Sentenze Civili della Corte di Cassazione
#ANNO/NUMERO 2007/19014       #SEZ U                   #NRG 2003/28436
#UDIENZA DEL 03/07/2007                      #DEPOSITATO IL 11/09/2007
#MASSIMATA SI

#RICORRENTE             c.T.
#AVV RICORRENTE Mobilia Fabrizio
#RESISTENTE I.n.p.d.a.p.
#AVV RESISTENTE 


                         REPUBBLICA ITALIANA           Ud. 03/07/07
                     IN NOME DEL POPOLO ITALIANO  R.G.N. 28436/2003
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
                        SEZIONE UNITE CIVILI
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARBONE    Vincenzo                    - Presidente Aggiunto -
Dott. NICASTRO   Gaetano                   - Presidente di sezione -
Dott. SENESE     Salvatore                 - Presidente di sezione -
Dott. MORELLI    Mario Rosario                       - Consigliere -
Dott. BONOMO     Massimo                             - Consigliere -
Dott. AMATUCCI   Alfonso                             - Consigliere -
Dott. MALPICA    Emilio                              - Consigliere -
Dott. AMOROSO    Giovanni                       - rel. Consigliere -
Dott. TIRELLI    Francesco                           - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
                              SENTENZA
sul ricorso proposto da:
            C.T., domiciliata in ROMA, presso LA CANCELLERIA  DELLA
CORTE  SUPREMA  DI  CASSAZIONE, rappresentata e difesa  dall'avvocato
MOBILIA FABRIZIO, giusta delega a margine del ricorso;
                                                       - ricorrente -
                               contro
I.N.P.D.A.P.;
                                                         - intimato -
avverso  la  sentenza n. 95/02 del Tribunale di BARCELLONA  POZZO  DI
GOTTO, depositata il 18/11/02;
udita  la  relazione  della causa svolta nella pubblica  udienza  del
03/07/07 dal Consigliere Dott. Giovanni AMOROSO;
udito l'Avvocato MOBILIA Fabrizio;
udito  il  P.M.  in  persona dell'Avvocato  Generale  Dott.  IANNELLI
Domenico, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
                      SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1.               C.T., gia' dipendente di un ente locale, proponeva
ricorso  al Pretore di Messina per ottenere dall'INADEL l'adeguamento
dell'indennita'  premio  di  fine servizio  corrispostale  in  misura
incompleta dall'ente a seguito dell'errata applicazione del  divieto,
previsto dal D.L. n. 12 del 1977, art. 2, convertito nella L.  n.  91
del 1977, di riconoscere trattamenti retributivi piu' favorevoli, per
effetto   della  scala  mobile,  di  quelli  previsti  dagli  accordi
interconfederali del 1957 e del 1975.
L'INADEL resisteva alla domanda di cui chiedeva il rigetto.
Il Pretore, con sentenza n. 1624 del 1986, accoglieva parzialmente la
domanda  della  ricorrente  e  condannava  l'ente  previdenziale   al
pagamento  della somma di L. 9.217.040, oltre rivalutazione monetaria
e interessi legali, nonche' spese di lite.
Tale  decisione  veniva  appellata  dall'INADEL  che  contestava  che
fossero  dovuti la rivalutazione monetaria e gli interessi  legali  a
partire  dall'entrata in vigore del sopravvenuto D.L. 31 agosto  1987
n.  359,  conv. in L. 29 ottobre 1987 n. 440. Il giudizio  proseguiva
quindi,  in grado d'appello, solo limitatamente alla rivalutazione  e
agli  interessi  monetari,  ossia solo su una  parte  dell'originario
petitum,  avendo l'Istituto prestato acquiescenza quanto  alla  sorte
del credito azionato dall'originaria ricorrente.
L'appello  veniva accolto parzialmente dal Tribunale di Messina  che,
con  sentenza n. 130 del 1989, dichiarava non dovuta la rivalutazione
monetaria ai sensi del D.L. n. 359 del 1987, art. 23.
Proponeva  ricorso  per  Cassazione  la         C.  che  contestava
l'applicazione  retroattiva della norma  sopra  indicata  sicche'  il
giudizio proseguiva ulteriormente solo quanto alla debenza,  o  meno,
della rivalutazione monetaria.
Nelle more del giudizio di Cassazione sopravveniva la sentenza n.  85
del  1994  della Corte costituzionale che dichiarava l'illegittimita'
costituzionale del citato D.L. 31 agosto 1987, n. 359, art. 23, comma
4,  convertito  in  L. 29 ottobre 1987, n. 440, nella  parte  in  cui
disponeva  che  le  somme  dovute a titolo  di  riliquidazione  della
indennita'  premio  di  servizio non  davano  luogo  a  rivalutazione
monetaria.
Proprio   richiamando  tale  sopravvenuta  pronuncia,  questa   Corte
accoglieva  il  ricorso della        C. con sentenza  n.  7765  del
1994,  affermando  che trovava piena applicazione per  detto  credito
previdenziale (divenuto esigibile prima dell'entrata in vigore  della
L.  30  dicembre  1991,  n.  412, art. 16,  comma  6)  la  disciplina
dell'art. 442 c.p.c. (nel testo risultante dalla sentenza n. 156  del
1991  della  Corte  costituzionale); talche' il credito  stesso  deve
essere  quindi  rivalutato dal momento della sua maturazione.  Quindi
cassava la sentenza d'appello con rinvio al Tribunale di Patti.
2.  In sede di rinvio - si tratta del primo giudizio di rinvio avente
ad  oggetto  solo  la  debenza  della rivalutazione  monetaria  -  il
Tribunale  di Patti con sentenza del 16 - 25 ottobre 1995  confermava
integralmente la sentenza del pretore di Messina che, nel riconoscere
la  sorte  del  credito  azionato dall'originaria  ricorrente,  aveva
condannato   l'Istituto   resistente   al   pagamento   anche   della
rivalutazione  monetaria (in aggiunta alla sorte, agli  interessi  ed
alle spese di lite); compensava le spese del giudizio di legittimita'
e  condannava l'INPDAP, subentrato all'INADEL ex D.Lgs.  n.  479  del
1994, art. 4, al pagamento delle spese del giudizio di rinvio.
3. Questa pronuncia veniva impugnata con ricorso per Cassazione dalla
       C.  che  lamentava la violazione dei  minimi  tariffari,  la
mancata  motivazione del rigetto delle richieste relative ai  diritti
di  procuratore  e  l'omessa pronuncia in ordine  alla  richiesta  di
liquidazione delle spese del giudizio di appello davanti al Tribunale
di  Messina.  Da questo momento il giudizio proseguiva  ulteriormente
solo per le spese di lite.
Con  sentenza n. 616 del 22 gennaio 1999 questa Corte di  Cassazione,
nuovamente investita in questo giudizio, accoglieva il ricorso  sotto
un  duplice profilo: per difetto di motivazione nella parte in cui il
Tribunale di Patti aveva disatteso la dettagliata nota delle spese di
giudizio e per omessa pronuncia nella parte in cui non aveva comunque
tenuto  conto  delle  spese  del  giudizio  d'appello  che  parimenti
avrebbero  dovuto essere liquidate. Cassava quindi  la  sentenza  del
Tribunale  di  Patti  e  rinviava la causa davanti  al  Tribunale  di
Barcellona Pozzo di Gotto.
4.  Nel  secondo giudizio di rinvio - avente ad oggetto solo l'esatta
determinazione  delle spese di lite - l'INPDAP chiedeva  la  conferma
della  liquidazione operata dal Tribunale di Patti e la compensazione
delle spese del nuovo giudizio di rinvio.
Il  Tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto, con la sentenza n. 95 del
2002,  ha  ritenuto:  a) che il valore della  causa,  al  fine  della
liquidazione  dei  diritti di procuratore, fosse da  determinarsi  in
base  non  gia' al disputatimi, bensi' al decisum e su tale  base  ha
liquidato  le  spese  di lite relative al primo  giudizio  di  rinvio
svoltosi davanti al Tribunale di Patti ed avente ad oggetto  la  sola
rivalutazione monetaria sul credito azionato con l'originaria domanda
nell'entita'  maturata dalla decorrenza prevista dalla  sentenza  del
medesimo  Tribunale, rivalutazione che l'Istituto  contestava  essere
dovuta;  b) ha invece ritenuto corrispondente a giustizia l'integrale
compensazione delle spese processuali del giudizio d'appello svoltosi
davanti  al Tribunale di Messina in considerazione del fatto  che  la
causa  era  stata  decisa  sulla  base  dell'intervento  della  Corte
Costituzionale successivo alla pronuncia di primo grado;  c)  ha  poi
escluso  la  spettanza dei diritti di procuratore per  il  successivo
giudizio  di  Cassazione  e  ha  commisurato  gli  onorari  a  carico
dell'Istituto in relazione al valore della controversia rapportato al
decisum; d) con lo stesso criterio (quello del decisum) ha liquidato,
sempre  a carico dell'Istituto, le spese del giudizio davanti a  se',
avente ad oggetto solo le spese di lite.
5.  Ricorre  per  Cassazione la        C. con un  unico  motivo  di
impugnazione.
L'INPDAP non ha svolto difesa alcuna.
Fissata  la trattazione della causa, all'udienza del 31 gennaio  2006
la Sezione Lavoro di questa Corte ha emesso ordinanza di trasmissione
del  ricorso  al  Primo  Presidente per l'eventuale  rimessione  alle
Sezioni Unite su un rilevato contrasto di giurisprudenza in ordine ai
criteri  di  determinazione  del valore della  controversia  al  fine
dell'esatta applicazione delle tariffe forensi.
La causa e' quindi stata nuovamente fissata innanzi a questa Corte  a
Sezioni Unite.
                       MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Con l'unico motivo di ricorso la ricorrente denuncia la violazione
degli  artt.  10 e 14 c.p.c. e dei criteri per la determinazione  del
valore  della  controversia ai fini della  liquidazione  delle  spese
processuali, dolendosi altresi' della violazione dell'art. 91  c.p.c.
e  L.  13  giugno  1942,  n. 794, art. 24, nonche'  del  decreto  del
Ministro  della  giustizia  del  5  ottobre  1994  n.  585,   recante
l'approvazione della delib. Consiglio Nazionale Forense del 12 giugno
1993,  che  stabiliva i criteri per la determinazione degli  onorari,
dei  diritti  e delle indennita' spettanti ad avvocati e  procuratori
legali  per le prestazioni giudiziali, in materia civile e penale,  e
stragiudiziali.
In  sostanza la        C. lamenta che la determinazione del  valore
della  causa sia stata di volta in volta effettuata in ragione  della
sola  parte  della domanda contestata in quel grado  del  giudizio  o
della  somma concretamente attribuita alla parte vittoriosa  in  quel
grado;  ed  afferma che tale criterio e' in contrasto in  particolare
con quanto prescritto dall'art. 14 c.p.c. secondo cui il valore delle
cause  relative  a somme di denaro si determina in  base  alla  somma
indicata o al valore dichiarato dall'attore al momento iniziale della
lite  senza  che  esso  possa  subire  riduzioni  per  la  successiva
delimitazione della materia del contendere.
La  censura  riguarda  esclusivamente  le  spese  relative  al  primo
giudizio  di rinvio, avente ad oggetto la debenza della rivalutazione
monetaria sul credito originariamente azionato, nonche' al successivo
giudizio  di  Cassazione  ed al secondo giudizio  di  rinvio,  aventi
entrambi ad oggetto la sola determinazione delle spese di lite.
2. Il ricorso e' infondato.
2.1.  Nella  citata ordinanza pronunciata all'udienza del 31  gennaio
2006  la  Sezione Lavoro di questa Corte ha rilevato che la questione
centrale  posta dal ricorso riguarda la liquidazione delle  spese  in
una  causa  iniziata  dalla ricorrente, gia' dipendente  di  un  ente
locale, nei confronti dell'INADEL, cui poi e' subentrato l'INPDAP  ex
D.Lgs. 30 giugno 1994, n. 479, art. 4, per il pagamento della maggior
somma  richiesta  a titolo di indennita' premio di  fine  servizio  e
proseguita - dopo che sulla sorte e sugli interessi si era formato il
giudicato favorevole alla ricorrente stessa - in ordine alla  debenza
della  rivalutazione monetaria e successivamente alle sole  spese  di
lite.  Tale  questione puo' quindi essere ricondotta  al  tema  della
liquidazione delle spese di giudizio a carico della parte soccombente
secondo il criterio del decisum ovvero quello del disputatum.
In  particolare l'ordinanza suddetta fa riferimento al  contrasto  di
giurisprudenza insorto quanto ai criteri di liquidazione delle  spese
di  lite nel giudizio proseguito solo per la loro quantificazione nei
gradi  precedenti,  essendosi  talora considerato  l'autonomo  valore
della  lite residuata (Cass. n. 19839 del 2004), talaltra  il  valore
iniziale (Cass. n. 15874 del 2004) oppure, talaltra ancora, il  primo
scaglione in ogni caso (Cass. nn. 9359 del 2005, 20273 del 2004).
L'ordinanza  quindi  pone  essenzialmente due  questioni  riguardanti
rispettivamente  la determinazione del valore di una controversia  in
base  al  disputatum o al decisum ed i criteri di liquidazione  delle
spese  processuali di un giudizio proseguito per la sola liquidazione
delle spese relative alle precedenti fasi.
2.2.  Ancorche'  nella  specie la vicenda processuale  sia  complessa
perche',  oltre  al giudizio di primo grado, ci sono  gia'  stati  un
giudizio  d'appello,  due  giudizi di Cassazione  e  due  giudizi  di
rinvio,  il  motivo  di ricorso e' pero' unico  e  riguarda  l'esatta
determinazione   del  rimborso  delle  spese   di   lite   a   carico
dell'Istituto   soccombente  relativamente   (non   gia'   all'intero
processo, bensi') a tre distinte fasi del giudizio: la ricorrente  si
duole  solo del fatto che il secondo giudice di rinvio (Tribunale  di
Barcellona P.G.) abbia erroneamente quantificato: a) le spese di lite
relative  al primo giudizio di rinvio innanzi al Tribunale Palmi  che
aveva  per il resto confermato integralmente la sentenza del  giudice
di  primo grado - pretore di Messina - di accoglimento parziale della
domanda; b) le spese del successivo giudizio di legittimita'  che  ha
riguardato unicamente la questione delle spese di lite; c)  le  spese
del giudizio innanzi al medesimo Tribunale, quale secondo giudice  di
rinvio, innanzi al quale la causa e' parimenti proseguita solo per le
spese di lite.
L'impugnata  sentenza  ha  poi  compensato  le  spese  del   giudizio
d'appello,  ma di cio' la ricorrente non si duole; ne' si  duole  del
fatto  che  la  medesima sentenza, che nel resto ha tenuto  ferma  la
precedente   sentenza  del  Tribunale  di  Patti,  non   abbia   reso
un'espressa pronuncia quanto alle spese di lite del primo giudizio di
Cassazione  che  erano state parimenti compensate tra  le  parti  dal
Tribunale di Patti.
Secondo  la  prospettazione  difensiva della  ricorrente  il  secondo
giudice  di  rinvio,  la  cui sentenza e' attualmente  impugnata  per
Cassazione,  avrebbe errato - nella sua triplice  liquidazione  delle
spese  (primo giudizio di rinvio, successivo giudizio di  Cassazione,
secondo giudizio di rinvio) - nel considerare il criterio del decisum
in luogo di quello - asseritamente corretto - del disputatum.
La  difesa della ricorrente ed in vero anche l'impugnata sentenza non
considerano invece che - come emerge dalla menzionata ordinanza della
Sezione  Lavoro - in giurisprudenza si e' affermato anche il criterio
di  determinazione  delle  spese di lite  con  riferimento  al  primo
scaglione  delle  tabelle  professionali  allorche'  la  controversia
prosegua,  come nella specie, solo per l'esatta determinazione  delle
spese stesse.
3.  Giova  preliminarmente premettere - al  fine  di  ricostruire  il
quadro  normativo  di  riferimento e di  verificare  l'ammissibilita'
della censura sotto il profilo della violazione di legge - che la  L.
7  novembre  1957,  n.  1051,  articolo unico  (Determinazione  degli
onorari,  dei  diritti e delle indennita' spettanti agli  avvocati  e
procuratori per prestazioni giudiziali in materia civile) ha previsto
che  i  criteri  per la determinazione degli onorari, dei  diritti  e
delle  indennita'  spettanti  agli  avvocati  e  ai  procuratori  per
prestazioni giudiziali in materia civile sono stabiliti dal Consiglio
nazionale  forense  con le modalita' contemplate dalla  L.  3  agosto
1949,  n.  536, art. 1, e relative agli onorari e alle indennita'  in
materia  penale e stragiudiziale. Disposizione questa  che  prescrive
che  i criteri per la determinazione degli onorari e delle indennita'
dovute   agli  avvocati  e  ai  procuratori  in  materia   penale   e
stragiudiziale  sono  stabiliti ogni biennio  con  deliberazione  del
Consiglio  Nazionale  Forense, approvata dal  Ministro  di  Grazia  e
Giustizia.
E'  stata cosi' parificata la regolamentazione delle tariffe  forensi
nella  materia civile e di quelle nella materia penale adottando  per
entrambe  il  criterio  della  ricezione  della  disciplina   interna
prodotta dal Consiglio Nazionale Forense.
In  precedenza un analogo sistema previsto in generale per le tariffe
forensi,  consistente  nell'approvazione del  Ministro  di  Grazia  e
Giustizia delle determinazioni dell'associazione categoriale  (R.D.L.
27  novembre  1933,  n.  1578, art. 57, recante  l'Ordinamento  delle
professioni di avvocato e di procuratore), era stata derogata, quanto
alle  tariffe civili, dalla L. 13 giugno 1942, n. 794 (sugli  onorari
di  avvocato e di procuratore per prestazioni giudiziali  in  materia
civile),  invocata  dalla difesa della ricorrente,  che  in  apposite
tabelle  fissava  -  ex  lege  e  quindi  direttamente  con  atto  di
normazione  primaria  -  gli onorari dovuti  e  ne  regolamentava  la
disciplina  ponendo  tra  l'altro,  all'art.  9,  i  criteri  per  la
"determinazione  del  valore delle cause",  che  e'  il  profilo  che
interessa in questo giudizio, nonche', all'art. 24, l'inderogabilita'
di  onorari e diritti stabiliti per le prestazioni dei procuratori  e
degli onorari minimi stabiliti per le prestazioni degli avvocati.
Il  citato  R.D.L.  n.  1578  del 1933, art.  57  e'  stato  dapprima
espressamente  sostituito dal D.Lgs.Lgt. 22 febbraio  1946,  n.  170,
art.  3,  con  il  richiamo recettizio - quanto agli onorari  e  alle
indennita' dovute agli avvocati ed ai procuratori in materia penale e
stragiudiziale  -  della  delibera del  Consiglio  dell'ordine  degli
avvocati  e  dei  procuratori, approvata dal  Ministro  di  Grazia  e
Giustizia, e poi modificato implicitamente dalla citata L.  3  agosto
1949, n. 536, art. 1, nei termini sopra indicati.
Invece  per  le tariffe civili il sistema della L. n.  894  del  1942
vedeva  dapprima,  nell'immediato  dopoguerra,  una  regolamentazione
provvisoria e contingente con la previsione di meri aumenti  ex  lege
degli importi delle tabelle (del 70% ex D.Lgs.Lgt. 20 luglio 1944, n.
276,  e del 200% ex citato, D.Lgs.Lgt. 22 febbraio 1946, n. 170, art.
1);  poi  interveniva la modifica della cit. L. n. 894  del  1942  ad
opera  della L. 19 dicembre 1949, n. 957, che stabiliva nuove tabelle
per   gli  onorari  d'avvocato  e  per  gli  onorari  e  diritti   di
procuratore; e da ultimo e' stata prevista l'uniformazione al sistema
delle  tariffe  forensi  in materia penale e  stragiudiziale  secondo
quanto previsto dalla citata L. 7 novembre 1957, n. 1051, art. unico.
4.  In  attuazione di tale ultima legge e' stato emanato il  D.M.  28
febbraio  1958 dal Ministro di Grazia e la Giustizia di  approvazione
della  deliberazione in data 15 febbraio 1958 del Consiglio nazionale
forense, che stabiliva i criteri per la determinazione degli onorari,
dei  diritti  e  delle  indennita'  spettanti  agli  avvocati  e   ai
procuratori per prestazioni giudiziali in materia civile.
Successivi    analoghi   decreti   ministeriali   hanno    provveduto
all'approvazione  di ulteriori deliberazioni del Consiglio  nazionale
forense:  D.M. 28 novembre 1960, D.M. 2 aprile 1965, D.M. 15  ottobre
1966,  D.M.  30  maggio 1969, D.M. 25 maggio 1973, D.M.  23  dicembre
1976,  D.M.  26 settembre 1979, D.M. 22 giugno 1982, D.M. 31  ottobre
1985,  D.M. 24 novembre 1990, n. 392, D.M. 14 febbraio 1992  n.  238,
D.M. 5 ottobre 1994 n. 585 e, da ultimo, D.M. 8 aprile 2004 n. 127.
Di  questi  decreti ministeriali quelli emessi dopo la L.  23  agosto
1988  n. 400, che all'art. 17 disciplina i regolamenti governativi  e
ministeriali, recano anche l'espressa qualificazione come regolamenti
ministeriali. Si tratta quindi di una normativa subprimaria  adottata
con   la   tecnica  del  rinvio  materiale  recettizio:  il   decreto
ministeriale  si riempie di contenuto recependo una specifica  delib.
Consiglio Nazionale Forense, cosi' facendola propria ed elevandola al
rango di normativa regolamentare.
Peraltro,  gia'  prima  della  cit.  L.  n.  400  del  1988,  si  era
riconosciuto  che,  pur  in  mancanza di  un'espressa  previsione  in
Costituzione,  "una legge o un atto avente la stessa efficacia  della
legge  formale  possa attribuire ad un ministro ...  la  potesta'  di
emanare  norme regolamentari" (C. cost. n. 79 del 1970);  l'idoneita'
di  questa  delega  di  normazione subprimaria  e'  stata  confermata
successivamente dalla citata L. n. 400 del 1988, art. 17, che prevede
la  possibilita' di emanare regolamenti ministeriali ove al  Ministro
la legge "espressamente conferisca tale potere" (cfr. C. Cost. n. 165
del 1989).
Nella  fattispecie la citata L. 7 novembre 1957, n. 1051, art. unico,
con  il  rinvio alla L. 3 agosto 1949, n. 536, art. 1, prevede questo
potere  di ricezione delle delib. Consiglio Nazionale Forense  seppur
nella  forma dell'approvazione ministeriale di un atto che certamente
non  ha ex se valenza normativa generale, qual e' la delib. Consiglio
Nazionale Forense. Dopo la L. n. 400 del 1988 il Decreto Ministeriale
di  approvazione della tariffa forense ha assunto - come ricordato  -
la  denominazione, per espressa autoqualificazione, di "regolamento".
La tecnica del rinvio materiale recettizio si e' poi affinata perche'
dall'"approvazione"   della  delib.  Consiglio   Nazionale   Forense,
allegata  al  Decreto Ministeriale (fino al D.M. 5 ottobre  1994,  n.
585),  si  e'  passati da ultimo (D.M. 8 aprile 2004,  n.  127)  alla
riproduzione  nel  Decreto Ministeriale, in allegato,  del  contenuto
della delibera senza piu' fare menzione di "approvazione" alcuna.
Quindi  per questa via la disciplina della tariffa forense in materia
civile,  penale  e  stragiudiziale adottata dal  Consiglio  nazionale
forense  assume  valore  di  normativa  non  gia'  primaria,   bensi'
subprimaria e segnatamente regolamentare; cfr. C. cost.  n.  339  del
1993  che, con riferimento al cit. D.M. 24 novembre 1990, n. 392,  ha
affermato che si tratta di "un atto evidentemente privo di  forza  di
legge", ossia non riconducibile alla normazione primaria; altresi' C.
Cost.  n.  20 del 1960, con riferimento proprio alla L. n.  1051  del
1957  cit.,  ha  parlato di "potesta' regolamentare" da  quest'ultima
conferita;   conf.  C.  Cost.  n.  163  del  1971  e,   quanto   alla
giurisprudenza di questa Corte, Cass., sez. 2^, 28 novembre 1987,  n.
8865, che espressamente considera di natura regolamentare il D.M.  22
giugno 1982, cit., in ragione della "competenza conferitagli dalla n.
1051  del  1957".  In particolare poi C. Cost. n.  180  del  1983  ha
dichiarato  manifestamente  infondata la  questione  di  legittimita'
costituzionale,  tra  l'altro, della citata L. 7  novembre  1957,  n.
1051,  articolo unico, nella parte in cui ha demandato  al  Consiglio
nazionale forense la determinazione delle tariffe professionali,  con
la  potesta'  di  stabilire  i massimi  e  i  minimi  entro  i  quali
l'autorita' giudiziaria deve contenere la liquidazione delle spese di
lite  a carico della parte soccombente. Parimenti, sul diverso  piano
dei  vincoli  comunitari, la Corte di giustizia C.E.  (C.  giust,  19
febbraio  2002, c-35/99 e c-309/99; e piu' recentemente C. giust.,  5
dicembre 2006, c-94/04 e c-202/04) ha affermato che gli artt. 5 e  85
del  Trattato C.E. (divenuti, in seguito a modifica, artt. 10  e  81)
non  ostano  all'adozione,  da parte di  uno  Stato  membro,  di  una
normativa anche regolamentare che approvi, sulla base di un  progetto
stabilito  da un ordine professionale forense, una tariffa che  fissa
dei  minimi  e  dei  massimi per gli onorari dei membri  dell'ordine,
qualora   tale  misura  statale  sia  adottata  nell'ambito   di   un
procedimento  come  quello previsto dal R.D.L. 27 novembre  1933,  n.
1578 e successive modifiche.
In  conclusione, per quanto riguardo questo aspetto preliminare della
tematica  in  esame, puo' affermarsi che questa Corte, nell'esercizio
del  suo sindacato di legittimita' e della sua ordinaria funzione  di
nomofilachia,  puo'  verificare,  in  quanto  trattasi  di  normativa
subprimaria regolamentare, l'esatta interpretazione della  disciplina
posta  dalla  delib.  del Consiglio nazionale  forense  recepita  con
Decreto Ministeriale - vuoi quando "approvata" (D.M. 5 ottobre  1994,
n.  585),  vuoi,  a  maggior ragione, quando direttamente  riprodotta
(D.M.  8 aprile 2004, n. 127) - sotto il profilo della violazione  di
legge, in cui si iscrive l'unico motivo del ricorso.
5.  Venendo al merito della questione posta con il motivo di ricorso,
deve considerarsi che l'art. 91 c.p.c. prevede che il giudice, con la
sentenza  che  chiude il processo davanti a lui,  condanna  la  parte
soccombente al rimborso delle spese a favore dell'altra  parte  e  ne
liquida  l'ammontare  insieme  con gli onorari  di  difesa;  criterio
questo  che  e'  mitigato  dalla previsione, contenuta  nell'art.  92
c.p.c.,  comma  1, che stabilisce che il giudice, nel pronunciare  la
condanna   di   cui  all'articolo  precedente,  puo'   escludere   la
ripetizione  delle  spese  sostenute dalla parte  vincitrice,  se  le
ritiene eccessive o superflue.
Inoltre  -  prevede  medesimo art. 92 c.p.c., comma  2  -  se  vi  e'
soccombenza  reciproca o concorrono altri giusti  motivi  il  giudice
puo' compensare, parzialmente o per intero, le spese tra le parti;
motivi  questi  che devono ora essere esplicitamente  indicati  nella
motivazione  secondo la novella della L. 28 dicembre  2005,  n.  263,
art. 2, comma 1, lett. a).
Il  codice  di  rito si limita quindi - come principio generale  -  a
prevedere  il diritto della parte vittoriosa al rimborso delle  spese
da   essa  sostenute  e  contempla  alcuni  correttivi  all'integrale
rimborso delle stesse.
Una  disciplina  piu' dettagliata era contenuta nella  citata  L.  13
giugno  1942, n. 794, art. 3, che prevedeva che gli onorari a  carico
della parte soccombente erano liquidati tenendo conto della natura  e
del  valore  della  controversia, del numero e dell'importanza  delle
questioni  trattate,  del grado dell'autorita'  adita,  con  speciale
riguardo all'attivita' dall'avvocato personalmente svolta davanti  al
giudice.
Questa stessa disciplina, ma di diverso rango nel sistema delle fonti
come  si  e'  appena  detto, e' stata poi posta  dai  citati  decreti
ministeriali e segnatamente dall'art. 5, comma 1, della  Tariffa  per
le  prestazioni  giudiziali  in  materia  civile,  amministrativa   e
tributaria, contenuta nella delib. Consiglio Nazionale Forense del 12
giugno 1993, approvata con il citato D.M. 5 ottobre 1994, n. 585  del
Ministro  di  grazia e giustizia (d'ora in poi "Tariffa civile"  tout
court), che - considerata l'epoca dei giudizi ai quali si riferiscono
le  spese  di  lite in questione (il primo giudizio di rinvio  si  e'
concluso con sentenza del 16 ottobre 1995; la sentenza del successivo
giudizio di Cassazione e' del 22 gennaio 1999; il secondo giudizio di
rinvio  si e' concluso con sentenza del 24 ottobre 2002) - e'  quello
applicabile  nella  fattispecie; ma - puo' subito  aggiungersi  -  la
disciplina  successivamente  posta dalla delib.  Consiglio  Nazionale
Forense  del  20 settembre 2002, recepita nel D.M. 8 aprile  2004  n.
127, cit., e' analoga.
Infatti  tale  disposizione  (citato  art.  5,  comma  1),  rubricata
"criteri generali per la liquidazione", prevede parimenti che  "nella
liquidazione  degli  onorari  a carico del  soccombente  deve  essere
tenuto   conto   della  natura  e  del  valore  della   controversia,
dell'importanza  e  del numero delle questioni  trattate,  del  grado
dell'autorita'  adita,  con  speciale riguardo  all'attivita'  svolta
dall'avvocato davanti al giudice".
Quindi,  le  spese  sostenute dalla parte vittoriosa  -  che  possono
essere  superiori a quelle rimborsabili come risulta  peraltro  dallo
stesso art. 5, commi 2 e 3, della Tariffa civile, che per le cause di
particolare  importanza prevede un incremento fino  al  doppio  degli
onorari  a  carico  della  parte  soccombente  e,  per  le  cause  di
straordinaria  importanza,  fino al  quadruplo  quanto  agli  onorari
dovuti  dal  cliente - sono liquidate sulla base di  plurimi  criteri
(i.e.: natura della controversia, importanza e numero delle questioni
trattate,  grado  dell'autorita' adita), tra i quali concorre  quello
del   "valore  della  controversia",  che  pero'  ha  una   rilevanza
particolare  perche'  il  regime  dell'inderogabilita'   dei   minimi
tariffari  -  previsto a livello di normazione primaria dalla  L.  13
giugno  1942,  n.  794, art. 24, e ribadito a livello  di  normazione
subprimaria  regolamentare  dall'art. 4 della  Tariffa  civile  -  fa
riferimento alle tabelle e quindi specificamente proprio al  criterio
del  "valore della controversia". Rilevanza questa che permane  anche
dopo  il  recente intervento del legislatore (D.L. 4 luglio 2006,  n.
223,  convertito, con modificazioni, nella L. 4 agosto 2006, n.  248)
che   ha   previsto   (all'art.  2,  comma  1)  l'abrogazione   delle
disposizioni  legislative e regolamentari che, con  riferimento  alle
attivita'   libero   professionali  e   intellettuali,   stabiliscono
l'obbligatorieta' di tariffe fisse o minime; infatti il secondo comma
del   medesimo  art.  2  stabilisce  che  il  giudice  provvede  alla
liquidazione delle spese di giudizio e dei compensi professionali, in
caso  di liquidazione giudiziale e di gratuito patrocinio, sulla base
della tariffa professionale, sicche', al fine del regime del rimborso
delle  spese  di  lite  a carico della parte soccombente,  rimane  il
limite  degli  onorari  minimi fin quando  la  tariffa  professionale
continuera'  a  prevederli,  ancorche'  non  piu'  con  carattere  di
inderogabilita'.
Questa  valutazione  complessiva  sulla  base  di  plurimi  parametri
concorrenti   comporta   un'ampia   discrezionalita'   del    giudice
nell'applicazione bilanciata di tutti tali criteri  (questa  Corte  -
Cass., sez. 2^, 28 novembre 1987, n. 8865 - ha rimarcato infatti  che
il convincimento espresso dal giudice di merito circa l'importanza ed
il   valore  delle  cause  trattate  dal  professionista,  il  pregio
dell'opera  da  lui svolta, i risultati ed i vantaggi conseguiti  dal
cliente,  ai fini della determinazione dell'onorario, si  sottrae  al
sindacato di legittimita', quando la motivazione sia immune  da  vizi
logici  o giuridici); discrezionalita' che pero' trova un limite  nel
rispetto  degli onorari minimi della tariffa professionale  (dapprima
ex L. n. 794 del 1942, art. 24 e art. 4 della Tariffa civile, cit;  e
poi  ex citato D.L. n. 223 del 2006, art. 2, comma 2). Essendo questi
onorari  minimi  fissati nelle tabelle della Tariffa  civile  secondo
coefficienti  di  parametrazione stabiliti in  ragione  del  "valore"
della  causa, si ha che - laddove si alleghi (cosi' come nel presente
giudizio)  il  superamento del limite degli onorari minimi  che  sono
fissati  appunto  in  relazione al "valore"  della  causa  -  diventa
rilevante e decisiva la nozione di "valore della controversia"  quale
prevista dall'art. 6 della Tariffa civile.
6.  Quanto  specificamente  alla  determinazione  del  "valore  della
controversia" il cit. art. 6 della Tariffa civile prevede  che  nella
liquidazione degli onorari a carico del soccombente, il valore  della
causa  e' determinato a norma del codice di procedura civile,  avendo
riguardo  in  particolare  nei  giudizi  per  pagamento  di  somme  o
liquidazione  di  danni, alla somma attribuita alla parte  vincitrice
piuttosto che a quella domandata.
Ed  e' sul "valore della controversia" che si appunta il contrasto di
giurisprudenza, denunciato con la menzionata ordinanza della  Sezione
Lavoro  di  questa Corte, che segnatamente riguarda  la  fattispecie,
qual  e'  quella  oggetto del giudizio in esame, di una  controversia
civile che dopo il primo grado e' continuata solo per una parte della
domanda (nella specie, la rivalutazione monetaria, oggetto del  primo
giudizio di rinvio innanzi al Tribunale di Palmi) e poi e' proseguita
ulteriormente  soltanto per l'esatta determinazione  delle  spese  di
lite (oggetto, nella specie, del successivo giudizio di Cassazione  e
del  secondo  giudizio di rinvio innanzi al Tribunale  di  Barcellona
P.G.).
La  questione che si pone, in riferimento a tale fattispecie,  ha  un
duplice profilo.
Ci  si  chiede  innanzi  tutto se, al fine dell'individuazione  dello
scaglione  tariffario per la liquidazione delle spese processuali  in
caso  di  riduzione  della domanda in un grado del giudizio,  occorra
fare  riferimento al decisum, ossia alla somma attribuita in concreto
alla parte vittoriosa (Cass. nn. 20273/2004, 20274/2004 e 4966/2005);
oppure  debba  considerarsi  il disputatimi,  ossia  l'oggetto  della
domanda  al  momento iniziale della lite, atteso che non rilevano,  a
tal  fine,  successive, eventuali riduzioni della domanda  (Cass.  n.
15874/2004, 7691/2001, 2638/97 e 2518/81).
Il  secondo  profilo riguarda l'individuazione dello scaglione  della
tariffa  cui  fare  riferimento  per  la  liquidazione  delle   spese
processuali relative alla fase del giudizio proseguito solo in merito
alle  spese della fase pregressa, atteso che nella giurisprudenza  di
questa Corte si e' ritenuto che il valore della causa e' quello dello
scaglione  minimo  (Cass.  nn.  20273/2004,  20274/2004,  9359/2005);
ovvero  che  esso  coincide con la liquidazione  stessa  delle  spese
(Cass. nn. n. 15874/2004, 19839/2004, 4966/2005).
Di  questo  contrasto  di  giurisprudenza -  che  per  una  singolare
evenienza ha riguardato in buona parte vicende processuali del  tutto
analoghe  a quella oggetto del presente giudizio - occorre  ora  dire
esaminando distintamente i due indicati profili tematici.
7.  Quanto alla prima questione, Cass., Sez. Lav., 8 marzo  2005,  n.
4966,  nel  confutare  la tesi del ricorrente, riproposta  ora  anche
nell'unico  motivo del ricorso in esame, secondo cui  che  il  valore
della  causa,  ai  fini  della liquidazione degli  onorari  spettanti
all'avvocato nei confronti del cliente, si determina avendo  riguardo
all'oggetto  della  domanda considerato nel  momento  iniziale  della
lite,  senza  che  esso  possa  subire riduzioni  per  la  successiva
delimitazione  della materia del contendere ad alcuna soltanto  delle
questioni  proposte, ha affermato che l'art. 6 della Tariffa  civile,
nel  disporre  che,  nella liquidazione degli onorari  a  carico  del
soccombente, il valore della causa e' determinato a norma del  codice
di  procedura  civile, avendo riguardo, nei giudizi per pagamento  di
somme  o  liquidazione  di danni, alla somma  attribuita  alla  parte
vincitrice  piuttosto  che a quella domandata,  va  interpretato  nel
senso  che, in caso di accoglimento totale della domanda in un  grado
del  giudizio  e di impugnazione del convenuto limitatamente  ad  una
parte  della somma attribuita, con conseguente passaggio in giudicato
della  condanna  in  relazione alla somma non contestata,  impone  di
rapportare  il  valore degli ulteriori gradi di  giudizio  alla  sola
somma ancora in contestazione, risultando illogico, oltre che iniquo,
equiparare, nella determinazione dei diritti e degli onorari a carico
del  soccombente, la posizione del convenuto che abbia  impugnato  la
condanna  all'intera somma a quella di colui che si  sia  limitato  a
contestare  solo una parte della somma cui sia stato  condannato  (la
fattispecie,  in  quel  giudizio, era del  tutto  identica  a  quella
oggetto  del  presente  giudizio: anche in quel  caso  il  Tribunale,
pronunciandosi  in  sede  di  secondo  giudizio  di   rinvio,   aveva
confermato  la  sentenza di altro Tribunale, quale primo  giudice  di
rinvio,  confermativa a sua volta di quella del pretore  di  parziale
accoglimento  della domanda di un ex-dipendente locale  al  ricalcolo
dell'indennita'  premio di fine servizio con rivalutazione  monetaria
ed interessi).
In  senso conforme si era gia' espressa la medesima Sezione Lavoro di
questa  Corte con due pronunce (Cass. 14 ottobre 2004,  n.  20273,  e
id., n. 20274, rese in altre fattispecie del tutto identiche a quella
in  esame)  in cui si e' affermato che l'accoglimento parziale  della
domanda in un grado del giudizio, con autorita' di giudicato,  impone
di  limitare  alla parte ulteriore della domanda stessa -  che  venga
accolta  nel grado successivo - il valore della causa ai  fini  della
individuazione  dello  scaglione (art.  6,  comma  1,  della  Tariffa
civile) per la liquidazione di onorari e diritti relativi allo stesso
grado.
In  altro analogo giudizio questa Corte (Cass., Sez. Lav., 14  agosto
2004,  n. 15874) ha parimenti rigettato il ricorso affermando che  ai
fini  della liquidazione degli onorari difensivi a carico della parte
soccombente,  il  riferimento contenuto  nell'art.  6  della  Tariffa
civile,  per la determinazione del valore della causa, alla somma  in
concreto   attribuita  alla  parte  vincitrice,  anziche'  a   quella
domandata - in deroga al principio della determinazione dei valore in
base  alla  domanda  - riguarda l'ipotesi in cui  detta  parte  abbia
maggiorato   con   la  domanda  il  credito  poi  riconosciuto   come
effettivamente spettante.
8. Questo orientamento giurisprudenziale - in realta' non contrastato
da  quello  di  cui  si  dira' infra sub 9  (mentre  per  l'effettivo
contrasto  di  giurisprudenza v. infra sub 10 ss.) - va confermato  e
ribadito.
8.1.   Il   comma  1  dell'art.  6  della  Tariffa  civile   per   la
determinazione del valore della controversia richiama  le  norme  del
codice  di procedura civile e quindi l'art. 10 c.p.c., ss.,  che,  ai
fini   della   competenza  per  valore,  offrono  vari  criteri   per
determinare tale parametro con riferimento alla domanda e  quindi  al
momento in cui la lite e' promossa (in cui si fissa il "disputatum").
In  particolare deve considerarsi richiamato anche l'art. 14  c.p.c.,
che  prevede che nelle cause relative a somme di danaro il valore  si
determina  in  base alla somma indicata dall'attore  che  costituisce
l'oggetto  della  domanda; in tal caso e' questo il  disputatimi  nel
momento  iniziale  della  lite, che e' quello  in  cui  si  fissa  la
competenza.
Analogamente puo' dirsi, in ragione del richiamo di cui  all'art.  6,
comma  1,  della Tariffa civile, che nelle cause relative a somme  di
danaro il "valore della controversia" si determina in base alla somma
indicata  dall'attore. Sicche' in generale questa Corte (Cass.,  sez.
2^,  27  febbraio  1998, n. 2172) ha affermato che  il  valore  della
causa,   ai   fini   della  liquidazione  degli   onorari   spettanti
all'avvocato  nei confronti del cliente, si determina, in  base  alle
norme  del  codice  di procedura civile, avendo riguardo  all'oggetto
della   domanda   considerato  nel  momento  iniziale   della   lite,
aggiungendo  peraltro  che  non assumono rilievo,  al  riguardo,  gli
interessi  e l'eventuale rivalutazione maturati sulla somma  capitale
nelle more della controversia.
Ma  "l'oggetto della domanda considerato nel momento iniziale" svolge
un  ruolo  diverso al fine dell'individuazione del giudice competente
per  valore  ed al fine della determinazione degli onorari d'avvocato
giacche'  nel  primo caso vale a fissare un parametro  oggettivo  per
individuare  in limine litis il giudice competente (i.e.  il  giudice
naturale),  nell'altro si tratta di un riferimento solo iniziale  per
determinare  un  parametro da utilizzare successivamente  al  momento
della  decisione della lite al fine di quantificare il rimborso delle
spese  di lite a carico della parte soccombente. Ed infatti il citato
art.  6,  comma  1,  della  Tariffa civile  precisa  ulteriormente  -
ripetendo  peraltro  la  previsione normativa  gia'  contenuta  nella
citata  L. n. 749 del 1942, art. 9, u.c., - che, nel caso di "giudizi
per pagamento di somme o liquidazione di danni" che si concludono con
un  accoglimento  parziale della domanda, deve  tenersi  conto  della
somma   attribuita   alla  parte  vittoriosa.  Quindi   occorre   far
riferimento al criterio del decisum che integra quello del disputatum
senza  che  tra  loro ci sia antinomia. Essi infatti  concorrono  per
esprimere    un   piu'   generale   principio   di   adeguatezza    e
proporzionalita'   degli   onorari   all'effettiva   portata    della
controversia  come  emerge inequivocabilmente dal correttivo  che  lo
stesso art. 6 cit. pone al comma 2: "Nella liquidazione degli onorari
a  carico del cliente, puo' aversi riguardo al valore effettivo della
controversia,  quando esso risulti manifestamente diverso  da  quello
presunto a norma del codice di procedura civile".
Anche  il  R.D.L.  n.  1578 del 1933, art. 60 - nello  stabilire  che
l'autorita' giudiziaria deve contenere la liquidazione entro i limiti
del  massimo e del minimo fissati a termini dell'art. 58 -  precisava
poi  che "per determinare il valore della controversia si ha riguardo
a  cio'  che  ha formato oggetto di vera contestazione". Insomma  una
lettura  coordinata  del duplice criterio del  comma  1  dell'art.  6
(quello  del disputatum e quello del decisum) con quello del comma  2
(il  "valore effettivo della controversia") fa emergere il  principio
fondante,  sotteso a questa disciplina regolamentare, che  e'  quello
dell'adeguatezza  e  proporzionalita'  degli  onorari   all'attivita'
professionale  svolta (cfr. anche C. cost. n. 36  del  1980  che  con
riferimento  agli onorari di avvocati e procuratori ha affermato  che
"ai fini del controllo dell'osservanza dei principi di cui agli artt.
35   e  36  Cost.,  deve  considerarsi  l'attivita'  complessiva  del
professionista",  cosi' ritenendo mutuabile dagli  evocati  parametri
tale  canone di adeguatezza e proporzionalita' previsto per il lavoro
che va tutelato in tutte le sue forme ed applicazioni).
Quindi  sulla  base  di un'interpretazione sistematica  dell'art.  6,
commi 1 e 2, della Tariffa civile, il disputatum nel momento iniziale
della   lite   non   e'   risolutivo,  dovendo  tenersi   conto   poi
dell'effettiva  decisione  (il decisimi) del  giudice  che  fissa  la
dimensione reale della lite stessa.
Di  questo  criterio di adeguatezza e proporzionalita' ha in  realta'
gia'  fatto  applicazione questa Corte a Sezioni Unite  (Cass.,  sez.
un.,  13  luglio  1963, n. 1911) che ha affermato  che  "nelle  cause
aventi  ad  oggetto  pagamento  di  somme  si  ha  riguardo,  per  la
liquidazione  degli  onorari a carico della parte  soccombente,  alla
somma  attribuita alla parte vincitrice e non a quella  domandata,  e
cio' per consentire di moderare la rivalsa delle spese entro i limiti
del   valore   giudizialmente   accertato,   evitando   che   domande
eventualmente esagerate conferiscano alla causa un valore diverso  da
quello reale".
Insomma  il  riferimento  dell'art. 6 al  valore  della  controversia
determinato a norma del codice di procedura civile riguarda l'ipotesi
in  cui  la  domanda  sia  accolta  integralmente  e  quindi  ci  sia
corrispondenza tra disputatum e decisum. Ma se la domanda e'  accolta
solo  parzialmente  si  impone sempre un  adeguamento  degli  onorari
all'effettiva portata della controversia che e' quella  espressa  dal
decisum.
8.2. Questo principio poi trova applicazione anche nel caso in cui il
giudizio prosegua soltanto per una parte dell'originaria domanda.
La regola del decisum vale anche per i gradi successivi; ossia, se in
grado  d'appello  si  controverte  solo  su  una  parte  della  somma
originariamente  richiesta, e' questo il disputatum del  giudizio  di
impugnazione e sara' il decisum (ove favorevole all'attore in tutto o
in  parte soccombente in primo grado) a fissare il valore della causa
in appello. Questa "riduzione" del valore della causa e' coerente sia
con  il criterio del "decisum", che esprime una generale esigenza  di
adeguatezza delle spese di lite all'effettiva importanza  della  lite
stessa, sia con il criterio generale dell'art. 5 della Tariffa civile
che  fa  riferimento - oltre che alla "natura" e  al  "valore"  della
controversia, all'"importanza" e al "numero" delle questioni trattate
-  anche  specificamente al "grado" dell'autorita' adita.  Quindi  il
fatto  che  nel giudizio di impugnazione il thema decidendum  si  sia
ridotto  non  puo' non incidere sulla natura e sull'importanza  della
questione; pertanto si riduce anche il disputatum (come regola),  che
concorre  con il decisum (come eccezione) - al pari del  giudizio  di
primo  grado - nel caso di attribuzione solo parziale del bene  della
vita oggetto della lite.
8.3.  Rimane  poi  sempre,  nel caso di accoglimento  parziale  della
domanda,  la possibilita' della compensazione, parziale o totale,  ex
art.  92 c.p.c, comma 2, che concorre - operando su un piano distinto
-  con l'applicazione del criterio del decisum in luogo di quello del
disputatum.
Il   criterio   del   decisum  vale  a  proporzionare   gli   onorari
all'effettiva consistenza della lite non potendo essere avvantaggiato
chi propone una domanda eccedente la giusta pretesa (risultante dalla
pronuncia  che  definisce il giudizio) rispetto  a  chi  propone  una
domanda  contenuta negli effettivi limiti di quest'ultima. Invece  la
compensazione   parziale   o   totale,   quando   concorre   con   il
riproporzionamento  conseguente  all'applicazione  del  criterio  del
decisum, tiene conto anche del comportamento processuale delle  parti
nel  senso  che  il  giudice, che ritenga che la  domanda  sia  stata
ingiustificatamente  eccedente  la  giusta  pretesa,  potra'  operare
altresi'  una  compensazione parziale fino  anche  ad  arrivare  alla
compensazione  totale  delle spese di lite;  invece,  se  il  giudice
ritiene  che l'attore in buona fede abbia chiesto di piu'  di  quanto
risultato  spettantegli,  potra' limitarsi a  calcolare  il  rimborso
delle spese di lite secondo il criterio del decisum.
Nel caso poi di controversia di valore indeterminato che tale rimanga
anche  dopo  la  decisione del giudice (come ad es.  il  giudizio  di
opposizione  alla sentenza dichiarativa di fallimento, v.  da  ultimo
Cass., sez. un., 24 luglio 2007, n. 16300), la compensazione parziale
delle  spese puo' assolvere all'una e all'altra funzione: sia  quella
di riproporzionamento degli onorari all'effettiva portata della lite,
sia quella di valutazione del comportamento processuale delle parti.
9.   Rimanendo  ancora  al  primo  profilo  tematico,  c'e'  poi   da
considerare che Cass., sez. lav., 14 agosto 2004, n. 15874, cit.,  ha
pero' aggiunto - come obiter dictum - che il criterio del decisum non
opera  nell'ipotesi  in cui, ferma restando l'esattezza  dell'entita'
del  credito  vantato  dalla  parte vincitrice  con  la  domanda,  il
relativo  ammontare  sia mutato per fatti sopravvenuti  in  corso  di
causa,  come  il  pagamento  totale o  parziale  del  debito.  Questa
puntualizzazione  risponde a quanto gia'  ritenuto  da  questa  Corte
(Cass.,  Sez. Lav., 25 marzo 1997, n. 2638) che ha affermato che,  ai
fini  della liquidazione degli onorari difensivi a carico della parte
soccombente,  il  riferimento contenuto  nell'art.  6  della  Tariffa
civile,  per la determinazione del valore della causa, alla somma  in
concreto   attribuita  alla  parte  vincitrice,  anziche'  a   quella
domandata - in deroga al principio della determinazione del valore in
base  alla  domanda  - riguarda l'ipotesi in cui  detta  parte  abbia
maggiorato   con   la  domanda  il  credito  poi  riconosciuto   come
effettivamente  spettante  al momento della  domanda  medesima;  tale
deroga  non  opera,  pertanto, nelle ipotesi in cui,  ferma  restando
l'esattezza  dell'entita' del credito vantato dalla parte vittoriosa,
il  relativo ammontare sia mutato per fatti sopravvenuti in corso  di
causa,  come il pagamento totale o parziale del debito (conf.  Cass.,
sez. 2^, 27 aprile 1981, n. 2518; Cass. 20 gennaio 1976 n. 160).
Questa   puntualizzazione  pero'  non  radica  alcun   contrasto   di
giurisprudenza,  ne' inficia le affermazioni sub  8  ss.,  bensi'  di
queste rappresenta un corollario.
Nella  fattispecie  alla quale fa riferimento  la  giurisprudenza  da
ultimo citata non c'e' un accoglimento parziale della domanda ne' una
concentrazione della controversia negli ulteriori gradi  di  giudizio
solo su alcuni capi della domanda originaria.
C'e'  una  situazione del tutto diversa che e' quella della riduzione
della  domanda  perche' il diritto azionato e' stato  soddisfatto  in
parte  nel  corso del giudizio. La ratio si raccorda a  quella  della
soccombenza  virtuale nel caso in cui l'intera pretesa  azionata  sia
stata  soddisfatta  e sia cessata la materia del contendere.  In  tal
caso  - come piu' volte affermato da questa Corte (ex plurimis Cass.,
sez.  3^,  11  gennaio 2006, n. 271) - il giudice  deve  valutare  la
fondatezza  della domanda al solo fine del rimborso  delle  spese  di
lite,  senza che possa tenersi conto della estinzione del debito  per
sopravvenuto adempimento nelle more del giudizio.
La  situazione  e'  analoga  nel caso in cui  il  diritto  sia  stato
soddisfatto  solo  in  parte:  per la  determinazione  degli  onorari
occorrera' considerare il disputatum e non gia' il decisum  allorche'
il  giudice,  sollecitato dalla parte che chieda  il  rimborso  degli
onorari sulla base dell'originario valore della controversia, ritenga
la  piena  fondatezza dell'originaria domanda, accolta solo in  parte
per il sopravvenuto parziale adempimento nelle more del giudizio.
10.  Passando  ora  al  secondo  profilo  tematico,  sopra  indicato,
relativo  al  "valore  della controversia" nel  caso  in  cui  questa
prosegua  unicamente per le spese di lite, questa Corte (Cass.,  sez.
lav.,  14  agosto 2004, n. 15874) ha affermato che,  ove,  a  seguito
dell'accoglimento  della  domanda, il giudizio  continui  avendo  per
esclusivo oggetto la determinazione delle spese, si ha lo spostamento
della  materia del contendere su un diverso oggetto, costituito dalle
spese  pregresse da recuperare, in base alle quali viene  fissato  il
valore  della causa che prosegue, sicche' le ulteriori spese -  ossia
il compenso per l'attivita' defensionale svolta per definire le spese
pregresse - devono essere determinate considerando come valore  della
controversia tali spese pregresse in contestazione.
Analogamente Cass., sez. lav., 4 ottobre 2004, n. 19839, ha  ritenuto
che, ove la controversia abbia trovato la sua soluzione definitiva in
statuizioni   ormai  passate  in  giudicato  e   residui   solo   una
contestazione in ordine alla liquidazione delle spese di lite, queste
acquistono   una   loro  autonomia  rispetto  al   thema   decidendum
dell'originaria causa, sicche' la liquidazione delle ulteriori  spese
della  fase processuale in prosecuzione va operata tenendo  conto  di
tale residua materia del contendere, ossia delle spese pregresse.
Anche Cass., sez. lav., 8 marzo 2005, n. 4966 - nell'affermare che le
regole  dettate  dal codice di procedura civile per la determinazione
del  valore della causa non prendono in considerazione le  spese  del
processo,  che  non  hanno  titolo  nella  causa  petendi,  ne'  sono
riconducigli  al  petitum mediato della domanda, ma  sono  anticipate
dalla  parte,  salvo  poi essere regolamentate dal  giudice  in  base
all'esito finale della lite - ha parimenti ritenuto che il valore dei
gradi  di  giudizio in cui sia in contestazione solo  la  misura  dei
diritti  e  degli  onorari  liquidati a  carico  del  soccombente  va
commisurata  alla  parte  dei diritti e degli  onorari  ulteriormente
richiesti  (in  caso  di  rigetto  dell'impugnazione)  o  di   quelli
ulteriormente attribuiti (in caso di accoglimento).
Questo  orientamento prevalente e' stato contrastato da  Cass.,  sez.
lav.,  14  ottobre  2004, nn. 20273 e 20274, cui  ha  successivamente
aderito  Cass., sez. lav., 5 maggio 2005, n. 9359, che  ha  affermato
che,  ove  -  una  volta  che  la causa  sia  stata,  per  il  resto,
definitivamente  decisa  con autorita' di  giudicato  -  il  giudizio
prosegua,  nei gradi ulteriori, per la sola liquidazione delle  spese
relative  ai  gradi  precedenti, tale giudizio non  ha  per  oggetto,
neanche  in parte, una qualsiasi domanda ai fini della individuazione
dello  scaglione della tariffa professionale, per la liquidazione  di
onorari e diritti (art. 6, comma 1, della Tariffa civile, cit.);  non
resta,  quindi,  che  fare riferimento al primo scaglione  -  che  e'
previsto  per  le  cause  di valore meno  elevato  -  al  fine  della
liquidazione di onorari e diritti relativi allo stesso giudizio.
11. Il contrasto, sotto questo profilo effettivamente sussistente, va
risolto nel senso dell'orientamento prevalente.
Il  principio  di  adeguatezza e proporzionalita',  sopra  affermato,
impone  una  costante  ed  effettiva relazione  tra  la  materia  del
dibattito  processuale  e  l'entita' degli  onorari  per  l'attivita'
professionale  svolta. Espressione di questa concreta adeguatezza  si
e'  gia'  visto essere il criterio del decisum che prevale su  quello
del disputatum; e' il decisum che da la misura dell'effettiva portata
della controversia e quindi del suo "valore". E da tale principio  si
e'  tratta  l'ulteriore inferenza che, ove nei successivi  gradi  del
giudizio  la  materia del contendere si concentri solo su  una  parte
della  domanda, mentre per il resto si formi il giudicato, il  valore
della  controversia  nel grado deve tener conto di  questa  riduzione
della  materia  del contendere e quindi si concentra nel  disputatum,
salvo   cedere  il  passo  al  criterio  del  decisum  nel  caso   di
accoglimento parziale dell'impugnazione.
Orbene,  anche nella fattispecie oggetto del denunciato contrasto  di
giurisprudenza    opera    tale   principio    di    adeguatezza    e
proporzionalita'. Nel caso in cui - una volta che la pretesa azionata
sia  stata  delibata con sentenza non impugnata  in  questa  parte  e
quindi  sia  passata in giudicato - rimanga pero' ancora una  residua
materia  del  contendere  consistente soltanto  nell'ammontare  delle
spese  di  lite, il dibattito processuale si concentra su queste  che
danno  la  misura dell'attivita' difensiva delle parti e  che  quindi
rappresentano il "valore" della controversia residuale.
Mentre  nel  giudizio di primo grado le spese di lite non  hanno  una
loro  autonomia al fine della loro liquidazione a carico della  parte
soccombente, ma conseguono alla soccombenza e quindi - cosi' come per
interessi  e  rivalutazione secondo Cass. n.  2172/1998  cit.  -  non
concorrono, a tal fine, a determinare il "valore della controversia",
nei successivi gradi di giudizio il rimborso delle spese di lite, ove
oggetto di contestazione, puo' assumere una sua autonomia e diventare
oggetto  del  dibattito processuale connotato da una  pretesa  avente
appunto  ad  oggetto  una  diversa  quantificazione  del  diritto  al
rimborso  delle  spese di lite in favore della parte  vittoriosa.  Il
differenziale tra la somma riconosciuta dal giudice, la cui  sentenza
e'  solo  per  questo impugnata, e la somma che la  parte  impugnante
ritiene  esatta  costituisce  il "disputatimi",  che  rappresenta  il
"valore   della   controversia"  nel  grado.  Ove  poi   il   giudice
dell'impugnazione  accolga  solo  in  parte  il  gravame,  sara'   il
"decisimi",  in  ragione della regola dell'art.  6,  comma  1,  della
Tariffa  civile, come sopra interpretato, a fissare il  valore  della
controversia  quale parametro per determinare le ulteriori  spese  di
lite della fase processuale che abbia avuto ad oggetto unicamente  le
spese di lite della fase precedente.
L'opposto    criterio   accolto   dall'indirizzo    giurisprudenziale
minoritario,  sopra cit., e' invece privo di base normativa,  nonche'
ingiustamente  penalizzante  per  le  parti.  Lo  e'  per  la   parte
vittoriosa  che,  avendo ottenuto un rimborso delle spese  in  misura
inferiore  al  minimo  inderogabile  (v.  sopra),  e'  costretta   ad
impugnare  la sentenza chiedendo che il rimborso sia fissato  in  una
somma  maggiore;  ed  in  tal  caso il  differenziale  tra  l'importo
liquidato  nel grado precedente e quello richiesto con l'impugnazione
della  decisione potrebbe anche essere di notevole entita' economica,
talche'  la  materia  del  contendere - il  disputatum  nel  grado  -
potrebbe  essere  in  concreto ben maggiore del valore  minimo  della
tabella della Tariffa civile. La stessa considerazione vale anche per
la  parte  soccombente  che, prestando acquiescenza  nel  resto  alla
sentenza,  si dolga unicamente della quantificazione dell'obbligo  di
rimborso delle spese di lite.
La  Tariffa  civile  poi non contiene in realta'  una  pluralita'  di
importi  degli  onorari articolati in scaglioni al  primo  dei  quali
assegnare, secondo l'opposto orientamento giurisprudenziale da ultimo
citato,  una  particolare  valenza residuale.  Essa  infatti  prevede
importi   base   tabellati  e  "coefficienti  di   applicazione"   di
incremento,  ma talora anche di riduzione, dai quali si ricavano  gli
scaglioni  secondo il valore della controversia. Se invece  l'oggetto
della  causa e' di valore indeterminabile sono previsti parametri  di
moltiplicazione  che  individuano la forbice  (in  questo  caso  piu'
ampia) del minimo e del massimo degli onorari.
Ma al di la' delle controversie che hanno un "valore" determinabile -
tra  le quali quelle di valore minimo appartenenti al primo scaglione
non  hanno un particolare rilievo - e di quelle per le quali  non  e'
possibile  determinare un "valore", non c'e' un  tertium  genus  dato
dalle  controversie non riferibili ad una domanda  per  essere  stata
questa interamente e definitivamente delibata nei precedenti gradi di
giudizio  salvo  che per le spese di lite e tali quindi  da  ricadere
residualmente tra quelle del primo scaglione della Tariffa civile, di
valore   inferiore  a  tutte  le  altre.  Sarebbe   del   resto   una
contraddizione in termini ipotizzare un giudizio di impugnazione  che
non  abbia  un  oggetto  potendo questo  essere  sempre  desunto  dal
petitum,   sicche'   non  puo'  condividersi  l'affermazione,   fatta
dall'opposta  menzionata giurisprudenza, secondo cui il giudizio  che
prosegue  solo per le spese di lite "non ha per oggetto,  neanche  in
parte, una qualsiasi domanda".
In realta', ai fini che interessano, un petitum c'e' ed e' diretto ad
una   rettifica  della  quantificazione  della  somma  che  la  parte
soccombente  e'  tenuta a pagare alla parte vittoriosa  a  titolo  di
rimborso di spese di lite sulla base della pronuncia impugnata.
Insomma,   a   parita'  di  importi  controversi  nel   giudizio   di
impugnazione, contrasterebbe con l'enunciato principio di adeguatezza
e  proporzionalita' una valutazione ingiustificatamente differenziata
del valore della controversia, ai fini in esame, secondo che la causa
petendi  sia un qualsiasi credito ovvero sia il rimborso delle  spese
di lite del precedente grado di giudizio.
12.  In  conclusione in ordine ai due profili della questione  finora
esaminata   ed  alle  fattispecie  prese  in  considerazione   devono
enunciarsi i seguenti principi di diritto:
a)  il valore della controversia al fine del rimborso delle spese  di
lite a carico della parte soccombente va fissato - in armonia con  il
principio  generale di proporzionalita' ed adeguatezza degli  onorari
di  avvocato  all'opera professionale effettivamente prestata,  quale
desumibile dall'interpretazione sistematica dell'art. 6, commi 1 e 2,
della  Tariffa  per  le  prestazioni giudiziali  in  materia  civile,
amministrativa   e  tributaria,  contenuta  nella  delib.   Consiglio
Nazionale  Forense del 12 giugno 1993, approvata con D.M.  5  ottobre
1994,  n.  585  del  Ministro di grazia e  giustizia,  avente  natura
subprimaria   regolamentare  e  quindi  soggetta  al   sindacato   di
legittimita'   di  questa  Corte  -  sulla  base  del  criterio   del
disputatimi (ossia di quanto richiesto dalla parte attrice  nell'atto
introduttivo  del  giudizio), tenendo pero' conto  che,  in  caso  di
accoglimento solo parziale della domanda, il giudice deve considerare
il  contenuto  effettivo della sua decisione (criterio del  decisum),
salvo che la riduzione della somma o del bene attribuito non consegua
ad un adempimento intervenuto, nel corso del processo, ad opera della
parte  debitrice,  convenuta in giudizio, nel qual caso  il  giudice,
richiestone  dalla parte interessata, terra' conto non  di  meno  del
disputatum, ove riconosca la fondatezza dell'intera domanda.
b)  Analogamente nel caso in cui, ove una parte impugni la  decisione
resa dal giudice soltanto in parte, il valore della controversia  nel
suo  successivo  sviluppo  nel grado di impugnazione  e'  limitato  a
quanto  richiesto  dalla  parte impugnante secondo  il  criterio  del
disputatum,   integrato  dal  criterio  del  decisum   in   caso   di
accoglimento parziale dell'impugnazione.
c)  Ove il giudizio prosegua in un grado di impugnazione soltanto per
la  determinazione del rimborso delle spese di lite  a  carico  della
parte  soccombente,  il differenziale tra la somma  attribuita  dalla
sentenza  impugnata  e  quella ritenuta corretta  secondo  l'atto  di
impugnazione costituisce il disputatum della controversia nel grado e
sulla  base  di tale criterio, integrato patimenti dal  criterio  del
decisum,  vanno  determinate  le ulteriori  spese  di  lite  riferite
all'attivita' difensiva svolta nel grado.
13.  Nella  specie  il Tribunale di Barcellona P.G. ha  correttamente
fatto  applicazione  di  questi principi perche'  ha  considerato  il
valore  della  causa tenendo conto del disputatum e del decisum  come
evolutisi  via via ed quindi - giustamente pretermettendo  il  valore
iniziale  della controversia, come invece sostenuto dalla  ricorrente
nel  motivo  di ricorso - ha considerato che il secondo  giudizio  di
rinvio  ha avuto ad oggetto solo la rivalutazione monetaria e che  il
successivo  giudizio di Cassazione ed il secondo giudizio  di  rinvio
hanno avuto ad oggetto solo le spese di lite contestate.
Il  ricorso va pertanto rigettato senza necessita' di pronuncia sulle
spese  di questo giudizio non avendo la parte intimata svolto  difesa
alcuna.
                               P.Q.M.
La Corte, a Sezioni Unite, rigetta il ricorso; nulla per le spese.
Cosi' deciso in Roma, il 3 luglio 2007.
Depositato in Cancelleria il 11 settembre 2007