraltro, anche alla restante fonte di tutela: vale a dire la Carta dei diritti fondamentali, la cui equiparazione ai Trattati avrebbe determinato, secondo la parte privata, una «trattatizzazione» indiretta della CEDU, alla luce della “clausola di equivalenza” che figura nell’art. 52, paragrafo 3, della Carta. In base a tale disposizione (compresa nel titolo VII, cui l’art. 6, paragrafo 1, del Trattato fa espresso rinvio ai fini dell’interpretazione dei diritti, delle libertà e dei principi stabiliti dalla Carta), ove quest’ultima «contenga diritti corrispondenti a quelli garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, il significato e la portata degli stessi sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta Convenzione» (ferma restando la possibilità «che il diritto dell’Unione conceda una protezione più estesa»). Di conseguenza – sempre secondo la parte privata – i diritti previsti dalla CEDU che trovino un «corrispondente» all’interno della Carta di Nizza (quale, nella specie, il diritto alla pubblicità delle udienze, enunciato dall’art. 47 della Carta in termini identici a quelli dell’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione) dovrebbero ritenersi ormai tutelati anche a livello di diritto dell’Unione europea.

A prescindere da ogni ulteriore considerazione, occorre peraltro osservare come – analogamente a quanto è avvenuto in rapporto alla prefigurata adesione dell’Unione alla CEDU (art. 6, paragrafo 2, secondo periodo, del Trattato sull’Unione europea; art. 2 del Protocollo al Trattato di Lisbona relativo a detta adesione) – in sede di modifica del Trattato si sia inteso evitare nel modo più netto che l’attribuzione alla Carta di Nizza dello «stesso valore giuridico dei trattati» abbia effetti sul riparto delle competenze fra Stati membri e istituzioni dell’Unione.

L’art. 6, paragrafo 1, primo alinea, del Trattato stabilisce, infatti, che «le disposizioni della Carta non estendono in alcun modo le competenze dell’Unione definite nei trattati». A tale previsione fa eco la Dichiarazione n. 1 allegata al Trattato di Lisbona, ove si ribadisce che «la Carta non estende l’ambito di applicazione del diritto dell’Unione al di là delle competenze dell’Unione, né introduce competenze nuove o compiti nuovi dell’Unione, né modifica le competenze e i compiti definiti dai trattati».

I medesimi principi risultano, peraltro, già espressamente accolti dalla stessa Carta dei diritti, la quale, all’art. 51 (anch’esso compreso nel richiamato titolo VII), stabilisce, al paragrafo 1, che «le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione»; recando, altresì, al paragrafo 2, una statuizione identica a quella della ricordata Dichiarazione n. 1.

Ciò esclude, con ogni evidenza, che la Carta costituisca uno strumento di tutela dei diritti fondamentali oltre le competenze dell’Unione europea, come, del resto, ha reiteratamente affermato la Corte di giustizia, sia prima (tra le più recenti, ordinanza 17 marzo 2009, C-217/08, Mariano) che dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (sentenza 5 ottobre 2010, C-400/10 PPU, McB; ordinanza 12 novembre 2010, C-399/10, Krasimir e altri).

Presupposto di applicabilità della Carta di Nizza è, dunque, che la fattispecie sottoposta all’esame del giudice sia disciplinata dal diritto europeo – in quanto inerente ad atti dell’Unione, ad atti e comportamenti nazionali che danno attuazione al diritto dell’Unione, ovvero alle giustificazioni addotte da uno Stato membro per una misura nazionale altrimenti incompatibile con il diritto dell’Unione – e non già da sole norme nazionali prive di ogni legame con tale diritto.

Nel caso di specie – attinente all’applicazione di misure personali e patrimoniali ante o praeter delictum – detto presupposto difetta: la stessa parte privata, del resto, non ha prospettato alcun tipo di collegamento tra il thema decidendum del giudizio principale e il diritto dell’Unione europea.

5.6. – Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve, dunque, conclusivamente escludere che, in una fattispecie quale quella oggetto del giudizio principale, il giudice possa ritenersi abilitato a non applicare, omisso medio, le norme interne ritenute incompatibili con l’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, secondo quanto ipotizzato dalla parte privata.

Restano, per converso, pienamente attuali i principi al riguardo affermati da questa Corte a partire dalle sentenze n. 348 e 349 del 2007: principi, del resto, reiteratamente ribaditi dalla Corte stessa anche dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona (sentenze n. 1 del 2011; n. 196, n. 187 e n. 138 del 2010), pure in rapporto alla tematica oggetto dell’odierno scrutinio (sentenza n. 93 del 2010).

6. – Nel merito, la questione relativa al difetto di pubblicità del giudizio di cassazione in materia di misure di prevenzione non è fondata.

6.1. – Come già rimarcato da questa Corte nella sentenza n. 93 del 2010 (punto 2 del Considerato in diritto) e come rilevato anche dalla prevalente giurisprudenza di legittimità, con la quale l’odierna ordinanza di rimessione si pone consapevolmente in contrasto, il principio affermato dalla Corte di Strasburgo nelle decisioni poste a fondamento della censura di costituzionalità è riferito esclusivamente ai giudizi presso i tribunali e le corti d’appello, senza che si faccia alcun riferimento al giudizio davanti alla Corte di cassazione.

Contrariamente a quanto sostiene il Collegio rimettente, la mancata menzione del giudizio di legittimità risulta particolarmente significativa – nel senso di assumere una valenza ad excludendum – ove si consideri che la Corte europea era chiamata a pronunciarsi su procedimenti di prevenzione che avevano percorso tutti i gradi di giudizio interno, ivi compreso quello di cassazione (ciò, stante il presupposto di legittimazione dell’accesso alla Corte di Strasburgo, rappresentato dall’esaurimento delle vie di ricorso interne: art. 35, paragrafo 1, della CEDU). E se pure è vero che nel caso esaminato dalla più volte citata sentenza 13 novembre 2007, Bocellari e Rizza contro Italia, i ricorrenti si erano lamentati solo della mancata pubblicità delle udienze nei gradi di merito, analoga limitazione delle censure non si riscontra, invece, nei casi esaminati dalle successive sentenze in materia (sentenza 8 luglio 2008, Perre e altri contro Italia; sentenza 5 gennaio 2010, Bongiorno contro Italia; sentenza 2 febbraio 2010, Leone contro Italia).

La soluzione limitativa adottata in rapporto alla fattispecie che interessa riflette, d’altro canto, il generale orientamento della Corte europea in tema di applicabilità del principio di pubblicità nei giudizi di impugnazione. Tale orientamento si esprime segnatamente nell’affermazione per cui, al fine della verifica del rispetto del principio di pubblicità, occorre guardare alla procedura giudiziaria nazionale nel suo complesso: sicché, a condizione che una pubblica udienza sia stata tenuta in prima istanza, l’assenza di analoga udienza in secondo o in terzo grado può bene trovare giustificazione nelle particolari caratteristiche del giudizio di cui si tratta.

In specie, i giudizi di impugnazione dedicati esclusivamente alla trattazione di questioni di diritto possono soddisfare i requisiti di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, nonostante la mancata previsione di una pubblica udienza davanti alle corti di appello o alla corte di cassazione (ex plurimis, sentenza 21 luglio 2009, Seliwiak contro Polonia; Grande Camera, sentenza 18 ottobre 2006, Hermi contro Italia; sentenza 8 febbraio 2005, Miller contro Svezia; sentenza 25 luglio 2000, Tierce e altri contro San Marino; sentenza 27 marzo 1998, K.D.B. contro Paesi Bassi; sentenza 29 ottobre 1991, Helmers contro Svezia; sentenza 26 maggio 1988, Ekbatani contro Svezia). La valenza del controllo immediato del quisque de populo sullo svolgimento delle attività processuali, reso possibile dal libero accesso all’aula di udienza – uno degli strumenti di garanzia della correttezza dell’amministrazione della giustizia – si apprezza, difatti, secondo un classico, risalente ed acquisito principio, in modo specifico quando il giudice sia chiamato ad assumere prove, specialmente orali-rappresentative, e comunque ad accertare o ricostruire fatti; mentre si attenua grandemente allorché al giudice competa soltanto risolvere questioni interpretative di disposizioni normative.

Si deve, di conseguenza, ritenere che l’avvenuta introduzione nel procedimento di prevenzione, per effetto della sentenza n. 93 del 2010 di questa Corte, del diritto degli interessati di chiedere la pubblica udienza davanti ai tribunali (giudici di prima istanza) e alle corti di appello (giudici di seconda istanza, ma competenti al riesame anche delle questioni di fatto, se non addirittura essi stessi all’assunzione o riassunzione di prove) è sufficiente a garantire la conformità del nostro ordinamento alla CEDU, senza che occorra estendere il suddetto diritto al giudizio davanti alla Corte di cassazione.

6.2. – Al fine di contrastare tale conclusione, non giova la tesi, sostenuta dalla parte privata nel corso della discussione orale, secondo la quale, a seguito della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), che ha modificato, in senso ampliativo, i motivi di ricorso per cassazione legati alla mancata assunzione di prove decisive e, soprattutto, ai vizi di motivazione (art. 606, comma 1, lettere d ed e, cod. proc. pen.), il giudizio davanti alla Corte di cassazione non potrebbe più essere considerato un giudizio di mera legittimità.

Pure a prescindere dal rilievo circa la natura, tuttora controversa, delle implicazioni dell’evocata riforma normativa, l’assunto difensivo non è comunque pertinente nella specie, poiché nel procedimento per l’applicazione di misure di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso solo «per violazione di legge» (art. 4, undicesimo comma, della legge n. 1423 del 1956, richiamato dall’art. 3-ter, secondo comma, della legge n. 575 del 1965), il che significa, per consolidata giurisprudenza, che la deducibilità del vizio di motivazione resta circoscritta ai soli casi di motivazione inesistente o meramente apparente, qualificabile come violazione dell’obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice di appello dal nono comma del citato art. 4 della legge n. 1423 del 1956.

6.3. – Parimenti non condivisibile è l’ulteriore assunto del Collegio rimettente e della parte privata, secondo il quale, una volta che si affidi la scelta del rito alla parte, non si vedrebbe perché la pubblicità dell’udienza possa essere richiesta solo nei gradi di merito, e non – anche per la prima volta – nel giudizio di legittimità: ciò, tenuto conto anche dell’esigenza di prevedere «meccanismi correttivi che consentano di recuperare, ora per allora, la pubblicità, dapprima negata o semplicemente non richiesta, sollevando la questione per la prima volta solo dinanzi alla Corte di cassazione».

In proposito, la Corte di Strasburgo ha avuto modo di affermare che il principio, in forza del quale la pubblica udienza non è richiesta nei gradi di impugnazione destinati alla trattazione di sole questioni di diritto (o concernenti comunque materie le cui peculiarità meglio si attagliano a una trattazione scritta), vale anche quando l’udienza pubblica non si è tenuta in prima istanza, perché l’interessato vi ha rinunciato, esplicitamente o implicitamente, omettendo di formulare la relativa richiesta. Nell’interesse a una corretta amministrazione della giustizia, è, infatti, normalmente più conveniente che un’udienza sia tenuta già in prima istanza, piuttosto che solo davanti al giudice di impugnazione (sentenza 8 febbraio 2005, Miller contro Svezia; sentenza 12 novembre 2002, Dory contro Svezia; sentenza 12 novembre 2002, Lundevall contro Svezia; sentenza 12 novembre 2002, Salomonsson contro Svezia). Ciò contrasta, evidentemente, con l’ipotizzato riconoscimento alla parte del diritto di stabilire, a suo arbitrio, se far celebrare l’udienza pubblica in materia di prevenzione davanti ai giudici di merito o a quello di legittimità.

Quanto, poi, all’asserita esigenza di prevedere «meccanismi correttivi» delle violazioni del principio di pubblicità consumatesi nei gradi di merito, va anzitutto osservato che una simile violazione non appare ravvisabile nel caso di specie. Come già accennato, infatti, non consta che la parte interessata abbia presentato alcuna istanza di trattazione in forma pubblica del procedimento davanti al Tribunale e alla Corte d’appello. Né gioverebbe opporre che detta istanza non avrebbe potuto essere utilmente formulata, dato che le norme censurate prevedevano, all’epoca, che la procedura venisse trattata in sede camerale, senza alcuna alternativa. È agevole replicare, infatti, che l’interessato avrebbe potuto bene chiedere l’udienza pubblica già in sede di merito, eccependo, nel contempo, l’illegittimità costituzionale delle norme stesse in parte qua, così come è avvenuto – con ottenimento del risultato – nel procedimento nel quale è stata sollevata la questione decisa con la sentenza n. 93 del 2010. In termini analoghi si è, del resto, espressa la stessa Corte di cassazione, escludendo che la mancata trattazione in udienza pubblica del procedimento di prevenzione nei gradi di merito possa produrre alcuna conseguenza processuale, ove gli interessati non abbiano mai richiesto, in quella sede, che il giudizio venisse tenuto in forma pubblica (Cass., 22 gennaio 2009-23 aprile 2009, n. 17229; Cass., 18 novembre 2008-17 dicembre 2008, n. 46751).

Si deve aggiungere, peraltro, che ove pure nel giudizio a quo si fosse realizzata la dedotta violazione dell’art. 6, paragrafo 1, della CEDU, essa non verrebbe affatto rimossa per effetto della trattazione in udienza pubblica del ricorso per cassazione. Anche a tale riguardo, sono puntuali le indicazioni della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la quale ha reiteratamente chiarito come lo svolgimento pubblico di un giudizio di impugnazione che sia a cognizione limitata – in particolare, perché il controllo del giudice di grado superiore è circoscritto ai soli motivi di diritto (come nel caso del giudizio di cassazione) – non basta a compensare la mancanza di pubblicità del giudizio anteriore (sentenza 14 novembre 2000, Riepan contro Austria). Ciò, proprio perché sfuggono all’esame del giudice di legittimità gli aspetti in rapporto ai quali l’esigenza di pubblicità delle udienze è più avvertita, quali l’assunzione delle prove, l’esame dei fatti e l’apprezzamento della proporzionalità tra fatto e sanzione (al riguardo, sentenza 10 febbraio 1983, Albert e Le Compte contro Belgio; sentenza 23 giugno 1981, Le Compte, Van Leuven e De Meyere contro Belgio; nonché, più di recente, Grande Camera, sentenza 11 luglio 2002, Göç contro Turchia).

7. – Sulla base delle considerazioni svolte, la questione sollevata va dunque dichiarata inammissibile, nella parte attinente ai giudizi di merito, e infondata, nella parte relativa al giudizio davanti alla Corte di cassazione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità) e dell’art. 2-ter della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), nella parte in cui non consentono che, a richiesta di parte, il procedimento davanti al tribunale e alla corte d’appello in materia di applicazione di misure di prevenzione si svolga in udienza pubblica, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l’ordinanza indicata in epigrafe;

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge n. 1423 del 1956 e dell’art. 2-ter della legge n. 575 del 1965, nella parte in cui non consentono che, a richiesta di parte, il ricorso per cassazione in materia di misure di prevenzione venga trattato in udienza pubblica, sollevata, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 marzo 2011.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI


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SENTENZA N. 81

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati del 19 dicembre 2008 (doc. IV-quater, n. 7), relativa all’insindacabilità, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dal senatore Maurizio Gasparri nei confronti del dottor Henry John Woodcock, promosso dal Tribunale ordinario di Roma con ricorso notificato il 2 novembre 2009, depositato in cancelleria il 12 novembre 2009 ed iscritto al n. 4 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2009, fase di merito.

Visto l’atto di costituzione della Camera dei deputati;

udito nell’udienza pubblica dell’8 febbraio 2011 il Giudice relatore Paolo Grossi;

udito l’avvocato Beniamino Caravita di Toritto per la Camera dei deputati.

Ritenuto in fatto

1. − Il Tribunale di Roma ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato in ordine alla deliberazione 19 dicembre 2008 (doc. IV-quater, n. 7), con la quale la Camera dei deputati ha dichiarato che i fatti per i quali l’allora deputato Maurizio Gasparri è sottoposto a procedimento penale per il reato di diffamazione nei confronti del dott. Henry John Woodcock riguardano opinioni espresse nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione.

Il Tribunale ricorrente espone che il senatore Maurizio Gasparri, deputato all’epoca dei fatti, è imputato del reato di cui all’art. 595, terzo comma, del codice penale per aver rilasciato nel corso della trasmissione radiofonica della RAI “Radio 3131”, andata in onda l’8 febbraio 2004, dichiarazioni con le quali offendeva l’onore e la reputazione del dott. Henry John Woodcock, sostituto procuratore in servizio presso la Procura della Repubblica di Potenza. In particolare, il parlamentare ha affermato che: «[…] è stata spazzata via una farneticante accusa di un giudice irresponsabile di Potenza […], il C.S.M e il Ministero della Giustizia metteranno fine all’azione dissennata di persone che calunniano […] però faremo i conti in sede giudiziaria con chi si è comportato in quel modo […]».

Il ricorrente evidenzia che, secondo costante giurisprudenza di legittimità, l’applicabilità dell’art. 68 della Costituzione richiede l’esistenza di un nesso funzionale tra le dichiarazioni rese extra moenia dal membro del Parlamento e l’esercizio delle sue funzioni parlamentari, nonché, sulla base della giurisprudenza costituzionale, di un legame temporale tra l’attività parlamentare e l’attività esterna.

Nel caso di specie, ad avviso del Tribunale, non ricorrerebbero gli indicati presupposti; in particolare, la relazione della Giunta per le Autorizzazioni della Camera dei deputati non conterrebbe «alcuna indicazione» che consenta di individuare la sussistenza del nesso funzionale. Al riguardo, il ricorrente precisa, inoltre, che «l’unico profilo» rilevante, ai fini dell’art. 68, primo comma, Cost. (che tuttavia non consentirebbe l’applicazione della prerogativa di insindacabilità prevista dall’art. 68, primo comma, della Costituzione) sarebbe contenuto «nella allegazione, non provata, del fatto che le dichiarazioni rese» dal parlamentare sono legate alla funzione esercitata.

Il giudice ricorrente conclude chiedendo a questa Corte di dichiarare «che non spettava alla Camera dei deputati la valutazione della condotta addebitabile al Parlamentare Maurizio Gasparri […] in quanto estranea alla previsione di cui all’art. 68, primo comma, Cost», nonché di annullare la delibera della Camera dei deputati in data 19 dicembre 2008.

2. – Il presente conflitto è stato dichiarato ammissibile con ordinanza n. 270 del 2009.

3. – Il ricorso, unitamente alla ordinanza suddetta, è stato notificato il 2 novembre 2009 e depositato il 12 novembre 2009.

4. – Si è costituita in giudizio la Camera dei deputati eccependo l’inammissibilità e, comunque, l’infondatezza del ricorso.

Premessa l’illustrazione dei caratteri e dei fini dell’istituto della insindacabilità, secondo la Camera – che richiama in tal senso l’art. 3, comma 1, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato) – la funzione parlamentare ha carattere complesso in quanto costituita da una «pluralità di forme di manifestazione che non possono ridursi alla sola sede parlamentare». Pertanto, l’interpretazione dell’istituto della insindacabilità dei parlamentari «deve necessariamente tener conto della evoluzione delle forme della rappresentanza politica che, in una democrazia pluralistica, si connota per una dimensione pubblica e comunicativa che trascende le sedi e gli atti formali delle Camere». E ciò prestando attenzione «al più generale contesto politico e sociale», dando così una «percezione più ampia e più di sistema della funzione parlamentare», giacché «nella nostra democrazia pluralistica la garanzia della libertà parlamentare debba possedere un raggio di operatività più ampio rispetto al passato».

Secondo la Camera, una valutazione della Corte basata sulla «mera verifica della corrispondenza (o addirittura identificazione) con gli atti tipici e tipizzati della funzione parlamentare sarebbe fortemente riduttivo e svilirebbe la funzione che deve essere assolta dalla insindacabilità parlamentare nell’attuale assetto costituzionale e politico».

