Anno III n. 22 del 16/04/2010 www.cortecostituzionale.it    

 
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139/2010 pres. DE SIERVO, red. SILVESTRI   visualizza pronuncia 139/2010
140/2010 pres. DE SIERVO, red. FRIGO   visualizza pronuncia 140/2010

 
 

Deposito del 16/04/2010 (dalla 139 alla 140)

 
S.139/2010 del 14/04/2010
Camera di Consiglio del 24/03/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore SILVESTRI


Norme impugnate: Art. 76, c. 4° bis, del decreto del Presidente della Repubblica 30/05/2002, n. 115, aggiunto dall'art. 12 ter, c. 1°, lett. a), del decreto legge 23/05/2008, n. 92, convertito con modificazioni in legge 24/07/2008, n. 125.

Oggetto: Patrocinio a spese dello Stato - Condizioni per l'ammissione - Soggetti già condannati con sentenza definitiva per determinati reati (nella specie, art. 416-bis cod. pen.) - Prevista presunzione di superamento dei limiti di reddito per essere ammessi al beneficio - Possibilità di dimostrare di non percepire un reddito superiore ai limiti - Esclusione;
Possibilità per il giudice di verificare se i reati per cui si è conseguito condanna abbiano effettivamente prodotto un reddito e se lo stesso permanga in misura superiore ai limiti stabiliti quale requisito di accoglibilità dell'istanza anche nell'anno precedente alla presentazione della medesima - Preclusione.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ord. 299 e 301/2009
S.140/2010 del 14/04/2010
Camera di Consiglio del 24/03/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore FRIGO


Norme impugnate: Artt. 441 e 441 bis del codice di proce dura penale.

Oggetto: Processo penale - Giudizio abbreviato - Contestazioni suppletive - Possibilità del pubblico ministero, nei casi di cui all'art. 12, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., di procedere a contestazioni suppletive anche in assenza di integrazioni probatorie disposte dal giudice e sulla base di fatti e circostanze già in atti e noti all'imputato - Mancata previsione.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 264/2009

pronuncia successiva

SENTENZA N. 139

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), promossi dal Tribunale di Catania con ordinanza del 17 luglio 2009 e dal Tribunale di Lecce (sezione distaccata di Campi Salentina) con ordinanza del 26 marzo 2009, rispettivamente iscritte ai nn. 299 e 301 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 51, prima serie speciale, dell'anno 2009.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 24 marzo 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri.

Ritenuto in fatto

1. – Il Tribunale di Catania in composizione monocratica, con ordinanza del 17 luglio 2009 (r.o. n. 299 del 2009), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24, secondo e terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui – avuto riguardo ai soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli artt. 416-bis del codice penale, 291-quater del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale), 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’articolo 80, e 74, comma 1, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo – esclude la possibilità di dimostrare, ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, l’indisponibilità di un reddito superiore ai limiti indicati nell’art. 76, comma 1, dello stesso d.P.R. n. 115 del 2002.

Il giudice rimettente è chiamato a valutare il reclamo proposto dall’interessato, già in precedenza ammesso a fruire del patrocinio a spese dello Stato, nei confronti del provvedimento con il quale il Tribunale di Catania, preso atto dell’esistenza a suo carico di una precedente condanna irrevocabile per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen., ha disposto la revoca del beneficio. Ciò in applicazione del comma 4-bis dell’art. 76 del testo unico in materia di spese di giustizia, introdotto dall’art. 12-ter, comma 1, lettera a), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), nel testo integrato dalla relativa legge di conversione (art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125).

Il giudice a quo osserva, in punto di rilevanza, come la revoca dell’ammissione sia stata correttamente disposta, con il provvedimento oggetto di reclamo, alla luce della previsione contenuta nell’art. 112, comma 1, lettera d), dello stesso d.P.R. n. 115 del 2002, secondo cui, entro i cinque anni successivi alla definizione del processo, il giudice provvede a revocare il beneficio del patrocinio a spese dello Stato nel caso constati la mancanza, «originaria o sopravvenuta», delle relative condizioni di reddito. In particolare, anche la presunzione negativa introdotta con il d.l. n. 92 del 2008 dovrebbe essere apprezzata nella valutazione sulla perdurante ammissibilità del beneficio.

Non potrebbe essere accolta, a tale ultimo proposito, la tesi prospettata dalla difesa del reclamante, fondata sull’asserita «natura sostanziale» della norma censurata e dunque sulla sua irretroattività secondo il disposto dell’art. 2 cod. pen. La legge sul patrocinio a spese dell’Erario, osserva il rimettente, impone una valutazione «dinamica» dei requisiti reddituali, e la normativa di nuova introduzione influisce sull’accertamento dei redditi in questione.

Poste tali premesse, il giudice a quo ritiene che l’introduzione di una presunzione iuris et de iure circa il superamento del reddito compatibile con il beneficio contrasti con il dettato costituzionale.

Dopo aver richiamato, in particolare, il disposto del terzo comma dell’art. 24 Cost., il rimettente sottolinea come la Corte costituzionale abbia stabilito che la difesa dei non abbienti è oggetto di un interesse generale, oltre che soggettivo, tanto che non rilevano le ragioni concrete dell’indisponibilità di un reddito adeguato (sono citate le sentenze n. 144 del 1992, n. 139 del 1998 e n. 33 del 1999). La Corte di cassazione, dal canto suo, avrebbe posto in luce la particolare cogenza, nei giudizi penali, dell’interesse pubblico ad una piena esplicazione del diritto di difesa (è richiamata la sentenza delle Sezioni unite penali n. 25 del 24 novembre 1999).

Chiarito il rango costituzionale del diritto all’assistenza tecnica dei non abbienti, il giudice a quo rileva come la presunzione introdotta dal legislatore discrimini ingiustificatamente tra coloro che siano stati condannati per i delitti indicati nella norma censurata e persone che siano state condannate per reati diversi. La differenza di trattamento non potrebbe essere giustificata «con il solo riferimento al maggior allarme sociale derivante dalla commissione dei delitti» compresi nell’elenco dello stesso comma 4-bis dell’art. 76. D’altra parte, se il legislatore avesse inteso semplicemente escludere i soggetti in questione dall’accesso al beneficio, l’avrebbe esplicitamente disposto, secondo il modello già applicato con riguardo ad alcuni reati tributari (art. 91 del d.P.R. n. 115 del 2002).

I principi di uguaglianza e ragionevolezza sarebbero violati anche sotto altri profili. Sarebbe ingiustificato, anzitutto, il diverso trattamento istituito tra gli appartenenti ad associazioni criminali: infatti, riguardo ai componenti delle associazioni di tipo mafioso e delle associazioni finalizzate al contrabbando di tabacchi lavorati esteri, la norma censurata introduce una presunzione generalizzata di «abbienza», senza distinguere a seconda del ruolo, ed in particolare tra dirigenti e semplici partecipi; nel caso delle associazioni finalizzate al narcotraffico, invece, la citata presunzione colpisce unicamente organizzatori e dirigenti del sodalizio, posto il riferimento in via esclusiva al comma 1 dell’art. 74 del d.P.R. n. 309 del 1990. Non sarebbe ragionevole, secondo il rimettente, una differente valutazione del ruolo apicale in ragione delle diverse finalità perseguite dai gruppi criminali.

Del pari irragionevole sarebbe l’analogia di trattamento istituita tra i partecipi di un’associazione mafiosa ed i soggetti che abbiano «solo» commesso un reato avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416-bis cod. pen. od al fine di agevolare l’attività di una associazione di tipo mafioso. L’estensione del meccanismo presuntivo a soggetti non appartenenti al gruppo criminale, per quanto ad esso contigui, varrebbe a contraddire la stessa ratio dell’intervento legislativo.

La normativa censurata colliderebbe anche con l’art. 24, terzo comma, Cost., con l’art. 6, comma 3, lettera c), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, e con l’art. 14, comma 3, lettera d), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, firmato a New York il 16 dicembre 1966, che garantiscono ai non abbienti «la possibilità di accedere, comunque, alla difesa».

La presunzione censurata avrebbe l’effetto concreto di escludere sempre, senza possibilità di eccezione, l’accesso di determinati soggetti al patrocinio, non già in forza della loro condizione di reddito, ma «in ragione delle risultanze del certificato del casellario giudiziale»: sarebbe inutile finanche la positiva documentazione della concreta indisponibilità di un reddito eccedente i limiti posti dalla legge per l’accesso al beneficio. Una condanna per un reato compreso nell’elenco dei precedenti preclusivi, specie se risalente, non sarebbe effettivamente significativa circa l’attuale condizione di «abbienza» dell’interessato, il quale, ad esempio, potrebbe essersi allontanato dall’ambiente criminale. Di conseguenza la norma censurata, almeno nella parte in cui non ammette il condannato a produrre elementi di prova utili a vincere la relativa presunzione, determinerebbe una lesione del diritto di dif esa, sia con riguardo al terzo comma dell’art. 24 Cost., sia con riferimento al secondo comma della stessa norma, posto che l’accesso al patrocinio rappresenta lo strumento per il pieno ed effettivo esercizio del diritto in questione.

Il rimettente esclude, da ultimo, che i dubbi circa la legittimità della norma oggetto di censura possano essere superati attraverso una interpretazione «costituzionalmente orientata», che neghi il carattere assoluto della presunzione ed ammetta, dunque, la possibilità di una prova contraria. Sarebbero ostativi, in tal senso, sia il tenore letterale della disposizione, sia la chiara intenzione del legislatore (desunta, nella specie, dai lavori preparatori delle assemblee parlamentari, ove si legge che la norma censurata «prevede l’esclusione del gratuito patrocinio per i condannati» riguardo a determinati reati).

2. – Il Tribunale di Lecce, sezione distaccata di Campi Salentina, con ordinanza del 26 marzo 2009 (r.o. n. 301 del 2009), ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. n. 115 del 2002, nella parte in cui esclude – con riguardo ai soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli artt. 416-bis cod. pen., 291-quater del d.P.R. n. 43 del 1973, 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 80, e 74, comma 1, del d.P.R. n. 309 del 1990, nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo – che il giudice possa verificare se il richiedente l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato abbia ricavato redditi dal reato pregresso, e se tali redditi perman gano, in misura superiore a quella fissata per l’accesso al patrocinio, nell’anno antecedente alla presentazione dell’istanza.

Il giudice a quo deve provvedere sulla richiesta dell’imputato di essere ammesso al patrocinio a spese dello Stato, e rileva che l’interessato è stato condannato con pronuncia irrevocabile per il delitto di associazione di tipo mafioso. Tale precedente, pur ricorrendo tutti gli ulteriori presupposti per l’accoglimento, imporrebbe il rigetto della domanda.

La norma censurata, secondo il rimettente, introduce una presunzione avente ad oggetto l’esistenza, l’ammontare e la durevolezza del reddito (pur illecito) prodotto da determinati delitti. Detta presunzione sarebbe assoluta, producendo gli stessi effetti di una diretta esclusione dal beneficio dei condannati per i reati in questione, così da elevare a prova insuperabile di «abbienza» una «norma di esperienza relativa» che, come tale, dovrebbe invece essere sottoposta alla verifica del caso concreto.

La regola di prova introdotta dal legislatore violerebbe il principio di uguaglianza sotto molteplici profili, proprio in quanto fondata su una presunzione irragionevole. I delitti associativi sono puniti anche quando non sia stato commesso alcun reato di attuazione del programma. Non ogni reato produce necessariamente un profitto e, comunque, non sempre i profitti conseguiti in ambito associativo vengono distribuiti fra tutti i componenti del gruppo criminale. Non potrebbe essere stabilito in via presuntiva, inoltre, che il reddito (illecito) conseguito al reato superi per quantità la soglia fissata per l’accesso al patrocinio. In ogni caso, dovrebbe essere dimostrata la disponibilità del reddito in questione nell’anno fiscale antecedente alla domanda, e la presunzione diverrebbe tanto più irragionevole quanto più lontani nel tempo risultino i fatti accertati con la sentenza di condanna (nel caso di specie, i fatti stessi risa lgono a circa nove anni prima della domanda proposta nel giudizio a quo).

La disposizione censurata, in definitiva, comporterebbe una illegittima discriminazione tra i condannati per determinati reati e gli ulteriori instanti per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, e produrrebbe, per i primi, una ingiustificata compressione del diritto di difesa.

3. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio introdotto con l’ordinanza r.o. n. 301 del 2009, mediante atto depositato in data 5 gennaio 2010, chiedendo che la questione sia dichiarata infondata.

L’applicazione della norma censurata presuppone, infatti, che la colpevolezza dell’interessato per i reati in essa indicati sia stata accertata con sentenza irrevocabile. D’altro canto, la presunzione circa la disponibilità di redditi incompatibili con l’accesso al beneficio – presunzione effettivamente insuperabile – sarebbe fondata su una «consolidata massima di esperienza», che documenta l’enormità dei profitti prodotti dal crimine organizzato. Il ricorso a meccanismi presuntivi sarebbe imposto proprio dal carattere illecito, e dunque clandestino, dei redditi in discussione.

Secondo la difesa erariale, la discrezionalità legislativa trova il limite della ragionevolezza e non quello della «certezza» delle conseguenze che vengono tratte da una determinata premessa. Sarebbe ingiustificato l’accollo da parte dello Stato degli oneri pertinenti alla difesa di soggetti la cui condizione di non «abbienza» appaia tale solo in forza dell’occultamento del patrimonio posseduto. La necessità di evitare questo effetto, che risulterebbe «odioso al comune sentire dei cittadini», giustificherebbe «il rischio che, in qualche sporadico caso, il reato commesso non abbia reso, in termini economici, i profitti consueti».

Sarebbe anche ragionevole, sempre a parere dell’Avvocatura generale, la presunzione che i profitti ricavati dalle attività criminali indicate si risolvano «per molti anni» in redditi superiori ai limiti fissati per l’accesso al patrocinio, il che renderebbe irrilevante la questione del tempo intercorso tra la condanna e la successiva istanza di ammissione.

La normativa censurata, in realtà, sarebbe inserita in un più generale contesto di accentuata severità nel trattamento di reati ad elevato allarme sociale, anche sul piano delle regole processuali e dell’ordinamento penitenziario, in una logica di «doppio binario» la cui ammissibilità sarebbe stata asseverata tanto dalla Corte costituzionale che dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

Considerato in diritto

1. – I Tribunali di Catania e di Lecce (sezione distaccata di Campi Salentina), entrambi in composizione monocratica, sollevano questioni di legittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui – avuto riguardo ai soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati di cui agli artt. 416-bis del codice penale, 291-quater del d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43 (Approvazione del testo unico delle disposizioni legislative in materia doganale), 73, limitatamente alle ipotesi aggravate ai sensi dell’art. 80, e 74, comma 1, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), nonché per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo – esclude la possibilità di accertare, ai fini dell’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, l’indisponibilità di un reddito superiore ai limiti indicati nell’art. 76, comma 1, dello stesso d.P.R. n. 115 del 2002.

1.1. – Secondo il Tribunale di Catania la norma censurata – stabilendo con presunzione assoluta che il reddito del condannato «si ritiene» superiore ai limiti fissati per l’accesso al patrocinio – contrasterebbe con l’art. 3 della Costituzione, anzitutto per la difformità di trattamento istituita, senza giustificazione, tra i soggetti condannati per reati indicati nella stessa norma e quelli condannati per reati diversi, ma di gravità comparabile. Sarebbero inoltre discriminati tra loro gli appartenenti con ruoli non apicali ad associazioni criminose, sul solo presupposto delle differenti finalità perseguite dalle rispettive organizzazioni e della conseguente, diversa qualificazione giuridica. Nello stesso tempo, la norma censurata assimilerebbe, senza alcuna giustificazione, i soggetti appartenenti ad associazioni di tipo mafioso e quelli che, pur avendo agito per favorire dette associazioni oppure avvalendosi del le connesse capacità di intimidazione, non siano stati partecipi delle relative organizzazioni criminali.

Il Tribunale di Catania prospetta anche una violazione del secondo comma dell’art. 24 Cost., nonché del terzo comma della medesima norma, evocato unitamente all’art. 6, comma 3, lettera c), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ed all’art. 14, comma 3, lettera d), del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, firmato a New York il 16 dicembre 1966. La norma censurata, in particolare, eluderebbe il diritto all’assistenza gratuita ed al pieno esercizio della difesa con riferimento a soggetti che, pur avendo in precedenza commesso un reato incluso nell’elenco contenuto nella norma stessa, non dispongano di un reddito adeguato.

In ragione dei vizi denunciati, secondo il Tribunale, il comma 4-bis dell’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002 dovrebbe essere dichiarato illegittimo nella parte in cui non consente al richiedente, il quale sia stato in precedenza condannato con riguardo ad un reato «ostativo», di provare la mancata percezione di un reddito superiore ai limiti fissati nel primo comma dello stesso art. 76.

1.2. – Il Tribunale di Lecce (sezione distaccata di Campi Salentina) prospetta una violazione dell’art. 3 Cost. per l’asserita irragionevolezza della presunzione sottesa alla norma oggetto di censura, che accredita all’interessato, per l’anno fiscale antecedente alla sua istanza di patrocinio a spese dello Stato, un reddito superiore ai limiti di accesso. Ciò sebbene l’intervenuta condanna possa riguardare un reato non necessariamente produttivo di profitti nella misura indicata, o comunque non produttivo di redditi tali da legittimare la stessa presunzione a prescindere dal tempo intercorso tra il fatto criminoso e l’epoca di presentazione dell’istanza.

Secondo il rimettente, il denunciato contrasto con la Costituzione dovrebbe essere rimosso dichiarando illegittima la norma censurata nella parte in cui non consente al giudice di verificare se il reato cui si riferisce la condanna «ostativa» abbia davvero prodotto, con specifico riguardo all’anno antecedente alla richiesta del patrocinio, un reddito superiore ai limiti per l’accesso al beneficio.

2. – Le ordinanze di rimessione riguardano la stessa norma, e pongono questioni analoghe, di talché, al fine di una trattazione unitaria, è opportuna la riunione dei relativi procedimenti.

3. – Le questioni sono fondate, nei termini di seguito specificati.

3.1. – Preliminarmente occorre rilevare che la norma censurata contiene una presunzione di possesso di un reddito superiore a quello minimo previsto dalla legge, che, se ritenuta assoluta, non ammette la prova del contrario e rende pertanto inutili ed irrilevanti eventuali indagini del giudice, volte ad accertare le effettive condizioni economiche dell’imputato. Che si tratti di presunzione iuris et de iure emerge con chiarezza dal dato testuale della disposizione in oggetto: per i soggetti in essa indicati «il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti». Non sono stabiliti, nella norma in questione, condizioni e metodi per svolgere accertamenti, facoltativi od obbligatori, sul reddito del richiedente, ma si indica, con l’uso perentorio del presente indicativo, la conclusione cui il giudice deve pervenire, in base al semplice accertamento che l’imputato sia stato condannato con sentenza definitiva per uno dei reati elencati nella norma stessa. Si tratta, non senza qualche eccezione, di reati collegati alle associazioni a delinquere di stampo mafioso, alle associazioni finalizzate al narcotraffico ed al contrabbando di tabacchi lavorati esteri.

L’intento del legislatore è quello di evitare che soggetti in possesso di ingenti ricchezze, acquisite con le attività delittuose appena indicate, possano paradossalmente fruire del beneficio dell’accesso al patrocinio a spese dello Stato, riservato, per dettato costituzionale (art. 24, terzo comma), ai «non abbienti». Tale eventualità è resa più concreta dall’estrema difficoltà di accertare in modo oggettivo il reddito proveniente dalle attività delittuose della criminalità organizzata, a causa delle maggiori possibilità, per i partecipi delle relative associazioni, di avvalersi di coperture soggettive e di strumenti di occultamento delle somme di denaro e dei beni accumulati.

La stessa difesa dello Stato, che pur chiede il rigetto della questione, ammette il carattere insuperabile della preclusione di ogni accertamento nel caso concreto, derivante dalla natura assoluta della presunzione.

L’interesse dei soggetti non abbienti che potrebbero restare privi della garanzia di un pieno esercizio del diritto di difesa, sacrificato secondo l’Avvocatura dello Stato in casi «sporadici», costituirebbe una sorta di bene cedevole nel bilanciamento necessario al fine di evitare un effetto «odioso al comune sentire dei cittadini», consistente nel pubblico impegno per la difesa di persone, responsabili di gravi reati, che solo apparentemente versano in una situazione di povertà.

3.2. – Accertato che la disposizione censurata contiene una presunzione assoluta – presupposto sul quale i rimettenti escludono la possibilità di una interpretazione costituzionalmente orientata – occorre mettere a confronto la norma in sé e per sé considerata, la sua ratio, come prima identificata, e le norme costituzionali invocate come parametri, vale a dire gli artt. 3 e 24, secondo e terzo comma, Cost.

4. – Questa Corte ha precisato che le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit (sentenze n. 139 del 1982, n. 333 del 1991, n. 225 del 2008). In particolare, è stato posto in rilievo che l’irragionevolezza della presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (sentenza n. 41 del 1999).

4.1. – Nel caso di specie, occorre porsi la domanda se sia “agevole” formulare ipotesi in cui il reddito, superiore a quello minimo previsto dalla legge per accedere al gratuito patrocino, non sia nella effettiva disponibilità del soggetto richiedente, con la conseguenza che lo stesso si trovi nella impossibilità di assicurarsi un’adeguata difesa fiduciaria.

Occorre premettere, al fine indicato, che l’elenco di cui al comma 4-bis dell’art. 76 del d.P.R. n. 115 del 2002 comprende anche reati non necessariamente riferibili, nella prospettiva del singolo autore, ad un contesto di criminalità organizzata. È il caso, ad esempio, di alcune ipotesi aggravate di illecita detenzione di sostanze stupefacenti, che sono appunto comprese tra le fattispecie ostative ma non sono per se stesse significative di una stabile dedizione ad attività criminali particolarmente lucrose.

Ad ogni modo, pur se riguardata nella sua dimensione prevalente di norma relativa al crimine organizzato, la disposizione censurata non si sottrae ad un giudizio di irragionevolezza, per il carattere assoluto della presunzione introdotta.

Una prima conclusione in tal senso emerge dal dato, di comune esperienza e avvalorato dalla giurisprudenza ordinaria, secondo cui esiste una sensibile differenza tra la posizione ed il reddito dei capi delle associazioni criminali e la cosiddetta manovalanza del crimine, spesso compensata con somme di scarsa entità, che non consentono disponibilità economiche di consistenza tale da procurare ai percettori risorse adeguate a provvedere alla loro difesa in eventuali futuri processi.

A questo proposito vengono in rilevo due considerazioni, che si combinano nella valutazione sulla legittimità costituzionale della norma censurata.

La prima è relativa alla illimitata durata nel tempo della preclusione all’accertamento dell’effettiva situazione economica dei soggetti che richiedono l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato. La indistinta assimilazione di capi e gregari delle associazioni criminali ha l’effetto di applicare una misura eguale a situazioni che possono essere – e sono, nell’esperienza concreta – fortemente differenziate. La conseguenza è che, pur potendosi agevolmente ipotizzare casi di «non abbienza» per i semplici partecipi delle organizzazioni criminali, questi ultimi subiscono lo stesso trattamento dei loro capi, che dalle attività delittuose hanno tratto ingenti profitti, tali da assicurare disponibilità finanziarie per un più lungo periodo. La presunzione assoluta, nei casi indicati, produce l’effetto sostanziale di una impropria sanzione, per il fatto di appartenere o di essere appartenuto a d una organizzazione criminale, consistente nella limitazione indiscriminata nell’esercizio di un diritto fondamentale come quello di difesa.

Il legislatore mostra di essere consapevole della difficoltà di una completa assimilazione nel trattamento dei membri di un’organizzazione criminale, ed esclude che la presunzione colpisca anche i meri partecipi delle associazioni dedite al narcotraffico. Tutta da dimostrare rimane tuttavia una migliore, generalizzata situazione patrimoniale dei meri partecipi ad associazioni di tipo mafioso o dedite al contrabbando di tabacchi.

La seconda considerazione che si impone è quella relativa all’irrilevanza, ai fini della norma censurata, dei percorsi individuali successivi alla condanna definitiva per uno dei reati, che può essere molto risalente nel tempo – come nel caso del rimettente Tribunale di Lecce – senza che abbia rilievo un eventuale, accertato allontanamento del soggetto instante dal contesto criminale di maturazione del fatto.

Giova sottolineare che la presunzione assoluta opera per l’assistenza difensiva necessaria in processi aventi ad oggetto qualunque tipo di reato, anche del tutto eterogeneo rispetto alle attività della criminalità organizzata, con la conseguenza che non acquista alcun rilievo una eventuale estraneazione dalle associazioni criminali indicate nella norma. In casi del genere la regola presuntiva non trova conferma neppure nel possibile valore sintomatico della nuova imputazione, che d’altronde consisterebbe in un’accusa non ancora comprovata.

La presunzione in esame, estesa a tutti reati e senza limite di tempo, impedisce che si possa tener conto di un eventuale percorso di emancipazione dai vincoli dell’organizzazione criminale, perfino nell’ipotesi in cui il soggetto sia imputato di un reato, anche colposo, che nulla abbia a che fare con la criminalità organizzata. È agevole ipotizzare la situazione di disagio personale, economico e sociale, di chi, partecipe di una associazione di stampo mafioso, tenti il reinserimento nella società, incontri difficoltà a trovare lavoro e sconti, in vari campi della vita di relazione, la sua pregressa appartenenza e si trovi coinvolto in procedimenti penali, nei quali non possa esercitare una difesa adeguata – proprio per dimostrare la sua estraneità al crimine – a causa di una reale condizione di indigenza, il cui accertamento è precluso al giudice dalla norma censurata.

A tutto ciò si deve aggiungere che tale norma esplica i propri effetti non soltanto quando il condannato sia chiamato a difendersi in un nuovo procedimento penale, ma anche nel caso del suo coinvolgimento in un processo civile, amministrativo, contabile o tributario, e dunque in situazioni prive del minimo significato, di natura anche soltanto indiziaria, circa l’attualità di un comportamento criminale.

4.2. – Finanche l’ottenuta riabilitazione non inciderebbe sull’esclusione perpetua dall’accesso al patrocinio a spese dello Stato. L’art. 178 cod. pen. stabilisce infatti che la riabilitazione estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna. Tuttavia la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che componente essenziale dell’effetto penale è la natura sanzionatoria dello stesso (Cass., Sezioni unite penali, sentenza 20 aprile 1994, n. 7); tale componente non sussiste nell’esclusione dal patrocinio, che trova la sua ratio, come già detto, nella presunzione che il soggetto condannato per reati collegati alla criminalità organizzata abbia lucrato dalla sua attività delittuosa in misura tale da renderlo privo del requisito del reddito inferiore al minimo stabilito dalla legge. Sarebbe del resto palesemente abnorme configurare come sanzione una compressione del diritto di di fesa, per l’evidente assurdità di diminuire, per effetto di una condanna in sede penale, la possibilità di difendersi da successive azioni penali.

In sintesi, la norma censurata imprime sui soggetti in essa indicati uno stigma permanente e incancellabile, che incide, comprimendolo, sul diritto fondamentale di difesa, così come configurato dall’art. 24, secondo e terzo comma, Cost.

5. – Alle considerazioni di cui sopra si deve aggiungere il rilievo che il terzo comma dell’art. 24 Cost. contiene una prescrizione generale e incondizionata, che integra e completa quella del secondo comma, con l’effetto che l’accesso al patrocinio a spese dello Stato può essere diversamente regolato per i non abbienti solo in presenza di altri principi costituzionali da salvaguardare, per garantire la tutela di beni individuali o collettivi di pari meritevolezza. Questi ultimi, in ogni caso, non possono incidere sul pieno esercizio del diritto di difesa (l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato comporta com’è noto, oltre alla facoltà di scegliere un difensore di fiducia, la possibilità del ricorso a consulenti ed investigatori privati, ed un più favorevole regime per quanto attiene alle spese processuali).

Non occorre spendere molte parole per ricordare quanto l’attività delittuosa della criminalità organizzata provochi gravi lesioni dei diritti fondamentali dei cittadini e incida negativamente sulle condizioni di vita democratica e civile di intere comunità, determinando, di contro, cospicui arricchimenti per gli associati. Su questi presupposti sociali, il legislatore ben può introdurre discipline particolari, anche nella fruizione di diritti fondamentali, che tuttavia non possono mai risolversi nella pratica vanificazione degli stessi.

Nel caso di specie, non può ritenersi irragionevole che, sulla base della comune esperienza, il legislatore presuma che l’appartenente ad una organizzazione criminale, come quelle indicate nella norma censurata, abbia tratto dalla sua attività delittuosa profitti sufficienti ad escluderlo in permanenza dal beneficio del patrocinio a spese dello Stato. Ciò che contrasta con i principi costituzionali è il carattere assoluto di tale presunzione, che determina una esclusione irrimediabile, in violazione degli artt. 3 e 24, secondo e terzo comma, Cost. Si deve quindi ritenere che la norma censurata sia costituzionalmente illegittima nella parte in cui non ammette la prova contraria.

6. – L’introduzione, costituzionalmente obbligata, della prova contraria, non elimina dall’ordinamento la presunzione prevista dal legislatore, che continua dunque ad implicare una inversione dell’onere di documentare la ricorrenza dei presupposti reddituali per l’accesso al patrocinio. Spetterà al richiedente dimostrare, con allegazioni adeguate, il suo stato di «non abbienza», e spetterà al giudice verificare l’attendibilità di tali allegazioni, avvalendosi di ogni necessario strumento di indagine.

Certamente non potrà essere ritenuta sufficiente una semplice auto-certificazione dell’interessato, peraltro richiesta a tutti coloro che formulano istanza di accesso al beneficio, poiché essa non potrà essere considerata «prova contraria», idonea a superare la presunzione stabilita dalla legge. Sarà necessario, viceversa, che vengano indicati e documentati concreti elementi di fatto, dai quali possa desumersi in modo chiaro e univoco l’effettiva situazione economico-patrimoniale dell’imputato.

Rispetto a tali elementi di prova, il giudice avrà l’obbligo di condurre una valutazione rigorosa e allo scopo potrà certamente avvalersi degli strumenti di verifica che la legge mette a sua disposizione, anche di quelli, particolarmente penetranti, indicati all’art. 96, comma 3, del d.P.R. n. 115 del 2002. La ratio della relativa previsione – che concerne le richieste di accesso al patrocino a spese dello Stato da parte degli imputati per uno dei reati previsti dall’art. 51, comma 3-bis, del codice di procedura penale – è certamente valida anche per le fattispecie oggetto del presente giudizio.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui, stabilendo che per i soggetti già condannati con sentenza definitiva per i reati indicati nella stessa norma il reddito si ritiene superiore ai limiti previsti per l’ammissione al patrocino a spese dello Stato, non ammette la prova contraria.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 aprile 2010.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Gaetano SILVESTRI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedente

SENTENZA N. 140

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 441 e 441-bis del codice di procedura penale promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce nel procedimento penale a carico di F. P. ed altro con ordinanza del 10 luglio 2009, iscritta al n. 264 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 24 marzo 2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto in fatto

1. – Con ordinanza del 10 luglio 2009, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 112 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 441 e 441-bis del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevedono che, nel giudizio abbreviato, il pubblico ministero possa effettuare contestazioni suppletive, nei casi di cui all’art. 12, comma 1, lettera b), del medesimo codice, «anche in assenza di integrazioni probatorie disposte dal giudice e sulla base di fatti e circostanze già in atti e noti all’imputato».

Il giudice a quo – chiamato a svolgere, nelle forme del giudizio abbreviato, un processo penale nei confronti di trentuno persone, imputate del delitto di associazione avente per scopo il traffico illecito di sostanze stupefacenti e di altri reati – riferisce che il pubblico ministero aveva contestato in udienza a due degli imputati un ulteriore reato in materia di stupefacenti, legato dal vincolo della continuazione a quelli per cui si procede e, dunque, connesso a norma dell’art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. I difensori avevano eccepito l’«irritualità» di tale contestazione suppletiva, ostandovi la disposizione combinata degli artt. 441 e 441-bis cod. proc. pen., in forza dei quali, nel giudizio abbreviato, la modifica dell’imputazione è ammessa solo ove sia stata disposta e attuata un’integrazione probatoria su richiesta di parte o d’ufficio.

Nel dubbio, tuttavia, circa la legittimità costituzionale di tale preclusione, il giudice rimettente – dopo avere disposto la separazione del processo relativo al reato oggetto di contestazione suppletiva, al fine di «impedire la scadenza dei termini di custodia cautelare per gli altri imputati» – ha sollevato l’odierna questione.

Al riguardo, egli rileva come le sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza 28 ottobre 1998-11 marzo 1999, n. 4, abbiano affermato che, nel giudizio ordinario, il pubblico ministero può procedere alla contestazione suppletiva di un reato concorrente o di una circostanza aggravante, non soltanto a fronte di nuove risultanze dibattimentali, ma anche sulla base di elementi già acquisiti nella fase delle indagini preliminari. Se da un lato, infatti, la contestazione suppletiva rappresenta una eventualità «fisiologica» in un sistema processuale ispirato alla centralità del dibattimento, che è sede naturale della rappresentazione e della elaborazione probatoria (dalla quale possono sorgere esigenze di modifica dell’imputazione); dall’altro lato, tuttavia, una interpretazione letterale della locuzione «nel corso», presente nell’art. 517 cod. proc. pen. (così come nell’art. 423 con riguardo all̵ 7;udienza preliminare), si risolverebbe – secondo il rimettente – in «un formalismo esasperato ed ingiustificato», non essendo ravvisabile, neppure nell’ipotesi di nuova contestazione basata su elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari, alcuna violazione del diritto di difesa dell’imputato, messo comunque nelle condizioni di conoscere gli atti raccolti dalla pubblica accusa.

A fronte di ciò, sarebbe dunque «comprensibile» l’emergere di una giurisprudenza di legittimità che, fornendo una certa interpretazione dell’art. 441-bis cod. proc. pen., ha ritenuto che, anche nel giudizio abbreviato, una volta disposta una integrazione probatoria, le contestazioni suppletive siano possibili non soltanto se derivanti dalle nuove prove assunte, ma anche quando trovino fondamento in «fatti e circostanze già in atti» (sono citate, in particolare, le sentenze della Corte di cassazione, sezione II, 9 giugno 2005-22 giugno 2005, n. 23466, e sezione V, 27 novembre 2008-18 febbraio 2009, n. 7047): e ciò – stando alla prima delle pronunce ora ricordate – persino laddove l’integrazione probatoria, disposta dal giudice, non abbia avuto concretamente luogo (nella specie, per sopravvenuto decesso del testimone da escutere). Secondo le medesime sentenze, inoltre, allorché le nuove contestazioni si ba sino su dati precedentemente acquisiti, l’imputato non potrebbe neppure chiedere che il procedimento prosegua nelle forme ordinarie, giacché la facoltà di rinuncia al giudizio abbreviato gli sarebbe accordata dall’art. 441-bis cod. proc. pen. unicamente a fronte di contestazioni scaturenti dalle integrazioni probatorie.

La ratio della richiamata disposizione si coglierebbe, in effetti, agevolmente: la scelta del giudizio abbreviato non potrebbe rimanere vincolante ove emergano fatti non conosciuti o conoscibili dall’imputato, mentre tale esigenza non si manifesterebbe quando la contestazione suppletiva derivi da una semplice rivalutazione di dati probatori già in atti e, dunque, noti all’imputato al momento della scelta del rito.

A seguito delle riforme degli anni 1999-2000, d’altronde, il giudizio abbreviato – ormai svincolato dai presupposti del consenso del pubblico ministero e della definibilità del processo allo stato degli atti – non sarebbe più, come in origine, un giudizio «cristallizzato», ma avrebbe assunto opposte caratteristiche di “fluidità”, tanto sul versante probatorio che su quello dell’imputazione. L’imputato che opti per il rito alternativo sa, infatti, che potrebbe essere comunque disposta dal giudice un’integrazione probatoria, che abiliterebbe il pubblico ministero ad operare contestazioni suppletive.

In tale cornice, risulterebbe, tuttavia, inspiegabile l’inapplicabilità, sancita dall’art. 441, comma 1, cod. proc. pen., della disciplina sulla modifica dell’imputazione recata dall’art. 423 cod. proc. pen., fuori dei casi di integrazione probatoria indicati nell’art. 441-bis. Se, alla stregua delle sentenze citate, persino in presenza di un’integrazione probatoria, disposta ma «priva di seguito», è possibile una contestazione suppletiva basata solo sulla rivalutazione di elementi già acquisiti, purché conosciuti dall’imputato, non si comprenderebbe perché la medesima contestazione non sia ammessa anche quando una integrazione probatoria non venga «formalmente disposta» dal giudice.

Codesta limitazione – costituente, secondo il rimettente, l’ultimo residuo elemento di «rigidità» del giudizio abbreviato – si porrebbe segnatamente in contrasto con il «principio del giusto processo» (art. 111 Cost.), implicante «la lealtà processuale delle parti»: principio a fronte del quale il pubblico ministero, che non abbia formulato correttamente l’imputazione, non dovrebbe vedersi inibita la possibilità di integrarla sulla base di atti contenuti nel fascicolo processuale e perciò noti all’imputato.

La circostanza che, in base alle norme censurate, la contestazione suppletiva radicata su elementi «già in atti» sia permessa o meno a seconda che sia stata o meno disposta un’integrazione probatoria, anche a prescindere dal suo effettivo espletamento, comporterebbe, altresì, la violazione dei principi di eguaglianza e di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale (artt. 3 e 112 Cost.). La situazione sarebbe, infatti, identica nei due casi, giacché in entrambi la necessità di integrare l’imputazione sorge a seguito di un’omissione del pubblico ministero.

Il denunciato divieto di contestazione del reato concorrente, impedendo l’esame congiunto delle regiudicande, si rifletterebbe negativamente anche sull’efficienza dell’accertamento processuale, e, dunque, sul buon andamento dell’amministrazione della giustizia, con conseguente lesione dell’art. 97 Cost. La separazione dei processi – specialmente quando venga in rilievo, come nel caso di specie, il rapporto tra delitto associativo e reati fine, o tra singoli reati fine – comporterebbe, infatti, una reiterazione degli «esperimenti probatori», potenzialmente foriera di decisioni contraddittorie.

Risulterebbe violato, infine, il diritto di difesa (art. 24 Cost.), giacché – posto che la preclusione censurata non impedisce comunque al pubblico ministero di agire separatamente per il reato di cui è stata omessa la contestazione – l’imputato potrebbe trovare, di contro, più vantaggioso difendersi contestualmente, in particolare quando si tratti di fatti legati dal vincolo della continuazione a quelli già contestati.

La questione sarebbe altresì rilevante nel giudizio a quo, in quanto dal suo accoglimento dipenderebbe la possibilità di decidere sulla contestazione suppletiva formulata dal pubblico ministero, relativamente alla quale è stata disposta la separazione del processo, che, peraltro – ove la decisione sull’incidente di costituzionalità intervenisse «tempestivamente» – non precluderebbe neppure una successiva riunione del processo stesso a quello «principale».

2. – Nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, il quale ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

Ad avviso della difesa erariale, la questione sarebbe inammissibile per carente descrizione da parte del giudice a quo della fattispecie concreta, la quale non consentirebbe di verificare l’effettiva rilevanza del dubbio di costituzionalità nel giudizio principale. Secondo quanto riferito nell’ordinanza di rimessione, difatti, il rimettente ha disposto la separazione del processo relativo al reato oggetto della contestazione suppletiva inammissibilmente formulata dal pubblico ministero per impedire la scadenza dei termini di custodia cautelare, «così evidenziando l’esistenza attuale nell’ordinamento di una strada alternativa a quella che [il rimettente stesso] censura».

Inammissibile per difetto di rilevanza risulterebbe, altresì, la censura basata sull’assunto per cui la contestazione suppletiva nel giudizio abbreviato potrebbe risultare gradita all’imputato in vista dell’applicazione dell’art. 81 cod. pen., trattandosi di valutazione rimessa in via esclusiva all’imputato medesimo; come pure l’ulteriore doglianza connessa alla considerazione che la rimozione della preclusione censurata eviterebbe la duplicità di giudizi e, quindi, l’eventuale contrasto di giudicati, posto che l’ordinamento già contempla strumenti idonei ad evitare il rischio paventato.

Quanto al merito della questione, l’Avvocatura dello Stato osserva come il giudice a quo abbia evocato impropriamente, a fondamento delle proprie doglianze, la sentenza della Corte di cassazione, sezione V, 27 novembre 2008-18 febbraio 2009, n. 7047, trattandosi di decisione attinente all’ammissibilità, nel giudizio abbreviato, di una diversa qualificazione giuridica del fatto contestato, e non già della contestazione suppletiva di un ulteriore reato. Parimenti inconferente sarebbe la richiamata sentenza delle sezioni unite 28 ottobre 1998-11 marzo 1999, n. 4, che ha ritenuto ammissibile, bensì, la contestazione suppletiva basata su atti già acquisiti nel corso delle indagini preliminari, ma con riguardo al dibattimento, nel quale all’imputato è assicurato «il massimo livello di difesa»: laddove, invece, nella fattispecie in esame, la contestazione suppletiva formulata nel giudizio abbreviato «allo stato degli atti» , non consentendo all’imputato stesso di rinunciare al rito semplificato, ne comprimerebbe le garanzie difensive.

La giurisprudenza, «pressoché consolidata», della Corte di cassazione deporrebbe, in realtà, in senso contrario alla tesi del rimettente. Da essa emergerebbe, infatti, come la cristallizzazione del quadro processuale, sia dal punto di vista probatorio che da quello dell’imputazione, rappresenti un connotato «ineliminabile» del giudizio abbreviato: e ciò nella considerazione che la contestazione suppletiva, anche se basata su elementi acquisiti in precedenza, costituisce fattore idoneo a mutare gli equilibri fra le parti e le strategie difensive dell’imputato. Come rilevato, difatti, in più occasioni dalla stessa Corte costituzionale, le valutazioni dell’imputato circa la convenienza del rito speciale dipendono anzitutto dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero.

La previsione dell’art. 441-bis cod. proc. pen. – per la quale, in deroga al principio dettato dall’art. 441, comma 1, la contestazione suppletiva è possibile ove sia disposta una integrazione probatoria su richiesta dell’imputato (art. 438, comma 5, cod. proc. pen.) o per iniziativa del giudice (art. 441, comma 5, cod. proc. pen.) – troverebbe giustificazione nel fatto che, in tali casi, possono emergere nuovi reati da contestare: ipotesi nella quale il legislatore ha comunque lasciato all’imputato la scelta se proseguire con il rito speciale o chiederne la riconversione nel rito ordinario.

Considerato in diritto

1. – Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce dubita, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 112 della Costituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 441 e 441-bis del codice di procedura penale, nella parte in cui, nel giudizio abbreviato, non consentono al pubblico ministero di effettuare contestazioni suppletive di reati connessi a norma dell’art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen. «anche in assenza di integrazioni probatorie disposte dal giudice e sulla base di atti e circostanze già in atti e noti all’imputato».

Il dubbio di costituzionalità trova il suo presupposto fondante nell’indirizzo interpretativo che si asserisce accolto, in tema di modifica dell’imputazione nel giudizio abbreviato, da due sentenze della Corte di cassazione (sezione II, 9 giugno 2005-22 giugno 2005, n. 23466, e sezione V, 27 novembre 2008-18 febbraio 2009, n. 7047): un indirizzo i cui approdi vengono evocati dal giudice rimettente come tertia comparationis al fine di desumerne l’esigenza costituzionale di una (ulteriore) dilatazione del perimetro di ammissibilità delle contestazioni suppletive nell’ambito del rito alternativo.

Alla stregua dell’indirizzo in questione, una volta che venga disposta dal giudice una integrazione probatoria – e (stando almeno alla prima delle citate pronunce) indipendentemente dal suo effettivo espletamento – il pubblico ministero sarebbe abilitato a procedere alla contestazione suppletiva di reati connessi, non solo in rapporto a nuovi elementi emersi a seguito dell’integrazione probatoria (che appunto potrebbe non essere neppure attuata), ma anche sulla base di circostanze già risultanti dagli atti e, dunque, note all’imputato al momento della formulazione della richiesta di giudizio abbreviato. In quest’ultima ipotesi, d’altro canto, l’imputato non sarebbe neppure legittimato a chiedere che il processo prosegua nelle forme ordinarie, rinunciando al rito alternativo, giacché, in base alla lettera dell’art. 441-bis cod. proc. pen., tale facoltà gli competerebbe unicamente a fronte di contestazioni scaturite dalle integrazioni probatorie effettivamente intervenute.

A questo punto – sempre secondo il giudice a quo – sarebbe, tuttavia, del tutto incongruo e contrario agli evocati parametri costituzionali non permettere la contestazione suppletiva anche quando una integrazione probatoria non sia stata «formalmente disposta» dal giudice (come avvenuto nel caso di specie): trattandosi di situazione che non presenta elementi differenziali di rilievo rispetto a quella dianzi indicata (contestazione suppletiva basata su circostanze già in atti, e non su nuove risultanze probatorie, in presenza di una integrazione probatoria disposta, anche se non attuata), posto che pure in tale caso la necessità di integrare l’imputazione sorge a seguito di un’omissione del pubblico ministero.

Sotto tale profilo, le norme impugnate violerebbero, dunque, i principi di eguaglianza (art. 3 Cost.) e di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale (art. 112 Cost.).

Risulterebbe leso, altresì, il «principio del giusto processo» (art. 111 Cost.), avente come corollario la «lealtà processuale» delle parti: principio alla luce del quale non si giustificherebbe che, anche in assenza di integrazioni probatorie, venga preclusa al pubblico ministero la rivalutazione di atti contenuti nel fascicolo processuale e, perciò, noti all’imputato, al fine di porre rimedio ad una lacuna dell’imputazione.

L’assetto normativo censurato violerebbe, ancora, l’art. 97 Cost., in quanto la preclusione della contestazione di un reato concorrente nel caso considerato, impedendo l’esame congiunto delle regiudicande, provocherebbe una duplicazione di attività processuali e il rischio di contrasto di giudicati, con pregiudizio al buon andamento dell’amministrazione della giustizia.

Da ultimo, apparirebbe compromesso anche il diritto di difesa (art. 24 Cost.), potendo risultare più vantaggioso per l’imputato difendersi contestualmente, anziché separatamente, in rapporto a reati legati fra loro dal vincolo della continuazione.

2. – L’eccezione di inammissibilità della questione per insufficiente descrizione della fattispecie concreta e difetto di motivazione sulla rilevanza, formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, non è fondata.

Dall’ordinanza di rimessione emerge, infatti, che il rimettente è chiamato a svolgere, con rito abbreviato, un processo nei confronti di numerose persone, imputate di vari reati, nel corso del quale il pubblico ministero ha contestato a due degli imputati, sulla base di elementi già risultanti dagli atti, un ulteriore reato connesso ai sensi dell’art. 12, comma 1, lettera b), cod. proc. pen.; iniziativa, questa, che ha incontrato l’opposizione dei difensori, i quali hanno eccepito l’inammissibilità della contestazione suppletiva, non essendo stata nella specie disposta alcuna integrazione probatoria.

La rilevanza della questione non viene meno, d’altro canto, per il fatto che il giudice a quo – allo scopo di evitare che nelle more del giudizio di costituzionalità scadessero i termini massimi di custodia cautelare – abbia disposto la separazione del processo relativo al reato oggetto della contestazione suppletiva, la cui ammissibilità resta ancora da stabilire. La contestazione suppletiva di un reato connesso – che nel vigente codice di rito, volto ad «attuare nel processo penale i caratteri del sistema accusatorio» (art. 2, comma 1, della legge 16 febbraio 1987, n. 81, recante «Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale»), è affidata non certo al giudice, ma al pubblico ministero – integra esercizio dell’azione penale e, dunque, dà vita ad un processo suscettibile di essere separato, in base alle regole generali, da quelli relativi ai reati oggetto dell’imputazione originaria. Anche dopo la separazione, d’altronde, l’esito dello scrutinio di costituzionalità continua a condizionare la sorte dello stesso giudizio principale separato: giacché, se la questione fosse accolta, il rimettente dovrebbe ritenere la contestazione suppletiva validamente effettuata e, quindi, pronunciarsi – sempre nelle forme del giudizio abbreviato – sul merito della stessa nell’ambito di detto processo separato; mentre, in caso contrario, dichiarata inammissibile la nuova contestazione, dovrebbe restituire gli atti al pubblico ministero affinché proceda per il reato connesso nei modi ordinari.

3. – Vanno del pari disattese le ulteriori eccezioni di inammissibilità della difesa erariale relative a singole censure, in quanto attengono, in realtà, a profili di merito.

4. – Nel merito, la questione non è fondata.

4.1. – Innanzi tutto, non è possibile considerare le due decisioni della Corte di cassazione, su cui il rimettente basa i propri rilievi, come espressione di un orientamento giurisprudenziale consolidato (lo stesso giudice a quo riconosce l’esistenza di precedenti di segno contrario): e ciò, tanto più ove si consideri che – come rimarcato anche dall’Avvocatura dello Stato – la più recente fra tali decisioni ha, in realtà, ad oggetto non già una fattispecie di contestazione suppletiva, ma di diversa qualificazione giuridica del fatto (passaggio dal furto tentato al furto consumato sulla base di elementi descrittivi già racchiusi nell’imputazione originaria).

L’orientamento desunto da dette sentenze, d’altra parte, non soltanto non appare incontrovertibile sul piano ermeneutico, ma conduce addirittura ad un assetto in sé incompatibile con la Costituzione.

Con riferimento al giudizio ordinario, è in effetti predominante, nella giurisprudenza di legittimità, la tesi per cui – nonostante la formulazione letterale, apparentemente contraria, degli artt. 516 e 517 cod. proc. pen. – le nuove contestazioni considerate da tali articoli possono essere basate, oltre che su elementi emersi per la prima volta nel corso dell’istruzione dibattimentale, anche sui soli atti già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari: in tal modo, traducendosi anche in uno strumento per porre rimedio ad inesattezze o lacune dell’imputazione originaria.

A prescindere, peraltro, dalla validità degli argomenti addotti a supporto di siffatta soluzione interpretativa (sentenza n. 333 del 2009), essa non può essere comunque estesa al giudizio abbreviato senza tenere conto delle peculiarità di questo rito.

L’assetto normativo che il giudice a quo sottopone a scrutinio ha, in effetti, una sua intrinseca razionalità.

In parallelo all’originaria configurazione del giudizio abbreviato come rito «allo stato degli atti», senza alcuna possibilità di integrazioni probatorie, l’art. 441, comma 1, cod. proc. pen. – nell’operare un generale rinvio, nei limiti della compatibilità, alla disciplina dell’udienza preliminare – escludeva in assoluto l’applicabilità dell’istituto della modificazione dell’imputazione, quale regolato dall’art. 423 cod. proc. pen.

La preclusione rispondeva – e tuttora risponde – ad una funzione di garanzia per l’imputato, oltre che ad una logica premiale. L’imputato accettava, cioè, di essere giudicato sulla base degli atti raccolti nel corso delle indagini preliminari con esclusivo riferimento all’accusa già formulata dal pubblico ministero, che segna i limiti della sua rinuncia alla formazione della prova in contraddittorio: tanto più che, di fronte a contestazioni suppletive di reati concorrenti o di circostanze aggravanti, egli si sarebbe trovato nell’impossibilità di difendersi dall’ampliamento dell’accusa stessa chiedendo l’ammissione di corrispondenti prove a discarico. Prospettiva nella quale la scelta legislativa fu ritenuta da questa Corte immune da vizi di costituzionalità, in quanto «coerente con la struttura e le finalità del rito» (sentenza n. 378 del 1997).

Introdotta, con la legge 16 dicembre 1999, n. 479, la possibilità di arricchimenti della piattaforma probatoria – tanto per iniziativa dell’imputato (richiesta di giudizio abbreviato “condizionato”: art. 438, comma 5, cod. proc. pen.), che del giudice (nel caso di impossibilità di decidere allo stato degli atti: art. 441, comma 5, cod. proc. pen.) – è emersa l’esigenza di prevedere meccanismi di adeguamento dell’imputazione alle nuove acquisizioni. In via di eccezione rispetto alla regola enunciata dall’art. 441, comma 1, cod. proc. pen. – rimasta immutata – si è quindi consentito al pubblico ministero di procedere a nuove contestazioni. Ma ciò unicamente nei casi di modificazione della base cognitiva a seguito dell’attivazione dei meccanismi di integrazione probatoria, e riconoscendo, in pari tempo, all’imputato – quando si tratti delle contestazioni previ ste dall’art. 423, comma 1, cod. proc. pen. (fatto diverso, reato connesso a norma dell’art. 12, comma 1, lettera b, o circostanza aggravante) – la facoltà di chiedere che il procedimento prosegua nelle forme ordinarie, o, in alternativa, l’ammissione di nuove prove (art. 441-bis cod. proc. pen., aggiunto dall’art. 2-octies del decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82, recante «Modificazioni alla disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato», convertito, con modificazioni, dalla legge 5 giugno 2000, n. 144: nel caso di contestazione del fatto nuovo, a norma dell’art. 423, comma 2, cod. proc. pen., l’imputato resta per converso tutelato dalla circostanza che tale contestazione presuppone il suo consenso).

Da tale quadro – che contraddice la visione, propugnata dal rimettente, del giudizio abbreviato come rito ormai totalmente «fluido» sul piano probatorio e dell’imputazione – si deve inferire che le eccezioni introdotte restano strettamente legate alle fattispecie che le giustificano: vale a dire, che il pubblico ministero possa effettuare le nuove contestazioni solo quando affiori la necessità di adattare l’imputazione a nuove risultanze processuali, scaturenti da iniziative probatorie assunte nell’ambito del rito alternativo; rimanendo con ciò escluso che dette iniziative – tanto più se rimaste «prive di seguito» – possano rappresentare una patente di legittimazione per rivalutare, a scopo di ampliamento dell’accusa, elementi già acquisiti in precedenza e, fino a quel momento, non posti ad oggetto di azione penale.

4.2. – L’indirizzo giurisprudenziale su cui poggiano le censure del rimettente conduce, d’altro canto, a risultati addirittura contrari a Costituzione allorché assume – appellandosi qui soltanto alla lettera dell’art. 441-bis, comma 1, cod. proc. pen. – che, nel caso di contestazione suppletiva fondata su elementi «già in atti», e dunque noti all’imputato, costui non potrebbe neppure avvalersi della facoltà di chiedere che il procedimento prosegua nelle forme ordinarie.

Questa Corte ha avuto modo di rilevare, difatti, in più occasioni, che «le valutazioni dell’imputato in ordine alla convenienza dei riti alternativi al dibattimento» dipendono anzitutto «dalla concreta impostazione data al processo dal pubblico ministero». Con la conseguenza che quando, per «evenienze patologiche», quali gli errori o le omissioni del pubblico ministero sulla individuazione del fatto o del titolo del reato, l’imputazione subisce una variazione sostanziale, l’imputato deve essere rimesso in termini per compiere le suddette valutazioni, pena la violazione tanto del diritto di difesa che del principio di eguaglianza, stante la discriminazione che verrebbe altrimenti a determinarsi a seconda «della maggiore o minore esattezza o completezza della discrezionale valutazione delle risultanze delle indagini preliminari operata dal pubblico ministero nell’esercitare l’azione penale» (sentenze n. 333 del 2009 e n. 265 del 1994).

Tale principio è stato affermato con riferimento alle nuove contestazioni dibattimentali e alla possibilità di passaggio dal rito ordinario a riti alternativi (giudizio abbreviato e applicazione della pena su richiesta): ma non potrebbe evidentemente non operare anche nella direzione inversa. Con la richiesta di giudizio abbreviato l’imputato accetta di essere giudicato con rito semplificato in rapporto ai reati già contestatigli dal pubblico ministero, rispetto ai quali solo egli esprime l’apprezzamento della convenienza del rito stesso: sicché non sarebbe costituzionalmente accettabile che egli venisse a trovarsi vincolato dalla sua scelta anche in relazione agli ulteriori reati concorrenti che – stando all’indirizzo interpretativo in discussione – potrebbero essergli contestati a fronte delle «evenienze patologiche» di cui si è detto.

4.3. – Alla luce di quanto precede, si deve dunque escludere che la lettura delle norme censurate operata attraverso le pronunce giurisprudenziali richiamate e interpretate dal giudice a quo – lettura non apprezzabile in termini di «diritto vivente», non incontestabile sul piano ermeneutico e comunque incompatibile con la Costituzione – possa essere utilmente invocata quale tertium comparationis al fine di alterare l’assetto, viceversa in sé ragionevole e coerente, delineato dal legislatore in materia.

Non ricorre la prospettata violazione dell’art. 3 Cost., essendo le due ipotesi poste a raffronto – giudizio abbreviato con e senza integrazione probatoria – tra loro non equiparabili ai fini considerati: soltanto nella prima, e non nella seconda, si prospetta l’esigenza di rendere possibile un eventuale adeguamento dell’imputazione a nuove acquisizioni, che il pubblico ministero non aveva potuto in precedenza considerare. D’altro canto, e proprio in tale logica, il vigente assetto normativo consente – se non addirittura impone, anche ad evitare un diverso vulnus costituzionale – di ritenere che, nel caso di integrazione probatoria, la contestazione suppletiva possa derivare solo dalle nuove risultanze di essa, e non anche da quanto era già precedentemente noto alle parti: donde l’insussistenza della stessa ipotizzata esigenza di omologazione, su quest’ultimo versante, della disciplina relativa al giudizio abbreviato rimasto privo di arricchimenti del panorama probatorio.

4.4. – Parimenti infondate risultano le restanti censure.

Nessuna violazione dell’art. 112 Cost. appare configurabile, per l’assorbente ragione che il pubblico ministero conserva comunque la possibilità di esercitare l’azione penale per il reato connesso, non “tempestivamente” contestato, nei modi ordinari e in un processo separato.

Né si comprende sotto quale profilo i principi e i connotati del «giusto processo» (art. 111 Cost.) – tantomeno quello della «lealtà processuale delle parti», che il giudice a quo assume insito negli enunciati costituzionali – possano ritenersi vulnerati dalla preclusione in esame, la quale risulta anzi coerente con essi, impedendo ad una delle parti di mutare e imporre unilateralmente il tema del giudizio abbreviato.

Inconferente è il riferimento al principio di buon andamento dei pubblici uffici (art. 97 Cost.), trattandosi di principio che, per costante giurisprudenza di questa Corte, è riferibile all’amministrazione della giustizia solo per quanto attiene all’organizzazione e al funzionamento degli uffici giudiziari e non all’attività giurisdizionale in senso stretto (tra le molte, sentenze n. 64 del 2009 e n. 117 del 2007, ordinanza n. 408 del 2008).

Neppure è ravvisabile, infine, una violazione del diritto di difesa (art. 24 Cost.). La disciplina censurata è posta, infatti, a garanzia dell’imputato (tanto che, nel giudizio a quo, i difensori si sono opposti alla contestazione suppletiva); in ogni caso – come già rilevato da questa Corte – il diritto di difesa non potrebbe considerarsi compromesso dal mero «aggravio» derivante dallo svolgimento di processi separati per reati in continuazione. Ciò non impedisce che l’imputato possa esplicare il diritto stesso, con pienezza di garanzie, in tutte le diverse sedi processuali nelle quali vengono esaminati i reati esecutivi del medesimo disegno criminoso (sentenza n. 64 del 2009; nonché, con riguardo ad altra ipotesi di connessione di procedimenti, sentenza n. 198 del 1972), fino ad ottenerne il riconoscimento in sede di esecuzione, nel caso di separate pronunce (art. 671 cod. proc. pen.).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 441 e 441-bis del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 97, 111 e 112 della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Lecce con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 14 aprile 2010.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 16 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA