Sentenze Civili della Corte di Cassazione
#ANNO/NUMERO 2005/12868       #SEZ U                   #NRG 2001/31303
#UDIENZA DEL 05/05/2005                      #DEPOSITATO IL 16/06/2005
#MASSIMATA NO

#RICORRENTE Comune Di Roma
#AVV RICORRENTE Scotto Gabriele
#RESISTENTE Fralleoni Ilia
#AVV RESISTENTE Quintarelli Alfonso


                        REPUBBLICA ITALIANA            Ud. 05/05/05
                     IN NOME DEL POPOLO ITALIANO  R.G.N. 31303/2001
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
                        SEZIONI UNITE CIVILI
              Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CARBONE   Vincenzo                  - Presidente aggiunto   -
Dott. CORONA    Rafaele                   - Presidente di sezione -
Dott. DUVA      Vittorio                  - Presidente di sezione -
Dott. PAPA      Enrico                              - Consigliere -
Dott. PREDEN    Roberto                             - Consigliere -
Dott. VARRONE   Michele                             - Consigliere -
Dott. LUCCIOLI  Maria Gabriella                - rel. Consigliere -
Dott. GRAZIADEI Giulio                              - Consigliere -
Dott. CICALA    Mario                               - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
                              SENTENZA
sul ricorso proposto da:
COMUNE  DI  ROMA,  in persona del Sindaco pro-tempore,  elettivamente
domiciliato  in ROMA, VIA DEL TEMPIO DI GIOVE 21, presso l'Avvocatura
Comunale,  rappresentato  e  difeso dagli avvocati  SCOTTO  Gabriele,
LUIGI ONOFRI, giusta delega a margine del ricorso;
                                                       - ricorreste -
                               contro
FRALLEONI  Ilia,  elettivamente domiciliata  in  ROMA,  VIA  GIOVANNI
BETTOLO  17, presso lo studio dell'avvocato QUINTARELLI Alfonso,  che
la rappresenta e difende, giusta delega a margine del controricorso;
                                                 - controricorrente -
avverso  la sentenza n. 589/00 della Commissione tributaria Regionale
di ROMA, depositata il 05/03/01;
udita  la  relazione  della causa svolta nella Pubblica  udienza  del
05/05/05 dal Consigliere Dott. Maria Gabriella LUCCIOLI;
udito l'Avvocato Luigi ONOFRI;
udito  il  P.M.  in  persona dell'Avvocato  Generale  Dott.  IANNELLI
Domenico  che ha concluso per l'ammissibilita' del ricorso, rinvio  a
sezione semplice.
                      SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
Ilia  Fralleoni ricorreva alla Commissione tributaria provinciale  di
Roma  deducendo la nullita' della cartella esattoriale del  10  marzo
1997, con la quale le era stato ordinato il pagamento della somma  di
L.  1.673.000  per tassa di smaltimento di rifiuti  solidi  urbani  e
tributo  provinciale per T anno 1997, per errata identificazione  del
soggetto  obbligato, per illegittimita' manifesta  e  violazione  del
principio  di capacita' contributiva, per essere stata effettuata  la
notifica  della  cartella  stessa oltre un mese  dalla  consegna  del
ruolo.  Con  sentenza  del 19 aprile 1999 la  Commissione  tributaria
provinciale accoglieva parzialmente il ricorso.
Proposto  appello dal Comune ed appello incidentale dalla  Fralleoni,
con  sentenza  del  18  dicembre 2000 - 5 marzo 2001  la  Commissione
tributaria   regionale   rigettava   l'impugnazione   principale   ed
accoglieva   quella   incidentale.  Osservava   in   motivazione   la
Commissione  che, avendo la contribuente avviato nel  1994  un  nuovo
procedimento di accertamento rispetto a quello iniziale attivato  con
la  denuncia ed essendo l'Ufficio pervenuto a conclusioni diverse  da
quelle  ipotizzate  nella  seconda denuncia,  avrebbe  dovuto  essere
adottato un avviso di accertamento.
Il  Comune  di  Roma  proponeva ricorso per Cassazione  avverso  tale
sentenza deducendo tre motivi illustrati con memoria.
La Fralleoni resisteva con controricorso.
Con  ordinanza depositata il 10 settembre 2004 la sezione  tributaria
di  questa Corte, rilevato che il Comune di Roma si era costituito in
giudizio in persona del sindaco sulla base di una determinazione  del
dirigente responsabile dell'Unita' organizzativa tributi, sollecitava
l'intervento  delle  Sezioni  Unite  ai  fini  della  soluzione   del
contrasto  giurisprudenziale esistente  in  ordine  alla  persistenza
della  necessita',  nel nuovo ordinamento degli  enti  locali,  della
autorizzazione al sindaco a stare in giudizio in nome e per conto del
Comune  e, nel caso di soluzione positiva di detto quesito, in ordine
alla possibilita' che lo statuto comunale disciplini la materia delle
autorizzazioni  alle  liti attribuendo la relativa  determinazione  a
dirigenti  dell'amministrazione, nonche' in ordine alla  operativita'
in relazione allo statuto del principio generale del iuranovit curia.
Il  ricorso  era  quindi  affidato a queste Sezioni  Unite  ai  sensi
dell'art.  374  comma  2 c.p.c., sia ai fini della  composizione  del
denunciato  contrasto,  sia in ragione della  particolare  importanza
delle  questioni  che lo stesso ricorso solleva. Il  Comune  di  Roma
infine depositava ulteriore memoria.
                       MOTIVI DELLA DECISIONE
Come  risulta dalla esposizione che precede, le questioni che  queste
Sezioni  Unite  sono chiamate a risolvere attengono alla  necessita',
anche nel sistema delle autonomie locali disciplinato dal testo unico
di  cui al decr. legisl. n. 267 del 2000, della autorizzazione  della
giunta  comunale al sindaco a promuovere o a resistere alle  liti  e,
nell'ipotesi  a affermativa, alla possibilita' che lo  statuto  detti
una  disciplina  derogatoria,  eventualmente  investendo  del  potere
deliberativo un dirigente dell'amministrazione comunale, nonche' alla
applicabilita' del principio della scienza ufficiale del  giudice  in
relazione allo statuto.
Ritengono le Sezioni Unite che la soluzione delle questioni in  esame
postuli una rilettura complessiva dell'ordinamento degli enti locali,
attraverso  una ricostruzione storico - sistematica degli  interventi
normativi succedutisi nel tempo, che hanno profondamente inciso sulla
fisionomia, sull'autonomia e sull'organizzazione di detti enti, ed un
approccio  alla  problematica  che muova  dall'analisi  del  connesso
problema  della rappresentanza processuale. Come e' noto,  su  quest'
ultimo  problema la giurisprudenza di questa Suprema Corte,  anche  a
sezioni unite, e' pervenuta a conclusioni non univoche.