La Camera osserva, altresì, che, nel conflitto in esame, le dichiarazioni del parlamentare rientrano «a pieno titolo» nel percorso politico intrapreso dal suo gruppo parlamentare e che esse sono state fatte nell’esercizio del diritto, spettante a ciascun parlamentare, di criticare eventuali disfunzioni di qualsiasi istituzione, concorrendo così «a determinare la formazione della volontà da parte dell’opinione pubblica e quindi del corpo elettorale».

Nel caso di specie, sussisterebbe il nesso funzionale, in quanto vi sarebbe corrispondenza tra le dichiarazioni del parlamentare e l’attività del suo gruppo parlamentare di Alleanza Nazionale. D’altra parte, secondo la Camera un’eccessiva «“personalizzazione” del nesso funzionale» potrebbe dare luogo a «conseguenze discriminatorie» nei confronti di quei parlamentari che, una volta chiamati a ricoprire incarichi di governo, sarebbero esclusi dalle garanzie previste dal citato art. 68, primo comma, della Costituzione.

A questo riguardo, la Camera osserva che l’attività inquirente del sostituto Procuratore di Potenza era stata oggetto di attività parlamentare di sindacato ispettivo già nel 2003. In particolare, vengono richiamate: l’interpellanza urgente n. 2/01011 del 12 dicembre 2003; l’interpellanza n. 2/01393 del 9 dicembre 2004. Inoltre, ulteriori atti di sindacato ispettivo (citati a titolo esemplificativo) sarebbero stati predisposti, sia prima che dopo le dichiarazioni incriminate, dal Gruppo di Alleanza Nazionale e ciò al fine di «stigmatizzare il comportamento di una certa parte della magistratura nei rapporti con gli altri poteri dell’ordinamento costituzionale».

Infine, di particolare rilevanza sarebbe l’attività parlamentare svolta dall’allora deputato nel corso della XIII legislatura (1996-2001), precedente a quella nel corso della quale sono state rese le dichiarazioni che hanno dato luogo all’odierno conflitto (XIV legislatura, 2001-2006). Il parlamentare avrebbe, infatti, presentato «molteplici atti di sindacato ispettivo» [che vengono richiamati] volti ad evidenziare «alcune situazioni di anomalo funzionamento della magistratura, anche in relazione ai rapporti con il potere politico».

La Camera conclude chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile e infondato, essendo sussistente il nesso funzionale tra le dichiarazioni rese dal parlamentare e l’attività parlamentare svolta ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione.

5. – In prossimità dell’udienza la Camera dei deputati ha depositato una memoria con la quale ha sostanzialmente ribadito le argomentazioni sviluppate nell’atto di costituzione.

Considerato in diritto

1. – Il Tribunale di Roma ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato in riferimento alla deliberazione adottata il 19 dicembre 2008, con la quale la Camera dei deputati, in accoglimento della proposta formulata dalla Giunta per le autorizzazioni (doc. IV – quater, n. 7), ha dichiarato che i fatti per i quali pende procedimento penale a carico dell’allora deputato Maurizio Gasparri per il reato di diffamazione nei confronti del dott. Henry John Woodcock riguardano opinioni espresse nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione. Il ricorrente sottolinea, in particolare, che, alla luce della giurisprudenza di legittimità, l’applicabilità della esimente prevista dall’art. 68 Cost., richiede la sussistenza di un nesso funzionale tra le dichiarazioni rese extra moenia dal membro del Parlamento e l’esercizio delle sue funzioni parlamentari, nonché, in base alla giurisprudenza di questa Corte, di un legame temporale tra l’attività parlamentare e quella esterna. Nella specie, deduce il ricorrente, non sussisterebbero tali presupposti, in quanto la relazione della Giunta per le autorizzazioni della Camera dei deputati non conterrebbe indicazioni tali da consentire di individuare la sussistenza del nesso funzionale in questione, essendosi la Giunta soffermata su rilievi di carattere generale, senza che tra l’altro sussista alcuna correlazione cronologica tra l’attività parlamentare a tal fine evocata e le dichiarazioni oggetto di contestazione nei confronti dell’allora deputato.

2. – In via preliminare, va confermata l’ammissibilità del conflitto, sussistendone i presupposti soggettivi ed oggettivi, come già ritenuto da questa Corte con l’ordinanza n. 270 del 2009.

3. – Nel merito, il ricorso è fondato.

Va infatti ribadita la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, per la sussistenza del nesso funzionale tra le dichiarazioni rese da un parlamentare al di fuori dell’esercizio delle proprie attribuzioni e l’esercizio, da parte sua, di atti riconducibili a quelle stesse attribuzioni, è necessario che ricorrano contemporaneamente due presupposti: il legame temporale tra l’attività parlamentare e quella esterna, in modo tale che a questa possa concretamente attribuirsi finalità divulgativa della prima; nonché, la sostanziale corrispondenza di significato – ancorchè non testuale - tra le opinioni espresse nell’esercizio delle funzioni parlamentari e gli atti divulgativi, non essendo sufficiente né una mera comunanza di argomenti o di contesto politico cui esse possano riferirsi, né, tantomeno, una mera comunanza tematica (tra le tante, sentenze n. 420, n. 410 e n. 171 del 2008; n. 53 del 2007 e n. 415 del 2006). Solo in questo ambito, dunque, il carattere strumentale, che necessariamente caratterizza il momento e l’atto divulgativo rispetto al concreto esercizio della funzione parlamentare, permette di estendere al primo l’eccezionale presidio della insindacabilità delle opinioni, necessario a presidiare il concreto e libero esercizio delle attribuzioni spettanti ai singoli parlamentari, e, per essi, della funzione costituzionalmente garantita alla Camera rappresentativa di appartenenza.

4. – Nella specie, la Camera dei deputati ha richiamato, nella memoria di costituzione, vari atti parlamentari dai quali si desumerebbe la sussistenza del nesso funzionale rispetto alle dichiarazioni che formano oggetto del procedimento penale: di questi, soltanto alcuni risultano personalmente riferibili alla attività dell’on. Gasparri, mentre gli altri – a prescindere dallo iato temporale che separa alcuni di essi dai fatti per i quali il giudice ricorrente procede – sono tutti a firma di altri parlamentari. Al riguardo, non può dunque che ribadirsi quanto la giurisprudenza di questa Corte ha costantemente affermato in merito alla irrilevanza che, ai fini della applicabilità della garanzia prevista dall’art. 68, primo comma, Cost., presentano gli atti compiuti da altri parlamentari, appartengano o meno allo stesso gruppo del parlamentare delle cui dichiarazioni extra moenia si discute (tra le tante, sentenze n. 28 del 2008 e n. 304 del 2007), posto che il presidio della insindacabilità delle opinioni espresse nell’esercizio dello specifico munus di parlamentare non conferisce una sorta di garanzia generalizzata di immunità quanto alla relativa divulgazione, la quale, diversamente, risulterebbe in diretto contrasto con i limiti comunque imposti a chiunque eserciti il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero, ai sensi dell’art. 21 Cost..

Ebbene, degli atti “funzionali” prodotti dalla difesa della Camera, gli unici riferibili alla attività dell’allora deputato Gasparri, che dovrebbero fungere da “copertura” rispetto alle dichiarazioni oggetto del procedimento penale, sono rappresentati: dalla interpellanza n. 2/01434 presentata alla seduta della Camera del 2 novembre 1998, relativa alla adesione di un magistrato ad un appello dei centri sociali in cui si lamentavano i provvedimenti adottati in tema di applicazione delle norme in materia di immigrazione, cui erano seguite manifestazioni di piazza; dall’intervento svolto il 29 maggio 1998 in occasione della discussione della mozione di sfiducia nei confronti del Ministro dell’interno e del Ministro della Giustizia, nel corso della quale furono formulate critiche circa l’amministrazione della giustizia, anche in riferimento ad un discusso caso di scarcerazione avvenuto a Palermo; dall’interrogazione n. 3/01907, presentata alla seduta del 28 gennaio 1998, nella quale si stigmatizzava la situazione di conflittualità interna alla procura della Repubblica di Palermo; dalla replica, infine, alla risposta data alla propria interrogazione n. 3/00010 del 20 giugno 2006, nella quale si lamentava la insufficienza delle indagini svolte dalla Procura della Repubblica di Milano in relazione ad un presunto finanziamento illecito di partiti politici, e si censurava la politicizzazione di alcuni uffici giudiziari.

Si tratta, quindi, di atti parlamentari che, non solo sono di molti anni antecedenti le dichiarazioni per le quali è stata esercitata l’azione penale nei confronti del parlamentare, e, dunque, inidonei, per ciò solo, a determinare l’invocato nesso funzionale (ad esempio, sentenza n. 221 del 2006), ma risultano anche, per il loro contenuto, del tutto estranei ai fatti dedotti a fondamento del giudizio penale, riguardando questi ultimi l’attività di uno specifico magistrato, in riferimento ad una altrettanto specifica attività di indagine svolta dalla Procura della Repubblica di Potenza.

5. – Conclusivamente, la deliberazione della Camera dei deputati oggetto del ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato è stata adottata in violazione dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, ledendo le attribuzioni della autorità giudiziaria ricorrente, e deve, pertanto, essere annullata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara che non spettava alla Camera dei deputati affermare che le dichiarazioni rese dal deputato Maurizio Gasparri, per le quali pende davanti al Tribunale di Roma il procedimento penale di cui al ricorso in epigrafe, concernono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione;

annulla, di conseguenza, la deliberazione di insindacabilità adottata dalla Camera dei deputati nella seduta del 19 dicembre 2008 (documento IV – quater, n. 7).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 marzo 2011.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 82

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione del Senato della Repubblica del 12 febbraio 2009, relativa alla insindacabilità, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dal senatore Giorgio Stracquadanio nei confronti del dott. Giuseppe De Michelis di Slonghello, promosso dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Firenze con ricorso notificato il 17 luglio 2010, depositato in cancelleria l’11 agosto 2010 ed iscritto al n. 1 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2010, fase di merito.

Visto l’atto di costituzione del Senato della Repubblica;

udito nell’udienza pubblica dell’8 febbraio 2011 il Giudice relatore Paolo Grossi;

udito l’avvocato Stefano Grassi per il Senato della Repubblica.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso del 10 dicembre 2009, pervenuto alla Corte il 4 gennaio 2010, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica, in riferimento alla deliberazione assunta dalla Assemblea il 12 febbraio 2009, con la quale è stato stabilito che le dichiarazioni rese dal senatore Giorgio Stracquadanio, oggetto di querela proposta dal dott. Giuseppe De Michelis di Slonghello, costituivano opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni e ricadevano, pertanto, nella ipotesi di immunità di cui all’art. 68, primo comma, della Costituzione.

Ha premesso, in fatto, il Giudice ricorrente che, con la anzidetta querela, presentata il 14 ottobre 2006, il dott. De Michelis di Slonghello, già Ambasciatore della Repubblica, lamentava il fatto che il senatore Stracquadanio, nel libro “Le mani rosse sull’Italia”, posto in vendita come supplemento al quotidiano “Libero” e diffuso anche tramite Internet, al capitolo 4, dal medesimo redatto, intitolato “Il depistaggio”, nel paragrafo dal titolo “Le spie sovietiche e i loro compiti”, aveva inserito il suo nome tra le spie assoldate in Italia dal KGB e che tale notizia sarebbe stata tratta dal noto dossier Mitrokin, dove la sua persona sarebbe individuabile con il nome in codice “List” al report “54”. Identificazione, questa, che, secondo il querelante, rappresenterebbe circostanza non vera e comunque non accertata, come emergerebbe da vari documenti allegati alla querela e come già emerso in sede di accertamento definitivo da parte della autorità giudiziaria italiana. Sulla base di tali atti veniva esercitata l’azione penale, con richiesta di rinvio a giudizio, per il reato di diffamazione aggravata col mezzo della stampa, nei confronti del senatore Stracquadanio, nonché del direttore del quotidiano “Libero,” Alessandro Sallusti, e dei curatori della collana cui il libro appartiene, onorevole Renato Brunetta (autore dell’introduzione del libro) e Vittorio Feltri (autore della prefazione). Nei confronti del senatore Stracquadanio e dell’onorevole Brunetta veniva disposta la separazione dei rispettivi procedimenti, in attesa delle determinazioni della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari del Senato della Repubblica, nonché della Commissione giuridica del Parlamento Europeo, avendo entrambi i parlamentari invocato l’applicabilità dell’art. 68, primo comma, della Costituzione.

Dopo aver sottolineato la sussistenza dei requisiti di ammissibilità del ricorso per conflitto, alla luce della giurisprudenza di questa Corte, e rammentati i principi ivi enunciati in tema di garanzia di immunità sancita dall’art. 68, primo comma, Cost. – in particolare laddove si è affermato che le opinioni espresse e gli atti compiuti dai parlamentari «siano identificabili come espressione dell’esercizio funzionale, a tanto non essendo sufficiente né la comunanza di argomenti, né il mero contesto politico cui possano riferirsi» –; e dopo aver manifestato l’intento «di sollevare conflitto di attribuzione quanto meno al fine di togliere ogni dubbio sulla sussistenza o meno del nesso funzionale tra dichiarazioni e attività parlamentare», il ricorrente sottolinea come il caso di specie presenti «alcune peculiarità».

Nel segnalare, infatti, come lo scritto del quale il querelante si duole sia basato sulle valutazioni di attendibilità del dossier Mitrokin rassegnate nella relazione di maggioranza della apposita Commissione parlamentare – ben diversa essendo stata la valutazione conclusiva della relazione di minoranza –, rileva il ricorrente come nella specie «l’avere indicato il querelante tra le spie è un fatto che non può essere considerato alla stregua di una opinione espressa nell’esercizio delle funzioni di parlamentare; si tratta di attribuire ad un Ambasciatore una attività ed una qualifica assolutamente indegna oltre che penalmente rilevante». Si domanda, quindi, «se, di fronte a un sì forte attentato al bene della dignità personale, l’immunità parlamentare sia o no preminente anche di fronte a notizie non vere e comunque non dimostrate (allo stato del procedimento) come vere».

Ripercorsa, quindi, la gamma delle acquisizioni inerenti la vicenda oggetto di querela, e analizzata dettagliatamente la portata dei rilievi svolti nel parere rassegnato alla Assemblea dalla Giunta delle elezioni e delle immunità del Senato della Repubblica, il Giudice ricorrente sottolinea come, nella vicenda oggetto del procedimento, non sia ravvisabile alcun nesso funzionale «tra la funzione di parlamentare del senatore Stracquadanio e l’attribuzione di un fatto determinato (essere una spia al servizio del KGB) a un funzionario pubblico con attività diplomatica sì rilevante», come quella svolta dal querelante ad Algeri, né sarebbe comprensibile quale possa essere «l’opinione espressa», giacché nel caso in esame «non si tratta neppure di un soggetto che svolge attività politica ma di un funzionario ormai in pensione». La circostanza, poi, pure dedotta dalla Giunta, che il riferimento al De Michelis possa intendersi come attività divulgativa dei risultati raggiunti dalla Commissione parlamentare sul caso Mitrokin, sarebbe «argomento non dirimente», considerato che gli atti della Commissione sono pubblici ed era tutt’altro che pacifica la identificazione dello stesso De Michelis nella persona indicata come il “LIST del report 54”.

Il petitum conclusivamente rassegnato è dunque quello di dichiarare che «non spettava al Senato della Repubblica affermare che i fatti per i quali è in corso il procedimento concernono opinioni espresse dal sen. Giorgio Stracquadanio nell’esercizio delle sue funzioni ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione», con conseguente annullamento della relativa deliberazione.

2. – Con ordinanza n. 174 del 13 maggio 2010, questa Corte ha, per quel che qui interessa, dichiarato ammissibile il conflitto proposto nei confronti del Senato della Repubblica, disponendo i conseguenti adempimenti, funzionali al passaggio alla fase del merito.

La Cancelleria ha dato al ricorrente comunicazione dell’ordinanza a mezzo posta, con raccomandata spedita il 14 maggio 2010, che risulta pervenuta il successivo 17 maggio 2010.

Il ricorso e l’ordinanza risultano notificati al Senato della Repubblica in data 14 luglio 2010.

Il ricorso, con la prova dell’avvenuta notificazione, è stato depositato l’11 agosto 2010.

Lo stesso 11 agosto 2010 il Senato della Repubblica ha depositato la propria memoria di costituzione.

3. – Nella memoria di costituzione il Senato della Repubblica ha conclusivamente domandato che questa Corte dichiari improcedibile e comunque infondato il ricorso.

Il Senato, in particolare, rievoca il contenuto della relazione presentata all’Assemblea dalla Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari con la proposta di deliberare la insindacabilità, ex art. 68, primo comma, Cost., delle opinioni espresse dall’onorevole Stracquadanio, oggetto del procedimento penale nell’ambito del quale è stato sollevato il conflitto. Sottolinea, in proposito, come in tale relazione fosse stato messo in evidenza il fatto che l’onorevole Stracquadanio risultasse tra i firmatari di un’interrogazione parlamentare (n. 3-00439, pubblicata il 28 febbraio 2007), caratterizzata da una sostanziale identità di contenuto rispetto alla dichiarazione oggetto del procedimento penale, riguardando proprio la attività di indagine della Commissione parlamentare sul cosiddetto dossier Mitrokin. Ciò confermava, dunque, l’esistenza del nesso funzionale «anche tenendo conto che si tratta di una interrogazione depositata in un momento chiaramente successivo a quello della pubblicazione delle dichiarazioni contestate», posto che la prerogativa di cui all’art. 68 Cost. deve ritenersi sussistente «in tutte le occasioni in cui il parlamentare raggiunga il cittadino illustrando la propria posizione». Ciò che peraltro più rileva sarebbe il fatto che, come emerge dalla stessa relazione, l’allora senatore Stracquadanio aveva posto in essere un comportamento «preordinato alla diffusione di testi ufficiali del Parlamento italiano», giacché risulta dallo stesso documento conclusivo sulla attività svolta dalla Commissione Mitrokin la circostanza che fra i soggetti “coltivati” dal KGB figurasse proprio «De Michelis di Slonghello Giuseppe, funzionario del Dipartimento politico del Ministero degli affari esteri (report 54)». Da ciò, dunque, la conclusione della relazione della Giunta di ritenere sussistente il nesso funzionale ai fini della pronuncia di insindacabilità, essendo «infatti necessario intendere le dichiarazioni rese dall’allora senatore Giorgio Stracquadanio come divulgative dei risultati dell’attività istituzionale della Commissione parlamentare d’inchiesta Mitrokin». Proposta che venne poi approvata dalla Assemblea del Senato della Repubblica nella seduta del 12 febbraio 2009.

Rievocati, poi, i rilievi svolti dal ricorrente, il Senato eccepisce, preliminarmente, la improcedibilità del ricorso, in quanto non sarebbe stato rispettato il termine di sessanta giorni fissato dalla Corte per la notifica del ricorso medesimo e della ordinanza di ammissibilità. Da tale ordinanza, infatti, risulta che la cancelleria doveva provvedere a comunicare il provvedimento al Giudice nella medesima data, sicché – puntualizza la memoria del Senato – «qualora il destinatario avesse ricevuto la suddetta comunicazione lo stesso giorno, il termine di sessanta giorni sarebbe venuto a scadenza in data 12 luglio 2010». Essendo invece la notifica avvenuta il 14 luglio, era onere del Giudice ricorrente fornire la prova di aver ricevuto la comunicazione della cancelleria di questa Corte in una data corrispondente o successiva al 15 maggio 2010. Si domanda, dunque, che la Corte accerti l’avvenuto rispetto del termine e, ove lo stesso risultasse spirato, dichiari improcedibile il ricorso.

