Deposito del 05/11/2010 (dalla 309 alla 312)

 
S.309/2010 del 02/11/2010
Udienza Pubblica del 05/10/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore CASSESE


Norme impugnate: Art. 13 della legge della Regione Toscana 26/07/2002, n. 32 come sostituito dall'art. 3 della legge della Regione Toscana 05/11/2009, n. 63.

Oggetto: Istruzione - Norme della Regione Toscana - Programmazione del sistema della formazione professionale basato su un percorso triennale destinato al conseguimento di una qualifica professionale, strutturato da un primo biennio scolastico ed un terzo anno professionalizzante - Contrasto con le norme statali, costituenti norme generali e principi fondamentali, sull'assolvimento dell' obbligo d'istruzione nel secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e formazione - Lamentata introduzione unilaterale, senza alcuna intesa con lo Stato, di un sistema di formazione professionale che costituisce un "tertium g.enus" rispetto ai percorsi ordinari o sperimentali individuati dalla disciplina statale

Dispositivo: illegittimità costituzionale - inammissibilità
Atti decisi: ric. 5/2010
S.310/2010 del 02/11/2010
Udienza Pubblica del 06/10/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore CRISCUOLO


Norme impugnate: Art. 14, c. 1°, del decreto legislativo 09/04/2008, n. 81.

Oggetto: Lavoro e occupazione - Norme in mate ria di tutela della salute e della sicurezza dei luoghi di lavoro - Di vieto per gli imprenditori di impiego di personale non risultante dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria in misura pari o superiore al venti per cento del totale dei lavoratori presenti sul luogo di lavoro - Inosservanza - Possibilità degli organi di vigilanza del Ministero del lavoro e della previdenza sociale di adottare provvedimenti di sospensione dell'attività senza obbligo di motivazione.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ord. 204/2009
S.311/2010 del 02/11/2010
Udienza Pubblica del 21/09/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore CRISCUOLO


Norme impugnate: Art. 5 della legge 09/12/1985, n. 705 .

Oggetto: Università - Professori a tempo definito collocati in aspettativa - Possibilità di optare per il regime di tempo pieno - Mancata previsione.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 237/2009
S.312/2010 del 02/11/2010
Udienza Pubblica del 19/10/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore GROSSI


Norme impugnate: Artt. 9, c. 2° e 3°, e 10, c. 2°, della legge della Regione Campania 28/12/2009, n. 19 modificativo dell'art. 4, c. 2° e 3°, della legge della Regione Campania 07/01/1983, n. 9.

Oggetto: Edilizia e urbanistica - Norme della Regione Campania - Intrapresa da parte dei privati proprietari di interventi straordinari di incremento volumetrico o di mutamento di destinazione d'uso - Necessità di istituire, per l'efficacia dei relativi titoli abilitativi, un libretto di fabbricato, da redigere con le modalità e i contenuti definiti da apposito regolamento - Lamentata imposizione a privati di compiti propri della pubblica amministrazione, contraddittorietà rispetto ai fini, intervento in ambito riservato alla legge statale;
Edilizia e urbanistica - Calamità pubbliche e protezione civile - Norme della Regione Campania - Interventi in zona sismica - Inizio lavori - Necessità per l'inizio dei lavori in zone sismiche della preventiva autorizzazione sismica - Sufficienza per l'inizio dei lavori nelle zone a bassa sismicità del "deposito sismico", verificato dal competente Settore provinciale del Genio Civile, salvi controlli con il metodo a campione - Contrasto con i principi fondamentali in materia di governo del territorio e protezione civile.

Dispositivo: inammissibilità
Atti decisi: ric. 21/2010

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pronuncia successiva

SENTENZA N. 309

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge della Regione Toscana 26 luglio 2002, n. 32 (Testo unico della normativa della Regione Toscana in materia di educazione, istruzione, orientamento, formazione professionale e lavoro), come sostituito dall’art. 3 della legge della Regione Toscana 5 novembre 2009, n. 63 [Modifiche alla legge regionale 26 luglio 2002, n. 32 (Testo unico della normativa della Regione Toscana in materia di educazione, istruzione, orientamento, formazione professionale e lavoro) in materia di obbligo di istruzione e di servizi per l’infanzia], promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 12 gennaio 2010, depositato in cancelleria il 14 gennaio 2010 ed iscritto al n. 5 del registro ricorsi 2010.

Visto l’atto di costituzione della Regione Toscana;

udito nell’udienza pubblica del 5 ottobre 2010 il Giudice relatore Sabino Cassese;

uditi l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Lucia Bora per la Regione Toscana.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso in via principale ritualmente notificato e depositato (reg. ric. n. 5 del 2010), il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto questione di legittimità costituzionale dell’articolo 13 della legge della Regione Toscana 26 luglio 2002, n. 32 (Testo unico della normativa della Regione Toscana in materia di educazione, istruzione, orientamento, formazione professionale e lavoro), come sostituito dall’art. 3 della legge della Regione Toscana 5 novembre 2009, n. 63 [Modifiche alla legge regionale 26 luglio 2002, n. 32 (Testo unico della normativa della Regione Toscana in materia di educazione, istruzione, orientamento, formazione professionale e lavoro) in materia di obbligo di istruzione e di servizi per l’infanzia], per contrasto con gli articoli 117, commi secondo, lettera n), e terzo, e 118 della Costituzione.

1.1. – La disposizione censurata, con l’intento di dare attuazione all’obbligo di istruzione e di prevenire l’abbandono scolastico, ha promosso l’offerta di percorsi formativi «sia all’ambito della formazione professionale e dell’apprendistato a completamento dei percorsi nell’ambito dell’istruzione, sia al rientro nel sistema di istruzione per il completamento del ciclo di studio» (comma 1).

A tal fine, il comma 2 del suddetto articolo, ha previsto che «la Regione adotta le misure necessarie per l’assolvimento dell’obbligo di istruzione nel sistema della formazione professionale con un percorso triennale destinato al conseguimento di una qualifica professionale, strutturato da un primo biennio scolastico, integrato da specifiche finalità formative diversamente graduate tra il primo e il secondo anno, e un terzo anno interamente professionalizzante che è realizzato: a) dalle scuole accreditate per la formazione professionale secondo il sistema regionale toscano anche in collaborazione con agenzie formative accreditate ed eventualmente con altre scuole: b) dalle agenzie formative accreditate per la formazione professionale secondo il sistema regionale toscano anche in collaborazione con una scuola o reti di scuole; c) dalle scuole non accreditate purché in collaborazione con agenzie formative accreditate per la formazione professionale secondo il sistema regionale toscano, o con un’altra scuola accreditata o reti di scuole».

Il comma 3 ha stabilito, inoltre, che «per il terzo anno professionalizzante possono essere eventualmente previste modalità formative a distanza».

1.2. – Ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, la disposizione impugnata violerebbe la competenza legislativa regionale, ponendosi in contrasto con le norme generali sull’istruzione, con i principi fondamentali della materia e con il principio di leale collaborazione.

In primo luogo, tale disposizione, «configurando unilateralmente e a regime», al fine dell’assolvimento dell’obbligo di istruzione, «un sistema di formazione professionale che costituisce un tertium genus rispetto ai percorsi (sia ordinari che sperimentali) individuati dalla disciplina statale, si pone in contrasto con le norme generali e con i principi fondamentali che disciplinano l’obbligo d’istruzione nel secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e formazione».

In secondo luogo, il percorso di formazione professionale sarebbe stato adottato dalla Regione Toscana senza stipulare «alcuna intesa con lo Stato», violando così il principio della leale collaborazione.

In terzo luogo, la disposizione in oggetto contrasterebbe con l’art. 27, comma 4, del decreto legislativo 17 ottobre 2005, n. 226 (Norme generali e livelli essenziali delle prestazioni relativi al secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e formazione, a norma dell’articolo 2 della L. 28 marzo 2003, n. 53), che prevede che si possa assolvere all’obbligo di istruzione in seno al sistema di istruzione e formazione professionale di competenza regionale soltanto «a decorrere dall’anno scolastico e formativo 2010-2011».

2. – Si è costituita in giudizio, con atto depositato in data 12 febbraio 2010, la Regione Toscana, concludendo per la declaratoria di infondatezza del ricorso e sostenendo che la disposizione impugnata non ha la finalità di introdurre, per l’assolvimento dell’obbligo di istruzione, «un autonomo e specifico sistema di istruzione e formazione professionale regionale concorrente rispetto a quello statale, bensì ha voluto promuovere la costituzione di un sistema integrato istruzione (statale) – formazione professionale (regionale), nell’ambito della vigente normativa statale».

3. – Con memoria depositata il 14 settembre 2010, la difesa regionale, oltre a ribadire, nel merito, le considerazioni formulate nell’atto di costituzione in giudizio, ha sollevato eccezione di inammissibilità. La Regione Toscana, difatti, sostiene che il ricorso muove censure esclusivamente nei riguardi del comma 2 della disposizione impugnata, con la conseguente inammissibilità dell’impugnativa nei riguardi degli altri commi della medesima.

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 della legge della Regione Toscana 26 luglio 2002, n. 32 (Testo unico della normativa della Regione Toscana in materia di educazione, istruzione, orientamento, formazione professionale e lavoro), come sostituito dall’art. 3 della legge della Regione Toscana 5 novembre 2009, n. 63 [Modifiche alla legge regionale 26 luglio 2002, n. 32 (Testo unico della normativa della Regione Toscana in materia di educazione, istruzione, orientamento, formazione professionale e lavoro) in materia di obbligo di istruzione e di servizi per l’infanzia], per contrasto con gli articoli 117, commi secondo, lettera n), e terzo, e 118 della Costituzione.

Ad avviso del ricorrente, la disposizione impugnata, al fine di assolvere all’obbligo di istruzione, avrebbe introdotto, in modo unilaterale e senza stipulare apposita intesa con lo Stato, un percorso di formazione professionale diverso rispetto a quello individuato dalla disciplina statale, violando le norme generali sull’istruzione, i principi fondamentali della materia e il principio di leale collaborazione.

2. – Va esaminata, preliminarmente, l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla Regione Toscana relativamente ai commi 1, 3, 4, 5 e 6 dell’art. 13 cit. perché il ricorso avrebbe mosso censure esclusivamente nei riguardi del comma 2.

L’eccezione va accolta relativamente ai commi 1, 4, 5 e 6. Questi, in effetti, non risultano investiti dalle censure sollevate dal ricorrente, che riguardano, in via diretta, il comma 2 e, in via indiretta, il comma 3, che è strettamente connesso al precedente e non ha contenuto autonomo.

Va pertanto dichiarata inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, commi 1, 4, 5 e 6, della legge della Regione Toscana n. 32 del 2002, come sostituito dall’art. 3 della legge della Regione Toscana n. 63 del 2009.

3. – Nel merito, la questione avente ad oggetto i rimanenti commi è fondata.

E’ opportuno, innanzitutto, ricostruire la disciplina relativa all’obbligo di istruzione e ai suoi rapporti con l’istruzione e formazione professionale.

3.1. – La legge 28 marzo 2003, n. 53 (Delega al Governo per la definizione delle norme generali sull’istruzione e dei livelli essenziali delle prestazioni in materia di istruzione e formazione professionale) ha introdotto un sistema di istruzione e formazione articolato «nella scuola dell’infanzia, in un primo ciclo che comprende la scuola primaria e la scuola secondaria di primo grado, e in un secondo ciclo che comprende il sistema dei licei ed il sistema dell’istruzione e della formazione professionale» (art. 2, comma 1, lettera d).

I due sistemi che compongono il secondo ciclo di istruzione (quello liceale e quello della formazione professionale) sono distinti, ma funzionalmente integrati, dal momento che: a) entrambi concorrono all’adempimento dell’obbligo di istruzione; b) è possibile transitare dall’uno all’altro; c) da ambedue, con diverse modalità (fissate con legge statale), è consentito l’accesso all’esame di Stato.

3.2. – L’art. 34, secondo comma, Cost. ha previsto un obbligo di istruzione di almeno otto anni, passati prima a nove (art. 1, comma 3, della legge 10 febbraio 2000, n. 30, Legge quadro in materia di riordino dei cicli di istruzione), poi a dodici (art. 2, comma 1, lettera c), della legge n. 53 del 2003) e, infine, a dieci (art. 1, comma 622, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato, legge finanziaria 2007).

In base all’art. 1, comma 5, del decreto legislativo 17 ottobre 2005, n. 226 (Norme generali e livelli essenziali delle prestazioni relativi al secondo ciclo del sistema educativo di istruzione e formazione, a norma dell’articolo 2 della L. 28 marzo 2003, n. 53), l’obbligo di istruzione può essere assolto, «con pari dignità», sia nel sistema di istruzione, sia in quello di istruzione e formazione professionale, sulla base di livelli essenziali di prestazioni definiti in sede nazionale, previ accordi con le Regioni. L’obbligo di istruzione è finalizzato a consentire il conseguimento di un titolo di studio di scuola secondaria superiore o di una qualifica professionale di durata almeno triennale entro il diciottesimo anno di età (art. 1, comma 622, della legge n. 296 del 2006).

3.3 – La disciplina statale ha previsto un’attuazione graduale del nuovo ciclo secondario, l’avvio contemporaneo delle due parti che lo compongono e la collaborazione tra Stato e Regioni per determinare i modi di assolvimento dell’obbligo di istruzione nei «percorsi» di formazione professionale. In tal modo viene assicurata – conformemente alle disposizioni degli artt. 34 e 117, secondo comma, lettera n), Cost. – l’unità del «sistema di istruzione e formazione», pur nella diversità dei fini dei «percorsi» interni e degli enti competenti a disciplinarli (Stato e Regioni).

Con riferimento all’attuazione di tale obbligo, l’art. 1, comma 624, della legge n. 296 del 2006 ha stabilito che, «fino alla messa a regime di quanto previsto dal comma 622, proseguono i percorsi sperimentali di istruzione e formazione professionale di cui all’art. 28 del decreto legislativo 17 ottobre 2005, n. 226. (…) Le strutture che realizzano tali percorsi sono accreditate dalle regioni sulla base dei criteri generali definiti con decreto adottato dal Ministro della pubblica istruzione di concerto con il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, previa intesa con la Conferenza unificata».

L’art. 27 del d.lgs. n. 226 del 2005 ha previsto, al comma 2, che il primo anno di tali percorsi «è avviato sulla base della disciplina specifica definita da ciascuna Regione nel rispetto dei livelli essenziali di cui al Capo III, previa definizione con accordi in Conferenza Stato-Regioni» e, al comma 4, che «le prime classi dei percorsi liceali e il primo anno di quelli di istruzione e formazione professionale sono avviati contestualmente a decorrere dall’anno scolastico e formativo 2010-2011, previa definizione di tutti gli adempimenti normativi previsti». Successivamente alla presentazione del ricorso in epigrafe, quest’ultimo comma è stato abrogato dall’art. 15 del regolamento di delegificazione approvato con decreto del Presidente della Repubblica 15 marzo 2010, n. 89 (Regolamento recante revisione dell’assetto ordinamentale, organizzativo e didattico dei licei a norma dell’articolo 64, comma 4, del decreto-l egge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133).

3.4. – Le disposizioni censurate violano le norme generali sull’istruzione.

L’art. 13, commi 2 e 3, ha introdotto un «percorso» formativo diverso rispetto a quelli contemplati dalla disciplina statale per assolvere l’obbligo scolastico. Esso ha, così, rotto l’unità del «sistema di istruzione e formazione», dando luogo a una soluzione ibrida che costituisce un tertium genus nei confronti dei «percorsi» (sia ordinari che sperimentali) individuati dalla disciplina statale.

Tale disciplina rientra tra le norme generali sull’istruzione che debbono essere dettate in via esclusiva dallo Stato (art. 117, secondo comma, lettera n, Cost.). Lo stesso legislatore statale ha definito “generali” le norme sul diritto-dovere di istruzione e formazione, contenute nel decreto legislativo 15 aprile 2005, n. 76 (Definizione delle norme generali sul diritto-dovere all’istruzione e alla formazione, a norma dell’articolo 2, comma 1, lettera c), della legge 28 marzo 2003, n. 53). Inoltre, l’obbligo di istruzione appartiene a quella categoria di «disposizioni statali che definiscono la struttura portante del sistema nazionale di istruzione e che richiedono di essere applicate in modo necessariamente unitario e uniforme in tutto il territorio nazionale, assicurando, mediante una offerta formativa omogenea, la sostanziale parità di trattamento tra gli utenti che fruiscono del servizio di istruzione» (sentenza n . 200 del 2009).

3.5. – Le disposizioni impugnate violano, altresì, il principio di leale collaborazione.

Il nuovo percorso formativo è stato introdotto dalla Regione Toscana unilateralmente, prima della data all’epoca fissata dalla legge statale e prima che fossero raggiunti gli accordi in Conferenza Stato-Regioni espressamente previsti dalla legge; in particolare, quello del 29 aprile 2010, con il quale, facendo riferimento a precedenti accordi (19 giugno 2003, 15 gennaio 2004, 5 ottobre 2006, 5 febbraio 2009) e intese (20 marzo 2008), sono stati definiti, tra l’altro, «le competenze di base che tutti gli studenti devono acquisire nei percorsi di istruzione e formazione professionale» e «il repertorio delle figure professionali di riferimento a livello nazionale».

La Regione, quindi, ha provveduto non soltanto in anticipo sui tempi previsti, ma anche senza poter tener conto della determinazione concertata del repertorio delle figure professionali e delle competenze che gli allievi debbono acquisire.

Deve essere, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale – per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera n), Cost. e del principio di leale collaborazione, nei termini sopra indicati – dell’art. 13, commi 2 e 3, della legge della Regione Toscana n. 32 del 2002, come sostituito dall’art. 3 della legge della Regione Toscana n. 63 del 2009.

Le altre censure restano assorbite.

per questi motivi

La CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, commi 2 e 3, della legge della Regione Toscana 26 luglio 2002, n. 32 (Testo unico della normativa della Regione Toscana in materia di educazione, istruzione, orientamento, formazione professionale e lavoro), come sostituito dall’art. 3 della legge della Regione Toscana 5 novembre 2009, n. 63 [Modifiche alla legge regionale 26 luglio 2002, n. 32 (Testo unico della normativa della Regione Toscana in materia di educazione, istruzione, orientamento, formazione professionale e lavoro), in materia di obbligo di istruzione e di servizi per l’infanzia];

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 13, commi 1, 4, 5 e 6, della legge della Regione Toscana n. 32 del 2002, come sostituito dall’art. 3 della legge della Regione Toscana n. 63 del 2009, promossa, in riferimento agli articoli 117, secondo comma, lettera n), e terzo, e 118 della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 novembre 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Sabino CASSESE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 5 novembre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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Pronuncia successiva

SENTENZA N. 310

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, del decreto legislativo del 9 aprile 2008, n. 81 (Attuazione dell’art. 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Liguria nel procedimento vertente tra la Pizzeria P., ditta individuale di C. D., e il Ministero del lavoro e della previdenza sociale con ordinanza del 13 maggio 2009, iscritta al n. 204 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 34, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti l’atto di costituzione della Pizzeria P., ditta individuale di C. D., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 6 ottobre 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;

udito l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. — Il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria (d’ora in avanti, T.A.R.), con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli articoli 97, primo comma, 24 e 113 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 14, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (Attuazione dell’art. 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), «nella parte in cui prevede che “ai provvedimenti del presente articolo non si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241” e, segnatamente, nella parte in cui esclude l’applicazione ai provvedimenti de quibus dell’art. 3 comma 1 della legge 7 agosto 1990, n. 241».

2. — Il rimettente riferisce che, con ricorso notificato il 27 maggio 2008, C. D., titolare di una ditta individuale per la produzione e il recapito di pizze da asporto, ha impugnato un provvedimento con il quale il Servizio ispezione del lavoro della Direzione provinciale del lavoro di Genova, in seguito a una visita ispettiva presso i locali dell’impresa, aveva disposto, ai sensi dell’art. 14, comma 1, del citato d.lgs., la sospensione dell’attività imprenditoriale, avendo accertato l’impiego di due fattorini addetti al recapito delle pizze da asporto (pari al 66 per cento del totale dei lavoratori presenti sul posto di lavoro), non risultanti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria.

Il giudice a quo, dopo aver riassunto i motivi del ricorso (violazione degli artt. 3 e 24 Cost., in relazione all’art. 3 della legge 7 agosto 1990, n. 241 – recante «Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi» – e all’art. 14 d.lgs. n. 81 del 2008 e connesso eccesso di potere per omessa motivazione; eccesso di potere per omessa motivazione, per contraddittorietà e per manifesta ingiustizia), prosegue osservando che, come esposto dal titolare della ditta, sarebbero stati esibiti agli ispettori del lavoro copie dei contratti di collaborazione autonoma e occasionale conclusi con i due fattorini (circostanza risultante dal verbale di accesso ispettivo). Ad onta di ciò il provvedimento di sospensione, avente conseguenze gravissime sulla vita di una piccola impresa come quella ricorrente, sarebbe stato adottato in totale assenza di motivazione, benché questa fosse necessaria avuto riguardo al carattere discrezionale del provvedimento ed alla volontà manifestata dalle parti in ordine all’inesistenza del vincolo di subordinazione.

Il T.A.R. precisa di avere accolto l’istanza diretta ad ottenere la sospensione dell’esecuzione del provvedimento impugnato e di aver poi trattenuto la causa per la decisione. Argomenta sulla rilevanza della questione di legittimità costituzionale, sottolineando che l’obbligo generale di motivazione degli atti amministrativi fu introdotto nel vigente ordinamento dall’art. 3, comma 1, della legge n. 241 del 1990, sicché, mentre prima di detta legge il difetto di motivazione integrava una figura sintomatica di eccesso di potere, oggi configura il vizio di violazione di legge.

La disposizione censurata, statuendo che «ai provvedimenti del presente articolo non si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241», verrebbe a sottrarre i provvedimenti di sospensione dell’attività imprenditoriale all’obbligo generale di motivazione. Pertanto essa, dovendo trovare applicazione nella fattispecie, impedirebbe al tribunale di conoscere della relativa censura. D’altro canto, il dedotto difetto di motivazione non potrebbe neppure essere valutato sotto il profilo dell’eccesso di potere, perché la norma censurata escluderebbe in modo espresso il relativo obbligo, la cui mancanza, dunque, non potrebbe costituire sintomo del detto vizio.

Inoltre, ad avviso del Collegio, la questione non sarebbe manifestamente infondata. Infatti, l’obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi – di cui all’art. 3, comma 1, della legge n. 241 del 1990 – costituirebbe un principio generale, attuativo sia dei canoni d’imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione, ai sensi dell’art. 97 Cost., sia di altri interessi costituzionalmente protetti, come il diritto di difesa contro gli atti della stessa pubblica amministrazione, ai sensi degli artt. 24 e 113 Cost. Di più, il suddetto obbligo sarebbe principio del patrimonio costituzionale comune dei Paesi europei, desumibile dall’art. 253 del Trattato sull’Unione europea (oggi art. 296, comma 2, del Trattato di Lisbona sul funzionamento dell’Unione europea, ratificato dall’Italia con legge 2 agosto 2008, n.130, ed entrato in vigore il 1° dicembre 2009), che lo estende addirittu ra agli atti normativi.

I principi d’imparzialità e di buon andamento, di cui all’art. 97 Cost., esigerebbero dunque che, quando l’interesse pubblico si fronteggia con un interesse privato, l’amministrazione debba dare conto, attraverso la motivazione, di aver ponderato gli interessi in conflitto. In altri termini, in caso di provvedimenti discrezionali, «la motivazione costituisce lo strumento principe a mezzo del quale effettuare il controllo di legittimità dell’atto, consentendo al giudice il sindacato sull’iter logico seguito dall’autorità amministrativa e sul ricorrere dei presupposti del potere in concreto esercitato».

In questo quadro, l’esclusione degli obblighi di motivazione per i provvedimenti di sospensione dell’attività imprenditoriale si porrebbe anche in contrasto con gli artt. 24 e 113 Cost., in quanto limiterebbe la tutela giurisdizionale contro gli atti della pubblica amministrazione.

3. — La parte privata si è costituita nel giudizio di legittimità costituzionale, insistendo per la declaratoria di illegittimità della norma censurata.

Essa, nel condividere le argomentazioni del giudice a quo, sottolinea come la motivazione sia canone fondamentale del diritto non soltanto italiano ma anche europeo, consentendo la trasparenza dell’azione amministrativa, la verifica sulla legittimità del provvedimento e l’esercizio di una concreta tutela giurisdizionale.

L’eliminazione del relativo obbligo, dunque, renderebbe non controllabile la detta azione, legittimando l’arbitrio. Al riguardo, è richiamata l’opinione della dottrina che, ben prima della legge n. 241 del 1990, avrebbe individuato negli artt. 24, 97 e 113 Cost. il fondamento di tale obbligo.

La parte privata ritiene che ai profili sollevati dal T.A.R. andrebbe aggiunta la violazione dell’art. 3 Cost. sotto l’aspetto dell’ingiustificata disparità di trattamento tra tipologie di sanzione. Infatti, l’art. 14 del d.lgs. n. 81 del 2008 costituirebbe un unicum nel vigente ordinamento, nel quale tutte le fattispecie sanzionatorie dovrebbero essere motivate.

Inoltre, andrebbero considerate le gravi conseguenze del provvedimento, caratterizzato da ampi spazi di discrezionalità, tali da impedire ogni difesa, come emergerebbe anche dalle condizioni richieste per ottenerne la revoca. Infine la norma, così come formulata, sarebbe diretta a colpire in primis gli esercizi molto piccoli, in quanto le imprese di medie o grandi dimensioni ben difficilmente potrebbero subire contestazioni tali da riguardare il 20 per cento dell’organico.

4. — Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata.

La difesa dello Stato rileva che la normativa censurata, al fine di contrastare il lavoro irregolare e di assicurare il rispetto delle regole di prevenzione nei luoghi di lavoro, disciplina il procedimento per l’adozione della misura cautelare che dispone la sospensione dell’attività imprenditoriale, da porre in essere in presenza di determinati presupposti e di condizioni di effettivo rischio e pericolo, certificati nel verbale redatto dagli ispettori del lavoro, fatta salva l’applicazione delle sanzioni penali e amministrative vigenti.

La procedura sarebbe diretta al rispetto delle esigenze di celerità e di non aggravamento del procedimento, con prevalenza dell’interesse pubblico primario tutelato dall’art. 97 Cost., avuto riguardo alla particolare finalità della disposizione, per la quale si sarebbe reso necessario escludere l’applicabilità della legge n. 241 del 1990 allo scopo di evitare che il provvedimento di sospensione sia adottato soltanto all’esito del procedimento sanzionatorio.

Ad avviso dell’interveniente, peraltro, un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2008, imporrebbe di ritenere che la norma, nella parte in cui esclude l’applicazione della legge n. 241 del 1990, faccia salvo l’obbligo di motivazione del provvedimento di sospensione, perché questo è imposto direttamente dalle norme costituzionali, a garanzia del diritto del privato di agire in giudizio a tutela delle situazioni giuridiche ritenute lese da provvedimenti amministrativi.

Il detto obbligo, infatti, discenderebbe dagli artt. 24, 97 e 113 Cost., mentre la mancanza di motivazione avrebbe configurato una figura sintomatica di eccesso di potere prima ancora che fosse introdotto l’art. 3 della citata legge.

Sotto tale aspetto, la disposizione censurata non violerebbe i principi costituzionali invocati dal rimettente, in quanto «il richiamo ai presupposti di legge accertati nel verbale ispettivo costituisce un momento del procedimento amministrativo su cui si fonda, sotto il profilo sostanziale, la legittimità del provvedimento di sospensione dell’attività imprenditoriale».

Considerato in diritto

1. — Il Tribunale amministrativo regionale per la Liguria (d’ora in avanti, T.A.R.), con l’ordinanza indicata in epigrafe, dubita della legittimità costituzionale – in riferimento agli articoli 97, primo comma, 24 e 113 della Costituzione – dell’art. 14, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (Attuazione dell’art. 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), nella parte in cui prevede che «ai provvedimenti del presente articolo non si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241» e, segnatamente, nella parte in cui esclude l’applicazione ai provvedimenti de quibus dell’art. 3, comma 1, della legge ora citata (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), concernente l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi.

2. — Il rimettente è chiamato a pronunciare in un giudizio amministrativo promosso dal titolare di una ditta individuale, avente ad oggetto la produzione e la vendita di pizze da asporto, nei confronti del Ministero del lavoro e della previdenza sociale per l’annullamento di un provvedimento, adottato dalla Direzione provinciale del lavoro di Genova. Con esso è stata disposta la sospensione dell’attività imprenditoriale, essendo risultato l’impiego di due fattorini addetti al recapito delle pizze (pari al 66 per cento del totale dei lavoratori presenti sul posto di lavoro), non emergenti dalle scritture o da altra documentazione obbligatoria. Il giudice a quo ritiene che la norma censurata, in forza della quale il provvedimento di sospensione è stato emesso, sia in contrasto con i parametri costituzionali dianzi indicati, perché l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amministrativi, di cui all’a rt. 3, comma 1, della legge n. 241 del 1990, costituisce un principio generale, che attua i canoni costituzionali di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione, ai sensi dell’art. 97 Cost., nonché la tutela del diritto di difesa contro gli atti della pubblica amministrazione, ai sensi degli artt. 24 e 113 Cost.

3. — In via preliminare, si deve rilevare che è impugnato l’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2008, nel testo originario (in Gazzetta Ufficiale del 30 aprile 2008, entrato in vigore il 15 maggio 2008). Detta disposizione è stata dapprima modificata dall’art. 41, comma 11, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, e poi sostituita dall’art. 11, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 3 agosto 2009, n. 106 (Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro). Peraltro, con l’ordinanza di rimessione la norma è censurata nella parte in cui dispone che «Ai provvedimenti del presente articolo non si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241» e, segnatamente, «nella parte in cui esclude l’applicazione ai provvedimenti de quibus dell’art. 3, comma 1, della legge 7 agosto 1990, n. 241, per contrasto con gli artt. 97, comma 1, 24 e 113 Cost.». In tale dettato la disposizione non ha subito modifiche nelle tre versioni suddette. Pertanto, avuto riguardo alla persistenza del medesimo contenuto precettivo recato in parte qua dalle menzionate disposizioni, la questione deve ritenersi trasferita sulla nuova norma, sostitutiva di quella originaria e identica a questa, addirittura nella stessa formulazione letterale (nei giudizi in via incidentale: sentenze n. 270 e n. 84 del 1996; nei giudizi in via principale: sentenze n. 40 del 2010 e n. 237 del 2009).

4. — Ancora in via preliminare, si deve osservare che, per giurisprudenza costante di questa Corte, l’oggetto del giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale è limitato alle disposizioni e ai parametri indicati nelle ordinanze di rimessione, non potendo essere considerati, oltre i limiti in queste fissati, ulteriori questioni o profili dedotti dalle parti, eccepiti ma non fatti propri dal giudice a quo oppure diretti ad ampliare o modificare il contenuto delle stesse ordinanze. Ne deriva che sono inammissibili, e non possono formare oggetto di esame in questa sede, le deduzioni della parte privata dirette ad estendere il thema decidendum, non soltanto attraverso l’invocazione di ulteriori parametri costituzionali, ma anche con la denunzia di altre disposizioni rispetto a quella sospettata d’illegittimità costituzionale dal rimettente (ex plurimis: sentenze n. 50 del 2010, n. 311 e n. 236 del 2009).

5. — L’Avvocatura dello Stato ha dedotto l’inammissibilità della questione, ma l’eccezione (peraltro priva di un adeguato apparato argomentativo) non è fondata.

Infatti il T.A.R. ha motivato, sia pure in termini concisi, sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza, ed ha aggiunto che il dettato normativo conduce ad escludere in modo espresso l’obbligo di motivazione per il provvedimento impugnato nel giudizio a quo, così rendendo palese, in forma implicita ma chiara, di non poter ricercare un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata. Si tratta di valutazioni non implausibili, che consentono di dare ingresso alla questione di legittimità costituzionale.

6. — Nel merito, essa è fondata.

6.1. — Si deve premettere che l’art. 3, comma 1, della legge n. 241 del 1990 (e successive modificazioni) stabilisce che «ogni provvedimento amministrativo, compresi quelli concernenti l’organizzazione amministrativa, lo svolgimento dei pubblici concorsi ed il personale, deve essere motivato, salvo che nelle ipotesi previste dal comma 2. La motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria». Il comma 2, poi, esclude la necessità della motivazione per gli atti normativi e per quelli a contenuto generale.

La norma sancisce ed estende il principio, di origine giurisprudenziale, che in epoca anteriore all’entrata in vigore della legge n. 241 del 1990 aveva già affermato la necessità della motivazione, con particolare riguardo al contenuto degli atti amministrativi discrezionali, nonché al loro grado di lesività rispetto alle situazioni giuridiche dei privati, individuando nella insufficienza o mancanza della motivazione stessa una figura sintomatica di eccesso di potere.

L’obbligo di motivare i provvedimenti amministrativi è diretto a realizzare la conoscibilità, e quindi la trasparenza, dell’azione amministrativa. Esso è radicato negli artt. 97 e 113 Cost., in quanto, da un lato, costituisce corollario dei principi di buon andamento e d’imparzialità dell’amministrazione e, dall’altro, consente al destinatario del provvedimento, che ritenga lesa una propria situazione giuridica, di far valere la relativa tutela giurisdizionale.

6.2. — In questo quadro, la disposizione censurata non è conforme ai parametri costituzionali sopra indicati.

Infatti essa, escludendo in modo espresso l’applicabilità dell’intera legge n. 241 del 1990 ai provvedimenti di sospensione dell’attività imprenditoriale, previsti dall’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2008, nel testo sostituito dall’art. 11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 106 del 2009, rende non applicabile anche a tali provvedimenti l’obbligo di motivazione di cui all’art. 3, comma 1, di detta legge, consentendo così all’organo o ufficio procedente di non indicare «i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria».

Restano, dunque, elusi i principi di pubblicità e di trasparenza dell’azione amministrativa, pure affermati dall’art. 1, comma 1, della legge n. 241 del 1990, ai quali va riconosciuto il valore di principi generali, diretti ad attuare sia i canoni costituzionali di imparzialità e buon andamento dell’amministrazione (art. 97, primo comma, Cost.), sia la tutela di altri interessi costituzionalmente protetti, come il diritto di difesa nei confronti della stesse amministrazione (artt. 24 e 113 Cost.; sul principio di pubblicità, sentenza n. 104 del 2006, punto 3.2 del Considerato in diritto). E resta altresì vanificata l’esigenza di conoscibilità dell’azione amministrativa, anch’essa intrinseca ai principi di buon andamento e d’imparzialità, esigenza che si realizza proprio attraverso la motivazione, in quanto strumento volto ad esternare le ragioni e il procedimento logico seguiti dall’ ;autorità amministrativa. Il tutto in presenza di provvedimenti non soltanto a carattere discrezionale, ma anche dotati di indubbia lesività per le situazioni giuridiche del soggetto che ne è destinatario.

Né può condividersi l’argomento della difesa dello Stato, secondo cui la previsione normativa sarebbe diretta «al rispetto delle esigenze di celerità e di non aggravamento del procedimento, con prevalenza dell’interesse pubblico primario tutelato dall’art. 97 Cost. in considerazione della particolare finalità della disposizione, per la quale l’esclusione dell’applicabilità della legge n. 241 del 1990 si è resa necessaria per evitare che il provvedimento di sospensione venga adottato solo all’esito del procedimento sanzionatorio».

Invero, la giusta e doverosa finalità di tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori, nonché di contrastare il fenomeno del lavoro sommerso e irregolare, non è in alcun modo compromessa dall’esigenza che l’amministrazione procedente dia conto, con apposita motivazione, dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche che ne hanno determinato la decisione, con riferimento alle risultanze dell’istruttoria.

Pertanto, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 14, comma 1, del d.lgs. n. 81 del 2008, come sostituito dall’art. 11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 106 del 2009, nella parte in cui, stabilendo che ai provvedimenti di sospensione dell’attività imprenditoriale previsti dalla citata norma non si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241, esclude l’applicazione ai medesimi provvedimenti dell’art. 3, comma 1, della citata legge n. 241 del 1990.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 14, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 (Attuazione dell’art. 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e di sicurezza nei luoghi di lavoro), come sostituito dall’articolo 11, comma 1, lettera a) del decreto legislativo 3 agosto 2009, n. 106 (Disposizioni integrative e correttive del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro), nella parte in cui, stabilendo che ai provvedimenti di sospensione dell’attività imprenditoriale previsti dalla citata norma non si applicano le disposizioni di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), esclude l’applicazione ai medesimi provvedimenti dell’articolo 3, comma 1, della legge n. 241 del 1990.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 novembre 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 5 novembre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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Pronuncia successiva

SENTENZA N. 311

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 5, penultimo comma, della legge 9 dicembre 1985, n. 705 (Interpretazione, modificazioni ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, sul riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio nel procedimento vertente tra A. T. e l’Università degli studi di Roma “La Sapienza”, con ordinanza del 23 dicembre 2008, iscritta al n. 237 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 39, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti l’atto di costituzione di A. T. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 21 settembre 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;

uditi l’avvocato Angelo Clarizia per A. T., l’avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. — Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio (d’ora in avanti T. A. R.), con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento all’art. 3, primo e secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 5, penultimo comma, della legge 9 dicembre 1985, n. 705 (Interpretazione, modificazioni ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, sul riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica), che stabilisce: «I professori collocati in aspettativa, fermo restando quanto previsto dall’articolo 13, quarto comma, mantengono il regime di impegno per il quale hanno optato in precedenza agli effetti della determinazione del trattamento di quiescenza e delle relative incompatibilità; una nuova opzione può essere esercitata al termine del periodo di aspett ativa ed ha effetto dall’anno accademico successivo; tuttavia i professori collocati in aspettativa in regime di impegno a tempo pieno possono, allo scadere del biennio di cui al secondo comma dell’art. 11, optare per il regime di impegno a tempo definito».

2. — Il rimettente riferisce che il ricorrente nel giudizio principale, professore ordinario a tempo definito presso la facoltà di economia e commercio dell’Università degli studi di Roma “La Sapienza”, è stato collocato in aspettativa, ai sensi dell’art. 13, primo comma, n. 3, del decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382 (Riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica), dal 7 ottobre 2000 al 3 maggio 2006, perché nominato Avvocato generale della Corte di giustizia della CEE (oggi dell’Unione europea), e poi fino al 6 ottobre 2012, in quanto nominato giudice della stessa Corte di giustizia. Aggiunge che il docente ha impugnato la determinazione adottata dall’Università, con la quale gli è stato negato il richiesto passaggio dal regime d’impiego a tempo definito a quello a tempo pien o. A sostegno del provvedimento di diniego l’ente ha richiamato il disposto dell’art. 5 della legge n. 705 del 1985.

Il ricorrente, a sua volta, ha dedotto il proprio interesse all’impugnativa, adducendo i negativi risvolti patrimoniali concernenti la determinazione della base pensionabile e derivanti dalla citata disposizione, in quanto, ai sensi dell’art. 40, primo comma, del d.P.R. n. 382 del 1980, la base pensionabile è correlata al numero degli anni in cui un professore universitario ha esercitato in regime a tempo pieno. Inoltre, ha posto in rilievo che, in pendenza del periodo di aspettativa, sarà collocato fuori ruolo per il compimento del settantesimo anno di età a decorrere dall’anno accademico 2010-2011 e pertanto, ai sensi dell’art. 11 del d.P.R. n. 312 del 1980, non potrà più esercitare l’opzione a favore del tempo pieno.

Il T. A. R. prosegue osservando che, con l’unico e articolato motivo di doglianza, il docente ha prospettato l’illegittimità costituzionale del citato art. 5 della legge n. 705 del 1985, in forza del quale la determinazione di rigetto è stata adottata, per violazione dell’art. 3 Cost.

A tal fine ha sottolineato che il divieto normativo «viene a concretizzare un’ingiustificata disparità di trattamento nei confronti dei professori universitari che alla data di collocamento in aspettativa si trovavano in regime di impegno a tempo definito rispetto a quelli che si trovavano, sempre al momento del collocamento in aspettativa, in regime di tempo pieno, atteso che solo a questi ultimi il menzionato art. 5 consente, anche durante il periodo di aspettativa, alla scadenza del biennio di cui al secondo comma dell’art. 11, di optare per il regime di impegno a tempo definito. Ha evidenziato, inoltre, la palese illogicità del ripetuto divieto normativo, il quale rende irreversibile durante il periodo di aspettativa – e nel particolare caso del ricorrente in via definitiva – una determinata scelta di impegno universitario che era stata compiuta precedentemente al collocamento in aspettativa, in un momento in cui non pote vano essere valutate compiutamente le conseguenze di tale scelta».

Il rimettente ritiene che i dubbi di costituzionalità espressi dal ricorrente non siano manifestamente infondati e che, quindi, le relative questioni meritino di essere sottoposte alle valutazioni di questa Corte.

La fondatezza di tale conclusione risulterebbe avvalorata dalla circostanza che, ai sensi dell’art. 13, sesto comma, del d.P.R. n. 382 del 1980, durante il periodo di aspettativa non cessa qualsiasi rapporto di impegno con l’Università di appartenenza, considerato che, in base al testuale disposto della norma, i professori collocati in aspettativa conservano il titolo a partecipare agli organi universitari cui appartengono, con le modalità previste dalla legge, mantengono l’elettorato attivo per la formazione delle commissioni di concorso e per l’elezione delle cariche accademiche ed hanno la possibilità di svolgere cicli di conferenze e di lezioni ed attività seminariali. E’garantita loro, altresì, la possibilità di svolgere attività di ricerca, previa intesa con il consiglio di facoltà e sentito il consiglio d’istituto o di dipartimento, ove istituito, e di accedere ai fondi per la ricerca scientifica.

In tale contesto il Tribunale rimettente osserva che il denunziato divieto, «comportante una illegittima compressione della facoltà di scelta per l’odierno istante, risulta essere in contrasto, per le argomentazioni di cui sopra, con il primo ed il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione».

3. — La parte privata ha depositato, in data 4 settembre 2009, atto di costituzione, concludendo per la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 5, penultimo comma, della legge n. 705 del 1985, nei termini di cui all’ordinanza del T. A. R. del Lazio.

In prossimità dell’udienza di discussione, poi, ha depositato una memoria illustrativa, insistendo per l’illegittimità costituzionale della norma censurata, nella parte in cui non consente ai professori collocati in aspettativa, in regime di impegno a tempo definito, di optare comunque per il regime di impegno a tempo pieno, alla scadenza del biennio di cui all’art. 11 del d.P.R. n. 382 del 1980. Dopo aver riassunto il giudizio a quo, la parte sintetizza i passi salienti dell’ordinanza di rimessione, la quale ha posto in evidenza come la norma impugnata contrasti con l’art. 3 Cost. sotto un duplice profilo: per ingiustificata disparità di trattamento e per irragionevolezza.

Quanto al primo aspetto, sarebbe evidente che la disposizione dettata dall’art. 5 della legge n. 705 del 1982, consentendo ai professori, collocati in aspettativa obbligatoria in regime di tempo pieno, di optare per il regime a tempo definito, crea un ingiustificato regime di maggior favore per i professori a tempo pieno e comporta una irragionevole discriminazione per i professori a tempo definito, così ingiustamente penalizzati. Quanto al secondo profilo, la disposizione impugnata irragionevolmente consentirebbe ai professori in regime di tempo definito al momento del collocamento in aspettativa di esercitare l’opzione soltanto al termine dell’aspettativa stessa. Di fatto il professore collocato in aspettativa obbligatoria finirebbe per subire il regime nel quale si trovava al momento iniziale di essa, senza aver potuto valutare le conseguenze di tale scelta. Tali profili di illegittimità costituzionale non sarebbero superabili p er via interpretativa, onde sarebbe indispensabile una pronuncia di questa Corte che preveda, anche per i professori in regime di tempo definito al momento del collocamento in aspettativa, la possibilità di esercitare l’opzione per il regime di impegno a tempo pieno, allo scadere del biennio di cui all’art. 11 del d.P.R. n. 382 del 1980.

4. — Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha spiegato intervento nel giudizio di legittimità costituzionale con atto depositato il 20 ottobre 2009, sostenendo che la questione, per come proposta, sarebbe inammissibile o infondata.

Ad avviso della difesa dello Stato, sarebbe lecito dubitare che l’ordinanza di rimessione contenga una valutazione effettiva della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione, in quanto il T. A. R. si limiterebbe ad accogliere in modo acritico le eccezioni di illegittimità costituzionale sollevate dal ricorrente (costituenti l’unico motivo d’impugnazione del provvedimento del rettore), rinviando in forma generica, per la valutazione della loro fondatezza, alla sola circostanza che, in forza dell’art. 13 del d.P.R. n. 382 del 1980, durante il periodo di aspettativa non cesserebbe ogni tipo di rapporto tra il professore e l’Università di appartenenza.

Non sarebbe spiegato, però, perché i momenti di partecipazione del cattedratico in aspettativa all’attività istituzionale della propria Università renderebbero irragionevole e illogico rinviare alla fine del periodo di aspettativa la nuova scelta sul regime di impegno effettivo di quello stesso docente, che aveva inizialmente optato per il regime a tempo definito. Inoltre, l’ordinanza di rimessione non illustrerebbe i profili di non manifesta infondatezza con riguardo all’asserita disparità di trattamento rispetto a chi in origine aveva optato per il regime a tempo indeterminato.

Di qui l’addotta inammissibilità della questione.

Essa, comunque, sarebbe infondata nel merito, non sussistendo le lamentate violazioni dell’art. 3 Cost.

In primo luogo, i due regimi di impegno dei professori, di cui si tratta, sarebbero molto diversi, derivanti da una libera scelta iniziale del docente e tali da giustificare un trattamento differenziato. Invero, alla forma d’impiego a tempo definito sarebbero collegati caratteri di eccezionalità e peculiarità rispetto a quella a tempo pieno, in guisa da determinare una serie di limitazioni e incompatibilità differenti rispetto a quelle previste per l’altra opzione, sicché le due categorie non sarebbero sovrapponibili.

Richiamato il disposto dell’art. 5, penultimo comma, della legge n. 785 del 1985, la difesa dello Stato osserva che la detta norma, dopo aver previsto una disciplina generale applicabile a tutti i professori ordinari collocati in aspettativa (primi due periodi della norma medesima), prevede un’ipotesi eccezionale per il caso in cui il docente in aspettativa sia a tempo pieno. A quest’ultimo è concesso di optare per il tempo definito allo scadere del biennio “minimo”, senza dover attendere la scadenza dell’aspettativa (terzo periodo).

La ratio di tale disposizione derogatoria, ad avviso dell’interveniente, sarebbe quella di realizzare, da un lato, l’interesse del docente a tempo pieno ad ottenere la modifica del regime di impegno e, dall’altro, l’interesse pubblico ad incentivare scelte dei docenti che assicurino risparmi di spesa, considerato che, ai sensi dell’art. 40, primo comma, del d.P.R. n. 382 del 1980, la base pensionabile è commisurata al numero di anni prestati dal professore in regime di tempo pieno.

La differenza di posizione del docente, collocato in aspettativa in regime di tempo definito, sarebbe palese. Per tale ipotesi il legislatore avrebbe ragionevolmente ritenuto, anche nell’ottica del contenimento della spesa pubblica, di non consentire al docente a tempo definito di optare per il tempo pieno, perché durante il periodo di aspettativa la sua prestazione professionale nei confronti dell’Università di appartenenza non potrebbe certo avere un incremento, ma anzi dovrebbe essere contenuta nei limiti previsti dall’art. 13, penultimo comma, del d.P.R. n. 382 del 1980. In sostanza, nessun interesse pubblico degno di tutela sarebbe ravvisabile nella opzione del docente che volesse, in costanza di aspettativa obbligatoria, modificare il proprio regime di impegno da tempo definito a tempo pieno.

In prossimità dell’udienza di discussione l’Avvocatura dello Stato ha depositato memoria in cui ribadisce e sviluppa gli argomenti addotti nell’atto di intervento.

Considerato in diritto

1. — Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio (d’ora in avanti, T. A. R.) dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 5, penultimo comma, della legge 9 dicembre 1985, n. 705 (Interpretazione, modificazioni ed integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, sul riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica), in riferimento all’art. 3, primo e secondo comma, della Costituzione. La norma de qua stabilisce che «I professori collocati in aspettativa, fermo restando quanto previsto dall’art. 13, quarto comma, mantengono il regime di impegno per il quale hanno optato in precedenza agli effetti della determinazione del trattamento di quiescenza e delle relative incompatibilità; una nuova opzione può essere esercitata al termine del periodo di aspettativa ed ha effetto dall’anno accademico successivo; tuttavia i professori collocati in aspettativa in regime di impegno a tempo pieno possono, allo scadere del biennio di cui al secondo comma dell’articolo 11, optare per il regime di impegno a tempo definito».

Il giudice a quo, nel condividere le censure mosse dal ricorrente A. T. (professore universitario ordinario a tempo definito, collocato in aspettativa dal 7 ottobre 2000 fino al 6 ottobre 2012 per le ragioni di cui in narrativa, che si è visto respingere dall’Università la domanda diretta ad ottenere il passaggio al regime a tempo pieno, in base a quanto prescrive la disposizione censurata), ritiene che la normativa in questione realizzi un’ingiustificata disparità di trattamento nei confronti dei professori universitari che, alla data del collocamento in aspettativa, si trovavano in regime a tempo definito rispetto a quelli che erano in regime a tempo pieno, in quanto soltanto a questi ultimi il menzionato art. 5 consentirebbe di optare per il regime d’impegno a tempo definito. Inoltre, il divieto normativo imposto ai docenti a tempo definito sarebbe palesemente illogico, perché renderebbe irreversibile durante il period o di aspettativa (e, nel particolare caso del ricorrente, in via definitiva) una scelta d’impegno universitario compiuta prima del collocamento in aspettativa, in un momento in cui le conseguenze di tale scelta non potevano essere valutate compiutamente.

I dubbi sulla legittimità costituzionale della norma sarebbero avvalorati dal rilievo che, durante il periodo di aspettativa, non cessa qualsiasi rapporto di impegno tra il docente e l’Università di appartenenza, come risulta dall’art. 13, sesto comma, del d.P.R. n. 382 del 1980.

Pertanto, il contestato divieto, «comportante un’illegittima compressione della facoltà di scelta per l’odierno istante, risulta essere in contrasto, per le argomentazioni di cui sopra, con il primo ed il secondo comma dell’art. 3 della Costituzione».

2. — La difesa dello Stato deduce in via preliminare che la questione sarebbe inammissibile, perché il rimettente si limiterebbe «ad accogliere acriticamente le eccezioni di incostituzionalità sollevate dalla difesa del ricorrente (costituenti l’unico motivo di impugnazione del provvedimento rettorale), rinviando genericamente, per la valutazione della loro fondatezza, alla sola circostanza che, sulla base dell’art. 13 del DPR 382/80, durante il periodo di aspettativa non cesserebbe ogni tipo di rapporto tra il professore e l’Università di appartenenza». Non sarebbe spiegato, però, perché questi momenti di partecipazione del docente all’attività istituzionale della propria Università renderebbero irragionevole ed illogico rinviare alla fine del periodo di aspettativa la nuova scelta sul regime di impegno effettivo di quel medesimo docente, che aveva inizialmente optato per il regime a tempo defi nito. Né sarebbero chiariti i profili di non manifesta infondatezza circa l’asserita disparità di trattamento rispetto al professore che inizialmente aveva optato per il regime a tempo pieno.

L’eccezione non è fondata.

L’ordinanza di rimessione, sia pure ad un livello minimo di sufficienza, dà conto dei motivi che hanno indotto il T. A. R. a sollevare la questione di legittimità costituzionale. Infatti, essa riporta in sintesi gli argomenti addotti dal ricorrente nel giudizio principale a sostegno della denunziata disparità di trattamento, argomenti individuati nel rilievo che soltanto ai docenti in regime di tempo pieno al momento del collocamento in aspettativa è consentito, anche durante tale periodo, di optare per il regime d’impegno a tempo definito, mentre analoga facoltà non è data ai professori che, essendo al momento iniziale dell’aspettativa in regime d’impegno a tempo definito, intendano passare, sempre durante l’aspettativa medesima, all’impegno a tempo pieno. A tale rilievo il rimettente presta adesione, ravvisando in detta disciplina «un’illegittima compressione della facoltà di scelt a per l’odierno istante».

Inoltre, il Tribunale amministrativo condivide il presunto carattere illogico del menzionato divieto normativo, perché questo «rende irreversibile durante il periodo di aspettativa – e nel particolare caso del ricorrente in via definitiva – una determinata scelta di impegno universitario che era stata compiuta precedentemente al collocamento in aspettativa, in un momento in cui non potevano essere valutate compiutamente le conseguenze di tale scelta».

Infine, il rimettente ravvisa un ulteriore argomento, a sostegno dei prospettati dubbi di legittimità costituzionale, nel richiamo all’art. 13, sesto comma, del d.P.R. n. 382 del 1980.

Pertanto, un apparato argomentativo nell’ordinanza di rimessione sussiste, ancorché esposto in forma molto concisa.

3. — La questione, tuttavia, non è fondata.

La norma censurata si articola in tre proposizioni. La prima riguarda tutti i professori collocati in aspettativa, per i quali è previsto il mantenimento del regime d’impegno (a tempo pieno o a tempo definito) da loro in precedenza scelto agli effetti della determinazione del trattamento economico e delle relative incompatibilità. La seconda stabilisce che una nuova opzione può essere esercitata al termine del periodo di aspettativa ed ha effetto dall’anno accademico successivo. La terza introduce un’eccezione a tale principio, dettando la regola che «i professori collocati in aspettativa in regime d’impegno a tempo pieno possono, allo scadere del biennio di cui al secondo comma dell’art. 11, optare per il regime d’impegno a tempo definito».

Pertanto, solo a quest’ultima categoria di docenti è data facoltà, in corso di aspettativa, di modificare il regime d’impegno (da tempo pieno a tempo definito), mentre non è consentita l’opzione inversa (da tempo definito a tempo pieno).

Si tratta di accertare, dunque, se la possibilità offerta dalla normativa censurata ai professori collocati in aspettativa in regime d’impegno a tempo pieno sia conforme al principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., oppure se essa realizzi un’ingiustificata disparità di trattamento nei confronti dei professori universitari che, alla data di collocamento in aspettativa, si trovavano in regime d’impegno a tempo definito.

Al riguardo, si deve osservare che i due regimi sono notevolmente diversi, come emerge dall’art. 11 del d.P.R. n. 382 del 1980 e successive modificazioni. Per cogliere le principali differenze (ignorate dall’ordinanza di rimessione) è sufficiente rilevare che il regime d’impegno a tempo definito è incompatibile con le funzioni di rettore, preside, membro elettivo del consiglio di amministrazione, direttore di dipartimento e direttore dei corsi di dottorato di ricerca, mentre è compatibile con lo svolgimento di attività professionali e di attività di consulenza anche continuativa esterne e con l’assunzione di incarichi retribuiti (escluso l’esercizio del commercio e dell’industria). Per contro, il regime a tempo pieno è incompatibile con lo svolgimento di attività professionale e di consulenza esterna e con l’assunzione di qualsiasi incarico retribuito (oltre che con l’esercizio del commercio e dell’industria), con esclusione delle perizie giudiziarie e dei particolari incarichi provenienti da amministrazioni dello Stato, enti pubblici e organismi a prevalente partecipazione statale, di cui al citato art. 11.

In sostanza, come questa Corte già pose in rilievo (sentenza n. 145 del 1985, punto 2 del Considerato in diritto), il legislatore, dapprima con la legge 21 febbraio 1980, n. 28 (Delega al Governo per il riordinamento della docenza universitaria e relativa fascia di formazione, e per la sperimentazione organizzativa e didattica), poi con la disciplina attuativa dettata dal d.P.R. n. 382 del 1980 (e successive modificazioni), ha operato una differenziazione tra i docenti di ruolo a seconda che essi intendano, sulla base di una scelta soggettiva e personale, dedicare la loro attività esclusivamente all’insegnamento universitario o, invece, svolgere anche attività professionali, cioè attività esulanti da quella didattica e scientifica, che è caratteristica fondamentale del docente universitario.

Si è in presenza, quindi, di una significativa diversità di stato giuridico che rende non omogenee le posizioni dei docenti in regime d’impegno a tempo pieno e quelle dei docenti in regime d’impegno a tempo definito e, dunque, giustifica una diversità di trattamento in presenza di situazioni specifiche.

Con riguardo alla questione in esame, l’art. 13 del d.P.R. n. 382 del 1980 ha previsto il collocamento in aspettativa obbligatoria per i professori ordinari (a tempo pieno o a tempo definito) in caso di elezione o nomina ad importanti incarichi istituzionali (nella specie, a componente delle istituzioni dell’Unione europea). La norma qui censurata, poi, disciplina nei sensi sopra indicati, per entrambe le categorie di professori collocati in aspettativa, il mantenimento del regime d’impegno per il quale hanno optato in precedenza, recependo le scelte effettuate dai docenti. Essa aggiunge, sempre per entrambe le categorie, che una nuova opzione può essere esercitata al termine del periodo di aspettativa, con effetto dall’anno accademico successivo. Introduce, tuttavia, un’eccezione per i professori collocati in aspettativa in regime di impegno a tempo pieno, ai quali è consentito, nell’arco di tempo indicato dalla norma, di optare per il regime d’impegno a tempo definito.

Tale disposizione derogatoria non soltanto non crea alcuna ingiustificata disparità di trattamento, avuto riguardo al carattere non omogeneo dello stato giuridico degli appartenenti all’una o all’altra categoria, ma non si rivela neppure irragionevole. Essa, infatti, è coerente con la posizione del docente in regime d’impegno a tempo definito che, avendo minori obblighi verso l’Università di appartenenza, ha maggiori possibilità di conciliare, almeno in parte, gli impegni connessi alla carica ricoperta (che, in linea di principio, creano comunque una situazione d’incompatibilità) con le attività in ambito universitario consentite dall’art. 13, sesto comma, del d.P.R. n. 382 del 1980, sicché ben si spiega che il legislatore abbia inteso favorire il passaggio dal regime a tempo pieno a quello a tempo definito. Lo stesso non può dirsi per il percorso inverso, perché il tempo pieno p ostula l’obbligo per il docente di dedicarsi in via principale ed assorbente ai compiti istituzionali dell’Università di appartenenza, con la conseguenza che tale regime appare incompatibile con le cariche e gli uffici previsti dall’art. 13 del d.P.R. n. 382 del 1980 in modo molto più marcato del regime a tempo definito.

Ben si spiega, dunque, che il legislatore non abbia ritenuto di prevedere, in costanza della posizione di aspettativa, la possibilità di passare da quest’ultimo regime a quello a tempo pieno.

Né vale addurre che la norma renderebbe irreversibile, durante il periodo di aspettativa, una scelta d’impegno universitario compiuta in precedenza, in un momento in cui non potevano essere valutate compiutamente le conseguenze di tale scelta. Si deve replicare che, quando il ricorrente nel giudizio principale fu collocato in aspettativa (ottobre 2000, come emerge dall’ordinanza di rimessione), il quadro normativo rilevante era già definito, sicché il docente ben poteva compiere ogni valutazione riguardo alle conseguenze derivanti dall’accettazione dell’incarico.

Sulla base delle considerazioni che precedono la questione di legittimità costituzionale, sollevata dall’ordinanza di rimessione, deve essere dichiarata non fondata.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 5, penultimo comma, della legge 9 dicembre 1985, n. 705 (Interpretazione, modificazioni e integrazioni al decreto del Presidente della Repubblica 11 luglio 1980, n. 382, sul riordinamento della docenza universitaria, relativa fascia di formazione nonché sperimentazione organizzativa e didattica), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 novembre 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 5 novembre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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pronuncia precedente

SENTENZA N. 312

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 9, commi 2 e 3, e 10, comma 2, della legge della Regione Campania 28 dicembre 2009, n. 19 (Misure urgenti per il rilancio economico, per la riqualificazione del patrimonio esistente, per la prevenzione del rischio sismico e per la semplificazione amministrativa), modificativo dell’articolo 4, commi 2 e 3, della legge della Regione Campania 7 gennaio 1983, n. 9 (Norme per l’esercizio delle funzioni regionali in materia di difesa del territorio dal rischio sismico), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 9 - 13 febbraio 2010, depositato in cancelleria il 16 febbraio 2010 ed iscritto al n. 21 del registro ricorsi 2010.

Visto l’atto di costituzione della Regione Campania nonché l’atto di intervento, fuori termine, della Confederazione Italiana della Proprietà Edilizia, Confedilizia;

udito nell’udienza pubblica del 19 ottobre 2010 il Giudice relatore Paolo Grossi;

uditi l’avvocato dello Stato Stefano Varone per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Beniamino Caravita di Toritto e Rosanna Panariello per la Regione Campania.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso notificato il 9 febbraio 2010 e depositato il successivo 16 febbraio, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato l’articolo 9, commi 2 e 3, della legge della Regione Campania 28 dicembre 2009, n. 19 (Misure urgenti per il rilancio economico, per la riqualificazione del patrimonio esistente, per la prevenzione del rischio sismico e per la semplificazione amministrativa), pubblicata sul B.U.R. del 29 dicembre 2009, n. 80, che prevede che «Ogni fabbricato oggetto di incremento volumetrico o mutamento d’uso di cui alla presente legge deve dotarsi, ai fini dell’efficacia del relativo titolo abilitativo, di un fascicolo del fabbricato che comprende gli esiti della valutazione di cui al comma 1 e il certificato di collaudo, ove previsto. Nel fascicolo sono altresì raccolte e aggiornate le informazioni di tipo progettuale, strutturale, impianti stico, geologico riguardanti la sicurezza dell’intero fabbricato» (comma 2); e dispone che «Con successivo regolamento sono stabiliti i contenuti del fascicolo del fabbricato nonché le modalità per la redazione, la custodia e l’aggiornamento del medesimo. Fino alla data di entrata in vigore del regolamento, il fascicolo si compone della valutazione [di sicurezza] di cui al comma 1 e del certificato di collaudo, ove previsto» (comma 3).

Sulla premessa di una contraddizione rispetto alle espresse finalità della legge, diretta all’incentivazione dell’edilizia privata, il ricorrente sostiene che la istituzione del fascicolo del fabbricato – nell’accollare ai privati una serie di accertamenti, nonché l’acquisizione e la conservazione di informazioni e documenti (compiti, questi ultimi, attribuiti alla pubblica amministrazione nell’esercizio della propria funzione di vigilanza) – si pone in contrasto: a) con l’articolo 3 della Costituzione, per violazione del profilo del canone di ragionevolezza, e con l’articolo 97 Cost., per lesione del principio di efficienza e buon andamento della pubblica amministrazione (come già affermato dalla sentenza n. 315 del 2003, «pronunciata con riferimento ad analoghe previsioni contenute nella legge della Regione Campania 22 ottobre 2002, n. 27»); b) con gli articoli 23, 41 e 42 Cost., trattando si di «prestazioni imposte» che, «incidendo sulla libertà di iniziativa economica e sul diritto di proprietà», «non possono che trovare la loro fonte nella disciplina statale»; c) con l’articolo 117, secondo comma, lettera l), Cost. per violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile (come ribadito da questa Corte nella sentenza n. 369 del 2008); d) in subordine, con l’articolo 117, terzo comma, Cost., giacché, nella materia concorrente governo del territorio, «l’istituzione di un fascicolo di fabbricato costituisce indubbiamente espressione di un principio fondamentale», tanto più che «un obbligo siffatto non è, in alcun modo, desumibile dalla normativa vigente, cui le regioni possano far riferimento per le proprie leggi in materia».

1.2. – Nello stesso ricorso, il Presidente del Consiglio dei ministri impugna, altresì, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., l’articolo 10, comma 2, della medesima legge regionale n. 19 del 2009, che sostituisce l’articolo 4 della legge della Regione Campania 7 gennaio 1983, n. 9 (Norme per l’esercizio delle funzioni regionali in materia di difesa del territorio dal rischio sismico), i cui novellati commi 2 e 3 prevedono, ora, che in tutte le zone sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità, l’inizio dei lavori edilizi sia subordinato al rilascio dell’autorizzazione sismica (comma 2) e che nelle zone classificate a bassa sismicità, i lavori possano iniziare dopo che il competente Settore provinciale del Genio Civile, all’esito del procedimento di verifica, abbia attestato l’avvenuto e corretto “deposito sismico”, disponendo altresì che siano effettuati co ntrolli sulla progettazione con metodi a campione, finalizzati a verificare la correttezza delle impostazioni progettuali in relazione alle norme tecniche vigenti (comma 3).

Tali disposizioni, secondo il ricorrente, si pongono in contrasto con i principi fondamentali in materia di governo del territorio e protezione civile, desumibili dal combinato disposto dell’articolo 94 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia. Testo A), e degli articoli 19 e 20 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi). Infatti, poiché il deposito del progetto deve considerarsi denuncia di inizio attività, la previsione regionale concreta una violazione delle norme del testo unico in materia edilizia, che prescrive l’autorizzazione regionale esplicita per gli interventi edilizi in zone classificate sismiche. Ed a sostegno della impossibilità della introduzione di modalità di «controllo successivo o semplificato» ove siano coi nvolti interessi primari della collettività, la difesa erariale richiama le argomentazioni svolte nella sentenza n. 182 del 2006 da questa Corte, secondo cui «l’intento unificatore della legislazione statale è palesemente orientato ad esigere una vigilanza assidua sulle costruzioni riguardo ai rischio sismico, attesa la rilevanza del bene protetto, che trascende anche l’ambito della disciplina del territorio, per attingere a valori di tutela dell’incolumità pubblica che fanno capo alla materia della protezione civile, in cui, ugualmente, compete allo Stato la determinazione dei principi fondamentali».

2. – Si è costituita la Regione Campania, chiedendo il rigetto del ricorso perché inammissibile ed infondato, in ragione dei motivi articolati poi nella memoria difensiva di udienza, nella quale la Regione ha eccepito, innanzitutto, l’assoluta genericità dell’intero ricorso, con riferimento quindi sia alla questione relativa alla normativa sul libretto del fabbricato (come, peraltro, la Corte – adita con altro ricorso del Governo proposto con identiche argomentazioni – ha già ritenuto con ordinanza n. 200 del 2010, alle cui motivazioni la difesa si riporta), sia a quella riguardante le norme sui lavori in zone sismiche.

Nel merito, la Regione deduce la manifesta infondatezza di entrambe le questioni con riferimento a tutti gli evocati profili di illegittimità costituzionale. Infatti, la difesa sottolinea come, da un lato, la disciplina del fascicolo del fabbricato posta in essere dai censurati commi 2 e 3 dell’art. 9 abbia contenuto precettivo affatto diverso rispetto a quello delle norme dichiarate incostituzionali con la richiamata sent. n. 315 del 2003; e come, dall’altro lato, la normativa concernente le condizioni per l’inizio dei lavori nelle zone sismiche sia perfettamente in linea con i principi posti dall’art. 94 del d.P.R. n. 380 del 2001 (individuati nella sent. n. 182 del 2006, citata dalla Regione). In particolare, per la Regione, il provvedimento di deposito non è assimilabile alla denuncia di inizio di attività (non configurando alcuna ipotesi di silenzio assenso), trattandosi di un provvedimento amministrativo che conseg ue ad una specifica e puntuale istruttoria sulla completezza dei documenti progettuali depositati, in assenza del quale non è possibile dare inizio ai lavori strutturali.

Alla memoria illustrativa è allegata copia autentica della delibera della Giunta della Regione Campania n. 651 del 13 settembre 2010, che ha ratificato la costituzione in giudizio dinanzi alla Corte costituzionale del Presidente della Giunta, avvenuta senza previa autorizzazione.

Considerato in diritto

1. – Nel presente giudizio in via principale il Presidente del Consiglio dei ministri propone due diverse questioni di legittimità costituzionale concernenti altrettante disposizioni della legge della Regione Campania 28 dicembre 2009, n. 19 (Misure urgenti per il rilancio economico, per la riqualificazione del patrimonio esistente, per la prevenzione del rischio sismico e per la semplificazione amministrativa).

In primo luogo, il ricorrente impugna l’articolo 9, commi 2 e 3, di tale legge. Il comma 1 prevede che «Ogni fabbricato oggetto di incremento volumetrico o mutamento d’uso di cui alla presente legge deve dotarsi, ai fini dell’efficacia del relativo titolo abilitativo, di un fascicolo del fabbricato che comprende gli esiti della valutazione di cui al comma 1 e il certificato di collaudo, ove previsto. Nel fascicolo sono altresì raccolte e aggiornate le informazioni di tipo progettuale, strutturale, impiantistico, geologico riguardanti la sicurezza dell’intero fabbricato»; il comma 2 dispone che «Con successivo regolamento sono stabiliti i contenuti del fascicolo del fabbricato nonché le modalità per la redazione, la custodia e l’aggiornamento del medesimo. Fino alla data di entrata in vigore del regolamento, il fascicolo si compone della valutazione [di sicurezza] di cui al comma 1 e del certificato di collaudo, ove previsto».

Per il ricorrente, l’istituzione del fascicolo del fabbricato si porrebbe in contrasto: a) con l’articolo 3 della Costituzione, per violazione del canone di ragionevolezza, e con l’articolo 97 Cost., per lesione del principio di efficienza e buon andamento della pubblica amministrazione; b) con gli articoli 23, 41 e 42 Cost., trattandosi di «prestazioni imposte» che, «incidendo sulla libertà di iniziativa economica e sul diritto di proprietà», «non possono che trovare la loro fonte nella disciplina statale»; c) con l’articolo 117, secondo comma, lettera l), Cost. per violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile; d) in subordine, con l’articolo 117, terzo comma, Cost. per lesione della competenza statale sui principi fondamentali in materia di governo del territorio.

1.1. – In secondo luogo, il ricorrente impugna l’articolo 10, comma 2, della medesima legge regionale n. 19 del 2009, che sostituisce l’articolo 4 della legge della Regione Campania 7 gennaio 1983, n. 9 (Norme per l’esercizio delle funzioni regionali in materia di difesa del territorio dal rischio sismico), i cui novellati commi 2 e 3 prevedono, ora, che «In tutte le zone sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità, l’inizio dei lavori edilizi è subordinato al rilascio dell’autorizzazione sismica» (comma 2) e che «Nelle zone classificate a bassa sismicità […], i lavori possono iniziare dopo che il competente Settore provinciale del Genio Civile, all’esito del procedimento di verifica, ha attestato l’avvenuto e corretto deposito sismico», disponendo altresì che «Sono effettuati controlli sulla progettazione con metodi a campione, finalizzati a verificare la correttezza delle impos tazioni progettuali in relazione alle norme tecniche vigenti» (comma 3).

La difesa erariale deduce che tali disposizioni violerebbero l’articolo 117, terzo comma, Cost., ponendosi in contrasto con i principi fondamentali in materia di governo del territorio e protezione civile – desumibili dal combinato disposto dell’articolo 94 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia. Testo A), e degli articoli 19 e 20 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) –, «poiché il deposito del progetto deve considerarsi denuncia di inizio attività».

2. – Entrambe le questioni, sotto tutti i prospettati profili, sono inammissibili.

2.1. – Come eccepito dalla Regione Campania – e come già rilevato da questa Corte nella sentenza n. 200 del 2010, relativamente ad altro precedente giudizio in via principale, riguardante analoga normativa della Regione Basilicata in tema di fascicolo del fabbricato e proposto sulla base di motivazioni identiche – anche il presente ricorso, nei termini in cui è stato formulato, risulta nel suo complesso apodittico, in quanto privo di un sufficiente sviluppo argomentativo a sostegno delle singole censure mosse alle norme impugnate (sentenza n. 45 del 2010). Il ricorrente si limita, infatti, ad affermare la lesività delle disposizioni in esame rispetto ai richiamati principi costituzionali, senza tuttavia fornire una adeguata motivazione in ordine alle specifiche ragioni che determinerebbero le dedotte violazioni di tali princípi.

In definitiva, le doglianze vengono basate esclusivamente sull’assunto (non altrimenti dimostrato) della non conformità delle previsioni oggetto di impugnazione ai parametri di volta in volta evocati: esse, dunque, non rispondono ai requisiti di chiarezza e completezza richiesti per la valida proposizione di una questione di legittimità costituzionale, a maggior ragione nei giudizi proposti in via principale (sentenze n. 119 del 2010 e n. 139 del 2006).

3. – In particolare, poi, con riferimento alle singole censure, il ricorrente innanzitutto deduce che l’art. 9, commi 2 e 3, della legge regionale n. 19 del 2009 «viola l’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo del canone di ragionevolezza, e l’art. 97 Cost., in relazione al principio di buon andamento della pubblica amministrazione, così come, peraltro, già rilevato» dalla sentenza n. 315 del 2003, «pronunciata con riferimento ad analoghe previsioni contenute nella legge della Regione Campania 22 ottobre 2002, n. 27, recante “Istituzione del registro storico-tecnico-urbanistico dei fabbricati ai fini della tutela della pubblica e privata incolumità”».

Proposta la censura in tali termini, va tuttavia rilevato che, in quel giudizio, l’esame della omologa figura del “registro del fabbricato”, come a suo tempo regolamentata dalla legge campana, non ha avuto ad oggetto la previsione della istituzione del registro in quanto tale, ma le peculiari modalità di redazione e di tenuta di questo, come allora specificamente disciplinate.

Chiarito espressamente che «nessun dubbio può sussistere riguardo alla doverosità della tutela della pubblica e privata incolumità, che rappresenta lo scopo dichiarato della legge, ed al conseguente obbligo di collaborazione che per la realizzazione di tale finalità può essere imposto ai proprietari degli edifici», ciò che nella richiamata decisione ha determinato la declaratoria di illegittimità costituzionale di alcune norme della citata legge regionale è stata la considerazione che le specifiche modalità di predisposizione e tenuta del registro fossero contrarie al generale canone di ragionevolezza, a cagione della eccessiva gravosità degli obblighi imposti ai proprietari e dei conseguenti oneri economici, nonché al principio di buon andamento della pubblica amministrazione, data la ritenuta intima contraddittorietà della imposta necessità di richiedere ad una pluralità di tecnici privat i informazioni già in possesso delle competenti amministrazioni.

Al contrario, la disposizione oggi impugnata prevede l’obbligo di dotare del fascicolo ogni fabbricato oggetto di incremento volumetrico o mutamento d’uso, limitandosi – quanto alla definizione del contenuto e delle modalità di redazione e di aggiornamento dello stesso – ad operare un rinvio alla adozione di un successivo regolamento (che, ove esorbitasse dagli specifici ámbiti di competenza regionale, sarebbe soggetto ai previsti rimedi giurisdizionali, compreso eventualmente anche il ricorso per conflitto di attribuzione innanzi a questa Corte: sentenze n. 45 del 2010 e n. 200 del 2009).

Dunque, il percorso argomentativo basato esclusivamente sulla mera asserita assimilazione delle due normative, rappresentando l’unica motivazione svolta nel ricorso a sostegno della denunciata violazione degli artt. 3 e 97 Cost., è come tale inidoneo a costituire sufficiente ed autonomo supporto argomentativo del palesato profilo di incostituzionalità.

3.1. – Quanto alla dedotta violazione degli artt. 23, 41 e 42 Cost., nel ricorso si afferma unicamente che gli obblighi di cui alla norma impugnata si atteggerebbero quali «prestazioni imposte» che, «incidendo sulla libertà di iniziativa economica e sul diritto di proprietà», «non possono che trovare la loro fonte nella disciplina statale».

Anche tale profilo è inammissibile, giacché il ricorso, da un lato, assume apoditticamente che la previsione della predisposizione del fascicolo del fabbricato costituisca «prestazione imposta» ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 23 Cost. e che la relativa riserva – in mancanza della individuazione da parte del ricorrente di una diretta correlazione della norma con uno specifico titolo di competenza attribuibile allo Stato (sentenza n. 344 del 2001) – sia esclusivamente di legge statale; dall’altro lato, richiama genericamente i princípi tutelati dagli artt. 41 e 42 Cost., senza alcuna spiegazione del perché e del come gli stessi sarebbero violati, trascurando, altresì, di considerare che essi non operano in modo assoluto, ma in coerenza ed in bilanciamento con i previsti limiti della loro utilità e funzione sociale (sentenza n. 167 del 2009).

3.2. – Altrettanto è a dirsi in ordine alla asserita (ma ancora una volta non motivata) violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile, che viene denunciata mediante un mero richiamo ad argomentazioni svolte dalla Corte nella sentenza n. 369 del 2008; argomentazioni che attengono, in termini del tutto generali, unicamente alla natura ed alla ratio del limite di cui al secondo comma, lettera l), dell’art. 117 Cost.

In particolare, la carenza di riferimento alcuno, non tanto alla specifica ed effettiva portata precettiva ed applicativa della disposizione impugnata, quanto piuttosto (e soprattutto) alla configurabilità della stessa (almeno in tesi) in termini di previsione diretta a regolare rapporti tra privati (sentenze n. 123 del 2010 e n. 295 del 2009), rende anche tale censura inammissibile.

3.3. – Quanto, infine, alla subordinata denuncia di violazione della competenza statale nella determinazione dei princípi fondamentali relativamente alla materia concorrente del «governo del territorio» (ex art. 117, terzo comma, Cost.), il ricorrente si limita ad affermare (senza altro aggiungere) che «l’istituzione del fascicolo del fabbricato costituisce indubbiamente espressione di un principio fondamentale della prefata materia», e che, dalla «normativa vigente», un siffatto obbligo non è in alcun modo desumibile.

Anche questa censura, nei termini prospettati, è generica ed apodittica, in quanto priva di un apporto argomentativo a sostegno della tesi (che si dà per dimostrata) della natura di principio fondamentale che la istituzione del fascicolo del fabbricato assumerebbe nella indicata materia concorrente; laddove, una adeguata motivazione di tale assunto sarebbe stata tanto più necessaria proprio in ragione della evidenziata assenza nella «normativa vigente» statale di previsioni relative ad un siffatto obbligo di istituzione.

4. – Analoghi profili di inammissibilità si configurano, inoltre, riguardo alla questione riferita alle previsioni dei commi 2 e 3 dell’art. 4 della legge della Regione Campania n. 9 del 1983, come modificati dall’impugnato art. 10, comma 2, della legge regionale n. 19 del 2009 in esame.

Il ricorrente si limita, infatti, ad affermare che le disposizioni de quibus «si pongono in contrasto con i principi fondamentali in materia di governo del territorio e protezione civile, desumibili dal combinato disposto degli articoli 94 del DPR n. 380/2001 e 19 e 20 della l. 241/1990»: ciò, in quanto – «poiché il deposito del progetto deve considerarsi denuncia di inizio attività» – «la previsione regionale concreta una violazione delle norme del DPR n. 380/2001 (Testo unico in materia edilizia), che prescrive l’autorizzazione regionale esplicita per gli interventi edilizi in zone classificate sismiche», non potendosi consentire «l’introduzione di modalità di “controllo successivo o semplificato” ove siano coinvolti interessi primari della collettività».

Tale essendo la formulazione dei motivi di censura (ancora una volta non altrimenti supportabili attraverso il mero rinvio alle argomentazioni di ordine generale sulle ragioni della attribuzione allo Stato della determinazione dei principi fondamentali nelle materie de quibus, svolte da questa Corte nella richiamata sentenza n. 182 del 2006), va sottolineato che il ricorrente, pur attribuendo correttamente natura di principio fondamentale in materia di governo del territorio e protezione civile all’art. 94 del d.P.R. n. 380 del 2001, tuttavia omette completamente di considerare che – nello stabilire che «Fermo restando l'obbligo del titolo abilitativo all'intervento edilizio, nelle località sismiche, ad eccezione di quelle a bassa sismicità […], non si possono iniziare lavori senza preventiva autorizzazione scritta del competente ufficio tecnico della regione» (comma 1) – il legislatore statale differenzia espressamente le co ndizioni reputate necessarie per l’inizio dei lavori, modulandole in rapporto al grado di sismicità delle zone in cui i lavori stessi verranno ad insistere. La mancata analisi del diverso ámbito di applicabilità delle regole di cui al richiamato art. 94, determina un incolmabile deficit motivazionale che non si concilia con la necessità di porre a premessa del rilievo di incostituzionalità un motivato e chiaro raffronto tra lo specifico principio fondamentale portato dalla norma interposta ed il contenuto delle disposizioni impugnate.

Inoltre, alla insufficiente analisi del principio fondamentale (tanto più necessaria, come detto, in ragione della peculiare articolazione del suo contenuto precettivo), si aggiunge il fatto che il ricorso – nonostante il non motivato assunto per il quale le norme de quibus introdurrebbero modalità di “controllo successivo o semplificato” – trascura completamente di considerare che la normativa regionale censurata prevede anch’essa (sempre in rapporto al grado di sismicità dell’area) un diverso regime di autorizzazioni (l’autorizzazione sismica ovvero il deposito sismico), al cui rilascio viene subordinato l’inizio dei lavori (si vedano, rispettivamente, i novellati commi 2 e 3 dell’art. 4 della legge regionale n. 9 del 1983, nonché gli artt. 5 e 3 del D.P.G.R. 11 febbraio 2010, n. 23, recante «Regolamento per l’espletamento delle attività di autorizzazione e di deposito dei progetti, ai fini della prevenzione del rischio sismico in Campania»).

Infine, risulta altrettanto priva di motivazione, e quindi meramente assertiva, la conclusione del ricorrente, secondo cui, «poiché il deposito del progetto deve considerarsi denuncia di inizio attività, la previsione regionale concreta una violazione delle norme del DPR n. 380/2001, che prescrive l’autorizzazione regionale esplicita per gli interventi edilizi in zone classificate sismiche».

Ne consegue l’inammissibilità anche della seconda questione, la quale (oltre che generica) risulta basata esclusivamente sulla apodittica affermazione di una (non altrimenti argomentata) asserita violazione dell’evocato principio fondamentale (la cui esatta portata neppure viene specificamente individuata) ad opera di una normativa, avente un contenuto altrettanto articolato e complesso, anch’esso non adeguatamente valutato in riferimento alle sollevate doglianze.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, commi 2 e 3, della legge della Regione Campania 28 dicembre 2009, n. 19 (Misure urgenti per il rilancio economico, per la riqualificazione del patrimonio esistente, per la prevenzione del rischio sismico e per la semplificazione amministrativa), proposta – in riferimento agli articoli 3, 23, 41, 42, 97, 117, secondo comma, lettera l), e 117, terzo comma, della Costituzione – dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe;

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 10, comma 2, della medesima legge della Regione Campania n. 19 del 2009, proposta – in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost. – dal Presidente del Consiglio dei ministri con lo stesso ricorso.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 novembre 2010.

F.to:

Ugo DE SIERVO, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 5 novembre 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA