Deposito del 08/10/2010 (dalla 287 alla
295) |
S.287/2010 del 04/10/2010 Camera di Consiglio del 22/09/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SILVESTRI Norme impugnate: Art. 5, c. 2°, lett. d), del decreto Presidente della Repubblica 14/11/2002, n. 313 Oggetto: Processo penale - Casellario giudiziale - Eliminazione delle iscrizioni - Iscrizioni relative ai provvedimenti giudiziari di condanna per contravvenzioni per le quali è stata inflitta la pena dell'ammenda - Esclusione dell'eliminazione, trascorsi dieci anni dal giorno in cui la pena è stata eseguita ovvero si è in altro modo estinta, nel caso in cui sia stato concesso alcuno dei benefici di cui agli artt. 1 63 e 175 cod. pen., in ogni caso e, comunque, nei confronti di coloro in favore dei quali sia stata concessa riabilitazione. Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale Atti decisi: ord. 108/2010 |
S.288/2010 del 04/10/2010 Camera di Consiglio del 23/06/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore NAPOLITANO Norme impugnate: Art. 5 bis, c. 5° e 9°, della legge della Regione Lombardia 03/04/2000, n. 22 Oggetto: Commercio - Norme della Regione Lombardia - Disposizioni in materia di orari degli esercizi commerciali - Previsione che gli esercizi commerciali di vendita al dettaglio in sede fissa, nel corso dell'anno solare e nel rispetto dei limiti di cui ai commi 2, 3 e 11, possono restare ape rti al pubblico, nella prima domenica dei mesi da gennaio a novembre; nell'ultima domenica dei mesi di maggio, agosto o novembre; nelle giornate domenicali e festive del mese di dicembre; in altre cinque giornate domenicali e festive scelte dai comuni in relazione alle esigenze locali - Previsione che, nel rispetto dei limiti di cui ai commi 2, 3 e 11, l'apertura al pubblico nelle giornate domenicali e festive è consentita, con riferimento all'intero anno solare, agli esercizi commerciali in sede fissa aventi superficie di vendita fino a 250 metri quadrati Dispositivo: non fondatezza - inammissibilità Atti decisi: ord. 71/2010 |
S.289/2010 del 04/10/2010 Udienza Pubblica del 06/07/2010, Presiden te AMIRANTE, Redattore NAPOLITANO Norme impugnate: Art. 1, c. 2°, della legge della Regione Abruzzo 05/04/2007, n. 6 e punto 5 dell'allegato "Piano di riordino posti letto ospedalieri" Oggetto: Sanità pubblica - Norme della Regione Abruzzo - Approvazione del Piano di riordino dei posti letto ospedalieri - Abbattimento dei posti letto della spedalità privata - Ricorso avverso delibere della Giunta Regionale recanti la riduzione dei posti letto e del budget assegnato per l'anno 2008 a casa di cura provvisoriamente accreditata per le prestazioni ospedaliere. Dispositivo: non fondatezza - inammissibilità Atti decisi: ord. 89 e 90/2009 |
S.290/2010
del 04/10/2010 Udienza Pubblica del 06/07/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore GROSSI Norme impugnate: Art. 13, c. 7°, della legge 27/03/1992, n. 257, come modificato dall'art. 1 bis del decreto legge 05/06/1993, n. 169, aggiunto dalla legge 04/08/1993, n. 271 Oggetto: Previdenza - Lavoratori affetti da malattia cagionata da esposizione all'amianto e in posizione di quiescenza al momento dell'entrata in vigore della legge censurata - Beneficio della rivalutazione contributiva - Esclusione. Dispositivo: non fondatezza Atti decisi: ord. 275/2009 |
S.291/2010 del 04/10/2010 Camera di Consiglio del 22/09/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SILVESTRI < /strong> Norme impugnate: Art. 58 quater, c. 7° bis, della legge 26/07/1975, n. 354, aggiunto dall'art. 7, c. 7°, della legge 05/12/2005, n. 251 Oggetto: Ordinamento penitenziario - Divieto di concessione di benefici - Affidamento in prova al servizio sociale nei casi previsti dall'art. 47 dell'ordinamento penitenziario - Divieto di concessione per più di una volta al condannato al quale sia stata applicata la recidiva prevista dall'art. 99, quarto comma, cod. pen. Dispositivo: inammissibilità Atti decisi: ord. 128/2010 |
O.292/2010 del 04/10/2010 Udienza Pubblica del 21/09/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore GALLO Norme impugnate: Art. 15, c. 2° bis, del decreto legislativo 31/12/1992, n. 546, aggiunto dall'art. 12 del decreto legge 08/08/1996, n. 437, convertito con modificazioni in legge 24/10/1996, n. 556 Oggetto: Contenzioso tributario - Spese del giudizio - Condanna del contribuente soccombente al pagamento delle spese processuali - Liquidazione delle spese a favore dell'ufficio del Ministero delle finanze assistito da funzionari dell'amministrazione - Applicazione della tariffa vigente per gli avvocati e procuratori, con la riduzione del venti per cento degli onorari di avvocato ivi previsti - Appello avverso il capo della sentenza concernente le spese di lite, siccome liquidate in misura ritenuta eccessiva e comunque ingiusta in rapporto alla rilevanza e alla complessità della controversia. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 294, 295 e 296/2009 |
S.293/2010 del 04/10/2010 Udienza Pubblica del 07/07/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore TESAURO Norme impugnate: Art. 43 del decreto del Presidente della Repubblica 08/06/2001, n. 327 Oggetto: Espropriazione per pubblica utilità - Utilizzazione 'sine titulo' di un bene, per scopi di interesse pubblico, in assenza di provvedimento ablatorio - Prevista acquisizione del bene da parte della pubblica amministrazione. Dispositivo: illegittimità costituzionale Atti decisi: ord. 114, 115 e 116/2009 |
S.294/2010 del 04/1 0/2010 Udienza Pubblica del 21/09/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore GROSSI Norme impugnate: Art. 4, c. 1°, della legge 27/03/2001, n. 97 Oggetto: Impiego pubblico - Sospensione cautelare dei dipendenti pubblici a seguito di condanna penale, anche non definitiva, per determinati delitti - Possibilità per la pubblica amministrazione di tener conto della sopravvenuta estinzione del reato e di subordinare l'applicazione della sospensione all'effettiva esistenza di esigenze cautelari - Mancata previsione. Dispositivo: inammissibilità Atti decisi: ord. 94/2009 |
O.295/2010 del 04/10/2010 Camera di Consiglio del 22/ 09/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore CRISCUOLO Norme impugnate: Art. 5, c. 3°, del decreto legislativo 26/05/1997, n. 153 Oggetto: Reati e pene - Riciclaggio dei capitali di provenienza illecita - Esercizio delle attività individuate dai decreti legislativi emanati ai sensi dell'art. 15, comma 1, lett. c), della legge n. 52/1996 senza essere iscritto nell'elenco degli operatori abilitati - Configurazione della fattispecie quale delitto - Previsione di pene superiori ai limiti edittali indicati nella legge delega n. 52/1996. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 123/2010 |
SENTENZA N. 287 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 2, lettera d), del d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti), promosso dal Tribunale di Gela con ordinanza dell’11 dicembre 2009, iscritta al n. 108 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell’anno 2010. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 22 settembre 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri. Ritenuto in fatto 1. – Con ordinanza dell’11 dicembre 2009, il Tribunale di Gela, in composizione monocratica ed in funzione di giudice dell’esecuzione, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 2, lettera d), del d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti), nella parte in cui non consente di eliminare dal casellario giudiziale – «in ogni caso e, comunque, nei confronti di coloro i quali abbiano ottenuto la riabilitazione» − le iscrizioni che si riferiscono ai provvedimenti giudiziari di condanna per contravvenzioni per le quali sia stata inflitta la pena dell’ammenda, trascorsi dieci anni dal giorno in cui la pena è stata eseguita ovvero si è in altro modo estin ta, qualora con detti provvedimenti sia stato concesso alcuno dei benefici previsti dagli artt. 163 e 175 del codice penale. La medesima norma è inoltre oggetto di censura, relativamente alla sua applicazione nei confronti dei soggetti riabilitati, per l’asserito contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost. 1.1. – Il rimettente è chiamato a decidere sulla domanda di eliminazione dal casellario giudiziale dell’iscrizione concernente la sentenza definitiva, pronunciata dal Pretore di Gela il 20 maggio 1981, con la quale l’istante era stato riconosciuto colpevole della contravvenzione prevista dall’art. 651 cod. pen. e condannato alla pena di lire 6.000 di ammenda (corrispondenti a euro 3,10), con la concessione dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione. Lo stesso rimettente precisa altresì che in riferimento a tale condanna – oggetto dell’unica annotazione apposta nel certificato del casellario giudiziale – l’istante ha ottenuto la riabilitazione con provvedimento emesso il 2 maggio 2008 dal Tribunale di sorveglianza di Caltanissetta. 1.2. – Tanto premesso in fatto, il giudice a quo richiama la previsione contenuta nell’art. 40 del d.P.R. n. 313 del 2002, in tema di competenza, la quale devolve le questioni concernenti le iscrizioni e i certificati del casellario giudiziale al tribunale del luogo dove ha sede l’ufficio locale nel cui ambito territoriale è nata la persona cui è riferita l’iscrizione o il certificato, che decide in composizione monocratica e nelle forme previste dall’art. 666 del codice di procedura penale. Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il rimettente osserva come la permanenza delle iscrizioni concernenti i provvedimenti di condanna per contravvenzioni per le quali sia stata inflitta la pena dell’ammenda, nei casi di concessione di alcuno dei benefici di cui agli artt. 163 e 175 cod. pen., determini un trattamento irragionevolmente deteriore dei soggetti ritenuti meritevoli dei predetti benefici, rispetto a coloro i quali non abbiano potuto «inizialmente» giovarsi degli stessi, in ragione della ritenuta maggiore capacità a delinquere ovvero di altri elementi considerati dall’autorità giurisdizionale procedente. Costoro infatti, dopo aver ottenuto la cancellazione dei relativi provvedimenti di condanna una volta decorso il termine decennale previsto dalla norma censurata, possono ancora usufruire dei benefici indicati in riferimento ad una eventuale, successiva condanna. Ulteriore profilo di irragionevolezza del divieto di eliminazione delle indicate iscrizioni si profilerebbe nei casi, come l’odierno, in cui sia intervenuta la riabilitazione del condannato, con conseguente estinzione di ogni effetto penale della condanna. In tali situazioni, secondo il giudice a quo, «non è possibile tenere conto ai fini della cancellazione dell’iscrizione dal casellario giudiziale della sospensione condizionale dell’esecuzione e della non menzione della condanna allora riconosciute, non essendo ravvisabili per le contravvenzioni le deroghe alla piena esplicazione dei benefici indicati dall’art. 178 cod. pen. previste per i delitti». Il Tribunale prospetta infine, in relazione all’applicazione della norma ai soggetti riabilitati, la violazione del principio della necessaria finalità rieducativa della pena, per l’effetto pregiudizievole che discende dalla permanenza dell’iscrizione delle condanne, posto che, secondo la giurisprudenza di legittimità, l’intervenuta riabilitazione non preclude la valutazione dei «precedenti penali e giudiziali del riabilitato e, in genere, della condotta di vita antecedente al reato, ai fini dell’accertamento della capacità a delinquere» (è richiamata la sentenza n. 9116 del 1998 della Corte di cassazione). 2. – Con atto depositato l’11 maggio 2010, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, infondata. 2.1. – In via preliminare, l’Avvocatura generale prospetta un vizio di genericità della motivazione, sia con riguardo alla non manifesta infondatezza della questione, sul rilievo che il rimettente avrebbe omesso l’esame del quadro normativo al cui interno si colloca la norma censurata, sia con riferimento alla rilevanza della questione medesima, posto che lo stesso rimettente non avrebbe chiarito se la predetta norma costituisca l’unico ostacolo all’accoglimento dell’istanza di cancellazione. In particolare, secondo la difesa dello Stato, il rimettente non avrebbe approfondito il tema dei rapporti tra l’istituto della riabilitazione ed i benefici previsti dagli artt. 163 e 175 cod. pen., né quello della natura della non menzione della condanna nel casellario giudiziale, entrambi significativi ai fini del giudizio di rilevanza dell’odierna questione. Se infatti, prosegue l’Avvocatura generale, si accede all’opinione dottrinale secondo cui l’iscrizione della condanna nel casellario giudiziale ha natura di pregiudizio in senso lato – e non anche di effetto penale della condanna – la riabilitazione non potrebbe esplicare alcuna influenza in proposito e la questione odierna sarebbe priva di rilevanza. Ritenendo invece che i benefici di cui agli artt. 163 e 175 cod. pen. abbiano natura di effetti penali della condanna, come affermato di recente dalla giurisprudenza di legittimità (è richiamata la sentenza n. 12451 del 2009 della Corte di cassazione), la questione risulterebbe ugualmente priva di rilevanza, posto che nella specie non è ancora decorso il termine di sette anni dalla intervenuta riabilitazione, entro il quale, ai sensi dell’art. 180 cod. pen., questa è revocata di diritto se l’interessato commette un delitto non colposo per il quale sia irrogata la pena della reclusione non inferiore a due anni. 2.2. – Nel merito l’Avvocatura generale osserva come la norma censurata, esaminata all’interno del quadro normativo di riferimento, appaia tutt’altro che irragionevole. L’art. 164 cod. pen. prevede infatti che il giudice possa disporre la sospensione condizionale della pena non più di una volta (o due quando il cumulo delle condanne non superi i limiti di cui all’art. 163 cod. pen.), là dove l’unico strumento dal quale il giudice può attingere informazioni in ordine alle precedenti concessioni del beneficio è costituito dal certificato del casellario giudiziale. Se, dunque, si potesse procedere alla cancellazione delle iscrizioni in via indiscriminata, un soggetto condannato più volte potrebbe ottenere un numero di sospensioni condizionali della pena superiore a quello consentito dalla legge. In questo senso sarebbe orientata la prevalente giurisprudenza di legittimità, che ha evidenziato come la concessione dei benefici di cui agli artt. 163 e 175 cod. pen. sia di ostacolo all’eliminazione della iscrizione della condanna dal casellario giudiziale, sul rilievo che tale iscrizione non abbia natura di effetto penale della condanna, bensì di atto che assolve a finalità meramente informative, con conseguente ininfluenza delle vicende estintive del reato e degli effetti penali della condanna. Considerato in diritto 1. – Il Tribunale di Gela, in composizione monocratica ed in funzione di giudice dell’esecuzione, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 2, lettera d), del d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti), nella parte in cui non consente di eliminare dal casellario giudiziale – «in ogni caso e, comunque, nei confronti di coloro i quali abbiano ottenuto la riabilitazione» − le iscrizioni che si riferiscono ai provvedimenti giudiziari di condanna per contravvenzioni per le quali sia stata inflitta la pena dell’ammenda, trascorsi dieci anni dal giorno in cui la pena è stata eseguita ovvero si è in altro modo estinta, qualora con detti provvedimenti sia sta to concesso alcuno dei benefici previsti dagli artt. 163 e 175 del codice penale. La medesima norma è inoltre oggetto di censura, relativamente alla sua applicazione nei confronti dei soggetti riabilitati, per l’asserito contrasto con l’art. 27, terzo comma, Cost. 2. – La questione è fondata. 2.1. – La norma censurata si pone come eccezione al trattamento riservato dalla legge – in tema di permanenza delle iscrizioni nel casellario giudiziale – ai provvedimenti di condanna alla pena dell’ammenda per reati contravvenzionali, per i quali è possibile l’eliminazione, «trascorsi dieci anni dal giorno in cui la pena è stata eseguita ovvero si è in altro modo estinta» (art. 5, comma 2, lettera d, del d.P.R. n. 313 del 2002). La possibilità della cancellazione è stata esclusa, sin dal codice di rito penale del 1930, per i provvedimenti con cui siano stati concessi i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale. La finalità della sottrazione delle due ipotesi di cui sopra alla disciplina riguardante le condanne alla sola pena dell’ammenda si deduce, per quanto riguarda la sospensione condizionale, dalla regola, contenuta nel quarto comma dell’art. 164 cod. pen., che escludeva, nella sua originaria formulazione, la concedibilità del beneficio per più di una volta. Per ciò che concerne la non menzione nel certificato del casellario giudiziale, spedito a richiesta di privati, non per ragione di diritto elettorale (art. 175, primo comma, cod. pen.), la ratio dell’esclusione si rinviene nel terzo comma del citato art. 175 cod. pen., che prevede la revoca dell’ordine di non menzione, qualora il condannato commetta successivamente un delitto. Il legislatore ha ritenuto che fosse necessario mantenere sine die l’iscrizione della condanna, allo scopo di evitare che il beneficio della sospensione condizionale sia concesso per un numero di volte eccedente i limiti posti dalla legge e per rendere concretamente praticabile la revoca del beneficio della non menzione, nell’ipotesi di successiva commissione di un delitto da parte del condannato. È stata così stabilita una sorta di simmetria fra il trattamento più favorevole deciso dal giudice nei confronti di un condannato, derivante dalla concessione dei benefici di cui sopra, e la conseguenza più sfavorevole, scaturente dal carattere perenne della iscrizione, volto ad evitare che il beneficiario possa ottenere ulteriori vantaggi dalla minore severità della condanna subita, nell’ipotesi di successive condanne penali. 2.2. – Occorre tuttavia rimarcare che il rigore del divieto di concessione per più di una volta del beneficio della sospensione condizionale della pena si è, nel corso del tempo, attenuato per effetto di interventi di questa Corte e del legislatore. In particolare, con la sentenza n. 73 del 1971, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 164, quarto comma, cod. pen., nella parte in cui escludeva che potesse concedersi una seconda sospensione condizionale, nel caso di nuova condanna per delitto anteriormente commesso, ad una pena che, cumulata con quella già sospesa, non superasse i limiti per l’applicabilità del beneficio. In conformità a tale orientamento, è intervenuto il legislatore, che, con decreto-legge 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale), convertito dalla legge 7 giugno 1974, n. 220, ha sostituito il testo dell’art. 164 cod. pen., introducendo la regola contenuta nella suddetta sentenza. La reiterabilità della sospensione condizionale della pena consegue anche dalla disciplina del codice di procedura penale riguardante alcuni riti alternativi. L’art. 460, comma 5, cod. proc. pen., in materia di decreto penale di condanna, stabilisce che «il reato è estinto, se nel termine di cinque anni, quando il decreto concerne un delitto, o di due anni quando il decreto concerne una contravvenzione, l’imputato non commette un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole. In questo caso si estingue ogni effetto penale e la condanna non è comunque di ostacolo alla concessione di una successiva sospensione condizionale della pena». Con riferimento al tema delle iscrizioni nel casellario giudiziale, si deve notare che l’art. 460, comma 2, cod. proc. pen. è stato modificato dall’art. 2-decies del decreto-legge 7 aprile 2000, n. 82 (Modificazioni della disciplina dei termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato), convertito dalla legge 5 giugno 2000, n. 144. A seguito della novella il giudice, nel provvedere alla condanna per decreto, non può disporne la non menzione nel certificato penale spedito a richiesta dei privati (un generalizzato divieto di menzione del decreto penale è stato poi introdotto mediante il d.P.R. n. 313 del 2002, con evidenti fini di ulteriore incentivazione all’acquiescenza per il destinatario). In conseguenza dell’innovazione, le iscrizioni concernenti le condanne irrogate per decreto sono ormai suscettibili di eliminazione, decorsi dieci anni dalla esecuzione o dalla estinzione della pena. Che tale nuova si tuazione dei condannati per decreto sia più favorevole della precedente, poiché appunto consente la cancellazione dell’iscrizione della condanna dal casellario giudiziale, è confermato dalla giurisprudenza di legittimità, la quale, richiamando l’art. 2, quarto comma, cod. pen., ha ritenuto che la cancellazione dal casellario giudiziale, connessa all’intervenuto divieto della non menzione, sia consentita anche riguardo alle condanne per decreto anteriori alla novella dell’art. 460 cod. proc. pen. (Corte di cassazione, sentenza n. 12451 del 2009). Nella stessa direzione si muove l’art. 445, comma 2, cod. proc. pen., in materia di patteggiamento, che dispone l’estinzione del reato «ove sia stata irrogata una pena detentiva a due anni soli o congiunti a pena pecuniaria, se nel termine di cinque anni, quando la sentenza concerne un delitto, ovvero di due anni, quando la sentenza concerne una contravvenzione, l’imputato non commette un delitto ovvero una contravvenzione della stessa indole. In questo caso si estingue ogni effetto penale, e se è stata applicata una pena pecuniaria o una sanzione sostitutiva, l’applicazione non è comunque di ostacolo alla concessione di una successiva sospensione condizionale della pena». 2.3. – Le disposizioni sopra richiamate inducono alla conclusione che l’ordinamento si orienta a togliere valore preclusivo assoluto alla regola della non concedibilità della sospensione condizionale della pena per più di una volta, specie allo scopo di eliminare gli effetti irragionevoli che si possono produrre quando la prima concessione riguardi reati puniti con una pena pecuniaria. La tendenza emergente è quella di evitare che una pregressa condanna per un reato di non grave entità si proietti senza limiti sul futuro, con conseguenze che potrebbero essere paradossali, nell’ipotesi di una contravvenzione punita con una pena molto lieve, che diventa preclusiva di una specifica valutazione del giudice in relazione ad un reato commesso anche dopo molti anni, quando la prima condanna, con tutti i suoi effetti, si è già estinta per il decorso di un determinato lasso di tempo, senza che il condannato abbia commesso reati della stessa indole. Il legislatore ha ritenuto, nelle fattispecie sopra ricordate, che, estintosi il primo reato di modesta entità, il condannato possa aspirare ad essere nuovamente messo alla prova, se il giudice «avuto riguardo alle circostanze indicate nell’art. 133, […] presume che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati» (art. 164, primo comma, cod. pen.). A quanto detto si deve aggiungere che lo stesso art. 5 del d.P.R. n. 313 del 2002, alla lettera g) del comma 2, prevede che possano essere cancellate le iscrizioni relative «ai provvedimenti giudiziari di condanna emessi dal giudice di pace, trascorsi cinque anni dal giorno in cui la sanzione è stata eseguita se è stata inflitta la pena pecuniaria, o dieci anni se è stata inflitta una pena diversa, se nei periodi indicati non è stato commesso un ulteriore reato». Non compaiono, nella disposizione sopra riportata, le eccezioni previste dalla norma censurata nel presente giudizio. Peraltro, la sospensione condizionale della pena è stata completamente eliminata, per i reati di competenza del giudice di pace, dall’art. 60 del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’art. 14 della legge 24 novembre 1999 n. 468). 3. – Alla luce delle indicate linee evolutive dell’ordinamento, si impone una riconsiderazione della preclusione drastica derivante dalla norma censurata, che vieta, sempre e comunque, la cancellazione dal casellario giudiziale della condanna all’ammenda, decorsi dieci anni dall’esecuzione o dall’estinzione della pena, quando sia concesso alcuno dei benefici di cui agli artt. 163 e 175 cod. pen. Tale limitazione persegue lo scopo di salvaguardare il divieto, in origine assoluto, di concedere la sospensione condizionale per più di una volta. Tuttavia – come è stato evidenziato nel paragrafo precedente – tale divieto ha subito significative attenuazioni, tutte volte a salvaguardare altre finalità meritevoli di tutela, che sarebbero state compromesse dall’indiscriminata operatività del divieto stesso. Le nuove discipline riguardanti le pene irrogate con decreto penale o in seguito a patteggiamento, o ancora dal giudice di pace, dimostrano che le condanne a pene di lieve entità, relative a reati di modesta rilevanza, sono considerate dal legislatore in una luce diversa rispetto al passato, con il progressivo abbattimento delle barriere rigide costruite dalla legge in seguito ad una prima infrazione di una norma penale. Viene in primo piano la valutazione sulla specificità dei casi concreti, sulla gravit 4; delle trasgressioni e sull’esigenza di non aggravare, con la perpetuità delle preclusioni, gli effetti di comportamenti antigiuridici non gravi e lontani nel tempo. Questa tendenza della giurisprudenza costituzionale e della più recente legislazione è contraddetta dalla norma censurata, che capovolge irragionevolmente i trattamenti rispettivamente riservati al condannato cui non sono stati concessi i benefici di cui agli artt. 163 e 175 cod. pen. e a quello cui invece tali benefici sono stati accordati. Occorre ricordare ancora una volta che l’art. 164, primo comma, cod. pen. subordina la concessione della sospensione condizionale della pena alla prognosi – conseguente alla valutazione degli elementi da cui desumere la gravità del reato, indicati nell’art. 133 cod. pen. – che il colpevole si asterrà in futuro dal commettere ulteriori reati. Avuto riguardo alle stesse circostanze, il giudice può ordinare che non sia fatta menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale spedito a richiesta di privati. In entrambe le ipotesi, la valutazione del giudice è meno severa di quella formulata a carico dei condannati che, in seguito alla considerazione delle suddette circostanze, appaiono non meritare la concessione dei benefici di cui sopra. Si può addirittura verificare il paradosso di un soggetto che subisca una nuova condanna alla pena dell’ammenda e possa, per tale secondo provvedimento, chie dere ed ottenere, trascorsi dieci anni dalla esecuzione o estinzione della pena, la cancellazione della relativa iscrizione dal casellario giudiziale, anche se il secondo reato sia stato sanzionato più gravemente del primo. La conseguenza sarebbe che di un reato più grave si perde memoria, mentre rimane sempre iscritta la condanna per il reato più lieve. 4. – Il tendenziale attenuarsi del rigore delle preclusioni e la progressiva scomparsa del riferimento ai benefici nelle disposizioni riguardanti le condanne per reati di minore gravità, mettono in risalto un evidente squilibrio tra il bene protetto dalla norma sulla cancellazione delle iscrizioni per le condanne alla sola pena dell’ammenda e la cautela adottata dal legislatore, a partire dal 1930, volta ad impedire che i beneficiari dei provvedimenti di cui agli artt. 163 e 175 cod. pen. possano nuovamente fruirne nel caso di successive violazioni della legge penale. Innanzitutto, c’è da rilevare il lungo lasso di tempo che deve intercorrere tra la condanna e la possibilità di chiedere la cancellazione (dieci anni dall’estinzione della pena), che già supera del doppio quello previsto per tutte le condanne a pene pecuniarie irrogate dal giudice di pace. In secondo luogo, diventa stridente la diversità di trattamento fra condannati alla pena dell’ammenda per i medesimi reati. Mentre originariamente la cautela contro possibili trasgressioni successive, che rendeva retroattivamente immeritevoli dei benefici coloro che ne avessero goduto, veniva ritenuta prevalente sul diritto, riconosciuto in generale dall’ordinamento, a pretendere che non sia conservata memoria di infrazioni “bagatellari”, oggi si deve ritenere che il bilanciamento fra le due opposte tutele – quella del “diritto all’oblio” di chi si sia reso responsabile in tempi passati di modeste infrazioni alla legge penale e per un periodo congruo non abbia commesso altri reati, e quella contrapposta di precludere un’indebita reiterazione dei benefici – porti alla prevalenza della prima. Difatti tale reiterazione è ammessa in un numero crescente di casi e per altro verso si tende, per le pene più lievi, ad eliminare la possibilità stessa di concedere tali benefici, che finiscono, nella pratica, per produrre più danni che vantaggi ai destinatari. Tanto questo è vero che la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto l’interesse ad impugnare i provvedimenti di condanna alla pena dell’ammenda, nella parte in cui concedono, sebbene non richiesti, i benefici ostativi alla cancellazione dell’iscrizione nel casellario giudiziale (ex plurimis, Corte di cassazione, sentenza n. 13000 del 2009). In definitiva, l’esclusione di coloro che abbiano fruito dei benefici di cui agli artt. 163 e 175 cod. pen. dalla possibilità di ottenere la cancellazione dal casellario giudiziale delle iscrizioni relative a condanne alla pena dell’ammenda, decorsi dieci anni dall’estinzione della pena medesima, nel corso dei quali il condannato non abbia compiuto altri reati, deve ritenersi costituzionalmente illegittima. Tale preclusione produce un trattamento irragionevolmente differenziato fra condannati per i medesimi reati, sulla base di una cautela che, alla luce dell’evoluzione legislativa, è divenuta eccessiva e sproporzionata, non tale quindi da bilanciare lo svantaggio della perennità dell’iscrizione, non prevista invece per condannati in ipotesi giudicati in modo più severo dal giudice. 5. – Sono assorbite le altre censure di illegittimità costituzionale prospettate nell’atto introduttivo del giudizio. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 2, lettera d), del d.P.R. 14 novembre 2002, n. 313 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di casellario giudiziale, di anagrafe delle sanzioni amministrative dipendenti da reato e dei relativi carichi pendenti), limitatamente all’inciso «salvo che sia stato concesso alcuno dei benefici di cui agli articoli 163 e 175 del codice penale». Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 ottobre 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Gaetano SILVESTRI, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'8 ottobre 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA SENTENZA N. 288 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, commi 5 e 9, della legge della Regione Lombardia 3 aprile 2000, n. 22 (Disciplina delle vendite straordinarie e disposizioni in materia di orari degli esercizi commerciali), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, nel procedimento vertente tra la Oviesse s.p.a. e il Comune di Curno ed altri, con ordinanza del 13 novembre 2009, iscritta al n. 71 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 11, prima serie speciale, dell’anno 2010. Visti l’atto di costituzione, fuori termine, di Oviesse s.p.a. nonché gli atti di intervento della Iniziativa Tredici s.r.l. e della Regione Lombardia; udito nella camera di consiglio del 23 giugno 2010 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano. Ritenuto in fatto 1.– Con ordinanza del 13 novembre 2009 il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia (sezione staccata di Brescia) ha sollevato, in riferimento all’art. 117, primo e secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, commi 5 e 9, della legge della Regione Lombardia 3 aprile 2000, n. 22 (Disciplina delle vendite straordinarie e disposizioni in materia di orari degli esercizi commerciali). Il Tribunale amministrativo premette che oggetto del giudizio a quo è la legittimità dell’ordinanza del Sindaco del Comune di Curno che regola il regime delle aperture domenicali e festive degli esercizi commerciali ubicati nel territorio comunale per l’anno 2009 con la quale, in applicazione della norma impugnata, si è consentito agli esercizi con superficie di vendita inferiore ai 250 metri quadrati l’apertura in ogni domenica e giorno festivo (con la sola esclusione delle giornate specificamente individuate dalla stessa legge) e, invece, si è limitata, per gli esercizi aventi una superficie di vendita superiore ai 250 metri quadrati, l’apertura festiva alla prima domenica dei mesi da gennaio a novembre, a tutte le giornate domenicali e festive del mese di dicembre, all’ultima domenica dei mesi di maggio, agosto e novembre e ad ulteriori tre giornate a libera scelta degli esercenti. Il rimettente fa presente che la ricorrente, nel giudizio a quo, è una società esercente il commercio con una superficie di vendita di 1499 metri quadrati, la quale, tra i motivi del ricorso, eccepisce l’illegittimità costituzionale della citata legge della Regione Lombardia per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. che riserva alla competenza legislativa esclusiva dello Stato la materia della tutela della concorrenza. Il Tribunale amministrativo lombardo ritiene la questione di costituzionalità prospettata dalla parte rilevante e non manifestamente infondata. Il rimettente osserva, altresì, che è incontestato che per l’esercizio commerciale del ricorrente debba trovare applicazione – secondo le norme impugnate – l’ordinaria disciplina della giornata domenicale, in ragione della quale la regola è rappresentata dall’obbligo di chiusura, salvo la possibilità di apertura nella prima domenica dei mesi da gennaio a novembre, nell’ultima domenica di uno dei mesi di maggio, agosto o novembre, nelle giornate domenicali e festive del mese di dicembre, e in altre cinque giornate domenicali e festive scelte dai comuni in relazione alle esigenze locali, purché tali giornate non coincidano con quelle in cui l’apertura è comunque preclusa dal comma 11 del medesimo art. 5-bis della legge regionale n. 22 del 2000. Quanto alla rilevanza della questione, il TAR evidenzia che il provvedimento del Sindaco rappresenta la pedissequa applicazione delle norme impugnate e che lo stesso ricorrente denuncia come unico vizio la illegittimità derivata dalla incostituzionalità della legge. In altri termini – argomenta il rimettente – la fonte legislativa regionale ha direttamente determinato in modo cogente il contenuto lesivo dell’atto impugnato, senza lasciare o consentire alcuna mediazione discrezionale in capo all’Autorità amministrativa circa l’apertura domenicale o meno degli esercizi commerciali con superficie di vendita inferiore a 250 metri quadrati. Da ciò consegue che lo scrutinio di legittimità del provvedimento amministrativo dipende indissolubilmente dal previo vaglio di costituzionalità della normativa regionale, nel senso che ove questa fosse ritenuta costituzionalmente legittima anche il consequenziale provvedimento amministrativo applicativo sarebbe esente da vizi di legittimità e, viceversa, nel caso di declaratoria di illegittimità costituzionale della norma applicata, il ricorso dovrebbe essere accolto. Con riferimento alla non manifesta infondatezza, il rimettente ritiene non fondata l’autoqualificazione operata dal legislatore regionale circa l’inerenza della disciplina alla materia del commercio, e afferma, invece, che le disposizioni de quibus rientrerebbero nella materia tutela della concorrenza rimesse alla competenza esclusiva del legislatore statale, peraltro con l’obbligo di rispettare i principi di derivazione comunitaria. In tal senso il TAR richiama la giurisprudenza costituzionale secondo la quale l’espressione tutela della concorrenza, utilizzata dal legislatore costituzionale, coerentemente con quella operante nel sistema giuridico comunitario, comprende, tra le altre fattispecie, gli interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali: le misure legislative di tutela in senso proprio, che hanno ad oggetto gli atti ed i comportamenti delle imprese che incidono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati e ne disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione; le misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, in generale i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economi che (viene citata la sentenza n. 430 del 2007). Pertanto per accertare se determinate disposizioni possano essere ricondotte alla materia tutela della concorrenza si deve verificare «se le norme adottate dallo Stato siano essenzialmente finalizzate a garantire la concorrenza fra i diversi soggetti del mercato (sent. n. 285 del 2005), allo scopo di accertarne la coerenza rispetto all’obiettivo di assicurare un mercato aperto e in libera concorrenza». Una volta che tale scrutinio abbia avuto esito positivo, l’attribuzione delle misure alla competenza legislativa esclusiva dello Stato comporta sia l’inderogabilità delle disposizioni nelle quali si esprime, sia che queste legittimamente incidono, nei limiti della loro specificità e dei contenuti normativi che di esse sono proprie, sulla totalità degli ambiti materiali entro i quali si applicano (viene citata la sentenza n. 80 del 2006). A parere del rimettente, la verifica di cui sopra conduce ad esito positivo quanto agli articoli da 11 a 13 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio). Il d.lgs. n. 114 del 1998 avrebbe espressamente posto quali finalità della disciplina in materia di commercio, tra le altre, quelle di realizzare «la trasparenza del mercato, la concorrenza, la libertà di impresa e la libera circolazione delle merci», l’efficienza, la modernizzazione e lo sviluppo della rete distributiva, nonché l’evoluzione tecnologica dell’offerta, in un’ottica di riforma volta a «rimuovere vincoli e privilegi, realizzando una maggiore eguaglianza di opportunità per tutti gli operatori economici» e perseguendo, quindi, l’intento di «favorire l’apertura del mercato alla concorrenza» (sentenza n. 64 del 2007). L’intento avuto di mira con detto decreto legislativo n. 114 del 1998 sarebbe stato, dunque, quello di «favorire l’apertura del mercato alla concorrenza» garantendo i mercati ed i soggetti che in essi operano e a tali norme dovrebbe essere riconosciuto quell’effetto di ampliare «l’area di libera scelta sia dei cittadini che delle imprese» e, pertanto, sussisterebbero le condizioni per la qualificazione delle stesse come norme poste a tutela della concorrenza. Una volta operata una siffatta qualificazione ne discenderebbe il dovere della legge regionale di non circoscrivere o delimitare in alcun modo l’effetto ampliativo della legge statale che persegue l’obiettivo della tutela della concorrenza e del consumatore, con particolare riguardo alla possibilità di approvvigionamento (art. 1, comma 3, d.lgs. n. 114 del 1998). Secondo il rimettente, non può neanche dirsi che la Regione abbia esercitato quella possibilità, riconosciuta dalla Corte costituzionale, di introdurre, nel disciplinare materie attribuite alla sua competenza legislativa, misure che abbiano marginalmente una valenza pro-competitiva, sempre che tali effetti «siano marginali o indiretti e non siano in contrasto con obiettivi delle norme statali che disciplinano il mercato, e tutelano e promuovono la concorrenza» (sentenza n. 430 del 2007). Al contrario, la Regione Lombardia, nell’ambito di una normativa destinata a regolamentare specifici aspetti del settore del commercio, avrebbe, con i censurati commi 5 e 9 dell’art. 5-bis della legge regionale n. 22 del 2000, finito per incidere sull’assetto concorrenziale all’interno del mercato regionale, differenziandolo in maniera sostanziale da quello risultante dalla disciplina contenuta nel d.lgs. n. 114 del 1998. Il TAR cita le sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee (ora Corte di giustizia dell’Unione europea), con le quali, in più occasioni, si è ritenuto che le normative nazionali degli Stati membri sulla chiusura domenicale non si ponessero in contrasto con il principio di libera circolazione delle merci (e cioè la sentenza 16 dicembre l992, causa C-169/91 e la sentenza 20 giugno 1996, V sezione, relativa ad una pluralità di cause tra cui la C-69/93 e la C-258/93) e, in particolare, richiama la parte in cui si afferma che: «Le normative in questione perseguono un obiettivo legittimo alla luce del diritto comunitario. Invero, le discipline nazionali che limitano l’apertura domenicale di esercizi commerciali costituiscono l’espressione di determinate scelte, rispondenti alle peculiarità socioculturali nazionali o regionali. Spetta agli Stati membri effettuare queste scelte attenendosi alle prescrizioni del diritto comunitario, in particolare al principio di proporzionalità». Secondo il rimettente, una volta che lo Stato abbia esercitato tali scelte sarebbe poi «preclusa al legislatore regionale la possibilità di adottare una propria disciplina normativa che abbia l’effetto di restringere o distorcere la concorrenza al di fuori dei casi in cui sia lo stesso d.lgs. 114 del 1998 a consentirlo in un’ottica di contemperamento con la necessità di tutelare altri principi e valori di rango pari a quello attribuito alla tutela della concorrenza». La riserva di legge statale in materia escluderebbe, dunque, che le Regioni possano, nel preteso esercizio della competenza legislativa in materia di commercio «introdurre limitazioni alla disciplina delle aperture domenicali circoscrivendo e delimitando ulteriormente le potestà riconosciute dalla disciplina statale alle amministrazioni in senso pro-concorrenziale o addirittura rendendo impossibile di agire in tal senso» o «delineare regimi differenziati tra gli operatori di settore in contrasto con i principi comunitari». In particolare, l’art. 11 del d.lgs. n. 114 del 1998 dispone che: «Gli esercizi di vendita al dettaglio osservano la chiusura domenicale e festiva dell’esercizio e, nei casi stabiliti dai comuni, sentite le organizzazioni di cui al comma 1, la mezza giornata di chiusura infrasettimanale. Il comune, sentite le organizzazioni di cui al comma 1, individua i giorni e le zone del territorio nei quali gli esercenti possono derogare all’obbligo di chiusura domenicale e festiva. Detti giorni comprendono comunque quelli del mese di dicembre, nonché ulteriori otto domeniche o festività nel corso degli altri mesi dell’anno». Dunque, a parere del rimettente, la norma citata, pur dettando il principio generale dell’obbligo della chiusura domenicale, prevederebbe che la valutazione dell’opportunità dell’apertura domenicale venga effettuata dal singolo Comune sulla base delle condizioni e delle circostanze concretamente sussistenti, senza introdurre alcun limite massimo alla facoltà di consentire l’apertura domenicale e festiva. Al contrario, il comma 5 dell’art. 5-bis della legge regionale della Lombardia n. 22 del 2000 sostituirebbe il potere del Sindaco con una valutazione eseguita aprioristicamente ed in maniera astratta in ordine alle possibili giornate di apertura domenicale, che sono specificamente individuate dalla legge stessa, eccezion fatta per le cinque giornate di ulteriore apertura di cui alla lettera d) del comma stesso, la cui individuazione è rimessa alla discrezionalità del singolo Comune. In altre parole, il comma 5 dell’art. 5 della legge regionale n. 22 del 2000 avrebbe sostanzialmente escluso, per i Comuni lombardi, quella potestà, riconosciuta invece dai comma 5 dell’art.11 del d.lgs. n. 114 del 1998, di valutare discrezionalmente l’opportunità di consentire l’apertura domenicale e festiva degli esercizi commerciali nella misura occorrente a garantire che l’offerta commerciale sia in grado di eguagliare le esigenze dei consumatori. La disposizione regionale, inoltre, ha introdotto un’eccezione generalizzata al divieto di apertura domenicale e festiva, consentendo sempre l’apertura in tali giornate agli esercizi commerciali di vendita al dettaglio in sede fissa aventi superficie di vendita non superiore ai 250 metri quadrati mentre nessuna analoga disposizione è rinvenibile nel d.lgs. n. 114 del 1998, che non differenzia la possibilità di apertura domenicale e festiva in ragione delle dimensioni dell’esercizio. La norma impugnata pertanto, seppur tendente, isolatamente considerata, all’apertura del mercato ed a garantire quella libertà di scelta del consumatore cui sono finalizzate le norme del d.lgs. n. 114 del 1998, finirebbe, però, per introdurre non solo una disciplina diversa da quella voluta dal legislatore statale preposto ad adottare quelle disposizioni che, oltre a garantire la massima concorrenza, assicurino anche un’ordinata disciplina del settore, ma anche una disciplina differenziata all’interno del medesimo mercato rilevante (collegato alla diversa superficie di vendita): il che costituirebbe violazione del principio comunitario di proporzionalità (di cui all’art. 5, comma 3, del Trattato UE) il cui rispetto si impone alla Regione anche in forza del primo comma dell’art. 117 Cost., che individua quale limite alla competenza legislativa regionale il rispetto dei principi comunitari. 2.– In data 6 aprile 2010 si è costituita la Regione Lombardia concludendo per la declaratoria di inammissibilità o di infondatezza delle sollevate questioni. Premette la difesa regionale che i commi 5 e 9 dell’art. 5-bis della legge n. 22 del 2000 sono stati trasfusi nei commi 5 e 11 dell’art. 103 della legge della Regione Lombardia 2 febbraio 2010, n. 6 (Testo unico delle leggi regionali in materia di commercio e fiere), e che l’art. 155, comma 1, lettera f), di tale testo unico ha abrogato la legge regionale n. 22 del 2000. Secondo la Regione Lombardia il rimettente avrebbe erroneamente ricostruito il quadro normativo in materia di orari di apertura degli esercizi commerciali. Nell’ambito dell’Unione europea la Corte di Giustizia, con giurisprudenza univoca e consolidata, ha sempre affermato la piena legittimità delle discipline interne relative alla regolazione degli orari commerciali rispetto al principio di libera circolazione delle merci. In piena continuità rispetto ai principi affermati a livello comunitario, il legislatore italiano è intervenuto a dettare una nuova disciplina in materia con il d.lgs. n. 114 del 1998. Nonostante l’intento liberalizzatore della nuova disciplina, gli orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali continuano ad essere disciplinati dettagliatamente, rispondendo tale intervento normativo ad interessi di disciplina complessiva del settore, dato che il legislatore non ha inteso procedere alla totale eliminazione delle regole cui gli operatori economici devono attenersi. Ciò si coglierebbe, in particolare, in riferimento all’art. 11, laddove è previsto per gli esercenti commerciali l’obbligo di rispettare la chiusura domenicale e festiva, con la possibilità di deroga nel mese di dicembre e per altre otto domeniche nel corso dell’anno. Un regime derogatorio rispetto al predetto divieto è previsto dagli artt. 12 e 13 per i Comuni ad economia prevalentemente turistica, per le città d’arte o nelle zone del territorio dei medesimi e per alcune tipologie di attività. La Regione Lombardia, già investita dal decreto in parola di ampie potestà legislative e, in particolare, della generale funzione «Programmatoria delle reti distributive» (art. 6 del d.lgs. n. 114 del 1998), ha provveduto nel 2000 ad approvare la legge 3 aprile 2000, n.22 (Disciplina delle vendite straordinarie e disposizioni in materia di orari degli esercizi commerciali). Successivamente, il legislatore lombardo, con la legge 28 novembre 2007, n. 30 (Normativa in materia di orari degli esercizi commerciali), ha aggiunto alla legge n. 22 del 2000 un nuovo Titolo III relativo alla disciplina degli orari degli esercizi commerciali. Infine, di recente, le norme regionali in materia di commercio, comprese le disposizioni fin qui evidenziate, sono confluite integralmente nella citata legge regionale n. 6 del 2010. La Regione evidenzia che la propria normativa prevede un regime di maggiore liberalizzazione delle aperture domenicali e festive rispetto a quanto stabilito dal comma 5 dell’art. 11 del d.lgs. n. 114 del 1998, perché il numero delle domeniche e delle festività in cui è consentita una deroga all’obbligo di chiusura, passa da tredici (previsto dal decreto statale) a ventidue (consentito a livello regionale) mentre per i negozi di vicinato (esercizi commerciali con superficie inferiore ai 250 metri quadrati), anche al fine di un riequilibrio della capacità competitiva delle diverse reti distributive, è consentita l’apertura durante tutto il corso dell’anno. Pertanto gli obiettivi perseguiti dalla Regione nel regolamentare il settore commerciale hanno, secondo la difesa regionale, una chiara valenza pubblicistica e non possono essere semplicemente ricondotti a finalità di esclusivo impulso all’astratta concorrenzialità del mercato di riferimento. La regolamentazione del settore commerciale rifletterebbe, in maniera evidente, alcuni interessi pubblici facilmente ravvisabili; ad esempio: l’interesse ad una ordinata distribuzione sul territorio delle attività imprenditoriali o la necessità di tutelare soggetti economicamente meno robusti e, al tempo stesso, profondamente radicati nelle realtà territoriali locali. L’ordinanza di rimessione si baserebbe sul presupposto errato che nella legislazione nazionale esista una regola generale di apertura domenicale degli esercizi commerciali e che la legislazione regionale limiterebbe tale regola generale. Così ricostruito il quadro normativo di riferimento, la parte resistente deduce l’inammissibilità della questione di costituzionalità sollevata dal TAR della Lombardia perché il Giudice amministrativo, nell’ordinanza, non avrebbe dato conto della modifica legislativa intervenuta ad opera della legge regionale 29 giugno 2009, n. 9 (Modifiche a leggi regionali e altre disposizioni in materia di attività commerciali), che, ampliando ulteriormente la potestà discrezionale del Comune, ha attribuito la possibilità all’ente locale di scegliere una domenica destinata all’apertura tra le ultime di uno dei mesi di maggio, agosto o novembre e ha portato da tre a cinque le altre giornate o festività scelte dal comune in relazione alle esigenze locali. La difesa regionale, inoltre, eccepisce l’inammissibilità della questione relativa al comma 9 dell’art. 5-bis, della legge regionale n. 22 del 2000 che permette l’apertura al pubblico nelle giornate domenicali e festive per tutto l’anno solare agli esercizi commerciali con superfici di vendita inferiore ai 250 metri quadrati, non essendo la norma applicabile alla fattispecie in quanto, per esplicita ammissione dello stesso rimettente, la controversia riguarda un esercizio con superficie di 1499 metri quadrati. Altresì inammissibile sarebbe, infine, la richiesta di estendere anche agli esercizi commerciali di maggiori dimensioni la deroga generalizzata al divieto di apertura domenicale e festiva agli esercizi commerciali di vendita al dettaglio in sede fissa aventi superficie di vendita fino a 250 metri quadrati, in quanto, secondo la giurisprudenza costituzionale «quando si adotti come tertium comparationis la norma derogatrice, la funzione del giudizio di legittimità costituzionale non può essere se non il ripristino della disciplina generale, ingiustificatamente derogata da quella particolare, non l’estensione ad altri casi di quest’ultima» (sono citate le sentenze n. 298 del 1994 e n. 383 del 1992, e le ordinanze n. 666 e n. 582 del 1988). Nel merito, la Regione ritiene di individuare nella materia di competenza regionale residuale «commercio» l’ambito materiale al quale ricondurre le norme regionali impugnate, tenuto conto dell’oggetto e delle finalità della disciplina considerata nel suo complesso. La Regione evidenzia come la giurisprudenza della Corte costituzionale abbia precisato che nella locuzione commercio sono ricomprese l’attività di commercio all’ingrosso, di commercio al minuto, l’attività di somministrazione al pubblico di bevande ed alimenti, l’attività di commercio sulle aree pubbliche, l’attività di commercio dei pubblici esercizi, le forme speciali di vendita, le attività di promozione dell’associazionismo e della cooperazione nel settore del commercio, l’assistenza integrativa alle piccole e medie imprese, nonché fiere e mercati, tutte pacificamente rientranti nell’ambito della competenza esclusiva regionale residuale (sono richiamate le sentenze n. 430, n. 165 e n. 64 del 2007, e l’ordinanza n. 199 del 2006). Ciò implicherebbe che la disciplina degli orari, in quanto contenuto indefettibile della materia de qua, debba essere fissata dalla Regione c on pienezza ed esclusività di poteri, senza incontrare altro limite se non quelli generali fissati dal terzo comma dell’art.117 Cost. La difesa regionale richiama anche la giurisprudenza costituzionale che ha riconosciuto la legittimità della previsione di sanzioni per le ipotesi di violazione delle medesime norme regionali emanate in materia (ex plurimis, le sentenze n. 106 e n. 63 del 2006) e che ha affermato che il d.lgs. n. 114 del 1998 «si applica, ai sensi dell’art. 1, comma 2, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), soltanto alle Regioni che non abbiano emanato una propria legislazione nella suddetta materia, mentre la Regione Lombardia ha già provveduto a disciplinare in modo autonomo la materia stessa» (in tal senso l’ordinanza n. 199 del 2006). In ogni caso, secondo la Regione, anche se si volesse ritenere che le norme statali rientrano nella materia tutela della concorrenza, non sarebbe comunque possibile riconoscere alle stesse un’efficacia pervasiva tale da imporsi sull’ambito materiale disciplinato dalla legge regionale impugnata perché, essendo la concorrenza una materia trasversale che influisce necessariamente anche su materie attribuite alla competenza legislativa, concorrente o residuale, delle Regioni, è necessario garantire anche l’ampliamento delle attribuzioni regionali disposto dalla revisione del titolo V della parte seconda della Costituzione (tra le altre si richiamano le sentenze n. 175 del 2005, n. 272 del 2004 e n. 14 del 2004). Inoltre, la difesa regionale ritiene che le norme impugnate possano essere ritenute pro-concorrenziali, espressione di un potere che la Corte ha riconosciuto in capo al legislatore regionale al fine di non vanificarne la potestà legislativa, essendo interventi produttivi di effetti marginali e indiretti che non sono in contrasto con gli obiettivi posti dalle norme statali che disciplinano il mercato, tutelano e promuovono la concorrenza e che introducono una disciplina di più ampia liberalizzazione dell’apertura domenicale e festiva degli esercizi commerciali rispetto a quella statale. Quanto alla censura relativa alla violazione del principio di proporzionalità, in quanto la norma censurata non introdurrebbe solo una disciplina diversa da quella di natura concorrenziale posta dallo Stato, ma anche «una disciplina differenziata all’interno del medesimo mercato rilevante» (collegato alla diversa superficie di vendita), in violazione del principio comunitario di proporzionalità ex art. 5, comma 3, del Trattato UE), quale parametro interposto rispetto all’art. 117, primo comma, Cost. la Regione obietta che le discipline regionali sugli orari di apertura degli esercizi commerciali sono state oggetto di diverse pronunce della Corte di giustizia dell’Unione europea, e, in tali occasioni, la stessa Corte non ha riscontrato alcun contrasto tra le normative sulla chiusura domenicale e il principio di libera circolazione delle merci (sono citate, a titolo esemplificativo, la sentenza 16 dicembre 1992 nella causa C-169/91 e , con specifico riferimento alla legislazione italiana, la sentenza 2 giugno 1994, nelle cause riunite C-69/93 e C-258/93). A parere della difesa regionale, la più ampia possibilità di apertura domenicale e festiva per gli esercizi commerciali di piccole dimensioni mira inequivocabilmente a realizzare un riequilibrio competitivo tra grande distribuzione ed esercizi di vicinato, a fronte della differenza di risorse possedute per la remunerazione del personale e, quindi, per la garanzia di fasce di apertura più o meno ampie. Inesatto sarebbe anche l’assunto del rimettente secondo cui la Regione avrebbe introdotto illegittimamente delle differenziazioni all’interno del medesimo mercato rilevante. Al contrario, la disciplina censurata sarebbe volta a salvaguardare esercizi commerciali dalle dimensioni modeste e, pertanto, essa deve essere valutata quale espressione di un intervento pubblico atto a porre rimedio a situazioni di squilibrio economico e sociale. A questo proposito la Regione richiama la sentenza n. 64 del 2007 con la quale la Corte costituzionale, nel pronunciarsi su una disciplina della Regione Umbria che introduceva degli incentivi a favore delle piccole e medie strutture di vendita, ha chiaramente affermato che interventi di tal guisa non sono privi di ragionevole giustificazione. 3.– In data 6 aprile 2010 è intervenuta nel giudizio Iniziativa Tredici s.r.l., soggetto estraneo al giudizio principale, sostenendo di essere portatrice di un interesse giuridicamente qualificato e differenziato che può essere inciso in via diretta ed immediata dal giudizio di legittimità costituzionale. In particolare, la parte interveniente riferisce di essere costituita, in qualità di controinteressata, in altro giudizio amministrativo pendente dinanzi alla medesima autorità giudiziaria rimettente che ha sospeso il processo in attesa della pregiudiziale soluzione della presente questione di costituzionalità Nel merito la parte privata conclude per l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale sollevata dal TAR della Lombardia. 4.– In data 12 aprile 2010 si è costituita la parte del giudizio principale Oviesse S.p.a. concludendo per l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale sollevata dal TAR della Lombardia. 5.– In data 1° giugno 2010 la difesa della Regione Lombardia ha depositato una memoria con la quale ha ribadito le proprie argomentazioni, insistendo per la declaratoria di inammissibilità o di infondatezza delle questioni di costituzionalità sollevata dal TAR Lombardia. 6.– In data 1° giugno 2010 la difesa della parte interveniente – s.r.l. Iniziativa Tredici – ha depositato una memoria con la quale ha ribadito le proprie argomentazioni a sostegno della legittimazione ad intervenire nel giudizio e ha insistito per l’accoglimento della questione di costituzionalità in esame. Considerato in diritto 1.– Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia ha sollevato – con riferimento all’art. 117, primo e secondo comma, lettera e), della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, commi 5 e 9, della legge della Regione Lombardia 3 aprile 2000, n. 22 (Disciplina delle vendite straordinarie e disposizioni in materia di orari degli esercizi commerciali), nella parte in cui, rispettivamente, il comma 5 prevede che: «Gli esercizi commerciali di vendita al dettaglio in sede fissa, nel corso dell’anno solare e nel rispetto dei limiti di cui ai commi 2, 3 e 11, possono restare aperti al pubblico: a) nella prima domenica dei mesi da gennaio a novembre; b) nell’ultima domenica di uno dei mesi di maggio, agosto o novembre; c) nelle giornate domenicali e festive del mese di dicembre; d) in altre cinque giornate domenicali e festive scelte dai comuni in relazione alle esigenze locali» e, i l comma 9, che: «Nel rispetto dei limiti di cui ai commi 2, 3 e 11 l’apertura al pubblico nelle giornate domenicali e festive è consentita, con riferimento all’intero anno solare, agli esercizi commerciali di vendita al dettaglio in sede fissa aventi superficie di vendita fino a 250 metri quadrati». Le norme oggetto di censura, secondo il Tribunale rimettente, inciderebbero sull’assetto concorrenziale all’interno del mercato regionale ponendo limiti ulteriori rispetto a quelli previsti dal legislatore statale con il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio), con ciò violando la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela della concorrenza di cui all’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. Inoltre, le stesse, introducendo una disciplina differenziata collegata alla diversa superficie di vendita all’interno del medesimo mercato rilevante, sarebbero in contrasto con il principio di proporzionalità di cui all’art. 5, comma 3, del Trattato UE e, di conseguenza, con l’art. 117, primo comma, Cost. 2.– In via preliminare, deve dichiararsi l’inammissibilità di entrambi gli interventi delle parti private. 2.1.– L’intervento della società Oviesse è tardivo, essendo trascorso il termine di venti giorni per intervenire nel giudizio decorrente dalla pubblicazione dell’ordinanza sulla Gazzetta Ufficiale previsto dall’art. 25 della legge 11 marzo 1953, n. 87, e dall’art. 3 delle norme integrative: la pubblicazione dell’ordinanza è del 17 marzo 2010 mentre la Oviesse s.r.l. si è costituita in data 12 aprile 2010, quindi ben oltre il termine ultimo del 6 aprile 2010. 2.2.– Quanto all’intervento della società Iniziativa Tredici, deve ribadirsi che «nel giudizio di legittimità costituzionale in via incidentale non sono ammissibili interventi di soggetti che non siano parti nel giudizio a quo, né siano titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto ed immediato al rapporto sostanziale dedotto in causa e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura, avuto altresì riguardo al rilievo che l’ammissibilità dell’intervento ad opera di un terzo, titolare di un interesse soltanto analogo a quello dedotto nel giudizio principale, contrasterebbe con il carattere incidentale del detto giudizio di legittimità » (sentenza n. 138 del 2010). L’inammissibilità dell’intervento non viene meno in forza della pendenza di un procedimento analogo a quello principale, eventualmente sospeso in via di fatto nell’attesa della pronuncia di questa Corte, posto che la contraria soluzione risulterebbe elusiva del carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, implicando l’accesso delle parti prima che, nell’ambito della relativa controversia, sia stata verificata la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione. Tale considerazione resta valida anche se, nel diverso giudizio, sia già stata prospettata, e non ancora delibata dal giudice procedente, una questione di legittimità asseritamente analoga a quella in considerazione (ordinanza allegata alla sentenza n. 245 del 2007). 3.– Sempre in via preliminare, devono essere respinte le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla difesa della Regione Lombardia. 3.1.– Una prima eccezione attiene alla carenza di motivazione sulla non manifesta infondatezza in quanto, secondo la parte resistente, il rimettente non avrebbe tenuto conto del fatto che una delle norme censurate, dopo l’emanazione del provvedimento del Sindaco del Comune di Curno, è stata modificata. L’eccezione non è fondata. Il rimettente, pur non citando espressamente la modifica di cui all’art. 2 della legge regionale del 29 giugno 2009, n. 9 (Modifica a leggi regionali e altre disposizioni in materia di attività commerciali), che ha sostituito alla lettera b) del comma 5 dell’art. 5-bis della legge regionale n. 22 del 2000 le parole «dei mesi di maggio, agosto e» con le parole «di uno dei mesi di maggio, agosto o»; e alla lettera d) del medesimo comma 5 la parola «tre» con la parola «cinque», ne tiene conto tanto che, come afferma la stessa difesa della Regione Lombardia, fa esclusivo riferimento al testo della norma attualmente vigente. Il rimettente, quindi, riporta la precedente formulazione della legge regionale quando riepiloga il contenuto delle doglianze della ricorrente, ma sviluppa le sue argomentazioni basandosi sul nuovo testo, ritenendo che esso non modifichi i termini della questione. Va precisato, infine, che la legge n. 22 del 2000 è stata interamente abrogata dall’art. 155 della legge regionale 2 febbraio 2010, n. 6 (Testo unico delle leggi regionali in materia di commercio e fiere), ma che le norme in esame sono state interamente riprodotte dall’art. 103 del citato testo unico. 3.2.