Nel merito, il ricorso sarebbe infondato. Le doglianze del ricorrente, infatti, tutte volte a contestare la attendibilità dei fatti risultanti nel documento della Commissione parlamentare sul dossier Mitrokin, risulterebbero inconferenti agli effetti del conflitto fra poteri dello Stato, riguardando, semmai, esclusivamente il procedimento penale pendente davanti al ricorrente, nella sola ipotesi in cui non ricorresse la pregiudiziale prerogativa della insindacabilità. Il ricorrente, d’altra parte, non è stato in grado di contestare la correttezza della delibera approvata dalla Assemblea, circa il fatto che le opinioni espresse dall’ex senatore Stracquadanio costituissero riproduzione testuale dei risultati della Commissione Mitrokin. Né può sussistere dubbio alcuno che tale documento rappresentasse atto tipico, espressione di un organismo parlamentare, a prescindere dal merito dei relativi contenuti e della relativa attendibilità. Da qui la infondatezza delle doglianze mosse dal ricorrente, avuto riguardo alla piena ritualità della deliberazione di insindacabilità delle opinioni espresse dal parlamentare, in quanto divulgative della attività istituzionale svolta dalla cosiddetta “Commissione Mitrokin” .

4. – Il 18 gennaio 2011 il Senato della Repubblica ha depositato una nuova memoria, nella quale, dopo aver dato atto della tempestività degli adempimenti successivi alla pronuncia della ordinanza di questa Corte che ha dichiarato ammissibile il conflitto, e della conseguente infondatezza dei dubbi prospettati nella memoria di costituzione in giudizio circa la eventuale improcedibilità del conflitto, ha ribadito la infondatezza delle doglianze proposte dalla autorità giudiziaria confliggente, sottolineando come le censure si limitino, nella sostanza, a dedurre la inattendibilità delle conclusioni cui è pervenuta la Commissione “Mitrokin”: circostanza, questa, in ipotesi significativa ai fini del giudizio di merito, ma inconferente agli effetti del conflitto proposto.

Quanto, poi, alla sussistenza dei presupposti per la operatività, nella specie, della correttezza della delibera di insindacabilità pronunciata dal Senato a norma dell’art. 68, primo comma, Cost., la memoria ribadisce, anzitutto, il carattere meramente riproduttivo dei risultati della attività svolta dalla Commissione “Mitrokin”, addirittura sul piano della corrispondenza testuale tra il documento conclusivo della Commissione e le espressioni contestate al senatore Stracquadanio.

Sussisterebbe, poi, il legame temporale tra la pubblicazione del volume “Le mani rosse sull’Italia”, contenente le dichiarazioni del parlamentare, e la presentazione del Documento conclusivo dei lavori della Commissione “Mitrokin”, giacché il primo è successivo al secondo di soli cinque mesi: tenuto conto del fatto che il 9 ed il 10 marzo di quello stesso anno (2006) si sono tenute le elezioni politiche (con conseguente scadenza della XIV Legislatura), sarebbe ragionevole ritenere – sottolinea la memoria del Senato – che il sen. Stracquadanio, «in un momento immediatamente successivo alla scadenza della Legislatura nella quale si erano appena conclusi i lavori della Commissione d’inchiesta, abbia provveduto a “divulgare” gli esiti per come risultanti testualmente nel “Documento conclusivo” depositato agli atti parlamentari».

A proposito, poi, della circostanza che il sen. Stracquadanio non facesse parte della Commissione “Mitrokin” e che pertanto non potesse essere considerato “autore” del documento conclusivo, il Senato osserva come la natura delle Commissioni parlamentari di inchiesta istituite a norma dell’art. 82 della Costituzione, comporti, anche alla luce della giurisprudenza costituzionale formatasi sul punto, che la relativa attività istituzionale non possa essere considerata riferibile ai singoli membri della Commissione, ma alla Camera di appartenenza o ad entrambe le Camere, a seconda che si tratti di commissione mono o bicamerale. Nei relativi documenti, dunque, non potranno rinvenirsi opinioni riferibili a singoli parlamentari, essendo esse imputabili alla Camera o alle Camere cui la Commissione si riferisce. A parere del Senato, infatti, i risultati finali della inchiesta entrano nella «piena e permanente disponibilità delle Camere – dunque, di ciascuno dei loro membri – e, pertanto, non possono essere considerati alla stregua di fatti storici cronologicamente riferibili a una data determinata (tanto più nel periodo successivo immediatamente più prossimo alla produzione di quei risultati), né subire le “cesure” delle attività parlamentari connesse con la scadenza delle Legislature». Da qui la correttezza della delibera di insindacabilità adottata dal Senato, trattandosi nella specie di divulgazione del contenuto di atti riferibili alle Camere nel loro complesso e, come tali, dunque, anche al sen. Stracquadanio.

D’altra parte – conclude la memoria – ove il Senato avesse deciso diversamente , avrebbe, di fatto, consentito al Giudice ricorrente di trattare i risultati della Commissione parlamentare alla stregua di «comuni manifestazioni del pensiero ai sensi dell’art. 21 Cost., rendendo possibile un inammissibile sindacato giurisdizionale sui lavori della Commissione parlamentare d’inchiesta e sull’attendibilità e la veridicità delle conclusioni da questa raggiunte».

Considerato in diritto

1. – Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze solleva conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica, in riferimento alla deliberazione, assunta il 12 febbraio 2009, con la quale l’Assemblea, nell’approvare la proposta formulata dalla Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari (doc. IV-ter, n. 12), ha stabilito che le dichiarazioni rese dal senatore Giorgio Stracquadanio – ed in relazione alle quali pende a suo carico procedimento penale davanti al Giudice ricorrente per il reato di diffamazione aggravata commessa col mezzo della stampa a seguito di querela proposta dal dott. Giuseppe De Michelis di Slonghello – costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, ricadendo, pertanto, nella garanzia della insindacabilità prevista dall’art. 68, primo comma, della Costituzione.

A parere del Giudice ricorrente non sussisterebbe, infatti, nel caso di specie, alcun nesso funzionale tra la funzione parlamentare e l’attribuzione alla persona offesa del fatto determinato su cui si radica il procedimento penale, non potendo i fatti e le espressioni in contestazione intendersi come attività divulgativa di specifici atti svolti dall’imputato come parlamentare, non potendosi a tal fine evocare i risultati raggiunti dalla Commissione parlamentare istituita sul caso Mitrokin. Da ciò la denuncia di conflitto per menomazione della propria sfera di attribuzioni costituzionalmente presidiate, con la conseguente richiesta di declaratoria di non spettanza delle attribuzioni esercitate dal Senato della Repubblica in riferimento alla deliberazione di cui si è detto, e della quale si domanda, conseguentemente, l’annullamento.

A tale prospettazione resiste il Senato della Repubblica, deducendo che il senatore Stracquadanio risultava tra i firmatari di una interrogazione parlamentare (n. 3-00439, pubblicata il 28 febbraio 2007), nella quale si ravviserebbe una sostanziale identità di contenuti rispetto alle dichiarazioni oggetto del procedimento penale, riguardando tale atto di sindacato parlamentare proprio la attività di indagine compiuta dalla Commissione parlamentare sul cosiddetto dossier Mitrokin. L’attività contestata allo Stracquadanio, ha ancora dedotto il Senato, si inquadrerebbe, dunque, in una mera divulgazione dei risultati cui è pervenuta l’indicata Commissione parlamentare, che, come tali – ha osservato il Senato – rientrano nella «piena e permanente disponibilità delle Camere – dunque, di ciascuno dei loro membri», così da giustificare la delibera di insindacabilità oggetto di ricorso, proprio perché la condotta ascritta al parlamentare sarebbe nella specie coincisa con la divulgazione del contenuto di atti riferibili alla Camera nel suo complesso.

2. – Preliminarmente, deve essere confermata l’ammissibilità del conflitto, sussistendone i presupposti soggettivi ed oggettivi, come già ritenuto da questa Corte nell’ordinanza n. 174 del 2010.

3. – Nel merito il ricorso è fondato.

L’individuazione dei confini entro i quali opera la garanzia della insindacabilità delle opinioni espresse dai parlamentari nell’esercizio delle proprie attribuzioni, sancita dall’art. 68, primo comma, della Costituzione, postula la necessità di tracciare, quale naturale linea di displuvio, la risultante che scaturisce dal bilanciamento tra due contrapposte esigenze, entrambe di rango costituzionale: vale a dire, da un lato, quella di tutelare l’autonomia e le libertà delle Camere e, per esse, dei suoi appartenenti, e, dall’altro, di garantire il concreto esercizio dei diritti e degli interessi dei terzi, suscettibili di essere compromessi dalle dichiarazioni dei parlamentari, fra i quali, in particolare, il fondamentale valore della dignità della persona, salvaguardato come diritto inviolabile, tanto dall’art. 2 della Costituzione, che dall’art. 1 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, i cui princípi sono stati recepiti dall’art. 6 del Trattato sull’Unione europea. Da qui la delimitazione rigorosamente “funzionale” dell’ambito della prerogativa della insindacabilità, suscettibile di trasformarsi, altrimenti, in un privilegio di carattere personale. Da ciò l’assunto secondo il quale, nel normale svolgimento della vita democratica e del dibattito politico, le opinioni che il parlamentare esprima fuori dai compiti e dalle attività propri delle assemblee o degli organismi in cui può articolarsi l’attività parlamentare, rappresentano l’esercizio della libertà di espressione comune a tutti i consociati, con l’ovvia conseguenza che il nesso funzionale da riscontrarsi, per poter ritenere sussistente la garanzia della insindacabilità, tra la dichiarazione divulgativa extra moenia e l’attività parlamentare propriamente intesa, non può essere visto come un semplice collegamento di argomento o di contesto politico fra l’una e l’altra, ma come identificabilità della dichiarazione quale espressione della attività parlamentare, postulandosi anche, a tal fine, una sostanziale contestualità tra i due momenti, a testimonianza dell’unitario alveo “funzionale” che le deve, appunto, correlare (fra le tante, sentenze n. 301 e n. 10 del 2010; n. 420 e n. 97 del 2008).

A simili approdi ricostruttivi, d’altra parte, è pure pervenuta la giurisprudenza formatasi sul punto da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, in varie circostanze investita proprio del tema della insindacabilità delle opinioni espresse da parlamentari, in riferimento alla contrapposta facoltà delle persone in ipotesi coinvolte da quelle opinioni di esercitare i propri diritti davanti ad un organo giurisdizionale. La Corte di Strasburgo ha infatti rilevato come rappresenti prassi generalizzata quella che gli Stati riconoscano una immunità, più o meno ampia, ai membri del Parlamento, per consentire la libera espressione delle opinioni e dei voti ai rappresentanti del popolo ed impedire che azioni giudiziarie partigiane (poursuites partisanes, nel testo in francese della pronuncia) possano ledere la funzione parlamentare. Dunque, ha soggiunto la Corte, la previsione dettata dall’art. 68, primo comma, della Costituzione italiana persegue scopi legittimi, quali, in particolare, la tutela del libero dibattito parlamentare ed il mantenimento della separazione dei poteri legislativo e giudiziario. Secondo la Corte di Strasburgo, tuttavia, la assenza di un legame evidente con un’attività parlamentare esige una interpretazione ristretta del concetto di proporzionalità tra lo scopo prefissato ed i mezzi impiegati, specie quando le limitazioni al diritto di agire in giudizio derivino da una deliberazione di un organo politico. Giungere ad una conclusione diversa – ha infatti sottolineato la stessa Corte – equivarrebbe a limitare in modo incompatibile con l’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione il diritto di accesso alla giustizia dei privati, ogniqualvolta i discorsi oggetto della azione giudiziaria siano stati pronunciati da un membro del Parlamento (sentenza 27 gennaio 2009, C.G.I.L. e Cofferati contro Italia e le altre pronunce ivi citate).

4. – Ebbene, nel resistere al ricorso – e come già si è fatto cenno – il Senato evoca, quale atto “tipico” che fungerebbe da “copertura” per la insindacabilità delle affermazioni contenute negli scritti dell’allora senatore Stracquadanio, la interrogazione n. 3-00439 presentata il 28 febbraio 2007 da Paolo Guzzanti ed altri (fra i quali lo Stracquadanio) al Ministro dell’interno, nella quale si stigmatizzava il «selvaggio linciaggio mediatico nei confronti dell’ex Presidente della Commissione Mitrokin» e coinvolgente anche l’ex consulente della stessa Commissione, Mario Scaramella. Tale assunto è ovviamente alla base della relazione della Giunta delle elezioni e delle immunità del Senato, con la quale fu proposta la delibera di insindacabilità, poi approvata dalla Assemblea del Senato. La Relazione – va osservato – si fa carico anche del problema relativo allo iato temporale che separa fra loro la pubblicazione delle espressioni ritenute offensive, che risale all’agosto 2006, e la iniziativa parlamentare di cui si è detto, addirittura successiva di vari mesi. Sul punto, osserva la Relazione, che, nella specie, «non sarebbe infatti opponibile l’obiezione, a carattere temporale, attinente al momento in cui l’interrogazione è stata depositata, chiaramente successivo a quello della pubblicazione delle dichiarazioni oggetto di contestazione», in quanto dovrebbe auspicarsi l’accoglimento della tesi, già in varie occasioni espressa dal Senato, secondo la quale occorrerebbe pervenire ad un «”salto interpretativo” volto a ritenere sussistente il nesso funzionale “in tutte le occasioni in cui il parlamentare raggiunga il cittadino, illustrando la propria posizione”». L’assunto è però contraddetto dalla costante giurisprudenza di questa Corte, la quale ha sempre escluso che possano fungere da elementi di riferimento, agli effetti della garanzia della insindacabilità di cui all’art. 68, primo comma, Cost., atti compiuti dal parlamentare in epoca successiva alle dichiarazioni extra moenia (fra le tante, sentenze n. 134 del 2008; n. 371 e n. 335 del 2006). D’altra parte, risulterebbe davvero eccentrico evocare il concetto di «divulgazione» – nel quadro, anche, di quanto previsto dall’art. 3 della legge n. 140 del 2003 – ove la relativa attività, «espletata anche fuori del Parlamento», si realizzasse in un momento antecedente alla opinione espressa dal parlamentare nell’esercizio delle funzioni tipiche.

Ma, anche a voler prescindere da tali pur assorbenti rilievi, resta il dato – parimenti dirimente – rappresentato dalla assoluta inconferenza dei temi trattati nella interrogazione parlamentare di cui si è detto, rispetto a quanto specificamente contenuto nella pubblicazione oggetto del procedimento penale per diffamazione, promosso nei confronti del sen. Stracquadanio. Questa pubblicazione, infatti, verte sulle risultanze scaturite dai lavori della Commissione “Mitrokin” e sull’inserimento della persona offesa nel novero delle «spie assoldate in Italia dal KGB»; l’interrogazione verte, invece, sugli attacchi giornalistici riguardanti il Presidente della Commissione stessa e le polemiche che avevano coinvolto un consulente della Commissione parlamentare. Tra i due atti, dunque, non v’è, a ben guardare, neppure quella semplice comunanza di tematiche che, pure, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non basta a fondare il “nesso funzionale” su cui si radica la garanzia della insindacabilità.

5. – Nella più recente memoria, il Senato sembra correggere il tiro delle proprie difese, facendo leva sul fatto che la pubblicazione incriminata altro non rappresenterebbe che una semplice divulgazione di atti ufficiali del Parlamento, ed in particolare del Documento conclusivo rassegnato dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul “dossier Mitrokin”, sottolineando come la circostanza che lo Stracquadanio non facesse parte della Commissione parlamentare e, quindi, che quel documento non fosse al medesimo riferibile, doveva ritenersi inconferente agli effetti della garanzia della insindacabilità, giacché quell’atto, promanando da un organismo parlamentare, doveva ritenersi riferibile al Parlamento nel suo complesso, e dunque, anche al senatore Stracquadanio.

Si tratta, però, di un assunto tutt’altro che persuasivo, posto che «l’opinione» garantita dalla insindacabilità, a norma dell’art. 68, primo comma, Cost. – come questa Corte ha costantemente affermato – è quella propria del singolo parlamentare per come espressa negli atti funzionali che egli compie, e non quella – generale ed impersonale – che può trarsi dagli atti riferibili al Parlamento nel suo complesso o a sue articolazioni. La dimostrazione di ciò, d’altra parte, è offerta proprio dall’argomento “per assurdo” che svolge lo stesso Senato nella memoria più recente, laddove afferma che – opinando diversamente – nel divulgare atti del Parlamento, il sen. Stracquadanio sarebbe trattato alla stregua di un quisquis de populo, chiamato ad esprimere «comuni manifestazioni del pensiero ai sensi dell’art. 21 Cost». La divulgazione, eventualmente critica, di atti o lavori parlamentari non inerenti alle proprie, dirette funzioni, può inquadrarsi, infatti, nella normale attività di critica politica che il parlamentare è libero di svolgere al pari di qualunque cittadino, senza fruire, peraltro, di specifiche clausole di immunità che finirebbero per coinvolgere e compromettere – senza una specifica relazione con la logica di garanzia sottesa all’art. 68, primo comma, Cost. – i diritti dei terzi a veder tutelata in sede giurisdizionale la propria immagine e la propria onorabilità.

Sussistono, dunque, gli estremi per ritenere fondato il ricorso proposto dalla autorità giudiziaria di Firenze, con la conseguente declaratoria di non spettanza al Senato di deliberare la insindacabilità delle opinioni espresse dal sen. Stracquadanio in riferimento ai fatti per i quali è processo, e l’annullamento della deliberazione di che trattasi.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara che non spettava al Senato della Repubblica affermare che le dichiarazioni rese da Giorgio Stracquadanio, senatore all’epoca dei fatti, per le quali pende procedimento penale dinanzi al Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Firenze, di cui al ricorso in epigrafe, costituiscono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione;

annulla, per l’effetto, la delibera di insindacabilità adottata dal Senato della Repubblica nella seduta del 12 febbraio 2009 (doc. IV-ter, n. 12)

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 marzo 2011.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI


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SENTENZA N. 83

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 250 del codice civile promosso dalla Corte d’appello – Sezione minori di Brescia nel procedimento vertente tra P. M. A. e M. R. con ordinanza del 19 marzo 2010, iscritta al n. 255 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 9 febbraio 2011 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.

Ritenuto in fatto

1.— La Corte di appello di Brescia, Sezione per i minorenni, con ordinanza depositata il 19 marzo 2010, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 30, 31 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 250 del codice civile.

2. — La Corte territoriale riferisce che il Tribunale per i minorenni di Brescia, con sentenza del 21 aprile – 13 maggio 2009, ha autorizzato R. M. a riconoscere il figlio minore D. P. «anche nel dissenso della madre di questi, P. M. A.», sul rilievo che a carico di R. M. non erano emersi elementi negativi tali da giustificare il rigetto della domanda, essendo egli immune da precedenti penali o di polizia ed avendo lavorato fino al 2003. Il detto Tribunale ha aggiunto che in data 7 agosto 2003 R. M. era stato inviato a controllo sanitario per avere manifestato propositi auto lesivi, e in tale sede gli erano state riscontrate soltanto ansia ed instabilità emotiva per l’incerta situazione sentimentale in cui versava, con diagnosi di reazione depressiva lieve; ha osservato, inoltre, che da quell’epoca egli non aveva praticato terapie farmacologiche, essendo stato escluso che fosse portatore di patologie psichiche.

Pertanto, il Tribunale ha concluso per la sussistenza di un interesse del minore al riconoscimento, anche al fine di assicurargli la presenza dell’altro genitore, tenuto a farsi carico di lui, essendo altresì carente la prova che l’iniziativa di R. M. avesse carattere strumentale, in quanto diretta a consentirgli di ingerirsi di nuovo nella vita della donna.

La rimettente prosegue esponendo che M. A. P. ha impugnato la sentenza, chiedendone la riforma e il rigetto della domanda. L’appellante ha negato, tra l’altro, che sussistesse un interesse del figlio ad essere riconosciuto da R. M., in quanto il bambino (all’epoca di anni sei) considerava il marito di lei come padre; quest’ultimo si era sempre occupato del minore ed ella, al momento del parto, non aveva potuto indicarlo come padre a causa «del violento intervento oppositivo di R. M.».

L’appellato ha resistito al gravame, del quale ha chiesto il rigetto, deducendo la sussistenza dei presupposti per autorizzare il riconoscimento.

Il procuratore generale ha chiesto l’accoglimento dell’impugnazione, ravvisando «un fatto impeditivo di importanza proporzionale al valore del diritto genitoriale sacrificato», in considerazione della particolare situazione del minore, che mai aveva visto o sentito parlare del presunto padre e che viveva attualmente sereno con la madre e il marito di costei.