Secondo  l'orientamento decisamente prevalente la  rappresentanza  in
giudizio del Comune deve considerarsi riservata, in base all'art.  50
del testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali di cui
al  decr.  legisl. n. 267 del 2000, cosi' come in base al  precedente
art. 36 della legge n. 142 del 1990, esclusivamente al sindaco e  non
puo'  essere esercitata dal diligente titolare della direzione di  un
ufficio  o di un servizio neppure se cio' sia previsto dallo statuto:
conseguentemente,  ove  lo  statuto o il regolamento  contengano  una
previsione  siffatta,  essi devono essere  disapplicati  dal  giudice
ordinario,  in  ragione della loro illegittimita' per  violazione  di
legge (cosi', tra le altre, Cass. 2003 n. 1949; 2003 n. 2583; 2003 n.
2878; 2003 n. 3736; 2003 n. 17360; 2003 n. 19082; 2004 n. 10787; 2004
n 15634; 2004 n. 18087).
Tali  decisioni  si  fondano, pur nella non  completa  identita'  del
relativo   percorso  argomentativo,  su  una  serie  di   convergenti
considerazioni:  in  primo luogo si rileva che  il  preciso  disposto
dell'art. 50 del testo unico di cui al decr. legisl. n. 267 del 2000,
il  quale  riserva al sindaco il potere - dovere di rappresentare  il
Comune in giudizio, non puo' subire deroga attraverso il conferimento
del  potere rappresentativo ad altri soggetti ad opera dell'autonomia
normativa  comunale.  Si osserva inoltre che i  poteri  di  direzione
degli  uffici  e  dei servizi attribuiti ai dirigenti  dall'art.  107
dello  stesso  testo  unico, includenti quello  di  adottare  atti  e
provvedimenti  amministrativi che impegnano  l'amministrazione  verso
l'esterno  e  quello  di stipulare contratti,  non  ricomprendono  il
potere  di  rappresentanza processuale dell'ente, che non costituisce
oggetto  di menzione nella analitica elencazione contenuta  in  detta
disposizione. Si rileva ancora che l'art. 6 comma 2 del  testo  unico
consente  al  Comune di disciplinare con lo statuto il  regime  delle
autorizzazioni  a  promuovere  o a resistere  alle  liti,  in  quanto
attinente ai modi con i quali la rappresentanza va esercitata, ma non
anche  di individuare i soggetti che possono rappresentare F ente  in
giudizio:  si richiama a giustificazione di una limitazione  siffatta
della  potesta' statutaria il principio della gerarchia delle  fonti,
il  quale  non  consente che lo statuto possa sottrarre  quel  potere
all'organo cui il legislatore, avvalendosi delle sue prerogative,  ha
inteso in via esclusiva affidarlo.
Secondo  un  diverso e minoritario orientamento lo  statuto  comunale
puo'   legittimamente  prevedere  che  i  poteri  di   rappresentanza
processuale  spettino ad un dirigente comunale in luogo del  sindaco:
in  tal senso si e' espressa Cass. 2002 n. 4845, che ha affermato che
la  legittimazione a promuovere giudizi in rappresentanza  dell'ente,
che  compete  in  via  primaria  al  sindaco,  puo'  appartenere   al
segretario  generale,  nella sua qualita'  di  dirigente  di  ufficio
dirigenziale  generale,  solo in quanto derivi  da  una  norma  dello
statuto  o  del  regolamento comunale o sia  stata  attribuita  dallo
stesso  sindaco, ed ha precisato che la norma di cui all'art. 16  del
decr. legisl. 3 febbraio 1993 n. 29, sostituito prima dall'art. 9 del
decr. legisl. n. 546 del 1993, poi dall'art. 11 del decr. legisl.  n.
80  del 1998, quindi modificato dall'art. 4 del decr. legisl. n.  387
del  1998, infine dall'art. 16 del decr. legisl. n. 165 del 2001, che
attribuisce ai dirigenti di uffici dirigenziali generali il potere di
promuovere e resistere alle liti e di conciliare e di transigere, non
trova diretta applicazione nei confronti dei dirigenti del Comune, in
mancanza di adeguamento del suo statuto o regolamento a tale  regola,
ai sensi dell'art. 27 dello stesso decr. legisl. n. 165 del 2001.
Altre   recenti   decisioni   tendono  a   temperare   la   rigidita'
dell'orientamento per primo richiamato, in quanto, pur  ribadendo  la
spettanza   unicamente  al  sindaco  del  potere  di   rappresentanza
processuale  del Comune, ammettono che tale potere possa  essere  dal
sindaco  delegato  al dirigente responsabile di un ufficio  comunale,
con  riguardo ai rapporti di competenza di tale ufficio  (cosi'  S.U.
2004 n. 5174 e 5463; 2004 n. 22197).
Ritengono le Sezioni Unite che T indirizzo giurisprudenziale  seguito
dalla  giurisprudenza prevalente debba essere sottoposto a revisione,
in  quanto  gli argomenti che lo sorreggono, fondati sulla assunzione
del  dato testuale fornito dall'art. 50 del decr. legisl. n. 267  del
2000  V  come  principio  cardine del sistema,  tale  da  influenzare
l'intero  impianto normativo, riflettono una visione dell'ordinamento
degli  enti  locali superata dai piu' recenti interventi riformatori,
anche  a  livello  costituzionale.  Ed  e'  appunto  nella  rilettura
complessiva del sistema istituzionale degli enti locali e della  loro
autonomia  statutaria  che la soluzione del problema  in  esame  deve
essere rinvenuta. Come e' noto, il processo di riforma avviato con la
legge n. 142 del 1990, proseguito con la adozione del testo unico  di
cui al decr. legisl. n. 267 del 2000 e successivamente approdato alla
modifica  del  titolo  5^ della parte 2^ della Costituzione  ed  alla
successiva  legge  n.  131 del 2003, di adeguamento  dell'ordinamento
della  Repubblica al nuovo assetto costituzionale,  ha  prodotto  una
significativa  modifica  della struttura  e  dei  poteri  degli  enti
territoriali,  secondo una prospettiva volta a consentire  a  ciascun
ente  di dotarsi di una struttura organizzativa adeguata alla propria
specificita'  ed  ispirata a criteri di economicita',  efficienza  ed
efficacia.
Il   sistema  delle  autonomie  locali  nell'assetto  previsto  dalla
Costituzione del 1948 rimetteva alla competenza esclusiva dello Stato
la  disciplina  dell'ordinamento dei Comuni e  delle  Province  e  la
definizione  delle loro funzioni: in particolare,  l'art.  118  Cost.
assegnava  alle  leggi  della Repubblica il compito  di  individuare,
nelle materie di competenza delle Regioni, funzioni amministrative di
interesse  esclusivamente  locale da  attribuire  alle  Province,  ai
Comuni  o  ad  altri  enti locali, e l'art.  128  Cost.  definiva  le
Province  ed i Comuni enti autonomi nell'ambito dei principi  fissati
da  leggi  generali della Repubblica, che ne determinano le funzioni,
fornendo  la  base costituzionale al riconoscimento della  competenza
esclusiva  della  legge  statale in materia.  Ed  anche  l'ambito  di
competenza delle leggi regionali in ordine all'ordinamento dei Comuni
era  assai  limitato,  in  quanto  circoscritto  alle  materie  delle
circoscrizioni comunali (art. 117 Cost.), della istituzione di  nuovi
Comuni  e  della  modifica delle loro circoscrizioni e  denominazioni
(art.  133  Cost.).  La  legge n. 142 del 1990  costitui'  una  tappa
importante  nella ridefinizione del ruolo di detti enti  e  del  loro
rapporto  istituzionale  con  lo Stato  e  le  Regioni,  secondo  una
impostazione  tendente  ad  attribuire  agli  stessi  una   effettiva
autonomia politica, amministrativa ed organizzatoria.