– La Regione eccepisce anche il difetto di rilevanza della questione relativa al comma 9 dell’art. 5-bis della legge n. 22 del 2000 perché, a suo parere, il Giudice non deve fare applicazione della norma che si riferisce esclusivamente agli esercizi di vendita con superficie inferiore ai 250 metri quadrati, mentre la società ricorrente ha una superficie di vendita di circa 1500 metri quadrati. Inoltre, secondo la difesa regionale, sarebbe inammissibile la richiesta di estendere anche agli esercizi commerciali di maggiori dimensioni la deroga generalizzata al divieto di apertura domenicale e festiva, prevista per gli esercizi commerciali di vendita al dettaglio in sede fissa aventi superficie di vendita fino a 250 metri quadrati, in quanto, secondo la giurisprudenza costituzionale, «quando si adotti come tertium comparationis la norma derogatrice, la funzione del giudizio di legittimità costituzionale non può essere se non il ripristino della disciplina generale, ingiustificatamente derogata da quella particolare, non l’estensione ad altri casi di quest’ultima» (sentenze n. 96 del 2008, n. 298 del 1994 e n. 383 del 1992). Anche tale eccezione non è fondata. Il rimettente, infatti, evoca come parametro l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost. e ritiene che le norme censurate incidano nella materia della concorrenza proprio per il fatto che l’ampia deroga all’obbligo di chiusura domenicale e festiva introdotta dal comma 9 dell’art. 5-bis della legge regionale n. 22 del 2000 sia limitata ai soli esercizi commerciali con superficie inferiore ai 250 metri quadrati mentre, per gli esercizi commerciali con una superficie superiore, il comma 5 del medesimo articolo, prevede una deroga più ristretta. La questione da lui posta va, quindi, affrontata nel merito per valutarne la fondatezza. 4.– Deve essere, invece, dichiarata inammissibile la questione relativa alla violazione da parte delle norme oggetto del giudizio del principio di proporzionalità di cui all’art. 5, comma 3, del Trattato UE e, dell’art. 117, primo comma, della Costituzione, in quanto il rimettente si limita a citare genericamente la violazione del principio di proporzionalità senza tuttavia spiegare dettagliatamente i motivi per i quali tale violazione si sarebbe determinata, con il risultato che la censura è formulata in modo generico ed apodittico (ex plurimis, sentenza n. 80 del 2010, ordinanza n. 344 del 2008). La motivazione fornita dal rimettente è carente anche sotto il profilo della mancata indicazione dei motivi che osterebbero alla disapplicazione del diritto interno in contrasto con il diritto dell’Unione europea. Infatti, nei giudizi di costituzionalità in via incidentale è possibile invocare la violazione del diritto comunitario solo nell’ipotesi in cui lo stesso non sia immediatamente applicabile, altrimenti, secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, verrebbe meno la rilevanza della questione (ex plurimis sentenze n. 227 del 2010, n. 125 del 2009 e n. 284 del 2007; ordinanze n. 415 del 2008 e n. 454 del 2006). Infatti «nel sistema dei rapporti tra ordinamento interno e ordinamento comunitario, quale risulta dalla giurisprudenza di questa Corte, consolidatasi, in forza dell’art. 11 della Costituzione, soprattutto a partire dalla sentenza n. 170 del 1984, le norme comunitarie provviste di efficacia diretta precludono al giudice comune l'applicazione di contrastanti disposizioni del diritto interno, quando egli non abbia dubbi – […] – in ordine all'esistenza del conflitto. La non applicazione deve essere evitata solo quando venga in rilievo il limite, sindacabile unicamente da questa Corte, del rispetto dei principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e dei diritti inalienabili della persona» (sentenza n. 284 del 2007 e ordinanza n. 454 del 2006 ivi citata). 5.– Resta da esaminare la questione relativa alla violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione. Secondo la prospettazione del rimettente, le norme censurate, aventi ad oggetto la disciplina della chiusura domenicale e festiva degli esercizi commerciali, devono essere inquadrate nell’ambito della materia «tutela della concorrenza», di competenza esclusiva dello Stato, e non in quello della materia «commercio», di competenza residuale delle Regioni, né tali disposizioni potrebbero essere ritenute norme dettate dalla Regione, nell’ambito delle sue competenze legislative, le quali avrebbero l’effetto marginale ed indiretto di ampliare l’area della concorrenza. 5.1.– La questione non è fondata. Il TAR lombardo, come prima argomentazione, ritiene che il legislatore statale abbia introdotto, con il d.lgs. n. 114 del 1998, una disciplina degli orari degli esercizi commerciali che, avendo come fine «l’apertura del settore al mercato e alla concorrenza», non può essere derogata da una disciplina regionale più restrittiva. Al riguardo, con specifico riferimento al d.lgs. n. 114 del 1998, questa Corte ha affermato che: «a seguito della modifica del Titolo V della Parte II della Costituzione, la materia “commercio” rientra nella competenza esclusiva residuale delle Regioni, ai sensi del quarto comma dell’art. 117 Cost.; […] pertanto, il decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 (Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell’art. 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), di cui il giudice rimettente lamenta la violazione, si applica, ai sensi dell’art. 1, comma 2, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), soltanto alle Regioni che non abbiano emanato una propria legislazione nella suddetta materia, mentre la Regione Lombardia ha già provveduto a disciplinare in modo autonomo la materia stess a» (ordinanza n. 199 del 2006). In altra occasione si è poi avuto modo di precisare che la disciplina degli orari degli esercizi commerciali rientra nella materia «commercio» di cui all’art. 117, quarto comma, Cost. (sentenza n. 350 del 2008). Del resto l’art. 3, comma 1, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, nel dettare le regole di tutela della concorrenza nel settore della distribuzione commerciale – al fine di garantire condizioni di pari opportunità ed il corretto ed uniforme funzionamento del mercato, nonché di assicurare ai consumatori finali un livello minimo ed uniforme di condizioni di accessibilità all’acquisto di prodotti e servizi sul territorio nazionale 211; non ricomprende la disciplina degli orari e della chiusura domenicale o festiva nell’elenco degli ambiti normativi per i quali espressamente esclude che lo svolgimento di attività commerciali possa incontrare limiti e prescrizioni. Si tratta, quindi, di valutare se la normativa regionale, nel contenuto, determini un vulnus alla tutela della concorrenza, peraltro tenendo presente che è stata riconosciuta la possibilità, per le Regioni, nell’esercizio della potestà legislativa nei loro settori di competenza, di dettare norme pro-concorrenziali (sentenze n. 431 e n. 430 del 2007). In particolare, si è ritenuto che «poiché la promozione della concorrenza ha una portata generale, o “trasversale”, può accadere che una misura che faccia parte di una regolamentazione stabilita dalle Regioni nelle materie attribuite alla loro competenza legislativa, concorrente o residuale, a sua volta abbia marginalmente una valenza pro-competitiva. Ciò deve ritenersi ammissibile, al fine di non vanificare le competenze regionali, sempre che tali effetti siano marginali o indiretti e non siano in contrasto con gli obiettivi delle norme statali che disciplinano il mercato, tutelano e promuovono la concorrenza» (sentenza n. 430 del 2007). Nel caso di specie, la normativa regionale sull’apertura domenicale e festiva degli esercizi commerciali per la vendita al dettaglio non si pone in contrasto con il d.lgs. n. 114 del 1998, e in particolare con l’art. 11, citato dal rimettente, in quanto introduce una disciplina di settore di sostanziale liberalizzazione che, in conformità con quella statale, prende in considerazione una serie di parametri, quali il settore merceologico di appartenenza, la dimensione dell’esercizio commerciale e gli effetti sull’occupazione. L’art. 11 del d.lgs. n. 114 del 1998 prevede, infatti, al comma 4 che: «Gli esercizi di vendita al dettaglio osservano la chiusura domenicale e festiva dell’esercizio e, nei casi stabiliti dai comuni, sentite le organizzazioni di cui al comma 1, la mezza giornata di chiusura infrasettimanale». Il successivo comma 5 introduce la seguente deroga: «Il comune, sentite le organizzazioni di cui al comma 1, individua i giorni e le zone del territorio nei quali gli esercenti possono derogare all’obbligo di chiusura domenicale e festiva. Detti giorni comprendono comunque quelli del mese di dicembre, nonché ulteriori otto domeniche o festività nel corso degli altri mesi dell’anno». A fronte della previsione statale che pone nella discrezionalità del Comune la possibilità di apertura per otto domeniche o altre festività nei mesi da gennaio a novembre, oltre che a tutto il mese di dicembre, la legge regionale n. 22 del 2000, all’art. 5-bis, comma 5, ha, invece, previsto la possibilità – non soggetta nell’an alla discrezionalità del Comune – di apertura domenicale nella prima domenica dei mesi da gennaio a novembre e nell’ultima domenica di uno dei mesi di maggio, agosto o novembre, e in altre cinque giornate domenicali e festive scelte dai Comuni in relazione alle esigenze locali, oltre che per tutto il mese di dicembre. Il comma 9 dell’art. 5-bis della legge regionale citata prevede, addirittura, un esonero quasi integrale dal rispetto della chiusura domenicale e festiva per gli esercizi commerciali di superficie inferiore ai 250 metri quadrati. Risulta, dunque, errata la ricostruzione del rimettente secondo la quale la legislazione regionale avrebbe introdotto ulteriori e inammissibili limiti all’apertura domenicale e festiva rispetto a quelli previsti dal legislatore statale con il d.lgs. 114 del 1998. Inoltre, dalla lettura della legge regionale emerge, con riferimento alla dedotta limitazione del potere discrezionale dei Comuni presenti nel territorio regionale di valutare discrezionalmente l’opportunità di consentire l’apertura domenicale e festiva degli esercizi commerciali, che le limitazioni introdotte dal legislatore regionale, peraltro con valenza pro-concorrenziale, si risolvono rispetto a quanto prevede la norma statale nell’aver predeterminato la possibilità di apertura domenicale e festiva nella prima domenica dei mesi da gennaio a novembre, lasciando comunque ai Comuni la scelta di individuare, in relazione alle esigenze locali, altre cinque giornate domenicali e festive e nella deroga generalizzata per i piccoli esercizi di vicinato. In conclusione, la Regione Lombardia con le norme impugnate ha esercitato la propria competenza in materia di commercio dettando una normativa che, non ponendosi in contrasto con gli obiettivi delle norme statali che disciplinano il mercato, tutelano e promuovono la concorrenza, produce effetti pro-concorrenziali, sia pure in via marginale e indiretta, in quanto evita che vi possano essere distorsioni determinate da orari di apertura significativamente diversificati, in ambito regionale, nei confronti di esercizi commerciali omogenei. Neppure è valida la tesi del rimettente secondo la quale la differenziazione, nell’ambito del medesimo mercato rilevante, tra esercizi commerciali con superficie di vendita sotto i 250 metri quadrati e quelli invece con superficie più ampia, sarebbe prova della lesività delle norme censurate per il loro contrasto con la normativa statale in materia di «tutela della concorrenza» che non prevede siffatta differenziazione. In primo luogo, va osservato che è contraddittorio affermare che è lesivo del principio della libera concorrenza limitare ai soli esercizi commerciali con superficie inferiore ai 250 metri quadrati la deroga all’obbligo di chiusura domenicale e festiva, sì che viene chiesta l’estensione della deroga a tutti gli esercizi commerciali, quale che ne sia l’estensione, e poi sostenere l’illegittimità costituzionale proprio della specifica disposizione su cui si fonda la precedente argomentazione. Va, poi, detto che questa Corte ha già riconosciuto la legittimità di leggi regionali che operano delle differenziazioni, anche con specifico riferimento alla dimensione dell’attività dell’esercente commerciale, al fine di tutelare la piccola e media impresa. In particolare si è ritenuto legittimo tutelare (sia pure con riferimento a censure relative agli artt. 3 e 41 Cost.) «l’esigenza di interesse generale – peraltro espressamente richiamata dal citato art. 6, comma 1, lettera f), del d.lgs. n. 114 del 1998 – di riconoscimento e valorizzazione del ruolo delle piccole e medie imprese già operanti sul territorio regionale» (sentenza n. 64 del 2007). Infine, una volta stabilito che la disciplina degli orari degli esercizi commerciali è ascrivibile alla materia «commercio» di cui all’art. 117, quarto comma, Cost., non risulta di per sé lesiva di parametri costituzionali la scelta del legislatore regionale di regolamentare il settore operando delle differenziazioni non solo in relazione alla dimensione dell’esercizio commerciale ma anche, come si è detto, tenendo conto di altri fattori tra i quali il settore merceologico di appartenenza e gli effetti sull’occupazione. D’altra parte, deve sottolinearsi che lo stesso decreto legislativo n. 114 del 1998 opera una distinzione tra piccole, medie e grandi strutture di vendita. L’art. 4 dispone infatti che devono intendersi: «d) per esercizi di vicinato quelli aventi superficie di vendita non superiore a 150 mq. nei comuni con popolazione residente inferiore a 10.000 abitanti e a 250 mq. nei comuni con popolazione residente superiore a 10.000 abitanti; e) per medie strutture di vendita gli esercizi aventi superficie superiore ai limiti di cui al punto d) e fino a 1.500 mq nei comuni con popolazione residente inferiore a 10.000 abitanti e a 2.500 mq. nei comuni con popolazione residente superiore a 10.000 abitanti; f) per grandi strutture di vendita gli esercizi aventi superficie superiore ai limiti di cui al punto e)». Per ognuna di queste tipologie di esercizi commerciali segue poi una differente disciplina sotto molteplici aspetti, primo fra tutti quello relativo al le modalità di autorizzazione allo svolgimento dell’attività. Anche sotto questo profilo, dunque, la legislazione regionale, che ne riprende le definizioni, non si pone in contrasto con la legislazione statale dato che anche quest’ultima differenzia la disciplina delle strutture di vendita sin dall’inizio dell’attività di impresa, cioè in quella ancor più delicata fase autorizzatoria che corrisponde all’ingresso sul mercato. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, commi 5 e 9, della legge della Regione Lombardia 3 aprile 2000, n. 22 (Disciplina delle vendite straordinarie e disposizioni in materia di orari degli esercizi commerciali), sollevata dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, in riferimento all’art. 117, primo comma, della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5-bis, commi 5 e 9, della stessa legge della Regione Lombardia n. 22 del 2000 sollevata dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe; Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, palazzo della Consulta, il 4 ottobre 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'8 ottobre 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA SENTENZA N. 289 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge della Regione Abruzzo 5 aprile 2007, n. 6 (Linee guida per la redazione del piano sanitario 2007/2009 – Un sistema di garanzie per la salute – Piano di riordino della rete ospedaliera), nonché del punto 5 dell’allegato “Piano di riordino posti letto ospedalieri”, promossi dal Tribunale amministrativo regionale dell’Abruzzo con ordinanze del 30 ottobre e del 13 novembre 2008, iscritte ai nn. 89 e 90 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 13, prima serie speciale, dell’anno 2009. Visti gli atti di costituzione dell’INI s.r.l. Istituto Neurotraumatologico Italiano e della Casa di Cura Villa Pini d’Abruzzo s.r.l. ed altre nonchè gli atti di intervento della Casa di Cura privata Pierangeli s.r.l., della Casa di Cura privata Villa Letizia s.r.l., della Casa di Cura privata Villa Serena s.r.l. e della Casa di Cura privata Dr. G. Spatocco s.r.l.; udito nell’udienza pubblica del 6 luglio 2010 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano; uditi gli avvocati Tommaso Marchese per le parti intervenienti e Sabatino Ciprietti per le parti costituitesi. Ritenuto in fatto 1.– Con due ordinanze, di identico tenore, depositate rispettivamente il 30 ottobre ed il 13 novembre 2008, il Tribunale amministrativo regionale dell’Abruzzo, nel corso di altrettanti giudizi aventi ciascuno ad oggetto la impugnazione di una deliberazione assunta dalla locale Giunta regionale in merito al piano di risanamento del sistema sanitario regionale per gli anni dal 2007 al 2009 e alla definizione del relativo tetto di spesa per l’anno 2008, nonché della presupposta deliberazione con la quale la medesima Giunta aveva definito, riducendolo, il numero dei posti letto assegnati alla spedalità privata convenzionata, ha sollevato, con riferimento agli artt. 3, 24, 41, 42, 43, 97, 113 e 117 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge regionale dell’Abruzzo 5 aprile 2007, n. 6 (Linee guida per la redazione del piano sanitario 2007/2009 – Un sistema di garan zie per la salute – Piano di riordino della rete ospedaliera), nonché del punto 5 dell’allegato “Piano di riordino posti letto ospedalieri”. 1.1.– Riferisce il TAR che la riduzione dei posti letto assegnati alle case di cura ricorrenti nei giudizi a quibus consegue alla più ampia diminuzione del complessivo numero dei posti letto riferibili alla sanità regionale secondo quanto previsto dalla legge regionale n. 6 del 2007 e dall’allegato Piano di riordino della spesa ospedaliera, oggetto di accordo fra la Regione Abruzzo e lo Stato, nel quadro di un piano volto al perseguimento dell’equilibrio economico. Tanto premesso, il rimettente osserva che la legge regionale oggetto della questione di legittimità costituzionale presenta i caratteri della legge-provvedimento, in particolare nella parte in cui, all’art. 1, comma 2, contiene l’approvazione dell’allegato “Piano di riordino dei posti letto ospedalieri”. Precisa, infatti, il giudice amministrativo che il comma 10 del paragarafo 5.1 del ricordato allegato, stabilisce, quale criterio guida, l’abbattimento sino al 30% dei posti letto di riabilitazione; del 15% di quelli per la lungodegenza e sino ad un massimo del 30% di quelli destinati ai degenti in fase acuta. Ritiene, quindi, il rimettente che in tal modo la legge regionale, non limitandosi a dettare precetti di carattere generale ed astratto, andrebbe ad incidere direttamente sugli interessi delle parti ricorrenti e sulle loro strutture imprenditoriali, determinando, fra l’altro, la riduzione dei “tetti di spesa” disponibili. Aggiunge il giudice a quo che non è in discussione la possibilità per il legislatore regionale di pianificare con atti normativi le risorse da destinare alla spesa sanitaria, ma lo è il grado di sindacabilità dell’operato della pubblica Amministrazione ove essa eserciti un potere amministrativo tramite l’adozione di strumenti legislativi. Infatti, stante la mancanza di un sindacato diffuso sulla costituzionalità delle leggi, il cittadino può solamente sollecitare, previa la verifica da parte dell’autorità giudiziaria della sua rilevanza nell’ambito di un ordinario giudizio e della non manifesta infondatezza, un incidente di costituzionalità avente ad oggetto la legge-provvedimento. 1.2.– Con riferimento, appunto, alla rilevanza della questione nei giudizi a quibus il rimettente osserva che essa deriva direttamente dal fatto che la legittimità o meno dell’atto amministrativo impugnato è condizionata dall’esito della questione di legittimità costituzionale. 1.3.– Riguardo alla non manifesta infondatezza il rimettente: quanto alla violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione, nonché dell’art. 117 della Costituzione – quest’ultimo evocato con riferimento «ai principi fondamentali stabiliti dalla legislazione dello stato per la ridefinizione dei posti letto» – ferma la natura provvedimentale della legge censurata, ritiene che questa non ha come effetto la complessiva riduzione della spesa sanitaria, così «come imposta, in via di indirizzo,» sia dal decreto-legge18 settembre 2001, n. 347 (Interventi urgenti in materia di spesa sanitaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 16 novembre 2001, n. 405, sia dall’art. 2, comma 5, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), oltre che dalla stessa legge regionale dell’Abruzzo n. 6 del 2007. Infatti, prevedendo le citate disposizioni che la riorganizzazione del piano ospedaliero concerna la sola spedalità pubblica, la riduzio ne dei posti letto frutto delle disposizioni censurate, non corrispondendo a tale previsione, si pone in contrasto con esse; quanto alla violazione degli artt. 41, 42 e 43 della Costituzione, osserva che le disposizioni impugnate comprimono la libertà di iniziativa economica privata, impedendo che questa, a causa della riduzione dei posti letto, si possa esprimere secondo logiche di mercato e determinando, stante «la complessiva riduzione dell’attività», un effetto espropriativo in assenza di qualsivoglia indennizzo; quanto alla violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione, infine, afferma che il piano di riorganizzazione conduce, in maniera ingiustificata, «all’aumento dei posti letto nella spedalità pubblica e alla riduzione in quella privata», con una immotivata diversa incidenza dei tagli relativamente alle singole strutture, sia pubbliche che private. 2.– Si sono costituite in giudizio, ognuna in relazione alla ordinanza di rimessione scaturita dal giudizio in cui esse sono ricorrenti, la INI s.r.l. Istituto Neurotraumatologico Italiano, la Casa di Cura Villa Pini d’Abruzzo s.r.l., la Santa Maria s.r.l. e la Sanatrix s.r.l., svolgendo argomenti difensivi fra loro coincidenti. Esse, in particolare, riferiscono quanto già da ciascuna dedotto in sede di ricorso di fronte al TAR rimettente, illustrando le eccezioni di illegittimità costituzionale ivi segnalate. Dato atto della avvenuta proposizione della questione di costituzionalità da parte del rimettente, le parti private ribadiscono puntualmente le motivazioni delle ordinanze di rimessione. 3.– Con separati – ancorché identici – atti sono, altresì, intervenute in giudizio, ciascuna in ambedue i giudizi di legittimità costituzionale, la s.r.l. Villa Serena, la s.r.l. Dr. G. Spatocco, la s.r.l. Villa Letizia e la s.r.l. Pierangeli. Le parti intervenienti, assumendo di essere case di cura private provvisoriamente accreditate con il servizio sanitario pubblico, affermano di essere «attinte dalle disposizioni legislative […] sospettate di incostituzionalità» avendo subito anch’esse una riduzione dei posti letto in convenzione. Da ciò fanno discendere la sussistenza di «un chiaro e qualificato interesse a partecipare al presente giudizio di legittimità costituzionale, in quanto l’auspicata declaratoria di incostituzionalità» delle disposizioni censurate, porrebbe nel nulla anche la riduzione dei posti letto da loro subita. Sulla base di tale rilievo, rivendicano la ammissibilità del loro intervento, sebbene non siano parti dei giudizi a quibus. 4.– Analoghi argomenti sono contenuti nelle memorie illustrative depositate dalla parti intervenienti, peraltro oltre il termine di 20 giorni liberi prima della data fissata per la trattazione della questione in udienza pubblica. Considerato in diritto 1.– Il Tribunale amministrativo regionale dell’Abruzzo, con due ordinanze aventi identico tenore, emesse nel corso di altrettanti giudizi, dubita, con riferimento agli artt. 3, 24, 41, 42, 43, 97, 113 e 117 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge della Regione Abruzzo 5 aprile 2007, n. 6 (Linee guida per la redazione del piano sanitario 2007/2009 – Un sistema di garanzie per la salute – Piano di riordino della rete ospedaliera), nonché del punto 5 dell’allegato “Piano di riordino posti letto ospedalieri”. 1.1.– Con la prima di tali disposizioni, la Regione ha provveduto ad approvare, in attuazione di altra, precedente, norma di legge regionale, il “Piano di riordino dei posti letto ospedalieri” il quale, al punto 5, come detto oggetto anch’esso di impugnazione, prevede, a sua volta, la determinazione dei posti letto fruibili, nella Regione, presso le strutture sanitarie pubbliche e private accreditate. In relazione a questa decisione, la ridefinizione dei posti letto in dotazione della spedalità privata accreditata presso il Servizio sanitario prevede i seguenti criteri, enunciati al comma 10 del paragrafo 1 del predetto punto 5 (che parrebbe essere, pertanto, la specifica disposizione oggetto del dubbio di legittimità costituzionale): abbattimento sino ad un massimo del 30% «per i posti letto di riabilitazione»; «un ulteriore abbattimento pari al 15% della dotazione complessiva dei PL di lungodegenza» ed, infine, l’abba ttimento sino ad un massimo del 30% dei «posti letto per acuti». 1.2.– Riscontrata la natura provvedimentale delle predette disposizioni, il rimettente dubita della legittimità costituzionale delle medesime sotto diversi profili. Afferma, infatti, il TAR dell’Abruzzo che esse sarebbero in contrasto: con gli artt. 24 e 113 della Costituzione in quanto, stante la riferita natura di legge provvedimento, la legge regionale n. 6 del 2007 impone ai destinatari dei suoi effetti non la impugnazione di un atto amministrativo ma quella, mediata attraverso l’incidente di legittimità costituzionale, della legge stessa; con l’art. 117 della Costituzione poiché, determinando la riduzione dei posti letto accreditati presso la spedalità privata, senza contribuire alla riduzione della complessiva spesa sanitaria, violerebbero i principi statali in materia, in base ai quali la «riorganizzazione del piano ospedaliero riguarda la sola spedalità pubblica»; con gli artt. 41, 42 e 43 della Costitu zione poiché, a causa della predetta riduzione dei posti letto accreditati presso la spedalità privata, impedirebbe il libero esplicarsi della iniziativa economica privata secondo le logiche del mercato, imponendo, anzi, ad essa dei limiti di contenuto espropriativo in assenza di indennizzo; con gli artt. 3 e 97 della Costituzione, essendo esse viziate da eccesso di potere per ingiustizia ed irrazionalità manifeste in quanto determinerebbero la riduzione dei posti letto fruibili presso la spedalità privata in favore di quelli ascrivibili a quella pubblica, senza che siano chiariti i criteri che giustificano le scelte assunte relativamente alle singole strutture sanitarie. 2.– Disposta la riunione dei giudizi, attesa l’evidente opportunità che gli stessi, stante la uniformità delle questioni in ciascuno di essi in discussione, siano unitariamente decisi, deve, preliminarmente, essere ribadito il contenuto della ordinanza dibattimentale n. 134, pronunziata in data 6 luglio 2010, nel senso della inammissibilità dell’intervento nei giudizi incidentali di costituzionalità delle leggi e degli altri atti avente forza di legge di soggetti che non siano parti nei giudizi a quibus. 3.– La questione sollevata dal TAR dell’Abruzzo è inammissibile, riguardo all’art. 43 Cost., non fondata, riguardo agli altri. 3.1.– Ferma la indiscussa natura provvedimentale delle disposizioni censurate, rileva questa Corte, relativamente alla pretesa violazione degli artt. 24 e 113 della Costituzione, come più volta essa, chiamata a scrutinare la legittimità costituzionale di disposizioni normative aventi un contenuto non generale ed astratto ma concreto e particolare, abbia affermato che non è preclusa alla legge ordinaria, né a quella di fonte regionale, la possibilità di attrarre nella propria sfera di disciplina oggetti o materie normalmente affidati alla autorità amministrativa (sentenza n. 267 del 2007); né ciò determina un vulnus al diritto di difesa del cittadino riguardo agli effetti provvedimentali dell’atto normativo, posto che la posizione soggettiva di questo troverà la sua adeguata tutela, ovviamente non sul piano della giurisdizione amministrativa ma, tramite questa, su quello, proprio della tipologia dellR 17;atto in ipotesi lesivo, della giurisdizione costituzionale. Ripetutamente, infatti, questa Corte ha affermato che la legittimità delle leggi provvedimento deve essere valutata in relazione al loro specifico contenuto; esse, in specie, proprio in relazione al pericolo di ingiustificate disparità di trattamento che è insito nella adozione di disposizioni legislative di tipo particolare, sono soggette ad un controllo stretto di costituzionalità, essenzialmente sotto i profili della non arbitrarietà e della ragionevolezza, in tal modo garantendo i soggetti interessati dagli effetti dell’atto, il cui scrutinio sarà tanto più stringente quanto più marcati sono i profili provvedimentali caratteristici della legge soggetta al controllo (così, ex plurimis, sentenze n. 241 del 2008 e n. 267 del 2007). Peraltro, si tratta di considerazioni fatte proprie dal rimettente che, contraddittoriamente, non trae da esse la conseguenza che l’uso dello strumento legislativo per l’adozione di misure di natura provvedimentale non costituisce, di per sé, violazione degli invocati parametri costituzionali. Le censure, con riferimento ai suddetti articoli 24 e 113 della Costituzione, non sono, quindi, fondate. 3.2.– Per ciò che concerne la asserita violazione dell’art. 117 della Costituzione, deve, prima d’ogni altra considerazione, interpretarsi la laconica ordinanza di rimessione specificando l’ambito di riferimento del parametro costituzionale evocato, che è costituito dal terzo comma della detta disposizione. Più in particolare, dato che si afferma, che «la riorganizzazione del piano ospedaliero riguarda la sola spedalità pubblica» e che «la riduzione dei posti letto […] non risponde, dunque, ad alcuna logica di riduzione della spesa», il riferimento deve ritenersi rivolto alla parte in cui detto terzo comma assegna alle legislazioni concorrenti di Stato e Regioni le materie della «tutela della salute» e del «coordinamento della finanza pubblica». All’interno di tali disposizioni va a collocarsi sia la disciplina che è volta alla ridefinizione del numero dei posti letto fruibili nelle strutture di ric overo e cura accreditate col servizio sanitario, sia quella che pone quale vincolo alla potestà legislativa delle Regioni il rispetto dei principi fondamentali fissati nella legislazione statale. 3.2.1.– Ciò detto, rileva questa Corte che il rimettente ha indicato in maniera generica ed erronea i principi fondamentali in base ai quali l’esigenza di «complessiva riduzione della spesa sanitaria» dovrebbe essere soddisfatta, per ciò che concerne la «riorganizzazione del piano ospedaliero», incidendo esclusivamente su «la sola spedalità pubblica». Non solo il dedotto principio generale viene indicato dal rimettente genericamente nell’art. 3 del decreto-legge 18 settembre 2001, n. 347 (Interventi urgenti in materia di spesa sanitaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 16 novembre 2001, n. 405, e nell’art. 2, comma 5, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), senza in alcun modo chiarire in che termini esso sarebbe stato espresso dal legislatore statale, ma viene erroneamente ed immotivatamente esclusa dai limiti operativi della ristrutturazione della rete ospedaliera di cui al comma 4 del suddetto art. 3 del decreto-legge n. 347 del 2001 la spesa della spedalità privata in regime di accreditamento, posto che anche i costi di questa, così come di quella pubblica, gravano sul servizio sanitario. Non a caso, infatti, in sede di intesa, intervenuta in data 23 marzo 2005, ai sensi dell’art. 8, comma 6, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), in attuazione dell’art. 1, comma 173, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, fra Stato e Regioni, queste ultime si sono impegnate ad intervenire con provvedimenti che prevedano un determinato standard di posti letto anche presso le strutture sanitarie accreditate a carico del servizio sanitario regionale. 3.2.2.– Non risultando, pertanto, il dedotto contrasto con principi fondamentali rinvenibili nella legislazione statale, la adombrata violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione deve ritenersi non fondata. 3.3.