La Corte di appello deduce, ancora, di avere chiesto alle parti di valutare la necessità dell’intervento in causa di un curatore a tutela degli interessi del bambino, ma ha aggiunto che tale iniziativa ha incontrato l’opposizione della madre, la quale ha sostenuto che egli non aveva la qualità di parte processuale, in conformità alla giurisprudenza della Corte di cassazione.

In questo quadro la rimettente, richiamato il disposto dell’art. 250 cod. civ., espone che, per principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, nel giudizio instaurato, ai sensi del quarto comma della citata norma, il figlio naturale, non ancora sedicenne, non assume la qualità di parte, sicché la nomina di un curatore speciale non è necessaria. Tuttavia, a suo avviso, se non può essere messo in dubbio che il diritto al riconoscimento del figlio naturale già riconosciuto costituisca per l’altro genitore un diritto soggettivo garantito dall’art. 30 Cost., è del pari innegabile che anche al minore degli anni sedici sia necessario riconoscere piena tutela, che può essere in concreto attuata soltanto se l’interessato sia autonomamente rappresentato e difeso in giudizio.

Si tratta di una posizione giuridica garantita dai principi costituzionali di protezione dell’infanzia, nonché da quelli del giusto processo e del diritto di difesa (artt. 24, 30, terzo comma, 31 e 111 Cost.), e, altresì, affermata nella Convenzione sui diritti del fanciullo, stipulata a New York il 20 novembre 1989 (ratificata e resa esecutiva con legge 27 maggio 1991, n. 176) e nella Convenzione di Strasburgo del 25 gennaio 1996 (ratificata e resa esecutiva con legge 2 marzo 2003, n. 77).

Il giudice a quo, poi, richiama altre ipotesi normative nelle quali il legislatore riconosce a garanzia del minore specifiche forme di difesa in giudizio o prevede la nomina di particolari figure a sua tutela (artt. 264, 321, 334, 336 cod. civ.), e rileva che, nel caso di specie, pur in presenza del contrasto tra la madre del bambino e il presunto padre, non si è provveduto alla nomina di un curatore speciale a tutela del minore né ad assicurare al medesimo un’autonoma difesa processuale, in quanto non ritenuto “parte” nel processo.

Pertanto, ritenuta la rilevanza della questione sulla base delle considerazioni svolte, dubita della legittimità costituzionale del menzionato art. 250 cod. civ., in riferimento ai parametri sopra indicati, nella parte in cui non prevede, per il figlio di età inferiore a sedici anni, «adeguate forme di “tutela” dei suoi preminenti personalissimi diritti, nella specie di autonoma rappresentazione e difesa in giudizio, diritti costituzionalmente garantiti».

3. — Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale, eccependo in primo luogo la manifesta inammissibilità della questione, perché basata su una ricostruzione parziale del quadro normativo e per avere omesso di verificare la possibilità di un’interpretazione conforme a Costituzione.

Ad avviso della difesa dello Stato, la norma censurata avrebbe delineato un sistema idoneo a tutelare gli interessi del minore, sia quando abbia compiuto i sedici anni, sia quando non abbia ancora raggiunto tale età. In particolare, in questa seconda ipotesi è previsto che per il riconoscimento sia necessario il consenso dell'altro coniuge, che esso non possa essere rifiutato se il riconoscimento stesso risponda all’interesse del figlio e che, in caso di consenso negato, la parte interessata possa avviare un apposito giudizio davanti al tribunale. Quest’ultimo decide con sentenza che, in caso di accoglimento della domanda, tiene luogo del consenso mancante, dopo aver sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone e con l’intervento del pubblico ministero.

Sarebbe vero che la norma nulla dice sulla nomina di un curatore speciale, ma ciò per il semplice motivo che l’ordinamento, con l’art. 78 del codice di procedura civile, disciplina in via generale la possibilità di nomina di un curatore, nell’ipotesi di soggetto incapace o in situazione di conflitto d’interessi.

Pertanto, nella specie non sussisterebbe una assoluta impossibilità di nominare un curatore speciale bensì la “non necessità” di tale nomina, salvo che, di volta in volta, il giudice non ravvisi una delle ipotesi per le quali l’art. 78 citato prevede la nomina del detto curatore.

Dalla stessa giurisprudenza di legittimità, richiamata nell’ordinanza di rimessione, sarebbe desumibile che, pur essendo acquisito che il minore infrasedicenne (del cui riconoscimento si tratti), in genere non sia parte del giudizio, «tale diviene quando vi sia stata la nomina di un curatore speciale ai sensi dell’art. 78, secondo comma, c.p.c., essendosi ovviamente presupposto un conflitto d’interessi tra minore e legale rappresentante di esso» (cioè il genitore che si oppone al riconoscimento ad opera dell’altro genitore naturale).

Del resto, prosegue la difesa erariale, già la Corte costituzionale, con sentenza n. 1 del 2002, affermò che la posizione del minore si configura come quella di “parte” nei procedimenti riguardanti i suoi diritti, con la necessità d’instaurare il contraddittorio nei suoi confronti, previa nomina, se del caso, di un curatore speciale ai sensi dell’art. 78 cod. proc. civ.

L’Avvocatura dello Stato, in via del tutto subordinata, deduce che le considerazioni svolte varrebbero a dimostrare la manifesta infondatezza della questione, con riferimento a tutti i parametri evocati.

Considerato in diritto

1. — La Corte di appello di Brescia, Sezione per i minorenni, con l’ordinanza indicata in epigrafe dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 250 del codice civile (quarto comma), nella parte in cui non prevede, per il figlio che non abbia ancora raggiunto i sedici atti di età, «adeguate forme di “tutela” dei suoi preminenti personalissimi diritti, nella specie di autonoma rappresentazione e difesa in giudizio, diritti costituzionalmente garantiti», in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 30, 31 e 111 della Costituzione.

2. — La Corte territoriale espone che, con sentenza depositata il 13 maggio 2009, il Tribunale per i minorenni di Brescia ha autorizzato R. M. a riconoscere come proprio figlio naturale un minore (all’epoca, di sei anni), nonostante il dissenso della madre del bambino, M. A. P., coniugata con altro uomo, che ella al momento del parto non aveva potuto indicare come padre per l’opposizione del detto R. M.

La donna ha impugnato la sentenza del Tribunale, chiedendone l’integrale riforma con il rigetto della domanda. Al gravame ha resistito il presunto padre, adducendo la sussistenza di tutti i presupposti per autorizzare il riconoscimento. Il procuratore generale ha chiesto l’accoglimento dell’impugnazione, ritenendo sussistente «un fatto impeditivo d’importanza proporzionale al valore del diritto genitoriale sacrificato», in considerazione della particolare situazione del minore che non aveva mai visto né sentito parlare del detto padre e che viveva sereno con la madre (della quale portava il cognome) e con il marito della stessa.

La Corte rimettente aggiunge di avere invitato le parti ad esprimersi sulla necessità dell’intervento in causa di un curatore, a tutela degli interessi del minore. A seguito di tale iniziativa R. M. ha espresso parere favorevole alla nomina di un curatore speciale, mentre la madre naturale si è pronunciata in senso contrario.

In questo quadro, la Corte di appello osserva che, nel giudizio instaurato ai sensi dell’art. 250, quarto comma, cod. civ. «è principio costantemente affermato dalla giurisprudenza di legittimità che il figlio naturale, non ancora sedicenne, non assuma la qualità di parte», onde non sarebbe necessaria la nomina di un curatore speciale; ed aggiunge che, se il diritto al riconoscimento del figlio naturale, già riconosciuto da un genitore, costituisce per l’altro genitore un diritto soggettivo garantito dall’art. 30 Cost., è innegabile che anche il minore di età inferiore a sedici anni, in caso di opposizione dell’altro genitore, abbia piena tutela dei suoi diritti ed interessi, tutela che può essere in concreto attuata soltanto se l’interessato sia «autonomamente rappresentato e difeso in giudizio». Ne deriva, ad avviso del giudice a quo, il dubbio sulla legittimità costituzionale della norma censurata, per la mancata previsione di tale rappresentanza e difesa.

3. — L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito che la questione sarebbe manifestamente inammissibile, perché basata su una ricostruzione parziale del quadro normativo e perché la Corte territoriale avrebbe omesso di verificare la possibilità di una interpretazione conforme a Costituzione.

L’eccezione non è fondata.

La rimettente ha richiamato un orientamento della giurisprudenza di legittimità, ritenuto consolidato, secondo cui il figlio naturale, non ancora sedicenne, non assumerebbe qualità di parte nel giudizio instaurato ai sensi dell’art. 250, quarto comma, cod. civ., sicché non sarebbe necessaria la nomina di un curatore speciale. Ciò, ad avviso della Corte bresciana, determinerebbe un deficit di tutela per i «suoi preminenti personalissimi diritti ed interessi», tutela attuabile soltanto se l’interessato sia autonomamente rappresentato e difeso in giudizio.

Così argomentando la Corte di appello, in modo implicito, ma chiaro, ha ritenuto non praticabile una interpretazione conforme a Costituzione e, quindi, è giunta alla conclusione che fosse necessario sollevare la presente questione di legittimità costituzionale. Ne deriva che l’eccepita inammissibilità resta esclusa.

4. — La questione non è fondata, nei sensi di seguito precisati.

È necessario prendere le mosse dal contesto normativo nel quale essa va collocata.

Al riguardo assume rilievo, in primo luogo, la Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176.

In particolare, detta Convenzione, per quanto qui rileva, nell’art. 1 stabilisce che per fanciullo si deve intendere ogni essere umano avente un’età inferiore a diciotto anni, salvo che abbia raggiunto prima la maturità in virtù della legislazione applicabile; nell’art. 3 dispone (comma 1) che in tutte le decisioni ad essi relative, comprese quelle di competenza dei tribunali, «l’interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente»; nell’art. 4 prescrive che gli Stati parti «si impegnano ad adottare tutti i provvedimenti legislativi, amministrativi ed altri, necessari per attuare i diritti riconosciuti dalla presente Convenzione»; nell’art. 12, comma 1, fa obbligo agli Stati parti di garantire al fanciullo capace di discernimento il diritto di esprimere liberamente la sua opinione su ogni questione che lo interessa e, nel comma 2, aggiunge che «A tal fine, si darà in particolare al fanciullo la possibilità di essere ascoltato in ogni procedura giudiziaria o amministrativa che lo concerne, sia direttamente, sia tramite un rappresentante o un organo appropriato, in maniera compatibile con le regole di procedura della legislazione nazionale».

All’atto ora menzionato segue la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei fanciulli, fatta a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 20 marzo 2003, n. 77. Essa, nell’art. 1, comma 2, chiarisce di essere diretta «a promuovere, nell’interesse superiore dei fanciulli, i diritti degli stessi, a concedere loro diritti procedurali ed agevolarne l’esercizio; vigilando affinché possano, direttamente o per il tramite di altre persone od organi, essere informati ed autorizzati a partecipare alle procedure che li riguardano dinnanzi ad una autorità giudiziaria»; con l’art. 4, comma 1, attribuisce al minore, quando il diritto interno priva i detentori delle responsabilità genitoriali della possibilità di rappresentarlo a causa di un conflitto d’interessi, il diritto di richiedere, personalmente o tramite altre persone od organi, la designazione di un rappresentante speciale nei procedimenti che lo riguardano dinanzi ad un’autorità giudiziaria; con l’art. 9, comma 1, stabilisce che, nei procedimenti riguardanti un minore, quando in virtù del diritto interno i detentori delle responsabilità genitoriali si vedono privati della facoltà di rappresentare il minore a causa di un conflitto d’interessi, l’autorità giudiziaria ha il potere di designare un rappresentante speciale che lo rappresenti in tali procedimenti.

Vanno, poi, citate le disposizioni di diritto interno (alcune delle quali richiamate anche nell’ordinanza di rimessione), che riconoscono al minore una diretta tutela per i suoi diritti.

In particolare: l’art. 155-sexies cod. civ., aggiunto dall’art. 1 della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), stabilisce nel comma 1 che il giudice, prima dell’emanazione anche in via provvisoria dei provvedimenti di cui all’art. 155 cod. civ., dispone l’audizione del figlio minore che abbia compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore, ove capace di discernimento.

Al riguardo la Corte di cassazione a Sezioni unite, con sentenza n. 22238 del 2009, ha affermato che costituisce violazione del principio del contraddittorio quale connotato del giusto processo, il mancato ascolto del minore non sorretto da espressa motivazione sull’assenza di discernimento che può giustificarne l’omissione. Ciò in quanto il minore è portatore d’interessi contrapposti e diversi da quelli del genitore in sede di affidamento e diritto di visita, e, per tale profilo, è qualificabile come parte in senso sostanziale.

Inoltre: l’art. 244, comma quarto, cod. civ. concernente i termini per l’azione di disconoscimento della paternità, prevede che detta azione può essere promossa da un curatore speciale nominato dal giudice, su istanza del figlio minore che ha compiuto i sedici anni, o del pubblico ministero quando si tratta di minore di età inferiore (si veda anche l’art. 247, comma secondo, cod. civ); l’art. 264, comma secondo, cod. civ., in tema di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicità, stabilisce che il giudice, con provvedimento in camera di consiglio su istanza del pubblico ministero o del tutore o dell’altro genitore che abbia validamente riconosciuto il figlio o del figlio stesso che abbia compiuto il sedicesimo anno di età, può dare l’autorizzazione per impugnare il riconoscimento, nominando un curatore speciale.

Analogo potere di nomina è attribuito al giudice, ricorrendone le condizioni, in tema di dichiarazione giudiziale della paternità e della maternità naturale, dagli artt. 273, primo comma, e 279, terzo comma, cod. civ.; del pari, in materia di legittimazione di figli naturali, l’art. 284, primo comma, n. 4, cod. civ. prevede la nomina di un curatore speciale ed altri casi sono contemplati dalle disposizioni riguardanti l’esercizio della potestà genitoriale (artt. 320 – 321 cod. civ.) o l’esercizio della tutela (art. 360 cod. civ.).

Una menzione a parte merita, infine, l’art. 336 cod. civ., che disciplina la procedura per l’adozione dei provvedimenti in tema di potestà dei genitori e nel quarto comma prevede che i genitori stessi e i minori siano assistiti da un difensore. Come già notato da questa Corte (sentenze n. 179 del 2009 e n. 1 del 2002), dal coordinamento tra l’art. 12 della Convenzione di New York, e l’art. 336, comma quarto, cod. civ. si desume che, nelle procedure disciplinate da tale norma, sono parti non soltanto entrambi i genitori ma anche il minore, con la necessità del contraddittorio nei suoi confronti, previa nomina, se del caso, di un curatore speciale, ai sensi dell’art. 78 del codice di procedura civile.

5. — In questo quadro, l’interpretazione sistematica e coordinata delle norme richiamate nel paragrafo che precede impone di pervenire alla conclusione che, anche per la fattispecie prevista dall’art. 250, quarto comma, cod. civ., il giudice, nel suo prudente apprezzamento e previa adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, possa procedere alla nomina di un curatore speciale, avvalendosi della disposizione dettata dal citato art. 78 cod. proc. civ., che, come risulta dall’elencazione effettuata dianzi (peraltro, meramente esemplificativa), non ha carattere eccezionale, ma costituisce piuttosto un istituto che è espressione di un principio generale, destinato ad operare ogni qualvolta sia necessario nominare un rappresentante all’incapace.

Invero, già la norma in questa sede censurata stabilisce che debba essere sentito il minore in contraddittorio con il genitore che si oppone al riconoscimento (salvo che, per ragioni di età o per altre circostanze da indicare con specifica motivazione, il minore stesso non sia in grado di sostenere l’audizione). Tale adempimento, la cui importanza emerge dalla citata normativa convenzionale, dimostra che il minore infrasedicenne, nella vicenda sostanziale e processuale che lo riguarda, costituisce un centro autonomo di imputazione giuridica, essendo implicati nel procedimento suoi rilevanti diritti e interessi, in primo luogo quello all’accertamento del rapporto genitoriale con tutte le implicazioni connesse.

Ne deriva che al detto minore va riconosciuta la qualità di parte nel giudizio di opposizione di cui all’art. 250 cod. civ. E, se di regola la sua rappresentanza sostanziale e processuale è affidata al genitore che ha effettuato il riconoscimento (artt. 317-bis e 320 cod. civ.), qualora si prospettino situazioni di conflitto d’interessi, anche in via potenziale, spetta al giudice procedere alla nomina di un curatore speciale. Il che può avvenire su richiesta del pubblico ministero, o di qualunque parte che vi abbia interesse (art. 79 cod. proc. civ.), ma anche di ufficio, avuto riguardo allo specifico potere attribuito in proposito all’autorità giudiziaria dall’art. 9, primo comma, della citata Convenzione di Strasburgo.

In tali sensi interpretato, il citato art. 250, quarto comma, cod. civ. si sottrae alle censure sollevate con l’ordinanza di rimessione, in relazione a tutti i parametri evocati.

Da ciò consegue la dichiarazione di non fondatezza della questione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 250 del codice civile, sollevata in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 30, 31 e 111 della Costituzione dalla Corte di appello di Brescia, Sezione per i minorenni, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, palazzo della Consulta, il 7 marzo 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 marzo 2011.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 84

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), promossi dal Giudice di pace di Lecce con ordinanza del 19 aprile 2010, dal Giudice di pace di Pontassieve con ordinanza dell’11 maggio 2010 e dal Tribunale per i minorenni di Lecce con ordinanza del 29 aprile 2010, rispettivamente iscritte ai nn. 206, 208 e 262 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 28 e 38, prima serie speciale, dell’anno 2010;

udito nella camera di consiglio del 26 gennaio 2011 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.