Le  incisive innovazioni introdotte con il federalismo amministrativo
a  Costituzione invariata di cui alle successive leggi  cd  Bassanini
(la  legge n. 59 del 1997, la legge n. 127 del 1997, il decr. legisl.
n.   112  del  1988)  -  nel  quadro  del  riordinamento  e  di   una
distribuzione organica delle funzioni tra Stato, Regioni, enti locali
ed  autonomie  funzionali e nello spirito di un  ampio  decentramento
amministrativo  e  della semplificazione dei  procedimenti  -  posero
l'esigenza di una nuova riforma organica degli enti locali,  ispirata
a  tali principi, che trovo' espressione nella legge n. 265 del 1999:
in  tale sede il legislatore effettuo' un' opera di razionalizzazione
ed  armonizzazione della normativa vigente, fissando il principio  di
sussidiarieta'  ed  affidando nell'art. 31 la  delega  al  Governo  a
procedere  alla raccolta ed al coordinamento di tutte le disposizioni
legislative  vigenti  in materia di ordinamento  degli  enti  locali,
mediante  la  sistemazione  armonica  in  un  codice  che  garantisse
coerenza  logica  ai  diversi interventi  normativi  succedutisi  nel
tempo.
In  attuazione  della delega, il decr. legisl. n. 267 del  2000,  nel
procedere  alla  riunione della normativa vigente in  materia  ed  al
necessario  coordinamento  con i principi generali  dell'ordinamento,
ebbe  quindi  a dettare la disciplina generale in ordine  all'assetto
istituzionale degli enti locali, cosi' ponendosi come legge  organica
di  sistema,  in attuazione del precetto costituzionale dell'art  128
Cosi',  che, come gia' ricordato, affidava alle leggi generali  dello
Stato  la  fissazione  dei  principi  nell'ambito  dei  quali  doveva
esprimersi l'autonomia di Province e Comuni.
La  riforma  del  titolo  5^  della parte 2^  della  Costituzione  ha
peraltro comportato una incisiva modifica dell'assetto costituzionale
degli   enti  locali,  con  l'abrogazione  dell'art.  128  Cost,   la
previsione  che  la  competenza  esclusiva  della  legge  statale  e'
circoscritta alla materia della legislazione elettorale, degli organi
di governo e delle funzioni fondamentali di Comuni, Province e Citta'
metropolitane  (art.  117, comma 2 lett. p), la  equiparazione  degli
enti  territoriali - tutti significativamente menzionati nella stessa
disposizione  di cui al comma 2 dell'art. 114 - dal  punto  di  vista
della   garanzia   costituzionale   e   della   pari   dignita',   il
riconoscimento  di una loro posizione di autonomia statutaria,  cosi'
da delineare un sistema istituzionale costituito da una pluralita' di
ordinamenti  giuridici integrati, ma autonomi, nel quale le  esigenze
unitarie  si  coordinano con il riconoscimento  e  la  valorizzazione
delle istituzioni locali Tale processo di trasformazione dell'assetto
costituzionale ha direttamente coinvolto la natura, la funzione ed  i
limiti della potesta' statutaria del Comune, gia' riconosciuta  nella
legge  n. 142 del 1990, quale modalita' paradigmatica di esplicazione
dell'autonomia dell'ente. Va al riguardo ricordato che gia' F art.  4
di  detta  legge attribuiva allo statuto una particolare collocazione
rispetto  alla  tradizionale gerarchia delle  fonti,  prevedendo  che
esso,  nell'ambito  dei principi fissati dalla legge,  stabilisse  le
norme fondamentali per l'organizzazione dell'ente, e quindi affidando
a  tale  strumento di autonomia la regolamentazione  della  struttura
organizzativa dell'ente medesimo.
L'art.  1 della legge n. 265 del 1999 da un lato amplio' il contenuto
necessario  dello  statuto,  includendo la  previsione  di  forme  di
garanzia  e di partecipazione delle minoranze e la attribuzione  alle
opposizioni  della  presidenza  delle commissioni  consiliari  aventi
funzioni   di   controllo  o  di  garanzia,  dall'altro   lato,   con
l'inserimento  nell'art. 4 della legge n. 142 del 1990  del  comma  2
bis, dispose che la legislazione in materia di ordinamento dei comuni
e  delle  province e di disciplina dell'esercizio delle  funzioni  ad
essi  conferite  enuncia espressamente i principi  che  costituiscono
limite  inderogabile per l'autonomia normativa  dei  comuni  e  delle
province e che l'entrata in vigore di nuove leggi che enunciano  tali
principi abroga le norme statutarie con essi incompatibili.
Tale  disposizione  e' stata sostanzialmente riprodotta  nell'art.  1
comma 3 del decr. legisl. n. 267 del 2000.
Come appare evidente, l'autonomia statutaria emergente dalla legge n.
265 del 1999 e riaffermata nell'art. 1 del testo unico, ispirata alla
legislazione comunitaria che attribuisce la generalita' dei compiti e
delle funzioni amministrative agli enti locali, e' ben piu' pregnante
di  quella  delineata  nella legge n. 142 del 1990,  che  alle  ampie
enunciazioni di principio contenute nell'art. 4 associava  specifiche
disposizioni  disciplinanti  le materie  pur  affidate  all'autonomia
statutaria.  L'art.  1  comma  3 del testo  unico  pone  come  limiti
inderogabili   all'autonomia   statutaria   soltanto    i    principi
espressamente  enunciati come tali nella legislazione in  materia  di
ordinamento   degli  enti  locali  -  cosi'  affidando  allo   stesso
legislatore e sottraendo all'interprete l'individuazione dei principi
segnati   da   inderogabilita'  -  con  evidente   esclusione   delle
disposizioni  di dettaglio: ne risulta delineato un ambito  giuridico
generale  all'interno  del  quale  gli  statuti  possono  liberamente
esprimere e promuovere l'autonomia degli enti e realizzare un assetto
corrispondente alle peculiarita' del contesto sociale ed economico di
riferimento.
Nel  disciplinare specificamente la materia statutaria, l'art. 6  del
testo  unico  prevede  al  primo comma che i  comuni  e  le  province
adottano il proprio statuto, ed al secondo comma dispone che  questo,
nell'ambito dei principi fissati dal presente testo unico, stabilisce
le   norme  fondamentali  dell'organizzazione  dell'ente:  il  tenore
prescrittivo delle norme rende evidente che ogni Comune deve  dotarsi
di  un  proprio  statuto, deputato a dettare  le  norme  fondamentali
dell'organizzazione  di governo, a fissare i criteri  generali  sulla
organizzazione  amministrativa  ed  il  funzionamento  dell'ente,   a
delinearne   l'ossatura,  le  strutture  di   vertice   e   le   loro
articolazioni, le modalita' di interrelazione tra i vari  uffici,  le
forme  di  collaborazione con la Provincia, a disciplinare  le  altre
materie    ivi   elencate,   cosi'   da   rappresentare   l'identita'
istituzionale di ciascuna comunita' locale.
Si  e' con tale sistema realizzata una sostanziale delegificazione in
ordine    alla   organizzazione   ed   al   funzionamento   dell'ente
territoriale,  mediante  il trasferimento della  relativa  disciplina
dalla  legge nazionale ad una fonte autonoma, affidata allo  statuto,
nel rispetto dei principi generali fissati dallo stesso testo unico e
degli  altri principi espressamente enunciati nelle leggi successive,
nonche' delle leggi che conferiscono funzioni agli enti locali.
Detto  sistema ha profondamente inciso nel rapporto tra legge statale
e  statuto, in quanto, mentre in passato ogni disposizione  di  legge
costituiva limite invalicabile all'attivita' statutaria, nella  nuova
disciplina  lo statuto puo' derogare alle disposizioni di  legge  che
non contengano principi inderogabili: esso e' vincolato unicamente al
rispetto  dei  principi  innanzi richiamati,  tanto  da  potersi  ora
delineare  il  rapporto  tra  legge  e  statuto  -  come   e'   stato
efficacemente  osservato in dottrina -non tanto  o  non  soltanto  in
termini di gerarchia, ma anche e soprattutto in termini di competenza
-  ovvero  di  gerarchia limitatamente ai principi  -  e  da  potersi
qualificare lo statuto non piu' come disciplina di attuazione, ma  di
integrazione  ed  adattamento  dell'autonomia  locale   ai   principi
inderogabili  fissati dalla legge. Il rapporto  tra  fonti  normative
statali  e  locali  appare ancor piu' marcatamente influenzato  dalla
modifica del Titolo 5^ della Parte 2^ della Costituzione attuata  con
la  legge  costituzionale  n. 3 del 2001, sia  in  forza  della  gia'
ricordata  delimitazione  a settori specificamente  e  tassativamente
determinati degli ambiti di intervento della legge statale (art.  117
comma  2  lett.  p),  sia  per  effetto dell'espresso  riconoscimento
costituzionale delle potesta' statutarie e regolamentari dei  Comuni:
in  particolare, il comma 2 dell'art. 114 sancisce che i Comuni  sono
enti  autonomi  con  propri  statuti, poteri  e  funzioni  secondo  i
principi  fissati  dalla Costituzione (e quindi non  piu'  secondo  i
principi  espressamente  enunciati  come  inderogabili  dalla   legge
statale),  mentre  il  comma  6 dell'art.  117  riconosce  ai  Comuni
potesta'  regolamentare in ordine alla disciplina dell'organizzazione
e dello svolgimento delle funzioni loro attribuite.
Va ancora ricordato che, successivamente alla riforma costituzionale,
la legge 5 giugno 2003 n. 131, recante Disposizioni per V adeguamento
dell'ordinamento  della  Repubblica  alla  legge  costituzionale   18
ottobre  2001  n.  3,  ha  espressamente  enunciato  all'art.  4,  di
attuazione  dei richiamati artt. 114 comma 2 e 117 comma 6  Cost.  in
materia  di  potesta' normativa degli enti locali, che i  Comuni,  le
Province e le Citta' metropolitane hanno potesta' normativa secondo i
principi  fissati  dalla  Costituzione, che tale  potesta'  normativa
consiste nella potesta' statutaria e regolamentare (primo comma), che
lo  statuto, in armonia con la Costituzione e con i principi generali
in  materia  di  organizzazione  pubblica,  nel  rispetto  di  quanto
stabilito  dalla legge statale in attuazione dell'art.  117,  secondo
comma,  ^  lettera p) della Costituzione, stabilisce  i  principi  di
organizzazione  e  funzionamento  dell'ente...(secondo  comma),   che
l'organizzazione  degli enti locali e' disciplinata  dai  regolamenti
nel  rispetto delle norme statutarie (terzo comma), che la disciplina
dell'organizzazione,  dello  svolgimento  e  della   gestione   delle
funzioni  dei Comuni, delle Province e delle Citta' metropolitane  e'
riservata  alla potesta' regolamentare dell'ente locale,  nell'ambito
della legislazione dello Stato o della Regione (quarto comma).
L'art. 2 di detta legge ha inoltre conferito al Governo la delega per
l'attuazione   dell'art.  117  comma  2  lett.  p)   Cosi',   e   per
l'adeguamento delle disposizioni in materia di enti locali alla legge
costituzionale  n.  3  del 2001: tra i principi e  criteri  direttivi
della  delega vi e' quello di garantire...l'autonomia e le competenze
costituzionali degli enti territoriali ai sensi degli arti. 114,  117
e  118  della Costituzione, nonche' la valorizzazione delle  potesta'
statutaria e regolamentare dei Comuni, delle Province e delle  Citta'
metropolitane  (comma 4 lett. a), nonche' quello  di  procedere  alla
revisione delle disposizioni legislative sugli enti locali,  comprese
quelle  contenute nel testo unico delle leggi sull'ordinamento  degli
enti  locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000,  n.  267,
limitatamente   alle   norme   che   contrastano   con   il   sistema
costituzionale  degli enti locali definito dalla legge costituzionale
18  ottobre  2001, n. 3 (comma 4 lett. g). Il termine per  l'adozione
dei  decreti delegati non e' ancora scaduto, essendo stato elevato  a
due   anni  con  la  legge  n.  140  del  2004,  di  conversione  con
modificazioni  del decreto legge n. 80 del 2004. Nel quadro  di  tale
importante processo di trasformazione dell'impianto istituzionale, in
parte gia' avvenuto, in parte ancora in itinere, appare evidente  che
il  testo unico n. 267 del 2000 ha perso l'originaria connotazione di
legge   organica  di  sistema,  una  volta  venuta  meno   la   norma
costituzionale  di riferimento costituita dall'art.  128  Cost.,  che
come   innanzi  ricordato  affidava  a  leggi  generali  dello  Stato
l'enunciazione  dei principi nell'ambito dei quali l'autonomia  degli
enti  locali  poteva esplicarsi (cosi' da porre subito l'esigenza  di
una  sua  revisione  in  termini  di adeguamento  ai  nuovi  principi
costituzionali, espressa nella delega al Governo di cui al richiamato
art  2  della legge n. 131 del 2003), ed altrettanto evidente  appare
che  la  previsione  del potere normativo locale tra  le  prerogative
contemplate   direttamente   dalla  Costituzione   ha   ulteriormente
rafforzato  il  valore  degli statuti locali  nella  gerarchia  delle
fonti.
Nel  nuovo  quadro  costituzionale lo statuto si configura,  come  la
dottrina  e' generalmente orientata a ritenere, come atto formalmente
amministrativo, ma sostanzialmente come atto normativo  atipico,  con
caratteristiche  specifiche,  di rango  paraprimario  o  subprimario,
posto  in  posizione di primazia rispetto alle fonti  secondarie  dei
regolamenti e al di sotto delle leggi di principio, in quanto diretto
a  fissare le norme fondamentali dell'organizzazione dell'ente  ed  a
porre i criteri generali per il suo funzionamento, da svilupparsi  in
sede  regolamentare  (v. sul punto Cass. 2004 n. 16984).  Ne  risulta
cosi'  accentuata l'immanenza della potesta' statutaria al  principio
di  autonomia  sancito  dall'art. 5 Cost. e la  configurazione  dello
statuto  come  espressione della esistenza stessa e  della  identita'
dell'ordinamento giuridico locale.
Tale  mutato  quadro  normativo  di riferimento  esige  una  radicale
revisione    dell'impostazione   tradizionale   che   escludeva    la
legittimita'   di  ogni  previsione  statutaria  che  conferisse   la
rappresentanza ad agire e resistere alle liti a persona  diversa  dal
sindaco.  Queste  Sezioni  Unite condividono  il  principio,  sotteso
all'indirizzo giurisprudenziale in precedenza richiamato, che V  art.
50  del  testo  unico  di  cui  al decr.  legist  n.  267  del  2000,
nell'attribuire al sindaco la rappresentanza dell'ente, non  contiene
alcuna  limitazione  ad  una  specifica forma  di  rappresentanza,  e
pertanto non consente di circoscrivere detto potere rappresentativo -
secondo la tesi seguita da ampia ed autorevole dottrina, che tende  a
distinguere  tra  rappresentanza  istituzionale,  assegnata  in   via
esclusiva  dalla  legge  al  sindaco, e  rappresentanza  giuridico  -
legale, e quindi, derivatamente, processuale, conferita dall'art. 107
dello  stesso testo unico ai dirigenti generali, forniti di  autonomi
poteri di decisione, di spesa e di organizzazione delle risorse -  ai
soli aspetti politico-istituzionali: ed invero l'evidente connessione
tra   l'identificazione   del  sindaco  quale   organo   responsabile
dell'amministrazione  (comma  1 dell'art.  50)  e  l'attribuzione  al
medesimo  della  rappresentanza  dell'ente  (comma  2  dell'art.  50)
consente di argomentare che il potere rappresentativo del medesimo si
estenda  alla  intera  attivita',  politica  ed  amministrativa.  Una
lettura  coordinata delle due previsioni induce  a  ritenere  che  il
senso  della attribuzione di responsabilita' espresso nel primo comma
e'  quello della identificazione in un preciso soggetto istituzionale
della  funzione  politica generale dell'ente, cui  il  secondo  comma
ricollega  un  potere  di  rappresentanza  generale,  sostanziale   e
processuale, verso l'esterno, funzionale ad una esigenza di chiarezza
e di certezza dei rapporti giuridici, cosi' configurandosi il sindaco
quale soggetto esponenziale e dunque rappresentativo del Comune nella
sua unitarieta'.
E  tuttavia va rilevato che nessun elemento e' rinvenibile  nell'art.
50  ne'  in altre disposizioni del testo unico che induca a  ritenere
che  l'attribuzione  della rappresentanza al sindaco  sia  preclusiva
della  possibilita' che altri soggetti, espressamente indicati  nello
statuto, siano chiamati a rappresentare il Comune nelle liti attive e
passive,  conferendo i relativi mandati, cosi' da  doversi  ravvisare
nel   principio   contenuto  nell'art.  50  un  limite   inderogabile
all'autonomia statutaria.
Al  contrario,  una  potesta' statutaria in tale direzione  trova  un
espresso fondamento normativo nell'art. 27 del decr. legisl.  n.  265
del  2001, contenente norme generali sull'ordinamento del lavoro alle
dipendenze  delle amministrazioni pubbliche, li dove prevede  che  le
amministrazioni  non statali, nell'esercizio della  propria  potesta'
statutaria e regolamentare, adeguino ai principi dell'art.  4  e  del
presente  capo  i  propri ordinamenti, tenendo conto  delle  relative
peculiarita'.  Va al riguardo rilevato che tra i principi  richiamati
in  tale  disposizione e' ricompreso quello di cui  all'art.  16,  il
quale,  dando  continuita' a disposizioni gia'  contenute  nel  decr.
legisl. n. 29 del 1993, nel disciplinare le funzioni dei dirigenti di
uffici   dirigenziali  generali,  alla  lett.  f)  del  primo   comma
attribuisce  agli  stessi il potere di promuovere  e  resistere  alle
liti,   nonche'  quello  di  conciliare  e  di  transigere  -   cosi'
attribuendo a detti dirigenti la legittimazione processuale attiva  e
passiva     nelle     controversie     riguardanti     il     settore
dell'amministrazione cui sono preposti (v. sul punto  Cass.  2004  n.
3445; 1998 n. 7349) - e che tale disposizione, ai sensi dell'art.  13
dello  stesso decr. legisl., si applica direttamente soltanto  per  i
dirigenti  di  uffici  dirigenziali  generali  delle  amministrazioni
statali,  anche  ad  ordinamento  autonomo:  ne  deriva  che  con  il
richiamato  art.  27 il legislatore ha inteso affidare  all'autonomia
degli enti locali V in ragione degli elementi di differenziazione  di
detti  enti  rispetto  alla amministrazione  statale  in  termini  di
dimensioni,  numero  di  dipendenti, strumenti finanziari,  eventuale
mancanza  della figura del dirigente - il processo di adeguamento  ai
principi di quella normativa, sia in relazione alle funzioni ed  alle
responsabilita'  in ordine all'attivita' politico  -  amministrativa,
sia  con riguardo alla dirigenza, cosi' riconoscendo ai dirigenti dei
Comuni in via mediata, attraverso specifiche previsioni statutarie  e
regolamentari,  il  potere di agire e resistere  alle  liti  (v.  sul
punto,  con  riferimento ai dirigenti delle Regioni,  Cass.  2004  n.
23321).
Una  volta  assegnato  allo statuto il valore di  norma  fondamentale
dell'organizzazione dell'ente locale, che non trova altri limiti  che
quelli    imposti    da   principi   espressamente    connotati    da
inderogabilita',    ed   escluso   che   il   riconoscimento    della
rappresentanza  del Comune in capo al sindaco ad opera  dell'art.  50
costituisca   un  principio  inderogabile,  si  impone  una   lettura
dell'art. 6 comma 2 del testo unico, li' dove prevede che lo  statuto
specifica...i   modi   di   esercizio  della  rappresentanza   legale
dell'ente,  anche  in  giudizio, nel senso  che  e'  attribuito  alla
autonomia   statutaria  un  potere  non  limitato   alla   disciplina
organizzativa  della rappresentanza legale, ossia alla materia  delle
autorizzazioni  a  promuovere o resistere alle  liti  -  secondo  una
interpretazione letterale della norma non piu' consentita dal  quadro
generale  di  riferimento - ma comprensivo della  individuazione  del
soggetto investito del potere di rappresentanza processuale,  in  via
generale  o  in  relazione a determinate categorie  di  controversie,
assumendo  l'inciso  anche  in giudizio non  gia'  in  una  accezione
limitativa, ma estensiva dell'ambito di previsione della norma.