– Il rimettente deduce, altresì, il contrasto fra le disposizioni oggetto di censura e gli artt. 41, 42 e 43 della Costituzione affermando, per un verso, la illegittima compressione della libertà di iniziativa economica e, per altro verso, che siffatta compressione avrebbe una valenza sostanzialmente espropriativa in assenza di qualsivoglia forma di indennizzo. 3.3.1.– Quanto ai parametri evocati la censura è inammissibile con riferimento all’art. 43 Cost., non fondata con riferimento agli artt. 41 e 42 Cost. 3.3.2.– In particolare è inammissibile per incongruità del parametro evocato la censura articolata sulla base della asserita violazione dell’art. 43 della Costituzione. Siffatta disposizione ha, infatti, ad oggetto un fenomeno del tutto diverso da quello che concerneva la normativa impugnata, riguardando, infatti, l’eventuale ipotesi in cui, a fini generali e tramite strumenti legislativi, è riservato, ovvero è trasferito, allo Stato, ad altri enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti, l’esercizio di determinate attività imprenditoriali laddove riferite a specifici settori strategici della vita economica e sociale del Paese. Di tutta evidenza è l’estraneità a siffatta problematica della disciplina della determinazione del numero dei posti letto accreditabili presso il servizio sanitario nelle strutture sanitarie private. 3.3.3.– Quanto alla pretesa violazione degli artt. 41 e 42 della Costituzione, la questione è priva di fondamento. Riguardo alla asserita violazione della libertà di impresa, anche a voler prescindere dal fatto che lo stesso legislatore costituzionale ha opportunamente costruito tale libertà non come assoluta, ma l’ha subordinata al vincolo costituito dal mancato contrasto, fra l’altro, con l’utilità sociale, deve osservarsi che la disciplina in questione in realtà non comporta alcun vincolo alla iniziativa economica, in quanto non pone alcun limite quantitativo alla facoltà degli imprenditori privati di realizzare strutture sanitarie, in particolare riguardo al numero dei posti letto ivi installati. Essa si limita, in applicazione dell’ineludibile principio di autorganizzazione della pubblica Amministrazione, a determinare quale sia il numero dei posti letto che, in base al regime dell’accreditamento, sono a carico economico del servizio sanitario pubblico. Alla infondatezza della questione argomentata in relazione all’art. 41 della Costituzione consegue, in assenza di qualsivoglia meccanismo espropriativo, l’infondatezza anche di quella ipotizzata ai sensi dell’art. 42 della Costituzione. 3.4.– La questione non è, infine, fondata neppure là dove essa è parametrata agli artt. 3 e 97 della Costituzione. Nessuna irragionevolezza né alcun contrasto col principio di buon andamento della pubblica Amministrazione viene, infatti, a minare la disciplina censurata nella parte in cui, al già rilevato ed evidente scopo di contenere la spesa pubblica nel settore sanitario, realizza la rideterminazione del numero dei posti letto ospedalieri fruibili nella Regione Abruzzo. La circostanza che siffatto riordino comporti una diversa incidenza della diminuzione dei posti letto fra la spedalità pubblica e quella privata non costituisce motivo di manifesta irragionevolezza della disciplina, rientrando nella sfera di discrezionalità del legislatore regionale, nel rispetto delle esigenze di funzionalità degli essenziali servizi offerti – ora non in discussione –, la modulazione degli strumenti volti al contenimento della spesa pubblica nel predetto settore. Priva di irragionevolezza viene ad essere, nel caso di specie, la scelta adottata, ove si consideri, ad esempio, la più agevole possibilità di accesso a forme di economie di scala e la maggiore facilità del controllo che la pubblica Amministrazione incontra nel settore della sanità propriamente pubblica rispetto a quello della sanità privata accreditata. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 2, della legge della Regione Abruzzo 5 aprile 2007, n. 6 (Linee guida per la redazione del piano sanitario 2007/2009 – Un sistema di garanzie per la salute – Piano di riordino della rete ospedaliera), nonché del punto 5 dell’allegato “Piano di riordino posti letto ospedalieri”, sollevata dal Tribunale amministrativo regionale dell’Abruzzo, in relazione all’art. 43 della Costituzione, con le ordinanze indicate in epigrafe; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale delle medesime disposizioni, sollevata dal Tribunale amministrativo regionale dell’Abruzzo, in relazione agli art. 3, 24, 41, 42, 97 e 117, terzo comma, della Costituzione, con le stesse ordinanze. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 ottobre 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'8 ottobre 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA Allegato: Ordinanza letta all'udienza del 6 luglio 2010 ORDINANZA Rilevato che in ambedue i giudizi di legittimità costituzionale introdotti con le ordinanze del Tribunale amministrativo regionale dell'Abruzzo, portanti rispettivamente il n. 89 del 2009 ed il n. 90 del 2009, sono intervenute la Casa di cura Villa Serena s.r.l., la Casa di cura dott. G. Spatocco s.r.l., la Casa di cura Villa Letizia s.r.l. e la Casa di cura Pierangeli s.r.l., ciascuna in persona del suo legale rappresentante pro tempore, rappresentate e difese come in atti; rilevato, altresì, che nessuna delle elencate intervenienti era parte nei due giudizi a quibus, come, fra l'altro, si desume dalla stessa narrativa degli atti di intervento, là dove si afferma che le citate intervenienti hanno appreso della esistenza dei presenti giudizi di legittimità costituzionale solo a seguito della pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale della Repubblica, in data 1° aprile 2009, delle due ordinanze di rimessione, posto che, ove le stesse fossero state parti, ancorché non costituite, dei due giudizi a quibus, esse sarebbero state destinatarie della notificazione endoprocessuale delle due ordinanze medesime; considerato che, per costante giurisprudenza di questa Corte, ivi compresa la sentenza n. 190 del 2006 citata dagli intervenienti, sono ammessi ad intervenire nel giudizio incidentale di legittimità costituzionale le sole parti del giudizio principale; che tale principio, posto a salvaguardia della natura necessariamente incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, incontra una deroga nei soli casi in cui il giudizio medesimo incide direttamente sulle posizioni giuridiche soggettive di quanti hanno spiegato intervento e costoro non hanno la possibilità di difenderle come parti del processo di provenienza; che tale situazione non ricorre nel caso di specie. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibili gli interventi della Casa di cura Villa Serena s.r.l., della Casa di cura dott. G. Spatocco s.r.l., della Casa di cura Villa Letizia s.r.l. e della Casa di cura Pierangeli s.r.l. e dispone procedersi oltre. F.to: Francesco Amirante, Presidente SENTENZA N. 290 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 13, comma 7, della legge 27 marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto), come modificato dall’articolo 1-bis del decreto-legge 5 giugno 1993, n. 169 (Disposizioni urgenti per i lavoratori del settore dell’amianto), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 1993, n. 271, promosso dal Tribunale di Ravenna nel procedimento vertente tra G. D. N. e l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) con ordinanza dell’11 giugno 2009, iscritta al n. 275 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, prima serie speciale, dell’anno 2009. Visti gli atti di costituzione di G. D. N. e dell’INPS nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 6 luglio 2010 il Giudice relatore Paolo Grossi; uditi gli avvocati Michele Miscione e Gianni Casadio per G. D. N., Alessandro Riccio per l’INPS e l’avvocato dello Stato Francesco Lettera per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. – Con ordinanza dell’11 giugno 2009, il Tribunale di Ravenna ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 2 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 13, comma 7, della legge 27 marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto), come modificato dall’articolo 1-bis del decreto-legge 5 giugno 1993, n. 169 (Disposizioni urgenti per i lavoratori del settore dell’amianto), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 1993, n. 271, «nella parte in cui nega che spetti l’erogazione del beneficio della rivalutazione contributiva ai lavoratori affetti da malattia cagionata da esposizione all’amianto che si trovassero in pensione al momento della entrata in vigore della legge 257/1992 (28.4.1992)». Premette il giudice a quo di essere stato investito a seguito di ricorso proposto da una persona che ha chiesto in giudizio il riconoscimento della maggiorazione contributiva di cui alla disposizione denunciata, essendo stata riconosciuta dall’INAIL affetta da malattia professionale derivante da esposizione all’amianto. Il ricorso è stato proposto in sede giurisdizionale avendo l’INPS respinto la domanda formulata in tal senso in sede amministrativa, sulla base del fatto che l’istante non era in attività lavorativa alla data di entrata in vigore della anzidetta disposizione legislativa, in quanto titolare di pensione di anzianità sin dal 1° marzo 1991. Tesi, questa, ribadita dall’Istituto previdenziale anche in corso di causa. Rammenta, in proposito, il rimettente di aver a suo tempo sollevato identica questione di legittimità costituzionale e che la stessa è stata dichiarata da questa Corte inammissibile con l’ordinanza n. 357 del 2008, in quanto sollevata in modo illogico e per ottenere un avallo interpretativo. Tanto premesso, il giudice a quo – aderendo alla eccezione proposta dal ricorrente – rileva come il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità sia consolidato nel negare la corresponsione del beneficio di cui all’art. 13, comma 7, della legge n. 257 del 1992 ai lavoratori ammalati che si trovino in pensione di anzianità o di vecchiaia alla data di entrata in vigore della disposizione medesima: orientamento, questo, tanto cristallizzato da aver assunto i connotati del diritto vivente. Il tutto, d’altra parte, in linea con la prassi applicativa adottata dall’INPS in sede amministrativa. Da qui, la nuova proposizione del dubbio di legittimità costituzionale. In punto di non manifesta infondatezza, il giudice rimettente reputa irragionevole la esclusione in questione, in quanto «qualunque lavoratore può contrarre una malattia da esposizione all’amianto a prescindere dalla data di conseguimento della pensione, dalla cessazione dell’attività morbigena e dal settore lavorativo di appartenenza», posto che, come è noto, le malattie da amianto possono sopraggiungere anche a notevole distanza di tempo dalla esposizione professionale e dalla cessazione della attività lavorativa, rappresentando, dunque, un evento futuro ed incerto, privo di qualsiasi correlazione con l’epoca del pensionamento. Ciò determinerebbe una irragionevole disparità di trattamento, che non si giustificherebbe neppure nella prospettiva di una agevolazione all’esodo dei lavoratori appartenenti al dismesso settore dell’amianto, in quanto la norma trova applicazione in ogni settore merceologico . Anzi – segnala il rimettente – un lavoratore potrebbe aver cessato di svolgere la propria attività lavorativa proprio perché ammalato: sicché, non vi sarebbe ragione per «differenziare chi è andato in pensione per lo stesso fatto di aver contratto la malattia prima o dopo l’entrata in vigore della legge». Ciò ancor più ove si consideri che le provvidenze in questione non subiscono il termine di decadenza stabilito per i benefici di cui al comma 8 dello stesso articolo 13 della legge n. 257 del 1992, a norma dell’art. 47 del d.l. n. 269 del 2003, convertito dalla legge n. 326 del 2003; con la conseguenza che l’INPS, anche alla data odierna, può accordare il beneficio a pensionati ammalati a lunga distanza di tempo dal pensionamento, discriminando, però, chi fosse andato in pensione prima della lontana entrata in vigore della norma censurata. Esempio, questo, che rende impossibile giustificare tale disparità di trattamento sul rilievo che la norma stessa fosse tesa ad agevolare il raggiungimento della pensione e rimediare alla crisi del settore dell’amianto; al contrario – sottolinea ancora il giudice a quo – in entrambe le ipotesi poste a raffronto «il beneficio potrebbe rivestire l’eguale effetto di compensare, sia pure in piccola parte, un pregiudizio effettivo e reale derivante da una patologia professionale sopraggiunta nella vita di entrambe le persone, senza alcuna connessione con il loro stato di pensionato». La normativa impugnata risulterebbe, poi, in contrasto anche con i doveri inderogabili di solidarietà sociale ed umana sanciti dall’art. 2 Cost., apparendo «disumano» precludere il diritto alla maggiorazione per i lavoratori riconosciuti come “esposti all’amianto” solo perché collocati in pensione prima della entrata in vigore della legge n. 257 del 1992 e pur avendo essi contratto la malattia dopo la legge, al pari di altri lavoratori che si siano pensionati dopo; una discriminazione, questa, che minerebbe qualsiasi vera “solidarietà sociale,” il cui “sentimento” non può evidentemente sussistere, in presenza di simili sperequazioni, neppure in capo a chi fruisca del beneficio. 2. – Nel giudizio davanti a questa Corte si è costituita la parte privata, la quale ha concluso chiedendo dichiararsi la illegittimità costituzionale della norma impugnata, «così come viene applicata e interpretata in modo unanime dalla giurisprudenza». Nell’atto di costituzione, la parte privata, dopo aver sottolineato come il “diritto vivente” si sia consolidato sulla base di un equivoco, derivante dalla confusione operata tra il comma 7 ed il comma 8 della disposizione impugnata, si riporta, nella sostanza, ai rilievi svolti nella ordinanza di rimessione, sottolineando la irrazionalità della scelta normativa di cui si discute. 3. – Si è costituito in giudizio anche l’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), per chiedere una declaratoria di inammissibilità o di infondatezza. L’INPS ha preliminarmente dedotto che l’esclusione dei pensionati in data anteriore al 28 aprile 1992 dal novero dei beneficiari della tutela accordata dalla disposizione impugnata troverebbe fondamento non già esclusivamente – come parrebbe presupposto dal giudice rimettente – nella interpretazione («assurta a diritto vivente») data a quest’ultima dalla Corte di cassazione, ma «in una specifica disposizione di legge», e cioè nell’art. 80, comma 25, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (a proposito di rinuncia all’azione giudiziaria da parte di lavoratori esposti all’amianto e cessati dall’attività prima della data di entrata in vigore della legge n. 257 del 1992, nonché di recupero di incrementi pensionistici da considerare «indebiti»), in linea, del resto, con quanto ripetutamente affermato dalla Corte di cassazione medesima: la «latitudine della citata disposizione» autorizzerebbe, i nfatti, a riferire il suo contenuto «anche a coloro che abbiano adìto il Giudice per sentire accertare il loro preteso diritto alla rivalutazione contributiva connessa alla contrazione di patologia amianto-correlata», ai sensi della disposizione denunciata. La mancata censura, da parte del rimettente, della disposizione in discorso renderebbe, pertanto, la questione «inammissibile o comunque destituita di rilevanza», dal momento che la relativa norma («che pure si presta ad essere applicata nel giudizio a quo») sarebbe «di per sé sola sufficiente ad attestare l’insussistenza del diritto preteso». La questione risulterebbe, comunque, nel merito, infondata: la ratio della disposizione denunciata sarebbe non già quella di «indennizzare o compensare il lavoratore colpito dalla patologia professionale», ma piuttosto quella «di incentivare e facilitare l’esodo dal mondo del lavoro per coloro che siano stati coinvolti in lavorazioni comunque connotate dall’impiego di amianto». Tanto attesterebbero sia elementi strettamente testuali (a cominciare dalla rubrica del capo nel quale è contenuto l’art. 13 della legge n. 257 del 1992, dedicata a «misure di sostegno per i lavoratori», come anche emergerebbe dalla sentenza n. 434 del 2002 di questa Corte, relativamente a diversa fattispecie), sia, soprattutto, la circostanza che la tutela prevista dalla disposizione censurata sarebbe «espressamente finalizzata al “conseguimento delle prestazioni pensionistiche”». «Proprio perché destinato ad operare sulle prestazioni pensionistiche», il beneficio in questione risulterebbe, inoltre, concretamente applicabile – in virtù di «un incremento del pregresso patrimonio contributivo» ottenuto attraverso il previsto moltiplicatore – «solo nei confronti di lavoratori che non abbiano già raggiunto la massima anzianità contributiva (40 anni)»; coloro che fossero prossimi a raggiungerla «potrebbero avvalersi del coefficiente solo nella misura sufficiente per conseguire, appunto, i 40 anni di contributi». Se, diversamente, si pensasse che la norma in esame si prefigga di «compensare o indennizzare il lavoratore affetto da malattia connessa all’esposizione all’amianto», allora «il diritto a detto indennizzo dipenderebbe direttamente, sia per l’an sia per il quantum, dalla consistenza della posizione contributiva dell’istante»: e «il lavoratore che abbia contratto tecnopatia, manifestatasi quando questi abbia già maturato 40 anni di contributi, non vedrà migliorata in nulla la sua posizione previdenziale, sicché non gli sarà riconosciuto alcun ristoro del pregiudizio patito». Con la non plausibile conseguenza di «una tutela indennitaria destinata ad applicarsi o meno, nei confronti di lavoratori che pure abbiano contratto identica malattia professionale a seguito di identica esposizione all’asbesto, a seconda della misura del patrimonio contributivo dell’istante». D’altra parte, la natura indennitaria o risarcitoria della rivalutazione contributiva di cui alla norma denunciata dovrebbe intendersi esclusa anche in considerazione del fatto che detta «tutela indennitaria […] è comunque già assicurata dall’ordinamento nei termini di cui al d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124». Assumendo, invece, che la norma denunciata miri «esclusivamente ad agevolare il raggiungimento della pensione», dovrebbe risultare «del tutto razionale e logico condizionarne l’applicazione in relazione al fatto che il trattamento pensionistico sia già stato conseguito o meno alla data di entrata in vigore della ripetuta legge n. 257/1992»: ciò anche sulla base del principio generale della disciplina della materia, secondo cui «la pensione si liquida in applicazione della normativa vigente al momento della liquidazione stessa». Né questa scelta potrebbe apparire «tacciata di irragionevolezza» in quanto diretta a provocare «un trattamento differenziato alla stessa categoria di soggetti», posto che, secondo la giurisprudenza costituzionale, «lo stesso fluire del tempo costituisce di per sé un elemento diversificatore». 4. – E’ intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, per chiedere una pronuncia di inammissibilità o, comunque, di infondatezza. Richiamato il precedente di cui alla sentenza n. 434 del 2002 (con la quale questa Corte, escludendo il carattere risarcitorio del beneficio in discorso, ha dichiarato l’infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992, che tuttavia la Corte di cassazione, con la sentenza n. 2849 del 2004, avrebbe considerato applicabile anche alla norma ora in esame), la difesa erariale ha sottolineato l’improprietà del richiamo, da parte del rimettente, della norma di cui all’art. 47 del d.l. n. 269 del 2003, convertito nella legge n. 326 del 2003, relativo all’ipotesi disciplinata al comma 8 e non al comma 7 dell’art. 13 della legge ora in esame. Gli argomenti sviluppati nell’ordinanza a sostegno del dubbio di legittimità costituzionale in riferimento ai parametri evocati risulterebbero, secondo l’Avvocatura, estranei «al quadro normativo di riferimento». Da questo emergerebbe che il discrimine del 28 aprile 1992 è stato introdotto per l’attribuzione di «un beneficio ulteriore rispetto ai normali benefici pensionistici, in proporzione alle disponibilità di bilancio»: queste verrebbero, peraltro, significativamente aggravate «qualora dalle motivazioni di una eventuale pronuncia di incostituzionalità del comma 7 potesse trovare spazio un successivo ampliamento del campo di applicazione del complesso delle disposizioni di cui all’art. 13 cit.», dopo che, nonostante le limitazioni via via previste, «la disciplina dei benefici previdenziali per l’esposizione all’amianto ha determinato, in questi anni, una consistente espansione della spesa pensionisti ca». Considerato in diritto 1. – Il Tribunale di Ravenna ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 2 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 13, comma 7, della legge 27 marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto), come modificato dall’articolo 1-bis del decreto-legge 5 giugno 1993, n. 169 (Disposizioni urgenti per i lavoratori del settore dell’amianto), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 1993, n. 271, «nella parte in cui nega che spetti l’erogazione del beneficio della rivalutazione contributiva ai lavoratori affetti da malattia cagionata da esposizione all’amianto che si trovassero in pensione al momento della entrata in vigore della legge 257/1992 (28.4.1992)». 2. – Va preliminarmente respinta, per la sua evidente non plausibilità, l’eccezione di inammissibilità formulata dall’INPS sul presupposto che la mancata censura, da parte del rimettente, anche dell’art. 80, comma 25, della legge 23 dicembre 2000, n. 388 (vale a dire di una disposizione considerata, in ragione della sua asserita «latitudine», «di per sé sola sufficiente ad attestare l’insussistenza del diritto preteso») determinerebbe «comunque» un difetto di rilevanza della questione sollevata: la quale, invece, indipendentemente dal problema dell’ “estensione” della portata normativa della disposizione testé richiamata o da quello della pertinenza del richiamo, risulta, nella prospettazione del rimettente, ampiamente dotata dei necessari requisiti. 3. – Nel merito, la questione non è fondata. Come questa Corte ha avuto modo di sottolineare nella sentenza n. 434 del 2002, ancorché riferita alla disciplina dettata dall’art. 13, comma 8, della legge n. 257 del 1992, la ratio sottesa alla applicazione dei benefici nei confronti dei lavoratori che avessero contratto malattie professionali a causa dell’esposizione all’amianto, o che fossero stati comunque soltanto esposti all’amianto, non era quella di conferire una provvidenza a titolo risarcitorio o indennitario, ma di consentire un più agevole esodo dal mondo del lavoro. Verso tale univoca conclusione, d’altra parte, orientavano non soltanto l’origine della iniziativa legislativa – rinvenibile nella direttiva comunitaria 83/477/CEE, la quale prescriveva l’adozione di misure volte alla eliminazione dei rischi derivanti dall’impiego dell’amianto in qualsiasi ciclo lavorativo – nonché i relativi lavori parlamentari, quanto, soprattutto, la disciplina positiva dettata dalla norma ed il contesto di provvidenze in cui la stessa si trova inserita. L’art. 13 della legge n. 257, infatti, esaurendo l’intero capo IV, dedicato – come recita la relativa rubrica – alle «Misure di sostegno per i lavoratori», prevede una serie di provvidenze aventi tutte natura previdenziale: quali, in particolare, la concessione del trattamento straordinario di integrazione salariale, «anche se il requisito occupazionale sia pari a quindici unità per effetto di decremento di organic o dovuto al pensionamento anticipato» (dopo le aggiunte disposte dal d.l. n. 510 del 1996, come convertito dalla l. n. 608 del 1996); il pensionamento anticipato per un numero limitato di unità in possesso di determinati requisiti; l’aumento figurativo della contribuzione a fini pensionistici per i lavoratori che avessero contratto malattie professionali a causa della esposizione all’amianto o che fossero stati esposti all’amianto per un periodo superiore a dieci anni. La circostanza, dunque, che tanto la maggiorazione contributiva prevista dal comma 7 della legge citata, quanto quella di cui al comma 8 – scrutinata, come si è detto, dalla Corte nella richiamata sentenza n. 434 del 2002 – fossero entrambe destinate non a fornire un beneficio di tipo indennitario o risarcitorio, a fronte dei danni o dei pericoli per la salute dei lavoratori derivanti dalla esposizione all’amianto, ma unicamente ad aumentare il periodo contributivo necessario per il raggiungimento del diritto a pensione, escludeva dalla platea dei beneficiari sia coloro che alla data di entrata in vigore della legge fossero già usciti dal mondo del lavoro, sia coloro i quali avessero, a quella data, già maturato il massimo di contribuzione a fini pensionistici. A tale specifico riguardo, nella citata pronuncia, questa Corte ha peraltro sottolineato come non rivestisse rilievo contrario alla logica “non indennitaria o ris arcitoria” della misura concernente l’aumento figurativo della contribuzione la circostanza che tra i beneficiari fossero annoverati anche coloro che, pur non avendo ancora raggiunto l’anzianità contributiva massima, avessero tuttavia maturato prima della entrata in vigore della legge n. 257 del 1992, anche senza l’aumento figurativo della contribuzione, i requisiti per il conseguimento della pensione di anzianità o di vecchiaia e fossero stati collocati in quiescenza in epoca successiva. Ciò in quanto – si sottolineò – un siffatto meccanismo si giustificava alla luce del «principio generale secondo cui le prestazioni si liquidano sulla base della legge vigente alla data della liquidazione stessa». La circostanza, poi, che una simile inclusione si sarebbe in concreto tradotta in un incremento della misura del trattamento pensionistico, e non in una agevolazione per il raggiungimento del diritto a pensione, non poteva reputarsi evenienza discriminatoria nei confronti dei pensionati esclusi ratione temporis, in quanto, come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza costituzionale richiamata nella predetta pronuncia, «l’estensione di agevolazioni a categorie di soggetti non contemplate dalla disciplina di favore può ritenersi costituzionalmente necessitata solo ove, accertata la piena omogeneità delle situazioni poste a raffronto, lo esiga la ratio della disciplina invocata quale tertium comparationis». Nella specie, concluse questa Corte, una simile omogeneità doveva essere esclusa, «in considerazione della diversità di date di conseguimento del diritto cui si deve fare riferimento per ciascuna delle categorie di soggetti di c ui si tratta e della corrispondenza di tale criterio discretivo ai principi generali regolatori della materia, corrispondenza che porta a concludere che il legislatore ha esercitato non irragionevolmente la discrezionalità che gli compete nella scelta delle modalità di configurazione dei trattamenti che – come la rivalutazione contributiva in oggetto – abbiano carattere eccezionale». 4. – Tali conclusioni devono ritenersi valide anche con riferimento al peculiare meccanismo di agevolazione contributiva previsto dal comma 7 dell’art. 13, non senza sottolineare come, a differenza di quanto avvenuto per il comma 8, profondamente inciso dalle più recenti novelle anche sul piano dei relativi connotati “finalistici”, il testo della disposizione sia rimasto nella sostanza inalterato rispetto a quello originario. E’ infatti agevole avvedersi di come, con la introduzione della normativa qui in esame, il legislatore abbia, da un lato, inteso mantenere ovviamente ferme tutte le provvidenze previste in tema di invalidità e malattie professionali dalla normativa vigente; e, dall’altro, provveduto ad inserire, in uno specifico pacchetto di disposizioni, un contesto di misure tutte incentrate sulla agevolazione all’esodo dei lavoratori esposti all’amianto, dedicando, a quanti ne avessero patito conseguenze morbigene, uno specifico beneficio previdenziale, consistente nel riconoscimento di un peculiare coefficiente di maggiorazione contributiva, valido esclusivamente a fini pensionistici, per il periodo in cui il lavoratore – ammalatosi – era stato esposto all’agente patogeno. Le peculiarità strutturali del beneficio sono evidenti: la malattia, infatti, non si atteggia alla stregua di evento in sé indennizzabile sul piano previdenziale, quale fattore sintomatico di una diminuita capacità di guadagno, ma si configura esclusivamente come mero presupposto applicativo del beneficio, il quale opera, dunque, a prescindere dalla gravità del morbo e degli eventuali effetti invalidanti e senza alcun parametro di commisurazione monetaria su tali indici. A sua volta, il coefficiente di maggiorazione contributiva non prende in considerazione né il tipo né la durata della malattia, ma si riflette esclusivamente sul periodo di «provata esposizione all’amianto»: sicché, è soltanto questo elemento “fattuale” caratteristico del rapporto di lavoro ad assumere risalto “temporale” ai fini della concreta determinazione del periodo contributivo da incrementare figurativamente. Che poi il lavoratore possa in effetti beneficiare o meno di tale maggiorazione contributiva, resta circostanza del tutto neutra agli effetti della intentio legis, proprio perché, stabilita la previsione del collocamento in cassa integrazione straordinaria e una specifica disciplina di prepensionamento (commi 2 e seguenti dell’art. 13), le agevolazioni contributive potevano in concreto non produrre benefici, sia per coloro che avessero già raggiunto il tetto massimo di contribuzione, sia per coloro che, appunto, fossero già titolari, alla data di entrata in vigore della legge, di pensione di anzianità o di vecchiaia. 5. – Si tratta, dunque, di misura non soltanto eccezionale, ma che presenta, proprio per i profili dianzi additati, connotazioni addirittura extra ordinem, le quali possono spiegarsi solo ed esclusivamente ove riferite a persone che, alla data di entrata in vigore della legge, fossero ancora in attesa di trattamento pensionistico. Le censure che muove il giudice a quo, postulano, invece, a ben guardare, il ribaltamento della logica sottesa alla applicazione della misura in discorso, trasformandone la fisionomia da quella di un beneficio specificamente deputato ad aumentare il periodo contributivo del lavoratore, in quella tipica di un beneficio pensionistico tout court. Il tema del raffronto suggerito dalla ordinanza di rimessione si fonda, infatti, su una premessa logicamente eccentrica rispetto alla norma censurata, posto che al centro della attenzione non viene a raffrontarsi la condizione di due lavoratori ancora in attività ad una certa data, ma quella di due pensionati: vale a dire, proprio la posizione di chi la legge ha espressamente inteso non ricomprendere nel novero dei possibili beneficiari delle diverse provvidenze stabilite dal più volte richiamato art. 13. E ciò, non per una scelta arbitraria o irragionevolmente discriminatoria, ma proprio perché era la natura e la finalità dei benefici a presupporre l’assenza dello status di pensionato di anzianità o vecchiaia al momento in cui quella normativa è stata coniata. Che poi, come si è accennato, l’aumento figurativo di contribuzione possa aver prodotto, in concreto, benefici di “quantità” del trattamento pensionistico in capo a chi abbia raggiunto il diritto a pensione o sia comunque andato in quiescenza solo dopo l’entrata in vigore della legge, è conseguenza eventuale della norma, che non ne modifica i connotati e che non può certo essere evocata a fondamento del supposto tr attamento discriminatorio. E’ ben vero, infatti, che, come ha puntualmente dedotto il giudice rimettente, ove la malattia derivante dalla esposizione all’amianto sia emersa – come è tipico di certe patologie – soltanto a distanza di molto tempo da quella esposizione e dalla stessa eventuale cessazione del rapporto d’impiego, si genera un diverso regime tra pensionati, entrambi malati; ma tutto ciò non può valere ad incrinare la legittimità della scelta normativa, posto che il momento di emersione del morbo e l’accertamento della relativa origine finiscono ineluttabilmente per assumere i connotati di una problematica di mero fatto, che nulla ha a che vedere con la struttura e la funzione della norma, in sé e per sé considerata. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 13, comma 7, della legge 27 marzo 1992, n. 257 (Norme relative alla cessazione dell’impiego dell’amianto), come modificato dall’articolo 1-bis del decreto-legge 5 giugno 1993, n. 169 (Disposizioni urgenti per i lavoratori del settore dell’amianto), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 1993, n. 271, sollevata, in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 2 della Costituzione, dal Tribunale di Ravenna con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 ottobre 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Paolo GROSSI, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'8 ottobre 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA SENTENZA N. 291 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 7-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), promosso dal Tribunale di sorveglianza di Genova con ordinanza del 25 novembre 2009, iscritta al numero 128 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 19, prima serie speciale, dell’anno 2010. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 22 settembre 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri. Ritenuto in fatto 1. – Il Tribunale di sorveglianza di Genova, con ordinanza del 25 novembre 2009, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 7-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui esclude che la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale possa essere disposta per più di una volta in favore del condannato nei cui confronti sia stata applicata la recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, del codice penale. 1.1. – Il giudice a quo è chiamato a valutare la posizione di persona detenuta in espiazione della pena di un anno e otto mesi di reclusione, inflittagli per un delitto di tentato furto commesso il 7 aprile 2009, cioè nello stesso giorno di decorrenza della pena in corso di esecuzione. In precedenza, ed in particolare nel periodo compreso tra il 2000 ed il 2006, l’interessato aveva già subìto condanne per i delitti di furto, di violazione delle norme concernenti le misure di prevenzione, di ricettazione e di evasione. Nel 2006 era stata applicata in suo favore, con esito positivo, la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale. Si precisa dal rimettente, con riferimento alla pena attualmente eseguita, che «in sentenza è stata applicata la recidiva reiterata ex art. 99, quarto comma, cod. pen.». Secondo il Tribunale sussisterebbero le condizioni per una nuova misura di affidamento in prova, anche in considerazione delle caratteristiche personali del reo, segnato da deficit intellettivo e deprivato culturalmente, per tali ragioni male inserito nell’ambiente carcerario, ed invece ben contenuto, di norma, nell’ambiente familiare e sociale della piccola comunità di provenienza. Tuttavia – prosegue il rimettente – nessuna delle misure alternative alla carcerazione è applicabile nel caso concreto. Un nuovo affidamento in prova al servizio sociale è precluso dalla norma oggetto di censura. L’intervenuta applicazione della circostanza concernente la recidiva reiterata comporta anche – in base al testo novellato dell’art. 47-ter, comma 1-bis, della legge n. 354 del 1975 – che non possa essere disposta in favore del condannato la misura della detenzione domiciliare. Sempre in ragione della recidiva, infine, mancano le condizioni per l’accesso alla semilibertà, posto che il nuovo art. 50-bis dell’ordinamento penitenziario esige, nei casi in questione, la preventiva espiazione della pena nella misura di due terzi. Il Tribunale osserva d’altra parte, a tale ultimo proposito, che le esigenze rieducative poste dal caso di specie sarebbero meglio assicurate tramite una misura fondata sulla sorveglianza, piuttosto che su prestazioni a carattere socio-assistenziale. 1.2. – Il rimettente evoca anzitutto, a sostegno della questione sollevata, la giurisprudenza costituzionale secondo la quale, nella disciplina della pena, l’attuazione della finalità rieducativa può concorrere con esigenze diverse, a cominciare dalla difesa sociale, a condizione che tali ultime esigenze siano assicurate con il minimo possibile sacrificio dell’opera di rieducazione, e che nessuna tra le funzioni in concorso resti di fatto obliterata (è citata la sentenza n. 78 del 2007). L’accesso alle misure alternative, nel concorso delle condizioni per ciascuna previste, costituisce secondo il Tribunale una modalità essenziale di attuazione del finalismo rieducativo della pena. Tuttavia, per i recidivi reiterati, sarebbe stato introdotto uno sbarramento quasi impenetrabile, non essendo ammissibile la detenzione domiciliare, né «comune» (art. 47-ter, comma 1-bis, ord. pen.) né «speciale» per gli ultrasettantenni (art. 47-ter, comma 01, ord. pen.), ed essendo necessaria l’espiazione d’una rilevante porzione della pena a fini di conseguimento della semilibertà (art. 50-bis ord. pen.). Proprio per l’affidamento in prova, cioè per la misura più favorevole al detenuto, il legislatore della riforma non ha introdotto una preclusione diretta. Di questa scelta la Corte costituzionale avrebbe individuato la ratio con la sentenza n. 38 (recte: n. 338) del 2008: l’applicazione della misura consegue ad un giudizio di piena affidabilità dell’interessato, e non avrebbe quindi senso una preclusione fondata sulla recidiva, che invece sarebbe ragionevole riguardo a misure per l’accesso alle quali è richiesto un sindacato meno significativo. La stessa logica del resto – prosegue il rimettente – aveva parzialmente escluso l’affidamento in prova dalla precedente riforma di segno restrittivo, fondata sul titolo del reato commesso dal condannato, ove la detenzione domiciliare era stata preclusa con riguardo ai delitti indicati all’art. 4-bis ord. pen. (comma 1-bis dell’art. 47-ter ord. p en.), e forti limiti erano stati introdotti per la semilibertà (art. 50, comma 2, ord. pen.); nel caso dell’affidamento in prova, invece, la preclusione aveva riguardato i soli delitti «di prima fascia» dell’art. 4-bis, con l’ulteriore esclusione dei soggetti collaboratori di giustizia o condannati in situazione di obiettiva inesigibilità della collaborazione. 1.3. – Una siffatta logica del sistema sarebbe contraddetta, secondo il rimettente, dalla norma censurata, che introduce una preclusione assoluta, e dunque determina, a suo avviso, una violazione del principio di ragionevolezza e del principio costituzionale di necessaria finalizzazione rieducativa della pena. Sarebbe irragionevole, in particolare, il valore preclusivo assegnato ad una condizione, quella di recidivo, che non è necessariamente sintomatica sul piano della pericolosità attuale. Il fenomeno sarebbe evidente nel caso di condanne sopravvenute, per fatti antecedenti, ad una prima positiva sperimentazione dell’affidamento in prova: durante la relativa esecuzione, l’interessato non potrebbe giovarsi nuovamente della misura, pur essendo il fatto antecedente ad una sua accertata risocializzazione (unica eccezione, fondata per altro su sequenze del tutto casuali, sarebbe data dall’innesto della nuova esecuzione nell’attualità della prima misura di affidamento, la quale potrebbe essere estesa al nuovo titolo). Inoltre – prosegue il Tribunale – anche nel caso di reati commessi dopo una prima sperimentazione della misura alternativa potrebbe mancare, nella fattispecie concreta, una pericolosità sociale tale da giustificare il divieto di nuova concessione del beneficio. Proprio la preclusione in ordine a qualsiasi valutazione concreta della pericolosità sociale del condannato e della possibilità di un suo proficuo reinserimento nel tessuto sociale, secondo il rimettente, pone la norma censurata in diretto contrasto con il terzo comma dell’art. 27 Cost., privando l’esecuzione di strumenti imprescindibili in una prospettiva di rieducazione del reo. Il vulnus denunciato non potrebbe essere escluso attraverso la sperimentazione di soluzioni interpretative «adeguatrici», essendo chiaro ed evidente, in base alla lettera della legge, il regime di preclusione generalizzata introdotto sul solo presupposto della condizione di recidivo reiterato in capo al condannato. 1.4. – La questione, oltre che non manifestamente infondata, sarebbe rilevante: secondo il Tribunale, infatti, nel caso di specie sussisterebbero sia le condizioni di fatto per l’affidamento in prova dell’interessato, sia gli ulteriori presupposti per l’adozione della misura, la quale dunque risulterebbe preclusa solo in ragione della norma censurata. 2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio mediante atto depositato in data 1° giugno 2010, chiedendo che sia dichiarata la «manifesta inammissibilità e infondatezza» della questione sollevata. La denunciata inammissibilità deriverebbe dalla carente descrizione della fattispecie concreta, avuto riguardo a circostanze che potrebbero rendere inapplicabile, nel caso di specie, la disposizione censurata. L’Avvocatura generale richiama, a tale proposito, la giurisprudenza secondo cui la recidiva potrebbe considerarsi «applicata» nel giudizio di cognizione, con l’effetto di inibire l’accesso all’affidamento in prova, solo quando abbia prodotto un concreto effetto nella determinazione della pena, di talché la preclusione non varrebbe nei casi di dichiarata prevalenza, in sede di bilanciamento, delle circostanze di segno opposto (sono citate le sentenze della Corte di cassazione n. 33634 e n. 33923 del 2006). Il difetto di indicazioni sul punto, da parte del rimettente, sarebbe d’ostacolo al sindacato preliminare della Corte circa la rilevanza della questione sollevata. Sul piano della non manifesta infondatezza, si osserva in primo luogo che la rieducazione del condannato non è l’unica finalità della pena, la quale deve pure assicurare la prevenzione speciale e generale e la difesa sociale (sono citate le sentenze della Corte costituzionale n. 107 del 1980 e n. 264 del 1974). Spetta alla discrezionalità legislativa la determinazione del punto di equilibrio tra le varie esigenze assicurate mediante il trattamento sanzionatorio, purché nessuna di tali esigenze resti del tutto obliterata (sono citate le ulteriori sentenze n. 78 del 2007, n. 257 del 2006 e n. 306 del 1993). La norma censurata – secondo la difesa dello Stato – sarebbe pienamente compatibile con il principio indicato, affiancando l’esigenza della difesa sociale, particolarmente significativa nel caso di delinquenti recidivi, a quella della rieducazione del condannato. In effetti, la sola condizione di recidiva non è mai sufficiente a precludere l’affidamento in prova, neppure nei casi più gravi di recidiva reiterata. L’effetto preclusivo si connette unicamente, e per il solo recidivo reiterato, ad una pregressa concessione del medesimo beneficio. In questi casi, ragionevolmente, sarebbe fatta applicazione di un criterio di «prognosi postuma», escludendo che il condannato possa utilmente prestarsi a tentativi ulteriori di risocializzazione. Andrebbe considerato, d’altra parte, come la Corte costituzionale abbia sempre misurato la finalizzazione rieducativa della pena in base al trattamento penitenziario che ne concreta l’esecuzione, e che varia da caso a caso, con efficacia che «sfugge, comunque, al sindacato di legittimità della Corte» medesima (sono citate le sentenze n. 1023 del 1988, n. 237 del 1984 e n. 137 del 1983). Il valore sintomatico della recidiva varrebbe anche, secondo l’Avvocatura generale, ad escludere la denunciata violazione del principio di ragionevolezza. Dopo un richiamo alla giurisprudenza costituzionale che riserva alla discrezionalità legislativa, con il solo limite della palese irrazionalità, le scelte in merito al trattamento sanzionatorio, si afferma che proprio il fallimento sperimentato di precedenti esperienze rieducative consentirebbe di istituire un trattamento diversificato per i recidivi reiterati, specie nei casi in cui il reato è commesso dopo l’esaurimento della prima misura di affidamento in prova (situazione che, probabilmente, ricorre anche nella fattispecie concreta). Considerato in diritto 1. – Il Tribunale di sorveglianza di Genova, con ordinanza del 25 novembre 2009, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 7-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui esclude che la misura dell’affidamento in prova al servizio sociale possa essere disposta per più di una volta in favore del condannato nei cui confronti sia stata applicata la recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, del codice penale. La disposizione censurata è stata introdotta, nel corpo dell’art. 58-quater dell’ordinamento penitenziario, dall’art. 7, comma 7, della legge 7 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione). 2. – Preliminarmente deve essere rigettata l’eccezione di inammissibilità, proposta dall’Avvocatura dello Stato, per asserita carente descrizione della fattispecie, che non consentirebbe il controllo sulla rilevanza della questione nel giudizio principale. Sostiene la difesa dello Stato che la recidiva potrebbe considerarsi “applicata” nel giudizio di cognizione – con la conseguenza di inibire l’accesso all’affidamento in prova – solo quando abbia prodotto un concreto effetto sulla quantificazione della pena. La preclusione non varrebbe quindi nei casi di dichiarata prevalenza, in sede di bilanciamento, delle circostanze attenuanti in eventuale concorso con la recidiva, ed in tal senso viene citato un conforme orientamento della giurisprudenza di legittimità. Il difetto di indicazioni sul punto, da parte del rimettente, sarebbe pertanto di ostacolo al sindacato preliminare di questa Corte sulla rilevanza della questione. Occorre precisare che la giurisprudenza evocata dall’Avvocatura dello Stato risale in prevalenza ai primi mesi di applicazione della legge n. 251 del 2005, quando erano poste in esecuzione sentenze deliberate prima dell’entrata in vigore del quarto comma del novellato art. 69 cod. pen., che inibisce la dichiarazione di subvalenza della recidiva rispetto alle circostanze attenuanti. Richiedere al rimettente una esplicita esclusione di tale eventualità, con riguardo ad una sentenza pronunciata nel 2009, significherebbe sollecitarlo a specificare se il giudice della cognizione non abbia per caso violato la legge, in assenza di elementi che possano far sorgere un simile dubbio. Non era necessario neppure che il giudice a quo chiarisse se, nel caso di specie, vi fosse stato un effettivo aumento della pena, giacché l’aggravante deve ritenersi applicata anche quando sia stata considerata equivalente rispetto alle attenuanti. Il giudizio di equivalenza implica infatti che un’aggravante spieghi pur sempre un effetto concreto, che è quello di paralizzare un’attenuante, impedendo che quest’ultima determini una diminuzione della pena (Cassazione, Sez. Un., sentenza 18 giugno 1991, n. 17). Sulla base delle precedenti considerazioni, si deve concludere che l’affermazione del rimettente, secondo cui «è stata applicata la recidiva reiterata ex art. 99, comma 4, c.p.», è sufficiente a far ritenere plausibile la prospettata rilevanza della questione nel giudizio principale. 3. – Le questioni sono tuttavia inammissibili per altri motivi. 3.1. – Il giudice a quo non ha approfondito, nella misura necessaria, la possibilità che della disposizione censurata venga data una interpretazione conforme ai precetti costituzionali. È necessario innanzitutto rilevare che non esiste, nella fattispecie, un orientamento giurisprudenziale consolidato, in senso “adeguatore”, così come nella questione risolta con la sentenza di questa Corte n. 189 del 2010, concernente la disciplina dell’accesso ai benefici penitenziari da parte di coloro che siano stati condannati per evasione. Ciò non esime questa Corte dal dovere di verificare se esista una possibilità di dare della disposizione censurata una lettura tale da escludere i vizi di legittimità denunciati. 3.2. – Anche nel presente giudizio si deve partire dal costante orientamento di questa Corte, che esclude, nella materia dei benefici penitenziari, rigidi automatismi e richiede invece che vi sia sempre una valutazione individualizzata, così da collegare la concessione o non del beneficio ad una prognosi ragionevole sulla sua utilità a far procedere il condannato sulla via dell’emenda e del reinserimento sociale (ex plurimis, sentenze n. 189 del 2010, n. 255 del 2006, n. 436 del 1999). Occorre inoltre ricordare la giurisprudenza secondo cui «[…] le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit» (sentenza n. 265 del 2010). Più specificamente, «l’irragionevolezza della presunzione assoluta si può cogliere tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa» (sentenza n. 139 del 2010, in conformità alla sentenza n. 41 del 1999). Proprio con riferimento alla presunzione di pericolosità, questa Corte ha avuto modo di affermare che la stessa non deve essere totalmente esclusa dall’ordinamento, ma è costituzionalmente incompatibile se «non abbia fondamento nell’id quo d plerumque accidit» (sentenza n. 139 del 1982). 4. – Muovendo da tali premesse generali, questa Corte osserva che il giudice rimettente non ha preso in considerazione la possibilità di dare alla disposizione censurata un’interpretazione restrittiva, nel senso che l’esclusione dal beneficio operi in modo assoluto solo quando il reato espressivo della recidiva reiterata sia stato commesso dopo la sperimentazione della misura alternativa, avvenuta in sede di esecuzione di una pena, a sua volta irrogata con applicazione della medesima aggravante. Una conforme indicazione ermeneutica, per quanto in particolare concerne la pertinenza del divieto ad una seconda sperimentazione del beneficio nella specifica condizione di recidivo reiterato, proviene dai lavori parlamentari propedeutici all’approvazione della legge di riforma. L’interpretazione prospettata farebbe venir meno il rischio di una irragionevole preclusione in danno del soggetto che, pur essendo stato condannato con applicazione della predetta aggravante, si trovi nelle condizioni di poter essere valutato dal giudice come meritevole della sperimentazione di un percorso rieducativo, che non può ritenersi escluso a priori, per effetto di una astratta previsione normativa. Diversa è peraltro l’ipotesi in cui lo stesso condannato, dopo aver fruito di un primo affidamento in prova, concesso quando già era stato dichiarato recidivo reiterato, commetta un nuovo delitto (almeno il quarto), per il quale il giudice della cognizione, nel caso più ricorrente della recidiva cosiddetta facoltativa, ritenga i precedenti del reo concretamente significativi in punto di gravità del reato. In casi del genere non è agevole prevedere che un nuovo beneficio dello stesso tipo possa sortire effetti diversi da quello precedente, mentre è agevole prefigurare il contrario, con la conseguenza che la scelta del legislatore di esigere l’espiazione della pena, senza possibilità di accesso alle misure specificamente escluse dalla norma censurata, non può essere ritenuta manifestamente irragionevole o arbitraria. Le funzioni di tutela della sicurezza pubblica e di prevenzione dei reati, proprie della pena unitamente alla finalità rieducativa, sarebbero fortemente compromesse se si continuasse a far leva esclusivamente su una misura alternativa alla detenzione in carcere, che, nel concreto, ha dimostrato la sua inefficacia rispetto al fine di impedire la commissione di nuovi delitti non colposi. Peraltro, il vigente ordinamento penitenziario prevede altri strumenti, diversi dall’affidamento in prova, che possono essere utilmente sperimentati per un percorso rieducativo di emenda, sia intra che extra moenia. 5. – In definitiva, e secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (ex multis, e da ultimo, ordinanza n. 5 del 2010), l’omessa ricerca di una interpretazione adeguatrice da parte del rimettente è causa di inammissibilità della questione sollevata. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 58-quater, comma 7-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, dal Tribunale di sorveglianza di Genova, con l’ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 ottobre 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Gaetano SILVESTRI, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'8 ottobre 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ORDINANZA N. 292 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 2-bis, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413) – comma introdotto dall’art. 12 del decreto-legge 8 agosto 1996, n. 437 (Disposizioni urgenti in materia di imposizione diretta ed indiretta, di funzionalità dell’Amministrazione finanziaria, di gestioni fuori bilancio, di fondi previdenziali e di contenzioso tributario), quale convertito dalla legge 24 ottobre 1996, n. 556 –, promossi con ordinanze depositate il 7 maggio 2009, il 7 maggio 2009 ed il 22 maggio 2009 dalla Commissione tributaria regionale del Veneto in tre distinti giudizi di appello, vertenti, rispettivamente, tra gli appellanti s.p.a. Grandi Molini Italiani, s.p.a. Agritalia, s.p.a. Crivellari & Zerbini e l’appellata Agenzia delle entrat e, iscritte al n. 294, al n. 295 ed al n. 296 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 50, prima serie speciale, dell’anno 2009. Visti l’atto di costituzione della s.p.a. Crivellari & Zerbini e gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 21 settembre 2010 (r.o. n. 296 del 2009) e nella camera di consiglio del 22 settembre 2010 (r.o. n. 294 e n. 295 del 2009) il Giudice relatore Franco Gallo; udito l’avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto che la Commissione tributaria regionale del Veneto, con tre ordinanze di contenuto sostanzialmente identico, pronunciate il 2 marzo 2009 e depositate il 7 maggio 2009 (r.o. n. 294 e n. 295 del 2009) ed il 22 maggio 2009 (r.o. n. 296 del 2009), ha sollevato – in riferimento agli artt. 3, 24 e 111, secondo comma, della Costituzione – questioni incidentali di legittimità dell’art. 15, comma 2-bis, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413); che detto comma – introdotto dall’art. 12 del decreto-legge 8 agosto 1996, n. 437 (Disposizioni urgenti in materia di imposizione diretta ed indiretta, di funzionalità dell’Amministrazione finanziaria, di gestioni fuori bilancio, di fondi previdenziali e di contenzioso tributario), quale convertito dalla legge 24 ottobre 1996, n. 556 – stabilisce, a proposito delle spese del giudizio tributario, che: «Nella liquidazione delle spese a favore dell’ufficio del Ministero delle finanze, se assistito da funzionari dell’amministrazione, e a favore dell’ente locale, se assistito da propri dipendenti, si applica la tariffa vigente per gli avvocati e procuratori, con la riduzione del venti per cento degli onorari di avvocato ivi previsti. La riscossione avviene mediante iscrizione a ruolo a titolo definitivo dopo il passaggio in giudicato della sentenza»; che il giudice a quo riferisce che, in ciascuno dei suddetti giudizi: a) il contribuente aveva impugnato davanti alla Commissione tributaria provinciale di Rovigo il silenzio-rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso dell’IRAP da lui corrisposta; b) tale impugnazione, basata sulla dedotta incompatibilità dell’IRAP con la sesta direttiva dell’UE del 17 maggio 1977, era stata rigettata dal giudice adíto, il quale aveva ritenuto che l’interessato avrebbe dovuto presentare la richiesta di rimborso mediante apposita dichiarazione rettificativa e non, come era avvenuto nella specie, mediante una semplice istanza ed aveva, quindi, condannato il contribuente al pagamento delle spese di lite in favore della resistente Agenzia delle entrate, difesasi in giudizio con l’assistenza di un proprio funzionario, non iscritto all’albo degli avvocati; c) avverso la sentenza del giudice di primo grado il contribuente aveva int erposto appello davanti alla Commissione tributaria regionale del Veneto, limitatamente al capo di pronuncia relativo alle spese di lite, chiedendone la riforma e deducendo, a tal fine, che, da un lato, il giudice di primo grado aveva errato nel ritenere necessaria, per il rimborso dell’imposta, una dichiarazione rettificativa e, dall’altro, che la questione della compatibilità dell’IRAP con l’ordinamento comunitario era nuova, complessa e controversa, almeno fino al momento in cui era stata emessa – nelle more dei giudizi – la sentenza della Corte di giustizia CE del 3 ottobre 2006, in causa C – 475/03, con la quale era stata riconosciuta tale compatibilità; d) secondo l’appellante, prima della suddetta sentenza della Corte di giustizia la compatibilità dell’IRAP con l’ordinamento comunitario era stata incerta, al punto che la stessa Agenzia delle entrate aveva sottolineato l’opportunità di transigere le controversie pendenti al riguardo (circolare n. 9/E d el 14 febbraio 2007) e che perfino l’Avvocatura generale presso la medesima Corte di giustizia aveva concluso per l’illegittimità dell’imposta; e) sempre per l’appellante, inoltre, il giudice di primo grado non aveva analiticamente distinto i singoli importi in relazione alle diverse voci tariffarie, come sarebbe stato invece necessario, tenuto conto del mancato deposito, da parte dell’amministrazione resistente, di una dettagliata nota-spese, ed aveva comunque liquidato in misura eccessiva le spese di lite; e) l’amministrazione appellata aveva replicato osservando che la nota-spese era stata a suo tempo regolarmente presentata e che la sentenza impugnata era motivata non con la compatibilità dell’IRAP rispetto all’ordinamento comunitario, ma con la preliminare considerazione della ritenuta inadeguatezza delle modalità della richiesta di rimborso dell’imposta; che, poste tali premesse, il giudice a quo afferma che la disposizione denunciata, disciplinando il caso in cui l’amministrazione finanziaria vittoriosa in giudizio sia stata assistita da un proprio funzionario non iscritto nell’albo degli avvocati, víola: a) l’art. 3 Cost., sotto tre profili: a.1) in primo luogo, perché, imponendo per la liquidazione delle spese di lite l’applicazione “diretta” delle tariffe forensi, ingiustificatamente assimila situazioni obiettivamente disomogenee (cioè l’esercizio della professione di avvocato, da un lato, e l’attività defensionale svolta da un funzionario di una pubblica amministrazione, per il quale non è richiesto neppure uno specifico titolo di studio o abilitativo all’esercizio di una professione, dall’altro); a.2) in secondo luogo, perché, richiamando solo le tariffe forensi e non anche altre tariffe professionali o tariffe esp ressamente determinate, irragionevolmente impedisce al giudice di liquidare le spese di lite in base al contenuto della controversia ed alla tipologia della difesa tecnica prescelta dalla parte privata e comunque di fare applicazione analogica di altre tariffe professionali, con la conseguenza di derogare ingiustificatamente anche al principio fissato dal comma 2, primo periodo, dello stesso art. 15, per il quale «I compensi agli incaricati dell’assistenza tecnica sono liquidati sulla base delle rispettive tariffe professionali»; a.3) in terzo luogo, perché, nel prevedere per la liquidazione degli onorari relativi alla difesa giudiziale svolta dai funzionari dell’amministrazione finanziaria la riduzione forfetaria e «aprioristica» del 20 per cento, rispetto agli onorari forensi, irragionevolmente impedisce al giudice di liquidare, «sulla base di una autonoma specifica valutazione di tutti gli elementi disponibili», spese di lite eventualmente non minori di quelle derivanti dall’utilizzazione delle prestazioni profession ali di un avvocato; b) gli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., perché, imponendo – in forza dell’applicazione delle tariffe forensi – di liquidare un rimborso forfetario delle “spese generali”, pari al 12,5 per cento degli onorari di avvocato, crea una irragionevole disparità di trattamento giudiziario tra la parte privata, per la quale il rimborso delle spese riguarda «sempre […], almeno in parte», spese effettivamente sostenute, e l’amministrazione finanziaria, per la quale, invece, tale rimborso «comporta o può comportare, un suo arricchimento, essendo commisurata non già a costi vivi sostenuti […] ma a percentuale sugli onorari liquidati, prescindendo del tutto da tali costi»; c) l’art. 24 Cost., perché, la condanna alle spese in favore della parte pubblica, commisurando la liquidazione di tali spese alla tariffa forense senza un puntuale rapporto con costi effettivi sostenuti nel singolo pro cesso, «finisce per rappresentare o un contributo parafiscale al funzionamento dell’Amministrazione a favore della quale sia disposta o un ingiustificato prelievo sanzionatorio a carico del soccombente o, comunque, una condanna patrimoniale ad effetto dissuasivo dal ricorrere al Giudice», con l’effetto di costituire un «fattore di remora, per la parte privata», e, pertanto, una limitazione del suo diritto di difesa, non giustificato da alcun preminente interesse pubblico; che, quanto alla affermata rilevanza di tutte le sollevate questioni di legittimità costituzionale, il rimettente – richiamando a paragone il processo di opposizione alle sanzioni amministrative, previsto dagli artt. 22 e seguenti della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) – osserva preliminarmente che, in mancanza della denunciata disposizione, il giudice di primo grado avrebbe dovuto liquidare, in favore dell’amministrazione finanziaria, difesasi in giudizio per il tramite di propri funzionari non iscritti all’albo degli avvocati, solo le spese vive da questa effettivamente sostenute e non anche i diritti, gli onorari e le spese generali risultanti dall’applicazione delle tariffe forensi; che per il rimettente, pertanto, tutte le questioni sono rilevanti, perché egli, quale giudice di secondo grado, deve fare applicazione della disposizione denunciata, essendo stata dedotta in ciascun appello, quale specifico motivo d’impugnazione, la non congruità della liquidazione delle spese di lite effettuata dal giudice di primo grado; che è intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni prospettate siano dichiarate inammissibili o, in subordine, manifestamente infondate; che in particolare, secondo la difesa dello Stato, le questioni sono inammissibili, perché il rimettente: a) omettendo di motivare circa l’insussistenza dei giusti motivi invocati dagli appellanti per ottenere – in riforma delle sentenze di primo grado – una pronuncia di integrale compensazione tra le parti delle spese di lite, ha, con ciò, omesso di motivare sulla rilevanza delle questioni medesime; b) lamentando la mancanza di una disciplina legislativa calibrata sulla prestazioni defensionali dei dipendenti dell’amministrazione finanziaria, richiede l’introduzione di una normativa che non potrebbe mai conseguire alla invocata pronuncia di illegittimità costituzionale, ma solo alla scelta discrezionale del legislatore; c) nel denunciare l’irragionevolezza della deroga, nel caso di difesa tramite funzionari dell’amministrazione, al principio di cui al comma 2 del censurato art. 15 – secondo il qu ale i compensi agli incaricati dell’assistenza tecnica sono liquidati sulla base delle rispettive tariffe professionali – ha omesso di indicare i «necessari elementi a giustificazione di un eventuale differente trattamento sotto tale profilo» e, quindi, ha omesso di motivare sulla rilevanza; d) dopo aver lamentato l’equiparazione dell’attività defensionale dei funzionari dell’amministrazione con l’attività professionale forense, contraddittoriamente si duole del fatto che tale equiparazione non sia del tutto perfetta; e) ha denunciato solo in via ipotetica la norma sulla liquidazione forfetizzata delle spese generali, affermando che tale previsione «comporta o può comportare» un ingiustificato arricchimento dell’amministrazione finanziaria; che, quanto alla manifesta infondatezza delle questioni, l’Avvocatura generale dello Stato deduce che la disposizione denunciata non si pone in contrasto con alcuno dei parametri costituzionali evocati dal rimettente: a) non con l’art. 3 Cost., perché: a.1.) l’equiparazione tra l’attività difensiva dei funzionari dell’amministrazione e quella forense non è totale (essendo prevista una decurtazione del 20 per cento degli onorari) e, comunque, è giustificata dal fatto che l’attività svolta dai funzionari «non si differenzia, nella sostanza, da quella svolta dal difensore»; a.2.) il processo di opposizione alle sanzioni amministrative, previsto dagli artt. 22 e seguenti della legge n. 689 del 1981, è relativamente semplice, tanto che è consentito ad entrambe le parti di stare in giudizio personalmente, e, pertanto, non può essere posto a raffronto con il piú complesso processo tribu tario, il quale è articolato su due gradi di merito, con l’obbligo per la parte privata di munirsi di difesa tecnica (salvo per le cause di valore minimo), ed è analogo al processo civile; a.3.) la scelta del legislatore di riconoscere in favore dell’amministrazione finanziaria l’80 per cento degli onorari stabiliti dalla tariffa forense è razionale e non arbitraria, tenuto conto sia della sostanziale identità dell’attività difensiva svolta dai funzionari rispetto a quella svolta dai legali sia del fatto che detti funzionari non hanno necessariamente la qualifica di avvocato; b) non con gli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., perché la previsione normativa della liquidazione forfetizzata (in misura pari al 12,5 per cento dell’importo degli onorari) delle spese generali sostenute dall’amministrazione finanziaria che si sia difesa con propri funzionari è ragionevole, in quanto si riferisce a costi effetti vi (carta, toner, uso delle macchine informatiche, oneri del personale addetto al contenzioso, etc.), anche se non analiticamente quantificati, ed in quanto il giudice ha comunque il potere di escludere la ripetizione delle spese ritenute eccessive o superflue, ai sensi dell’art. 92 cod. proc. civ.; c) non con l’art. 24 Cost., perché, alla luce del principio di responsabilità per le spese del giudizio (ritenuto applicabile anche al processo tributario dalla sentenza n. 274 del 2005 della Corte costituzionale), non esiste il diritto di instaurare un giudizio senza il rischio della condanna alle spese ed è, perciò, «illogico» ravvisare nella liquidazione delle spese processuali in favore dell’amministrazione finanziaria un illegittimo effetto dissuasivo a difendersi in giudizio; che nel giudizio registrato al n. 296 del 2009 si è costituita la contribuente, s.p.a. Crivellari & Zebini, dichiarando – all’esito di una dettagliata disamina storica e sistematica dell’intera disciplina delle spese di lite nel processo tributario − di aderire all’ordinanza di rimessione; che detta società afferma, in particolare, che la disposizione denunciata, diversamente dalle norme che disciplinano tutte le altre fattispecie di partecipazione personale della pubblica amministrazione ad un giudizio (art. 3 del regio decreto 30 ottobre 1933, n. 1611, recante «Approvazione del testo unico delle leggi e delle norme giuridiche sulla rappresentanza e difesa in giudizio dello Stato e sull’ordinamento dell’Avvocatura dello Stato»; art. 23, quarto comma, del d.P.R. n. 689 del 1981; art. 417-bis cod. proc. civ.), prevede, in caso di vittoria di tale amministrazione, non il mero ristoro delle spese vive sostenute, con vaglio di congruità della nota-spese da parte del giudice, ma irragionevolmente impone, per il rimborso delle spese generali, il «riconoscimento automatico di una somma percentuale» degli onorari (pari al 12,5 per cento) – parametrata, pertanto, al valore della causa −, senza consentire al giudice la v erifica dei costi effettivamente sostenuti dall’amministrazione finanziaria; che inoltre, sempre ad avviso della stessa parte privata, la disposizione censurata distingue irragionevolmente tra le prestazioni processuali degli iscritti negli elenchi di cui all’art. 12, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, per le quali si applica la tariffa vigente per i ragionieri, e quelle, del tutto similari, dei funzionari dell’amministrazione finanziaria, per le quali si applica, invece, la tariffa vigente per gli avvocati e procuratori, sia pure con la riduzione del venti per cento degli onorari di avvocato; che infine, secondo la suddetta società, la disposizione denunciata è irragionevole anche perché introduce nel processo tributario una ingiustificata diversità di trattamento tra chi si difende personalmente, al quale non spetta alcun rimborso (nemmeno delle spese vive, in base alla sentenza della Corte di cassazione n. 12680 del 2004, richiamata dalla contribuente), e la pubblica amministrazione, la quale, quando si difende mediante propri funzionari – e, quindi, mediante difesa non tecnica –, ha diritto, invece, al rimborso delle spese liquidate in base alle tariffe forensi. Considerato che, con tre ordinanze depositate, rispettivamente, il 7 maggio 2009, il 7 maggio 2009 ed il 22 maggio 2009, la Commissione tributaria regionale del Veneto dubita, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111, secondo comma, della Costituzione, della legittimità dell’art. 15, comma 2-bis, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre1991, n. 413); che detto comma – introdotto dall’art. 12 del decreto-legge 8 agosto 1996, n. 437 (Disposizioni urgenti in materia di imposizione diretta ed indiretta, di funzionalità dell’Amministrazione finanziaria, di gestioni fuori bilancio, di fondi previdenziali e di contenzioso tributario), quale convertito dalla legge 24 ottobre 1996, n. 556 – stabilisce, a proposito delle spese del giudizio tributario, che: «Nella liquidazione delle spese a favore dell’ufficio del Ministero delle finanze, se assistito da funzionari dell’amministrazione, e a favore dell’ente locale, se assistito da propri dipendenti, si applica la tariffa vigente per gli avvocati e procuratori, con la riduzione del venti per cento degli onorari di avvocato ivi previsti. La riscossione avviene mediante iscrizione a ruolo a titolo definitivo dopo il passaggio in giudicato della sentenza»; che, ad avviso del giudice a quo, tale disposizione víola, innanzitutto, l’art. 3 Cost. sotto tre profili: sotto un primo profilo, perché – imponendo per la liquidazione delle spese di lite l’applicazione “diretta” delle tariffe forensi – ingiustificatamente assimila situazioni obiettivamente disomogenee (cioè l’esercizio della professione di avvocato, da un lato, e l’attività defensionale svolta da un funzionario di una pubblica amministrazione, per il quale non è richiesto neppure uno specifico titolo di studio o abilitativo all’esercizio di una professione, dall’altro); sotto un secondo profilo, perché – stabilendo l’applicabilità solo delle tariffe forensi e non anche di altre tariffe professionali o di tariffe espressamente determinate – irragionevolmente impedisce al giudice di liquidare le spese di lite in base al contenuto della controversi a ed alla tipologia della difesa tecnica prescelta dalla parte privata e comunque di fare applicazione analogica di altre tariffe professionali, con la conseguenza di derogare ingiustificatamente anche al principio fissato dal comma 2, primo periodo, dello stesso art. 15, per il quale «I compensi agli incaricati dell’assistenza tecnica sono liquidati sulla base delle rispettive tariffe professionali»; sotto un terzo profilo, perché – nel prevedere per la liquidazione degli onorari relativi alla difesa giudiziale svolta dai funzionari dell’amministrazione finanziaria la riduzione forfetaria e «aprioristica» del 20 per cento, rispetto agli onorari forensi – irragionevolmente impedisce al giudice di liquidare, «sulla base di una autonoma specifica valutazione di tutti gli elementi disponibili», spese di lite eventualmente non minori di quelle derivanti dall’utilizzazione delle prestazioni professionali di un avvocato; che, sempre per il medesimo rimettente, la disposizione censurata víola anche gli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost., perché – imponendo, in forza dell’applicazione delle tariffe forensi, di liquidare un rimborso forfetario delle “spese generali”, pari al 12,5 per cento degli onorari di avvocato – crea una irragionevole disparità di trattamento giudiziario tra la parte privata, per la quale il rimborso delle spese riguarda «sempre […], almeno in parte», spese effettivamente sostenute, e l’amministrazione finanziaria, per la quale, invece, tale rimborso «comporta o può comportare, un suo arricchimento, essendo commisurata non già a costi vivi sostenuti […] ma a percentuale sugli onorari liquidati, prescindendo del tutto da tali costi»; che il rimettente denuncia, infine, la violazione dell’art. 24 Cost., perché, la disposizione censurata – prevedendo la liquidazione delle spese di lite in favore della parte pubblica in base alla tariffa forense e senza un puntuale rapporto con costi effettivi sostenuti nel singolo processo – «finisce per rappresentare o un contributo parafiscale al funzionamento dell’Amministrazione a favore della quale sia disposta o un ingiustificato prelievo sanzionatorio a carico del soccombente o, comunque, una condanna patrimoniale ad effetto dissuasivo dal ricorrere al Giudice», con l’effetto di costituire un «fattore di remora, per la parte privata», e, pertanto, una limitazione del suo diritto di difesa, non giustificato da alcun preminente interesse pubblico; che i giudizi di cui alle predette ordinanze di rimessione, in quanto hanno ad oggetto la medesima disposizione e riguardano identiche questioni, debbono essere riuniti, per poter essere congiuntamente esaminati e decisi, a nulla rilevando, in contrario, che la loro trattazione sia avvenuta in parte mediante discussione in pubblica udienza e in parte in camera di consiglio (ex plurimis, sentenza n. 227 del 2010); che l’Avvocatura dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di motivazione sulla rilevanza; che l’eccezione è fondata; che il rimettente premette che egli, quale giudice di appello, deve giudicare su due motivi di impugnazione: il primo, proposto in via principale, relativo alla mancata considerazione, da parte del primo giudice, della sussistenza di giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese del primo grado di giudizio; il secondo, proposto in via logicamente subordinata, relativo alla eccessività e non congruità delle medesime spese di lite, come liquidate con la sentenza appellata; che, tuttavia, il giudice a quo, dopo aver posto tale premessa, si limita ad affermare di dover fare applicazione della denunciata disposizione con riferimento al secondo motivo di appello, senza mai prendere in considerazione il primo – e logicamente preliminare – motivo di impugnazione, il cui accoglimento escluderebbe, invece, l’applicazione della disposizione censurata; che tale lacuna motivazionale si risolve nell’omessa motivazione sulla rilevanza, con conseguente manifesta inammissibilità delle sollevate questioni; che, oltre a ciò, il rimettente mostra una radicale incertezza in ordine al petitum rivolto a questa Corte, contraddittoriamente richiedendo – nell’ipotesi in cui l’Agenzia delle entrate sia risultata vittoriosa in giudizio e si sia difesa tramite propri funzionari non iscritti nell’albo degli avvocati – la declaratoria di illegittimità costituzionale della denunciata disposizione ora nella sua totalità (sul presupposto interpretativo che, in tal caso, le altre norme vigenti gli imporrebbero di disporre il rimborso delle sole spese vive effettivamente sostenute), ora nella sola parte in cui esclude (nella stessa ipotesi) l’applicabilità di tariffe professionali diverse da quelle forensi o di specifiche tariffe (espressamente determinate dal legislatore), ora – infine – nella parte in cui non consente al giudice di determinare il rimborso nella misura ritenuta piú adeguata; che, a parte l’ovvia considerazione che – come osservato dall’Avvocatura dello Stato – una pronuncia della Corte non potrebbe mai avere l’effetto di introdurre una specifica tariffa dei compensi per l’attività difensiva svolta in giudizio dai funzionari dell’amministrazione finanziaria, tale indeterminatezza del petitum comporta, anche sotto tale profilo, la manifesta inammissibilità delle questioni (ex plurimis, sentenze n. 190 del 2010 e n. 247 del 2009; ordinanze n. 91 del 2010 e n. 286 del 2009). Visto l’art. 15, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 15, comma 2-bis, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’articolo 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), sollevate − in riferimento agli artt. 3, 24 e 111, secondo comma, della Costituzione − dalla Commissione tributaria regionale del Veneto con le ordinanze di cui in epigrafe. Cosí deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 ottobre 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Franco GALLO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'8 ottobre 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA SENTENZA N. 293 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), promossi dal Tribunale amministrativo regionale della Campania con due ordinanze del 28 ottobre e con una ordinanza del 18 novembre 2008, rispettivamente iscritte ai nn. 114, 115 e 116 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 17, prima serie speciale, dell’anno 2009. Visti gli atti di costituzione di N.D. ed altri, di M.R.P. ed altri e del Comune di Casapesenna ed altri nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 7 luglio 2010 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro; uditi gli avvocati Francesco Guerriero e Antonio Sasso per N.D. ed altri, Antonio Sasso per M.R.P. ed altri, Fabrizio Vittoria per il Comune di Casapesenna e l’avvocato dello Stato Maurizio Borgo per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. – Il Tribunale amministrativo regionale per la Campania, con tre ordinanze di identico tenore, pronunciate in altrettanti giudizi, le prime due del 28 ottobre 2008 (r.o. n. 114 e n. 115 del 2009) e la terza del 18 novembre 2008 (r.o. n. 116 del 2009), ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 24, 42, 76, 97, 113 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità). 1.1.– Le prime due ordinanze (r.o. n. 114 e n. 115 del 2009), relative ad identiche fattispecie, espongono che i ricorrenti sono tutti proprietari di un fondo in Casapesenna, oggetto di procedura ablatoria, in ordine alla quale il medesimo TAR, con sentenze rispettivamente n. 73 e n. 74 del 2008, aveva annullato gli atti impugnati e condannato il Comune di Casapesenna a restituire il terreno, previo ripristino dello stato dei luoghi. Gli attori, con distinti ricorsi, poi riuniti dal TAR, hanno proposto ricorso per l’esecuzione del giudicato, chiedendo la restituzione del fondo, ed hanno impugnato la delibera del Consiglio comunale con la quale il Comune ha disposto, ex art. 43, comma 2, del citato d.P.R., l’acquisizione al patrimonio indisponibile delle aree in questione, corrispondendo una somma a titolo di risarcimento dei danni. 1.2.– I rimettenti premettono ancora, in fatto, che la vicenda era stata oggetto di una prima pronuncia dello stesso tribunale (sentenza 23 gennaio 2003, n. 387) con la quale era stato censurato l’operato dell’amministrazione in ragione del mancato compimento dell’iter previsto per la formazione della variante urbanistica, e per violazione del contraddittorio con i soggetti interessati. Nel procedimento di cui all’ordinanza r.o. n. 114 del 2009, con successive sentenze veniva poi annullata una nota del comune di diniego di restituzione del suolo occupato e disposta la restituzione dello stesso con ripristino dello stato dei luoghi (sentenza 5 giugno 2003, n. 7290), ed ancora veniva accolto il ricorso per l’esecuzione del relativo giudicato con nomina di un commissario ad acta. In seguito il Consiglio di Stato, con sentenza 3 maggio 2005, n. 2095, dichiarava che sull’amministrazione gravava l’obbligo di restitui re l’area occupata. Successivamente, con le già indicate sentenze del medesimo TAR (n. 73 e n. 74 del 2008), erano stati annullati per incompetenza gli atti inerenti alla procedura ex art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001, con condanna del comune alla restituzione del terreno previo ripristino dello stato dei luoghi. Infine, era intervenuto il provvedimento di acquisizione sanante ai sensi del citato art. 43. 1.3.– La terza ordinanza (r.o. n. 116 del 2009) espone, in fatto, che il ricorrente, proprietario di un fondo sito nel Comune di San Giuseppe Vesuviano (Napoli), ne aveva subito da parte di detto comune l’occupazione, senza alcun procedimento espropriativo. Dopo alterne vicende in punto di giurisdizione, il Tribunale di Nola, ritenendo la propria giurisdizione, radicandola per la natura usurpativa dell’occupazione, aveva, infine, negato l’acquisto della proprietà in capo alla pubblica amministrazione. In seguito, era stato adottato da parte del responsabile del Servizio lavori pubblici ed urbanistica ed Ufficio espropriazioni del Comune di San Giuseppe Vesuviano, il decreto n. prot. 2006 0020376, impugnato nel giudizio principale, con il quale veniva disposta l’acquisizione coattiva al patrimonio indisponibile comunale dell’area, prevedendo, altresì in favore del proprietario «oltre l’indennizzo, il risarcimento del danno nonchè il computo degli interessi moratori a decorrere dal giorno in cui il terreno sia stato occupato senza titolo». In particolare, il ricorrente deduceva la violazione degli artt. 43 e 57, comma l, del d.P.R. n. 327 del 2001, lamentando l’inapplicabilità al caso di specie del procedimento ex art. 43 ed invocando l’applicazione del regime transitorio ex art. 57, comma 1, con obbligo di restituzione dell’immobile e risarcimento del danno ex art. 2043 del codice civile per l’illegittima, ulteriore occupazione. 1.4.– Ciò posto, i giudici a quibus ricordano che, in caso di annullamento giurisdizionale degli atti relativi alla procedura di espropriazione per pubblica utilità, il proprietario può chiedere – mediante il giudizio di ottemperanza – la restituzione del bene piuttosto che il risarcimento del danno per equivalente monetario, anche se l’area sia stata irreversibilmente trasformata in conseguenza dell’esecuzione dell’opera pubblica. Inoltre, l’unico rimedio per evitare la restituzione dell’area sarebbe l’emanazione di un provvedimento di acquisizione cosiddetto «sanante» ex art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001, in assenza del quale l’amministrazione non può addurre la intervenuta realizzazione dell’opera pubblica quale causa di impossibilità oggettiva e, quindi, come impedimento alla restituzione. 1.5. – Il TAR Campania, dopo aver ricordato la giurisprudenza di legittimità relativa alla cosiddetta occupazione «appropriativa», assume che tale ricostruzione sarebbe incompatibile con la disciplina normativa introdotta dal d.P.R. n. 327 del 2001 ed entrata in vigore il 30 giugno 2003, in quanto la disposizione oggi censurata subordina all’adozione di apposito provvedimento discrezionale il trasferimento di proprietà dei beni immobili utilizzati per scopi di interesse pubblico, a seguito di trasformazione, determinatasi in assenza del valido ed efficace provvedimento espropriativo o dichiarativo della pubblica utilità. Inoltre, non potrebbe ritenersi che l’art. 43 disponga solo per il futuro, trattandosi di disposizione, avente natura processuale riferita a tutti i casi di occupazione sine titulo, anche già sussistenti alla data di entrata in vigore del testo unico (a conforto, richiama: Cons. Stato, IV, 21 maggio 2007 , n. 2582; A.P., 29 aprile 2005, n. 2; TAR. Emilia-Romagna, Bologna, I, 27 ottobre 2003, n. 2160). 1.6.– I rimettenti, quanto alla giurisdizione, ritengono di doversi conformare al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, in materia di procedimenti di espropriazione per pubblica utilità, sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo le controversie nelle quali si faccia questione, anche a fini risarcitori, di attività di occupazione e trasformazione di un bene conseguenti ad una dichiarazione di pubblica utilità e con essa congruenti, anche in presenza di atti poi dichiarati illegittimi. 1.7.– Ciò posto, con riferimento alla delibera di acquisizione delle aree, il Tribunale richiama la giurisprudenza secondo cui tale atto persegue una finalità di sanatoria di situazioni prive di procedure legittime di esproprio, senza che rilevi la causa della illegittimità del comportamento: sia essa conseguente all’assenza di una dichiarazione di pubblica utilità od all’annullamento di essa oppure determinata da altre cause, risultando in proposito rilevante il solo fatto che l’interesse pubblico non potrebbe essere soddisfatto se non con il mantenimento della situazione ablativa. In punto di rilevanza i rimettenti assumono che, aderendo a tale orientamento, nella specie il ricorso in ottemperanza dovrebbe essere dichiarato improcedibile, in virtù dell’atto formale di acquisizione sanante, mentre il ricorso avverso la delibera consiliare dovrebbe essere rigettato, perché il provvedimento oggetto di impugnazione deve ritenersi conforme al modello astratto di cui al citato art. 43. 1.8.– Il Tribunale amministrativo campano dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale di tale norma, per violazione degli artt. 3, 24, 42, 76, 97, 113 e 117, Cost.. In particolare, quanto agli artt. 3, 24, 42, 97 e 113 Cost., il Tribunale evidenzia come l’esercizio del potere autoritativo di acquisizione dell’area, attraverso l’adozione di un atto amministrativo, che consente di evitare la restituzione del bene e di sanare la pregressa illegalità, avrebbe assunto la natura di strumento «ordinario», attraverso il quale «si legalizza l’illegale», rimuovendo l’illecito aquiliano attraverso l’atto di acquisizione. In tal modo risulterebbe capovolta la garanzia costituzionale del diritto di proprietà di cui all’art. 42, Cost., nella misura in cui la norma «consente alla pubblica amministrazione, anche deliberatamente, […] di eludere gli obblighi procedimentali della instaurazione del contraddittorio, delle tre fasi progettuali e della verifica delle norme di conformità urbanistica», norme peraltro imposte non soltanto dall’autorità comunale, ma anche da quelle preposte alla tutela di ulteriori e distinti vincoli. L’abuso di tale strumento imporrebbe, invece, una lettura restrittiva della disposizione, dal momento che ben difficilmente nella pratica sarebbe possibile immaginare ipotesi in cui l’Amministrazione non possa giustificare il proprio operato, con la necessità di perseguire uno scopo pubblico. Per altro verso, a giudizio dei rimettenti, non si potrebbe prescindere dai principi costituzionali e dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), (infra: anche CEDU o Convenzione europea), in base ai quali il diritto di proprietà potrebbe essere acquistato dall’Amministrazione soltanto attraverso l’emanazione di un formale provvedimento amministrativo. Inoltre, si precisa, la questione di legittimità costituzionale viene appunto sollevata, prendendo atto che, di fatto, la sentenza che ha dichiarato l’illegittimità della procedura si pone come «una sorta di atto presupposto del procedimento che si perfeziona con l’atto di acquisizione», con conseguente «grave lesione del principio generale dell’intangibilità del giudicato amministrativo» […] sostanzialmente «vanificato da un atto amministrativo di acquisizione per utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico». Del resto, andrebbe pure considerato che l’acquisizione sanante ben potrebbe essere «reiterata all’infinito», divenendo non più uno strumento straordinario, ma ordinario, con conseguente «vanificazione dei principi di certezza giuridica e di tutela delle posizioni giuridiche». In questo contesto, il Tribunale specifica di aver esperito inutilmente ogni tentativo di interpretazione adeguatrice, al fine attribuire alla norma un significato costituzionalmente corretto. 1.9.– Con riferimento, poi, all’art. 117, primo comma, Cost., il Tribunale, dopo aver richiamato la sentenza di questa Corte n. 349 del 2007, con riguardo al rapporto fra norma statale ed obblighi derivanti dalla CEDU, assume che la norma censurata non sarebbe conforme ai principi della Convenzione europea ed all’art. 6 (F) del Trattato di Maastricht (modificato dal Trattato di Amsterdam), in base al quale «l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, [...] in quanto principi generali del diritto comunitario». In questo senso deporrebbe la costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (20 aprile 2006; 15 novembre 2005; 17 maggio 2005), la quale avrebbe più volte affermato la non conformità all’art. 1, prot. 1, della Convenzione, della prassi sulla cosiddetta «espropriaz ione indiretta», secondo cui l’amministrazione diventerebbe proprietaria del bene in assenza di un atto ablatorio. 1.10.– Infine, i rimettenti censurano l’art. 43 anche con riferimento all’art. 76, Cost., in quanto l’art. 7, comma 2, lettera d) della legge-delega 8 marzo 1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi - Legge di semplificazione 1998) avrebbe delegato al Governo il mero «coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di detto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo». La norma in questione, invece, non troverebbe «riferimento o principi e criteri direttivi in norme preesistenti», non potendosi sostenere che l’acquisizione sanante fosse una modifica necessaria per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa. 2.– Nel giudizio innanzi alla Corte si sono costituiti i ricorrenti dei giudizi principali (N.D. ed altri, quanto all’ordinanza r.o. n. 114 del 2009 e M.R.P. ed altri, quanto all’ordinanza r.o. n. 115 del 2009), con atti di identico tenore in diritto, chiedendo che la questione sia accolta. 2.1.– La difesa delle parti private, dopo aver ripercorso le motivazioni sottese all’ordinanza di rimessione, assume, in primo luogo, che l’atto acquisitivo previsto dalla disposizione impugnata, in quanto finalizzato a «sanare» un’attività posta in essere dalla pubblica amministrazione contra ius, determinando la perdita della proprietà, violerebbe gli artt. 3, 24, 42, 97 e 117, Cost., conducendo a «legalizzare» l’illegale, consentendo l’illecito aquiliano. I ricorrenti, riportando peraltro ampi brani di sentenze della Corte di cassazione sul fenomeno dell’occupazione acquisitiva, ritengono che il censurato art. 43 si porrebbe al di fuori dei «canoni di legittimità costituzionale», dal momento che attribuisce alla pubblica amministrazione il potere di disporre l’acquisizione del bene, anche nell’ipotesi in cui non vi sia stata alcuna preventiva dichiarazione di pubblica utilità, o la medesima sia stata annullata o resa inefficace ex tunc. In definitiva, la norma censurata determinerebbe uno squilibrato vantaggio per il soggetto pubblico, pregiudicando la certezza dei rapporti giuridici e sacrificando l’affidamento dei soggetti nella possibilità di far valere le proprie ragioni sulla base di condizioni normative «operanti nell’ordinamento vigente in un determinato periodo storico». 2.2.– Quanto alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., le parti assumono che la norma si porrebbe in conflitto «con i principi che sorreggono la Convenzione europea su diritti dell’uomo (CEDU), aventi diretta rilevanza nell’ordinamento interno, nonché con l’articolo 6 del Trattato di Maastricht, modificato dal Trattato di Amsterdam». Tale contrasto sarebbe evidente, alla luce del costante orientamento della Corte Europea dei diritti dell’uomo in materia di espropriazione cosiddetta «indiretta». In particolare, si ricordano alcune decisioni di quella Corte nelle quali è stato affermato che l’espropriazione indiretta tende a stabilizzare una situazione di fatto derivante dalle illegalità commesse dall’amministrazione e che, «sia in virtù di un principio giurisprudenziale o di un testo di legge come l’art. 43 del testo unico, l’espropriazione indiretta non dovrebbe costituire un mezzo alternativo all’«espropriazione operata in forma corretta». I ricorrenti ricordano altresì, come «l’anomalia italiana» abbia formato oggetto anche di una risoluzione interinale, in data 14 febbraio 2007, da parte del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, con cui le Autorità nazionali sono state «incoraggiate» «... a proseguire i loro sforzi e ad adottare rapidamente tutte le misure necessarie addizionali al fine di rimediare in maniera definitiva alla pratica della “espropriazione indiretta”». In tale contesto europeo, poi, le Autorità governative italiane avrebbero expressis verbis ammesso che la norma dettata dall’art. 43 t.u. in materia di espropriazione per pubblica utilità è ex se non coerente con i principi della Convenzione, tant’è che ne viene suggerita un’applicazione ed interpretazione «correttiva». 2.3.– Infine, le parti private, citando giurisprudenza di questa Corte, aderiscono alla censura formulata con riguardo all’art. 76, Cost., in quanto l’ipotesi dell’acquisizione, introdotta dall’art. 43 d.P.R. n. 327 del 2001, sarebbe «priva di addentellati con la vigente normativa», nel mentre il legislatore delegato non era stato autorizzato ad integrare o correggere le previsioni vigenti, ma semplicemente a riordinarle, attraverso un intervento di mero coordinamento. 3.– Nel giudizio relativo alle ordinanze r.o. n. 114 e n. 115 del 2009, si è costituito il Comune di Casapesenna, criticando le argomentazioni sottese ai provvedimenti del giudice a quo. In primo luogo, il Tribunale campano, affermando che l’istituto in questione «nelle intenzioni del legislatore doveva conservare una natura eccezionale», nel mentre avrebbe «assunto la natura di strumento ordinario», confonderebbe l’ipotetica applicazione «scorretta» della norma in questione, con la sua illegittimità costituzionale. Inoltre, non sarebbe neppure corretto affermare che l’art. 43 consentirebbe l’illecito aquiliano, in quanto, al contrario, la norma in questione avrebbe proprio escluso in radice che l’eventuale illecito aquiliano possa in sé determinare, come accadeva in passato, l’acquisto della proprietà da parte della pubblica amministrazione. Il giudice a quo non coglierebbe nel segno neppure con riguardo alla pretesa elusione degli obblighi procedimentali, in quanto il provvedimento di acquisizione deve dare conto specificamente degli interessi in conflitto, compiendo un’esaustiva comparazione dei medesimi, attraverso una congrua motivazione della «sussistenza attuale di un interesse pubblico specifico e concreto». In questo senso, dunque, lo stringente obbligo di motivazione consente, proprio al giudice amministrativo, di valutarne la «logicità e ragionevolezza». 3.1.– Quanto, poi, al contrasto con la giurisprudenza di Strasburgo, il Comune di Casapesenna ritiene che, diversamente da quanto opinato dai rimettenti, gli arresti della CEDU non hanno avuto ad oggetto l’applicazione dell’art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001, ma la pratica dell’accessione invertita, della quale proprio l’art. 43 costituirebbe la soluzione legislativa. 3.2.– Infondata sarebbe pure la censura di violazione del giudicato amministrativo, in quanto la norma in esame non sarebbe in grado di mettere in discussione né l’annullamento degli atti preordinati all’esproprio, né il diritto al risarcimento del privato illegittimamente spossessato, limitandosi piuttosto a consentire alla pubblica amministrazione di optare per il risarcimento monetario, piuttosto che per quello in forma specifica. Anzi, il citato art. 43, piuttosto che ledere il precedente giudicato, ne garantirebbe una più piena esecuzione, in quanto limiterebbe a singoli casi ed alla ricorrenza di specifici presupposti la facoltà della pubblica amministrazione di optare per il risarcimento monetario, in luogo di quello in forma specifica. 3.3.– Da ultimo, con riferimento alla violazione dell’art. 76 Cost., si rileva che il t.u. sulle espropriazioni, in quanto volto al riordino normativo ed alla semplificazione delle norme procedurali ed organizzative, avrebbe natura innovativa e non meramente compilativa, potendo apportare, in sede di coordinamento delle disposizioni vigenti, «le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa». 4.– In tutti i giudizi promossi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che, nei distinti atti, di contenuto sostanzialmente identico, ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile ed infondata. 4.1.– La difesa dello Stato eccepisce, in primo luogo, l’inammissibilità della questione per difetto di rilevanza, ricordando che questa Corte, nella sentenza n. 191 del 2006, ha espressamente escluso che la norma censurata abbia valore di norma processuale, sicchè i rimettenti avrebbero dovuto chiedersi se essa fosse o meno applicabile alla fattispecie concreta. Il tema dell’applicabilità dell’art. 43 del t.u. in materia di espropriazioni alle occupazioni sine titulo, perfezionatesi prima dell’entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001, rappresenterebbe, infatti, uno dei temi più dibattuti sia in dottrina che in giurisprudenza. Oltre all’orientamento richiamato dall’ordinanza di rimessione, infatti, sarebbe dato riscontrare, in senso contrario, in primo luogo quello della Corte di cassazione che, con le sentenze 22 settembre 2008, n. 23943 e 19 dicembre 2007, n. 26732, ne ha escluso l’app licabilità in considerazione del fatto che l’art. 57 del d.P.R. n. 327 del 2001, nel disciplinare l’applicabilità della nuova disciplina (e non soltanto delle norme di natura sostanziale), ha introdotto un criterio fondato esclusivamente sul dato temporale del primo atto del procedimento espropriativo, a prescindere dalle sue successive vicende e dai successivi provvedimenti che l’espropriante potesse emanare. Inoltre, lo stesso Consiglio di Stato, con la sentenza 26 settembre 2008 n. 4660, avrebbe negato l’applicazione del citato art. 43 ad una fattispecie perfezionatasi, come quella in esame oggi, anteriormente all’entrata in vigore del t.u. 4.2.– La questione sarebbe, ancora, inammissibile perché i rimettenti non avrebbero sperimentato un’interpretazione costituzionale della norme censurata. Ciò in quanto il Tribunale muoverebbe da un’applicazione della disposizione da parte delle amministrazioni e da parte del diritto vivente, che a suo giudizio avrebbe condotto a risultati abnormi, quali quello relativo all’operatività dell’art. 43 in sede di ottemperanza, suscettibile di caducare l’accertamento del diritto alla restituzione del fondo e di travolgere la forza del giudicato. Ad avviso dell’Avvocatura dello Stato, tuttavia, nulla avrebbe impedito ai giudici rimettenti di valutare alla stregua di un’interpretazione costituzionalmente orientata l’illegittimità dell’atto acquisitivo, nel corso del giudizio di ottemperanza, per le medesime ragioni che sono state poste a sostegno della questione di costituzionalità. 4.3. – Nel merito, la difesa dello Stato precisa in primo luogo che lo strumento della cosiddetta acquisizione sanante, lungi dall’essere uno strumento ordinario, si sostanzierebbe invece come una «legale via d’uscita» dalle situazioni di illegalità, verificatesi nel corso degli anni. Quanto, poi, al rapporto con il giudicato relativo alla restituzione del fondo, si sottolinea che la disposizione in esame non costituisce, di per sé, uno strumento di elusione del giudicato, ma sarebbe semmai l’uso non funzionale della norma da parte dell’Amministrazione, che potrebbe determinare tale conseguenza. Sarebbe, quindi, compito del giudice amministrativo verificare con rigore quella comparazione di interessi sottesa al provvedimento, secondo i criteri della ragionevolezza e proporzionalità. Il Presidente del Consiglio dei ministri evidenzia, poi, come nel caso di specie il giudice ben avrebbe potuto dichiarare, ai sensi dell’art. 21 septies della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), la nullità del provvedimento di acquisizione adottato dall’amministrazione comunale, per violazione del giudicato. 4.4.– In ordine alla questione relativa alla violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per violazione della CEDU, l’Avvocatura dello Stato, nonostante i dubbi di legittimità costituzionale paventati da alcune decisioni della Corte di cassazione (sentenza n. 26732 del 2007, cit.), premette che la questione della compatibilità dell’art. 43 non sarebbe mai stata affrontata dalla Corte di Strasburgo. Ciò posto, il giudice rimettente avrebbe potuto, comunque praticare un’interpretazione conforme ai «canoni CEDU», prima ancora di sollevare la questione di legittimità costituzionale. Del resto la giurisprudenza amministrativa si sarebbe più volte espressa nel senso della piena compatibilità dell’art. 43 con le disposizioni CEDU, come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. 4.5.– Infine, con riferimento al denunciato vizio di eccesso di delega, il Presidente del Consiglio dei ministri ricorda, ancora, la giurisprudenza del giudice amministrativo che avrebbe negato la sussistenza di tale vizio. 4.6.– Da ultimo l’Avvocatura dello Stato sottolinea come l’eventuale «caducazione» della norma impugnata avrebbe come inevitabile conseguenza il «ritorno in auge» degli istituti di creazione pretoria dell’occupazione «acquisitiva» ed «usurpativa», che esporrebbero lo Stato ad ulteriori e numerosissime condanne da parte della Corte di Strasburgo. Considerato in diritto 1.– Le questioni sollevate dal Tribunale amministrativo regionale per la Campania, con tre distinte ordinanze di contenuto in larga misura coincidente (r.o. n. 114, n. 115 e n. 116 del 2009), riguardano l’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubbica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità), con il quale viene disciplinata la «Utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico». 1.1.– I giudizi hanno ad oggetto la stessa norma, censurata con riferimento agli stessi parametri, sotto gli stessi profili e in gran parte con le stesse argomentazioni; ponendo, pertanto, un’identica questione, vanno riuniti e decisi con un’unica pronuncia. 2.– La norma censurata ha ad oggetto la disciplina dell’utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico e consente all’autorità che abbia utilizzato a detti fini un bene immobile in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, di disporne l’acquisizione al suo patrimonio indisponibile, con l’obbligo di risarcire i danni al proprietario. La disposizione regola, inoltre, tempo e contenuto dell’atto di acquisizione, l’impugnazione del medesimo, la facoltà della pubblica amministrazione di chiedere che il giudice amministrativo «disponga la condanna al risarcimento del danno, con esclusione della restituzione del bene senza limiti di tempo», fissando i criteri per la quantificazione del risarcimento del danno. Secondo il Tribunale rimettente, in punto di rilevanza, l’applicazione della disciplina di cui al citato art. 43 determinerebbe l’improcedibilità dei ricorsi in ottemperanza, in considerazione dell’atto formale di acquisizione sanante; nello stesso tempo, i ricorsi avverso la delibera di acquisizione dovrebbero essere rigettati, perché il provvedimento oggetto di impugnazione dovrebbe ritenersi conforme al modello astratto disegnato dall’intera disposizione, nonostante, in questo caso, fosse già intervenuta una pronuncia di restituzione (in particolare nei giudizi iscritti al r.o. n. 114 e n. 115 del 2009, a seguito dell’annullamento gli atti inerenti alla procedura ex art. 43). La norma si porrebbe in contrasto anzitutto con gli articoli 3, 24, 42, 97 e 113 della Costituzione, in quanto essa consentirebbe, secondo l’interpretazione assunta come diritto vivente, la sanatoria di espropriazioni illegittime, a causa della mancanza della dichiarazione di pubblica utilità, dell’annullamento degli atti ovvero per altra causa. In tal modo, sarebbe prefigurato l’esercizio di un potere autoritativo di acquisizione dell’area che impedirebbe la restituzione del bene, rimuovendo l’illecito aquiliano anche a dispetto di un giudicato amministrativo, consentendo «alla pubblica amministrazione, anche deliberatamente, … di eludere gli obblighi procedimentali della instaurazione del contraddittorio, delle tre fasi progettuali e della verifica delle norme di conformità urbanistica» con «grave lesione del principio generale dell’intangibilità del giudicato amministrativo», sostanzialmente «vanifi cato da un atto amministrativo di acquisizione per utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico». 3.– Ad avviso del TAR, la norma impugnata si porrebbe, inoltre, in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto non sarebbe conforme ai principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, come interpretati dalla Corte di Strasburgo, che ha ritenuto in contrasto con l’art. 1, prot. 1, la prassi della cosiddetta «espropriazione indiretta»; violando peraltro anche l’art. 6 (F) del Trattato di Maastricht (modificato dal Trattato di Amsterdam), in base al quale «l’Unione rispetta i diritti fondamentali quali sono garantiti dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, [...] in quanto principi generali del diritto comunitario». 4.– I rimettenti, infine, ritengono che il citato art. 43 impugnato recherebbe vulnus all’art. 76, Cost., in quanto sarebbe stato emanato in violazione dei criteri della legge-delega 8 marzo 1999, n. 50 (Delegificazione e testi unici di norme concernenti procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1998). 5.– L’Avvocatura dello Stato ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, per difetto di rilevanza nel giudizio a quo, in quanto questa Corte, la Corte di cassazione ed il Consiglio di Stato avrebbero escluso l’applicabilità del citato art. 43 alle occupazioni appropriative verificatesi prima del 30 giugno 2003, data di entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001. 5.1.– L’eccezione non è fondata. La questione dell’applicabilità della norma in esame non è stata risolta in modo univoco dalla giurisprudenza. La Corte di cassazione esclude, infatti, l’ammissibilità dell’adozione di un provvedimento di acquisizione sanante ex art. 43 con riguardo alle occupazioni appropriative verificatesi prima dell’entrata in vigore del d.P.R. n. 327 del 2001 (sentenze 22 settembre 2008, n. 23943, 28 luglio 2008 n. 20543, 19 dicembre 2007, n. 26732). Diversamente, nella giurisprudenza del Consiglio di Stato è ormai prevalente il principio secondo cui «la procedura di acquisizione in sanatoria di un’area occupata sine titulo, descritta dal citato articolo 43, trova una generale applicazione anche con riguardo alle occupazioni attuate prima dell’entrata in vigore della norma» (Cons. Stato, Sez. IV, 26 marzo 2010, n. 1762, Sez. IV, 8 giugno 2009, n. 3509, inoltre: Ad. Plen. 29 aprile 2005, n. 2; Sez. IV, 16 novembre 2007, n. 5830, esaminata senza rilievi sulla giurisdizione da Cass., SS.UU., 16 aprile 2009, n. 9001). In presenza di tale contrasto, le ordinanze di rimessione hanno motivato in maniera non implausibile in ordine all’applicabilità della norma, richiamando la giurisprudenza assolutamente prevalente ed il «diritto vivente» del Consiglio di Stato. 6.– Nel merito, vanno esaminate in via preliminare le censure riferite all’art. 76, della Costituzione. Spetta, infatti, a questa Corte «valutare il complesso delle eccezioni e delle questioni costituenti il thema decidendum devoluto al suo esame» e «stabilire, anche per economia di giudizio, l’ordine con cui affrontarle nella sentenza e dichiarare assorbite le altre» (da ultimo, sentenze n. 181 del 2010 e n. 262 del 2009), quando si è in presenza di «questioni tra loro autonome per l’insussistenza di un nesso di pregiudizialità» (sentenza n. 262 del 2009). Nella specie, è palese la pregiudizialità logico-giuridica delle censure riferite all’art. 76 Cost., giacchè esse investono il corretto esercizio della funzione legislativa e, quindi, la loro eventuale fondatezza eliderebbe in radice ogni questione in ordine al contenuto precettivo della norma in esame. 6.1.– I rimettenti denunciano la violazione dell’art. 76 Cost., deducendo che l’art. 43 non troverebbe «riferimento o principi e criteri direttivi in norme preesistenti», in quanto la legge-delega n. 50 del 1999 prevedeva il mero coordinamento formale del testo delle disposizioni vigenti, e consentiva, nei limiti di tale coordinamento, le sole modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa, anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio. 7.– La questione è fondata. 8.– La norma impugnata disciplina l’istituto cosiddetto della «acquisizione sanante». In particolare essa dispone, fra l’altro, al comma 1, che, «valutati gli interessi in conflitto, l’autorità che utilizza un bene immobile per scopi di interesse pubblico, modificato in assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, può disporre che esso vada acquisito al suo patrimonio indisponibile e che al proprietario vadano risarciti i danni». Viene, poi, precisato, al comma 2, che l’atto di acquisizione «...a) può essere emanato anche quando sia stato annullato l’atto da cui sia sorto il vincolo preordinato all’esproprio, l’atto che abbia dichiarato la pubblica utilità di un’opera o il decreto di esproprio;». Si tratta, dunque, della possibilità di acquisire alla mano pubblica un bene privato, in precedenza occupato e modificato per la realizzazione di un’opera di interesse pubblico, anche nel caso in cui l’efficacia della dichiarazione di pubblica utilità sia venuta meno, con effetto retroattivo, in conseguenza del suo annullamento o per altra causa, o anche in difetto assoluto di siffatta dichiarazione («assenza del valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità»). 8.1.– La norma censurata è contenuta nel testo unico, in materia di espropriazioni, redatto in attuazione della legge n. 50 del 1999, a sua volta collegata alla legge 15 marzo 1997 n. 59 (Delega al Governo per il conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed enti locali, per la riforma della Pubblica Amministrazione e per la semplificazione amministrativa), che aveva previsto un generale strumento permanente di semplificazione e di delegificazione. In particolare, la delega riguardava il «riordino» delle norme elencate nell’allegato I alla legge n. 59 del 1997 (nel testo risultante a seguito dell’art. 1, legge 24 novembre 2000, n. 340 – Disposizioni per la delegificazione di norme e per la semplificazione di procedimenti amministrativi – Legge di semplificazione 1999), che contemplava, quale oggetto, il «procedimento di espropriazione per causa di pubblica utilità e altre procedure connesse: legge 25 giugno 1865, n. 2359; legge 22 ottobre 1971, n. 865». 8.2.– Il chiaro tenore delle norme richiamate rende palese che la delega oggetto delle medesime concerneva esplicitamente il tessuto normativo costituito dalle leggi n. 2359 del 1865 e n. 865 del 1971. Il sistema dell’espropriazione per pubblica utilità risultante da dette leggi era articolato, in sintesi, in un procedimento che presupponeva il provvedimento dichiarativo della pubblica utilità dell’opera e la fissazione di termini, con la connessa disciplina dei casi di indifferibilità ed urgenza. In seguito, la legge n. 865 del 1971 aveva previsto la concentrazione del procedimento in un’unica fase, ricollegando la dichiarazione di pubblica utilità, unitamente alla dichiarazione di indifferibilità ed urgenza delle opere pubbliche, all’approvazione dei progetti delle opere da parte degli organi competenti. Successivamente, ed in presenza di una nutrita serie di patologie dei procedimenti amministrativi di espropriazione, consistenti nell’accertamento dell’occupazione sine titulo da parte della pubblica amministrazione, la giurisprudenza di legittimità aveva elaborato gli istituti dell’occupazione «appropriativa» ed «usurpativa». In sintesi, la prima era caratterizzata da una anomalia del procedimento espropriativo, a causa della sua mancata conclusione con un formale atto ablativo, mentre la seconda era collegata alla trasformazione del fondo di proprietà privata, in assenza di dichiarazione di pubblica utilità. Nel primo caso (il cui leading case si rinviene nella sentenza delle Sezioni Unite 26 febbraio 1983, n. 1464), l’acquisto della proprietà conseguiva ad un’inversione della fattispecie civilistica dell’accessione di cui agli artt. 935 ss. cod. civ., in considerazione della trasformazione irreversibile del fondo. Secondo questa ricostruzione, la destinazione irreversibile del suolo privato illegittimamente occupato comportava l’acquisto a titolo originario, da parte dell’ente pubblico, della proprietà del suolo e la contestuale estinzione del diritto di proprietà del privato. La successiva sentenza delle Sezioni Unite 10 g iugno 1988, n. 3940, precisò poi la figura della «occupazione acquisitiva», limitandola al caso in cui si riscontrasse una valida dichiarazione di pubblica utilità che permetteva di far prevalere l’interesse pubblico su quello privato. L’«occupazione usurpativa», invece, non accompagnata da dichiarazione di pubblica utilità, ab initio o per effetto dell’intervenuto annullamento del relativo atto o per scadenza dei relativi termini, in quanto tale non determinava dunque l’effetto acquisitivo a favore della pubblica amministrazione. 8.3.– E’ questo, in sostanza, il contesto normativo in cui è stato inserito il citato art. 43, comprensivo anche dei ricordati istituti di origine giurisprudenziale, i quali hanno nel tempo disciplinato la materia. Nella redazione del testo unico il legislatore delegato era tenuto ad osservare i seguenti principi e criteri direttivi, contenuti nell’art. 7, comma 2, della citata legge n. 50: la puntuale individuazione del testo vigente delle norme (lettera b dell’art. 7 cit.); l’indicazione delle norme abrogate, anche implicitamente, da successive disposizioni (lettera c); il coordinamento «formale» del testo delle disposizioni vigenti, apportando, nei limiti di detto coordinamento, le modifiche necessarie per garantire la coerenza logica e sistematica della normativa, anche al fine di adeguare e semplificare il linguaggio normativo (lettera d). La legge-delega imponeva, poi, l’indicazione delle disposizioni, non inserite nel testo unico, che restavano comunque in vigore (lettera e) e l’esplicita abrogazione di tutte le rimanenti disposizioni, non richiamate, che regolavano la materia oggetto di delegificazione, con espressa indicazione delle stesse in apposito allegato al testo unico (lettera f). 8.4.– Occorre verificare, pertanto, se il legislatore delegato abbia osservato i suindicati principi e criteri direttivi. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, il sindacato di costituzionalità sulla delega legislativa si esplica attraverso un confronto tra gli esiti di due processi ermeneutici paralleli. Il primo riguarda le norme che determinano l’oggetto, i principi e i criteri direttivi indicati dalla delega, tenendo conto del complessivo contesto di norme in cui si collocano e si individuano le ragioni e le finalità poste a fondamento della legge di delegazione. Il secondo riguarda le norme poste dal legislatore delegato, da interpretarsi nel significato compatibile con i principi ed i criteri direttivi della delega (ex plurimis, sentenze n. 230 del 2010, n. 98 del 2008, n. 54 del 2007, n. 280 del 2004, n. 199 del 2003). Pertanto, da un lato, deve farsi riferimento alla ratio della delega; dall’altro, occorre tenere conto della possibilità, insita nello strumento della delega, di introdurre norme che siano un coerente sviluppo dei principi fissati dal legislatore delegato; dall’altro ancora, sebbene rientri nella discrezionalità del legislatore delegato emanare norme che rappresentino un coerente sviluppo e, se del caso, anche un completamento delle scelte espresse dal legislatore (sentenza n. 199 del 2003; ordinanza n. 213 del 2005), è nondimeno necessario che detta discrezionalità sia esercitata nell’ambito dei limiti stabiliti dai principi e criteri direttivi. Inoltre, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, qualora la delega abbia ad oggetto, come nella specie, la revisione, il riordino ed il riassetto di norme preesistenti, queste finalità giustificano un adeguamento della disciplina al nuovo quadro normativo complessivo, conseguito dal sovrapporsi, nel tempo, di disposizioni emanate in vista di situazioni ed assetti diversi. L’introduzione di soluzioni sostanzialmente innovative rispetto al sistema legislativo previgente è, tuttavia, ammissibile soltanto nel caso in cui siano stabiliti principi e criteri direttivi idonei a circoscrivere la discrezionalità del legislatore delegato (sentenza n. 170 del 2007 e n. 239 del 2003). 8.5.– Alla luce di questi principi, risulta chiara la fondatezza delle censure svolte dai giudici rimettenti. La legge-delega aveva conferito, sul punto, al legislatore delegato il potere di provvedere soltanto ad un coordinamento «formale» relativo a disposizioni «vigenti». L’istituto previsto e disciplinato dalla norma impugnata, viceversa, è connotato da numerosi aspetti di novità, rispetto sia alla disciplina espropriativa oggetto delle disposizioni espressamente contemplate dalla legge-delega, sia agli istituti di matrice prevalentemente giurisprudenziale. In primo luogo, non è dato ravvisare nelle leggi indicate nel citato allegato I, alla legge n. 59 del 1997, alcuna norma che potesse giustificare un intervento della pubblica amministrazione, in via di sanatoria, sulle procedure ablatorie previste. Inoltre, neppure può farsi riferimento al contesto degli orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati, in quanto più profili della cosiddetta «acquisizione sanante», così come disciplinata dalla norma censurata, eccedono con tutta evidenza dagli istituti della occupazione appropriativa e della occupazione usurpativa, così come delineati da quegli orientamenti. Il citato art. 43, infatti, ha anzitutto assimilato le due figure, introducendo la possibilità per l’amministrazione e per chi utilizza il bene di chiedere al giudice amministrativo, in ogni caso e senza limiti di tempo, la condanna al risarcimento in luogo della restituzione. Peraltro, esso estende tale disciplina anche alle servitù, rispetto alle quali la giurisprudenza aveva escluso l’applicabilità della cosiddetta occupazione appropriativa, trattandosi di fattispecie non applicabile all’acquisto di un diritto reale in re aliena, in quanto difetta la non emendabile trasformazione del suolo in una componente essenziale dell’opera pubblica. Infine, la norma censurata differisce il prodursi dell’effetto traslativo al momento dell’atto di acquisizione. Si tratta di elementi di sicuro rilievo e qualificanti, i quali dimostrano che la norma in esame non solo è marcatamente innovativa rispetto al contesto normativo positivo di cui era consentito un mero riordino, ma neppure è coerente con quegli orientamenti di giurisprudenza che, in via interpretativa, erano riusciti a porre un certo rimedio ad alcune gravi patologie emerse nel corso dei procedimenti espropriativi. Siffatto carattere della norma impugnata trova conferma significativa nella circostanza che, secondo la giurisprudenza di legittimità, in materia di occupazione di urgenza, la sopravvenienza di un provvedimento amministrativo non poteva avere un’efficacia sanante retroattiva, determinata da scelte discrezionali dell’ente pubblico o dai suoi poteri autoritativi. Nel regime risultante dalla norma impugnata, invece, si prevede un generalizzato potere di sanatoria, attribuito alla stessa amministrazione che ha commesso l'ill ecito, a dispetto di un giudicato che dispone il ristoro in forma specifica del diritto di proprietà violato. Il legislatore delegato, in definitiva, non poteva innovare del tutto ed al di fuori di ogni vincolo alla propria discrezionalità esplicitamente individuato dalla legge-delega. Questa Corte ha in proposito affermato, infatti, che, per quanta ampiezza possa riconoscersi al potere di riempimento del legislatore delegato, «il libero apprezzamento» del medesimo «non può mai assurgere a principio od a criterio direttivo, in quanto agli antipodi di una legislazione vincolata, quale è, per definizione, la legislazione su delega» (sentenze n. 340 del 2007 e n. 68 del 1991). In contrario, non giova dedurre, come sostenuto dall’Avvocatura dello Stato, che il legislatore delegato abbia inteso tenere conto delle censure mosse dalla giurisprudenza di Strasburgo alla pratica delle espropriazioni «indirette». Indipendentemente sia da ogni considerazione relativa al fatto che ciò non era contemplato nei principi e criteri direttivi di cui al più volte citato art. 7 della legge n. 50 del 1999, sia dal legittimo dubbio quanto alla idoneità della scelta realizzata con la norma di garantire il rispetto dei principi della CEDU, che in questa sede non è possibile sciogliere, quella prefigurata costituisce soltanto una delle molteplici soluzioni possibili. Il legislatore avrebbe potuto conseguire tale obiettivo e disciplinare in modi diversi la materia, ed anche espungere del tutto la possibilità di acquisto connesso esclusivamente a fatti occupatori, garantendo la restituzione del bene al privato, in analogia con altri ordinamenti europei. E neppure è mancato qualche rilievo in questo senso della Corte di Strasburgo, la quale, infatti, sia pure incidentalmente, ha precisato che l’espropriazione indiretta si pone in violazione del pri ncipio di legalità, perché non è in grado di assicurare un sufficiente grado di certezza e permette all’amministrazione di utilizzare a proprio vantaggio una situazione di fatto derivante da «azioni illegali», e ciò sia allorchè essa costituisca conseguenza di un’interpretazione giurisprudenziale, sia allorchè derivi da una legge – con espresso riferimento all’articolo 43 del t.u. qui censurato –, in quanto tale forma di espropriazione non può comunque costituire un’alternativa ad un’espropriazione adottata secondo «buona e debita forma» (Causa Sciarrotta ed altri c. Italia – Terza Sezione – sentenza 12 gennaio 2006 – ricorso n. 14793/02). Anche considerando la giurisprudenza di Strasburgo, pertanto, non è affatto sicuro che la mera trasposizione in legge di un istituto, in astratto suscettibile di perpetuare le stesse negative conseguenze dell’espropriazione indiretta, sia sufficiente di per sé a risolvere il grave vulnus al principio di legalità. Alla stregua dei rilievi svolti, va dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’intero art. 43 del d.P.R. n. 327 del 2001, poiché la disciplina inerente all’acquisizione del diritto di servitù, di cui al comma 6 bis, appare strettamente ed inscindibilmente connessa con gli altri commi, sia per espresso rinvio alle norme fatte oggetto di censura, sia perché ne presuppone l’applicazione e ne disciplina ulteriori sviluppi applicativi (cfr. sentenza n. 18 del 2009). 9.– La pronuncia di illegittimità costituzionale con riferimento all’art. 76 Cost., determina l’assorbimento delle questioni poste con riferimento agli artt. 3, 24, 42, 97, 113 e 117, primo comma, Cost. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 8 giugno 2001, n. 327 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di espropriazione per pubblica utilità). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 ottobre 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Giuseppe TESAURO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'8 ottobre 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA SENTENZA N. 294 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), promosso dal Tribunale amministrativo regionale della Campania nel procedimento vertente tra S. S. e l’Università degli Studi di Napoli “Federico II” con ordinanza del 2 ottobre 2008 iscritta al n. 94 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2009. Visti l’atto di costituzione di S. S. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 21 settembre 2010 il Giudice relatore Paolo Grossi; uditi gli avvocati Giuseppe Abbamonte e Mario Sanino per S. S. e l’avvocato dello Stato Paola Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. – Il Tribunale amministrativo regionale della Campania solleva, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35, 36 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), «nella parte in cui prevede – indipendentemente dall’intervenuta estinzione del reato per prescrizione – che “Nel caso di condanna anche non definitiva, ancorché sia concessa la sospensione condizionale della pena, per alcuno dei delitti previsti dall’art. 3, comma 1, i dipendenti indicati nello stesso articolo sono sospesi dal servizio”». Premette, in fatto, il Tribunale rimettente che il giudizio a quo è stato introdotto da un ricorso proposto da un professore universitario, condannato, con sentenza dell’11 febbraio 2008, per concorso in peculato, limitatamente ad un episodio commesso il 30 marzo 1995. Segnala al riguardo il giudice rimettente che il Tribunale penale, «pronunciando su una specifica eccezione del collegio difensivo, ha definito la cronologia della prescrizione in riferimento alle diverse tipologie di imputazione in contestazione», sicché, in applicazione dei parametri così definiti, il reato per il quale è stata pronunciata condanna viene a prescriversi il 18 marzo 2008. Disposta la sospensione dal servizio da parte della autorità amministrativa, il ricorrente è insorto, lamentando la illegittimità del provvedimento, in quanto – fra l’altro – l’illecito deve ritenersi estinto per il decorso dei termini di prescri zione. Disattesa la possibilità di accedere ad una interpretazione “adeguatrice” del disposto normativo sollecitata dalla difesa del ricorrente, il Tribunale reputa la disposizione censurata in contrasto con più parametri costituzionali. Richiamati, infatti, i princípi posti a fondamento delle sentenze di questa Corte soffermatesi sul tema (si citano, in particolare, la sentenza n. 145 del 2002 e quelle n. 206 del 1999 e n. 239 del 1996), si sottolinea, anzitutto, la «incondizionata automaticità» della sospensione dal servizio prevista dalla norma, in presenza del «solo dato formale di una condanna penale e senza che assumano rilievo fattispecie estintive del reato già incontrovertibilmente maturate al momento dell’applicazione della misura e che valgono a svuotare di contenuto la sua effettiva ragion d’essere». Sottolinea in proposito il rimettente che nella stessa motivazione della sentenza di condanna si indica in dodici anni e sei mesi il termine massimo di prescrizione del reato per il quale è intervenuta condanna, al quale vanno aggiunti ulteriori 180 giorni per i rinvii dovuti ad astensione degli avvocati; sicché la combinazione di tali dati, «attraverso un’operazione aritmetica, consente di fissare al 18.3.2008 il termine di maturazione della prescrizione del reato». In conclusione, l’accertamento della sopravvenuta estinzione del reato resta confinato «nei limiti di una semplice presa d’atto, con conseguente radicale esclusione di qualsivoglia apprezzamento (da parte della Pubblica Amministrazione) di natura valutativa». Da ciò la censura di irragionevolezza della norma, giacché la congruità della misura obbligatoria della sospensione «può astrattamente dirsi garantita dal presupposto processuale della intervenuta condanna, fintantoché la detta pronuncia valga a reggere un effettivo giudizio di disvalore». Al contrario, tale rapporto di congruità, così come la proporzionalità tra la misura cautelare e le esigenze che con essa si intendono fronteggiare, inevitabilmente si altera nell’ipotesi in cui «per cause oggettive ed immediatamente percepibili (quale giustappunto è la prescrizione), quella pronuncia elevata a presupposto assorbente per l’applicazione della misura non costituisce più, al di là degli aspetti formali, espressione attuale di un giudizio di accertamento di offese (punibili) ai valori dell’ordinamento». In sostanza, l’automatismo della sospensione finirebbe per ancorarsi al solo presupposto formale di una pronuncia di condanna, non più in grado di esprimere un disvalore tale da presupporre effettive esigenze cautelari. A parere del Tribunale rimettente, dunque, «il mantenimento dell’obbligo di produzione degli effetti interdittivi, pur nella descritta evenienza, viene a porsi in chiara ed aperta distonia con i principi di ragionevolezza e proporzionalità di cui agli artt. 3 e 97 della Costituzione». Violato sarebbe anche il principio di uguaglianza, in quanto la disciplina censurata equiparerebbe ai fini dell’automatismo cautelare situazioni diverse, quali «le posizioni di coloro che hanno riportato una condanna per un reato ancora “vivo” e quelle di chi, invece, è stato condannato per il medesimo reato, nel frattempo, però, estinto per prescrizione». Ugualmente compromesso sarebbe il diritto di difesa, «in quanto viene tolta in radice all’interessato la possibilità di far valere le proprie ragioni avverso l’applicazione di una misura particolarmente invasiva e che non trova più una diretta giustificazione nella fattispecie ordinaria di riferimento (che è quella di una condanna ancora “vitale”); così come compromessi sarebbero i principi sanciti dagli artt. 4, 35 e 36 Cost., considerati gli effetti pregiudizievoli che «la (ingiustificata) sospensione dal servizio esplica sul pieno ed effettivo esercizio del diritto al lavoro e sul diritto alla giusta retribuzione». Scandagliata, poi, la portata modificativa della decisione di incostituzionalità adottata con la sentenza n. 145 del 2002, il giudice rimettente si è ampiamente diffuso per sottolineare come per la individuazione del termine di prescrizione, con particolare riferimento al caso di specie, tutti gli elementi necessari siano offerti dalla pronuncia di condanna, senza che residui in capo alla pubblica amministrazione alcun potere valutativo. Per altro verso neppure potrebbe venire in discorso la immediata declaratoria della causa di non punibilità ex art. 129 del codice di procedura penale, giacché tale meccanismo segue necessariamente l’iter del procedimento e i relativi gradi di impugnazione. Pertanto, dopo la lettura del dispositivo della sentenza di primo grado, il sistema processuale penale non prevederebbe meccanismi che consentano di rilevare immediatamente la causa di estinzione del reato prima dell’incardinamento del giudi zio di appello; con la conseguenza che l’amministrazione deve procedere alla sospensione dal servizio salvo, poi, revocare la misura non appena verrà – magari a distanza di tempo – formalmente rilevata la estinzione del reato. Da qui l’esigenza di consentire alla amministrazione di procedere ad una valutazione in concreto delle eventuali esigenze cautelari. 