Ritenuto che, con ordinanza depositata il 19 aprile 2010, il Giudice di pace di Lecce ha sollevato – in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 25, 27, 97, 117 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’articolo 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello stranero), come introdotto dall’articolo 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica);

che il giudice a quo è chiamato a pronunciarsi in un procedimento penale a carico di M. A. K., imputato del reato di cui alla norma censurata, «per avere, quale cittadino straniero, fatto ingresso ed essersi trattenuto nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni del medesimo decreto legislativo e dell’art. 1 della legge n. 68/2007 essendo privo di valido titolo di soggiorno», reato commesso in Lecce il 4 marzo 2010;

che, come il rimettente riferisce, nel processo è stata acquisita la relazione di servizio relativa all’accertamento effettuato nella data predetta, il difensore ha rinunziato all’esame dei verbalizzanti, non ha richiesto alcuna prova contraria, «né ha dedotto la sussistenza di una causa di giustificazione o di esimenti», sicché l’imputato, clandestino privo di permesso o di carta di soggiorno, dovrebbe essere dichiarato colpevole del reato ascrittogli «se la norma non fosse sospetta di incostituzionalità», con conseguente rilevanza della questione sollevata;

che, inoltre, tale questione sarebbe non manifestamente infondata, alla luce dei parametri addotti;

che, in primo luogo, sussisterebbe violazione degli artt. 25 e 27 Cost. e, in particolare: 1) sarebbe violato il principio di offensività del reato, desumibile dai citati precetti costituzionali, in base al quale il reato deve sostanziarsi nell’offesa di uno specifico bene giuridico, non essendo concepibile un reato senza offesa, onde al legislatore sarebbe «preclusa l’introduzione, per finalità di mera deterrenza, di sanzioni che non si ricolleghino a fatti colpevoli, ma piuttosto a modi di essere ovvero ad una mera disobbedienza priva di disvalore (anche potenziale) per un determinato bene giuridico protetto», mentre con il cosiddetto reato di clandestinità sarebbe stata prevista l’incriminazione di condotte prive di idoneità ad offendere un bene giuridico, non essendo sostenibile che il clandestino, per il solo fatto della sua condizione, costituisca un pericolo per l’ordine pubblico; 2) sarebbe violato il principio di sussidiarietà dell’illecito penale, perché nel vigente ordinamento il ricorso alla sanzione penale sarebbe ammissibile soltanto come ultima ratio, «quando cioè la tutela del bene giuridico non possa essere raggiunta adeguatamente attraverso altri strumenti dell’ordinamento giuridico»; 3) sarebbero violati il principio di uguaglianza e il principio di personalità della responsabilità penale;

che, infatti, a) qualora l’autore dell’illecito sia espulso o respinto, il giudice, ai sensi del comma 5 della norma censurata, pronuncia sentenza di non luogo a procedere, ma l’esecuzione dei provvedimenti di espulsione e di respingimento sarebbe rimessa alla discrezionalità e alla disponibilità di mezzi dell’autorità amministrativa (essendo a tal fine irrilevanti la volontà e le azioni dello straniero), sicché «l’accertamento giurisdizionale di condotte identiche produce effetti diversi (sentenza di condanna o di non luogo a procedere) a causa di circostanze assolutamente estranee alla sfera di intervento degli imputati»; b) non sarebbe stata attribuita alcuna rilevanza alla presenza di giustificati motivi che abbiano determinato le condotte punite, a differenza di quanto previsto nell’analoga (e molto più grave) ipotesi delittuosa di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, con ingiustificata disparità di trattamento tra gli autori dei due reati, entrambi diretti a colpire la stessa situazione soggettiva (il clandestino o lo straniero divenuto clandestino). Sotto altro aspetto, il sistema introdotto dal legislatore del 2009 sarebbe in modo palese irrazionale, avendo generato un conflitto, sul piano logico e su quello pragmatico, tra le due fattispecie in questione. Invero, tutti i presupposti richiesti per l’emanazione del provvedimento del questore «in tanto avevano ragione di esistere in quanto non era previsto un reato di immigrazione o soggiorno clandestini e la sanzione penale era correlata alla sola violazione dell’ordine di allontanamento». Con la previsione della nuova figura di reato, a prescindere dall’esistenza di giustificati motivi, lo straniero sarebbe immediatamente sanzionato senza la sussistenza di alcuno dei presupposti richiesti per integrare la fattispecie di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998; c) non sarebbe ravvisabile alcuna ragione per precludere all’agente di estinguere il reato a lui ascritto mediante oblazione;

che, inoltre, sarebbe violato l’art. 117 Cost., con riferimento agli obblighi internazionali assunti dall’Italia in materia di trattamento dei migranti, con particolare riguardo al Protocollo addizionale della Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità organizzata transnazionale per combattere il traffico di migranti, sottoscritto nel corso della Conferenza di Palermo (12-15 dicembre 2000), e, segnatamente, agli artt. 5, 6 e 16 di esso;

che, ancora, sarebbe violato l’art. 3 Cost. per irragionevolezza della scelta legislativa rispetto agli istituti espulsivi di natura amministrativa, stante l’identità di ratio ed in carenza di qualsiasi fondamento giustificativo;

che, infatti, «l’ambito di applicazione della nuova fattispecie coincide perfettamente con quello della preesistente misura amministrativa dell’espulsione, sia sotto il profilo dei soggetti destinatari (stranieri entrati o trattenuti irregolarmente nel territorio dello Stato), sia sotto quello della ratio giustificativa», e ciò starebbe a significare che già era presente nell’ordinamento italiano uno strumento ritenuto idoneo al raggiungimento dello scopo;

che l’art. 3 Cost. sarebbe violato anche per «palese ed irragionevole disparità di trattamento sotto il profilo sanzionatorio», considerando la nuova fattispecie nel suo complesso, comprensivo non soltanto della pena dell’ammenda (da 5.000 a 10.000 euro), ma anche del divieto di sospensione condizionale della pena (conseguente alla individuazione della competenza in capo al giudice di pace) e della facoltà concessa allo stesso giudice di sostituire la pena pecuniaria con una sanzione più grave, qual è quella dell’espulsione dallo Stato per un periodo non inferiore a cinque anni (da un lato, la sanzione sostitutiva potrebbe essere comminata a soggetti condannati per reato non colposo ad una pena detentiva non superiore a due anni, in assenza delle condizioni per disporre la sospensione condizionale, dall’altro la medesima sanzione potrebbe colpire soggetti condannati alla sola pena pecuniaria, ai sensi dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, e successive modificazioni);

che, del resto, ad avviso del rimettente la detta sanzione sostitutiva «sarà la pena generalmente adottata dal giudice di pace, laddove non ricorrano le cause ostative di cui all’art. 14 co. 1, stante l’assoluta carenza di efficacia deterrente dell’ammenda prevista»;

che ulteriore violazione dell’art. 3 Cost., per irragionevole disparità di trattamento sotto il profilo sanzionatorio, sarebbe ravvisabile rispetto all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 e successive modificazioni, che prevede la punibilità dello straniero inottemperante all’ordine di allontanamento del questore, soltanto quando lo stesso si trattenga nel territorio dello Stato oltre il termine stabilito e “senza giustificato motivo”. Entrambe le condizioni non si ritroverebbero nella nuova figura criminosa, sicché, ad esempio, sarebbe sufficiente il venir meno per qualsiasi motivo del permesso di soggiorno per integrare un’ipotesi di trattenimento illecito, senza possibilità per l’interessato di addurre una giustificazione o di usufruire di un termine per potersi allontanare;

che, inoltre, demandando la cognizione a conoscere della nuova fattispecie al giudice di pace, risulterebbe disegnato un sistema sanzionatorio più gravoso di quello previsto per il più grave delitto, non essendo possibile né concedere la sospensione condizionale, né una riduzione di pena conseguente all’adozione di un rito alternativo (per il divieto di applicazione dei detti istituti al rito davanti al giudice di pace: artt. 2 e 60 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274, recante «Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468»);

che, al di là della irrazionale ed ingiustificata disparità di trattamento tra le due fattispecie criminose, entrambe tese a colpire la stessa situazione soggettiva (lo straniero clandestino ab origine o divenuto tale), esse sarebbero in contrasto sul piano logico e su quello pragmatico, perché tutti i presupposti richiesti per l’emanazione del provvedimento del questore avrebbero avuto ragione di esistere in quanto non fosse stato previsto un reato di immigrazione o soggiorno clandestini, mentre la sanzione penale era correlata alla sola violazione dell’ordine di allontanamento;

che, con l’introduzione della nuova figura dell’ingresso o del soggiorno illegali, a prescindere dall’esistenza di giustificati motivi, lo straniero sarebbe sanzionato in assenza di alcuno dei presupposti richiesti per l’integrazione del reato di cui al citato art. 14, comma 5-ter ;

che sarebbero ancora violati gli artt. 3 e 25, secondo comma, Cost., perché la norma censurata integrerebbe una fattispecie penale discriminatoria, in quanto fondata su particolari condizioni personali e sociali, anziché su fatti e comportamenti riconducibili alla volontà del soggetto attivo. Infatti la nuova fattispecie sanzionerebbe solo in apparenza una condotta (l’ingresso e l’omissione del mancato allontanamento), in realtà del tutto neutra agli effetti penali, mentre il vero oggetto dell’incriminazione sarebbe la mera condizione personale dello straniero, costituita dal mancato possesso di un titolo abilitativo all’ingresso e alla successiva permanenza nel territorio dello Stato, che sarebbe, poi, la situazione tipica del migrante economico ed anche una condizione sociale, cioè propria di una categoria di persone (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 78 del 2007);

che tale condizione sarebbe priva di rilievo sotto il profilo della pericolosità sociale e difficilmente riconducibile ad una condotta volontaria dello straniero migrante economico, la cui criminalizzazione, perciò, sarebbe in contrasto con il principio di uguaglianza e con la garanzia costituzionale «secondo cui si può essere puniti solo per fatti materiali (art. 25 co. 2 Cost.)»;

che sussisterebbe violazione anche dell’art. 2 Cost., perché lo spirito solidaristico di cui è “impregnata” la Carta costituzionale dovrebbe impedire l’adozione di misure puramente repressive per risolvere il problema dell’immigrazione (sono richiamati la sentenza di questa Corte n. 519 del 1995, che dichiarò l’illegittimità costituzionale del reato di mendicità, nonché alcuni diritti inviolabili dell’uomo, sanciti anche in atti internazionali, destinati ad essere compromessi dalla norma censurata);

che sarebbe altresì violato l’art. 97 Cost., perché la coesistenza di due sistemi diretti ad ottenere l’espulsione dello straniero sarebbe in contrasto con i principi di buon andamento e d’imparzialità dell’amministrazione;

che, infine, sarebbe violato l’art. 24 Cost., perché «L’8 agosto 2010, al momento dell’entrata in vigore dell’art. 10 bis del D.Lgs 286/1998 come introdotto dall’art. 1, co 16 L. 15.7.2009 n. 94, tutti gli stranieri irregolari che si trovavano in Italia erano in ipotesi sanzionabili con la contravvenzione ivi prevista se non si fossero spontaneamente allontanati dal territorio nazionale. Non è stato, infatti, previsto un termine ed una modalità operativa affinché detti soggetti potessero ottemperare al precetto legislativo con evidente contrasto con l’art. 24 comma 2 della Costituzione»;

che il Giudice di pace di Pontassieve, con ordinanza depositata l’11 maggio 2010, ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 25, 27, 97 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, come introdotto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge n. 94 del 2009;

che il rimettente premette di essere chiamato a pronunciare in un procedimento penale a carico di R. K., imputato del reato previsto e punito dall’art. 10-bis della citata normativa, perché «si tratteneva nel territorio dello Stato in violazione delle norme previste dal medesimo D. L.vo in quanto privo del permesso di soggiorno. Accertato in Rufina (FI) in data 23.12.2009»;

che il giudice a quo riferisce sullo svolgimento del processo e rileva che, nell’udienza all’uopo fissata, il pubblico ministero sollevava questione di legittimità costituzionale della norma censurata, cui si associava il difensore d’ufficio dell’imputato, quest’ultimo identificato a mezzo di passaporto albanese, ponendo l’accento sulla condotta tenuta dall’agente, in relazione alla quale la questione di legittimità sollevata avrebbe carattere pregiudiziale e rilevante ai fini della decisione;

che, quanto alla non manifesta infondatezza, il Giudice di pace di Pontassieve svolge argomentazioni identiche a quelle enunciate dal Giudice di pace di Lecce, alle quali, dunque, può farsi riferimento;

che il Tribunale per i minorenni di Lecce, con ordinanza depositata l’11 maggio 2010, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 27 e 117 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, come introdotto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge n. 94 del 2009, in un procedimento penale a carico di tre soggetti, di minore età, imputati del reato di cui alla norma censurata «per aver fatto ingresso nel territorio dello Stato Italiano in condizioni di clandestinità», in Castrignano del Capo il 5 settembre 2009;

che, ad avviso del rimettente, sarebbe violato l’art. 3 Cost., «sotto il profilo della irragionevolezza della scelta legislativa di sanzionare penalmente una condotta in tutto e per tutto coincidente, sotto il profilo soggettivo e sotto quello oggettivo, con quella per la quale l’art. 13 del suddetto D. L.vo n. 286 del 1998 commina la mera sanzione amministrativa dell’espulsione», allo scopo evidente di consentire, nel più breve tempo possibile l’allontanamento dell’immigrato clandestino sorpreso a varcare i confini dello Stato, come sarebbe dato desumere dalle previsioni che accedono alla norma incriminatrice;

che, inoltre, sarebbe violato l’art. 27 Cost., recante il principio del carattere personale della responsabilità penale;

che, infatti, la norma censurata determinerebbe l’esercizio dell’azione penale in ordine ad una condotta nella sostanza neutra, e non indicativa di una particolare pericolosità sociale dell’agente (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 78 e n. 22 del 2007), peraltro in presenza di un fatto difficilmente riconducibile a volontà illecita dell’agente, in genere non a conoscenza della normativa regolante l’ingresso dello straniero extracomunitario nei confini dello Stato italiano, sicché con la norma censurata si finirebbe per procedere a carico dell’immigrato per il solo fatto del suo status di “straniero migrante”, in chiara violazione del valore costituzionalmente tutelato dall’art. 27 Cost.;

che, infine, risulterebbe violato anche il dovere di solidarietà di cui all’art. 2 Cost., con l’obbligo costituzionale imposto allo Stato di conformarsi alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute e con violazione del dovere di regolare la condizione giuridica dello straniero in modo conforme alle norme e ai trattati internazionali.

Considerato che i Giudici di pace di Lecce e di Pontassieve e il Tribunale per i minorenni di Lecce hanno sollevato – nei termini di cui alle rispettive ordinanze di rimessione sopra menzionate – questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come introdotto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), in riferimento agli articoli 2, 3, 24, 25, 27, 97, 117 della Costituzione;

che, data la comunanza di oggetto delle questioni sollevate, va disposta la riunione dei relativi procedimenti;

che, sia pure ad un livello minimo di sufficienza, le ordinanze dei Giudici di pace di Lecce e di Pontassieve contengono una descrizione delle fattispecie sulle quali essi sono chiamati a pronunciare;

che, invece, non altrettanto può dirsi con riguardo all’ordinanza del Tribunale per i minorenni di Lecce, la quale presenta gravi carenze in punto di descrizione della fattispecie concreta, in quanto si limita a riprodurre nell’epigrafe il capo d’imputazione, a sua volta circoscritto ad una parafrasi della norma incriminatrice, senza alcun cenno alla vicenda che ha dato origine al giudizio e alla sua riconducibilità al paradigma punitivo censurato, anche tenendo conto della minore età degli imputati;

che, per costante giurisprudenza di questa Corte, la carente descrizione della fattispecie oggetto del giudizio preclude il necessario controllo in punto di rilevanza (ex plurimis, ordinanze n. 320 e n. 253 del 2010, e n. 211 del 2009);

che, pertanto, le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale per i minorenni di Lecce vanno dichiarate manifestamente inammissibili;

che, in primo luogo, i Giudici di pace di Lecce e di Pontassieve prospettano la violazione degli artt. 25 e 27 Cost., ritenendo violato il principio di offensività del reato, in forza del quale al legislatore sarebbe preclusa l’introduzione – per finalità di mera deterrenza – di sanzioni non ricollegabili a fatti colpevoli, ma piuttosto a modi di essere ovvero ad una mera disobbedienza priva di disvalore (anche potenziale) per un determinato bene giuridico, mentre con il cosiddetto reato di clandestinità il legislatore avrebbe previsto l’incriminazione di condotte prive d’idoneità offensiva (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 22 e n. 78 del 2007), dal momento che l’ingresso o la presenza illegale dello straniero sarebbe espressione di una condizione individuale, cioè dello status di migrante;

che al riguardo questa Corte già si è pronunciata, affermando la non fondatezza della questione sui seguenti rilievi (sentenza n. 250 del 2010, n. 6 del Considerato in diritto): non è esatto che la norma censurata penalizzi una mera condizione personale e sociale – cioè quella di straniero “clandestino” o, più propriamente, “irregolare” – della quale in modo arbitrario sarebbe presunta la pericolosità sociale, in quanto oggetto dell’incriminazione non è un modo di essere della persona, bensì uno specifico comportamento trasgressivo di norme vigenti. Né può condividersi l’assunto in forza del quale si sarebbe in presenza di un illecito di “mera disobbedienza”, non offensivo di alcun bene giuridico meritevole di tutela, perché il bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice è identificabile nell’interesse dello Stato al controllo e alla gestione dei flussi migratori, costituente un bene giuridico strumentale, attraverso la cui salvaguardia il legislatore protegge beni pubblici che possono essere compromessi da fenomeni di immigrazione incontrollata (come meglio spiegato nella sentenza da ultimo citata);

che pertanto, sotto questo profilo, la questione si rivela manifestamente infondata, in assenza di argomenti idonei a superare quelli esposti nella citata sentenza n. 250 del 2010;

che, ad avviso dei rimettenti, sarebbe altresì violato il principio di sussidiarietà dell’illecito penale (con riferimento ai medesimi parametri costituzionali dianzi indicati), in quanto nel nostro ordinamento il ricorso alla sanzione penale andrebbe ammesso soltanto come ultima ratio, quando la tutela del bene giuridico non possa essere raggiunta attraverso altri strumenti. Nel caso di specie, l’obiettivo perseguito dalla nuova norma sarebbe l’allontanamento dello straniero irregolare dal territorio dello Stato e già in precedenza sarebbe stato possibile raggiungere tale obiettivo mediante le diverse ipotesi di espulsione in via amministrativa previste dal testo unico sull’immigrazione;

che, a parte la non dimostrata congruità dei parametri evocati (artt. 25 e 27 Cost.) rispetto alle censure addotte, e fermo il punto che il legislatore dispone di ampia discrezionalità in ordine alle scelte legislative riguardanti la configurazione dei reati e del relativo trattamento sanzionatorio (ex plurimis, tra le più recenti: sentenze n. 47 del 2010 e n. 161 del 2009), l’assetto normativo cui i rimettenti si riferiscono non comporta che «il procedimento penale per il reato in esame sia destinato, a priori, a rappresentare un mero “duplicato” del procedimento amministrativo di espulsione di norma, per giunta, più celere: e ciò, a tacer d’altro, per la ragione che – come l’esperienza attesta – in un largo numero di casi non è possibile, per la pubblica amministrazione, dare corso ai provvedimenti espulsivi. La stessa sostituzione della pena pecuniaria con la misura dell’espulsione da parte del giudice – configurata, peraltro, dall’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998 come soltanto discrezionale (“può”) – resta espressamente subordinata alla condizione che non ricorrano le situazioni che, ai sensi dell’art. 14, comma 1, del medesimo decreto legislativo, impediscono l’esecuzione immediata dell’espulsione con accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica (necessità di procedere al soccorso dello straniero, ad accertamenti supplementari in ordine alla sua identità o nazionalità, all’acquisizione di documenti per il viaggio, ovvero indisponibilità di vettore o di altro mezzo di trasporto idoneo)» (sentenza n. 250 del 2010, n. 10 del Considerato in diritto);

che, alla stregua di tali rilievi, anche la questione sollevata con riguardo al profilo suddetto deve essere dichiarata manifestamente infondata;

che i rimettenti denunziano la «violazione del principio di uguaglianza e del principio di personalità della responsabilità penale», a loro avviso ricavabile dai seguenti punti: a) poiché, per effetto dell’art. 10-bis, comma 5, qualora l’autore dell’azione criminosa sia espulso o respinto, il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere, e poiché l’esecuzione dei relativi provvedimenti sarebbe rimessa alla discrezionalità e alla disponibilità di mezzi dell’autorità amministrativa, essendo irrilevanti la volontà e le azioni dello straniero, l’accertamento giurisdizionale di condotte identiche produrrebbe effetti diversi (sentenza di condanna o di non luogo a procedere) a causa di circostanze estranee all’intervento degli imputati; b) non sarebbe stata attribuita alcuna rilevanza alla presenza di giustificati motivi che abbiano determinato le condotte oggetto dell’incriminazione, a differenza di quanto previsto per l’analoga (e molto più grave) ipotesi di cui all’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998, con ingiustificata disparità di trattamento tra gli autori dei due reati; c) non vi sarebbero ragioni per precludere all’agente di estinguere il reato a lui ascritto mediante oblazione;

che la questione sollevata con riferimento ai profili suddetti è manifestamente inammissibile, perché: 1) quanto al punto sub a), essa è prospettata in termini astratti ed ipotetici, giacché, ai sensi dell’art. 10-bis, comma 5, del d.lgs. n. 286 del 1998, il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere soltanto dopo avere «acquisita la notizia dell’esecuzione dell’espulsione o del respingimento», mentre nel caso in esame tale circostanza non risulta dalle ordinanze di rimessione, onde i rimettenti censurano un aspetto della norma di cui non devono fare applicazione, con conseguente irrilevanza del profilo; 2) analogo rilievo vale quanto al punto sub b), perché nelle ordinanze di rimessione non è prospettata, neppure con riguardo a mere allegazioni difensive, alcuna circostanza che, nei casi di specie, potrebbe assumere rilievo quale “giustificato motivo”, e tale carenza priva la questione sollevata di attuale rilevanza, o comunque non consente il necessario controllo al riguardo (ordinanza n. 318 del 2010); 3) identica conclusione vale per il punto sub c), perché dalle ordinanze di rimessione non emerge che gli imputati abbiano presentato una domanda di oblazione;

che il Giudice di pace di Lecce dubita della legittimità costituzionale della norma censurata in riferimento all’art. 117 Cost., con riguardo agli obblighi internazionali assunti dall’Italia in materia di trattamento dei migranti, e richiama a tal proposito il Protocollo addizionale alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la criminalità transazionale organizzata per combattere il traffico illecito di migranti (adottato dall’Assemblea generale il 15 dicembre 2000, ratificato e reso esecutivo con legge 16 marzo 2006, n. 146). In particolare, pone l’accento sull’art. 6 del detto protocollo, secondo cui ogni Stato Parte (tra l’altro) adotta misure legislative e di altro tipo necessarie per conferire il carattere di reato ad una serie di fatti o condotte nell’articolo medesimo contemplati;

che, a prescindere da ogni considerazione di merito circa la pertinenza del richiamo all’atto menzionato (il cui art. 6, paragrafo 4, stabilisce che «Nessuna disposizione del presente Protocollo impedisce ad uno Stato Parte di prendere misure nei confronti di una persona la cui condotta costituisce reato ai sensi del suo diritto interno»), è preliminare rilevare la manifesta inammissibilità della questione in relazione al parametro indicato, in quanto dall’ordinanza di rimessione non si desume che l’imputato sia stato oggetto di traffico illecito ai sensi del citato art. 6;

che i Giudici di pace di Lecce e di Pontassieve deducono ancora la violazione dell’art. 3 Cost.: a) sotto il profilo dell’irragionevolezza della scelta legislativa, volta a criminalizzare l’ingresso e la permanenza clandestini nello Stato italiano, pure in presenza di istituti espulsivi di natura amministrativa, mentre «la penalizzazione di una condotta dovrebbe intervenire, come extrema ratio, in tutti i casi in cui non sia possibile individuare altri strumenti idonei al raggiungimento dello scopo». In realtà l’ambito di applicazione della nuova fattispecie sarebbe coincidente con quello della preesistente misura amministrativa dell’espulsione, sicché l’adozione dello strumento penale resterebbe priva di ogni giustificazione; b) per palese ed irragionevole disparità di trattamento sotto il profilo sanzionatorio, considerato nel suo complesso, cioè comprensivo non solo della pena dell’ammenda ma anche del divieto di applicare il beneficio della sospensione condizionale di detta pena, nonché della facoltà concessa al giudice di pace di sostituire la pena pecuniaria con una sanzione più grave qual è l’espulsione dallo Stato per un periodo non inferiore a cinque anni. Infatti, da un lato, la sanzione sostitutiva potrebbe essere applicata a soggetti condannati a pena detentiva non superiore a due anni (sempre che non ricorrano le condizioni per disporre la sospensione condizionale della pena), dall’altro lato essa potrebbe colpire soggetti condannati alla sola pena pecuniaria, ai sensi della norma censurata, vale a dire per un reato senza dubbio meno grave e privo di efficacia deterrente, sicché sarebbe prevedibile che proprio la sanzione sostitutiva sarà la pena generalmente adottata per il reato in questione;

che la questione sollevata in relazione al profilo sub a) è manifestamente infondata, per le considerazioni già svolte (e sopra richiamate, a proposito dell’asserita violazione del principio di sussidiarietà dell’illecito penale) dalla sentenza di questa Corte n. 250 del 2010 (n. 10 del Considerato in diritto), mentre manifestamente inammissibile è la questione sollevata in riferimento al profilo sub b), perché, a prescindere da ogni considerazione di merito, la lesione costituzionale denunciata non deriverebbe dalla disposizione impugnata ma da norme distinte, non coinvolte nello scrutinio di costituzionalità, cioè dall’art. 16, comma 1, del d.lgs. n. 286 del 1998, nella parte in cui – a seguito della modifica operata dalla legge n. 94 del 2009 – estende l’applicabilità dell’espulsione come sanzione sostitutiva alla contravvenzione di cui all’art. 10-bis del detto decreto legislativo, nonché dalla disposizione correlata dell’art. 62-bis del d.lgs. 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), in forza della quale – diversamente da quanto stabilito dal precedente art. 62 con riferimento alle sanzioni sostitutive previste dalla legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) – «nei casi stabiliti dalla legge, il giudice di pace applica la misura sostitutiva di cui all’art. 16 del testo unico di cui al decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286» (sentenza n. 250 del 2010, n. 12 del Considerato in diritto);

che con le due suddette ordinanze di rimessione è altresì denunziata, in riferimento all’art. 3 Cost., la «irragionevole disparità di trattamento sotto il profilo sanzionatorio rispetto all’art. 14 t.u.», che prevede la punibilità dello straniero inottemperante all’ordine di allontanamento del questore solo quando esso si trattenga nel territorio dello Stato oltre il termine stabilito e senza giustificato motivo, condizioni non presenti nella nuova figura criminosa, onde sarebbe sufficiente il venir meno, per qualche motivo, del permesso di soggiorno per integrare un’ipotesi di trattenimento illecito, senza possibilità per l’interessato di addurre una giustificazione o di usufruire di un termine per allontanarsi;

che, inoltre, in virtù dell’attribuzione della competenza a conoscere della nuova fattispecie al giudice di pace, risulterebbe disegnato un sottosistema sanzionatorio addirittura più gravoso di quello previsto per il più grave delitto, non essendo possibili né la concessione della sospensione condizionale, né una riduzione di pena conseguente all’adozione di un rito alternativo (per l’espresso divieto di applicazione dei predetti istituti al rito davanti al giudice di pace, ai sensi degli artt. 2 e 60 del d.lgs. n. 74 del 2000);

che, ancora, le due fattispecie sarebbero «irrimediabilmente contrastanti tra loro, sia sul piano logico che su quello pragmatico», sicché «potrebbe darsi il caso di un soggetto, già condannato per il reato d’ingresso o trattenimento clandestino che, non espulso manu militari, ma intimato di lasciare il territorio dello Stato, possa ivi legittimamente trattenersi perché sorretto da un “giustificato motivo”: con un evidente ed insanabile contrasto nella posizione di uno Stato che, da un lato, punisce lo straniero non solo ab origine, ma anche divenuto clandestino e, dall’altro, lo autorizza a trattenersi perché munito di un giustificato motivo»;

che la questione, nei termini prospettati, è manifestamente inammissibile perché: a) l’ultima censura ha carattere astratto e meramente ipotetico; b) quanto ai richiami al “giustificato motivo”, si deve ribadire il già segnalato difetto di rilevanza, perché dalle ordinanze di rimessione non emerge la sussistenza di situazioni riconducibili a quel concetto; c) quanto alle residue censure esse, in ipotesi, sarebbero ascrivibili alla normativa sul giudice di pace, non coinvolta nel presente scrutinio di legittimità costituzionale;

che i Giudici di pace di Lecce e di Pontassieve censurano la norma impugnata per contrasto con gli artt. 3 e 25, comma secondo, Cost., in quanto essa integrerebbe una fattispecie penale discriminatoria, perché fondata su particolari condizioni personali e sociali, anziché su fatti e comportamenti riconducibili alla volontà del soggetto attivo. La norma soltanto in apparenza sanzionerebbe una condotta, mentre il vero oggetto dell’incriminazione sarebbe la condizione personale dello straniero, costituita dal mancato possesso di un titolo abilitativo all’ingresso e alla successiva permanenza nel territorio dello Stato, che sarebbe la condizione tipica del migrante economico;

che tali censure ripetono, in sostanza, quanto già dedotto con riguardo alle doglianze relative a presunte violazioni dei principi di offensività e di sussidiarietà dell’illecito penale, sicché è sufficiente rinviare alle considerazioni al riguardo svolte;

che i rimettenti dubitano della legittimità costituzionale della norma censurata in riferimento all’art. 2 Cost., richiamando la sentenza di questa Corte n. 519 del 1995 (relativa al reato di mendicità) e sostenendo che lo spirito solidaristico proprio della Carta costituzionale dovrebbe impedire l’adozione di misure puramente repressive per risolvere il problema dell’immigrazione, mentre la nuova disposizione pregiudicherebbe anche alcuni diritti inviolabili dell’uomo;

che sul punto questa Corte si è già pronunciata con la citata sentenza n. 250 del 2010 (n. 8 del Considerato in diritto), osservando che: a) qualora la tesi dei rimettenti fosse valida, la ragione dell’illegittimità costituzionale non risiederebbe nella scelta di configurare come reato l’inosservanza delle disposizioni sull’ingresso e il soggiorno dello straniero nel territorio dello Stato, ma nello stesso precetto, cioè nelle regole (collocate all’esterno della norma oggi sottoposta a scrutinio), che precludono o limitano l’ingresso o la permanenza degli stranieri nel detto territorio; b) in ordine al principio di solidarietà, per giurisprudenza di questa Corte in materia di immigrazione «le ragioni della solidarietà umana non possono essere affermate al di fuori di un corretto bilanciamento dei valori in gioco» (sentenza n. 353 del 1997). In particolare, «le ragioni della solidarietà umana non sono di per sé in contrasto con le regole in materia di immigrazione previste in funzione di un ordinato flusso migratorio e di un’adeguata accoglienza ed integrazione degli stranieri» (ordinanze n. 192 e n. 44 del 2006, n. 217 del 2001). Ciò nella cornice di un quadro normativo che vede regolati in modo diverso – anche a livello costituzionale (art. 10, terzo comma, Cost.) – l’ingresso e la permanenza degli stranieri nel Paese, a seconda che si tratti di richiedenti il diritto di asilo o rifugiati, ovvero di cosiddetti migranti economici (sentenza n. 5 del 2004), alla luce della discrezionalità che in materia spetta al legislatore;

che, sulla base di tali considerazioni, la questione sollevata con riferimento all’art. 2 Cost. deve essere dichiarata manifestamente infondata;

che i Giudici di pace di Lecce e di Pontassieve dubitano della legittimità costituzionale della norma censurata in relazione all’art. 97 Cost., sostenendo che essa sarebbe diretta ad ottenere l’espulsione dello straniero, cioè un risultato già conseguibile con la procedura amministrativa, per cui il procedimento penale costituirebbe un semplice duplicato;

che la questione, sotto tale profilo, è manifestamente infondata per l’inconferenza del parametro evocato, perché il principio del buon andamento è riferibile all’amministrazione della giustizia soltanto per quanto attiene all’organizzazione e al funzionamento degli uffici giudiziari, non all’attività giurisdizionale in senso stretto (ex plurimis: sentenze n. 250 del 2010, n. 64 del 2009, n. 272 del 2008; ordinanze n. 408 del 2008 e n. 27 del 2007);

che, infine, i suddetti rimettenti dubitano della legittimità costituzionale della norma censurata in relazione all’art. 24 Cost., sostenendo che l’8 agosto 2009, al momento dell’entrata in vigore di detta norma, «tutti gli stranieri irregolari che si trovavano in Italia erano in ipotesi sanzionabili con la contravvenzione ivi prevista se non si fossero spontaneamente allontanati dal territorio nazionale». Infatti, non sarebbero stati contemplati un termine e una modalità operativa affinché tali soggetti potessero ottemperare al precetto legislativo, incorrendo dunque in violazione del citato parametro costituzionale;

che la questione così prospettata è manifestamente inammissibile per difetto di rilevanza, in quanto dalle ordinanze di rimessione non risulta che gli stranieri imputati fossero in Italia al momento dell’entrata in vigore del citato art. 10-bis.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi avanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

a) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), come introdotto dall’articolo 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), sollevate, in riferimento agli articoli 2, 3, 27, 117 della Costituzione, dal Tribunale per i minorenni di Lecce con l’ordinanza indicata in epigrafe;

b) dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, come introdotto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge n. 94 del 2009, sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24, 27, 117 Cost., dai Giudici di pace di Lecce e di Pontassieve, con le ordinanze indicate in epigrafe;

c) dichiara la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del d.lgs. n. 286 del 1998, come introdotto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge n. 94 del 2009, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 25, 27, 97 Cost., dai Giudici di pace di Lecce e di Pontassieve, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 marzo 2011.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI


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ORDINANZA N. 85

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera r), della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), promosso dalla Corte di appello di Perugia nel procedimento penale a carico di V.F.C.J., con ordinanza del 23 febbraio 2010, iscritta al n. 259 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Udito nella camera di consiglio del 9 febbraio 2011 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro.

Ritenuto che la Corte di appello di Perugia, con ordinanza del 23 febbraio 2010, iscritta al r.o. n. 259 del 2010, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera r), della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), nella parte in cui stabilisce che, «se il mandato d’arresto europeo è stato emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale», la Corte di appello può disporre che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al diritto interno, soltanto «qualora la persona ricercata sia cittadino italiano»;

che il rimettente è investito di un procedimento a carico dell’imputata V.F.C.J., cittadina francese residente in Italia, attinta, unitamente al coniuge italiano, da mandato di arresto per l’esecuzione della sentenza, emessa dalla Corte di appello di Besançon (Francia), di condanna alla pena di anni due di reclusione per il delitto di cui gli artt. 313-1AL 2, 313-7, 313-8 del codice penale francese (corrispondente al reato di cui all’art. 640 del codice penale italiano), commesso nel novembre-dicembre 2004 in Francia (Jura);

che risulta agli atti come l’imputata sia stabilmente dimorante nel comune di Tuoro sul Trasimeno, unitamente alla propria famiglia: situazione questa comprovata dalla documentazione acquisita e, ciononostante, alla luce della citata legge n. 69 del 2005, occorrerebbe dare esecuzione alla consegna allo Stato richiedente;

che il giudice a quo deduce la violazione dell’art. 3 Cost. in quanto, sebbene la decisione quadro 2002/584/GAI dia una mera facoltà agli Stati membri della Unione europea di estendere le guarentigie eventualmente riconosciute ai propri cittadini anche agli stranieri residenti sul territorio; tuttavia, una volta introdotta tale parificazione per quanto riguarda il «MAE processuale» (art. 19, comma 1, lettera c), sarebbe del tutto illogico che tale parificazione non sia effettuata dall’art. 18, comma 1, lettera r) concernente il «MAE esecutivo» di una sentenza di condanna di uno Stato estero, che riserva al solo cittadino italiano il rifiuto della consegna;

che la norma impugnata violerebbe anche l’art. 27, terzo comma Cost., poiché un soggetto stabilmente residente sul territorio dello Stato, ove ha stabilito il centro dei propri interessi affettivi e lavorativi, sarebbe costretto ad espiare la pena inflittagli in un contesto territoriale a lui ormai estraneo, con pregiudizio di un futuro reinserimento sociale del condannato;

che la disposizione in esame si porrebbe altresì in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto, nel prevedere il rifiuto di consegna per il solo cittadino italiano, non rispetterebbe i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario, in particolare dall’art. 4 punto 6 della decisione quadro 2002/584/GAI laddove non consente di differenziare, in tema di rifiuto della consegna, la posizione del cittadino da quella di residente non cittadino.

Considerato che la Corte di appello di Perugia, dubita, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera r), della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), nella parte in cui stabilisce che, «se il mandato d’arresto europeo è stato emesso ai fini della esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza privative della libertà personale», la Corte di appello può disporre che tale pena o misura di sicurezza sia eseguita in Italia conformemente al diritto interno, soltanto «qualora la persona ricercata sia cittadino italiano»;

che questa Corte, con la sentenza n. 227 del 2010, successiva alla pubblicazione dell’ordinanza di rimessione, ha già dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera r), della legge n. 69 del 2005, nella parte in cui non prevede il rifiuto di consegna anche del cittadino di un altro Paese membro dell’Unione europea, che legittimamente ed effettivamente abbia residenza o dimora nel territorio italiano, ai fini dell’esecuzione della pena detentiva in Italia;

che, dunque, la questione va dichiarata manifestamente inammissibile, essendo venuto meno il limite alla possibilità del rifiuto di consegna, cui si riferisce la censura del rimettente (ordinanza n. 306 del 2010, nonché n. 415 e n. 269 del 2008, n. 290 e n. 34 del 2002, n. 575 del 2000).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, lettera r), della legge 22 aprile 2005, n. 69 (Disposizioni per conformare il diritto interno alla decisione quadro 2002/584/GAI del Consiglio, del 13 giugno 2002, relativa al mandato d’arresto europeo e alle procedure di consegna tra Stati membri), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma della Costituzione, dalla Corte di appello di Perugia, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 marzo 2011.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI


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ORDINANZA N. 86

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), promossi dal Giudice di pace di Vigevano con ordinanze del 18 e del 25 (n. due ordinanze) gennaio 2010, del 15 marzo, del 26 aprile, del 3 (n. due ordinanze) e del 10 maggio 2010, rispettivamente iscritte ai numeri da 242 a 249 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Udito nella camera di consiglio del 9 febbraio 2011 il Giudice relatore Paolo Grossi.

Ritenuto che il Giudice di pace di Vigevano, con otto ordinanze di identico contenuto (r.o. numeri 242, 243, 244, 245, 246, 247, 248 e 249 del 2010), ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 25, secondo comma, e 97 della Costituzione, nonché al «principio costituzionale di ragionevolezza della legge penale», questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica);

che il giudice rimettente è chiamato a giudicare della posizione di cittadini extracomunitari imputati, in alcuni procedimenti, del reato di cui alla norma denunciata (perché si trattenevano «nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni di legge del citato decreto legislativo inerenti l’ingresso e il soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato») e, in altro procedimento, del medesimo reato («perché faceva ingresso e si tratteneva nel territorio dello Stato in violazione delle disposizioni di legge del citato decreto legislativo inerenti l’ingresso e il soggiorno degli stranieri nel territorio dello Stato»);

che la norma denunciata sarebbe, anzitutto, in contrasto con il dovere di solidarietà, sancito dall’art. 2 Cost., «quale componente essenziale di una società aperta, costruita sull’accoglienza e sull’emancipazione di coloro che sono in condizione svantaggiosa»;

che sarebbe, poi, violato il principio di ragionevolezza, in quanto la nuova fattispecie si sovrapporrebbe integralmente, nel suo ambito applicativo, alla espulsione amministrativa, risultando anzi finalizzata unicamente all’allontanamento dello straniero irregolare;

che l’irragionevolezza riguarderebbe, peraltro, il profilo sanzionatorio nel suo complesso, sia per ciò che attiene alla carenza di efficacia deterrente della prevista pena dell’ammenda, stante la condizione di indigenza in cui generalmente versano gli “stranieri irregolari”, sia per il divieto di applicazione del beneficio della sospensione condizionale della pena, sia, ancora, in considerazione del potere del giudice di sostituire la pena della ammenda con una sanzione più grave, quale è la misura della espulsione dallo Stato per un periodo non inferiore a cinque anni;

che risulterebbe irragionevole anche la disparità di trattamento fra due fattispecie del tutto analoghe, considerato che l’art. 14, comma 5-ter, del d.lgs. n. 286 del 1998 subordina la punibilità della permanenza dello straniero nel territorio dello Stato, in violazione dell’ordine del questore, al fatto che ciò avvenga “senza giustificato motivo”, mentre la norma oggetto di censura non prevede una simile clausola;

che la norma denunciata violerebbe, inoltre, gli artt. 3 e 25, secondo comma, Cost., «sotto il profilo della configurazione di una fattispecie penale discriminatoria, perché fondata su particolari condizioni personali e sociali, anziché su fatti e comportamenti riconducibili alla volontà del soggetto attivo»;

che, introducendo, infatti, la previsione di un trattamento sanzionatorio in modo indiscriminato per gli stranieri che soggiornano illegalmente nel territorio dello Stato, «la nuova disposizione» presupporrebbe «arbitrariamente riguardo a tutti l’esistenza di una condizione di pericolosità sociale che, per giustificare l’affermazione di una responsabilità penale, deve invece essere accertata in concreto e con riferimento ai singoli soggetti»;

che vi sarebbe, infine, violazione anche dell’art. 97 Cost., dal momento che la previsione di due distinti procedimenti − amministrativo e penale −, diretti allo stesso fine, influirebbe negativamente sulla durata ragionevole del processo penale, con relativo incremento dei costi e degli incombenti procedurali.

Considerato che i giudizi, avendo ad oggetto una medesima disposizione e sollevando un’identica questione, vanno riuniti per essere congiuntamente decisi;

che la Corte è chiamata a pronunciarsi, per iniziativa del Giudice di pace di Vigevano, sulla legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), in riferimento agli articoli 2, 3, 25, secondo comma, e 97 della Costituzione, nonché al «principio costituzionale di ragionevolezza della legge penale»;

che le ordinanze di rimessione risultano di contenuto sostanzialmente identico a quello di altre, emesse dallo stesso giudice rimettente, con le quali sono state sollevate questioni dichiarate da questa Corte manifestamente inammissibili per irrilevanza, in ragione dell’omessa o carente descrizione della concreta fattispecie sottoposta a giudizio (così, per ciò che qui interessa, le ordinanze n. 253 del 2010 e n. 3 del 2011);

che identica conclusione si impone, pertanto, anche per le questioni ora sottoposte all’esame.

Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 10-bis del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), aggiunto dall’art. 1, comma 16, lettera a), della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), sollevata, in riferimento agli articoli 2, 3, 25, secondo comma, e 97 della Costituzione, dal Giudice di pace di Vigevano con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 marzo 2011.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI


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ORDINANZA N. 87

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati del 28 ottobre 2009 (doc. IV-ter n. 10-A), relativa alla insindacabilità, ai sensi dell’articolo 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dall’onorevole Carmine Santo Patarino nei confronti del dottor Nicola Putignano, promosso dal Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale ordinario di Taranto, con ricorso depositato in cancelleria il 7 giugno 2010 ed iscritto al n. 5 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2010, fase di ammissibilità.

Udito nella camera di consiglio del 9 febbraio 2011 il Giudice relatore Alfonso Quaranta.

Ritenuto che con ricorso depositato presso la cancelleria della Corte il 7 giugno 2010, il Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale ordinario di Taranto ha promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato;

che il ricorrente ha chiesto a questa Corte di dichiarare che non spettava alla Camera dei deputati il potere di affermare che i fatti per i quali è in corso procedimento penale nei confronti dell’on. Carmine Santo Patarino, per il delitto di cui all’art. 595 del codice penale, concernono opinioni espresse da un parlamentare nell’esercizio delle sue funzioni, annullando, per l’effetto, la deliberazione adottata dalla medesima Camera dei deputati il 28 ottobre 2009 (doc. IV-ter n. 10-A);

che, deduce il ricorrente, con tale deliberazione la Camera dei deputati – nel recepire le conclusioni contenute nella relazione della Giunta per le autorizzazioni a procedere, secondo cui «l’operazione urbanistica e commerciale promossa dal Putignano insiste (…) con straordinaria rilevanza sull’area nella quale Patarino è eletto» – ha affermato che «i fatti per i quali è in corso il procedimento concernono opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle proprie funzioni, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione»;

che, rileva il G.u.p. presso il Tribunale ordinario di Taranto, la predetta deliberazione della Camera dei deputati, nel fare proprie le determinazioni espresse dalla Giunta per le autorizzazioni a procedere, «ha ravvisato nella vicenda una reazione del Putignano per via giudiziaria sproporzionata e quasi intimidatoria nei confronti di chi – a torto o a ragione – si è erto tutore istituzionale di coloro che temono per la loro attività e per la sostenibilità dello sviluppo della loro terra», ritenendo per tali ragioni le dichiarazioni espresse dall’on. Patarino non sindacabili a norma dell’art. 68, primo comma, Cost.;

che, tanto premesso in fatto, il ricorrente evidenzia come – ai sensi dell’art. 3, comma 1, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato) – la garanzia della insindacabilità, oltre che per gli «atti tipici» dei membri delle Camere, debba intendersi estesa ad «ogni altra attività di ispezione, di divulgazione, di critica e di denuncia politica, connessa alla funzione di parlamentare, espletata anche fuori del Parlamento»;

che, tuttavia, osserva sempre il G.u.p. ricorrente, la Corte costituzionale – investita dello scrutinio di costituzionalità della norma da ultimo citata – ha precisato che essa si sarebbe limitata a rendere esplicito il contenuto dell’art. 68 Cost., specificando quali atti, pur non tipici, debbono ritenersi connessi alla funzione parlamentare;

che, nel caso di specie, la condotta ascritta all’on. Patarino non ricadrebbe nell’ambito di applicazione della citata disposizione costituzionale, giacché al parlamentare è contestato di aver denigrato il dott. Nicola Putignano, con denuncia presentata alla Procura della Repubblica presso il Tribunale ordinario di Taranto;

che, in particolare, il Putignano (già senatore della Repubblica e consigliere del Comune di Castellaneta) sarebbe stato accusato «di aver inviato al Sindaco di Castellaneta una lettera raccomandata contenente “intimidazioni minacciose”, che dovevano essere interpretate come rivolte “ad estorcere provvedimenti amministrativi”» in favore del medesimo Putignano, nonché «di non gradire che da parte degli amministratori vi fosse il rispetto della legge e la trasparenza, essendo lo stesso ed il gruppo di “Nuova Concordia” abituati da sempre a fare il cattivo tempo per il loro interesse aziendale»;

che il parlamentare, inoltre, si sarebbe lasciato «andare ad altre numerose espressioni rivolte a screditare e squalificare la condotta del Putignano», anche «nella qualità di amministratore del gruppo “Nuova Concordia”, in specie per quanto relativo al rapporto tra lo stesso e l’amministrazione comunale di Castellaneta», rinviando, sul punto, il G.u.p. presso il Tribunale di Taranto «al contenuto della denuncia e ai passi della stessa contenenti espressioni offensive dell’altrui reputazione»;

che – come affermato dalla Corte costituzionale – «il mero “contesto politico” o, in ogni modo, l’attinenza a temi di rilievo generale dibattuti in Parlamento, non connota di per sé le dichiarazioni come espressive della funzione parlamentare» (sentenza n. 134 del 2008);

che, invece, dalla relazione della Giunta per le autorizzazioni a procedere della Camera dei deputati non emergerebbe alcun atto tipico della funzione parlamentare cui ricondurre la denuncia, che si assume diffamatoria, presentata dall’on. Patarino, visto che tale relazione reca soltanto un generico riferimento all’impegno politico profuso dal deputato della circoscrizione il cui territorio è stato interessato dall’operazione urbanistica e commerciale promossa dal Putignano;

che il ricorrente, pertanto, ritiene che le dichiarazioni oggetto del procedimento penale non siano riferibili alla funzione parlamentare del Patarino.

Considerato che, in questa fase del giudizio, la Corte è chiamata, a norma dell’art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), a deliberare, senza contraddittorio, se il ricorso sia ammissibile in quanto vi sia «materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza», sussistendone i requisiti soggettivo ed oggettivo e restando impregiudicata ogni ulteriore questione, anche in punto di ammissibilità;

che, sotto il profilo del requisito soggettivo, va riconosciuta la legittimazione del Tribunale ordinario di Taranto, in funzione di Giudice dell’udienza preliminare, a promuovere conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, in quanto organo giurisdizionale, in posizione di indipendenza costituzionalmente garantita, competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene nell’esercizio delle funzioni attribuitegli;

che, parimenti, deve essere riconosciuta la legittimazione della Camera dei deputati ad essere parte del presente conflitto, quale organo competente a dichiarare in modo definitivo la propria volontà in ordine all’applicazione dell’art. 68, primo comma, della Costituzione;

che, per quanto attiene al profilo oggettivo, il ricorrente lamenta la lesione della propria sfera di attribuzione, costituzionalmente garantita, in conseguenza di un esercizio ritenuto illegittimo, per inesistenza dei relativi presupposti, del potere spettante alla Camera dei deputati di dichiarare l’insindacabilità delle opinioni espresse da un membro di quel ramo del Parlamento ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione;

che, dunque, esiste la materia di un conflitto la cui risoluzione spetta alla competenza di questa Corte.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara ammissibile, ai sensi dell’articolo 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato indicato in epigrafe, proposto dal Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale ordinario di Taranto, nei confronti della Camera dei deputati;

dispone:

a) che la Cancelleria di questa Corte dia immediata comunicazione al Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale ordinario di Taranto, della presente ordinanza;

b) che il ricorso e la presente ordinanza siano, a cura del ricorrente, notificati alla Camera dei deputati, in persona del suo Presidente, entro il termine di sessanta giorni dalla comunicazione di cui al punto a), per essere successivamente depositati, con la prova dell’avvenuta notifica, presso la Cancelleria della Corte entro il termine di trenta giorni previsto dall’art. 24, comma 3, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Alfonso QUARANTA , Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 marzo 2011.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI


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SENTENZA N. 88

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 8, comma 2 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 17 febbraio 2010, n. 5 (Valorizzazione dei dialetti di origine veneta parlati nella Regione Friuli-Venezia Giulia), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 20-23 aprile 2010, depositato in cancelleria il 27 aprile 2010 ed iscritto al n. 63 del registro ricorsi 2010.

Visto l’atto di costituzione della Regione Friuli-Venezia Giulia;

udito nell’udienza pubblica del 25 gennaio 2011 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano, sostituito per la redazione della sentenza dal Giudice Ugo De Siervo;

uditi l’avvocato dello Stato Diego Giordano per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Giandomenico Falcon per la Regione Friuli-Venezia Giulia.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso notificato il 23 aprile 2010 e depositato il successivo 27 aprile (iscritto al reg. ric. n. 63 del 2010), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 6 e 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione, nonché all’art. 37, comma 2-bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), e alla legge 15 febbraio 1999, n. 482 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche), questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 17 febbraio 2010, n. 5 (Valorizzazione dei dialetti di origine veneta parlati nella Regione Friuli-Venezia Giulia).

Il ricorrente premette che la Regione Friuli-Venezia Giulia ha emanato la legge regionale in esame in attuazione dell’art. 9 Cost., al fine di promuovere e sostenere «la valorizzazione culturale e la conoscenza dei dialetti di origine veneta parlati nel territorio regionale, elencati nel successivo articolo 2». L’impugnata disposizione, a sua volta, stabilisce che «la Regione sostiene gli enti locali e i soggetti pubblici e privati che operano nei settori della cultura, dello sport, dell’economia e del sociale per l’utilizzo di cartellonistica, anche stradale, nei dialetti di cui all’articolo 2».

2. – Il ricorrente ricorda che, a livello nazionale, è stata adottata la legge n. 482 del 1999, che all’art. 2, comma 1, recita: «In attuazione dell’articolo 6 della Costituzione e in armonia con i principi generali stabiliti dagli organismi europei e internazionali, la Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche, greche, slovene e croate e di quelle parlanti il, francese, il franco provenzale, il friulano, il ladino, l’occitano e il sardo»; ciò mentre all’art 3 di questa legge individua i territori nei quali si applicano le disposizioni a tutela delle sopra citate minoranze linguistiche. Sempre in questa legge l’art. 10 prevede che «nei comuni di cui all’articolo 3, in aggiunta ai toponimi ufficiali, i consigli comunali possono deliberare l’adozione di toponimi conformi alle tradizioni e agli usi locali».

3. – Ciò premesso, l’Avvocatura generale dello Stato sottolinea come, secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, la tutela delle minoranze linguistiche costituisce un principio fondamentale della Costituzione, da preservare in particolare alla luce «del principio pluralistico» riconosciuto dall’art. 2 Cost., oltre che «del principio di eguaglianza» ex art. 3 Cost. La stessa giurisprudenza riconosce come il legislatore statale abbia inteso, altresì, valorizzare, accanto alle culture minoritarie, il patrimonio culturale ed artistico della lingua italiana (sentenza n. 159 del 2009).

4. – Alla luce di quanto sopra ricordato – prosegue il ricorrente – la denunciata previsione legislativa regionale si porrebbe chiaramente in contrasto con l’art. 10 della legge n. 482 del 1999, il quale consente l’adozione di toponimi solo per quelle minoranze linguistiche previste dall’art. 2 della stessa legge per i residenti nei territori indicati dal successivo art. 3, nel cui ambito non rientrano i dialetti elencati nell’art. 2 della legge reg. n. 5 del 2010 in esame.

Infatti, le lingue minoritarie di cui alla legge n. 482 del 1999 devono distinguersi sia dai c.d. «dialetti» (ovvero «idiomi» territorialmente caratterizzati), sia dal «vernacolo» (quale modo di parlare limitato ad una precisa zona geografica ed usato specificamente dal popolo).

4.1. – Inoltre, l’art. 18 della legge n. 482 del 1999 prevede, al comma 1, che le Regioni a Statuto speciale possono introdurre le disposizioni più favorevoli previste dalla legge statale in oggetto solo attraverso «norme di attuazione dei rispettivi statuti», mentre non si autorizza il legislatore regionale ad introdurre norme che vengano a derogare ai principi stabiliti dalla legge n. 482 del 1999 (così la già ricordata sentenza n. 159 del 2009).

Per l’Avvocatura dello Stato, il legislatore regionale avrebbe travalicato le sue competenze regionali, prevedendo in materia di toponomastica (peraltro attraverso una disposizione che non costituisce norma di attuazione dello Statuto della Regione Friuli-Venezia Giulia) una tutela più ampia di quella stabilita dal legislatore statale,.

5. – Per il ricorrente, l’impugnata disposizione, «stabilendo […] implicitamente l’uso esclusivo di tali dialetti per i cartelli relativi alla segnaletica stradale» e, pertanto, incidendo «nella competenza esclusiva statale in materia di circolazione stradale, della quale la segnaletica stradale fa parte, secondo quanto affermato da codesta Corte nella sentenza n. 428 del 2004», violerebbe sia l’art. 3, secondo comma, sia l’art 117, secondo comma, lettera h), Cost., poiché si porrebbe in contrasto con l’art. 37, comma 2-bis, del d.lgs. n. 285 del 1992, secondo cui i Comuni e gli altri enti indicati nel comma 1 «possono utilizzare, nei segnali di localizzazione territoriale del confine del comune, lingue regionali o idiomi locali presenti nella zona di riferimento in aggiunta alla denominazione nella lingua italiana».

6. – Nel giudizio davanti alla Corte si è costituita la Regione Friuli-Venezia Giulia in persona del Presidente della Giunta regionale, che ha dedotto l’inammissibilità e l’infondatezza delle censure.

6.1. – La resistente precisa che l’impugnata disposizione non disciplinerebbe affatto l’uso della cartellonistica sia stradale sia non stradale, che rimarrebbe regolata dalle rispettive discipline (codice della strada, toponomastica, legislazione pubblicitaria e così via), ma si limiterebbe semplicemente a contemplare un sostegno economico ad attività, lecite e legittime, degli enti locali e dei soggetti sia pubblici che privati, i quali operano «nei settori della cultura, dello sport, dell’economia e del sociale», attraverso il «Fondo regionale per la valorizzazione dei dialetti di origine veneta» (di cui all’art. 11 della legge regionale n. 5 del 2010), fondo destinato appunto al finanziamento degli interventi di valorizzazione previsti nel capo II della stessa legge regionale, capo di cui fa anche parte la disposizione censurata.

La difesa regionale conclude – riservandosi di allegare ulteriori eccezioni ed argomentazioni – che la norma impugnata non violerebbe alcuna competenza statale, poiché si tratterebbe di disposizione «di puro finanziamento di attività».

7. – In prossimità dell’udienza pubblica, la difesa della Regione Friuli-Venezia Giulia ha depositato una memoria, nella quale – dopo aver richiamato quanto svolto nell’atto di costituzione – insiste per l’infondatezza delle questioni.

7.1. – In particolare, riguardo alla lamentata violazione dell’art. 10 della legge n. 482 del 1999, la difesa della resistente ribadisce che l’art. 8, comma 2, è «una mera legge di spesa», che non detta una disciplina sostanziale della cartellonistica, in particolare sull’uso dei toponimi, e, quindi, non prevede né trasferisce «alcun potere regolativo»: la denunciata disposizione opera su di un piano del tutto diverso da quello della legge n. 482 del 1999, prevedendo solo contributi finanziari per la tutela del patrimonio culturale regionale, senza creare alcuna sovrapposizione a quanto stabilito dalla legge n. 482 del 1999.

7.1.1. – Il comma 2 dell’art. 8, inoltre, non opera in materia di toponomastica, come reso evidente dal comma 1 dello stesso articolo, il quale prevede che «nel settore della toponomastica, la Regione sostiene indagini e partecipa alle iniziative di studio e ricerca promosse dai Comuni, anche in collaborazione con le università degli studi del Friuli-Venezia Giulia e gli istituti culturali della regione».

In ogni caso – prosegue la difesa regionale – anche se si volesse interpretare la norma denunciata nel senso voluto dal ricorrente, la questione sarebbe parimenti infondata in quanto, secondo la costante giurisprudenza costituzionale – «le leggi non si dichiarano costituzionalmente illegittime perché è possibile darne interpretazioni incostituzionali ma perché è impossibile darne interpretazioni costituzionali».

Pertanto, improprio sarebbe l’accostamento, proposto dal ricorrente, alla questione relativa all’art. 11, comma 5, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 18 dicembre 2007, n. 29 (Norme per la tutela, valorizzazione e promozione della lingua friulana), che, stante il contenuto, «si sovrapponeva – come oggetto – all’art. 10 1. 482/1999» e che è stata accolta dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 159 del 2009. Semmai, la norma qui impugnata sarebbe simile all’art. 4 della legge della Regione Piemonte 7 aprile 2009, n. 11 (Tutela, valorizzazione e promozione del patrimonio linguistico del Piemonte), il cui dubbio d’incostituzionalità è stata dalla Corte costituzionale rigettato con la sentenza n. 170 del 2010. Relativamente a questa norma – osserva il resistente – la Corte ha, infatti, affermato che questa si giustifica «nello specifico contesto della tutela dell’originale patrimonio culturale e linguistico regionale e delle sue espressioni considerate più significative» (Considerato in diritto, punto 10), dal momento che tendeva a valorizzare l’idioma locale a scopo di tutela del patrimonio culturale e storico.

Inoltre, mentre la disposizione della legge regionale piemontese pone l’uso dell’idioma locale «in aggiunta alla denominazione nella lingua italiana», il denunciato art. 8, comma 2, della legge reg. n. 5 del 2010, fa riferimento solo, genericamente, alla «cartellonistica, anche stradale», e non prevede il solo uso del dialetto, né altera le preesistenti norme sull’uso della lingua.

La difesa regionale nega, inoltre, che la disposizione sospettata d’incostituzionalità si riferisca a toponimi, ma comunque ritiene che anche una ipotetica sentenza di questa Corte, che ritenga incisa l’area della toponomastica, dovrebbe eventualmente censurare solo questo profilo.

7.1.2. – In più, prosegue la difesa regionale, essendo volta soltanto a finanziare attività di promozione del patrimonio culturale regionale, la disposizione in oggetto si sottrarrebbe alle doglianze del ricorrente, in quanto, anche prima della riforma costituzionale del 2001, la Corte costituzionale aveva riconosciuto la legittimità di leggi regionali che finanziavano determinate attività anche al di fuori dell’allora numero chiuso delle materie di competenza regionale, ritenendo che «la Regione è ente esponenziale della comunità regionale», cioè rappresentante generale dei suoi interessi (sentenza n. 829 del 1988). A maggior ragione, quindi, ciò sarebbe possibile nel caso di specie, dal momento che la legge reg. n. 5 del 2010 ha lo scopo precipuo di sviluppare la cultura e l’art. 9 Cost. attribuisce «lo sviluppo della cultura e la tutela dei beni culturali e del paesaggio alla Repubblica in tutte le sue articolazioni, e non soltanto allo Stato» (sentenza n. 405 del 2006)».

La difesa regionale sottolinea, inoltre, che le Regioni ordinarie e anche quelle speciali ex art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) hanno competenza concorrente in materia di «promozione e organizzazione di attività culturali», per cui non sarebbe neppure necessario invocare la competenza residuale di cui all’art. 117, quarto comma, Cost.

Per quanto riguarda specificamente la Regione Friuli-Venezia Giulia, la legittimità delle leggi di spesa è stata confermata anche dalla sentenza n. 159 del 2009, sull’uso della lingua friulana, in relazione alla questione relativa all’art. 18, comma 4, della citata legge reg. n. 7 del 2009.

7.2. – Riguardo alla seconda questione, relativa alla lamentata lesione della competenza esclusiva statale in materia di circolazione stradale, la difesa regionale, in via preliminare, ritiene inammissibile la doglianza basata sull’art. 3 Cost. per plurimi motivi. Specificamente, l’inammissibilità della censura deriverebbe «sia perché tale parametro non è richiamato nella delibera del Consiglio dei ministri, sia per genericità perché (a parte il richiamo del comma secondo, invece che del comma primo dell’art. 3 Cost., che si ritiene erroneo) l’Avvocatura non illustra per quale ragione sarebbe violato il principio di uguaglianza».

7.2.1. – La questione prospettata in relazione all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., invece, sarebbe palesemente infondata, in quanto la norma regionale denunciata si riferirebbe all’utilizzo di «cartellonistica, anche stradale», e non di «segnaletica stradale», che serve a tutelare l’incolumità delle persone. Pertanto, l’impugnata disposizione non sarebbe riconducibile – come ritenuto dal ricorrente – alla materia dell’«ordine pubblico e sicurezza», di cui all’art. 117. secondo comma, lettera h), Cost.

Con riguardo, poi, proprio alla sentenza n. 428 del 2004, citata dall’Avvocatura generale dello Stato, la Regione ritiene che la stessa nulla proverebbe al riguardo, anzi potrebbe costituire prova a contrario di quanto sostenuto dal ricorrente.

Conclusivamente, per la Regione resistente, la questione risulterebbe anche contraddittoria e perciò, inammissibile, perché il ricorrente lamenterebbe la violazione della competenza statale in materia di sicurezza e, «in particolare», dell’art. 37, comma 2-bis del d.lgs. n. 285 del 1992, attinente alla toponomastica, che è materia nella quale la Regione Friuli-Venezia Giulia ha competenza concorrente.

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia del 17 febbraio 2010, n. 5 (Valorizzazione dei dialetti di origine veneta parlati nella Regione Friuli-Venezia Giulia), in riferimento agli artt. 3, secondo comma, 6 e 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione, nonché all’art. 37, comma 2-bis, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), e alla legge 15 febbraio 1999, n. 482 (Norme in materia di tutela delle minoranze linguistiche storiche).

L’impugnata disposizione, secondo cui «la Regione sostiene gli enti locali e i soggetti pubblici e privati che operano nei settori della cultura, dello sport, dell’economia e del sociale per l’utilizzo di cartellonistica, anche stradale, nei dialetti di cui all’articolo 2», violerebbe, in primo luogo, l’art. 6 Cost. sotto due profili. Innanzitutto, essa confliggerebbe con l’art. 10 della legge n. 482 del 1999, attribuendo «con riferimento alla toponomastica, una tutela più ampia di quella che il legislatore statale, in attuazione dell’art. 6 Cost., ha riconosciuto alle sole lingue minoritarie con la legge n. 482 del 1999 tra le quali essi dialetti, comunque, non rientrano». Inoltre, il denunciato art. 8, comma 2, violerebbe l’art. 18 della legge n. 482 del 1999, poiché, stabilendo quest’ultimo per le Regioni a Statuto speciale che «l’applicazione delle disposizioni più favorevoli previste dalla presente legge è disciplinata con norme di attuazione dei rispettivi statuti» e non essendo la disposizione impugnata norma di attuazione, il legislatore regionale avrebbe ecceduto dalle sue competenze.

In secondo luogo, l’impugnata disposizione, consentendo «implicitamente l’uso esclusivo di tali dialetti per i cartelli relativi alla segnaletica stradale», violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., giacché l’art. 37, comma 2-bis, del d.lgs. n. 285 del 1992 stabilisce che «i Comuni e gli altri enti indicati nel comma1 possono utilizzare, nei segnali di localizzazione territoriale del confine del comune, lingue regionali o idiomi locali presenti nella zona di riferimento in aggiunta alla denominazione nella lingua italiana».

Infine, è contestata la violazione dell’art. 3, secondo comma, Cost., «per la lesione del principio del rispetto della eguaglianza di cittadini del Paese».

2. – In accoglimento all’eccezione sollevata dalla Regione resistente, in via preliminare va dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 3, secondo comma, Cost. per la evidente carenza di ogni motivazione a supporto della prospettata doglianza, tanto più necessaria in un giudizio in via principale (fra le molte, sentenze n. 278, n. 119 e n. 10 del 2010).

3. – La questione di legittimità costituzionale, promossa in riferimento all’art. 6 Cost., non è fondata.

Per il ricorrente, la Regione Friuli-Venezia Giulia non avrebbe potuto adottare la denunciata disposizione, dal momento che questa, da un lato, eccederebbe quanto previsto dall’art. 10 della legge n. 482 del 1999, in tema di toponimia, e, dall’altro, non è stata approvata secondo il procedimento di adozione delle norme di attuazione, cui rinvia l’art. 18 della medesima legge n. 482 del 1999.

Questa doglianza riposa su di una inesatta ricostruzione del contenuto della legge n. 482 del 1999, considerata dal ricorrente come disciplina che esaurisce ogni forma di riconoscimento e sostegno del pluralismo linguistico. Al contrario, l’evocata legge si riferisce esclusivamente alla «tutela delle minoranze linguistiche storiche», caratterizzate non solo dalla loro particolare origine storica, ma anche dal loro significativo insediamento in precise aree territoriali. Sicché, essa attribuisce ai loro appartenenti una serie di speciali diritti, i quali necessitano di una disciplina che, puntualmente, ne garantisca un ragionevole bilanciamento con l’assetto istituzionale di riferimento, da un lato, e con le situazioni giuridiche soggettive degli altri cittadini, dall’altro.

Peraltro, la speciale legislazione di «tutela delle minoranze linguistiche storiche» non esaurisce la disciplina sollecitata dalla notoria presenza di un assai più ricco e variegato pluralismo culturale e linguistico, che va sotto i termini di «lingue regionali ed idiomi locali», per utilizzare il linguaggio usato dal legislatore statale nell’art. 1 del decreto legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni al codice della strada), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 1° agosto 2003, n. 214, o di «dialetti», «idiomi» o anche «vernacoli», come si esprime l’Avvocatura generale dello Stato.

Rispetto a questa più ampia e diffusa fenomenologia, la giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che la tutela attiva delle minoranze linguistiche costituisce principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale, ai sensi non solo dell’art. 6 Cost. ma anche di «principi, talora definiti “supremi”, che qualificano indefettibilmente e necessariamente l’ordinamento vigente (sentenze n. 62 del 1992, n. 768 del 1988, n. 289 del 1987 e n. 312 del 1983): il principio pluralistico riconosciuto dall’art. 2 – essendo la lingua un elemento di identità individuale e collettiva di importanza basilare – e il principio di eguaglianza riconosciuto dall’art. 3 della Costituzione, il quale, nel primo comma, stabilisce la pari dignità sociale e l’eguaglianza di fronte alla legge di tutti i cittadini, senza distinzione di lingua e, nel secondo comma, prescrive l’adozione di norme che valgano anche positivamente per rimuovere le situazioni di fatto da cui possano derivare conseguenze discriminatorie» (sentenze n. 159 del 2009 e n. 15 del 1996).

Non a caso, sia prima che dopo la legge n. 482 del 1999, sono state adottate apposite leggi regionali di sostegno dei diversi patrimoni linguistici e culturali delle Regioni, attraverso la costituzione o il sostegno di strutture organizzative a ciò congeniali e per il tramite di variegate forme di finanziamento. La stessa legge regionale di cui fa parte la disposizione oggetto dell’odierno scrutinio, adottata in esplicita «attuazione dell’art. 9 della Costituzione e in armonia con i princìpi internazionali di rispetto delle diversità culturali e linguistiche» (art. 1 della legge reg. n. 5 del 2010), esprime la medesima portata finalistica, mirando a promuovere la vitalità del patrimonio dialettale senza contraddire l’evocata disciplina statale.

D’altra parte, di recente questa Corte ha affermato che se una legge regionale non può procedere «a individuare come meritevole di tutela una lingua non riconosciuta come tale dal legislatore statale con la legge generale della materia», tuttavia non sono contrastanti con la Costituzione disposizioni legislative regionali che, in relazione ad una lingua minoritaria, si inquadrino «nello specifico contesto della tutela dell’“originale patrimonio culturale e linguistico regionale” e delle sue espressioni considerate più significative» (sentenza n. 170 del 2010).

Anche la legge reg. n. 5 del 2010 dispone, pertanto, in ambiti riferibili all’art. 9 Cost. Né la disposizione impugnata, attribuendo alla Regione la facoltà di sostenere gli enti locali e i soggetti pubblici e privati, che operano “nei settori della cultura, dello sport, dell’ economia e del sociale per l’utilizzo di cartellonistica, anche stradale, nei dialetti di cui all’articolo 2», incide sulla toponomastica, cui si riferisce l’invocato art. 10 della legge n. 482 del 1999. Invero, palesemente il legislatore regionale non ha inteso interferire con la determinazione dei nomi dei luoghi che si realizza attraverso l’apposizione dei segnali stradali di localizzazione territoriale. Al contrario, la denunciata disposizione mira genericamente ad incentivare il ricorso ai dialetti nella “cartellonistica”, vale a dire in quell’insieme di rappresentazioni destinate a diffondere altre informazioni negli ambiti a cui si riferisce la disposizione.

A conforto di tale interpretazione soccorre la previsione, non impugnata, del comma 1 dello stesso art. 8, il quale invece contempla espressamente interventi regionali di sostegno economico ai Comuni in materia di toponomastica.

Così definito l’ambito di operatività della denunciata previsione, si rivela inconferente l’evocazione dell’art. 18 della legge n. 482 del 1992.

4. – Non è neppure fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost.

Sostiene il ricorrente che, prevedendo l’uso esclusivo dei «dialetti per i cartelli relativi alla segnaletica stradale», l’impugnata disposizione avrebbe leso la competenza esclusiva del legislatore statale in materia di circolazione stradale.

Peraltro, correttamente intesa, la disposizione in oggetto non si riferisce alla segnaletica stradale (art. 38 del d.lgs. n. 285 del 1992), né la “cartellonistica” ivi prevista può essere assimilata ad un «segnale di localizzazione territoriale del confine del comune», come recita l’evocato art. 37, comma 2-bis, del d.lgs. n. 285 del 1992.

Ciò non preclude, in ogni caso, che, ove la “cartellonistica” si rivelasse in concreto tale da ingenerare confusione con la segnaletica stradale o da renderne difficile la comprensione o ridurne la visibilità o l’efficacia, o comunque ponesse in pericolo la sicurezza della circolazione, si applichino le norme sanzionatorie previste in materia (art. 23 del d.lgs. n. 285 del 1992).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 2, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 17 febbraio 2010, n. 5 (Valorizzazione dei dialetti di origine veneta parlati nella Regione Friuli-Venezia Giulia), sollevata, con riferimento all’art. 3, secondo comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe;

dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dello stesso art. 8, comma 2, sollevate, con riferimento agli artt. 6 e 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri col medesimo ricorso.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente e Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 marzo 2011.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI


pronuncia precedente

SENTENZA N. 89

ANNO 2011

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 2, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 8 febbraio 2010, n. 4 (Istituzione e disciplina del Consiglio dei Comuni), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 23-26 aprile 2010, depositato in cancelleria il 28 aprile 2010 ed iscritto al n. 64 del registro ricorsi 2010.

Udito nella camera di consiglio del 9 febbraio 2011 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso notificato a mezzo del servizio postale in data 24 aprile 2010, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato, giusta conforme deliberazione governativa del 16 aprile 2010, in riferimento all’art. 75, secondo comma, della Costituzione, nonché agli artt. 4, 5, 8, 9 e 47 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 2, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 8 febbraio 2010, n. 4 (Istituzione e disciplina del Consiglio dei Comuni).

Nell’impugnare la predetta disposizione legislativa, il Presidente del Consiglio dei ministri rileva che la legge provinciale n. 4 del 2010 istituisce e regola il Consiglio dei Comuni, organismo di consultazione e collaborazione tra la Provincia ed i Comuni, composto dai Sindaci e dagli assessori dei Comuni altoatesini nonché dagli ex sindaci di questi ultimi.

Fra i poteri assegnati al Consiglio dei Comuni, vi è, secondo quanto previsto dall’art. 7, comma 2, della legge provinciale n. 4 del 2010, quello di «chiedere [con il voto favorevole di due terzi dei componenti] il referendum popolare per l’abrogazione totale o parziale di una legge provinciale riguardante le materie di cui all’art. 6, comma 1». Nella disposizione da ultimo richiamata sono elencate le materie per le quali è previsto che i disegni ed i progetti di legge provinciali siano preceduti dal parere obbligatorio del Consiglio dei Comuni. Fra esse sono menzionate le materie che «riguardano i tributi locali o la finanza locale» oltre ai «disegni di legge concernenti la manovra finanziaria provinciale».

2. – Tanto premesso, il ricorrente osserva che la disposizione censurata contrasta con gli artt. 8 e seguenti dello statuto di autonomia regionale – nei quali sono elencate le materie in cui vi è la competenza normativa della Provincia autonoma – posto che fra queste ultime non sono comprese quelle aventi ad oggetto le leggi tributarie e di bilancio.

2.1. – Né ha un qualche rilievo, considerato che la funzione legislativa provinciale deve svolgersi in armonia con la Costituzione, il fatto che l’art. 47 dello statuto demandi alla legge provinciale la possibilità di determinare «l’esercizio […] del referendum provinciale abrogativo, propositivo e consultivo», atteso che, dovendo ciò avvenire «in armonia con la Costituzione oltre che con i principi dell’ordinamento giuridico», debbono intendersi implicitamente richiamati i limiti sanciti dall’art. 75, secondo comma, della Costituzione.

Questo, prosegue parte ricorrente, sancisce espressamente il divieto di referendum abrogativo per le leggi tributarie e di bilancio. Ciò posto, dovendo la potestà normativa regionale svolgersi in armonia coi principi dell’ordinamento giuridico, fra i quali si trova anche la suddetta disposizione costituzionale, il ricorrente deduce la illegittimità dell’art. 7, comma secondo, della legge provinciale n. 4 del 2010, il quale renderebbe possibile lo svolgimento di referendum popolare abrogativo anche per leggi provinciali di carattere tributario o di bilancio.

Precisa al riguardo l’Avvocatura che la giurisprudenza della Corte ha chiarito che, occorrendo interpretare l’art. 75 della Costituzione secondo un criterio logico sistematico, va esclusa la possibilità di sottoporre a referendum anche disposizioni aventi effetti strettamente collegati «all’ambito di operatività delle leggi espressamente indicate dall’art. 75 Cost.».

3. – Aggiunge la difesa ricorrente, in conclusione, che non vale ad escludere la dedotta illegittimità costituzionale il fatto che la disposizione impugnata, nella sua ultima parte, richiami il capo II della legge provinciale 18 novembre 2005, n. 11 (Iniziativa popolare e referendum), all’interno del quale è contenuto l’art. 5 che, tra l’altro, sancisce il divieto di richiedere il referendum abrogativo per leggi tributarie e di bilancio. Infatti la applicazione delle disposizioni richiamate è espressamente limitata alle ipotesi in cui essa sia compatibile con le disposizioni della legge provinciale n. 4 del 2010. Ma la insanabile contraddizione esistente fra la previsione censurata e quella contenuta nell’art. 5 della legge provinciale n. 11 del 2005, negando il rapporto di compatibilità fra le due normative, esclude che alla disposizione censurata sia applicabile il divieto recato dall’art. 5 della legge provinciale n. 11 del 2005, rendendo, viceversa, attuale il denunciato vizio di costituzionalità.

4. – La Provincia autonoma di Bolzano non si è costituita in giudizio.

5. – Con nota depositata il 18 gennaio 2011 l’Avvocatura dello Stato ha trasmesso una comunicazione del Consiglio della Provincia autonoma di Bolzano con la quale si faceva presente che in data 7 ottobre 2010 era stata approvata una modificazione della legge censurata per effetto della quale l’intero comma 2 dell’art. 7 della medesima era stato sostituito, nel senso di escludere dai possibili oggetti di referendum abrogativo richiesto dal Consiglio dei Comuni le leggi tributarie, finanziarie e di bilancio.

Poiché siffatta modificazione è contenuta in una legge regolata dalla particolare disciplina prevista dall’art. 47 dello statuto speciale, ai fini della sua promulgazione e della sua successiva entrata in vigore, era necessario: a) che essa fosse una prima volta pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione; b) che nei tre mesi successivi non fosse presentata alcuna richiesta di referendum sulla medesima.

Solo ricorrendo tali condizioni essa poteva essere promulgata e, dopo essere stata nuovamente pubblicata nel Bollettino Ufficiale della Regione, entrare in vigore.

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollevato, in riferimento all’art. 75, secondo comma, della Costituzione, nonché agli artt. 4, 5, 8, 9 e 47 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 2, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 8 febbraio 2010, n. 4 (Istituzione e disciplina del Consiglio dei Comuni).

Il ricorrente lamenta che la disposizione impugnata – la quale prevede che fra i poteri del Consiglio dei Comuni («organo di consultazione e collaborazione fra la Provincia autonoma di Bolzano e i Comuni del territorio provinciale», come viene espressamente definito dall’art. 1, comma 1, della legge provinciale n. 4 del 2010) vi sia quello di «chiedere il referendum popolare per l’abrogazione totale o parziale di una legge provinciale riguardante materie di cui all’art. 6, comma 1». In questo modo, attraverso il richiamo alle materie indicate al comma 1 dell’art. 6 della stessa legge provinciale – cioè alle materie in relazione alle quali è previsto che i progetti ed i disegni di legge provinciale siano corredati dalla necessaria espressione di un parere da parte del Consiglio dei Comuni – è consentito a tale organo di chiedere l’effettuazione di referendum abrogativo anche per leggi tributarie, di bilancio e aventi ad oggetto manovre finanziarie provinciali.

Si tratta di una previsione legislativa che non solo esulerebbe dagli ambiti di competenza legislativa provinciale ma violerebbe anche il divieto, contenuto nell’art. 75, secondo comma, della Costituzione, di sottoporre a referendum abrogativo le leggi tributarie e di bilancio.

2. – La stessa difesa del ricorrente ha segnalato che, pendente il presente giudizio di legittimità costituzionale, il legislatore provinciale ha provveduto a modificare il testo della disposizione censurata.

Questo, per effetto della modifica in esso introdotta attraverso l’art. 1 della legge provinciale 24 gennaio 2011, n. 2 (Modifica della legge provinciale 8 febbraio 2010, n. 4, “Istituzione e disciplina del Consiglio dei comuni”, riguardo alla richiesta di referendum abrogativo), attualmente esclude dal novero delle leggi provinciali per le quali il Consiglio dei Comuni può chiedere la effettuazione di referendum abrogativo quelle «aventi ad oggetto tributi locali, la finanza locale e la manovra finanziaria provinciale».

2.1. – Essendo la disposizione di modifica, dal contenuto satisfattivo delle ragioni del ricorrente, entrata in vigore, all’esito del procedimento riguardante la promulgazione e la pubblicazione delle leggi regolate dalla particolare disciplina prevista dall’art. 47 dello statuto speciale, il 2 febbraio 2011, giorno successivo alla pubblicazione nel Bollettino Ufficiale della Regione Trentino-Alto Adige/Südtirol n. 5 del 2011 della legge provinciale n. 2 del 2011, senza che anteriormente a tale data abbia avuto applicazione la disposizione censurata, deve essere dichiarata la cessazione della materia del contendere.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara cessata la materia del contendere in ordine alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 7, comma 2, della legge della Provincia autonoma di Bolzano 8 febbraio 2010, n. 4 (Istituzione e disciplina del Consiglio dei Comuni).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 marzo 2011.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Gabriella MELATTI, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'11 marzo 2011.

Il Cancelliere

F.to: MELATTI