N.5472/2007

Reg. Dec.

N. 119 Reg. Ric.

Anno 2005

R  E  P  U  B  B  L  I  C  A     I  T  A  L  I  A  N  A

 

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 

 

 

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Quarta) ha pronunciato la seguente

D E C I S I O N E

sul ricorso n.119 del 2005, proposto dal Ministero degli Affari Esteri,in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso la quale è domiciliato per legge in Roma, via dei Portoghesi n.12.

CONTRO

Calabrò Salvatore, rappresentano e difeso dagli avv. ti Giulio Pizzuti e Edoarda Sanci, elettivamente domiciliato in Roma, Viale Gorizia, n. 14 presso lo studio della seconda;

PER L’ANNULLAMENTO

della sentenza del TAR Lazio, Sezione 1-ter 9 settembre 2004, n. 8773;

Visto il ricorso con i relativi allegati;

Visto l'atto di costituzione in giudizio dell’appellato;

Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;

Visti gli atti tutti della causa;

Alla pubblica udienza del 13 luglio 2007, relatore il Consigliere Costantino Salvatore;

Uditi l’avv. dello Stato Venturini per l’Amministrazione appellante e l’avv. Sanci per l’appellato;

Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:

FATTO

         Il signor Salvatore Calabrò, con ricorso al TAR del Lazio, esponeva di essere dipendente presso il Consolato Generale d’Italia a Zurigo, assunto con contratto d’impiego a tempo indeterminato, con mansioni di concetto, a decorrere dal 1 gennaio 1981, ai sensi del DPR 5 gennaio 1967, n. 18, e di essere stato incaricato sin dal mese di gennaio 1981 di svolgere i compiti consolari presso l’Agenzia di 1^ categoria di Glarona.

         Aggiungeva che durante tutto il periodo di servizio, il suo comportamento non aveva mai dato luogo a rilievi di segno negativo, avendo sempre svolto il proprio lavoro in maniera encomiabile guadagnandosi la stima sia dei connazionali che dei cittadini e delle istituzioni svizzere, per cui del tutto inaspettata era risultata la nota 27 maggio 1996, n. 9974, con la quale il Console Generale d’Italia a Zurigo lo informava che, a seguito di segnalazione da parte dell’impiegata che aveva assicurato la permanenza settimanale presso l’Agenzia di Glarona, era stato costretto ad informare la Procura della Repubblica di Roma e il Ministero degli affari esteri di “sospette gravi irregolarità sulla riscossione dei diritti relativi ai passaporti”, in cui sarebbe rimasto implicato il medesimo ricorrente. La nota precisava che dalle indagini effettuate sarebbe emerso che nei mesi precedenti a numerosi connazionali sarebbero state richieste somme superiori a quelle dovute, nonché importi indebiti a titolo di rimborso per spese telegrafiche, peraltro mai consegnati all’Ufficio Cassa del Consolato Generale e concludeva avvertendo che “tali fatti potrebbero formare oggetto di contestazione di addebiti nei suoi confronti”.

Rappresentava, ancora, il ricorrente che:

- con nota 30 maggio 1996, n. 10273 era stato sospeso cautelativamente dall’incarico di effettuare settimanalmente una permanenza consolare presso l’Agenzia di Glarona a causa dell’inchiesta in corso;

- con provvedimento 25 giugno 1996, n. 11848 erano stati contestati gli addebiti e chieste le giustificazioni scritte entro il termine di venti giorni;

- sia le giustificazioni scritte sia quelle orali fornite in occasione dell’audizione nei locali del Consolato Generale in data 6 agosto 1996 non avevano dato esito positivo;

- con nota 30 agosto 1996, n. 14315, il Console Generale, ritenute insoddisfacenti le giustificazioni, disponeva la risoluzione con decorrenza immediata del rapporto d’impiego ai sensi degli artt. 164 e 166, comma 2, lett. d) del DPR 5 gennaio 1967, n. 18 nonché dell’art. 11 del contratto d’impiego.