Ed  e' da ritenere che lo statuto, nel disciplinare la rappresentanza
in  giudizio,  non trovi neppure la limitazione posta  dal  principio
generale   dell'ordinamento  secondo  il  quale   la   rappresentanza
processuale  non puo' essere disgiunta da quella sostanziale,  atteso
che la forza della previsione statutaria vale ad assorbire l'esigenza
che a tale principio e' sottesa, restando il profilo della competenza
sostanziale in ordine alla materia oggetto della lite confinato nella
sfera  interna  dell'organizzazione  dell'ente.  Si  e'  al  riguardo
opportunamente   posta  in  evidenza  in  dottrina   l'irrazionalita'
dell'opzione  interpretativa diretta a negare che  lo  statuto  degli
enti locali, peraltro in presenza della norma di cui all'art. 6 comma
2  del  testo  unico,  abbia il potere, proprio degli  statuti  delle
persone giuridiche private, ai sensi dell'art. 75 comma 3 c.p.c.,  di
attribuire la rappresentanza processuale anche a soggetti diversi  da
quelli  titolari  della rappresentanza legale. La  definizione  dello
statuto quale atto a contenuto normativo non puo' non influenzare  la
soluzione  della  connessa questione se ed in quale misura  esso  sia
soggetto  al  principio iura novit curia di cui all'art. 113  c.p.c.,
inteso   come  potere  dovere  del  giudice  di  individuare,   anche
prescindendo  dalle prospettazioni delle parti,  e  di  applicare  ai
fatti  sottoposti  al suo esame le norme dirette  a  disciplinare  la
fattispecie.  Come e' noto, la giurisprudenza piu' remota  poneva  la
distinzione,  nell'ambito delle fonti secondarie,  tra  gli  atti  di
produzione  normativa  soggetti ad adeguate forme  di  pubblicita'  e
quelli  ad  esse  sottratti, e per tale ragione  non  ricompresi  tra
quelli  che  il  giudice ha il dovere assoluto di conoscere,  pur  se
tenuto  ad  applicarli  in  ogni  caso  in  cui  ne  abbia  personale
conoscenza,  ovvero  in  base agli atti acquisiti  al  processo.  Con
particolare  riferimento ai regolamenti locali, nelle  pronunce  piu'
risalenti si affermava che, non godendo essi di adeguate garanzie  di
pubblicizzazione,  per  essere  la loro  pubblicazione  a  diffusione
meramente  locale, al dovere del giudice di applicarli,  avendo  essi
contenuto  di  norme  giuridiche,  non  corrispondeva  un  dovere  di
conoscenza  in  senso  assoluto tale  da  richiedere  la  ricerca  di
ufficio,  sussistendo  invece un onere di  allegazione  delle  parti,
cosi'  da  consentire al giudice la loro applicazione (v. sul  punto,
tra  le tante, Cass. 1972 n. 1030; 1972 n. 1962; 1973 a 299; 1974  n.
3968; 1975 n. 1279; 1975 n. 2784; 1975 n. 3511; 1976 n. 1742; 1979 n.
6333).  Tale principio fu in seguito sottoposto a revisione da  parte
di una giurisprudenza sempre piu' incline a ritenere, pur con qualche
contrasto  (v.  Cass. 2000 n. 865; 2004 n. 22648), ma con  il  favore
della  dottrina, che in relazione ai regolamenti locali  il  problema
della  scienza ufficiale del giudice si ponesse negli stessi  termini
di quello della conoscenza delle norme di legge vigenti, cosi' che il
giudice, compreso quello di legittimita', dovesse acquisirne  diretta
e completa conoscenza, indipendentemente da una attivita' assertiva e
probatoria delle parti (v. in tal senso Cass. 1975 n. 2135;  1987  n.
777;  1992 n. 11095; 2002 n. 4372; 2002 n. 12561; 2003 n. 6012;  2003
n.  6837).  Ad  una  siffatta soluzione deve  a  piu'  forte  ragione
pervenirsi con riferimento agli statuti comunali, tenuto conto  della
loro  richiamata  natura  di  atti a contenuto  normativo,  di  rango
certamente superiore a quello dei regolamenti, e considerata anche la
triplice  forma  di  pubblicita' cui essi sono  soggetti:  a  livello
locale,   con  l'affissione  all'albo  pretorio  per  trenta   giorni
consecutivi, a livello regionale, con la pubblicazione nel Bollettino
Ufficiale della Regione, a livello nazionale, con l'inserzione  nella
raccolta  ufficiale degli statuti curata dal Ministero  dell'Interno,
che  ne  cura anche adeguate forme di ulteriore pubblicita'  (art.  6
comma  5 e 6 del testo unico). Ne' puo' omettersi di considerare  che
un  immediato e agevole strumento di conoscenza, accessibile da  ogni
cittadino,  e'  fornito dal loro inserimento  in  rete.  Va  pertanto
affermato  che  la conoscenza dello statuto appartiene  alla  scienza
ufficiale  del  giudice,  tenuto a disporne l'acquisizione  anche  di
ufficio.
Dai  principi  in  precedenza esposti consegue che  lo  statuto  puo'
legittimamente  affidare la rappresentanza a  stare  in  giudizio  ai
dirigenti,  nell'ambito dei rispettivi settori di  competenza,  quale
espressione  del potere gestionale loro proprio, ovvero ad  esponenti
apicali della struttura burocratico-amministrativa del Comune, ma che
ove una specifica previsione statutaria non sussista il sindaco resta
il  solo  soggetto titolare del potere di rappresentanza processuale,
ai  sensi  dell'art. 50 del testo unico. Deriva altresi'  che  se  lo
statuto  affida  la  rappresentanza a stare  in  giudizio  in  ordine
all'intero contenzioso al dirigente dell'ufficio legale, questi,  ove
ne  abbia  i  requisiti, puo' costituirsi senza bisogno  di  procura,
ovvero  attribuire l'incarico ad un professionista legale  interno  o
del  libero  foro (salve ovviamente le ipotesi, legalmente tipizzate,
nelle  quali l'ente puo' stare in giudizio senza il ministero  di  un
legale: da ultimo, in relazione al processo tributario, l'art. 3  bis
del  d.l. n. 44 del 2005, convertito, con modif., nella l. n. 88  del
2005),  ed ove abilitato alla difesa presso le magistrature superiori
puo' anche svolgere personalmente attivita' difensiva nel giudizio di
Cassazione.  Ove  per  contro la disciplina della  rappresentanza  in
giudizio  sia  contenuta non nello statuto, ma nel regolamento,  tale
previsione puo' conferire validamente la legittimazione processuale a
soggetti  diversi  dal sindaco soltanto in presenza  di  un  espresso
rinvio  dello  statuto alla normativa regolamentare,  atteso  che  il
richiamato  art. 6 comma 2 del testo unico consegna allo  statuto  la
disciplina dei modi di esercizio della rappresentanza legale.
Va  al  riguardo osservato che, se e' certamente vero che l'esercizio
della potesta' regolamentare costituisce anch' esso espressione della
autonomia dell'ente locale, in quanto attua la capacita' dell'ente di
porre  autonomamente  le regole della propria  organizzazione  e  del
funzionamento delle istituzioni, degli organi, degli uffici  e  degli
organismi  di partecipazione, ed ha trovato anch' esso riconoscimento
costituzionale  nel  nuovo testo dell'art.  117  Cost.,  e'  tuttavia
altrettanto  vero che la disciplina delle materie che  l'art.  7  del
testo  unico  affida al regolamento deve avvenire  nel  rispetto  dei
principi fissati dalla legge e dello statuto: cio' vale a dire che il
potere  di  autorganizzazione attraverso lo  strumento  regolamentare
deve svolgersi all'interno delle previsioni legislative e statutarie,
cosi'  ponendosi un rapporto di subordinazione, pur se non  disgiunto
da  un  criterio  di  separazione delle  competenze,  tra  statuto  e
regolamento.  Tale collocazione nell'ambito del sistema  delle  fonti
locali  appare  peraltro recepita nel disposto dell'art.  4  comma  3
della  legge  n.  131  del 2003, ai sensi del quale  l'organizzazione
degli  enti locali e' disciplinata dai regolamenti nel rispetto delle
norme statutarie.
Per  quanto attiene al diverso, ma connesso problema - che in  questa
sede  particolarmente rileva - della persistenza, nella nuova cornice
legislativa di riferimento, della necessita' di autorizzazione  della
giunta  comunale  a  promuovere o resistere alle liti,  il  contrasto
esistente  nella  giurisprudenza di questa Suprema  Corte,  ed  anche
nell'ambito  delle  sezioni unite, deve essere  composto  in  termini
coerenti con i rilievi in precedenza svolti.
Come  e'  noto,  nel  vigore dell'abrogato testo  unico  della  legge
comunale e provinciale approvato con il r.d. 4 febbraio 1915  n.  148
la decisione in ordine alle azioni da intraprendere e da sostenere in
giudizio  spettava  in via generale al consiglio comunale,  ai  sensi
dell'art.  131 comma 1 n. 5, ma la giunta comunale poteva  deliberare
in  via  di  urgenza, secondo il disposto di cui all'art. 140,  salva
ratifica  del  consiglio,  ed in via autonoma,  senza  necessita'  di
ratifica, nel caso di azioni possessorie e di quelle non eccedenti la
competenza  pretorile  (art, 25 del r.d. 30 dicembre  1923  n.  2839,
richiamato espressamente in vigore dall'art. 25 della legge 9  giugno
1947  n. 530). In tale assetto normativo la giurisprudenza di  questa
Suprema  Corte era univoca nel ritenere che il difetto di una  valida
autorizzazione,   incidendo  sulla  legittimazione  processuale   del
sindaco,  comportasse  il  difetto di  un  presupposto  del  rapporto
processuale rilevabile di ufficio in ogni stato e grado del  giudizio
(v., ex plurimis, Cass. 1979 n. 1320; 1980 n. 331; 1984 n. 1159; 1988
n. 914).
La legge 8 giugno 1990 n. 142 non menzionava espressamente la materia
delle  liti attive e passive: nel definire le competenze degli organi
dell'ente  disponeva  all'art. 32 che il  consiglio  e'  l'organo  di
indirizzo  e  di controllo politico-amministrativo ed  ha  competenza
limitatamente agli atti fondamentali indicati alle lettere da a)  &n)
del  comma 2, mentre all'art. 35 prevedeva che la giunta compie tutti
gli  atti  di amministrazione che non siano riservati dalla legge  al
consiglio e che non rientrino nelle competenze, previste dalla  legge
o  dallo statuto, del sindaco o del presidente della provincia, degli
organi  di  decentramento, del segretario o dei funzionari dirigenti.
Con  sentenza  n. 11064 del 1992 queste Sezioni Unite, esaminando  il
nuovo  riparto  funzionale tra gli organi di governo delineato  dalla
riforma del 1990, affermarono che nel nuovo ordinamento competente in
via esclusiva ad autorizzare il sindaco a stare in giudizio in nome e
per  conto  del  Comune non era piu' il consiglio  comunale,  le  cui
competenze erano state tassativamente definite dall'art.  32,  ma  la
giunta municipale, in forza delle sue attribuzioni residuali su tutti
gli  atti non riservati, dalla legge o dallo statuto, alla competenza
del  sindaco,  del  consiglio,  degli organi  di  decentramento,  del
segretario  e dei funzionari dirigenti, ed esclusero che  lo  statuto
potesse conferire direttamente al sindaco (se non limitatamente  alle
azioni  cautelari  e  possessorie) il potere di autonoma  valutazione
degli  interessi  sottesi all'azione, esonerandolo  dalla  necessita'
della   autorizzazione,   dovendo  lo   statuto   essere   deliberato
nell'ambito  dei  principi fissati dalla legge, secondo  il  disposto
dell'art. 4.
Tale orientamento venne ribadito dalla sentenza, anch' essa a sezioni
unite,  n.  1325  del 1996, la quale riaffermo' che  l'autorizzazione
degli   organi  competenti  e'  una  condizione  di  efficacia  della
costituzione in giudizio degli enti pubblici, i quali in caso di  suo
mancato  rilascio sono privi della capacita' processuale,  e  che  in
particolare  il  sindaco, per proporre il ricorso  per  Cassazione  e
conferire  allo scopo la procura speciale al difensore,  deve  essere
autorizzato  con  deliberazione  della  giunta  municipale.  A  detto
indirizzo si uniformarono le successive sentenze n. 1889 del 1996; n.
6395 del 1996; n. 5585 del 1997; n. 13137 del 1997; n. 1853 del 1998;
n.  5286 del 1998; n. 10378 del 1998; n. 7190 del 2000; S.U.  n.  179
del  2001;  n.  6546 del 2001; S.U. n. 10979 del 2001; n.  18224  del
2002;  n.  13218 del 2003; n. 5537 del 2004; n. 14220  del  2004;  n.
17936 del 2004; n. 18087 del 2004). Ed anche la pronuncia n. 186  del
2001  di  queste  Sezioni Unite, erroneamente  talvolta  citata  come
espressione del diverso orientamento che tende a dispensare  in  ogni
caso  il sindaco dalla previa autorizzazione, escluse l'esistenza  di
un potere del sindaco di promuovere autonomamente le liti, affermando
che  nell'ordinamento delle autonomie locali di cui alla legge n. 142
del   1990  il  sindaco  puo'  agire  o  resistere  in  giudizio   in
rappresentanza  del  Comune, pur in mancanza di autorizzazione  della
giunta,  allorche' lo statuto gli assegni la competenza  in  tema  di
liti attive e passive, cosi' riconoscendo il potere dello statuto  di
dispensare il sindaco dalla previa autorizzazione.
Il  superamento  della  necessita' di una delibera  autorizzativa,  a
prescindere da specifiche previsioni statutarie, e' invece desumibile
dalla sentenza, ancora a sezioni unite, n. 17550 del 2002, secondo la
quale competente a conferire al difensore del Comune la procura  alle
liti  e'  il  sindaco,  senza che sia necessaria l'autorizzazione  di
giunta.  L'indirizzo  seguito dalla richiamata  decisione  a  sezioni
unite   n.  186  del  2001  appare  condiviso  da  numerose  pronunce
successive, le quali hanno ribadito, sia con riferimento  al  sistema
disciplinato dalla legge n. 142 del 1990, sia con riguardo  al  nuovo
assetto  degli enti locali dettato dal testo unico del 2000,  che  e'
necessaria  l'autorizzazione della giunta perche'  il  sindaco  possa
promuovere  la lite, ma che la disciplina relativa alla deliberazione
sull'azione o sulla resistenza in giudizio e' suscettibile di  deroga
in via statutaria (v., tra le altre, Cass. S.U. 2002 n. 9439; 2003 n.
1949; 2003 n. 2878; 2003 n. 17360; 2003 n. 19082, in motiv.).
Puo'  pertanto  ritenersi  allo stato come sostanzialmente  acquisito
nella giurisprudenza di legittimita' che l'art. 6 del testo unico  di
cui al decr. legisl. n. 267 del 2000, li' dove prevede che lo statuto
stabilisca i modi di esercizio della rappresentanza legale, anche  in
giudizio,   possa  dettare  una  diversa  disciplina   in   tema   di
autorizzazione  alle  liti attive e passive,  esonerando  il  sindaco
dalla preventiva autorizzazione, cosi' implicitamente escludendo  che
lo  stesso sindaco sia autonomamente titolare del potere di  decidere
se  agire  o  resistere  in  giudizio.  Ed  anche  la  giurisprudenza
amministrativa e' generalmente attestata su tale posizione.
La considerazione del nuovo assetto delle competenze degli organi del
Comune delineato dalla normativa vigente impone la revisione anche di
tale  orientamento. Ed invero nel nuovo ordinamento  delle  autonomie
locali  il sindaco ha assunto, tanto piu' con la legge 25 marzo  1993
n.  81  che  ne ha previsto l'elezione diretta, un ruolo politico  ed
amministrativo centrale, in quanto titolare di funzioni di  direzione
e di coordinamento dell'esecutivo comunale, onde l'autorizzazione del
consiglio prima e della giunta poi, se trovava ragione in un  assetto
in  cui  il  sindaco era eletto dal consiglio e la giunta  costituiva
espressione del consiglio stesso, non ha piu' ragione di esistere  in
un  sistema  nel  quale  il  medesimo trae  direttamente  la  propria
investitura dal corpo elettorale e costituisce egli stesso  la  fonte
di  legittimazione  degli  assessori che compongono  la  giunta,  cui
l'art.  48  del testo unico affida il compito di collaborare  con  il
sindaco e di compiere tutti gli atti rientranti nelle funzioni  degli
organi di governo che non siano riservati dalla legge al consiglio  e
che  non  ricadano  nelle competenze, previste dalla  legge  o  dallo
statuto, del sindaco o degli organi di decentramento.
La  configurazione della giunta quale organo di governo, e  al  tempo
stesso  la  considerazione dei poteri e delle  responsabilita'  nella
gestione amministrativa che l'art. 107 del testo unico attribuisce ai
dirigenti, inducono a ritenere che l'autorizzazione alla lite,  quale
atto  essenzialmente  gestionale  e  tecnico,  da  parte  dell'organo
giuntale  non  costituisca piu' in linea generale atto necessario  ai
fini della proposizione o della resistenza alle azioni.
Atteso  peraltro, in forza delle considerazioni innanzi  svolte,  che
sussiste  certamente il potere dello statuto di  regolare  il  regime
dell'esercizio della rappresentanza, deve argomentarsi  che  in  ogni
caso   in   cui  lo  statuto,  con  la  forza  sua  propria,  preveda
l'autorizzazione  della  giunta  -  in  ragione  della   connotazione
latamente politica che le decisioni di agire o resistere in  giudizio
possono  assumere, specie in riferimento a determinate  tipologie  di
atti  e  di  controversie, cosi' da comportare valutazoni segnate  da
ampi  spazi  di  discrezionalita' politica in ordine alla  scelta  di
difendere in giudizio la legittimita' e la correttezza degli  atti  o
Comportamenti   contestati   -   ovvero   richieda   una   preventiva
determinazione  del  competente  dirigente,  ovvero  ancora   postuli
alternativamente l'uno o l'altro intervento in relazione alla  natura
o  all'oggetto  delle controversie, l'autorizzazione  giuntale  o  la
determinazione  dirigenziale vanno considerati come  atti  necessari,
per   espressa   scelta  statutaria,  ai  fini  della  legittimazione
processuale dell'organo titolare della rappresentanza.
E'  peraltro da ritenere che, ove lo statuto preveda che  il  sindaco
agisca  o  resista  in giudizio previa determinazione  del  dirigente
competente,  tale determinazione si sostanzi in una mera  valutazione
tecnica  circa  l'opportunita' della lite, non  potendo  configurarsi
come autorizzazione in senso proprio quella del dirigente al sindaco,
che    ha   gia'   la   rappresentanza   legale   ed   e'   il   capo
dell'amministrazione   e   che   diverrebbe   esecutore   di    detta
determinazione (v. sul punto Cass. 2003 n. 19380; Cons. Stato 2004 n.
155).
In  applicazione dei principi che precedono, ritenuto che il  sindaco
del  Comune  di  Roma  si  e'  costituito previa  determinazione  del
dirigente  dell'Unita' organizzativa tributi n. 244 del  10  dicembre
2001, in conformita' alla previsione di cui all'art. 34 comma 4 dello
statuto  approvato  con  deliberazione n. 122  del  17  luglio  2000,
prodotto  in  giudizio,  ed  al  regolamento  di  organizzazione  per
l'esercizio dell'azione di promovimento del giudizio, resistenza alle
liti, conciliazione e transazione, approvato con deliberazione n. 182
del  27  gennaio  2001,  anch'esso prodotto  in  giudizio,  il  quale
specifica le modalita' di intervento dei dirigenti responsabili delle
unita'  organizzative competenti ai fini della proposizione  o  della
resistenza  alle liti, va affermata l'ammissibilita' del ricorso,  da
esaminare quindi nel merito.
Deve essere pertanto disposta la trasmissione degli atti alla sezione
tributaria per l'esame dei motivi di ricorso.
                               P.Q.M.
La  Corte  di  Cassazione, a sezioni unite, dichiara  ammissibile  il
ricorso.  Rimette gli atti alla sezione tributaria  per  l'esame  dei
relativi motivi.
Cosi'  deciso in Roma, nella Camera di consiglio delle Sezioni  Unite
Civili, il 5 maggio 2005.
Depositato in Cancelleria il 16 giugno 2005