Deposito del 05/03/2010 (dalla 81 alla 92) |
S.81/2010 del 24/02/2010 Camera di Consiglio del 27/01/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore QUARANTA Norme impugnate: Art. 2, c. 161°, del decreto legge 03/10/2006, n. 262, convertito con modificazioni in legge 24/11/2006, n. 286. Oggetto: Impiego pubblico - Incarichi dirigenziali non di vertice conferiti a personale non dipendente da pubbliche amministrazioni (anche in regimi "privatizzati") - Cessazione ove non confermati entro sessanta giorni dall'entrata in vigore del d.l. n. 262/2006 sul c.d. "spoil system". Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale Atti decisi: or d. 247/2009 |
S.82/2010 del 24/02/2010 Camera di Consiglio del 27/01/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore FINOCCHIARO Norme impugnate: Art. 4, c. 2°, della legge 08/02/2006, n. 54. Oggetto: Minori - Figli naturali - Normativa applicabile ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati (in specie, giudizio avente ad oggetto l'entità del contributo economico al mantenimento di figlia riconosciuta da entrambi i genitori) - Estensione ai detti procedimenti della disciplina dettata dalla legge n. 54 del 2006, recante disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli - Ritenuta sussistenza di un diritto vivente che riserva al tribunale dei minorenni la cognizione delle domande in tema di affidamento e di contributo al mantenimento della prole naturale, ove contestualmente proposte da un genitore non coniugato, salva la competenza del tribunale ordinario per le controversie di natura esclusivamente patrimoniale - Mancata previsione che la generalità dei procedimenti relativi ai figli minori di genitori non coniugati sia attribuita alla competenza del tribunale dei minorenni. Dispositivo: non fondatezza - manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 202/2009 |
S.83/2010 del 24/02/2010 Camera di Consiglio del 10/02/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore SILVESTRI Norme impugnate: Art. 6, c. 1°, lett. a) e d), del decreto legge 06/11/2008, n. 172. Oggetto: Reati e pene - Reati riferiti alla gestione dei rifiuti commessi nei territori in cui vige lo stato di emergenza ambientale dichiarato ai sensi della legge n. 225 del 1992 - Disciplina sanzionatoria. Dispositivo: non fondatezza Atti decisi: ord. 42/2009 |
O.84/2010 del 24/02/2010 Udienza Pubblica del 03/11/2009, Presidente AMIRANTE, Redattore FINOCCHIARO Norme impugnate: Art. 1, c. 986°, della legge 27/12/2006, n. 296. Oggetto: Imposte e tasse - Tassa sulle merci imbarcate e sbarcate (cd. tassa portuale) - Previsione, con norma autoqualificata interpretativa, ma ritenuta innovativa con efficacia retroattiva, che le merci imbarcate e sbarcate nell'ambito d i porti, rade o spiagge dello Stato, in zone o presso strutture di ormeggio, quali banchine, moli, pontili, piattaforme, boe, torri e punti di attracco, in qualsiasi modo realizzati, sono soggette alle tasse sulle merci - Ritenuto ampliamento retroattivo del presupposto impositivo della tassa portuale, in quanto sganciata dall'effettuazione di operazioni nell'ambito di uno dei porti debitamente individuati dalla previgente normativa - Ricorso avverso avvisi di accertamento emessi per il recupero della detta tassa in relazione a periodi anche anteriori all'entrata in vigore della riferita disposizione interpretativa, e notificati a società che effettua operazioni di imbarco e sbarco senza utilizzare alcuna infrastruttura o servizio portuale e servendosi esclusivamente di proprio personale e di proprie attrezzature. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 284/2008 |
O.85/2010 del 24/02/2010 Camera di Consiglio del 16/12/2009, Presidente AMIRANTE, Redattore FINOCCHIARO Norme impugnate: Art. 149 del decreto legislativo 07/09/2005, n. 209. Oggetto: Responsabilità civile - Risarcimento del danno derivante da sinistro stradale - Azione proposta da soggetto danneggiato da sinistro stradale nei confronti della propria compagnia di assicurazione - Disciplina del sistema di risarcimento diretto introdotto dal Codice delle assicurazioni private - Ritenuta preclusione della possibilità di esercitare la pretesa risarcitoria nei confronti del responsabile civile e della sua compagnia di assicurazione, in linea con il principio generale del 'neminem laedere'. |
O.86/2010 del 24/02/2010 Camera di Consiglio del 13/01/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SAULLE Conflitto: Ammissibilità di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati 19/12/2008. Oggetto: Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento penale per il reato di diffamazione a mezzo stampa a carico dell'on. Maurizio Gasparri per le opinioni da questi espresse nei confronti del magistrato Henry John Woodcock - Deliberazione di insindacabilità della Camera dei deputati. Dispositivo: ammissibile Atti decisi: confl. pot. amm. 11/2009 |
O.87/2010 del 24/02/2010 Camera di Consiglio del 27/01/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore DE SIERVO Norme impugnate: Art. 1 della legge della Regione Veneto 23/03/2007, n. 7. Oggetto: Tutela della salute - Trattamenti sanitari obbligatori - Vaccinazione antidifterica, antitetanica, antipoliomielitica e antiepatite virale B - Norme della Regione Veneto - Sospensione nel territorio regionale, per tutti i nuovi nati a far data dal 1° gennaio 2008, degli obblighi vaccinali previsti da leggi statali - Ricorso avverso ordinanza ingiunzione applicativa di sanzione per inottemperanza agli obblighi vaccinali. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 201/2009 |
O.88/2010 del 24/02/2010 Camera di Consiglio del 27/01/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore SAULLE Norme impugnate: Art. 131 del decreto del Presidente della Repubblica 30/05/2002, n. 115. Oggetto: Patrocinio a spese dello Stato - Procedimento civile - Inammissibilità dell'impugnazione proposta da parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato (in specie, reclamo avverso decreto pronunciato dal tribunale dei minorenni) - Istanza di liquidazione dell'onorario e delle spese presentata dal difensore - Prevista anticipazione a carico dell'erario degli onorari e delle spese dovuti al difensore anche nel caso in cui l'impugnazione proposta dalla parte ammessa al patrocinio a spese dello Stato sia stata dichiarata inammissibile. Dispositivo: manifesta infondatezza Atti decisi: ord. 213/2009 |
O.89/2010 del 24/02/2010 Camera di Consiglio del 27/01/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore CRISCUOLO Norme impugnate: Art. 9, c. 2°, della legge 27/12/1956, n. 1423, come sostituito dall'art. 14 del decreto legge 27/07/2005, n. 144, convertito con modificazioni in legge 31/07/2005, n. 155. Oggetto: Misure di prevenzione - Inosservanza degli obblighi e delle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l'obbligo o il divieto di soggiorno (nella specie, inosservanza della prescrizione di vivere onestamente e rispettare le leggi per guida senza patente) - Trattamento sanzionatorio - Reclusione da uno a cinque anni - Disparità di trattamento rispetto alle ipotesi, connotate da esigenze di prevenzione di maggiore rilevanza, in cui la misura sia applicata a soggetti indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso e similari ove, qualora venga accertato un caso di guida senza patente, si applica la pena dell'arresto da sei mesi a tre anni (art. 6 della legge n. 575 del 1965). Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 112/2009 |
O.90/2010 del 24/02/2010 Udienza Pubblica del 09/02/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore CASSESE Norme impugnate: Artt. 24, c. 4° e 40, c. 4°, della leg ge della Regione Veneto 21/11/2008, n. 21. Oggetto: Appalti pubblici - Norme della Regione Veneto - Collaudo degli impianti sciistici e delle piste da sci - Rinvio alle norme della legge regionale n. 27 del 2003 anziché alla disciplina del codice dei contratti pubblici - Conferimento degli incarichi di collaudo sottosoglia con modalità in deroga al principio di scelta con procedura ad evidenza pubblica. Dispositivo: altro Atti decisi: ric. 5/2009 |
O.91/2010 del 24/02/2010 Camera di Consiglio del 10/02/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore SILVESTRI Norme impugnate: Art. 44 del decreto legislativo 30/12/1999, n. 507; artt. 1 e 7, c. 1°, lett. c), in relazione all'art. 726 del c odice penale, della legge 25/06/1999, n. 205. Oggetto: Reati e pene - Atti contrari alla pubblica decenza - Mancata depenalizzazione limitatamente all'ipotesi di condotta colposa Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 270/2009 |
O.92/2010 del 24/02/2010 Camera di Consiglio del 10/02/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore CASSESE Norme impugnate: Art. 9, c. 2° e 3°, della legge della Regione Marche 24/12/2008, n. 37. Oggetto: Impiego pubblico - Norme della Regione Marche - Stabilizzazione del personale di cui all'art. 34, comma 2, della legge regionale n. 25 del 2008 - Comput o nel periodo di anzianità degli eventuali periodi relativi a rapporti di collaborazione coordinata e continuativa - Progressiva stabilizzazione del personale non dirigenziale del servizio sanitario regionale e dell'Agenzia regionale per la protezione ambientale delle Marche - Possesso alternativamente di tre anni di anzianità di servizio per lo svolgimento di funzioni stabili e ricorrenti, in virtù di contratti stipulati anteriormente al 29 settembre 2006, anche se prorogati successivamente, con rapporto di lavoro a tempo determinato o in servizio al 1 gennaio 2007 con contratto di collaborazione coordinata e continuativa o con altre forme di rapporto di lavoro flessibile o mediante convenzioni. Dispositivo: estinzione del processo Atti decisi: ric. 16/2009 |
SENTENZA N. 81 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 161, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2006, n. 286, promosso dal Tribunale ordinario di Roma, sezione terza lavoro, nel procedimento vertente tra C. C. e il Ministero dello sviluppo economico, con ordinanza del 24 febbraio 2009, iscritta al n. 247 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 2009. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 27 gennaio 2010 il Giudice relatore Alfonso Quaranta. Ritenuto in fatto 1.— Con ordinanza del 24 febbraio 2009 il Tribunale ordinario di Roma, sezione terza lavoro, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 161, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito nella legge 24 novembre 2006, n. 286, per violazione degli artt. 3 e 97 della Costituzione. Il giudice a quo sottolinea che il ricorrente ha stipulato con il Ministero delle Attività produttive (divenuto poi Ministero dello sviluppo economico), in data 3 agosto 2005, un contratto individuale di lavoro, ai sensi dell’art. 19, comma 6, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), avente ad oggetto un incarico dirigenziale di seconda fascia, con decorrenza dal 1° settembre 2005 e con scadenza 31 agosto 2008, per lo svolgimento di funzioni di ricerca e studio, relative all’analisi quantitativa per la verifica dell’efficienza e dell’efficacia degli investimenti nei singoli settori agevolati dalle leggi in vigore. Con nota del 1° dicembre 2006 l’amministrazione gli ha comunicato la non conferma del predetto incarico, in applicazione dell’art. 41, comma 1, del decreto-legge n. 262 del 2006. Il Tribunale rileva come la predetta disposizione abbia esteso agli incarichi dirigenziali conferiti ai sensi del comma 5-bis (che disciplina gli incarichi ai dirigenti dipendenti da altre amministrazioni) e del comma 6 (che disciplina gli incarichi a dirigenti non dipendenti da amministrazioni), il regime giuridico di cui dal comma 8, dell’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, il quale prevede la cessazione delle funzioni dirigenziali attribuite decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo. Il comma 3 dello stesso art. 41 ha, altresì, dettato la disciplina transitoria stabilendo che «in sede di prima applicazione dell’art. 19, comma 8, del d.lgs. n. 165 del 2001 (…) gli incarichi ivi previsti, conferiti prima del 17 maggio 2006, cessano ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto-legge». Il giudice remittente sottolinea come l’amministrazione avrebbe fatto applicazione, il 1° dicembre 2006, con decorrenza dal successivo giorno 2, della disposizione di cui al citato comma 3 dell’art. 41, considerato che «il ricorrente aveva un incarico ex comma 6 in corso alla data del 17 maggio 2006». Si aggiunge come non dovrebbe, invece, farsi applicazione del primo comma dell’art. 41 perché «alla data di entrata in vigore del decreto il termine di novanta giorni dalla fiducia al Governo oggi in carica era già decorso e la stessa introduzione di una disciplina di prima applicazione volta a regolare i rapporti in corso alla data della fiducia rende evidente la non retroattività del comma 159, d’altronde imposta, in assenza di segni esegetici contrari, dai principi generali». Le riportate disposizioni di cui ai commi 1 e 3 dell’art. 41 sono state poi trasfuse sostanzialmente nei commi 159 e 161 dell’art. 2 della legge n. 286 del 2006. Tale articolo, si aggiunge, ha espressamente abrogato l’art. 41 del decreto-legge n. 262 del 2006 «e nondimeno, facendone salvo l’art. 48, appare averne fatta salva l’efficacia temporale, per quanto attiene alle disposizioni qui in esame, rimaste, per quanto rileva in causa, intatte nella loro portata normativa, dal 3 ottobre 2006». Esposto ciò, il Tribunale richiama il contenuto della sentenza n. 103 del 2007 di questa Corte, di cui viene riportata una parte della motivazione, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 7, della legge 15 luglio 2002, n. 145 (Disposizioni per il riordino della dirigenza statale e per favorire lo scambio di esperienze e l’interazione tra pubblico e privato), nella parte in cui prevedeva la cessazione automatica degli incarichi dei dirigenti generali in corso alla data di entrata in vigore della legge stessa per violazione degli artt. 97 e 98 della Costituzione. Questi principi, continua il giudice a quo, avrebbero trovato conferma nella successiva sentenza n. 161 del 2008, che ha dichiarato per gli stessi motivi la illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 161, del decreto-legge n. 262 del 2006, «nella parte in cui dispone che gli incarichi conferiti al personale non appartenente ai ruoli di cui all’art. 23 (…) conferiti prima del 17 maggio 2006 cessano ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del decreto stesso». Il Tribunale remittente sottolinea come malgrado la parte dispositiva della citata sentenza n. 161 del 2008 «si presti, nel suo tenore testuale, ad essere direttamente applicata alla fattispecie, perché il ricorrente appartiene al “personale non appartenente ai ruoli di cui all’art. 23 del d.lgs. n. 165 del 2001”, l’esame complessivo della pronuncia rivela chiaramente come la Corte abbia inteso avere esclusivo riguardo al personale comunque dipendente di amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 165 del 2001 e munito di “status” dirigenziale (sebbene non appartenete ai ruoli di cui all’art. 23), cui si riferisce il comma 5-bis, dell’art. 19, del d.lgs. n. 165 del 2001». Il giudice a quo sottolinea come l’unica residua differenza tra il caso deciso con la citata sentenza n. 161 del 2008 e quello oggetto della controversia al suo esame sarebbe rappresentata dal fatto che viene in rilievo un incarico dirigenziale conferito ex art. 19, comma 6, a persona «non attualmente munita dello status di dirigente, in ragione dei requisiti professionali di cui alla medesima disposizione». Si osserva come dopo la predetta decisione «il fatto che gli incarichi di cui al comma 6 possono cessare automaticamente, quando quelli di cui al comma 5 non lo possono, determina oramai una disparità di trattamento che appare priva di ogni ragionevole giustificazione e come tale illegittima ai sensi dell’art. 3 della Costituzione». Dopo avere richiamato le sentenze di questa Corte il giudice a quo ritorna sulla questione della rilevanza osservando come, avendo l’attore chiesto il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale a causa dell’illegittima revoca dell’incarico, avrebbe chiesto «seppure indirettamente, in via principale dichiararsi l’illegittimità della revoca» in ragione del fatto che la stessa sarebbe stata disposta sulla base di una legge incostituzionale. Si aggiunge che, anche qualora si ritenesse che l’accertamento della predetta illegittimità non abbia formato oggetto di domanda, nondimeno tale accertamento andrebbe effettuato “in via incidentale” per verificare se sussiste o meno l’illecito; puntualizzandosi come «la rilevanza della questione non sembra richiedere una preventiva delibazione sulla sussistenza degli altri elementi costitutivi della pretesa risarcitoria (la colpa dell’amministrazione ed il danno)». In ogni caso, si rileva come «non possa apparire improbabile che l’accoglimento della sollevata questione di legittimità costituzionale abbia ricadute risarcitorie». Ciò in quanto l’attore chiede il risarcimento del danno consistente nel mancato pagamento delle retribuzioni che sarebbero maturate, secondo contratto, fino alla naturale scadenza del contratto. Si aggiunge come all’attore non si applicherebbe il comma 2, dell’art. 161, del decreto-legge n. 262 del 2006, che prevede il pagamento delle retribuzioni per i soli dirigenti dipendenti da altre amministrazioni cessati dall’incarico. Inoltre, «l’attore deduce danni alla professionalità ed alla immagine la cui sussistenza non può essere, allo stato, esclusa». Nell’ultima parte dell’ordinanza di rimessione il Tribunale si sofferma sulla sussistenza della colpa per ritenere che la stessa, venendo in rilievo una ipotesi di responsabilità contrattuale, si presumerebbe ex art. 1218 del codice civile. Si osserva, inoltre, come «la natura della condotta e della disposizione applicata ed il contesto della sua applicazione» nella specie, «non consentono prima facie di affermare che il Ministero versi in un’ipotesi di causa non imputabile». Ciò, in quanto la disposizione censurata «non richiedeva la non conferma dell’incarico, rimettendola invece ad una piena ed incondizionata discrezionalità dell’amministrazione, passibile di essere esercitata anche solo tacitamente, e che questa ha ritenuto di esercitare attivamente ante tempus senza, peraltro, alcuna motivazione». Inoltre, l’amministrazione avrebbe dovuto conformare la propria azione ai principi di cui agli artt. 97 e 98 Cost., in quanto la privatizzazione del rapporto di lavoro dei dirigenti non implica che l’amministrazione possa recedere liberamente dagli incarichi conferiti. Infine, si osserva, sempre sul piano dell’analisi relativa all’accertamento dell’elemento soggettivo della colpa, come tali questioni «appaiono del tutto premature», atteso che, una corretta applicazione delle regole relative all’ordine logico-giuridico da seguire nella decisione della causa, imporrebbe di accertare prima la sussistenza dell’elemento materiale dell’illecito (e dunque la illegittimità costituzionale della norma attributiva del potere) «in solo rapporto al quale (…) la colpa e il danno sono concretamente delibabili». In conclusione, il remittente esclude che possa ritenersi «coerente con le funzioni istituzionali della Corte una interpretazione del requisito della rilevanza che si sospinga a valutazioni prognostiche sulla concreta idoneità dell’esito ad incidere sulle possibilità di accoglimento, parziale o totale, della domanda». 2.— È intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, osservando, in via preliminare, come l’attore del giudizio a quo non abbia chiesto la declaratoria di illegittimità del provvedimento di decadenza ma il risarcimento dei danni per cessazione dell’incarico, con la conseguenza che la cognizione della domanda risarcitoria spetterebbe al giudice amministrativo e non a quello ordinario. Nel merito si deduce la infondatezza delle censure in quanto nella specie verrebbero in rilievo incarichi conferiti a persona che non riveste già il ruolo di dirigente della p.a. «ma a persona estranea alla p.a. prescelta sulla base di criteri di particolare stima e fiducia da parte dell’organo politico preposto all’amministrazione che, pur condizionato dalla ricorrenza degli oggettivi elementi indicati dal comma 6, dell’art. 19, del d.lgs. n. 165 del 2001, effettua però la propria definitiva scelta fondandola sul proprio personale fiduciario rapporto con il soggetto che intende investire della funzione dirigenziale». In questa prospettiva, sarebbe del tutto coerente che, al mutamento del Governo, il soggetto nominato venga sottoposto ad un «vaglio confermativo e, in caso di non conferma, che l’incarico decada». Diversamente argomentando, si sottolinea, «la possibilità, percentualmente limitata di conferimento di detti i ncarichi (…) resterebbe preclusa ai titolari del potere politico, frustrando completamente (…) un suo pur modesto avvalimento di personale» di totale fiducia nell’esercizio di funzioni dirigenziali. Considerato in diritto 1.— Il Tribunale ordinario di Roma, sezione terza lavoro, con ordinanza del 24 febbraio 2009 ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 161, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2006, n. 286. Tale disposizione – richiamando l’art. 19, comma 8, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazione pubbliche), come modificato, dai commi 159 e 161 dello stesso decreto-legge n. 262 del 2006 – prevede che gli incarichi di funzioni dirigenziali conferiti, tra l’altro, a persone di particolare e comprovata qualificazione in possesso dei requisiti specificamente previsti dal comma 6 dello stesso art. 19, estranei alle amministrazioni statali, «cessano ove non confermati entro sessanta giorni» dalla data di entrata in vigore dello stesso decreto. Il giudice a quo censura il predetto comma 161, assumendo che esso si pone in contrasto con gli artt. 97 e 98 della Costituzione, in quanto prevede una interruzione automatica del rapporto di lavoro prima della scadenza del termine stabilito per la sua durata. 2.— In via preliminare, è necessario richiamare gli aspetti essenziali della vicenda oggetto del giudizio a quo, quali risultano dall’ordinanza di remissione. Il ricorrente era titolare di «un rapporto di lavoro con la Presidenza del Consiglio dei ministri». In data 3 agosto 2005 il Ministero delle attività produttive (divenuto poi Ministero dello sviluppo economico) gli aveva conferito, con decorrenza 1° settembre 2005 e scadenza 31 agosto 2008, «un incarico dirigenziale di seconda fascia», ai sensi del comma 6, dell’art. 19, del d.lgs. n. 165 del 2001, «quale soggetto non altrimenti legato da un rapporto di impiego dirigenziale con una pubblica amministrazione». Lo stesso Ministero, con provvedimento del 1° dicembre 2006, con decorrenza dal giorno successivo, non aveva confermato l’incarico attribuito. Per queste ragioni il ricorrente ha chiesto al Tribunale remittente che venisse dichiarato illegittimo tale provvedimento e condannata l’amministrazione al risarcimento del danno. 3.— Sempre in via preliminare, deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato per mancanza di rilevanza della questione, sul presupposto che la giurisdizione sulla controversia in esame non spetterebbe al giudice ordinario, ma a quello amministrativo. L’eccezione non è fondata. In particolare, la difesa dello Stato rileva come – avendo il ricorrente chiesto nel giudizio a quo la condanna dell’amministrazione al risarcimento del danno, che presuppone una valutazione della legittimità del provvedimento stesso – la relativa domanda avrebbe dovuto essere proposta davanti al giudice amministrativo. Come è noto, la giurisprudenza costituzionale è costante nel ritenere che «la inammissibilità delle questioni incidentali di legittimità costituzionale, sotto il profilo della carenza di giurisdizione del giudice a quo, può verificarsi solo quando il difetto di giurisdizione emerga in modo macroscopico e manifesto, cioè ictu oculi» (ex multis, sentenze n. 156 del 2007 e n. 144 del 2005). Nel caso in esame – avuto riguardo a quanto previsto dall’art. 63, comma 1, del d.lgs. n. 165 del 2001, che assegna alla cognizione del giudice ordinario le controversie aventi ad oggetto il conferimento e la revoca dell’incarico dirigenziale – non può ritenersi implausibile la motivazione con cui il giudice ordinario ha ritenuto la sua giurisdizione anche in relazione alle controversie risarcitorie connesse all’accertamento della illegittimità della “revoca” dell’incarico stesso. 4.— Nel merito, la questione è fondata. 5.— Al fine di chiarire la portata della disposizione impugnata, occorre, innanzitutto, sottolineare che l’art. 19 del citato d.lgs. n. 165 del 2001, contempla tre tipologie di funzioni dirigenziali, collocate in ordine decrescente di rilevanza e di maggiore coesione con l’organo politico. Innanzitutto, sono previsti «gli incarichi di segretario generale di ministeri, gli incarichi di direzione di strutture articolate al loro interno in uffici dirigenziali generali e quelli di livello equivalente»: si tratta delle attribuzioni dirigenziali “apicali”, conferite con decreto del Presidente della Repubblica, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente (art. 19, comma 3). Sono poi disciplinati «gli incarichi di funzione dirigenziale di livello generale», attribuiti con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro competente (comma 4). Infine, sono previsti gli incarichi di direzione degli altri uffici di livello dirigenziale, conferiti «dal dirigente dell’ufficio di livello dirigenziale generale». 5.1.— I predetti incarichi possono poi essere conferiti a soggetti che si trovino in una particolare posizione rispetto all’amministrazione che attribuisce la relativa funzione. In primo luogo, l’incarico può essere attribuito a personale inserito nel «ruolo dei dirigenti», istituito presso ciascuna amministrazione statale e articolato in due fasce (art. 23, del d.lgs. n. 165 del 2001). In secondo luogo, le funzioni dirigenziali possono essere conferite, entro limiti percentuali predeterminati, «anche ai dirigenti non appartenenti ai ruoli di cui al medesimo articolo 23», purché dipendenti da altre amministrazioni pubbliche, vale a dire da amministrazioni dello Stato diverse da quelle nel cui ambito è collocato il posto da conferire (art. 19, comma 5-bis, del d.lgs. n. 165 del 2001). Infine, è prevista la possibilità, sempre nel rispetto di soglie prefissate, che ciascuna amministrazione attribuisca la titolarità di uffici dirigenziali, a tempo determinato, fornendone esplicita motivazione, a «persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’amministrazione, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza, o che provengano da i settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato» (art. 19, comma 6, del d.lgs. n. 165 del 2001, come modificato, da ultimo, dall’art. 40 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, recante «Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni»). 5.2.— Nel caso in esame, viene in rilievo un incarico di direzione di uffici di livello dirigenziale non generale, attribuito, ai sensi del predetto comma 6, dell’art. 19, a soggetto esterno all’amministrazione conferente, non dipendente, come dirigente, da altra amministrazione. In relazione a tale tipologia di incarico, la norma impugnata contempla una ipotesi di spoils system transitorio, con interruzione ex lege del rapporto dirigenziale in corso ove l’interessato non sia confermato entro sessanta giorni dall’entrata in vigore dello stesso decreto-legge n. 262 del 2006. È bene aggiungere che, con riferimento alle attribuzioni dirigenziali “esterne”, il comma 8, dell’art. 19, del d.lgs. n. 165 del 2001, come modificato dal comma 159, del decreto-legge n. 262 del 2006, prevede anche una ipotesi di spoils system a regime, stabilendo che tali attribuzioni «cessano decorsi novanta giorni dal voto sulla fiducia al Governo». A tale ultimo proposito, va osservato che il citato art. 40 del d.lgs. n. 150 del 2009 ha abrogato la parte contenuta nel predetto comma 8 dell’art. 19, che ha esteso il sistema di spoils system a regime anche «al personale di cui al comma 5-bis, limitatamente al personale non appartenente ai ruoli di cui all’art. 23, e al comma 6». Tuttavia la predetta abrogazione, essendo successiva all’emanazione degli atti oggetto di censura nel processo a quo, non è idonea ad incidere sul quadro normativo rilevante nel presente giudizio. 5.3.— In definitiva, alla luce di quanto sin qui esposto, la questione sottoposta all’esame di questa Corte attiene alla conformità agli artt. 97 e 98 della Costituzione della norma che prevede un sistema di spoglie transitorio applicato a persone esterne all’amministrazione conferente, non dipendente, come dirigente, da altra amministrazione, al quale sia stata attribuita una funzione dirigenziale di livello non generale. 6.— Questa Corte ha già avuto modo di affermare, con la sentenza n. 103 del 2007, che la previsione di una cessazione automatica, ex lege e generalizzata, degli incarichi dirigenziali “interni” di livello generale víola, in carenza di idonee garanzie procedimentali, i princípi costituzionali di buon andamento e imparzialità e, in particolare, «il principio di continuità dell’azione amministrativa che è strettamente correlato a quello di buon andamento dell’azione stessa». 6.1.— Con la sentenza n. 161 del 2008, inoltre, si è precisato che questi principi valgono anche in presenza di incarichi dirigenziali conferiti «al personale non appartenente ai ruoli di cui all’art. 23 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165». In particolare, si è osservato come, in tali casi, la mancanza di un previo rapporto di servizio con l’amministrazione conferente non sia idonea ad incidere sulle regole di distinzione tra attività di indirizzo politico-amministrativo e compiti gestori dei dirigenti e conseguentemente sull’applicabilità dei principi costituzionali sopra richiamati. In altri termini, questa Corte ha rilevato la ininfluenza, sul piano funzionale, del fatto che l’atto di attribuzione di una determinata funzione dirigenziale ad un dirigente esterno, dipendente di altra amministrazione, e il correlato contratto individuale non si innestino su un rapporto di lavoro dirigenziale già esistente con la stessa amministrazione. É bene inoltre aggiungere, richiamando quanto già sottolineato con la citata sentenza n. 161 del 2008, come la previsione di un potere di conferma entro sessanta giorni non sia anch’essa in grado, di per sé, di diversificare la fattispecie in esame rispetto a quella oggetto di scrutinio con la sentenza n. 103 del 2007 e conseguentemente il relativo regime giuridico. Il potere ministeriale di conferma non attribuisce, infatti, al rapporto dirigenziale in corso alcuna garanzia di autonomia funzionale, atteso che dalla mancata conferma la legge fa derivare la decadenza automatica senza alcuna possibilità di controllo giurisdizionale. 6.2.— Quanto sopra vale, per le medesime ragioni, anche quando l’incarico dirigenziale esterno, nella specie non generale, sia stato conferito non a dirigenti dipendenti da altre amministrazioni, ma a soggetti privi di status dirigenziale, che abbiano «particolare e comprovata qualificazione professionale», che non sia rinvenibile nei ruoli dell’amministrazione, e che rientrino, quindi, nella categoria indicata specificamente nel comma 6, dell’art. 19 citato. Anche, dunque, per la tipologia di incarichi che vengono in rilievo in questa sede – come questa Corte ha già avuto modo di affermare con le citate sentenze n. 161 del 2008 e n. 103 del 2007 – il rapporto di lavoro instaurato con l’amministrazione che attribuisce la relativa funzione deve essere «connotato da specifiche garanzie, le quali presuppongono che esso sia regolato in modo tale da assicurare la tendenziale continuità dell’azione amministrativa e una chiara distinzione funzionale tra i compiti di indirizzo politico-amministrativo e quelli di gestione». Deve, pertanto, ritenersi, in continuità logica con quanto affermato dalle due suindicate pronunce, che anche la norma denunciata, prevedendo la immediata cessazione del rapporto dirigenziale alla scadenza del sessantesimo giorno dall’entrata in vigore del decreto-legge n. 262 del 2006, in mancanza di riconferma, víoli, in carenza di idonee garanzie procedimentali, i princípi costituzionali di buon andamento e imparzialità e, in particolare, «il principio di continuità dell’azione amministrativa che è strettamente correlato a quello di buon andamento dell’azione stessa». Ciò in quanto la previsione di una anticipata cessazione ex lege del rapporto in corso – in assenza di una accertata responsabilità dirigenziale – impedisce che l’attività del dirigente possa espletarsi in conformità ad un nuovo modello di azione della pubblica amministrazione, disegnato dalle recenti leggi di riforma della pubblica amministrazione, che misura l’osservanza del canone dell’efficacia e dell’efficienza alla luce dei risultati che il dirigente deve perseguire, nel rispetto degli indirizzi posti dal vertice politico, avendo a disposizione un periodo di tempo adeguato, modulato in ragione della peculiarità della singola posizione dirigenziale e del contesto complessivo in cui la stessa è inserita. È necessario, pertanto, garantire, come questa Corte ha già chiarito, «la presenza di un momento procedimentale di confronto dialettico tra le parti, nell’ambito del quale, da un lato, l’amministrazione esterni le ragioni – connesse alle pregresse modalità di svolgimento del rapporto anche in relazione agli obiettivi programmati dalla nuova compagine governativa – per le quali ritenga di non consentirne la prosecuzione sino alla scadenza contrattualmente prevista; dall’altro, al dirigente sia assicurata la possibilità di far valere il diritto di difesa, prospettando i risultati delle proprie prestazioni e delle competenze organizzative esercitate per il raggiungimento degli obiettivi posti dall’organo politico e individuati, appunto, nel contratto a suo tempo stipulato». L’esistenza di una preventiva fase valutativa – ha puntualizzato la Corte con le suindicate sentenze – risulta essenziale anche per assicurare, specie dopo l’entrata in vigore della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), «il rispetto dei principi del giusto procedimento, all’esito del quale dovrà essere adottato un atto motivato che, a prescindere dalla sua natura giuridica, di diritto pubblico o di diritto privato, consenta comunque un controllo giurisdizionale. Ciò anche al fine di garantire – attraverso la esternazione delle ragioni che stanno alla base della determinazione assunta dall’organo politico – scelte trasparenti e verificabili, in grado di consentire la prosecuzione dell’attività gestoria in ossequio al precetto costituzionale della imparzialità dell’azione amministrativ a». In definitiva, in presenza di tali incarichi – che devono essere sempre conferiti nel rigoroso rispetto delle condizioni prescritte dal comma 6, dell’art. 19, le quali impongono, tra l’altro, che «la professionalità vantata dal soggetto esterno non sia rinvenibile nei ruoli dell’amministrazione» (sentenza n. 9 del 2010) – l’amministrazione stessa è tenuta a garantire la distinzione funzionale tra attività di indirizzo politico amministrativo e attività gestionale, in attuazione dei principi costituzionali di buon andamento e imparzialità dell’azione dei pubblici poteri. 7.— Deve, pertanto, essere dichiarata la illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 161, del decreto-legge n. 262 del 2006, per violazione degli artt. 97 e 98 della Costituzione, nella parte in cui dispone che gli incarichi conferiti al personale di cui al comma 6, dell’art. 19, del d.lgs. n. 165 del 2001 «conferiti prima del 17 maggio 2006, cessano ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto». per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 161, del decreto-legge 3 ottobre 2006, n. 262 (Disposizioni urgenti in materia tributaria e finanziaria), convertito, con modificazioni, nella legge 24 novembre 2006, n. 286, nella parte in cui dispone che gli incarichi conferiti al personale di cui al comma 6, dell’art. 19, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), conferiti prima del 17 maggio 2006, «cessano ove non confermati entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore del presente decreto». Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2010. F.to: Ugo DE SIERVO, Presidente Alfonso QUARANTA , Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2010. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA SENTENZA N. 82 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), promosso dal Tribunale ordinario di Roma, nel procedimento vertente tra N. M. B. e F. P., con ordinanza del 21 gennaio 2009, iscritta al n. 202 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 33, prima serie speciale, dell’anno 2009. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 27 gennaio 2010 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro. Ritenuto in fatto 1. – Il Tribunale ordinario di Roma – nel corso di un procedimento promosso da N.M.B. nei confronti di F.P. per ottenerne la condanna alla corresponsione, in suo favore, di un assegno di € 1.000,00 mensili a titolo di mantenimento della figlia minore nata da una relazione con lo stesso F.P. – con ordinanza del 21 gennaio 2009, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli) nella parte in cui «non prevede, in fine, che i procedimenti relativi ai figli minori di genitori non coniugati sono attribuiti alla competenza dei Tribunali per i minorenni». Il rimettente – premesso di condividere la tesi sostenuta in dottrina e dai giudici di merito, secondo cui, a seguito della modifica introdotta, il tribunale ordinario sarebbe competente a conoscere delle controversie relative sia all’affidamento dei figli minori di genitori non coniugati, sia alla determinazione dell’assegno di mantenimento per gli stessi – rileva che la Corte di cassazione, nell’affrontare il problema, ha affermato che rimane immutata la necessità di rivolgersi a due organismi differenti a seconda che si tratti di modalità di affidamento del minore o di assegno, mentre sussiste la competenza del giudice minorile, con riguardo ad entrambe le questioni, qualora le stesse siano proposte contestualmente (ordinanza n. 8362 del 2007 e successive conformi). Tale ultima interpretazione, costituente diritto vivente, appare al giudice a quo in contrasto con le regole di razionalità ed uguaglianza tra figli minori legittimi e figli naturali, che ricevono differenti tutele da parte di diversi organismi, e tra gli stessi figli naturali, trattati differentemente a seconda che le domande di affidamento e di assegno di mantenimento siano o no contestuali; con quelle relative alla ragionevole durata del processo sotto il profilo della concentrazione delle tutele; con il principio della immutabilità del giudice naturale, essendo consentita al ricorrente la scelta di iniziare il procedimento davanti all’uno o all’altro degli organismi ritenuti competenti. 2. – Nel giudizio innanzi alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la inammissibilità o, comunque, per la manifesta infondatezza della questione. Secondo la difesa erariale, il giudice rimettente ha prospettato una possibilità esegetica della norma ritenuta costituzionalmente orientata, sicché non vi sarebbe spazio per una questione di legittimità costituzionale della medesima norma. Nel merito, non sussisterebbe violazione dell’art. 3 Cost., attesa la ragionevolezza della previsione. La censura relativa alla violazione del principio di ragionevole durata del processo sarebbe, poi, formulata in modo perplesso, non essendo esplicitate dal rimettente le ragioni del lamentato vulnus. Non sussisterebbe, infine, la denunciata violazione dell’art. 25 Cost. Considerato in diritto 1. – Il Tribunale ordinario di Roma dubita della legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), nella parte in cui non prevede la generalizzata competenza funzionale del Tribunale per i minorenni in ordine alle decisioni sul contributo al mantenimento del figlio minore di genitori non coniugati – la quale invece, nella interpretazione fornita dalla Corte di Cassazione, costituente diritto vivente, è limitata alle sole ipotesi in cui il contributo sia richiesto contestualmente a misure relative all’esercizio della potestà e all’affidamento del figlio – per contrasto con l’art. 3 della Costituzione, avuto riguardo alla ingiustificata disparità di trattamento tra figli legittimi e naturali nonché tra gli stessi figli naturali; con l’art. 25 Cost. per la violazione de lla garanzia costituzionale del giudice naturale precostituito per legge; con l’art. 111 Cost. per la violazione del principio di ragionevole durata del processo. 1.1. – L’art. 4, comma 2, della legge n. 54 del 2006 estende l’applicabilità delle nuove disposizioni in materia di affidamento condiviso dei figli minori, dettate con riguardo alla separazione personale dei coniugi, ad ogni ipotesi di scioglimento, cessazione degli effetti civili o di nullità del matrimonio, nonché ai procedimenti relativi ai figli di genitori non coniugati. In giurisprudenza – mentre è pacifico che, in tema di separazione e divorzio, la competenza a conoscere delle controversie relative all’affidamento e al mantenimento della prole appartiene al giudice ordinario – è sorto il problema della individuazione del giudice competente a conoscere delle medesime controversie ove esse riguardino la prole naturale, in presenza dell’art. 317-bis cod. civ., concernente i provvedimenti in tema di esercizio della potestà sui figli naturali riconosciuti, ricompresi espressamente dall’art. 38 delle disposizioni di attuazione del codice civile tra quelli attribuiti alla competenza del tribunale per i minorenni. Tale contrasto è stato risolto dalla Corte di cassazione (ordinanza n. 8362 del 2007 e successive conformi), con giurisprudenza divenuta ormai diritto vivente, secondo cui le controversie aventi ad oggetto il mantenimento dei figli naturali riconosciuti appartengono alla competenza del tribunale minorile qualora siano proposte contestualmente a quelle attinenti alla potestà sugli stessi e al loro affidamento, mentre, ove la domanda riguardi esclusivamente le questioni economiche, essa va proposta innanzi al tribunale ordinario. La richiamata giurisprudenza è contestata dal giudice rimettente, che la ritiene «in contrasto con le regole di razionalità e di uguaglianza tra figli minori e naturali (che possono avere differenti tutele da parte di organismi differenti) e tra gli stessi figli naturali (differentemente trattati a seconda che le domande siano contestuali o meno)». Il giudice a quo sostiene che la contestualità delle misure relative all’esercizio della potestà e all’affidamento del figlio, da un lato, e di quelle economiche inerenti al loro mantenimento, prefigurata dai novellati articoli 155 e seguenti del codice civile, dovrebbe imporsi in ragione non della domanda eventualmente proposta in modo contestuale a quella relativa alla potestà, ma dell’inevitabile considerazione complessiva degli istituti, i quali risulterebbero inscindibilmente legati e interdipendenti a seguito delle innovazioni apportate dalla legge di riforma. Ne dovrebbe conseguire la sussistenza della competenza del tribunale per i minorenni con riferimento ad ogni richiesta di attribuzione, di adeguamento, di ripartizione degli oneri ordinari o straordinari, ivi compresa l’eventuale assegnazione della casa “familiare”, a prescindere dalla occasionale circostanza che le relative azioni siano contestua lmente o singolarmente proposte. 2. – La questione, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., non è fondata. 2.1. – Questa Corte, nell’affrontare analoga questione sulla base della precedente normativa, ha affermato che «il legislatore, al quale va riconosciuta, la più ampia discrezionalità nella regolazione generale degli istituti processuali, è in particolare arbitro di dettare regole di ripartizione della competenza fra i vari organi giurisdizionali, semprechè le medesime non risultino manifestamente irragionevoli» (sentenza n. 451 del 1997). Nel caso di specie non sono manifestamente irragionevoli l’attribuzione, sulla base del diritto vivente e nell’ipotesi di prole naturale riconosciuta, alla competenza del tribunale per i minorenni della controversia relativa all’esercizio della potestà genitoriale, qualora la stessa sia contestuale alla determinazione dell’assegno di mantenimento, e l’affermazione della competenza del tribunale ordinario, quando si richiede al giudice solo l’attribuzione di detto assegno: ciò soprattutto ove si tenga presente che è lo stesso intervento dell’autorità giudiziaria ad atteggiarsi in modo diverso nelle due differenti ipotesi. Né è sufficiente a ritenere la irragionevolezza della soluzione il rilievo in ordine alla stretta relazione che permane fra il contributo economico e le regole dell’esercizio della potestà genitoriale o la circostanza che la questione dell’affidamento potrebbe nuovamente prospettarsi in un momento successivo. Infatti, la relazione fra esercizio della potestà e contributo economico, ove non si concretizzi in specifiche domande, non incide sulla competenza, mentre la possibilità di proporre successivamente una questione sull’affidamento, trattandosi di circostanza puramente eventuale, è priva di rilevanza e, in quanto tale, non può incidere sulla competenza. 3. – La questione sollevata in riferimento agli articoli 25 e 111 Cost. è manifestamente inammissibile, perché priva di motivazione. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 2, della legge 8 febbraio 2006, n. 54 (Disposizioni in materia di separazione dei genitori e affidamento condiviso dei figli), sollevata, in riferimento all’articolo 3 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma con l’ordinanza in epigrafe; dichiara manifestamente inammissibile la questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 4, comma 2, della citata legge n. 54 del 2006, sollevata, in riferimento agli articoli 25 e 111 della Costituzione, dal Tribunale ordinario di Roma con l’ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2010. F.to: Ugo DE SIERVO, Presidente Alfio FINOCCHIARO, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2010. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA SENTENZA N. 83 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 6, lettere a) e d), del decreto-legge 6 novembre 2008, n. 172 (Misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti nella regione Campania, nonché misure urgenti di tutela ambientale), promosso dal Tribunale ordinario di Torre Annunziata con ordinanza dell’11 novembre 2008, iscritta al n. 42 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 8, prima serie speciale, dell’anno 2009. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 10 febbraio 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri. Ritenuto in fatto 1. – Con ordinanza deliberata l’11 novembre 2008, il Tribunale ordinario di Torre Annunziata, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25 e 77, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, lettere a) e d), del decreto-legge 6 novembre 2008, n. 172 (Misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti nella regione Campania, nonché misure urgenti di tutela ambientale) – successivamente convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 dicembre 2008, n. 210 – nella parte in cui, limitatamente alle aree geografiche in cui vige lo stato di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti, configura come delitto condotte che, nel restante territorio nazionale, non sono penalmente rilevanti (lettera a) o sono punite a titolo di contravvenzione (lettera d). Il rimettente procede, con rito direttissimo, nei confronti di tre persone arrestate in flagranza, il 10 novembre 2008, alle quali il pubblico ministero ha contestato i reati previsti dagli artt. 110 e 81 cpv. del codice penale, e dall’art. 6, lettere a) e d), del d.l. n. 172 del 2008, essendo state sorprese «nel corso di attività di trasporto, raccolta e scarico di rifiuti ingombranti». Lo stesso rimettente dà atto di avere convalidato gli arresti e riferisce che il pubblico ministero, in via preliminare, ha proposto questione di legittimità costituzionale delle previsioni contenute nell’art. 6, lettere a) e d), del d.l. citato, per l’asserita violazione degli artt. 3 e 102 Cost. Secondo il rappresentate dell’accusa, per un verso, sarebbe privo di giustificazione il deteriore trattamento riservato alla persona fisica che commetta le condotte in contestazione nel ristretto ambito geografico in cui vige lo stato di emergenza per lo smaltimento dei rifiuti, dichiarato ai sensi dell’art. 5 della legge 24 febbraio 1992, n. 225 (Istituzione del Servizio nazionale della protezione civile), e, per altro verso, sussisterebbe «la violazione dell’art. 102 Cost. in relazione all’intervenuta, conseguente costituzione di un giudice speciale, chiamato a decidere su questioni aventi ambito territoriale ristretto». Il giudice a quo ha ritenuto manifestamente infondata la questione posta in riferimento all’art. 102 Cost., sul rilievo che il d.l. n. 172 del 2008 non ha istituito «alcun giudice speciale o straordinario» e non ha inciso sulle regole di riparto della competenza, essendo valso ad introdurre un trattamento penale più severo per condotte tenute nell’area interessata dallo stato di emergenza per lo smaltimento dei rifiuti. Proprio con riguardo alle indicate variazioni in peius del trattamento sanzionatorio, peraltro, il rimettente dubita della compatibilità tra la norma censurata e l’art. 3 Cost. Se è vero, osserva in proposito il Tribunale, che qualsiasi soggetto, che ponga in essere una delle condotte previste dalle norme censurate, nelle aree in cui sia stato dichiarato lo stato di emergenza ambientale, è assoggettabile alle relative sanzioni, è altresì innegabile che, «in via sostanziale e di fatto, le popolazioni residenti domicilianti o dimoranti nelle aree di applicazione della norma […] divengano i reali e pressoché unici destinatari della norma penale maggiormente sfavorevole destinata a regolamentare, peraltro temporaneamente, alcune zone del territorio nazionale e non altre». Oltre alla ingiustificata disparità di trattamento tra coloro i quali vivono ed operano nelle aree di «interesse ambientale» e la rimanente popolazione, il giudice a quo assume l’irragionevolezza delle previsioni in esame avuto riguardo al loro carattere temporaneo. Seppure, infatti, l’ordinamento contempla la possibilità di emanare anche in ambito penale leggi eccezionali e temporanee, nel caso di specie, stante la limitazione territoriale, «la norma […] potrebbe, in maniera abnorme, regolamentare la medesima situazione di fatto in modo, ingiustificatamente, difforme ed opposto, a seconda della duplice variabile temporale e territoriale». Le previsioni censurate contrasterebbero inoltre con la riserva di legge posta dall’art. 25 Cost., in quanto, pur essendo le fattispecie penali indicate dallo stesso d.l. n. 172 del 2008, e cioè da una fonte primaria, l’esplicito richiamo alle aree designate ai sensi dell’art. 5 della legge n. 225 del 1992 quale ambito territoriale di efficacia delle relative sanzioni, «presuppone una delega per l’individuazione di tale requisito a fonte normativa non primaria» (deliberazione del Consiglio dei ministri). Il rimettente osserva che il provvedimento dell’Esecutivo, dichiarativo dello stato di emergenza per la raccolta dei rifiuti, non è «semplice elemento di specificazione o caratterizzazione della fattispecie», ma si pone come norma di riferimento per l’individuazione di un «presupposto costitutivo del reato». Di conseguenza, con riferimento quantomeno all’ambito territoriale di efficacia, l’art. 6 censurato introdurrebbe una norma penale in bianco, come tale potenzialmente lesiva del menzionato principio sancito dall’art. 25 Cost. Il giudice a quo denuncia infine il contrasto tra il citato art. 6, lettere a) e d), e l’art. 77, secondo comma, Cost., per la mancanza dei requisiti di necessità e di urgenza, indispensabili a legittimare l’adozione del decreto-legge. In proposito il rimettente richiama la giurisprudenza costituzionale, con riferimento sia alla individuazione dei suddetti requisiti, sia alle conseguenze dell’accertata carenza di essi. È citata, in particolare, la sentenza n. 29 del 1995, nella quale si trova affermato che «l’eventuale evidente mancanza» del presupposto di una preesistente situazione fattuale di necessità ed urgenza «configura tanto un vizio di legittimità costituzionale del decreto legge […] quanto un vizio in procedendo della stessa legge di conversione». A parere del giudice a quo, la mancanza dei presupposti della decretazione d’urgenza emergerebbe dalla stessa premessa del d.l. n. 172 del 2008, nella quale si afferma sussistere «la straordinaria necessità ed urgenza di definire un quadro di adeguate iniziative per consolidare i risultati positivi ottenuti […] e per il definitivo superamento dell’emergenza». Ciò renderebbe evidente che la normativa in esame è stata predisposta in un momento nel quale la fase acuta dell’emergenza era ormai superata. Sotto il profilo della rilevanza, il rimettente sottolinea come dall’accoglimento della questione «deriverebbe l’irrilevanza penale del fatto ascritto ai prevenuti e/o la derubricazione in fattispecie avente trattamento sanzionatorio meno grave con riferimento alla contestazione di cui alla lettera d) dell’art. 6 d.l. n. 172 del 2008». 2. – È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la inammissibilità o, comunque, per la non fondatezza della questione. La difesa dello Stato, dopo aver riepilogato il contenuto dell’ordinanza di rimessione, ripercorre le tappe salienti della situazione verificatasi nella Regione Campania. Nella predetta Regione persiste fin dal 1994 lo stato di emergenza per lo smaltimento dei rifiuti, dichiarato ai sensi dell’art. 5 della legge n. 225 del 1992. Nel 1996 il Presidente della Regione Campania è stato nominato Commissario per il Governo al fine dell’approvazione, tra l’altro, del Piano regionale dei rifiuti, con il compito di individuare un adeguato sistema di gestione dei rifiuti urbani, che garantisse la regolare erogazione di un servizio pubblico essenziale. Il Piano regionale – approvato nel 1997, ed adeguato al decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio) – aveva individuato, sulla base della ricognizione dei volumi di rifiuti urbani prodotti, delle caratteristiche merceologiche e della distribuzione sul territorio regionale, un sistema basato sulla termovalorizzazione, previo trattamento in combustibile da rifiuti (CdR). In seguito, «una serie di complicazioni, quali le infiltrazioni malavitose e le problematiche insorte con la popolazione», hanno aggravato il contesto emergenziale e reso ineluttabile il ricorso alla legislazione d’urgenza, attuato con il decreto-legge 23 maggio 2008, n. 90 (Misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti nella regione Campania e ulteriori disposizioni di protezione civile) e con il d.l. n. 172 del 2008. In particolare, prosegue la difesa erariale, il d.l. n. 172 del 2008 configura un intervento di carattere straordinario, strumentale a rendere maggiormente efficace la gestione dei rifiuti nella Regione Campania, in un quadro di «perdurante grave crisi emergenziale in atto al momento della emanazione dei provvedimenti normativi in questione». Dopo un’analisi generale dei punti qualificanti il provvedimento legislativo urgente – calibrato sulla situazione esistente in Campania ma applicabile in qualsiasi area del territorio nazionale per la quale, ricorrendone i presupposti, sia dichiarato lo stato di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti – l’Avvocatura generale procede all’esame delle norme censurate, ed evidenzia come le stesse introducano, per condotte già vietate dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), un trattamento sanzionatorio più severo, qualora le stesse siano poste in essere nel territorio in cui vige lo stato di emergenza. Invero, la fattispecie prevista alla lettera a) dell’art. 6 del d.l. n. 172 del 2008 eleva al rango di illecito penale la condotta prevista dall’art. 255 del d.lgs. n. 152 del 2006, mentre la fattispecie contenuta nella successiva lettera d) trasforma in delitto la contravvenzione prevista dall’art. 256 del richiamato d.lgs. n. 152 del 2006, con conseguente inasprimento delle sanzioni. Il legislatore dell’emergenza è dunque intervenuto a reprimere più severamente condotte già vietate, al fine di tutelare, nel contesto emergenziale, beni di rilevanza costituzionale, quali l’ambiente e la salute dei cittadini, esposti a grave pericolo proprio per effetto di quei comportamenti. Ciò posto, in via preliminare la difesa dello Stato ritiene che le censure prospettate dal giudice a quo siano motivate in modo insufficiente e contraddittorio. In particolare, il rimettente avrebbe contraddetto le sue stesse premesse nell’argomentare sia la pretesa violazione del principio di uguaglianza, sia l’irragionevolezza delle norme censurate. Il difetto di motivazione sarebbe poi evidente, a parere della difesa erariale, con riferimento all’asserita violazione della riserva di legge, posto che il giudice a quo attribuisce alla disposizione contenuta nell’art. 6 citato la natura di norma penale in bianco, limitandosi a rilevare che essa presuppone la vigenza dello stato di emergenza dichiarato dall’Esecutivo. La motivazione sarebbe carente, infine, anche riguardo alla non manifesta infondatezza della questione concernente l’art. 77, secondo comma, Cost., argomentata sulla pretesa «attestazione» della cessata emergenza che risulterebbe dalla premessa del provvedimento legislativo urgente. Nel merito, l’Avvocatura generale evidenzia come, secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, il principio di uguaglianza trovi piena attuazione quando a situazioni simili corrisponde un trattamento analogo e a situazioni diverse fa riscontro un trattamento differenziato. Sicché, proprio in ossequio al principio di uguaglianza, l’assetto normativo deve essere adeguato alle specifiche contingenze; infatti, la discrezionalità delle scelte legislative «deve trovare idonea spiegazione nella ragionevolezza delle statuizioni dirette a giustificare la disparità di trattamento». In questa prospettiva, a parere della difesa erariale, sarebbe di tutta evidenza che l’art. 6 censurato non viola in alcun modo il principio di uguaglianza, essendo applicabile nei confronti di chiunque ponga in essere le condotte incriminate nell’ambito territoriale interessato dallo stato di emergenza nel settore dei rifiuti. Non sussisterebbe nemmeno la denunciata irragionevolezza della normativa sottoposta a scrutinio: quest’ultima, con riferimento alle aree in cui è dichiarato lo stato di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti, qualifica come delitti condotte già sanzionate, a titolo di illecito amministrativo o di contravvenzione, dal d.lgs. n. 152 del 2006. Il legislatore ha dunque introdotto norme penali eccezionali, previste e disciplinate dagli artt. 2, quinto comma, cod. pen. e 14 delle disposizioni sulla legge in generale, che trovano giustificazione nella gravità della crisi del settore dei rifiuti in quei territori nei quali è stato dichiarato lo stato di emergenza. È richiamata in proposito l’affermazione della giurisprudenza costituzionale secondo cui, a fronte di contesti emergenziali, il legislatore è tenuto ad approntare soluzioni normative adeguate (sentenza n. 15 del 1982). Sarebbe poi infondato l’asserito contrasto tra l’art. 6 citato e la riserva di legge in materia penale, a partire dalla qualificazione della predetta disposizione come norma in bianco, «almeno per quanto attiene al richiamo territoriale». La difesa erariale, dopo aver precisato che le norme penali in bianco sono caratterizzate dalla genericità del precetto, che deve essere specificato da atti normativi di grado inferiore, quali i regolamenti e i provvedimenti amministrativi (sono richiamate, in via esemplificativa, le fattispecie previste dagli artt. 650 e 329 cod. pen.), segnala che la giurisprudenza costituzionale «e gran parte della giurisprudenza di legittimità» ritengono dette norme compatibili con l’art. 25, secondo comma, Cost., quando la fonte di rango primario indichi con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto ed i limiti dei provvedimenti di rango inferiore alla cui trasgressione segue la sanzione (sono richiamate le sentenze n. 132 del 1986, n. 108 del 1982 e n. 168 del 1971 della Corte costituzionale). In caso diverso, verrebbero ad essere violati i principi di tipicità, tassatività e determinatezza della fattispecie penale, ol tre a quello della riserva di legge. Inoltre, a parere dell’Avvocatura generale, il censurato art. 6 non presenta i caratteri della norma penale in bianco, in quanto contiene una descrizione dettagliata della fattispecie penale, in tutti i suoi elementi costitutivi, sicché il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, dichiarativo dello stato di emergenza ai sensi dell’art. 5 della legge n. 225 del 1992, andrebbe ad integrare la previsione penale nei soli profili regolati dalla legge citata. In particolare, la normativa regolamentare sancirebbe la durata dell’operatività e l’ambito territoriale dello stato di emergenza, sulla base di valutazioni tecniche di competenza dell’autorità amministrativa. Quanto, infine, alla censura prospettata in riferimento all’art. 77, secondo comma, Cost., l’Avvocatura generale richiama l’affermazione ricorrente nella giurisprudenza costituzionale, secondo la quale «il sindacato sull’esistenza dei presupposti della necessità e dell’urgenza, che legittimano il Governo ad emanare decreti-legge, può essere esercitato solo in caso di evidente mancanza dei presupposti stessi» (sono indicate le sentenze n. 285 del 2004, n. 6 del 2004, n. 16 del 2002 e, in particolare, n. 398 del 1998). Nella specie, il provvedimento legislativo urgente sarebbe intervenuto quando il contesto emergenziale si trovava ancora in fase acuta, come dimostrato anche dall’apertura in sede comunitaria di una procedura di infrazione nei confronti dello Stato italiano (causa C-297/08, Commissione c. Repubblica italiana), oltre che dalle difficoltà relative al superamento della grave situazione ambientale e sanitaria presente nella Regione Campania. Risulterebbero dunque confermati i presupposti di necessità ed urgenza posti a fondamento dell’intervento del Governo, «con l’adozione del provvedimento in oggetto in relazione ad “eventi che, per intensità ed estensione, debbono essere fronteggiati con mezzi e poteri straordinari”». Considerato in diritto 1. – Il Tribunale ordinario di Torre Annunziata ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 25 e 77, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, lettere a) e d), del decreto-legge 6 novembre 2008, n. 172 (Misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti nella regione Campania, nonché misure urgenti di tutela ambientale), nella parte in cui, limitatamente alle aree geografiche in cui vige lo stato di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti, configura come delitto condotte che, nel restante territorio nazionale, non sono penalmente rilevanti (lettera a) o sono punite a titolo di contravvenzione (lettera d). 2. – Successivamente alla proposizione dell’incidente di costituzionalità, il decreto-legge n. 172 del 2008 è stato convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 dicembre 2008, n. 210. La predetta legge ha apportato modifiche anche ad una delle disposizioni censurate, quella contenuta all’art. 6, lettera a), senza peraltro incidere sul contenuto precettivo della norma, contro il quale si appuntano le doglianze del rimettente, sicché entrambe le questioni devono intendersi trasferite sul testo risultante dalla legge di conversione. 2.1 – Le questioni non sono fondate. 2.2. – Il rimettente ritiene che, nel momento dell’adozione del d.l. n. 172 del 2008, non sussistessero le condizioni di straordinaria necessità e urgenza, richieste dall’art. 77, secondo comma, Cost. per l’emanazione, da parte del Governo, di un atto con forza di legge. Ciò sarebbe comprovato dallo stesso preambolo del decreto-legge in questione, che fa riferimento alla «straordinaria necessità e urgenza di definire un quadro di adeguate iniziative per consolidare i risultati positivi ottenuti nell’aumento della capacità di smaltimento dei rifiuti nel territorio campano e per il definitivo superamento dell’emergenza con una graduale e tempestiva restituzione dei poteri agli enti ordinariamente competenti». Il decreto-legge sarebbe intervenuto quindi, secondo il giudice a quo, quando la fase acuta dell’emergenza era stata già superata e non si giustificava più il ricorso a tale tipo di at to legislativo. L’argomentazione sopra esposta non può essere condivisa, giacché l’esigenza di “consolidare” i risultati positivi ottenuti in una grave situazione di emergenza, quale quella concernente lo smaltimento dei rifiuti in Campania, può essere valutata dal Governo e dalle Camere, come urgente essa stessa, allo scopo di evitare che i predetti risultati siano vanificati da condotte illegali, potenzialmente idonee a ricreare le condizioni che avevano fatto sorgere l’emergenza medesima. I comportamenti previsti dalle norme censurate, se posti in essere nella delicata fase della transizione da una situazione eccezionale ad una di normalità, potrebbero arrestare, o rendere più difficile, il percorso che conduce ad un superamento definitivo dell’emergenza, non ancora verificatosi al momento dell’emanazione del decreto-legge. Questa Corte ha costantemente affermato che il sindacato sulla legittimità dell’adozione, da parte del Governo, di un decreto-legge debba limitarsi alla «evidente mancanza» dei presupposti di straordinaria necessità e urgenza richiesti dal secondo comma dell’art. 77 Cost., rimanendo invece la valutazione del merito delle situazioni di urgenza nell’ambito della responsabilità politica del Governo nei confronti delle Camere, chiamate a decidere sulla conversione in legge del decreto (ex plurimis, tra le più recenti, sentenze n. 128 del 2008, n. 171 del 2007, n. 285 del 2004). Nel caso di specie, per i motivi già esposti, non può essere rilevata tale «evidente mancanza», con la conseguenza che ogni considerazione sulla necessità e urgenza del provvedere appartiene all’ordine dei giudizi politici, che non spettano al giudice delle leggi. 2.3. – Parimenti non fondata è la censura basata sulla pretesa violazione dell’art. 3 Cost., dedotta in quanto le norme de quibus introdurrebbero una irragionevole discriminazione tra cittadini, essendo «di fatto» indirizzate agli abitanti di una Regione determinata del Paese. Lo stesso rimettente riconosce che le norme censurate prevedono come soggetti attivi dei reati in questione tutti coloro che pongano in essere i comportamenti specificamente indicati, indipendentemente dalla loro residenza. Rileva, altresì, lo stesso giudice che le norme in questione si applicano a tutte le porzioni di territorio in cui vige lo stato di emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti, dichiarato ai sensi della legge 24 febbraio 1992, n. 225 (Istituzione del Servizio nazionale della protezione civile). I due rilievi che precedono sono sufficienti ad escludere che sia stato violato il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, poiché la previsione di un trattamento penale più severo per coloro i quali si rendano responsabili di illeciti che contribuiscono a creare o mantenere una situazione di emergenza ambientale, con grave pericolo per la salute delle popolazioni dei territori interessati, non è manifestamente irragionevole e costituisce una risposta che il legislatore ha ritenuto di dover dare alla diffusione di comportamenti da reprimere con rigore. La circostanza di fatto, sottolineata dal rimettente, che i destinatari di tali norme penali sarebbero prevalentemente gli abitanti delle zone in cui è stata dichiarata l’emergenza, non solo non incide sulla struttura delle norme censurate, che possiedono la necessaria generalità ed astrattezza, ma pone in rilievo che i soggetti tutelati dalle disposizioni sanz ionatorie sono proprio le popolazioni coinvolte, di volta in volta, dall’emergenza rifiuti. Il legislatore ritiene tali popolazioni meritevoli di una tutela rafforzata in ragione della situazione specifica in cui esse si trovano, che conferisce alle condotte illecite previste una maggiore offensività. Risulta pertanto rispettato il criterio generale di applicazione del principio di uguaglianza, che impone la disciplina diversa di situazioni diverse, identificate in modo non irragionevole dal legislatore. Quanto alla temporaneità dello stato di emergenza dichiarato dal Governo – addotta dal rimettente quale giustificazione del proprio dubbio di legittimità costituzionale – si deve osservare che essa è insita nello stesso concetto di emergenza, incompatibile con una sua previsione a tempo indefinito, che renderebbe illegittime tutte le norme fondate su tale premessa. 2.4. – Si deve pure escludere la lamentata violazione della riserva di legge imposta dall’art. 25, secondo comma, Cost. Le norme censurate non appartengono alla categoria delle cosiddette “norme penali in bianco” (che pure, a certe condizioni, questa Corte ha dichiarato costituzionalmente ammissibili: ex plurimis, sentenze n. 21 del 2009, n. 292 del 2002, n. 333 del 1991, n. 282 del 1990), in quanto in esse la fattispecie criminosa è compiutamente descritta e le pene sono specificamente previste. La dichiarazione dello stato di emergenza, da parte dell’autorità governativa, è solo una condizione di fatto per l’applicabilità delle norme medesime, che non integra in alcun modo il contenuto del precetto penale, fissato nella legge, in sé e per sé completo ed autosufficiente. Peraltro, la stessa dichiarazione dello stato di emergenza può avvenire solo in presenza dei presupposti legislativamen te previsti, costituiti dagli eventi di cui all’art. 2, lettera c), della legge n. 225 del 1992, nei limiti e con le modalità specificati dall’art. 5, comma 1, della stessa legge. L’atto amministrativo a carattere generale, che funge da presupposto per l’applicabilità delle sanzioni penali previste dalle norme censurate, è pertanto esso stesso suscettibile di valutazione, sotto il profilo della legittimità, da parte dei giudici ordinari e di quelli amministrativi, nell’ambito delle rispettive competenze. Non si riscontra quindi la possibilità di decisioni governative illegittime, da cui deriverebbero indirettamente le conseguenze penali previste dalle norme oggetto della presente questione, senza che sia esperibile alcun controllo di legalità. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondate le questioni di legittimità dell’art. 6, lettere a) e d), del decreto-legge 6 novembre 2008, n. 172 (Misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti nella regione Campania, nonché misure urgenti di tutela ambientale), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 30 dicembre 2008, n. 210, sollevate, in riferimento agli articoli 3, 25, secondo comma, e 77, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Torre Annunziata, con l’ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2010. F.to: Ugo DE SIERVO, Presidente Gaetano SILVESTRI, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2010. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA ORDINANZA N. 84 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai Signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 986, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Siracusa, nel procedimento vertente tra la Erg Raffinerie Mediterranee s.p.a. e l’Agenzia delle dogane – Direzione Regionale per la Sicilia ed altro, con ordinanza del 10 marzo 2008, iscritta al n. 284 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2008. Visti l’atto di costituzione della Erg Raffinerie Mediterranee s.p.a., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 3 novembre 2009 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro; uditi gli avvocati Lorenzo Acquarone e Daniela Anselmi per la Erg Raffinerie Mediterranee s.p.a. e l’avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto che la Commissione tributaria provinciale di Siracusa – nel corso di un giudizio promosso, con ricorso notificato l’11 maggio 2007, dalla Erg Raffinerie Mediterranee s.p.a. per l’annullamento, previa sospensione, delle note dell’Agenzia delle dogane, Ufficio delle dogane di Siracusa, prot. n. 81676 dell’8 marzo 2007 e prot. n. 13213 del 2 maggio 2007, relative al recupero della tassa sulle operazioni di imbarco e sbarco di merci effettuate attraverso il pontile della baia di Santa Panagia di Siracusa – ha sollevato, su istanza della ricorrente, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 986, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), per violazione degli artt. 3, 101, 102 e 104 della Costituzione; che la Commissione espone la tesi della società ricorrente, di non essere tenuta al pagamento della tassa portuale, per avere sempre effettuato le operazioni di imbarco e sbarco di prodotti petroliferi attraverso il terminale della baia di Santa Panagia, al di fuori dell’ambito territoriale del porto di Siracusa, senza utilizzare alcuna infrastruttura o servizio portuale e servendosi esclusivamente di personale proprio e di proprie infrastrutture ed attrezzature oltre che sotto la propria responsabilità; che lo stesso giudice a quo riferisce che in precedenza, a favore della ISAB, oggi Erg, il Tribunale di Catania, con sentenza n. 386 del 27 marzo 2001, aveva riconosciuto il diritto all’esenzione dal pagamento della tassa in questione per avere effettuato le operazioni di imbarco e sbarco delle merci fuori dall’ambito del porto di Siracusa; e che tale sentenza era stata confermata dalla Corte di appello di Catania con sentenza n. 787 del 9 settembre 2004, gravata con ricorso per cassazione ancora pendente; che con sentenza del 5 luglio 2004, passata in giudicato, la stessa Commissione tributaria aveva disposto il rimborso della tassa in precedenza pagata e che l’Agenzia delle dogane aveva provveduto al relativo rimborso; che l’Agenzia delle dogane, Ufficio delle dogane di Siracusa, aveva notificato alla Erg sette ulteriori avvisi di accertamento, con contestuale invito al pagamento, per le operazioni di imbarco-sbarco compiute dal 18 settembre 2001 al 30 aprile 2007 e che tali avvisi erano stati impugnati con separati ricorsi; che contro la domanda della ricorrente di annullamento, previa sospensione, dei suddetti avvisi per difetto del presupposto legittimante e violazione e falsa applicazione delle disposizioni di cui all’art. 4 della legge 28 gennaio 1994, n. 84 (Riordino della legislazione in materia portuale) e per violazione degli artt. 1 e 3 della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), l’Agenzia delle dogane, costituita in giudizio, riconduceva la propria pretesa al carattere interpretativo del comma 986 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, secondo cui sono soggette alla tassa le operazioni in qualsiasi modo compiute presso porti, rade, spiagge, zone di attracco, e al fatto che nella circostanza, comunque, la baia di Santa Panagia è ricompresa nell’ambito territoriale del porto di Siracusa; che i ricorsi venivano riuniti dal giudice tributario, il quale, su istanza della ricorrente, ha sollevato la questione di costituzionalità all’inizio indicata; che la Commissione rimettente ha osservato che la controversia riguarda il pagamento della tassa per le merci sbarcate ed imbarcate dalla società Erg Raffinerie mediterranee s.p.a. attraverso il proprio pontile ubicato nella rada aperta di Santa Panagia di Siracusa, per il periodo dal 18 settembre 2001 al 30 aprile 2007; che il giudice a quo riferisce che, secondo la ricorrente, tale tassa, definita tassa portuale, a differenza della cosiddetta tassa erariale – dovuta per le operazioni di sbarco ed imbarco effettuate in qualsiasi porto, rada o spiaggia dello Stato italiano – avrebbe dovuto essere pagata soltanto per le operazioni effettuate nell’ambito di un porto individuato in forza di un decreto del Ministro dei trasporti e della navigazione (adottato sulla base del procedimento regolato dall’art. 4 della legge n. 84 del 1994 e seguito dall’approvazione di un piano regolatore portuale ex art. 5 dello stesso atto normativo); e che solo in virtù dell’entrata in vigore dell’art. 1, comma 986, della citata legge n. 296 del 2006, avente carattere innovativo e con effetti retroattivi, la tassa sarebbe dovuta anche per le operazioni effettuate al di fuori dell’ambito portuale; che alla pretesa della contribuente di non essere tenuta al pagamento, per l’ammontare complessivo di € 32.782.493,95, in quanto il terminale della baia di Santa Panagia, oltre ad essere ubicato al di fuori dell’ambito territoriale del porto di Siracusa, è gestito con proprio personale e con proprie infrastrutture ed attrezzature, si contrappone la tesi dell’Agenzia delle dogane, secondo cui il comma 986 dell’art. 1 della legge n. 296 del 2006, interpretando estensivamente i concetti di porti, rade, strutture d’ormeggio, eccetera, eliminerebbe qualsiasi ambiguità e preverrebbe qualsiasi questione relativa alla tipologia della zona in cui sono ubicati gli attracchi; che, in punto di rilevanza, la Commissione provinciale osserva che la norma citata, disponendo che «sono soggette alla tassa di ancoraggio e alle tasse sulle merci (...) le merci imbarcate e sbarcate nell’ambito di porti, rade o spiagge dello Stato, in zone o presso strutture di ormeggio, quali banchine, moli, pontili, piattaforme, boe, torri e punti di attracco, in qualsiasi modi realizzati», imporrebbe alla Erg di corrispondere all’Erario tasse di rilevante importo, che non sarebbero dovute in caso di integrale accoglimento della pretesa della ricorrente sulla base della normativa come applicata dalle sentenze di merito finora emesse nei propri confronti; che, quanto al profilo della non manifesta infondatezza, il giudice a quo ritiene che il comma in questione non abbia natura interpretativa, ma innovativa; che la norma, definita dal legislatore di «interpretazione», amplierebbe, ad avviso del rimettente, il presupposto impositivo della tassa portuale estendendone il pagamento alle operazioni svolte su qualsiasi struttura di ormeggio realizzata al di fuori dell’ambito portuale, laddove, invece, la legge 9 febbraio 1963, n. 82 (Revisione delle tasse e dei diritti marittimi), e la legge 5 maggio 1976, n. 355 (Estensione alle aziende dei mezzi meccanici e magazzini portuali di Ancona, Cagliari, La Spezia, Livorno e Messina di alcuni benefici previsti per gli enti portuali), circoscrivono il pagamento della tassa alle operazioni di imbarco e sbarco di merci svolte nell’ambito di porti debitamente classificati; che, in contrapposizione ai principi esplicitati dalla Corte costituzionale – secondo cui si deve riconoscere il carattere interpretativo a quelle norme che hanno il fine obiettivo di chiarire il senso di norme preesistenti ovvero di escludere o di enucleare uno dei sensi fra quelli ritenuti ragionevolmente riconducibili alla norma interpretata allo scopo di imporre a chi è tenuto ad applicare la disposizione considerata un determinato significato normativo – il legislatore, con la disposizione in oggetto, non avrebbe inteso chiarire la normativa vigente, ma avrebbe esteso la tassa portuale anche alle operazioni di imbarco e sbarco di merci in zone prive di interventi dell’autorità portuale beneficiaria del gettito della tassa erariale; che la diversità tra la vecchia disciplina e quella sopravvenuta evidenzierebbe chiaramente il carattere della novità della disposizione censurata e quindi l’illegittimità costituzionale della stessa per avere oltrepassato i limiti della ragionevolezza in contrasto con l’art. 3 Cost.; che il dubbio sulla legittimità costituzionale della norma sarebbe avvalorato con riferimento al suo carattere retroattivo (in virtù del quale l’Agenzia delle dogane ha richiesto il pagamento della tassa portuale a decorrere dal 18 settembre 2001 e fino al 30 aprile 2007); che ulteriore violazione dei parametri della ragionevolezza e dell’uguaglianza ex art. 3 Cost. sarebbe rilevabile a causa dell’effetto retroattivo e peggiorativo della norma in questione sul piano del legittimo affidamento sorto in capo agli interessati, dal momento che il legislatore potrebbe emanare norme (non penali) con efficacia retroattiva a prescindere dal carattere interpretativo delle stesse, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione sul piano della ragionevolezza e non si ponga in contrasto con altri valori ed interessi costituzionalmente protetti, quali la tutela dell’affidamento eventualmente sorto in capo agli interessati e la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico; che, nella fattispecie soggetta al proprio esame, tali condizioni non sarebbero rispettate, secondo la Commissione rimettente, atteso che anche una società di rilevanti dimensioni come la Erg ha necessità di potere confidare su oneri tributari certi e non già su tasse non previste o imprevedibili, introdotte, peraltro, con disposizioni surrettiziamente definite interpretative, ma sostanzialmente dirette a modificare in modo sfavorevole e retroattivo la legislazione vigente; che, quale norma diretta ad incidere su fattispecie sub iudice (è ancora pendente il ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Catania del 9 settembre 2004), il censurato comma 986 interferirebbe pure nella sfera riservata al potere giudiziario e la non manifesta infondatezza della questione di incostituzionalità sarebbe, quindi, da riconoscere anche per il contrasto con gli artt. 101, 102 e 104 Cost., perché il legislatore vulnera la funzione giurisdizionale quando risulti l’intenzione della legge interpretativa di vincolare il giudice ad assumere una determinata decisione in specifiche ed individuate controversie; che, a parere della Commissione tributaria, il legislatore, emanando il comma 986, avrebbe vanificato il decisum di tre sentenze favorevoli alla Erg (l’ultima è quella della Commissione tributaria provinciale di Siracusa già passata in cosa giudicata), arrogandosi la sua prerogativa di «interprete d’autorità del diritto»; che nel giudizio innanzi alla Corte si è costituita la Erg Raffinerie Mediterranee s.p.a., concludendo per la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 986, della legge n. 296 del 2006, perché le operazioni di imbarco e sbarco dei prodotti petroliferi sono state sempre eseguite fuori dell’ambito portuale di Siracusa, trovandosi il terminale nella rada aperta di Panagia, senza alcun utilizzo di infrastrutture portuali e senza fruizione di alcun servizio portuale, a mezzo di un pontile che non è un porto, né costituisce impianto sito in un porto o in un’area portuale; che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità o, comunque, per l’infondatezza della questione; che, nell’imminenza dell’udienza pubblica, la Erg Raffinerie Mediterranee s.p.a. e l’Avvocatura generale dello Stato hanno depositato memorie, ribadendo e ulteriormente illustrando quanto già sostenuto negli atti di costituzione e d’intervento; che la parte privata ha inoltre eccepito l’incostituzionalità della norma anche per violazione degli articoli 11, 41, 53 e 111 Cost.; che la difesa erariale replica alle difese della Erg che il pontile di Santa Panagia sul quale opera la società, fa parte, fisicamente e giuridicamente, dell’ambito portuale di Siracusa, come risulterebbe da una serie di documenti prodotti in sede di merito e non esaminati dal giudice rimettente; che i profili di contrasto della norma con gli artt. 11, 41, 53 e 111 Cost., sollevati dalla Erg, non sarebbero esaminabili in quanto non contemplati dall’ordinanza di rimessione. Considerato che la Commissione tributaria provinciale di Siracusa dubita della legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 986, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), laddove, interpretando il comma 982, lettere a) e b), e il comma 985 dell’art. 1 della stessa legge, amplierebbe il presupposto impositivo della tassa portuale estendendone l’applicazione alle operazioni svolte su qualsiasi struttura di ormeggio realizzata al di fuori dell’ambito portuale, per violazione del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., per avere in realtà innovato la disciplina con effetto retroattivo, così assoggettando al tributo ipotesi prima escluse, e per aver violato l’affidamento sorto in capo agli interessati in ordine a oneri tributari certi e prevedibili, nonché degli artt. 101, 102 e 104 Cost., essendo diretto ad incidere su fattispecie sub iudice, con l’effetto di invadere la sfera riservata al potere giudiziario; che l’eccezione di inammissibilità della questione, sollevata dalla difesa erariale, per non avere il giudice rimettente esplorato la possibilità di pervenire, in via interpretativa, ad una soluzione costituzionalmente corretta, non è fondata, giacché la Commissione rimettente ha espressamente argomentato il carattere, a suo avviso, non interpretativo della norma, attribuendole, viceversa, effetto innovativo, con incidenza sulle controversie pendenti; che sono manifestamente inammissibili e non esaminabili le censure relative alla violazione degli artt. 11, 41, 53 e 111, Cost. sollevate dalla Erg. s.p.a. con la memoria depositata nell’imminenza dell’udienza, trattandosi di questioni non sollevate dall’ordinanza di rimessione; che in via preliminare deve ravvisarsi sia una insufficiente motivazione sulla rilevanza, sia una insufficiente motivazione sulla non manifesta infondatezza; che il giudice a quo motiva la rilevanza, nel senso che il comma 986 «imporrebbe alla Erg di corrispondere all’erario tasse di rilevante importo, che non sarebbero dovute in caso di integrale accoglimento della pretesa della ricorrente sulla base della normativa come applicata dai suddetti giudici di merito», senza tenere presente la costante giurisprudenza di questa Corte secondo cui la mera enunciazione della fondatezza della questione non è sufficiente a dimostrare la rilevanza della stessa; che il rimettente non ricostruisce la fattispecie, con quegli elementi di fatto (estraneità ad ambiti portuali), in virtù dei quali la rada di Santa Panagia sarebbe sottratta alla tassa portuale secondo la vecchia disciplina, e rientrerebbe invece nell’ambito di applicazione della norma censurata; che, infatti, sul punto, il giudice si limita a riferire che, da un lato, secondo la Erg, il terminale attraverso il quale vengono compiute operazioni di sbarco/imbarco di prodotti petroliferi, è al di fuori dell’ambito territoriale del porto di Siracusa, e che non utilizza infrastrutture o servizi portuali, e dall’altro che, secondo l’Agenzia delle dogane, la baia di Santa Panagia rientra nell’ambito territoriale del porto di Siracusa; che su tale questione controversa il giudice rimettente non prende posizione, ma si limita ad affermare che, secondo le sentenze rese con riguardo ad analoghe pretese dell’Agenzia delle dogane (ma non ancora passate in giudicato, per la pendenza del ricorso per cassazione), le operazioni si sarebbero svolte fuori dell’ambito del porto di Siracusa, e per questo difetterebbero i presupposti di applicabilità della tassa portuale, senza compiere dunque quell’accertamento reso necessario dalle contestazioni in giudizio, richiamate nella memoria dell’Avvocatura generale dello Stato, dalle quali si desumerebbe incontrovertibilmente l’appartenenza dell’approdo di Santa Panagia al porto di Siracusa; che la Commissione tributaria, inoltre, esclude il carattere interpretativo del comma 986, semplicemente perché le vicende giudiziarie relative a precedenti pretese, allo stesso titolo, dell’amministrazione finanziaria, si sarebbero concluse nel senso della non debenza del tributo, ma non si dà cura di approfondire le questioni connesse a natura e presupposti di applicabilità del tributo, alla ricerca di un significato rientrante nelle possibili letture della disciplina complessiva sulla tassa portuale, che la norma censurata potrebbe essere intervenuta a confermare, e conclude che, secondo la legislazione previgente (leggi n. 82 del 1963 e n. 355 del 1976), il pagamento della tassa è dovuto per operazioni di sbarco/imbarco «svolte nell’ambito di porti debitamente classificati», ma non tiene conto della ulteriore previsione generalizzante, di cui all’art. 28, comma 6, della legge n. 84 del 1994, che adotta quale presuppos to dell’imposizione l’appartenenza ad un ambito portuale; che sulla base delle esposte considerazioni la questione è manifestamente inammissibile. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 986, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 101, 102 e 104 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Siracusa, con l’ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Alfio FINOCCHIARO, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2010. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA ORDINANZA N. 85 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 149 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), promosso dal Giudice di pace di Arezzo, nel procedimento civile vertente tra M. Y. e la Toro Assicurazioni s.p.a. ed altro, con ordinanza del 23 settembre 2008, iscritta al n. 69 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 10, prima serie speciale, dell’anno 2009. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 16 dicembre 2009 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro. Ritenuto che nel corso di un giudizio promosso per il risarcimento del danno subito da M. Y. in un incidente stradale avvenuto il 26 giugno 2007, il Giudice di pace di Arezzo, con ordinanza depositata il 23 settembre 2008, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 149 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), per violazione degli artt. 3, 24 e 76 della Costituzione; che il rimettente riferisce che l’attore ha intrapreso l’azione diretta contro la propria compagnia assicuratrice e che si è costituito in causa il preteso danneggiante, il quale ha chiesto sollevarsi la questione di legittimità costituzionale; che, secondo il giudice a quo, in assenza dell’art. 149, comma 6, del d.lgs. n. 209 del 2005, l’azione risarcitoria avrebbe dovuto invece essere esercitata nei confronti del responsabile del danno, soggetto diverso dall’odierna convenuta, e che la stessa conseguenza si avrebbe qualora la norma citata fosse ritenuta in contrasto con la Costituzione; che, riguardo alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice denuncia: a) il vizio di formazione legislativa, per avere il Consiglio di Stato espresso il parere su uno schema di codice parzialmente diverso da quello poi emanato e privo delle norme relative al risarcimento diretto; b) l’eccesso di delega di cui all’art. 76 Cost., per avere il Governo, introducendo l’azione diretta nei confronti della compagnia di assicurazione del danneggiato, modificato i diritti dei danneggiati, senza che tale facoltà fosse concessa dalla legge delega (legge 29 luglio 2003, n. 229, recante «Interventi in materia di qualità della regolazione, riassetto normativo e codificazione. – Legge di semplificazione 2001»), che in nessun punto autorizzava ad abrogare la normativa in tema di responsabilità per danni dalla circolazione stradale; c) la violazione dell’art. 3 Cost., per irragionevole disparità di trattamento fra danneggiati; d) la violazione dell’art. 24 Cost., perché ai fini della disciplina del risarcimento diretto, il regolamento adottato in base all’art. 150 prevede che le spese accessorie dovute al danneggiato dall’impresa di assicurazione sono solo quelle relative alle consulenze medico-legali, e non anche quelle di assistenza legale stragiudiziale; che nel giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, deducendo l’inammissibilità e, nel merito, l’infondatezza della questione sollevata. Considerato che il Giudice di pace di Arezzo dubita della legittimità costituzionale dell’art. 149 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), nella parte in cui disciplina il risarcimento diretto dei danni da circolazione stradale, per violazione dell’art. 76 Cost., per essere stato il decreto legislativo in esame emanato in assenza del parere del Consiglio di Stato, e, inoltre, per aver esorbitato dalla delega contenuta nell’art. 4, comma 1, della legge 29 luglio 2003, n. 229 (Interventi in materia di qualità della regolazione, riassetto normativo e codificazione. – Legge di semplificazione 2001), operando una revisione abrogativa delle norme preesistenti in tema di responsabilità per danni dalla circolazione; dell’art. 3 Cost., per aver creato irragionevole disparità di trattamento fra danneggiati, assoggettati a diversi trattamenti processuali; nonché dell 217;art. 24 Cost., per aver previsto l’art. 150 del Codice l’introduzione di un regolamento che esclude il rimborso delle spese di assistenza legale stragiudiziale; che l’ordinanza del Giudice di pace di Arezzo è priva di qualsiasi riferimento al fatto cui sarebbe applicabile la norma censurata, precisandosi soltanto che l’azione è stata promossa da un soggetto nei confronti della propria compagnia assicuratrice, per il risarcimento dei danni da circolazione di veicoli, e che nel giudizio si è costituito il danneggiante; che, sulla base dell’anzidetto rilievo, la questione proposta è manifestamente inammissibile sia per omessa specifica motivazione sulla rilevanza della stessa nel giudizio a quo, sia per omessa descrizione della fattispecie (ex plurimis: ordinanze nn. 201 e 191 del 2009; n. 441 del 2008, tutte in tema di risarcimento diretto); che, con riguardo al denunciato contrasto con l’art. 76 Cost., non vi è motivazione alcuna, in relazione al procedimento di formazione legislativa, della necessità di un nuovo parere del Consiglio di Stato su uno schema di decreto legislativo al quale, nell’esercizio della funzione legislativa delegata di «riassetto» della materia, siano state apportate modifiche migliorative che tuttavia non abbiano prodotto radicali mutamenti; che riguardo alla norma regolamentare, cui fa rinvio l’art. 150 dello stesso Codice delle assicurazioni private, che esclude il rimborso al danneggiato delle spese stragiudiziali, la censura, oltre a non essere motivata circa la sua applicabilità nel giudizio a quo, si appunta su una norma sottratta al sindacato di costituzionalità (ordinanza n. 440 del 2008); che, infine, il giudice rimettente non ha adempiuto l’obbligo di ricercare una interpretazione costituzionalmente orientata della norma impugnata, nel senso, cioè, che essa si limita a rafforzare la posizione dell’assicurato rimasto danneggiato, considerato soggetto debole, legittimandolo ad agire direttamente nei confronti della propria compagnia assicuratrice, senza peraltro togliergli la possibilità di fare valere i suoi diritti secondo i principi della responsabilità civile dell’autore del fatto dannoso (in questo senso la sentenza n. 180 del 2009); che tale interpretazione avrebbe consentito di superare i prospettati dubbi di costituzionalità. Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 149 del decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209 (Codice delle assicurazioni private), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 24 e 76 della Costituzione, dal Giudice di pace di Arezzo con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Alfio FINOCCHIARO, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2010. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA ORDINANZA N. 86 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione della Camera dei deputati del 19 dicembre 2008 (Doc. IV-quater, n. 3), relativa all’insindacabilità, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dal senatore Maurizio Gasparri, deputato all’epoca dei fatti, nei confronti del dott. Henry John Woodcock, promosso dal Tribunale ordinario di Roma con ricorso depositato in cancelleria il 25 giugno 2009 ed iscritto al n. 11 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2009, fase di ammissibilità. Udito nella camera di consiglio del 13 gennaio 2010 il Giudice relatore Maria Rita Saulle. Ritenuto che il Tribunale ordinario di Roma, con ricorso depositato il 25 giugno 2009, ha promosso conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della Camera dei deputati, in relazione alla delibera adottata il 19 dicembre 2008 (Doc. IV-quater, n. 3), con la quale – in conformità della proposta della Giunta per le autorizzazioni – è stato dichiarato che i fatti per i quali il senatore Maurizio Gasparri – all’epoca deputato – è sottoposto a procedimento penale, riguardano opinioni espresse da un membro del Parlamento nell’esercizio delle sue funzioni e, pertanto, sono coperti da insindacabilità ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione; che, espone il ricorrente, il parlamentare è chiamato a rispondere del reato di cui agli artt. 595 del codice penale e 13 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (Disposizioni sulla stampa), per aver rilasciato nel corso di un’intervista, pubblicata il 17 giugno 2006 sul quotidiano “Il Messaggero”, dichiarazioni con le quali offendeva l’onore e la reputazione del dott. Henry John Woodcock; che, in particolare, nel corso della citata intervista affermava: «Io quello lo conosco bene», «Woodcock? Si. E’ un bizzarro pm, che spara a vanvera accuse ridicole», «Quando ero ministro, incontrai il cantante Masini», «Due ore dopo averlo incontrato, leggo sulle agenzie che mi è arrivato un avviso di garanzia da parte di Woodcock», «Di aver detto una persona che il suo telefono era controllato», «Macchè! Woodcock spara nomi a casaccio: Maradona e Arsenio Lupin, Gatto Silvestro e Cucciolo, Briatore e il Papa. Quello legge i giornali, pesca qualche nome famoso e via. Io sono finito nel frullatore di Woodcock insieme a Franco Marini», «Il Tribunale dei ministri ha archiviato in poche settimane la risibile accusa contro di me. Scrivendo poche righe ma nettissime: a mia totale difesa e a sua totale condanna», «il Csm, da anni sa che tipo è. Perché non trovano cinque minuti per occuparsi di lui?», «E’ così poco attendibile ch e, il giorno che dovesse arrestare un colpevole, lo vedrà finire assolto. Ma la sa questa?...», «E’ anche un personaggio boccaccesco», «Si narra che a Potenza ci fosse una liason fra lui e una magistrata donna, adibita ad altra funzione», «Che Vittorio Emanuele, visto che in Italia esistono tipi alla Woodcock, chiederà il ripristino della disposizione transitoria e finale della Costituzione. Che prevede l’esilio per i maschi Savoia»; che, il Tribunale ordinario di Roma, dopo aver richiamato la giurisprudenza costituzionale riguardante le prerogative di insindacabilità parlamentare, nonché la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, ritiene che, nel caso di specie, vi sarebbe una «carenza assoluta di nesso funzionale» tra le dichiarazioni rese dall’imputato e la sua attività parlamentare; che, in particolare, né la relazione della Giunta per le autorizzazioni conterrebbe la indicazione di «qualsivoglia pregresso atto parlamentare, scritto o orale» da parte dell’allora deputato «cui poter ricondurre le dichiarazioni» oggetto dell’intervista, né la delibera di insindacabilità avrebbe «evidenziato specifici atti parlamentari […] aventi il medesimo contenuto» delle dichiarazioni; che, aggiunge il ricorrente, la mancanza di nesso funzionale tra l’attività parlamentare svolta dall’allora deputato ed il contenuto delle affermazioni riportate nell’intervista, sarebbe rinvenibile anche in relazione a quella parte della delibera della Camera dei deputati «relativa alla propalazione di una “voce corrente” sulla persona del dott. Woodcock circa “una liaison fra lui e una magistrata donna, adibita ad altra funzione”», in quanto, nella suddetta delibera, non sarebbe stato indicato alcun «atto parlamentare avente ad oggetto tale circostanza ritenuta dalla persona offesa diffamatoria»; che, pertanto, il Tribunale ricorrente chiede che questa Corte voglia dichiarare che non spettava alla Camera dei deputati affermare l’insindacabilità delle opinioni espresse dall’allora deputato e, conseguentemente, annullare la delibera adottata in data 19 dicembre 2008. Considerato che, in questa fase del giudizio, a norma dell’art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), questa Corte è chiamata a deliberare, senza contraddittorio, in ordine all’esistenza o meno della «materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza», restando impregiudicata ogni ulteriore decisione, anche in punto di ammissibilità; che, nella fattispecie, sussistono tanto il requisito soggettivo quanto quello oggettivo del conflitto; che, infatti, quanto al requisito soggettivo, devono ritenersi legittimati ad essere parte del presente conflitto sia il Tribunale ordinario di Roma, in quanto organo giurisdizionale in posizione di indipendenza costituzionalmente garantita, competente a dichiarare definitivamente, per il procedimento del quale è investito, la volontà del potere cui appartiene; sia la Camera dei deputati, in quanto organo competente a dichiarare definitivamente la propria volontà in ordine all’applicabilità dell’art. 68, primo comma, della Costituzione; che, quanto al profilo oggettivo, sussiste la materia del conflitto, dal momento che il ricorrente lamenta la lesione della propria sfera di attribuzioni costituzionalmente garantita da parte della impugnata deliberazione della Camera dei deputati; che, pertanto, esiste la materia di un conflitto, la cui risoluzione spetta alla competenza di questa Corte. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara ammissibile, ai sensi dell’art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il conflitto di attribuzione proposto dal Tribunale ordinario di Roma, nei confronti della Camera dei deputati, con l’atto indicato in epigrafe; dispone: a) che la cancelleria della Corte dia immediata comunicazione della presente ordinanza al Tribunale ordinario di Roma; b) che, a cura del ricorrente, l’atto introduttivo e la presente ordinanza siano notificati alla Camera dei deputati, in persona del suo Presidente, entro il termine di sessanta giorni dalla comunicazione di cui al punto a), per essere successivamente depositati, con la prova dell’avvenuta notifica, presso la cancelleria di questa Corte entro il termine di trenta giorni, previsto dall’art. 24, comma 3, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Maria Rita SAULLE, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2010. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA ORDINANZA N. 87 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’articolo 1 della legge della Regione Veneto 23 marzo 2007, n. 7 (Sospensione dell’obbligo vaccinale per l’età evolutiva), promosso dal Giudice di pace di Padova, nel procedimento vertente tra Maragno Deborah ed altro e il Comune di Padova, con ordinanza dell’8 ottobre 2008, iscritta al n. 201 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 33, prima serie speciale, dell’anno 2009. Visto l’atto di intervento della Regione Veneto; udito nella camera di consiglio del 27 gennaio 2010 il Giudice relatore Ugo De Siervo. Ritenuto che con ordinanza dell’8 ottobre 2008, pervenuta a questa Corte il 24 giugno 2009, il Giudice di pace di Padova ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Veneto 23 marzo 2007, n. 7 (Sospensione dell’obbligo vaccinale per l’età evolutiva), nella parte in cui sospende l’“obbligo vaccinale” «per tutti i nuovi nati a far data dal 1° Gennaio 2008», in riferimento all’art. 3 della Costituzione; che la disposizione impugnata, al comma 1, stabilisce infatti che, a partire dal termine appena indicato, venga meno l’obbligo, previsto dalla legislazione statale, di sottoporre i minori alle vaccinazioni antidifterica, antitetanica, antipoliomielitica e contro l’epatite virale B; che il rimettente, dopo avere premesso di essere investito di un giudizio di opposizione ad ordinanza-ingiunzione adottata dal Comune di Padova, afferma, in ordine alla rilevanza della questione, che «l’eventuale rigetto del ricorso comporterebbe l’obbligatorietà della vaccinazione per la figlia della coppia» che ha proposto il ricorso; che ciò determinerebbe, sempre a parere del giudice a quo, «una palese disparità di trattamento tra cittadini, a seconda che la nascita dei bimbi sia avvenuta prima o dopo la data indicata nella norma regionale», in violazione del principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost.; che è intervenuta in giudizio la Regione Veneto, chiedendo che la questione sia dichiarata «inammissibile e comunque infondata»; che la Regione eccepisce, anzitutto, l’inammissibilità della questione, a causa della carente “individuazione” e della “indeterminatezza della materia del contendere”, poiché il rimettente non avrebbe precisato che oggetto della questione di legittimità costituzionale è il solo comma 1 dell’art. 1 della legge impugnata, disposizione che si compone di altri due commi; che, in secondo luogo, la questione sarebbe inammissibile poiché il giudizio a quo avrebbe per oggetto l’impugnazione di una sanzione amministrativa pecuniaria irrogata ai genitori di una minore, in ragione della violazione dell’obbligo di sottoporla a vaccinazione: sarebbe pertanto contraddittorio, da parte del rimettente, sostenere, quanto alla rilevanza, che per effetto della declaratoria di illegittimità costituzionale della norma impugnata tale obbligo verrebbe meno; che, al contrario, secondo la Regione si dovrebbe ritenere la persistenza di esso, in quanto imposto dalla normativa nazionale; che l’odierno incidente di legittimità pare piuttosto alla difesa regionale «strumentale al tentativo di sottrarsi all’applicazione di un obbligo, e delle relative sanzioni, che discendono da fonte normativa affatto diversa»; che, infine, la Regione Veneto, dopo avere osservato che la disposizione censurata intende «favorire un approccio più attivo e consapevole della popolazione rispetto agli strumenti della profilassi vaccinale», ritiene che lo stesso fluire del tempo giustifichi la scelta del legislatore regionale di individuare una data certa, a partire dalla quale soltanto venga sospeso l’obbligo di vaccinazione. Considerato che il Giudice di pace di Padova ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Veneto 23 marzo 2007, n. 7 (Sospensione dell’obbligo vaccinale per l’età evolutiva), nella parte in cui tale norma sospende l’obbligo di vaccinare i minori “solo” per tutti i nuovi nati a far data dal 1° gennaio 2008, in riferimento all’art. 3 della Costituzione; che la disposizione impugnata, sospendendo tale obbligo con riguardo alle vaccinazioni previste obbligatoriamente dalla normativa statale contro difterite, tetano, polio ed epatite virale B, troverebbe applicazione esclusivamente con riguardo a chi sia nato a partire dal 1° gennaio 2008; che, secondo il rimettente, tale discrimine temporale, escludendo i minori nati anteriormente al 2008, creerebbe «una palese disparità di trattamento tra cittadini», in violazione del principio di uguaglianza sancito dall’art. 3 Cost; che la disposizione impugnata, di cui il rimettente sollecita l’estensione, non viene, viceversa, apprezzata con riguardo all’osservanza, da parte del legislatore regionale, dei principi fondamentali in materia di tutela della salute, affidati dall’art. 117, terzo comma, Cost., alla competenza della legge statale; che il rimettente omette completamente di descrivere la fattispecie del giudizio principale, con riguardo non solo ai fatti verificatisi, alla data di nascita del minore coinvolto e alla tipologia della vaccinazione di cui si controverte, ma anche all’oggetto dell’ordinanza-ingiunzione, sulla cui legittimità è chiamato a giudicare; che tale carenza impedisce a questa Corte di verificare la plausibilità dell’asserzione svolta dal medesimo rimettente in punto di rilevanza, circa il fatto per cui «l’eventuale rigetto del ricorso comporterebbe l’obbligatorietà della vaccinazione per la figlia» dei ricorrenti; che la rilevanza della questione di legittimità costituzionale va motivata con riguardo all’oggetto del giudizio principale; che, sotto tale prospettiva, è del tutto inverosimile, alla luce della competenza assegnata dalla legge al giudice di pace, che tale oggetto sia costituito dall’accertamento dell’obbligo di sottoporre i minori a vaccinazione; che, quand’anche ciò fosse, questa Corte ha già evidenziato che «la vaccinazione deve essere omessa o differita nel caso di accertati pericoli concreti per la salute del minore» (ordinanza n. 262 del 2004), sicché l’affermazione del rimettente in ordine all’obbligatorietà del vaccino, mancando ogni osservazione su quest’ultimo fondamentale punto della questione, è per di più inesatta, in quanto incompleta; che il difetto di motivazione sulla rilevanza per carente descrizione della fattispecie comporta la manifesta inammissibilità della questione (ex plurimis, ordinanze n. 219 e n. 211 del 2009). Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e, 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge della Regione Veneto 23 marzo 2007, n. 7 (Sospensione dell’obbligo vaccinale per l’età evolutiva), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Giudice di pace di Padova con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Ugo DE SIERVO, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2010. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA ORDINANZA N. 88 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 131 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), promosso dalla Corte d’appello di Catania, sezione minori, sull’istanza proposta da G. C. con ordinanza del 15 dicembre 2008, iscritta al n. 213 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2009. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 27 gennaio 2010 il Giudice relatore Maria Rita Saulle. Ritenuto che la Corte d’appello di Catania, sezione minori, con ordinanza del 15 dicembre 2008, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 131 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui consente la liquidazione dell’onorario al difensore di persona ammessa al patrocinio a spese dello Stato anche quando viene proposta una impugnazione inammissibile; che la rimettente riferisce di aver dichiarato il reclamo avanzato dall’avv. G. C., in qualità di difensore di M. M., ammesso al patrocinio a spese dello Stato, avverso un decreto emesso dal Tribunale dei minori di Catania, inammissibile e che, nonostante ciò, deve provvedere al pagamento degli onorari spettanti al difensore anche in tale fase (nella misura prevista dagli artt. 82, comma 1 e 83, comma 2, del d.P.R. n. 115 del 2002), in quanto essi rientrano, ai sensi dell’art. 131 citato, tra le spese anticipate dall’erario indipendentemente dall’esito del giudizio di gravame; che il giudice a quo rileva che, a differenza di quanto previsto nel giudizio civile per effetto della norma censurata, l’art. 106 del d.P.R. n. 115 del 2002, nel disciplinare il patrocinio a spese dello Stato nell’ambito del processo penale, dispone che non sia liquidato alcun compenso nel caso di impugnazioni dichiarate inammissibili, comportando ciò una disparità di trattamento per i difensori in ragione del diverso procedimento in cui prestano la loro opera; che, in particolare, la Corte rimettente ritiene tale diversa disciplina irragionevole, tenuto conto, da un lato, della identità di ragioni che nel processo penale e in quello civile possono condurre alla dichiarazione di inammissibilità dell’impugnazione, quali la tardività dell’atto di gravame (art. 585 cod. proc. pen. e artt. 325 e 326 cod. proc. civ.); dall’altro, delle similitudini del giudizio di secondo grado, limitato, salvi casi eccezionali, dalle acquisizioni probatorie assunte in primo grado; che, a parere della rimettente, la norma censurata violerebbe anche il principio della ragionevole durata del processo, poiché, nel prevedere sempre la liquidazione di un compenso a spese dello Stato, costituisce un incentivo ad impugnare le sentenze civili anche quando non ricorrano i presupposti di legge, con conseguente inutile aggravio delle Corti d’appello e inevitabile allungamento dei tempi di trattazione delle cause; che, in punto di rilevanza, la Corte d’appello si limita ad osservare di essere chiamata a liquidare l’onorario all’avv. G. C. e, quindi, di dover applicare l’art. 131 del d.P.R. n. 115 del 2002; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata; che, in via preliminare, la difesa erariale osserva che la rimettente ha omesso di esplorare la possibilità di pervenire ad un’interpretazione conforme a Costituzione della norma censurata e, comunque, ha richiesto alla Corte un intervento manipolativo al di fuori di qualsiasi vincolo costituzionale; che l’ordinanza di rimessione sarebbe, poi, non sufficientemente motivata in ordine alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza della questione, non indicando tra l’altro la Corte d’appello se l’impugnazione proposta sia stata effettivamente dichiarata inammissibile; che, comunque, sarebbe errato il presupposto interpretativo da cui muove il giudice a quo, secondo il quale la liquidazione degli onorari del difensore di persona ammessa al patrocinio a spese dello Stato sarebbe sempre dovuta, anche in caso in cui venga proposta una impugnazione inammissibile, atteso che l’art. 82 del d.P.R. n. 115 del 2002 assegna un margine di discrezionalità al giudice chiamato a liquidare i suddetti onorari, essendo egli tenuto a valutare in concreto l’impegno professionale e gli atti compiuti dall’avvocato, fino al punto di poter negare la liquidazione richiesta; che, quanto alla presunta violazione dell’art. 3 della Costituzione, la difesa erariale si limita ad osservare che non vi è alcun vincolo costituzionale che impone al legislatore l’adozione di un modello unico di procedimento di liquidazione degli onorari del difensore di persona ammessa al patrocinio a spese dello Stato, rilevando nel caso di specie la diversa disciplina che contraddistingue il processo penale da quello civile; che, quanto alla presunta violazione dell’art. 111 della Costituzione, l’Avvocatura ritiene il richiamo a tale parametro inconferente, in quanto la norma denunciata attiene ad un sub procedimento (quello di liquidazione degli onorari del difensore) non idoneo ad incidere sui tempi di celebrazione del processo cui accede. Considerato che la Corte d’appello di Catania, sezione minori, censura l’art. 131 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), «nella parte in cui consente la liquidazione dell’onorario al difensore» di persona ammessa al patrocinio a spese dello Stato, anche quando egli propone una impugnazione dichiarata inammissibile, ritenendolo, in parte de qua, in contrasto con gli artt. 3 e 111 della Costituzione; che la Corte rimettente rileva che la norma censurata, nell’imporre l’indicata liquidazione, da un lato, favorisce in modo irragionevole il difensore nei procedimenti civili, in quanto in sede penale l’art. 106 del d.P.R. n. 115 del 2002 prevede che non si debba pervenire alla suddetta liquidazione in caso di impugnazione dichiarata inammissibile; dall’altro, nel prevedere sempre la liquidazione di un compenso a spese dello Stato, costituisce un incentivo ad impugnare le sentenze civili anche quando non ricorrano i presupposti di legge, con conseguente inutile aggravio delle Corti d’appello e inevitabile allungamento dei tempi di trattazione delle cause; che la questione è manifestamente infondata; che la rimettente nel prospettare il dubbio di costituzionalità ha trascurato di considerare gli artt. 120 e 136 del d.P.R. n. 115 del 2002; che, in particolare, tali norme, inserite nel Titolo IV del citato decreto che disciplina il patrocinio a spese dello Stato nel processo civile, amministrativo, contabile e tributario, prevedono che «La parte ammessa rimasta soccombente non può giovarsi dell’ammissione per proporre impugnazione, salvo che per l’azione di risarcimento del danno nel processo penale» (art. 120) e che «Con decreto il magistrato revoca l’ammissione al patrocinio provvisoriamente disposta dal consiglio dell’ordine degli avvocati, se risulta l’insussistenza dei presupposti per l’ammissione ovvero se l’interessato ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave» (art. 136); che delle indicate disposizioni, in quanto riferite al patrocinio a spese dello Stato in ambito civile, la ricorrente avrebbe dovuto tener conto al fine di valutarne l’eventuale applicazione nella fattispecie concreta e, in tal modo, la loro idoneità a superare il dubbio di costituzionalità sollevato; che, dunque, le doglianze della Corte d’appello rimettente si fondano su una ricostruzione parziale del quadro normativo, sicché la pretesa compromissione dei canoni di ragionevolezza e di ragionevole durata del processo finisce per risultare palesemente destituita di fondamento. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell'art. 131 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 della Costituzione, dalla Corte d’appello di Catania, sezione minori, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2010. F.to: Ugo DE SIERVO, Presidente Maria Rita SAULLE, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2010. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA ORDINANZA N. 89 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 9, secondo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), sostituito dall’art. 14 del decreto-legge del 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 144, promosso dal Tribunale di Caltanissetta nel procedimento penale a carico di F. E. R. C., con ordinanza del 22 ottobre 2008, iscritta al n. 112 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell'anno 2009. Udito nella camera di consiglio del 27 gennaio 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo. Ritenuto che il Tribunale di Caltanissetta, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, secondo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), così come sostituito dall’articolo 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005 n. 155, nella parte in cui prevede la pena della reclusione da uno a cinque anni in caso d’inosservanza degli obblighi e delle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno; che il rimettente riferisce di essere chiamato a giudicare F. E. R. C., nei cui confronti il giudice per le indagini preliminari ha emesso decreto di giudizio immediato in ordine al reato previsto e punito dall’art. 116, comma 13, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come modificato dal decreto-legge 3 agosto 2007, n. 117 (Disposizioni urgenti modificative del codice della strada per incrementare i livelli di sicurezza nella circolazione), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 2 ottobre 2007, n. 160, ed al delitto previsto e punito dall’art. 9, primo e secondo comma, della legge n. 1423 del 1956, così come modificato dalla legge n. 155 del 2005; che, in particolare, l’imputato, sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno nel comune di residenza, risponde dei suddetti reati per avere contravvenuto alle prescrizioni inerenti alla misura stessa, tra cui quelle di vivere onestamente e di rispettare la legge, avendo guidato un’autovettura senza avere conseguito la patente (fatto commesso in San Cataldo il 28 settembre 2007); che il rimettente, dopo aver posto in evidenza che la nuova formulazione della norma di cui all’art. 9, secondo comma, della legge n. 1423 del 1956, equipara le condotte consistenti nella violazione delle prescrizioni inerenti alla misura della sorveglianza speciale, con l’obbligo o il divieto di soggiorno, alla condotta consistente nella violazione dell’obbligo o del divieto di soggiorno, dà atto della sussistenza di un consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui la condotta di guida senza patente o con patente revocata è riconducibile alla violazione della prescrizione di osservare le leggi inerente all’imposizione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza; che, pertanto, nel caso in cui sia stata applicata detta misura con obbligo o divieto di soggiorno, la condotta di guida senza patente o con patente revocata integra il delitto di cui all’art. 9, secondo comma, in concorso con la violazione contemplata dal codice della strada; che, alla luce di tale premessa, il rimettente osserva come «nelle ipotesi connotate da esigenze di prevenzione di maggiore rilevanza e, per l’effetto, disciplinate da una specifica e più rigorosa normativa speciale, in cui detta misura sia applicata a soggetti indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso e similari (così art. 1 della legge n. 575/1965), ove venga accertato un caso di guida di un autoveicolo o motoveicolo senza patente o dopo che la patente sia stata negata, sospesa o revocata si applica – per giurisprudenza parimenti consolidata (cfr., da ultimo, Cass. pen. sez. V, sent. n. 2655/2006) – la pena dell’arresto da sei mesi a tre anni qualora si tratti di persona già sottoposta, con provvedimento definitivo, a misura di prevenzione»; che, ad avviso del giudice a quo, «le predette fattispecie incriminatrici – le quali, in origine, cadenzavano un ragionevole crescendo sanzionatorio, stante la differente gravità che il medesimo fatto oggettivo (la guida di un autoveicolo o motoveicolo senza patente) poteva assumere» se posto in essere da un soggetto sottoposto alla misura della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno ai sensi dell’art. 3 della legge n. 1423 del 1956 (assoggettato alla sanzione dell’arresto da tre mesi ad un anno), ovvero da un soggetto sottoposto ad analoga misura di prevenzione ai sensi della legge n. 575 del 1965 (punito con la pena dell’arresto da sei mesi a tre anni) – risultano, oggi a seguito della intervenuta sostituzione del disposto dell’art. 9, secondo comma, della legge n. 1423 del 1956, assoggettate ancora a sanzioni differenti, ma nel senso opposto, rispetto a quanto accadeva in precedenza; che, secondo il rimettente, la condotta posta in essere dai soggetti di minore pericolosità sociale è assoggettata alla più grave sanzione prevista dal secondo comma del suddetto art. 9 (reclusione da uno a cinque anni), mentre si applica, ai sensi dell’art. 15 del codice penale, ai soli sorvegliati speciali indiziati di appartenere ad associazioni mafiose, e, come tali, sottoposti alla misura di prevenzione, la disposizione di legge speciale di cui all’art. 6 della legge n. 575 del 1975 (e con essa la pena dell’arresto da sei mesi a tre anni); che, ad avviso del giudice a quo, nel caso di specie, si realizza una valutazione difforme, a fini sanzionatori, di condotte illecite «oggettivamente identiche e soggettivamente differenti», riservando un trattamento deteriore a quella tra le due ipotesi caratterizzata da minore pericolosità sociale dell’agente, ovvero il sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno di cui all’art. 1 della legge n. 1423 del 1956; che, inoltre, il giudice a quo rileva come l’art. 3, primo comma, Cost., imponga il bilanciamento tra le esigenze di sicurezza da tutelare e il bene della libertà personale, sicché, solo quando la pena sia stabilita con la necessaria proporzionalità, essa risponde alla funzione rieducativa di cui all’art. 27 Cost. Considerato che il Tribunale di Caltanissetta dubita, in riferimento agli articoli 3, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 9, secondo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), così come sostituito dall’articolo 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, nella parte in cui prevede la pena della reclusione da uno a cinque anni in caso di inosservanza degli obblighi e delle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno; che il rimettente riferisce di essere chiamato a giudicare una persona imputata della contravvenzione di cui all’art. 116, comma 13, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 ( Nuovo codice della strada), così come modificato dal decreto-legge 3 agosto 2007, n. 117 (Disposizioni urgenti modificative del codice della strada per incrementare i livelli di sicurezza nella circolazione), convertito, con modificazioni, dall’art. 1 della legge 2 ottobre 2007, n. 160), e del delitto di cui all’art. 9, primo e secondo comma, della legge n. 1423 del 1956, così come sostituito dall’art. 14 del decreto-legge n. 144 del 2005, convertito dalla legge n. 155 del 2005, perché, sottoposto alla misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel comune di residenza, contravveniva alla prescrizione di vivere onestamente e di rispettare le leggi, essendo stato colto alla guida di un’autovettura senza avere conseguito l a patente; che il giudice a quo dubita della legittimità costituzionale della disposizione censurata in quanto, con riferimento alla condotta consistente nella violazione della prescrizione di vivere onestamente e rispettare le leggi, concretizzatasi nel fatto di guidare senza avere conseguito la patente o con patente revocata o sospesa, appare irragionevole che detta disposizione preveda un trattamento sanzionatorio più grave rispetto a quello contemplato dall’art. 6 della legge 31 maggio 1965, n. 575 (Disposizioni contro le organizzazioni criminali di tipo mafioso, anche straniere), con riferimento alla stessa condotta posta in essere da soggetti sottoposti ad analoga misura di prevenzione, indiziati di appartenere ad associazioni di tipo mafioso o ad altre associazioni di cui all’art. 1 della legge n. 575 del 1965; che ad avviso del rimettente, dunque, nel caso di guida senza avere conseguito la patente o con patente revocata o sospesa, posta in essere da un soggetto sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, indiziato di appartenere ad associazioni mafiose o similari, ai sensi dell’art. 15 del codice penale deve trovare applicazione la sola disposizione speciale di cui all’art. 6 della legge n. 575 del 1965, la quale prevede la pena dell’arresto da tre mesi a tre anni; che, inoltre, secondo il giudice a quo il trattamento sanzionatorio previsto dalla disposizione censurata non è proporzionato al disvalore del fatto e, quindi, si pone in contrasto con l’art. 27 Cost.; che la questione è manifestamente inammissibile; che, infatti, il rimettente ha omesso di formulare un petitum specifico, lasciando indeterminato il contenuto dell’intervento richiesto a questa Corte, essendosi limitato ad affermare la non ragionevolezza del trattamento sanzionatorio previsto dalla disposizione censurata a seguito della modifica apportata dal d.l. n. 144 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 155 del 2005 (ex multis: ordinanze n. 98 e n. 70 del 2009, n. 380 del 2008, n. 35 del 2007); che la manifesta inammissibilità della questione deve essere dichiarata anche in considerazione dell’erroneità della ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale da cui muove il rimettente; che, infatti, il giudice a quo erroneamente ritiene che, quando la condotta di guida senza avere conseguito la patente, o con patente sospesa o revocata, sia stata commessa dal sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno, perché indiziato di appartenere ad un’associazione di tipo mafioso o similare di cui all’art. 1 della legge n. 575 del 1965, si configuri, ai sensi dell’art. 15 cod. pen., soltanto la fattispecie di cui all’art. 6 della legge n. 575 del 1965 e non anche la più grave fattispecie prevista dalla disposizione impugnata; che, dunque, il rimettente ha escluso, senza addurre alcuna motivazione, la configurabilità del concorso formale (art. 81, primo comma, cod. pen.) tra le anzidette fattispecie, omettendo di considerare l’esplicito rinvio effettuato dall’art. 5 della legge n. 575 del 1965 all’art. 9 della legge n. 1423 del 1956; che, in tal senso, la Corte di Cassazione ha affermato che in tema di misure di prevenzione personali la condotta di guida senza patente, o con patente revocata, posta in essere dal soggetto sottoposto con provvedimento definitivo alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di p. s., dà luogo non soltanto all’autonomo reato punibile ai sensi dell’art. 6 della legge n. 575 del 1965, ma anche al reato di cui all’art. 9, secondo comma, della legge n. 1423 del 1956 (nella più severa previsione introdotta dall’art. 14 del d.l. n. 144 del 2005, convertito dalla legge n. 155 del 2005), che non può ritenersi assorbito nel primo (Cass. sentenza n. 8496 del 2009); che, peraltro, anche volendo ritenere applicabile la regola stabilita dall’art. 15 cod. pen., il giudicante ha omesso di indicare i motivi in base ai quali ritiene che la disposizione speciale sia quella di cui all’art. 6 della legge n. 575 del 1965 e non, invece, quella di cui all’art. 9, secondo comma, della legge n. 1423 del 1956, nel testo sostituito dal citato art. 14, dal momento che tale ultima disposizione si applica soltanto al soggetto sottoposto alla sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno e non ad altre misure di prevenzione, come, invece, previsto dall’art. 6 della legge n. 575 del 1965. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, secondo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), come sostituito dall’articolo 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione dal Tribunale di Caltanissetta, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2010. F.to: Ugo DE SIERVO, Presidente Alessandro CRISCUOLO, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2010. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA ORDINANZA N. 90 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 24, comma 4, e 40, comma 4, della legge della Regione Veneto 21 novembre 2008, n. 21 (Disciplina degli impianti a fune adibiti al servizio pubblico di trasporto, delle piste e dei sistemi di innevamento programmato e della sicurezza nella pratica degli sport sulla neve), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso spedito per la notifica il 23 gennaio 2009, depositato in cancelleria il 27 gennaio 2009 ed iscritto al n. 5 del registro ricorsi 2009. Visto l’atto di costituzione della Regione Veneto; udito nell’udienza pubblica del 9 febbraio 2010 il Giudice relatore Sabino Cassese; uditi l’avvocato dello Stato Gaetano Zotta per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Andrea Manzi per la Regione Veneto. Ritenuto che il Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso del 23 gennaio 2009, depositato il 27 gennaio 2009 (reg. ric. n. 5 del 2009), ha impugnato gli artt. 24, comma 4, e 40, comma 4, della legge della Regione Veneto 21 novembre 2008, n. 21 (Disciplina degli impianti a fune adibiti al servizio pubblico di trasporto, delle piste e dei sistemi di innevamento programmato e della sicurezza nella pratica degli sport sulla neve); che, ad avviso del ricorrente, entrambe le disposizioni censurate, nella parte in cui rinviano alla disciplina dettata dalla legge della Regione Veneto 7 novembre 2003, n. 27 (Disposizioni generali in materia di lavori pubblici di interesse regionale e per le costruzioni in zone classificate sismiche), come successivamente modificata dalle leggi della Regione Veneto 26 novembre 2004, n. 23, e 20 luglio 2007, n. 17, si porrebbero in contrasto con gli artt. 97 e 117, secondo comma, lettere e) e l), Cost.; che, in prossimità dell’udienza pubblica, gli artt. 3 e 4 della legge della Regione Veneto 22 gennaio 2010, n. 4 (Modifiche alla legge regionale 21 novembre 2008, n. 21 “Disciplina degli impianti a fune adibiti al servizio pubblico di trasporto, delle piste e dei sistemi di innevamento programmato e della sicurezza nella pratica degli sport sulla neve”), hanno modificato le disposizioni impugnate sostituendo, in entrambe le ipotesi (impianti a fune adibiti a servizio pubblico di trasporto e piste da sci), il censurato rinvio alla disciplina della legge della Regione Veneto n. 27 del 2003 con un richiamo alla «normativa vigente in materia»; che l’Avvocatura generale dello Stato, nel corso dell’udienza pubblica, ha formulato richiesta di rinvio al fine di poter consentire al Presidente del Consiglio dei ministri di valutare, a seguito delle modifiche legislative intervenute, la persistenza dell’interesse al ricorso; che la Regione Veneto ha aderito alla richiesta di rinvio, affermando che le disposizioni impugnate non hanno trovato medio tempore applicazione. Considerato che un rinvio consentirebbe al Presidente del Consiglio dei ministri di valutare la persistenza dell’interesse al ricorso e permetterebbe anche, a entrambe le parti, di raccogliere e fornire a questa Corte elementi probatori riguardanti la asserita mancata applicazione delle disposizioni impugnate nel periodo in cui esse sono state in vigore; che la richiesta di rinvio, concordemente formulata dalle parti, appare pertanto meritevole di accoglimento. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE rinvia la causa a nuovo ruolo. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Sabino CASSESE, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2010. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA ORDINANZA N. 91 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 44 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205) e degli artt. 1 e 7, comma 1, lettera c) della legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario), in relazione all’art. 726 del codice penale, promosso dal Giudice di pace di San Severino Marche, nel procedimento penale a carico di F.T., con ordinanza del 20 luglio 2009, iscritta al n. 270 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 20, prima serie speciale, dell’anno 2009. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 10 febbraio 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri. Ritenuto che il Giudice di pace di San Severino Marche, con ordinanza del 20 luglio 2009, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 44 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205) e degli artt. 1 e 7, comma 1, lettera c), della legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario), in relazione all’art. 726 del codice penale, nella parte in cui non prevedono la «eliminazione» o la trasformazione in illecito amministrativo degli atti contrari alla pubblica decenza, limitatamente all’ipotesi di condotta tenuta per colpa; che il rimettente procede nei confronti di persona accusata del reato di cui all’art. 726 cod. pen., in quanto sorpresa da agenti di polizia giudiziaria mentre urinava in una pubblica via, esposta alla vista dei passanti e degli abitanti delle case prospicienti; che il difensore dell’interessato, nelle more dell’udienza dibattimentale, ha depositato un atto contenente «dichiarazioni spontanee» del proprio assistito, ed una memoria nella quale eccepisce l’illegittimità costituzionale della norma cui si riferisce l’imputazione; che secondo il rimettente «risulta» – tanto dalle relazioni della polizia giudiziaria (acquisite agli atti con il consenso delle parti), quanto dalle dichiarazioni difensive – che l’imputato «ha commesso il fatto per colpa»; che, sempre secondo l’opinione del giudice a quo, dovrebbe comunque pervenirsi ad una affermazione di responsabilità dell’interessato, poiché la fattispecie contestata, «in base alla sua attuale formulazione», sanzionerebbe anche fatti commessi «per colpa e negligenza»; che la conclusione pare al rimettente produttiva di conseguenze non compatibili con i principi fissati all’art. 3 Cost.; che infatti, ed in primo luogo, andrebbe considerato il rapporto di genere a specie esistente tra l’ipotesi contravvenzionale prevista dall’art. 726 cod. pen. e la figura delittuosa delineata all’art. 527 cod. pen. (Atti osceni), la cui condotta tipica «offende più intensamente ed in modo più grave il pudore sessuale»; che, nonostante la maggior gravità della fattispecie delittuosa, il legislatore, con le censurate norme di depenalizzazione, ha degradato ad illecito amministrativo l’ipotesi colposa di «atti osceni» già sanzionata dal secondo comma dell’art. 527 cod. pen., preservando invece, in assenza di analogo intervento sull’art. 726 cod. pen., la rilevanza penale degli atti «colposi» di offesa alla pubblica decenza; che dunque, poiché l’autore d’un fatto colposo di atti osceni andrebbe esente da pena, e sarebbe punito invece con sanzione penale l’autore di atti contrari alla pubblica decenza tenuti per colpa, il rimettente censura la scelta legislativa «per irragionevolezza e per disparità di trattamento»; che, «per gli stessi motivi», sarebbe violato anche l’art. 27 Cost. in relazione ai principi di «colpevolezza» e di «finalità rieducativa della pena»; che, secondo quanto precisato dal giudice a quo nella parte finale dell’ordinanza di rimessione, l’intervento richiesto alla Corte costituzionale consisterebbe nella «eliminazione della sola ipotesi colposa della contravvenzione per cui è processo», essendo emerso, nel caso di specie, che l’imputato «non ha commesso il fatto con coscienza e volontà»; che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato il 1° dicembre 2009; che, secondo la difesa erariale, la questione dovrebbe essere dichiarata manifestamente inammissibile per l’insufficiente descrizione della fattispecie concreta, posto che il giudice a quo si è limitato ad enunciare la natura colposa del fatto ascritto all’imputato, o la mancanza di «coscienza e volontà» del fatto medesimo (è citata, quale precedente conforme, l’ordinanza della Corte costituzionale n. 228 del 2005, relativa alla stessa questione sollevata dall’odierno rimettente); che la questione sollevata sarebbe comunque infondata, non potendosi comparare, nella prospettiva del principio di uguaglianza, norme preposte alla tutela di beni giuridici diversi (nel caso degli atti osceni la «verecondia sessuale», e cioè un interesse «più specifico» di quello concernente il sentimento collettivo della costumatezza e della compostezza). Considerato che il Giudice di pace di San Severino Marche, con ordinanza del 20 luglio 2009, ha sollevato – in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 44 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205) e degli artt. 1 e 7, comma 1, lettera c), della legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario), in relazione all’art. 726 del codice penale, nella parte in cui non prevedono la «eliminazione» o la trasformazione in illecito amministrativo degli atti contrari alla pubblica decenza, limitatamente all’ipotesi di condotta tenuta per colpa; che sarebbe infatti irragionevole e discriminatorio, dunque in contrasto con l’art. 3 Cost., il perdurante regime di punibilità con sanzione penale delle condotte contrarie alla pubblica decenza che siano tenute per colpa, posto che è stata attuata, invece, la depenalizzazione delle condotte colpose qualificabili come «atti osceni», le quali oltretutto esprimono una maggior capacità offensiva, perché lesive del senso del pudore sessuale; che, «per gli stessi motivi», sarebbe violato anche l’art. 27 Cost. in relazione ai principi di «colpevolezza» e di «finalità rieducativa» della pena; che la questione sollevata è manifestamente inammissibile per più ragioni concomitanti; che il rimettente ha infatti precluso alla Corte qualunque verifica di rilevanza del quesito proposto, omettendo di descrivere la fattispecie concreta e di indicare, in particolare, quali circostanze l’abbiano indotto a qualificare colposa la condotta in contestazione; che la circostanza è tanto più significativa se si considera che, nel campo dei reati contro la pubblica decenza od il senso comune del pudore, l’atteggiamento negligente od imprudente attiene in genere alla potenziale percezione pubblica del comportamento, più che all’attuazione dello stesso; che, nondimeno, il rimettente si è limitato ad enunciare la propria valutazione del fatto contestato, esprimendo, per altro, indicazioni contraddittorie; che infatti il giudice a quo, mentre nella parte iniziale dell’ordinanza di rimessione assume che il fatto sarebbe stato commesso «per colpa», successivamente afferma che l’imputato «non ha commesso il fatto con coscienza e volontà», così evocando una condotta incolpevole, come tale penalmente irrilevante secondo il disposto del primo e del quarto comma dell’art. 42 cod. pen.; che concorre a determinare la manifesta inammissibilità della questione anche la struttura del quesito sottoposto alla Corte, poiché il rimettente sembra sollecitare sia una pronuncia manipolativa che «trasformi» la fattispecie colposa compresa nell’art. 726 cod. pen. in un illecito amministrativo, sia una pronuncia ablativa che «elimini» il precetto impartito dalla norma codicistica nella sua configurazione colposa, dando vita ad un petitum oscuro o, comunque, segnato dalla prospettazione di soluzioni alternative per il superamento del denunciato vizio di legittimità. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 44 del decreto legislativo 30 dicembre 1999, n. 507 (Depenalizzazione dei reati minori e riforma del sistema sanzionatorio, ai sensi dell’articolo 1 della legge 25 giugno 1999, n. 205) e degli artt. 1 e 7, comma 1, lettera c), della legge 25 giugno 1999, n. 205 (Delega al Governo per la depenalizzazione dei reati minori e modifiche al sistema penale e tributario), in relazione all’art. 726 del codice penale, sollevata – in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione – dal Giudice di pace di San Severino Marche con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2010. F.to: Ugo DE SIERVO, Presidente Gaetano SILVESTRI, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2010. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA ORDINANZA N. 92 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell' art. 9, commi 2 e 3 della legge della Regione Marche 24 dicembre 2008 n. 37 ( Disposizioni per la formazione del Bilancio annuale 2009 e pluriennale 2009/2011 della Regione – Legge finanziaria 2009), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 26 febbraio-3 marzo 2009, depositato in cancelleria il 3 marzo 2009 ed iscritto al n. 16 del registro ricorsi 2009. Udito nella camera di consiglio del 10 febbraio 2010 il Giudice relatore Sabino Cassese. Ritenuto che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato il 26 febbraio e depositato il 3 marzo del 2009, ha impugnato l’art. 9, commi 2 e 3, della legge della Regione Marche 24 dicembre 2008, n. 37 (Disposizioni per la formazione del Bilancio annuale 2009 e pluriennale 2009/2011 della Regione - Legge finanziaria 2009); che il ricorrente sostiene che le disposizioni impugnate disciplinano le modalità di stabilizzazione del personale non dirigenziale in contrasto con la normativa statale di riferimento, costituita dall’art. 1, commi 557 e 558, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2007), dall’art. 3, commi 90 e 94, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2008) e dalla circolare 18 aprile 2008, n. 5, emanata dalla Presidenza del Consiglio dei ministri (Linee di indirizzo in merito all’interpretazione e all’applicazione dell’art. 3, commi da 90 a 95 e comma 106, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 - legge finanziaria 2008); che, in particolare, ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, l’art. 9, comma 2, della legge regionale censurata, nell’includere «nel periodo di anzianità positivamente valutabile» ai fini della stabilizzazione «i periodi relativi a rapporti di collaborazione coordinata e continuativa», detterebbe una disciplina difforme da quella statale, la quale non ammette «la cumulabilità delle esperienze lavorative maturate con tipologie contrattuali differenti»; che, in modo analogo, l’art. 9, comma 3, della legge impugnata, la quale concerne la stabilizzazione del personale non dirigenziale del servizio sanitario regionale e dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale delle Marche, «nel prevedere la possibilità di cumulare il periodo di lavoro a tempo determinato o con contratto di collaborazione coordinata e continuativa con altre forme di rapporto di lavoro flessibile o attuato mediante convenzione», confliggerebbe a sua volta con la disciplina statale in materia, la quale «non consente la positiva attuazione della procedura di stabilizzazione del personale in servizio con forme contrattuali di lavoro differenti dal tempo determinato e dalla collaborazione coordinata e continuativa»; che, per tali ragioni, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, le disposizioni censurate, «introducendo una normativa diversa e più favorevole ai fini della procedura di stabilizzazione solo in un ambito regionale», violerebbero l’art. 3 Cost., in considerazione della «disparità di trattamento nei confronti di omologhe categorie lavorative radicate in altre regioni», nonché l’art. 97 Cost., «sotto il profilo della violazione del principio di imparzialità dell’azione amministrativa e uniformità della stessa nel territorio nazionale»; che la Regione Marche non si è costituita in giudizio; che, con atto notificato a controparte in data 16 novembre 2009 e depositato presso la cancelleria della Corte costituzionale il 24 novembre successivo, il Presidente del Consiglio dei ministri ha dichiarato di rinunciare al presente ricorso, considerato che la Regione Marche, con la successiva legge regionale 3 aprile 2009, n. 8 (Ulteriori Modifiche all'articolo 9 della legge regionale 24 dicembre 2008, n. 37 - Legge finanziaria 2009), ha apportato modifiche alla disciplina impugnata, adeguandosi ai rilievi governativi e conformando la propria disciplina alla normativa statale di riferimento. Considerato che, in mancanza di costituzione in giudizio della parte resistente, la rinuncia al ricorso determina, ai sensi dell’art. 23 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, l’estinzione del processo (fra le più recenti, ordinanze n. 14 e n. 8 del 2010). per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara estinto il processo. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2010. F.to: Ugo DE SIERVO, Presidente Sabino CASSESE, Redattore Maria Rosaria FRUSCELLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2010. Il Cancelliere F.to: FRUSCELLA |