Quanto sopra premesso, il Calabrò impugnava tale ultima nota e la conforme autorizzazione ministeriale, nonché tutti gli atti del procedimento sanzionatorio ivi comprese le note di contestazione degli addebiti 27 maggio 1996 n. 9974 e 25 giugno 1996, n. 11484, deducendo le seguenti censure:

1). Violazione dell’art. 117 DPR 10 gennaio 1957, n. 3, dell’art. 653 CPP e dei principi generali. Eccesso di potere.

Poiché, per espressa ammissione della stessa amministrazione, degli stessi fatti era stata informata la Procura della Repubblica di Roma, il procedimento disciplinare non poteva essere iniziato, e, se iniziato, doveva essere sospeso, pena la violazione del citato art. 117 DPR n. 3 del 1957, il quale dispone la sospensione del procedimento disciplinare in pendenza di procedimento penale. L’obbligo di sospensione sarebbe imposto dall’esigenza di rispettare il disposto dell’art. 653 del nuovo CPP, secondo cui, nel caso di giudizio per responsabilità disciplinare, l’autorità amministrativa è vincolata dal giudicato penale quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso.

2). Violazione dell’art. 24 della Costituzione degli artt. 103 e seguenti del DPR 10 gennaio 1957, n. 3, dell’art. 653 CPP e dei principi generali degli artt. 164 e 166 del DPR  5 gennaio 1967, n. 18. Eccesso di potere per erroneità dei presupposti, per carenza di istruttoria e di motivazione nonché per sviamento.

Secondo la costante giurisprudenza la contestazione degli addebiti deve contenere l’esatta enunciazione dei fatti di cui il dipendente è ritenuto responsabile con precisi riferimenti a circostanze di tempo, luogo e modalità dell’azione od omissione costituente l’illecito disciplinare. Ciò al fine di consentire all’incolpato l’esatta individuazione dei fatti addebitati e metterlo, conseguentemente, in condizione di esercitare il suo diritto di difesa.

Nel caso di specie la contestazione sarebbe stata formulata in modo del tutto anomalo con due distinti atti – quello del 27 maggio 1996 e quello del 25 giugno 1996 – entrambi contenenti indicazioni del tutto vaghe e generiche e, quindi, inidonee alle finalità di difesa del ricorrente.

L’estrema genericità e vaghezza degli addebiti sarebbe confermata dalla circostanza che solo in sede di audizione personale, avvenuta negli uffici consolari in data 6 agosto 1996, di fronte alle giustificazioni del ricorrente, il Console Generale precisava che la contestazione si riferiva a fatti avvenuti nel 1996.

Pur di fronte alla genericità e vaghezza delle contestazioni, il ricorrente assume di avere fornito ampie e circostanziate giustificazioni, ritenute insufficienti con affermazioni generiche ed apodittiche, con la conseguenza che non sarebbe dato conoscere le ragioni che hanno indotto l’amministrazione ad adottare il grave provvedimento espulsivo.

3). Violazione degli artt. 103, 108 e 111 del DPR 10 gennaio 1957, n. 3, e dei principi generali. Violazione del principio del contraddittorio. Eccesso di potere.

L’Amministrazione avrebbe omesso di avvisare il ricorrente che poteva esercitare la facoltà prevista dall’art. 111 DPR n. 3 del 1957, di prendere visione di tutti gli atti del procedimento e di estrarne copia al fine di potere correttamente esercitare il proprio diritto di difesa.

L’Amministrazione, inoltre, avrebbe omesso di comunicare il nominativo del funzionario istruttore che ha condotto le indagini ed avrebbe compiuto gli accertamenti istruttori direttamente, mentre avrebbe dovuto rimettere gli atti all’ufficio del personale, posto che nel caso di specie la sanzione da irrogare era più grave della censura.

La domanda incidentale di sospensiva era respinta sia dal TAR che da questo Consiglio di Stato in sede di appello.

L’Amministrazione statale intimata resisteva al ricorso, chiedendone il rigetto.

Il ricorso era accolto dal TAR con la sentenza in epigrafe specificata, contro la quale è stato proposto il presente appello.

L’originario ricorrente si è costituito in questo grado di giudizio, replicando alle argomentazioni poste a base dell’impugnazione e riproponendo le censure sollevate con l’atto introduttivo del giudizio e non esaminate dal primo giudice.

L’appello è stato trattenuto in decisione alla pubblica udienza del 13 luglio 2007.

D I R I T T O

1. Il primo rilievo che viene formulato nei confronti della sentenza appellata è la mancanza di una motivazione approfondita ed articolata, posto che essa si basa su un presupposto totalmente errato, vale a dire che l'Amministrazione non ha ottemperato all’ordinanza istruttoria 4 febbraio 1997, n. 296 – resa in sede di appello avverso l’ordinanza del giudice di primo grado n. 3231 del 2006 di rigetto della domanda incidentale di sospensiva del provvedimento impugnato in primo grado – con la quale questo Consiglio di Stato disponeva l’acquisizione del contratto individuale di lavoro, degli atti su cui si fondava il provvedimento impugnato nonché notizie sull' eventuale procedimento penale aperto a carico del ricorrente.

Il TAR, difatti, sul presupposto che l’Amministrazione non aveva eseguito a distanza di oltre 7 anni dalla comunicazione gli incombenti disposti con la predetta ordinanza istruttoria, ha ritenuto che “una simile (ingiustificata omissione)” non poteva che indurre il Collegio..... a fare applicazione del disposto di cui all'art. 116, comma 2, c.p.c. e, quindi, a ritenere provato quanto dedotto in ricorso (“dove, facendosi riferimento a circostanze quanto mai precise, si ribadisce la totale estraneità del Calabrò ai fatti addebitatigli”).

1.1. Il rilievo è fondato.

Come esattamente osserva l’Amministrazione appellante, all’ordinanza istruttoria di questo Consiglio di Stato era stato dato riscontro con la nota n.034/27 del 18 marzo 1997, con la quale l’Amministrazione intimata aveva trasmesso direttamente al Consiglio di Stato la documentazione e le informazioni da questi richieste.

Tale circostanza risulta confermata dal fatto che sia l’ordinanza 29 aprile 1997, n. 781/97, di rigetto dell’appello proposto dal Calabrò avverso l’ordinanza cautelare del TAR (n.3231 del 2006) sia l’ordinanza 1 febbraio 2005, n. 480, con la quale questo Consiglio di Stato ha accolto la domanda di sospensione dell’efficacia della sentenza appellata, sono motivate entrambe con il fatto che l’istruttoria disposta dal Consiglio di Stato era stata adempiuta.

Né si può seguire la tesi dell’appellato, ad avviso del quale, in mancanza di indicazioni al riguardo da parte della difesa dell’amministrazione, il TAR non poteva che giudicare sulla base della documentazione esistente e, dunque, constatare la mancata esecuzione dell’ordinanza istruttoria di questo Consiglio di Stato 29 aprile 1997, n. 781.

E’ facile replicare in proposito che né il giudice di primo grado né l’appellato forniscono la benché minima spiegazione sulla rilevanza, nel giudizio davanti al TAR, degli incombenti istruttori disposti dal giudice d’appello al fine di decidere il giudizio cautelare di secondo grado instaurato dall’originario ricorrente.

Si può, in conclusione, convenire con la tesi dell’appellante amministrazione, secondo cui l’indicato errore di fatto ha avuto un ruolo determinante nella decisione del giudice di primo grado, che, sia pure in termini assolutamente apodittici, ha accolto il gravame sostanzialmente per difetto di motivazione del provvedimento di risoluzione e per la sua sproporzione rispetto all’effettiva gravità dei fatti addebitati al Calabrò.

2. Prima di passare, però, all’esame delle ulteriori censure dedotte con l’atto di appello, occorre farsi carico della questione sollevata dall’appellato circa l’ammissibilità, in questo secondo grado di giudizio, dei documenti elencati ai punti 1, 2 e 3 della presente impugnazione.

L’art. 345, ultimo comma CPC, difatti, prevede che in appello “non sono ammessi nuovi mezzi prova”, e tale divieto, secondo quanto statuito dalle sezioni Unite della Cassazione (20 aprile 2005, n. 8203), si applica anche alle prove cd. precostituite , quali i documenti, la cui produzione è subordinata, al pari delle prove cd. costituende, alla verifica della sussistenza di una causa non imputabile, che abbia impedito alla parte di produrli in primo grado ovvero alla valutazione della loro indispensabilità.

La tesi non può essere condivisa.

Il Collegio non ignora l’arresto con il quale le sezioni unite hanno risolto il contrasto di giurisprudenza, sorto rispettivamente in relazione al rito ordinario e a quello del lavoro, avente ad oggetto l’ammissibilità in appello di nuovi documenti. Contrasto che, com’è noto, per quanto attiene al rito ordinario, riguardava sia «la generale problematica relativa all’estensione, nel giudizio a cognizione ordinaria, della normativa sul divieto di ammissione di ‘nuovi mezzi di prova’ anche alle prove precostituite» sia «le connesse problematiche attinenti alla individuazione dei limiti che la produzione dei documenti incontra nel giudizio di appello».

Deve, però, osservare che, in disparte la considerazione che la documentazione suddetta è stata già acquisita al fascicolo d’ufficio in occasione del giudizio cautelare di appello ed a parte i dubbi e le perplessità sollevati al riguardo dalla più autorevole dottrina processualcivilista, la pronuncia invocata non autorizza le conclusioni prospettate dall’appellato.

In primo luogo, le ragioni poste a base delle conclusioni raggiunte dalle Sezioni Unite si muovono nell’ambito di una logica tutta interna al processo civile e non automaticamente riproponibile nel processo amministrativo.

In secondo luogo, l’art. 345, 2° comma, tace del tutto quanto alla produzione di documenti.

In terzo luogo, è la stessa pronuncia ad individuare le deroghe al nuovo principio enunciato: verifica della sussistenza di una causa non imputabile, che abbia impedito alla parte di produrli in primo grado ovvero valutazione della loro indispensabilità.

In particolare, quest’ultima precisazione consente di affermare che il divieto di produrre nuovi documenti in grado di appello non opera nell’ipotesi in cui la nuova documentazione è intesa a consentire la verifica dell'esattezza della pronuncia resa dal primo giudice: il che è, appunto, quello che si verifica nel caso di specie, posto che la documentazione esibita dall’amministrazione, vale a dire la scansione del procedimento disciplinare, appare agevolmente l’unica in grado di verificare che alla risoluzione del rapporto di impiego si è giunti nel rispetto di tutte le garanzie, procedimentali e non, apprestate in favore del dipendente. 

3. Definite nei termini avanti precisati le questioni di carattere generale, si può passare all’esame del primo motivo del ricorso introduttivo, con il quale si deduce la violazione dell’art. 117 DPR 10 gennaio 1957, n. 3, dell’art. 653 CPP e dei principi generali, nonché eccesso di potere.

Si assume, in proposito, che, avendo l’amministrazione per sua stessa ammissione, informato la Procura della Repubblica di Roma degli stessi fatti, il procedimento disciplinare non poteva essere iniziato, e, se iniziato, doveva essere sospeso, ai sensi dell’art. 117 DPR n. 3 del 1957, il quale dispone la sospensione del procedimento disciplinare in pendenza di procedimento penale. L’obbligo di sospensione sarebbe imposto, inoltre, dall’esigenza di rispettare il disposto dell’art. 653 del nuovo CPP, secondo cui, nel caso di giudizio per responsabilità disciplinare, l’autorità amministrativa è vincolata dal giudicato penale quanto all’accertamento che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso.

Il motivo è infondato per due ordini di ragioni.

La prima è che, secondo la normativa vigente all’epoca per gli impiegati a contratto, non era prevista la sospensione del procedimento disciplinare fino alla conclusione del processo penale.

La seconda ragione è che, nel caso di specie, non può parlarsi di “pendenza di procedimento penale”.

Come, difatti, questo Consiglio ha avuto modo di precisare (cfr. Sez. VI,  10 marzo 2004, n. 1108), proprio l’inizio dell'azione penale si verifica solo con la richiesta di rinvio a giudizio o la citazione a giudizio, in base al concetto di imputazione di reato di cui all'art. 60, c.p.p. e non pure con la semplice qualificazione di indagato in sede di indagini preliminari.

Nel caso in esame, invece, non risulta che, al momento di apertura del procedimento disciplinare, l’azione penale, nei termini dianzi precisati, fosse stata iniziata.

4. La censura, rubricata come violazione dell’art. 24 della Costituzione degli artt. 103 e seguenti del DPR 10 gennaio 1957, n. 3, dell’art. 653 CPP e dei principi generali degli artt. 164 e 166 del DPR  5 gennaio 1967, n. 18, nonché come eccesso di potere per erroneità dei presupposti, per carenza di istruttoria e di motivazione, e per sviamento, è rivolta contro l’atto di contestazione degli addebiti.

Ad avviso del ricorrente, tale fondamentale atto di inizio del procedimento disciplinare, non rispetterebbe i principi costantemente enunciati dalla giurisprudenza, quali, l’esatta enunciazione dei fatti di cui il dipendente è ritenuto responsabile con precisi riferimenti a circostanze di tempo, luogo e modalità dell’azione od omissione costituente l’illecito disciplinare. Ciò al fine di consentire all’incolpato l’esatta individuazione dei fatti addebitati e metterlo, conseguentemente, in condizione di esercitare il suo diritto di difesa.

Nel caso in esame, invero, la contestazione sarebbe stata formulata in modo del tutto anomalo con due distinti atti – quello del 27 maggio 1996 e quello del 25 giugno 1996 – entrambi contenenti indicazioni del tutto vaghe e generiche e, quindi, inidonee alle finalità di difesa del ricorrente.

L’estrema genericità e vaghezza degli addebiti sarebbe confermata dalla circostanza che solo in sede di audizione personale, avvenuta negli uffici consolari in data 6 agosto 1996, di fronte alle giustificazioni del ricorrente, il Console Generale precisava che la contestazione si riferiva a fatti avvenuti nel 1996.

Inoltre, il ricorrente lamenta che, pur di fronte alla genericità e vaghezza delle contestazioni, egli avrebbe fornito ampie e circostanziate giustificazioni, ritenute insufficienti con affermazioni generiche ed apodittiche, inidonee a svelare le ragioni che hanno indotto l’amministrazione ad adottare il grave provvedimento espulsivo.

Anche questa censura deve essere disattesa.

Come espone lo stesso ricorrente con l’atto introduttivo del giudizio di primo grado, la prima nota è quella del 27 maggio 1996, n. 9974, con la quale il Console Generale d’Italia a Zurigo lo informava che, a seguito di segnalazione da parte dell’impiegata che aveva assicurato la permanenza settimanale presso l’Agenzia di Glarona, era stato costretto ad informare la Procura della Repubblica di Roma e il Ministero degli affari esteri di “sospette gravi irregolarità sulla riscossione dei diritti relativi ai passaporti”, in cui egli sarebbe rimasto implicato. La nota precisava che dalle indagini effettuate sarebbe emerso che nei mesi precedenti a numerosi connazionali sarebbero state richieste somme superiori a quelle dovute, nonché importi indebiti a titolo di rimborso per spese telegrafiche, peraltro mai consegnati all’Ufficio Cassa del Consolato Generale e concludeva avvertendo che “tali fatti potrebbero formare oggetto di contestazione di addebiti nei suoi confronti”.

La seconda nota è quella 25 giugno 1996, n. 11848, di effettiva contestazione degli addebiti e contestuale richiesta delle giustificazioni scritte entro il termine di venti giorni. Con detta nota il Consolato generale non faceva altro che ribadire la tesi, secondo cui dalle indagini effettuate sarebbe emersa l’indebita riscossione di somme superiori a quelle dovute a titolo di diritti per il rilascio e il rinnovo dei passaporti, nonché di importi indebiti a titolo di rimborso per spese telegrafiche, peraltro mai consegnati all’Ufficio Cassa del Consolato Generale.

Tale essendo il contenuto dell’atto di contestazione degli addebiti, non si vede come si possa sostenerne la vaghezza e la genericità, ove solo si consideri che sia con la prima che con la seconda nota i fatti di cui si ritiene si sia reso responsabile il dipendente appaiono, diversamente da quanto ritenuto dal primo giudice, sufficientemente precisi e puntuali e tali, comunque, da consentire all’inquisito il più ampio diritto di difesa, come del resto testimoniano le giustificazioni addotte dall’interessato.

Quanto al rigetto delle giustificazioni, è facile osservare in proposito che, secondo pacifico e costante indirizzo giurisprudenziale, la determinazione dell’organo disciplinare procedente è sufficientemente motivata quando riveli chiaramente il processo logico che ha condotto alla sua adozione, non essendo necessaria una analitica confutazione delle singole discolpe addotte dall’impiegato.

In questo quadro ricostruttivo, non possono essere condivise le conclusioni cui è pervenuto il TAR, il quale ha accolto il motivo, oltre che per la non appropriatezza delle espressioni linguistiche utilizzate nel provvedimento impugnato, sul presupposto che l’amministrazione non avesse ottemperato all’ordinanza interlocutoria del Consiglio di Stato 4 febbraio 1997, n. 296, presupposto questo non solo errato in fatto per le ragioni esposte al precedente punto 1.1. ma anche ininfluente nel giudizio di primo grado.

Come esattamente rileva l’Amministrazione appellante, la risoluzione del rapporto d’impiego è stata supportata da molte dichiarazioni sottoscritte da connazionali circa gli importi corrisposti al ricorrente, importi tutti superiori all'ammontare delle percezioni consolari dovute; dalla dichiarazione dell' impiegato consolare addetto all'Ufficio Cassa del Consolato Generale da cui risulta che il Sig. Calabrò aveva versato all'Erario soltanto gli importi esatti dovuti per le pratiche dal predetto svolte e non anche le differenze indebitamente dallo stesso percepite; dall’elenco delle percezioni "maggiorate" riscosse sempre dal ricorrente consegnato dal Corrispondente consolare di Glarona al dipendente consolare, da cui ha avuto avvio la vicenda disciplinare.

Si tratta, all’evidenza, di un’indagine adeguatamente accurata svolta dal Consolato Generale a Zurigo, che trova piena conferma nella documentazione prodotta, per cui le critiche rivolte sul punto con l’atto introduttivo appaiono palesemente infondate.

5. L’ultimo motivo del ricorso di primo grado (terzo) è articolato in tre profili.

Con il primo si assume la violazione dell’art. 111 del DPR 10 gennaio 1957, n. 3, in quanto l’amministrazione, avendo omesso di avvisare il ricorrente della possibilità di esercitare la facoltà, prevista dall’art. 111 DPR n. 3 del 1957, di prendere visione di tutti gli atti del procedimento e di estrarne copia, avrebbe in sostanza precluso il corretto esercizio del proprio diritto di difesa e violato il principio del contraddittorio.

Il profilo va disatteso.

Difatti, secondo pacifico orientamento della giurisprudenza amministrativa, l'omessa comunicazione all'inquisito che nei venti giorni successivi ha facoltà di prendere visione di tutti gli atti del procedimento e di estrarne copia non costituisce di per sè vizio del procedimento se, da una parte, non risulti che l'interessato abbia inoltrato richiesta di visione di atti e che l'amministrazione vi si sia opposta e, d'altra parte, emerga che l'interessato ha avuto adeguata e completa conoscenza dei fatti in base ai quali è stato incolpato e sia stato in grado di effettuare al meglio le proprie difese.

A conclusioni negative deve pervenirsi anche in ordine al secondo e terzo profilo, con i quali si deduce, rispettivamente, la violazione dell’art. 108 DPR 10 gennaio 1957, n. 3, per avere omesso di comunicare il nominativo del funzionario istruttore che ha condotto le indagini, precludendogli in tal modo di esercitare eventualmente la facoltà di ricusazione, e dell’art. 103 del medesimo DPR n. 3 del 1957, perché l’Amministrazione avrebbe compiuto gli accertamenti istruttori direttamente, mentre, avendo deciso di irrogare una sanzione più grave della censura, era tenuta a rimettere gli atti all’ufficio del personale, vale a dire alla Direzione Generale del personale del Ministero degli esteri.

Quanto al primo, è sufficiente osservare che la mancata comunicazione del nome del funzionario istruttore nel procedimento disciplinare, ai sensi dell' art. 108 primo comma T.U. 10 gennaio 1957 n. 3, non invalida il procedimento stesso, potendo l' interessato ricusare, per motivi di incompatibilità, il detto funzionario in ogni tempo, e dedurre tale incompatibilità anche in sede di impugnativa del provvedimento disciplinare.

Quanto al secondo, si deve rilevare che, trattandosi di personale a contratto, al quale non si applica la normativa di cui al citato DPR n. 3 del 1957, gli accertamenti sono stati legittimamente svolti dall’autorità competente ad irrogare la sanzione.

6. Restano da esaminare le questioni circa l’asserita sproporzione del provvedimento sanzionatorio rispetto ai fatti addebitati al ricorrente e l’influenza che avrebbe avuto nella vicenda la sentenza di condanna patteggiata del Tribunale di Roma 8 giugno 1999, con la quale il Calabrò è stato condannato per peculato ad un anno e sei mesi di reclusione.

La prima questione è, prima ancora che infondata, inammissibile, perché della medesima si occupa – per la verità in maniera del tutto incidentale il primo giudice – senza che, però, l’asserita sproporzione risulti avere formato oggetto di specifica censura con l’atto introduttivo del giudizio di primo grado.

La medesima è, comunque, infondata ove si consideri che, secondo pacifico orientamento giurisprudenziale, la valutazione della gravità di un comportamento ai fini disciplinari e della proporzione tra la sanzione disciplinare irrogata e la gravità dei fatti contestati, costituisce tipica manifestazione del discrezionale apprezzamento dell’amministrazione, suscettibile di sindacato di legittimità solo per macroscopici vizi logici che nella specie non sussistono.

E’ appena il caso di osservare al riguardo, che la vicenda di cui il Calabrò si è reso protagonista, avuto riguardo alle modalità di tempo e di luogo in cui è maturata e si è sviluppata, rileva la palese e dolosa violazione dei doveri istituzionali, con grave pregiudizio all’amministrazione di appartenenza.

Con riferimento, poi, alla rilevanza o meno avuta dalla sentenza patteggiata di condanna, avanti citata, si deve rilevare che della medesima si occupa solo l’atto di appello e, di conseguenza, in replica, l’appellato, mentre nessun accenno esiste nella sentenza impugnata.

Si tratta, comunque, di una discussione assolutamente irrilevante nel presente giudizio, per la decisiva considerazione che la medesima è intervenuta dopo circa tre anni dalla data di adozione del provvedimento di risoluzione del rapporto di impiego e, quindi, non poteva – come in effetti non ha potuto - svolgere alcun ruolo nella ricostruzione dei fatti addebitati e nella loro valutazione da parte dell’amministrazione.

7. Alla luce delle considerazioni che precedono l’appello va accolto e, in riforma della sentenza impugnata, va respinto il ricorso di primo grado.

         Le spese del doppio grado possono essere equamente compensate tra le parti.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. IV), pronunciando sull’appello in epigrafe specificato, lo accoglie e, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado.

Spese del doppio grado compensate.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall'autorità amministrativa.

         Così deciso in Roma, 13 luglio 2007, dal Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sez. IV), riunito in Camera di Consiglio, con l’intervento dei signori

Giovanni              Vacirca                 Presidente

Costantino           Salvatore              Consigliere est.

Anna                             Leoni                   Consigliere

Salvatore              Cacace                 Consigliere

Sandro                 Aureli                   Consigliere

L'ESTENSORE                                 IL PRESIDENTE

Costantino Salvatore                                 Giovanni Vacirca

 

IL SEGRETARIO

 Rosario Giorgio Carnabuci

 

    Depositata in Segreteria

           Il 19/10/2007

(Art. 55, L. 27.4.1982, n. 186)

           Il Dirigente

    Dott. Antonio Serrao