2. – Nel giudizio si è costituita la parte privata S.S., depositando memoria nella quale si è conclusivamente chiesto: 1) in via preliminare, di dichiarare inammissibile la questione, in quanto la norma impugnata non sarebbe applicabile nel giudizio a quo, trattandosi di dipendente cui è ascritto un fatto commesso presso una amministrazione diversa da quella cui il ricorrente appartiene e che attualmente procede; 2) sempre in via preliminare, di dichiarare inammissibile la questione per mancata sperimentazione di una interpretazione adeguatrice, per la medesima ragione di cui al punto 1); 3) in via gradata, di pronunciare una sentenza interpretativa di rigetto, con la quale si affermi che la norma censurata va interpretata nel senso che essa non va applicata ad un dipendente cui è ascritto un fatto commesso in amministrazione diversa da quella cui egli attualmente appartiene e che procede per un fatto per il quale è già sta ta accertata la prescrizione; 4) in via ulteriormente gradata, di pronunciare una sentenza di accoglimento, che dichiari la illegittimità costituzionale della norma impugnata, nella parte in cui essa non esclude l’applicabilità della misura della sospensione automatica anche al caso del dipendente cui è ascritto un fatto commesso in amministrazione diversa da quella cui egli attualmente appartiene e che procede per un fatto di cui è stata già accertata la prescrizione. La parte privata, dopo ampia narrativa dei fatti di causa, ha svolto diffusi argomenti a conforto della tesi della inapplicabilità, nel caso di specie, della norma impugnata, sul rilievo che la stessa, attesa la natura di regola eccezionale e di stretta interpretazione, presuppone che il fatto-reato cui la sospensione obbligatoria si riferisce, riguardi lo stesso ufficio presso il quale il dipendente si trova. Evenienza, questa, che nella specie non ricorre, in quanto la parte privata, professore presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II”, ha subito la condanna penale nella qualità di sindaco del Comune di Pompei. I rilievi svolti dal giudice a quo per disattendere la analoga questione già dedotta in sede di ricorso vengono dunque contestati in forza di una lettura complessiva e sistematica della legge n. 97 del 2001, la quale condurrebbe a concludere che – contrariamente all’assunto del giudice a quo – il legislatore avrebbe inteso stabilire una “connessione qualificata” tra la condotta penalmente rilevante e l’ufficio dal quale il dipendente deve essere sospeso. Conclusione, questa, alla quale potrebbe pervenirsi anche in forza della sentenza n. 145 del 2002, che invece l’ordinanza di rimessione evoca per sostenere l’opposta tesi. Sulla questione di costituzionalità si sottolineano, poi, ulteriori profili. La previsione di una sospensione automatica dall’impiego a seguito di una sentenza non definitiva risulterebbe, infatti, di dubbia compatibilità con il principio di presunzione di non colpevolezza, stante il carattere anticipatorio degli effetti della condanna che scaturiscono da tale misura, con correlativa compromissione, anche, del diritto di difesa. La stessa amministrazione, d’altra parte, dovrà procedere alla sospensione, senza poter valutare le implicazioni organizzative, a fronte di una imprevedibile durata del provvedimento, in ipotesi vanificabile a seguito di proscioglimento, con conseguente violazione dell’art. 97, primo comma, Cost. Si sottolineano, poi, numerosi aspetti di irragionevolezza della norma e di disparità di trattamento, stante la varietà delle situazioni che possono venire in discorso (concessione o meno della sospensione condizionale della pena; reato commesso in ufficio pubblico diverso da quello di appartenenza; preclusione, per l’amministrazione, di valutare le circostanze del caso concreto, in rapporto alle specifiche esigenze che la norma mira a presidiare). A conforto di tali censure, la memoria passa in analitica rassegna la giurisprudenza costituzionale, evidenziando come dalla stessa emerga un sostanziale sfavore riguardo ai generalizzati provvedimenti automatici di sospensione e destituzione dal servizio di pubblici dipendenti, e segnalando anche, con riferimento alla sentenza n. 145 del 2002, come la Corte non si sia nel frangente pronunciata sugli ulteriori parametri evocati dal rimettente – per l’appunto, gli artt. 4, 24, 27, 35, 36 e 97 Cost. – in ragione dell’omessa motivazione. Parametri che, invece, assumono risalto nel panorama della giurisprudenza costituzionale in tema di sospensione o destituzione di pubblici dipendenti a seguito di decisioni giudiziarie. Si segnala, infine, la fondatezza dei dubbi di costituzionalità prospettati dalla ordinanza di rimessione in riferimento a tutti i parametri evocati – cui viene aggiunto l’art. 27, secondo comma, Cost. – e si sottolineano le peculiarità della vicenda che ha visto il ricorrente condannato, che avrebbero potuto essere valorizzate dalla delibazione della amministrazione in assenza del contestato automatismo, nella specie illegittimo per la maturata prescrizione del reato. 3. – Nel giudizio è, infine, intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dalla Avvocatura generale dello Stato, la quale ha concluso chiedendo dichiararsi infondata la proposta questione. Osserva, infatti, l’Avvocatura che la questione della prescrizione non è incontrovertibilmente decisa dal giudice di primo grado, potendo essere riconsiderata in sede di appello o di cassazione. La “vitalità” del fatto reato al momento della applicazione della sospensione, dunque, non può che risultare – contrariamente a quanto assume il giudice a quo – dalla sentenza di condanna. Né la amministrazione può compiere una valutazione autonoma, posto che, anche a seguito della sentenza n. 145 del 2002, la prescrizione può operare come causa di sopravvenuta inefficacia della sospensione da servizio soltanto a seguito di una sentenza che la dichiari. Diversamente – conclud e l’Avvocatura – la misura assumerebbe un «carattere discrezionale e finirebbe per essere rimesso alla Pubblica Amministrazione una competenza riservata all’Autorità giudiziaria, con una evidente, inammissibile sovrapposizione di attribuzioni spettanti invece a diversi poteri dello Stato». Considerato in diritto 1. – Il Tribunale amministrativo regionale della Campania, chiamato a pronunciarsi sul ricorso proposto nell’interesse di un professore universitario avverso il provvedimento di sospensione dal servizio pronunciato nei suoi confronti dall’amministrazione di appartenenza, a seguito della condanna in primo grado subita dal ricorrente per il reato di concorso in peculato, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35, 36 e 97 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), «nella parte in cui prevede – indipendentemente dall’intervenuta estinzione del reato per prescrizione – che “Nel caso di condanna anche non definitiva, ancorché sia concessa la sospensione condizi onale della pena, per alcuno dei delitti previsti dall’articolo 3, comma 1, i dipendenti indicati nello stesso articolo sono sospesi dal servizio”». Il giudice rimettente, dopo aver premesso che nella sentenza di condanna relativa al ricorrente, il giudice penale ha, seppure incidentalmente, in quanto chiamato a pronunciarsi su una eccezione della difesa, provveduto a definire «la cronologia della prescrizione in riferimento alle diverse tipologie di imputazione in contestazione», sicché – puntualizza il giudice a quo – il reato per il quale è stata pronunciata la condanna, cui si riferisce il provvedimento di sospensione dal servizio oggetto di ricorso, viene a prescriversi il 18 marzo 2008, afferma che «il mantenimento dell’obbligo degli effetti interdittivi» che scaturisce dalla norma oggetto di impugnativa, verrebbe a porsi in contrasto, in una evenienza quale è quella descritta, con più parametri di legittimità costituzionale. Risulterebbero anzitutto compromessi, infatti, gli artt. 3 e 97 Cost., evocati con specifico riguardo ai princípi di ragionevole zza e proporzionalità, in quanto la sospensione obbligatoria dal servizio che tragga esclusivo alimento da una condanna «ormai irreversibilmente svuotata da ogni contenuto sostanziale», finirebbe con il risultare «irragionevolmente disancorata dai connotati concreti della situazione storica – significativamente mutata per effetto della sopravvenuta estinzione del reato – in cui è collocata». Sarebbe al tempo stesso compromesso il principio di uguaglianza, giacché, agli effetti della sospensione automatica, si equiparano fra loro situazioni eterogenee, che presentano un differenziato coefficiente di incidenza rispetto al «giudizio di bilanciamento che regge la coerenza della misura sospensiva», posto che non risulterebbero fra loro comparabili, a quegli effetti, «le posizioni di coloro che hanno riportato una condanna per un reato ancora “vivo” e quelle di chi, invece, è stato condannato per il medesimo reato, nel frattempo, per&# 242;, estinto per prescrizione». Risulterebbe inoltre violato il diri tto di difesa, sul rilievo che all’interessato sarebbe precluso far valere le proprie ragioni contro l’applicazione della misura della sospensione dal servizio, senza che questa rinvenga ragion d’essere nella condanna, proprio perché non più “vitale”, e si lamenta, infine, la compromissione anche degli artt. 4, 35 e 36 della Carta fondamentale, considerato il pregiudizio che la misura sospensiva determina sull’effettivo e pieno diritto al lavoro ed alla giusta retribuzione. 2. – Occorre preliminarmente rilevare che risulta non fondata, agli effetti dell’odierno scrutinio, la eccezione di inammissibilità per irrilevanza della normativa impugnata che la difesa della parte privata ha diffusamente articolato nel proprio atto di costituzione e che si fonda, essenzialmente, sulla riproposizione della identica quaestio già dedotta in sede giurisdizionale e disattesa dal giudice a quo. In estrema sintesi, secondo la parte privata, nella specie non troverebbe applicazione la normativa oggetto di impugnativa, in quanto, riferendosi la condanna penale ad un fatto commesso dal ricorrente non nella qualità di professore universitario – cui si riferisce il provvedimento di sospensione censurato – ma nella diversa attribuzione di sindaco di un Comune, non potrebbe farsi riferimento alla sospensione prevista dall’art. 4, comma 1, della legge n. 97 del 2001, dovendosi altrimenti procedere ad una inter pretazione adeguatrice della disposizione in questione. Tale tesi, però, è stata, come si è detto, disattesa dal giudice rimettente sulla base di una motivazione, la quale, ancorché contestata dalla parte privata, non può ritenersi, in sé, manifestamente implausibile. 3.– La questione proposta dal Tribunale campano è tuttavia inammissibile per altro ordine di ragioni. La disciplina oggetto della odierna impugnativa è stata già approfonditamente scrutinata da questa Corte nella sentenza n. 145 del 2002, della quale il giudice a quo dà atto, ma dai cui princípi non ha tratto le debite conseguenze. Nella richiamata pronuncia, infatti, questa Corte ebbe a dichiarare la illegittimità costituzionale, «nei sensi di cui in motivazione», dell’art. 4, comma 2, della legge n. 97 del 2001, nella parte in cui disponeva che la sospensione dal servizio del dipendente pubblico condannato anche non in via definitiva per taluni delitti perdesse efficacia decorso un periodo di tempo pari a quello di prescrizione del reato. Il particolare dispositivo di illegittimità costituzionale, attraverso un rinvio al contenuto della motivazione, dipese dal fatto che la Corte reputò che il termine di p rescrizione del reato, se assunto quale limite di durata della misura cautelare della sospensione dal servizio, doveva ritenersi «manifestamente eccessivo, comportando, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, una evidente quanto irragionevole compressione dei diritti del singolo». La Corte tuttavia chiarì che la declaratoria di illegittimità costituzionale non rendeva la sospensione obbligatoria dal servizio priva del necessario termine di durata, potendosi rinvenire nel sistema la previsione della durata massima di cinque anni della misura cautelare sospensiva contenuta nell’art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19 (Modifiche in tema di circostanze, sospensione condizionale della pena e destituzione dei pubblici dipendenti), alla quale doveva attribuirsi «il carattere di una vera e propria clausola di garanzia, avente una portata generale». Concluse dunque la Corte che l’art. 4, comma 2, della legge n. 97 del 2001, doveva essere letto , a seguito della declaratoria di illegittimità costituzionale, « nel senso che la sospensione dal servizio disposta a norma del comma 1 perde efficacia se per il fatto è successivamente pronunciata sentenza di proscioglimento o di assoluzione anche non definitiva e, in ogni caso, decorsa una durata complessivamente non superiore a cinque anni della sospensione, facoltativa o obbligatoria riferibile al medesimo procedimento penale». La Corte, però, mise a fuoco anche due altri aspetti che assumono non poco risalto agli effetti della odierna questione. Nella richiamata sentenza, infatti, la Corte non mancò di sottolineare come la individuazione del termine di prescrizione del reato comporti, a proposito dei numerosi elementi interni ed esterni al reato stesso e che concorrono a determinare quel termine, una serie di «valutazioni precluse alla pubblica amministrazione, che solo l’autorità giudiziaria può compiere: si pensi all’incidenza sul decorso della prescrizione delle circostanze aggravanti e attenuanti del reato. Con la conseguenza – puntualizzò testualmente questa Corte – che la suddetta causa di cessazione di efficacia della misura cautelare viene necessariamente a coincidere con quella rappresentata dalla sentenza di proscioglimento». Alla stregua di tali dicta, possono dunque già trarsi alcuni corollari. Anzitutto, la prescrizione del reato non può che coincidere con la sentenza che la dichiari, giacché non può annettersi alcun rilievo giuridico alla sussistenza ipotetica di una causa di estinzione del reato, il cui ricorrere, per di più, presuppone un accertamento su una complessa ed articolata gamma di elementi di commisurazione – alcuni dei quali presupponenti, addirittura, indagini di fatto (quale lo stesso tempus commissi delicti) – che non possono che essere svolti dalla autorità giudiziaria, all’interno del processo. In secondo luogo, proprio perché ontologicamente privo di rilievo giuridico esterno al processo, deve necessariamente restare al di fuori del perimetro normativo qui in discorso qualsiasi accertamento incidenter tantum, che, nell’individuare la “non maturazione” della prescrizione, ne abbia (alla s tregua di un qualunque obiter), indicato la data – futura ed ipotetica – in cui la prescrizione maturanda potrebbe essere dichiarata. In terzo ed ultimo luogo, quand’anche si volesse assegnare a quell’accertamento incidentale un qualche effetto, esso non potrebbe mai essere “esterno” al processo e tale da coinvolgere una valutazione (in ipotesi, anche discorde) da parte della pubblica amministrazione. A proposito, poi, del secondo aspetto messo in risalto dalla sentenza di cui innanzi si è detto, va osservato che la Corte, nello scrutinare, nei sensi innanzi descritti, la disciplina del termine massimo di sospensione obbligatoria dal servizio del pubblico dipendente condannato per taluni specifici reati, ha fatta salva, ovviamente, «la possibilità che il legislatore, nell’esercizio della sua discrezionalità ed entro i limiti di ragionevolezza e proporzionalità individuati da questa Corte, disciplini nuovamente la materia, anche fissando termini massimi eventualmente differenti rispetto a quello di cui al citato art. 9 della legge n. 19 del 1990 ovvero modulati in relazione alla gravità del reato ed alla fase del procedimento». Dunque, ci si muove su un terreno nel quale la discrezionalità normativa è massima, con l’ovvia conseguenza di rendere la questione proposta, già solo per questo profilo, inammissib ile, in quanto la soluzione additata dal giudice a quo, per di più coinvolgente – al di là delle peculiarità che hanno caratterizzato il caso di specie – una valutazione incidentale della pubblica amministrazione su un tema (quale è quello della sussistenza di una causa estintiva del reato) di diritto penale sostanziale, comporta una gamma indefinita ed indefinibile di più opzioni alternative, tutte costituzionalmente compatibili (fra le tante, l’ordinanza n. 270 del 2008). 4. – Accanto a ciò, vanno considerati anche altri profili che, invece, il Tribunale rimettente ha totalmente negletto e che parimenti incidono, in senso negativo, sul versante della ammissibilità del quesito. Posto, infatti, che la questione proposta presuppone l’esistenza di una condanna non irrevocabile, e, dunque, la pendenza di un giudizio di impugnazione, il giudice rimettente ha omesso di considerare che ciascuna delle numerose “componenti” normative che concorrono alla determinazione dello spirare dei termini di prescrizione del reato – ancorché incidentalmente valutate dal giudice di primo grado – possono tutte formare oggetto di nuovo esame in grado di appello o nel giudizio di legittimità. Così, ad esempio, gli eventuali mutamenti in tema di circostanze o di giudizio di valenza possono influire sul tema, così come il giudice della impugnazione può assegnare al fatto una diversa q ualificazione giuridica, che rileva ai fini della prescrizione, ove ne ricorrano i presupposti. Il tutto, non senza sottolineare la rilevanza che ai medesimi fini riveste anche la natura del rimedio impugnatorio attivato dalle parti, essendo evidente il diverso risalto che ciascun profilo può assumere a seconda delle caratteristiche di devoluzione tipiche dei vari mezzi e delle questioni che, in materia di prescrizione, sono comunque rilevabili ex officio. Inoltre, il giudice rimettente – il quale non fornisce alcuna descrizione della “fattispecie” impugnatoria relativa alla vicenda penale su cui si innesta il quesito di legittimità costituzionale – omette di considerare un ulteriore aspetto che appare dirimente ai fini della impossibilità, da parte di questa Corte, di scrutinare nel merito del dubbio di costituzionalità: e cioè che soltanto il giudice della impugnazione è in grado di delibare la eventuale prescrizione del reato, in quanto soltanto in presenza di una impugnazione ammissibile (che certo la pubblica amministrazione non può apprezzare incidentalmente) può farsi luogo alla declaratoria di estinzione del reato, posto che, ove l’impugnazione risultasse per qualsiasi causa inammissibile, la inammissibilità precluderebbe la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, alla luce di un consolidato quadro di interpretazione g iurisprudenziale ormai assurto al rango di diritto vivente (Cass., Sez. un., 22 marzo 2005, n. 23428; Cass., Sez. un., 22 novembre 2000, n. 32). La questione è, dunque, inammissibile, anche per carente descrizione della fattispecie (fra le tante, le ordinanze n. 306 e n. 190 del 2009). per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 1, della legge 27 marzo 2001, n. 97 (Norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato penale nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 4, 24, 35, 36 e 97 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo della Campania con l’ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 ottobre 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Paolo GROSSI, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'8 ottobre 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ORDINANZA N. 295 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 3, del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 153 (Integrazione dell’attuazione della direttiva 91/308/CEE in materia di riciclaggio dei capitali di provenienza illecita), promosso dal Tribunale di Novara, nel procedimento penale a carico di E. T. ed altri, con ordinanza del 12 dicembre 2007, iscritta al n. 123 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell’anno 2010. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 22 settembre 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo. Ritenuto che il Tribunale di Novara, in composizione monocratica, con ordinanza depositata il 12 dicembre 2007 (trasmessa dalla cancelleria del giudice a quo il 17 febbraio 2010 e pervenuta alla Corte costituzionale il 23 marzo 2010), ha sollevato, in riferimento agli articoli 76 e 77 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 5, comma 3, del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 153 (Integrazione dell’attuazione della direttiva 91/308/CEE in materia di riciclaggio dei capitali di provenienza illecita), nelle parti in cui configura come delitto la fattispecie criminosa ivi descritta e in cui commina pene superiori ai limiti edittali indicati nella legge di delega 6 febbraio 1996, n. 52 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – legge comunitaria 1994); che il giudice a quo, investito del processo promosso nei confronti di tre persone imputate in concorso del delitto previsto dalla norma denunciata, per avere svolto «l’esercizio abusivo di attività finanziaria trasferendo denaro», espone che i difensori hanno eccepito l’illegittimità costituzionale di detta norma, per contrasto con gli artt. 25, 76 e 77 Cost.; che il rimettente, dopo una ricostruzione del quadro normativo, giudica manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dai difensori, sia con riferimento all’asserito vizio di eccesso di delega in cui il legislatore sarebbe incorso nella individuazione della condotta incriminata, sia in relazione alla pretesa violazione del principio di riserva di legge in materia penale; che, invece, il giudice a quo condivide il dubbio di legittimità costituzionale concernente il dedotto eccesso di delega in relazione alla scelta del legislatore di configurare la fattispecie criminosa in esame come delitto e all’entità della pena comminata; che, ad avviso del Tribunale, il legislatore delegato doveva ritenersi abilitato ad introdurre unicamente fattispecie criminose di tipo contravvenzionale, sanzionate con pene non eccedenti i limiti edittali contemplati per le ipotesi di reato previste dal decreto-legge 3 maggio 1991, n.143 (Provvedimenti urgenti per limitare l'uso del contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenire l'utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio), convertito, con modificazioni, dalla legge 5 luglio 1991, n. 197; che a tale conclusione condurrebbe non solo il riferimento di ordine generale (contenuto nella norma di delega) all’applicazione, in tutto o in parte, dell’anzidetto decreto-legge, ma anche la specifica previsione dell’art. 15, comma 2, della legge di delega citata, in forza del quale in relazione alle materie concernenti «il trasferimento di denaro contante e di titoli al portatore, nonché il riciclaggio dei capitali di provenienza illecita, potrà procedersi al riordino delle sanzioni amministrative e penali previste nelle leggi richiamate al comma 1, nei limiti massimi ivi contemplati»; che alla data di entrata in vigore della legge di delega – osserva ancora il giudice a quo – la normativa di riferimento (il citato d.l. n. 143 del 1991), prevedeva soltanto fattispecie di natura contravvenzionale, «essendo stato nel frattempo abrogato (in forza dell’art. 161 del D.L.vo n. 385/1993) l’art. 6 co. 9, contenente l’unica ipotesi di delitto sanzionato con reclusione e multa, sicché il legislatore delegante non poteva certo riferirsi ad una disposizione non più in vigore»; che, inoltre, qualora si volesse ritenere che il legislatore delegante intendesse riferirsi non soltanto alla normativa (legge n. 197 del 1991) esplicitamente richiamata nell’art. 15, comma 1, lettera c), della legge n. 52 del 1996, ma anche all’art. 5 del decreto-legge 28 giugno 1990, n. 167 (Rilevazione a fini fiscali di taluni trasferimenti da e per l’estero di denaro, titoli e valori) convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 1990, n. 227 (che prevede il delitto di false indicazioni agli intermediari), andrebbe osservato come il legislatore delegato abbia superato i limiti sanzionatori fissati dal legislatore delegante, prevedendo nella norma impugnata una pena (da sei mesi a quattro anni di reclusione e la multa da euro 2.065,00 ad euro 10.329,00), ben superiore rispetto a quella stabilita dal citato art. 5 della legge n. 227 del 1990; che, nel giudizio di legittimità costituzionale, ha spiegato intervento il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata, in quanto il giudice a quo sarebbe incorso in errore nell’individuazione della norma interposta, la quale andrebbe identificata non nell’art. 15 della legge n. 52 del 1996, ma nell’art. 3, comma 1, lettera c), della legge stessa, alla cui stregua la disposizione denunciata dovrebbe ritenersi pienamente rispettosa della delega. Considerato che il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale, in riferimento agli articoli 76 e 77 della Costituzione, dell’articolo 5, comma 3, del decreto legislativo 26 maggio 1997 n. 153 (Integrazione dell’attuazione della direttiva 91/308/CEE in materia di riciclaggio dei capitali di provenienza illecita), nelle parti in cui configura come delitto la fattispecie criminosa ivi descritta e in cui commina pene superiori ai limiti edittali indicati nella legge di delega 6 febbraio 1996, n. 52 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – legge comunitaria 1994); che, ad avviso del rimettente, il legislatore delegato doveva ritenersi abilitato ad introdurre unicamente fattispecie criminose di tipo contravvenzionale, sanzionate con pene non eccedenti i limiti edittali stabiliti per le ipotesi di reato di cui al decreto-legge 3 maggio 1991, n. 143 (Provvedimenti urgenti per limitare l'uso del contante e dei titoli al portatore nelle transazioni e prevenire l'utilizzazione del sistema finanziario a scopo di riciclaggio), convertito, con modificazioni, dalla legge 5 luglio 1991, n. 147; ovvero, in subordine, stabiliti anche dal decreto-legge 28 giugno 1990, n. 167 (Rilevazione a fini fiscali di taluni trasferimenti da e per l’estero di denaro, titoli e valori), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 1990, n. 227: in questo caso il criterio di delega risulterebbe violato almeno per quanto concerne la misura della pena; che il giudice a quo, però, ritiene sussistente il dedotto vizio di eccesso di delega esclusivamente alla luce dei criteri di delega specifici dettati dall’art. 15 della legge n. 52 del 1996, omettendo di valutare i criteri generali stabiliti dall’art. 3 della medesima legge in tema di disciplina delle sanzioni; che, secondo un approccio tipico delle «leggi comunitarie», la legge n. 52 del 1996 ha delegato il Governo ad emanare i decreti legislativi recanti le norme necessarie per dare attuazione ad un complesso di direttive comunitarie, indicate nell’allegato A della medesima legge (art. 1): tra le quali è compresa la direttiva 91/308/CEE; che il citato art. 3 reca un insieme di criteri e principi direttivi “generali” valevoli, cioè, per tutti i decreti legislativi da emanare, salvi i principi specifici dettati dai successivi articoli in relazione alle singole materie in aggiunta a quelli contenuti nelle direttive da attuare; che la lettera c) del detto art. 3, con riferimento all’assetto sanzionatorio, stabilisce che il legislatore poteva introdurre sanzioni amministrative e penali al fine di assicurare l’osservanza delle disposizioni dei decreti legislativi, in particolare, con riferimento alle sanzioni di natura penale, nel limite dell’ammenda fino a lire duecento milioni e dell’arresto fino a tre anni, e sempre che le infrazioni esponessero a pericolo o ledessero «interessi generali dell’ordinamento interno del tipo di quelli tutelati dagli artt. 34 e 35 della legge 24 novembre 1981, n. 689»; che la medesima disposizione, tuttavia, soggiunge che «In ogni caso, in deroga ai limiti sopra indicati, per le infrazioni alle disposizioni dei decreti legislativi saranno previste sanzioni penali o amministrative identiche a quelle eventualmente già comminate dalle leggi vigenti per le violazioni che siano omogenee e di pari offensività rispetto alle infrazioni medesime»; che – come risulta dalla relazione integrativa allo schema del d.lgs. n. 153 del 1997 – proprio sulla base del criterio generale di delega ora indicato il legislatore ha inteso emanare la norma incriminatrice di cui si discute: ciò in quanto la condotta di abusivismo contemplata da tale norma risulterebbe omogenea e di pari offensività rispetto al delitto di abusiva attività finanziaria previsto dall’art. 132 del d.lgs. n. 385 del 1993, nonché a quello di abusivo esercizio dell’attività di mediazione creditizia, previsto dall’art.16, comma 7, della legge 7 marzo 1996, n. 108 (Disposizioni in materia di usura), reati al cui trattamento sanzionatorio è stato allineato quello della fattispecie criminosa oggetto della disposizione censurata; che, dunque, come eccepito dall’Avvocatura generale dello Stato, il rimettente ha individuato in modo errato la norma di delega alla cui stregua va apprezzata la sussistenza della violazione dedotta con riferimento agli artt. 76 e 77 Cost., svolgendo per conseguenza argomentazioni inconferenti ai fini di tale valutazione, il che rende la questione sollevata manifestamente inammissibile (sentenza n. 382 del 2004; ordinanza n. 72 del 2003); che, peraltro, i rilievi fin qui svolti sono stati già esposti da questa Corte nell’ordinanza n. 194 del 2008 e ribaditi nelle ordinanze n. 95 del 2010 e n. 73 del 2009 che, sulla base di essi, hanno dichiarato la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale sollevate nei confronti della medesima disposizione, in riferimento agli artt. 76 e 77 Cost.; che, infine, detti rilievi non sono stati in alcun modo superati dall’ordinanza di rimessione indicata in epigrafe. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, dell’articolo 5, comma 3, del decreto legislativo 26 maggio 1997, n. 153 (Integrazione dell’attuazione della direttiva 91/308/CEE in materia di riciclaggio dei capitali di provenienza illecita), sollevata, in riferimento agli articoli 76 e 77 della Costituzione, dal Tribunale di Novara con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 ottobre 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Alessandro CRISCUOLO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria l'8 ottobre 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA |