Ultime pronunce pubblicate deposito del 08/04/2010
 
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Deposito del 08/04/2010 (dalla 127 alla 130)

 
S.127/2010 del 24/03/2010
Udienza Pubblica del 24/02/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Artt. 7, lett. c), 44 e 46 della legge della Regione Umbria 13/05/2009, n. 11.

Oggetto: Ambiente - Norme della Regione Umbria - Norme per la bonifica delle aree inquinate e gestione integrata dei rifiuti - Attribuzione al Comune del compito di rilasciare, rinnovare e modificare l'autorizzazione alla gestione dei Centri di raccolta - Contrasto con la normativa nazionale e comunitaria sulla disciplina dei rifiuti e della valutazione di impatto ambientale;
Esclusione dalla nozione di "rifiuto" dei sedimenti derivanti da attività connesse alla gestione dei corpi idrici superficiali, alla prevenzione di inondazioni, alla riduzione degli effetti di inondazioni o siccità, al ripristino dei suoli, qualora sia stato accertato che i materiali non risultino contaminati in misura superiore ai limiti vigenti - Contrasto con la normativa nazionale e comunitaria nella disciplina dei rifiuti e della valutazione di impatto ambientale;
Progetti mobili per il recupero di rifiuti non pericolosi - Esclusione della verifica di assoggettabilità alla valutazione di impatto ambientale qualora trattino quantitativi medi giornalieri complessivamente inferiori a duecento tonnellate e il tempo di permanenza degli impianti mobili sul sito predeterminato per lo svolgimento della campagna di attività non sia superiore a sessanta giorni - Contrasto con la normativa nazionale e comunitaria sulla disciplina dei rifiuti e della valutazione di impatto ambientale.

Dispositi vo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ric. 49/2009
S.128/2010 del 24/03/2010
Udienza Pubblica del 09/02/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore MADDALENA


Norme impugnate: Art. 26 della legge della Regione Calabria 11/05/2007, n. 9, come modificato dall'art. 8 della legge della Regione Calabria 12/12/2008, n. 40.

Oggetto: Finanza regionale - Regione Calabria - Modalità di erogazione dei finanziamenti relativi alle funzioni conferite alle Province con legge regionale n. 34/2002.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 268/2009
O.129/2010 del 24/03/2010
Udienza Pubblica del 09/02/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore MADDALENA


Norme impugnate: Art. 26 della legge della Regione Calabria 11/05/2007, n. 9.


Oggetto: Finanza regionale - Regione Calabria - Modalità di erogazione dei finanziamenti relativi alle funzioni conferite alle Province con legge regionale n. 34/2002.

Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens
Atti decisi: ord. 291/2008
O.130/2010 del 24/03/2010
Camera di Consiglio del 10/02/2010, Presi dente AMIRANTE, Redattore MADDALENA


Conflitto: Ammissibilità di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione del Senato della Repubblica 22/07/2009.

Oggetto: Parlamento - Immunità parlamentari - Procedimento penale per il reato di diffamazione a mezzo stampa a carico dell'allora senatore Francesco Storace per le opinioni da questi espresse nei confronti del magistrato Henry John Woodcock - Deliberazione di insindacabilità del Senato della Repubblica.

Dispositivo: ammissibile
Atti decisi: confl. pot. amm. 12/2009

pronuncia successiva

SENTENZA N. 127

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 7, lettera c), 44 e 46 della legge della Regione Umbria 13 maggio 2009, n. 11 (Norme per la gestione integrata dei rifiuti e la bonifica delle aree inquinate), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 10-15 luglio 2009, depositato in cancelleria il 20 luglio 2009 ed iscritto al n. 49 del registro ricorsi 2009.

Udito nell’udienza pubblica del 24 febbraio 2010 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro;

udito l’avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso, notificato alla Regione Umbria il 10-15 luglio 2009, e depositato presso la cancelleria della Corte costituzionale il 20 luglio 2009 (reg. ric. n. 49 del 2009), il Presidente del Consiglio dei ministri ha chiesto a questa Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale degli artt. 7, lettera c), 44 e 46 della legge della Regione Umbria 13 maggio 2009, n. 11 (Norme per la gestione integrata dei rifiuti e la bonifica delle aree inquinate), per violazione dell’art. 117, primo e secondo comma, lettera s), Cost.

Secondo il ricorrente la suddetta legge regionale, nel disciplinare la bonifica delle aree inquinate e la gestione integrata dei rifiuti, presenterebbe vari aspetti di contrasto con la normativa nazionale e comunitaria relativa alla disciplina dei rifiuti e alla valutazione dell’impatto ambientale.

1.1. – In particolare, l’art. 7, lettera c), delle citata legge regionale n. 11 del 2009 prevede che il Comune abbia il compito di rilasciare, rinnovare e modificare l’autorizzazione alla gestione dei centri di raccolta.

La disciplina nazionale di settore, costituita dal decreto ministeriale 8 aprile 2008 (Disciplina dei centri di raccolta dei rifiuti urbani raccolti in modo differenziato, come previsto dall’articolo 183, comma 1, lettera cc, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modifiche), prevede che il soggetto che gestisce il centro di raccolta debba soltanto essere iscritto all’Albo nazionale dei gestori ambientali e che la sola realizzazione dei citati centri, e non anche la gestione di essi, sia approvata dal Comune territorialmente competente ai sensi della normativa vigente (art. 2, commi 1 e 4). Pertanto subordinare la gestione di tali centri al preventivo rilascio dell’autorizzazione da parte del Comune, così come disposto nella legge regionale in esame, si porrebbe in contrasto con la citata normativa nazionale, espressione della competenza statale in materia di tutela dell’ambiente di cui all’art. 117, sec ondo comma, lettera s), Cost.

1.2. – La norma contenuta nell’art. 44 della stessa legge regionale esclude poi dal proprio campo di applicazione, tra l’altro, «i sedimenti derivanti da attività connesse alla gestione dei corpi idrici superficiali, alla prevenzione di inondazioni, alla riduzione degli effetti di inondazioni o siccità, al ripristino dei suoli, qualora sia stato accertato che i materiali non risultino contaminati in misura superiore ai limiti stabiliti dalle norme vigenti».

Con tale previsione la Regione opererebbe una illegittima esclusione dalla nozione di “rifiuto” di materiali che rientrano nel campo di applicazione della vigente normativa comunitaria e nazionale di riferimento.

Infatti, la definizione comunitaria, recata dall’art. 1 della direttiva 5 aprile 2006, n. 2006/12/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti), recepita nell’ordinamento nazionale dall’articolo 183, comma 1, lettera a), del decreto legislativo n. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), stabilisce che è rifiuto qualsiasi sostanza o oggetto di cui il detentore si disfi o abbia intenzione o l’obbligo di disfarsi. Sulla base dei principi del diritto comunitario e della consolidata giurisprudenza della Corte di giustizia UE, non è allora possibile adottare esclusioni generalizzate o presunzioni assolute di esclusione dal campo di applicazione della normativa in materia di rifiuti, ma è necessario effettuare una valutazione, caso per caso, al fine di verificare se l’intenzione del detentore sia quella di disfarsi del bene o della sostanza stessi. Tale principio non può esser e derogato dalla Regione, dato il vincolo del rispetto del diritto comunitario derivante dall’art. 117, primo comma, Cost., e, inoltre, secondo la giurisprudenza costituzionale, sono illegittime norme regionali che escludano da detta categoria taluni materiali.

Ne consegue che la norma in esame, oltre che essere in contrasto con quanto disposto dagli articoli 183, comma 1, lettera a) e 185 del d.lgs. n. 152 del 2006, può esporre l’Italia ad una procedura d’infrazione per indebita restrizione del campo di applicazione della direttiva sui rifiuti.

1.3. – L’art. 46 della legge regionale in oggetto esclude dalla verifica di assoggettabilità alla valutazione di impatto ambientale (d’ora in avanti, VIA), di cui all’art. 20 del d.lgs. n. 152 del 2006, i progetti relativi agli impianti mobili per il recupero di rifiuti non pericolosi mediante operazioni di cui all’allegato C, lettera R5, della parte IV del d.lgs. n. 152, anche se rientranti nella tipologia di cui al punto 7, lettera zb), dell’allegato IV alla parte II del citato decreto legislativo, qualora trattino quantitativi medi giornalieri inferiori a duecento tonnellate e il tempo di permanenza degli stessi impianti sul sito predeterminato per lo svolgimento della campagna di attività non sia superiore a sessanta giorni.

Tale deroga risulterebbe in palese contrasto con la normativa statale da ultimo richiamata, che prevede la verifica di assoggettabilità per gli impianti di smaltimento di rifiuti non pericolosi, con capacità superiore a 10 t/giorno, mediante operazioni di cui all’allegato C, lettere da R1 a R9, della parte IV, senza specificare se si tratti di impianti mobili o meno. Peraltro, la Commissione europea, circa l’applicazione della direttiva 27 giugno 1985, n. 85/337/CEE (Direttiva del Consiglio concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati) relativamente agli impianti mobili di trattamento rifiuti, ha ribadito, con nota del 17 novembre 2004, prot. Env.D.3/LT/cro D(2004) 532306, che «il carattere mobile e temporaneo di tali impianti non costituisce di per sé motivo di esclusione dalle liste dei progetti elencati negli allegati della direttiva o di considerazione particolare ai fini de lla qualificazione di un progetto ai sensi della stessa. Pertanto, posto che essi abbiano le caratteristiche per essere considerati come progetti di cui agli allegati I e II, gli impianti mobili di trattamento rifiuti sono assoggettati alle prescrizioni e alle procedure previste dalla direttiva».

Ne conseguirebbe l’illegittimità della normativa regionale in oggetto, per contrasto con la normativa nazionale e comunitaria riguardante i rifiuti e la valutazione di impatto ambientale, con violazione dell’art. 117, commi primo e secondo, lett. s), Cost.

Non ha svolto attività difensiva in questa sede la Regione Umbria.

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri dubita della legittimità costituzionale dell’art. 7, lettera c) della legge della Regione Umbria 13 maggio 2009, n. 11 (Norme per la gestione integrata dei rifiuti e la bonifica delle aree inquinate), nella parte in cui prevede che il Comune abbia il compito di rilasciare, rinnovare e modificare l’autorizzazione alla gestione dei centri di raccolta, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in quanto porrebbe una disciplina contrastante con quella nazionale di settore, costituita dall’art. 2, commi 1 e 4, del decreto ministeriale 8 aprile 2008 (Disciplina dei centri di raccolta dei rifiuti urbani raccolti in modo differenziato, come previsto dall’articolo 183, comma 1, lettera cc, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modifiche), secondo cui il soggetto che gestisce il centro di raccolta deve solamente essere iscritto all’Al bo nazionale dei gestori ambientali e la realizzazione dei citati centri, e non anche la gestione di essi, deve essere approvata dal Comune territorialmente competente ai sensi della normativa vigente.

1.1. – La questione è fondata.

1.2. – L’art. 7 della legge regionale n. 11 del 2009, enumera le funzioni amministrative dei Comuni nella materia della gestione dei rifiuti urbani. Alla lettera c), oltre alla approvazione della realizzazione dei centri di raccolta o al loro adeguamento alle norme vigenti, sono previsti «rilascio, rinnovo e modifica dell’autorizzazione alla gestione degli stessi». Aggiunge che i centri di raccolta non sono soggetti alle disposizioni di cui all’articolo 208 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), che prevede l’autorizzazione unica regionale per gli impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti.

La disciplina nazionale è costituita in primo luogo dall’art. 183, comma 1, del d.lgs. n. 152 del 2006, che, illustrando le definizioni impiegate dalla suddetta norma, alla lettera cc, dopo aver precisato che per “centro di raccolta” s’intende l’«area presidiata ed allestita, senza ulteriori oneri a carico della finanza pubblica, per l’attività di raccolta mediante raggruppamento differenziato dei rifiuti per frazioni omogenee conferiti dai detentori per il trasporto agli impianti di recupero e trattamento», aggiunge che «la disciplina dei centri di raccolta è data con decreto del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentita la Conferenza unificata Stato-Regioni, città e autonomie locali, di cui al decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281». Questa disciplina è stata dettata dal d.m. 8 aprile 2008, che all’art. 1 contiene ulteriore definizione dei centri di r accolta, e all’art. 2 pone la disciplina amministrativa degli stessi.

La materia dei rifiuti attiene alla potestà legislativa esclusiva statale in materia di tutela ambientale (sentenze n. 10 e 314 del 2009, n. 62 del 2008), e, in tale materia, è consentito allo Stato emanare regolamenti, per esigenze di uniformità (sentenze n. 233 del 2009 e 411 del 2007).

L’art. 1 del d.m. 8 aprile 2008 definisce i centri di raccolta comunali e intercomunali, come «aree presidiate ed allestite ove si svolge unicamente attività di raccolta, mediante raggruppamento per frazioni omogenee per il trasporto agli impianti di recupero, trattamento e, per le frazioni non recuperabili, di smaltimento, dei rifiuti urbani e assimilati (…) conferiti in maniera differenziata rispettivamente dalle utenze domestiche e non domestiche, nonché dagli altri soggetti tenuti in base alle vigenti normative settoriali al ritiro di specifiche tipologie di rifiuti dalle utenze domestiche».

Nessuna autorizzazione è prevista dalla normativa statale per la gestione dei centri raccolta dei rifiuti urbani: l’art. 2 d.m. 8 aprile 2008, già intitolato «Autorizzazioni e iscrizioni» – e nel quale il termine “autorizzazioni” è stato sostituito con il termine “approvazioni” dal decreto ministeriale 13 maggio 2009 (Modifica del decreto 8 aprile 2008, recante la disciplina dei centri di raccolta dei rifiuti urbani raccolti in modo differenziato, come previsto dall’articolo 183, comma 1, lettera cc, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modifiche) – dispone che «la realizzazione dei centri di raccolta di cui all’art. 1 è approvata dal Comune territorialmente competente ai sensi della normativa vigente» (comma 1), e che «il soggetto che gestisce il centro di raccolta è iscritto all’Albo nazionale gestori ambientali di cui all’art. 212 del decreto l egislativo 3 aprile 2006, n. 152, e successive modifiche» (comma 4).

Occorre ricordare che in assenza di una disciplina chiara, per la semplice raccolta dei rifiuti urbani (in aree dette “ecopiazzole”), che tenesse conto delle peculiari differenze rispetto alle più complesse operazioni di smaltimento e di recupero, si discuteva in passato se fosse richiesta o meno un’autorizzazione.

L’auspicato chiarimento aveva luogo con la riformulazione dell’art. 183 del d.lgs. n. 152 del 2006, per effetto dell’art. 2, comma 20, del decreto legislativo 16 gennaio 2008, n. 4 (Ulteriori disposizioni correttive ed integrative del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, recante norme in materia ambientale), e, a soli due mesi di distanza, con il citato d.m. 8 aprile 2008 del Ministro dell’ambiente. Dal complesso di queste norme deriva che riguardo all’attività di raccolta di rifiuti, finalmente distinta dallo smaltimento e dal recupero, solo la realizzazione dei centri di raccolta è “approvata” dal Comune, mentre non è necessaria l’autorizzazione per la gestione, richiedendosi solo l’iscrizione del gestore all’Albo nazionale dei gestori ambientali di cui all’art. 212 del d.lgs. n. 152 del 2006 (art. 2, comma 4, del citato decreto ministeriale).

L’approvazione comunale rappresenta un controllo di tipo urbanistico, che riguarda la realizzazione del centro di raccolta, come risulta chiarito dal nuovo testo dell’art. 2, comma 1, del d.m. 8 aprile 2008, come sostituito dal d.m. 13 maggio 2009: «la realizzazione o l’adeguamento dei centri di raccolta di cui all’articolo 1 è eseguito in conformità con la normativa vigente in materia urbanistica ed edilizia».

L’attribuzione al Comune dell’ulteriore competenza al rilascio, rinnovo e modifica dell’autorizzazione, come disposta dalla legge regionale impugnata (art. 7, lett. c), riguardando la gestione dei centri di raccolta, incide allora sulla disciplina dei rifiuti e si pone in contrasto con la normativa statale, che non la prevede.

È pur vero che la rubrica dell’art. 2 del d.m. 8 aprile 2008, intitolata «Autorizzazioni e iscrizioni», poteva ingenerare elementi di equivocità (il termine “autorizzazioni”, come detto, è stato sostituito con “approvazioni”). Il testo della norma, tuttavia, non contiene in alcuna parte il termine “autorizzazione”.

È vero anche che il comma 8 dell’art. 2 del decreto ministeriale, nel testo vigente all’epoca dell’emanazione della norma regionale censurata, consentiva ai centri di raccolta che, alla data di entrata in vigore del decreto, fossero autorizzati ai sensi degli articoli 208 o 210 del d.lgs. n. 152 del 2006, di continuare ad operare sulla base di tale autorizzazione sino alla scadenza della stessa: si trattava però dell’autorizzazione unica ambientale, di competenza regionale, che certo non avrebbe potuto legittimare l’imposizione dell’obbligo di un titolo ulteriore, di competenza comunale.

Il comma 7 dello stesso d.m. 8 aprile 2008, prima delle modifiche apportate dal d.m. 13 maggio 2009, consentiva che i centri di raccolta, i quali, alla data di entrata in vigore dello stesso decreto, fossero operanti sulla base di disposizioni regionali o di enti locali, continuassero ad operare, conformandosi alle disposizioni tecniche entro il termine di sessanta giorni dalla data di pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana di una emananda delibera del Comitato nazionale dell’Albo dei gestori ambientali di cui al comma 5. La verifica in ordine all’esistenza, nella normativa regionale previgente in tema di gestione dei rifiuti – costituita dalla legge della Regione Umbria 31 luglio 2002, n. 14 (Norme per la gestione integrata dei rifiuti) – di una norma che subordinasse l’attività di gestione dei centri di raccolta ad autorizzazione comunale, è negativa, prevedendosi solo, fra i compiti della Pr ovincia, il rilascio dell’autorizzazione all’esercizio delle operazioni di smaltimento e di recupero dei rifiuti, anche pericolosi (poi disciplinata dall’art. 208 del d.lgs. n. 152 del 2006: lo stesso d.lgs. n. 152, all’art. 264, ha abrogato il d.lgs. n. 22 del 1997), in consonanza all’art. 19, comma 1, lettera e), del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22 (Attuazione della direttiva 91/156/CEE sui rifiuti, della direttiva 91/689/CEE sui rifiuti pericolosi e della direttiva 94/62/CE sugli imballaggi e sui rifiuti di imballaggio).

Ancor prima, l’art. 5 della legge della Regione Umbria 24 agosto 1987, n. 44 (Piano regionale per la organizzazione dei servizi di smaltimento dei rifiuti, in attuazione del d.P.R. 10 settembre 1982, n. 915), prevedeva l’autorizzazione della Giunta regionale (non del Comune) alla installazione (non alla gestione) dei centri di raccolta, in conformità degli strumenti urbanistici.

In conclusione, nessun appiglio poteva trovare il legislatore regionale, nella disciplina statale sui centri di raccolta dei rifiuti urbani, per configurare un obbligo di autorizzazione alla gestione degli stessi.

Ai Comuni non compete, in aggiunta all’approvazione dei centri di raccolta dei rifiuti urbani riguardo alla realizzazione di essi, l’autorizzazione alla gestione (sull’illegittimità di norme regionali in tema di rifiuti, configuranti competenze in contrasto con la disciplina statale, sentenza n. 378 del 2007). Pertanto, subordinare la gestione di tali centri al preventivo rilascio di un’autorizzazione da parte del Comune, così come disposto dall’art. 7, comma 1, lettera c), legge regionale n. 11 del 2009, si pone in contrasto con la normativa nazionale rappresentata dal d.m. 8 aprile 2008, emesso in attuazione dell’art. 183, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 152 del 2006, che è espressione della competenza statale in materia di tutela dell’ambiente di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost.

La norma regionale va quindi dichiarata costituzionalmente illegittima nella parte in cui attribuisce ai Comuni la funzione di «rilascio, rinnovo e modifica dell’autorizzazione alla gestione» dei centri di raccolta.

2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri dubita poi della legittimità costituzionale dell’art. 44 della stessa legge della Regione Umbria, nella parte in cui esclude dal proprio campo di applicazione, tra l’altro, i sedimenti derivanti da attività connesse alla gestione dei corpi idrici superficiali, alla prevenzione di inondazioni, alla riduzione degli effetti di inondazioni o siccità, al ripristino dei suoli, qualora sia stato accertato che i materiali non risultino contaminati in misura superiore ai limiti stabiliti dalle norme vigenti, per violazione dell’art. 117, primo e secondo comma, lettera s), Cost., perchè porrebbe una disciplina contrastante con la definizione comunitaria di rifiuto recata dall’art. 1, lettera a), della direttiva 5 aprile 2006, n. 2006/12/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti), recepito nell’ordinamento nazionale dall’articolo 183 , comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 152 del 2006, secondo cui è rifiuto qualsiasi sostanza o oggetto di cui il detentore si disfi o abbia intenzione o l’obbligo di disfarsi; e contrasterebbe inoltre con la disciplina nazionale di settore, costituita dagli artt. 183, comma 1, lettera a) e 185 del d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152.

2.1. – La questione è fondata.

2.2. – La disposizione censurata attiene alla nozione stessa di “rifiuto”, riguardante la materia della tutela ambientale affidata alla competenza esclusiva dello Stato.

Non sono consentite esclusioni da parte del legislatore regionale di particolari sostanze o materiali in astratto ricompresi nella nozione di “rifiuto” stabilita dalla legislazione statale in attuazione della direttiva comunitaria (sentenze nn. 61 e 315 del 2009). La norma in oggetto, sottraendo alla nozione di rifiuto taluni residui che, invece, corrispondono alla definizione sancita dall’art. 1, lettera a), della direttiva 2006/12/CE, come «qualsiasi sostanza od oggetto che rientri nelle categorie riportate nell’allegato I e di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi», si pone in contrasto con la direttiva medesima, che funge da norma interposta per la valutazione di conformità della normativa regionale all’ordinamento comunitario (sentenza n. 62 del 2008).

Fra le sostanze escluse dal campo di applicazione della direttiva (e della normativa statale rappresentata dal d.lgs. n. 152 del 2006), vi sono le «acque di scarico, esclusi i rifiuti allo stato liquido» (art. 2, par. 1, lettera b-iv, della direttiva; art. 185, comma 1, lettera b, n. 1, del d.lgs. n. 152 del 2006), ma fra questi non possono essere ricompresi i sedimenti, indicati dalla disposizione regionale, che costituiscono residui semi-solidi, derivanti dal trattamento delle acque. Neppure rileva che l’esclusione sia limitata dalla norma regionale a quei sedimenti che non siano contaminati oltre misura: tale connotato può considerarsi ai fini della qualificazione della sostanza come pericolosa, non anche per l’esclusione di questa dalla categoria dei rifiuti. Sotto tale profilo non è consentito al legislatore regionale introdurre limiti quantitativi non previsti nella regolamentazione statale unitaria, ai fini di sottrarre un oggetto a una determinata disciplina (così, in tema di adempimenti connessi alla disciplina dei rifiuti pericolosi, la sentenza n. 315 del 2009), specie ove si tratti di ambiti tecnici per l’attuazione di livelli di tutela uniforme (sentenza n. 249 del 2009).

Il dettato della disposizione censurata riproduce quasi letteralmente il testo dell’art. 2, par. 3, della direttiva 19 novembre 2008, n. 2008/98/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio, relativa ai rifiuti, che abroga precedenti direttive in materia). Questa non è stata ancora recepita da legge statale (termine di recepimento: 12 dicembre 2010). La norma comunitaria introduce una esclusione dall’ambito di applicazione della stessa direttiva, proprio relativamente ai «sedimenti spostati all’interno di acque superficiali ai fini della gestione delle acque e dei corsi d’acqua o della prevenzione di inondazioni o della riduzione degli effetti di inondazioni o siccità o ripristino dei suoli, se è provato che i sedimenti non sono pericolosi».

La circostanza non modifica i termini della questione, posto che la competenza per l’attuazione delle direttive comunitarie, nelle materie di legislazione esclusiva dello Stato, come la tutela dell’ambiente, in cui rientra la disciplina dei rifiuti, appartiene inequivocabilmente allo Stato (sentenza n. 233 del 2009), e non sono ammesse iniziative delle Regioni di regolamentare nel proprio ambito territoriale la materia, ispirandosi ad una direttiva non ancora recepita per i rifiuti.

L’art. 44 della legge regionale n. 11 del 2009, dunque, è illegittimo, nella parte in cui esclude dal campo di applicazione della legge stessa, «i sedimenti derivanti da attività connesse alla gestione dei corpi idrici superficiali, alla prevenzione di inondazioni, alla riduzione degli effetti di inondazioni o siccità, al ripristino dei suoli, qualora sia stato accertato che i materiali non risultino contaminati in misura superiore ai limiti stabiliti dalle norme vigenti».

3. – Il Presidente del Consiglio dei ministri dubita, infine, della legittimità costituzionale dell’art. 46 della legge della Regione Umbria n. 11 del 2009, nella parte in cui esclude dalla verifica di assoggettabilità alla valutazione di impatto ambientale (VIA), di cui all’articolo 20 del d.lgs. n. 152 del 2006, i progetti relativi agli impianti mobili per il recupero di rifiuti non pericolosi mediante operazioni di cui all’allegato C, lettera R5, della parte IV, del d.lgs. n. 152, anche se rientranti nella tipologia di cui al punto 7, lettera zb), dell’allegato IV alla parte II del citato decreto, qualora trattino quantitativi medi giornalieri inferiori a duecento tonnellate e il tempo di permanenza degli stessi impianti sul sito predeterminato per lo svolgimento della campagna di attività non sia superiore a sessanta giorni, per violazione dell’art. 117, primo e secondo comma, lettera s), Cost., in quanto pone una disciplina contrastante con la normativa comunitaria di settore e con l’art. 20 del d.lgs. n. 152 del 2006, nonché con l’allegato IV alla parte II, punto 7, lettera zb) di tale decreto, secondo cui si fa luogo alla verifica di assoggettabilità per gli impianti di smaltimento di rifiuti non pericolosi, con capacità superiore a 10 t/giorno, mediante le operazioni di recupero di cui all’allegato C, lettere da R1 a R9, della parte IV, senza distinzione tra impianti mobili o meno.

3.1. – Anche tale questione è fondata.

3.2. – La necessità di esperire la procedura di VIA, è rimessa dalla normativa comunitaria, per i progetti per i quali si prevede un notevole impatto ambientale (direttiva 27 giugno 1985, n. 85/337/CEE, Direttiva del Consiglio concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati: art. 4, paragrafo 2), a valutazioni caso per caso o alla fissazione di soglie, pur nell’ambito del principio di inderogabilità, da parte del legislatore nazionale, dell’obbligo di VIA, la giurisprudenza comunitaria rimette alla normativa interna, per certe materie, l’individuazione delle soglie. Per effetto delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 4 del 2008, l’effettuazione della VIA è ora subordinata, anziché alla determinazione di soglie, allo svolgimento di un subprocedimento preventivo volto alla verifica dell’assoggettabilità dell’opera alla VIA medesima (art. 2 0 d.lgs. n. 152 del 2006).

Sicché, atteso il rinvio alla normativa nazionale, se non è dato ravvisare una violazione diretta della normativa comunitaria (la verifica delle regole di competenza interne, comunque, sarebbe preliminare al controllo del rispetto dei principi comunitari: sentenza n. 368 del 2008), per i progetti indicati dall’allegato IV al d.lgs. n. 152 del 2006, sottoposti alla verifica di assoggettabilità di competenza delle Regioni, non sembra che queste possano derogare all’obbligo di compiere la verifica, potendo solo limitarsi a stabilire le modalità con cui procedere alla valutazione preliminare alla VIA vera e propria.

L’obbligo di sottoporre il progetto alla procedura di VIA, o, nei casi previsti, alla preliminare verifica di assoggettabilità alla VIA, attiene al valore della tutela ambientale (sentenze n. 225 e n. 234 del 2009), che, nella disciplina statale, costituisce, anche in attuazione degli obblighi comunitari, livello di tutela uniforme e si impone sull’intero territorio nazionale. La disciplina statale uniforme non consente, per le ragioni sopra esaminate, di introdurre limiti quantitativi all’applicabilità della disciplina, anche se giustificati dalla ritenuta minor rilevanza dell’intervento configurato o dal carattere tecnico dello stesso (sentenze n. 315 e n. 249, sopra citate).

In conclusione, la norma regionale è illegittima, nella parte in cui esclude dalla verifica di assoggettabilità alla valutazione di impatto ambientale di cui all’articolo 20 del d.lgs. n. 152 del 2006 i progetti relativi agli impianti mobili per il recupero di rifiuti non pericolosi mediante operazioni di cui all’allegato C, lettera R5, della parte IV, del d.lgs. n. 152 del 2006, anche se rientranti, con riferimento alle capacità complessivamente trattate, nella «tipologia di cui al punto 7, lettera zb), dell’allegato IV alla parte II del d.lgs. 152/2006, qualora trattino quantitativi medi giornalieri inferiori a duecento tonnellate e il tempo di permanenza degli stessi impianti sul sito predeterminato per lo svolgimento della campagna di attività non sia superiore a sessanta giorni».

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 1, lettera c), della legge della Regione Umbria 13 maggio 2009, n. 11 (Norme per la gestione integrata dei rifiuti e la bonifica delle aree inquinate), nella parte in cui attribuisce ai Comuni la funzione di rilascio, rinnovo e modifica dell’autorizzazione alla gestione dei centri di raccolta;

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 44 della medesima legge della Regione Umbria n. 11 del 2009, nella parte in cui esclude dal campo di applicazione della legge stessa, «i sedimenti derivanti da attività connesse alla gestione dei corpi idrici superficiali, alla prevenzione di inondazioni, alla riduzione degli effetti di inondazioni o siccità, al ripristino dei suoli, qualora sia stato accertato che i materiali non risultino contaminati in misura superiore ai limiti stabiliti dalle norme vigenti»;

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 46 della medesima legge della Regione Umbria n. 11 del 2009, nella parte in cui esclude dalla verifica di assoggettabilità alla valutazione di impatto ambientale di cui all’articolo 20 del d.lgs. n. 152 del 2006 i progetti relativi agli impianti mobili per il recupero di rifiuti non pericolosi mediante operazioni di cui all’allegato C, lettera R5, della parte IV del d.lgs. n. 152 del 2006, anche se rientranti, con riferimento alle capacità complessivamente trattate, nella «tipologia di cui al punto 7, lettera zb), dell’allegato IV alla parte II del d.lgs. 152/2006, qualora trattino quantitativi medi giornalieri inferiori a duecento tonnellate e il tempo di permanenza degli stessi impianti sul sito predeterminato per lo svolgimento della campagna di attività non sia superiore a sessanta giorni».

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 marzo 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'8 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 128

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 26 della legge della Regione Calabria 11 maggio 2007, n. 9, recante «Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e finanziario (collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2007, art. 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002)», come modificato dall’art. 8 della legge della Regione Calabria 12 dicembre 2008, n. 40 (Ulteriori disposizioni di carattere ordinamentale e finanziario collegate alla manovra di assestamento del bilancio di previsione per l’esercizio finanziario 2008 ai sensi dell’art. 3, comma 4, della legge regionale 4 febbraio 2002, n. 8), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Calabria – Sezione staccata di Reggio Calabria con ordinanza del 5 maggio 2009, iscritta al n. 268 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti gli atti di costituzione della Provincia di Reggio Calabria e della Regione Calabria;

udito nell’udienza pubblica del 9 febbraio 2010 il Giudice relatore Paolo Maddalena;

uditi gli avvocati Aristide Police per la Provincia di Reggio Calabria e Giuseppe Naimo per la Regione Calabria.

Ritenuto in fatto

1.- Il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria – Sezione staccata di Reggio Calabria, con ordinanza del 5 maggio 2009, ha sollevato, in riferimento agli artt. 114, 118 e 119 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 26 della legge della Regione Calabria 11 maggio 2007, n. 9, recante «Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e finanziario (collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2007, art. 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002)», «come modificato» dall’art. 8 della legge della Regione Calabria 12 dicembre 2008, n. 40 (Ulteriori disposizioni di carattere ordinamentale e finanziario collegate alla manovra di assestamento del bilancio di previsione per l’esercizio finanziario 2008 ai sensi dell’art. 3, comma 4 della legge regionale 4 febbraio 2002, n. 8).

La disposizione dell’art. 26 della legge regionale n. 9 del 2007, nel testo modificato dall’art. 8 della regionale n. 40 del 2008 recita:

«Le risorse finanziarie da erogare in favore delle Province per l’esercizio delle funzioni amministrative loro conferite ai sensi della legge regionale 12 agosto 2002, n. 34 e della legge regionale 11 gennaio 2006, n. 1, allocate nelle UPB appositamente istituite nel bilancio regionale e finanziate con quota parte delle entrate autonome, sono trasferite alle stesse direttamente dal Dipartimento Bilancio e Patrimonio, settore Ragioneria Generale».

A sua volta, l’art. 8 citato, rubricato “Trasferimento delle risorse alle Province”, così prevede:

«1. Il comma 1 dell’articolo 26 della legge regionale 11 maggio 2007, n. 9 è sostituito dal seguente: “1. Le risorse finanziarie da erogare in favore delle Province per l’esercizio delle funzioni amministrative loro conferite ai sensi della legge regionale 12 agosto 2002, n. 34 e della legge regionale 11 gennaio 2006, n. 1, allocate nelle UPB appositamente istituite nel bilancio regionale e finanziate con quota parte delle entrate autonome, sono trasferite alle stesse direttamente dal Dipartimento Bilancio e Patrimonio, settore Ragioneria Generale”.

2. I trasferimenti di cui al comma 1, ad esclusione di quanto previsto dal successivo comma 5, dovranno avvenire in due rate di pari importo con scadenza 30 aprile e 30 ottobre di ciascun anno, salvo che il trasferimento semestrale non sia conciliabile con specifiche norme di settore.

3. Le risorse sono trasferite in acconto con l’obbligo delle Province di presentare il rendiconto delle spese relative alle funzioni entro il 15 marzo dell'anno successivo ai Dipartimenti regionali competenti per materia i quali, previa verifica, potranno richiedere alla Ragioneria generale di provvedere al recupero delle somme non rendicontate correttamente sulla prima rata di aprile. La mancata presentazione del rendiconto comporta la sospensione della corresponsione della prima rata semestrale dell’anno successivo.

4. Sono escluse dalla rendicontazione le spese per il personale trasferito e per le spese di funzionamento.

5. Al fine di evitare il sorgere di problemi di liquidità finanziaria alle Amministrazioni Provinciali, il trasferimento delle rate semestrali delle risorse di cui al comma 4 dovrà avvenire entro il 31 gennaio ed il 31 luglio dell’esercizio di riferimento.

6. I commi 2, 3, 4 e 5 dell’articolo 26 della legge regionale 11 maggio 2007, n. 9 sono abrogati».

1.2.- Il rimettente ricorda che la Regione Calabria, dopo aver disciplinato – con le leggi regionali 12 agosto 2002, n. 34 (Riordino delle funzioni amministrative regionali e locali) e 11 gennaio 2006, n. 1, recante «Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e finanziario (collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2006, art. 3, comma 4 della legge regionale 4 febbraio 2002, n. 8)» – gli strumenti, le procedure e le modalità di riordino delle funzioni e dei compiti amministrativi esercitati dagli altri enti locali nelle materie di cui agli artt. 117, commi terzo e quarto, e 118 Cost., ha trasferito alle Province, che le esercitano dal 1° gennaio 2006, le funzioni stesse.

Soggiunge il giudice a quo che la legge regionale n. 9 del 2007 prevedeva nel testo originario, all’art. 26, «un obbligo di rendiconto trimestrale da parte delle Province, che nel caso di mancato rispetto comportava, previa diffida, la sanzione della sospensione delle erogazioni»; su tale disposizione lo stesso T.a.r. attualmente rimettente aveva proposto incidente di costituzionalità con ordinanza del 21 maggio 2008 (iscritta al R.O. n. 291 del 2008).

Nella pendenza di detto giudizio di costituzionalità – espone ancora il giudice a quo – interveniva la modifica legislativa da parte del citato art. 8 della legge regionale n. 40 del 2008 e la Regione Calabria indirizzava alla Provincia di Reggio Calabria la nota n. 626/2009, con la quale chiedeva che venisse data esecuzione alla nuova normativa. Detta nota era reputata lesiva e, dunque, impugnata giudizialmente dalla Provincia, la quale otteneva dall’adito T.a.r. un provvedimento di sospensione cautelare «a termine, ovvero sino alla pronuncia della Corte costituzionale sulla questione oggetto della presente ordinanza».

1.3.- Ciò premesso, il giudice a quo osserva, in punto di rilevanza, che la controversia appartiene alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 33 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 80 (Nuove disposizioni in materia di organizzazione e di rapporti di lavoro nelle amministrazioni pubbliche, di giurisdizione delle controversie di lavoro e di giurisdizione amministrativa, emanate in attuazione dell’art. 11, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59), trattandosi di accertare la legittimità «della pretesa della Regione Calabria di ottenere il rendiconto delle spese inerenti le risorse delle funzioni trasferite, a pena della sospensione delle erogazioni finanziarie relative alle medesime funzioni»; ciò in quanto la nota, avente “valore provvedimentale”, impugnata dalla Provincia ricorrente «manifesta, da parte della Regione, l’intendimento, attuale e concreto, avente come tale natura di imposiz ione cogente e vincolante e dunque di ordine, di dare immediata attuazione alla nuova norma sopravvenuta, ottenendo quindi l’ottemperanza all’obbligo di redazione e presentazione dei rendiconti, a pena della sospensione dei trasferimenti, con evidenti refluenze sulla certezza della effettiva disponibilità delle risorse trasferite ed, in conseguenza, della formazione del bilancio».

1.4.- Quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente ribadisce le ragioni già espresse con la precedente ordinanza di rimessione del 21 maggio 2008, reputando che esse mantengano intatta la loro valenza anche a fronte della modifica legislativa sopravvenuta.

In particolare, si puntualizza che, in base alla trama normativa di cui agli artt. 114, 118 e 119 Cost., il riconoscimento costituzionale dell’autonomia delle Province già risultava «evidentemente non coerente con l’assoggettamento delle stesse, nell’esplicazione delle funzioni “conferite”, a controllo trimestrale della relativa spesa, con la previsione, oltre tutto, di sospensione necessaria di ogni erogazione nel caso che il rendiconto non venga inviato a seguito di specifica diffida». Una siffatta conclusione non viene meno, ad avviso del giudice a quo, per il solo fatto che la nuova norma regionale «abbia escluso dal rendiconto le spese del personale e di funzionamento», giacché «ha, per il resto, solamente modificato le modalità di presentazione del rendiconto stesso (annuale e non più trimestrale), mantenendo quindi sostanzialmente, la sanzione della sospensione del trasferimento delle risorse per il cas o della sua mancata presentazione».

Sicché, le modalità di erogazione dei finanziamenti relativi alle funzioni conferite alle Province sarebbero lesive della relativa autonomia, in quanto le Province medesime «vengono sottoposte ad una forma di controllo “finanziario” molto penetrante, non compatibile con la posizione loro riconosciuta dalla Costituzione». A tal riguardo, il rimettente ricorda che, secondo la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 16 del 2004) «nei confronti degli enti locali non possono considerarsi costituzionalmente ammissibili interventi finanziari vincolati nella destinazione, per normali attività e compiti di competenza di questi ultimi», quali sarebbero, nella specie, le funzioni conferite con la legge regionale n. 34 del 2002.

2.- Si è costituita la Provincia di Reggio Calabria, in persona del Presidente pro tempore, che ha concluso nel senso della incostituzionalità della norma denunciata, riservandosi in prosieguo ulteriori deduzioni.

3.- E’ intervenuta nel giudizio la Regione Calabria per sentir dichiarare inammissibile o infondata la sollevata questione.

La difesa regionale evidenzia la inconferenza del richiamo operato dal rimettente alla sentenza n. 16 del 2004 della Corte costituzionale, trattandosi, in quel caso, di decisione concernente una norma statale che disponeva interventi diretti in favore dei Comuni, mentre, nella specie, si tratterebbe di “rimesse” effettuate dalla Regione in favore della Provincia.

La Regione sostiene, peraltro, che la norma denunciata si muoverebbe nell’ambito della competenza statutaria e della stessa legge regionale n. 34 del 2002, che «mantengono esplicitamente in capo alla Regione le funzioni di controllo in materia». Inoltre, l’art. 7 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59), renderebbe evidente che i trasferimenti comportano comunque un vincolo per gli impegni ad essi correlati, là dove il controllo regionale sulla destinazione di fondi assegnati agli enti locali, in relazione alle funzioni ad essi delegate, troverebbe fondamento anche nell’art. 12, comma 3, del d.lgs. 28 marzo 2000, n. 76 (Principi fondamentali e norme di coordinamento in materia di bilancio e di contabilità delle Regioni, in attuazione dell’art. 1, comma 4, della legge 25 giugno 199 9, n. 208), in forza del quale è stato poi emanato l’art. 58 della legge della Regione Calabria 4 febbraio 2002, n. 8 (Ordinamento del bilancio e della contabilità della Regione Calabria).

Invero, soggiunge la difesa regionale, la disposizione denunciata non sarebbe lesiva delle prerogative provinciali, ma introdurrebbe «due semplici “misure precauzionali”, adottate nell’ambito della competenza regionale in materia di controllo», che non sarebbero «né gravose né eccessive rispetto alla finalità sottesa, e cioè il corretto impiego delle somme destinate alla Provincia stessa».

4.- Con memoria depositata in prossimità dell’udienza del 15 dicembre 2009, la Provincia di Reggio Calabria insiste per l’incostituzionalità dell’art. 26 della legge della Regione Calabria n. 9 del 2007, nonché dell’art. 8 della legge della Regione Calabria n. 40 del 2008, il quale, pur abrogando i commi 1, 2, 3, 4 e 5 dell’art. 26 citato, ne ha riprodotto, nella sostanza, le prescrizioni normative, giacché ha soltanto escluso dal rendiconto le spese del personale e di funzionamento, modificandone le modalità temporali di presentazione (annualmente e non più trimestralmente) e lasciando in vita la sanzione della sospensione del trasferimento delle risorse in caso di sua omessa presentazione.

La difesa provinciale rileva, anzitutto, che anche «la nuova disposizione non esplicita la (asserita) finalità in relazione alla quale l’obbligo di comunicazione del monitoraggio e della rendicontazione viene disposto», in tal modo facendo supporre – soprattutto là dove il comma 3 dell’art. 8 prevede il “trasferimento in acconto”, suscettibile di revoca e conseguente “recupero” in caso di “somme non rendicontate correttamente” – che la Regione abbia inteso predisporre «un surrettizio sistema di controlli di gestione sull’operato delle Province, riservandosi un potere di approvazione a posteriori delle spese effettuate».

Nella memoria si sostiene, inoltre, che la disposta esclusione dall’obbligo di rendicontazione delle spese per il personale trasferito e per il funzionamento non è «accompagnata dalla simmetrica disposizione per cui anche i relativi trasferimenti sono fatti salvi» nel caso di mancata presentazione del rendiconto. Peraltro, anche se la Regione ha interpretato la norma «nel senso di provvedere all’automatico trasferimento delle risorse» relative alle anzidette spese, la sua applicazione «è rimessa alla sola (buona) volontà della Regione» stessa e, comunque, la restrizione dell’obbligo di rendicontazione non elide la «notevole compressione delle prerogative della Provincia».

Anche l’attuazione del controllo sulla rendicontazione – si soggiunge nella memoria – risulta lesivo dell’autonomia costituzionale riservata alla Provincia, giacché la «non meglio specificata “rendicontazione” sulle spese effettuate dalla Provincia nell’assolvimento delle sue funzioni amministrative» rinvia, in sostanza, «a provvedimenti amministrativi regionali (e, quindi, a fonti regolamentari e non normative in senso proprio) la concreta disciplina del procedimento di rendicontazione».

5.- Con ulteriore memoria depositata in prossimità dell’udienza del 9 febbraio 2010, fissata a seguito di rinvio della precedente udienza del 15 dicembre 2009, la Provincia di Reggio Calabria, nel ribadire le conclusioni rassegnate in precedenza, argomenta a confutazione delle ragioni esposte dalla Regione a sostegno della legittimità della normativa censurata.

Nella memoria si osserva, anzitutto, che gli artt. 7, comma 2, del d.lgs. n. 112 del 1998 e 47 della legge della Regione Calabria 19 ottobre 2004, n. 25 (Statuto della Regione Calabria) non contengono disposizioni che consentano di ritenere costituzionalmente legittimo «il sistema di controllo (e di sanzione) introdotto dalla Regione» e, anzi, «stabiliscono, da un lato, il principio del necessario trasferimento delle risorse da parte delle Regioni agli Enti locali in caso di delega delle funzioni; dall’altro, escludono che la rendicontazione possa costituire condizione per l’erogazione delle risorse ovvero per la loro sospensione».

Quanto, poi, alle prescrizioni contenute negli artt. 12 del d.lgs. 28 marzo 2000, n. 76, e 58 della legge della Regione Calabria, 4 febbraio 2002, n. 8, esse sarebbero coerenti con l’attuale «cornice costituzionale costituita dal combinato disposto degli artt. 114, 118 e 119 della Costituzione». Infatti, il «punto di equilibrio posto dal legislatore nazionale (e recepito nella 1egge della Regione Calabria n. 8 del 2002)» consisterebbe nell’attribuzione alla Regione di un potere di controllo «che si concretizza nell’obbligo di trasmissione da parte delle Province della rendicontazione riguardante l’impiego delle risorse trasferite» e tale funzione sarebbe «efficacemente eseguita attraverso l’introduzione di appositi capitoli di bilancio e la successiva trasmissione del rendiconto alla Regione».

Ad avviso della difesa provinciale, un siffatto controllo andrebbe qualificato come «controllo di gestione esterno», che si concentrerebbe, dunque, «sull’economicità e l’efficienza dell’attività rispetto ai risultati raggiunti», ma esso, in nessun caso, consentirebbe al soggetto investito della relativa funzione di «incidere nella attività amministrativa ordinaria del soggetto controllato per effetto della sospensione dei trasferimenti, nonché della facoltà di agire per l’eventuale “recupero” degli stessi, laddove la rendicontazione non fosse ritenuta corretta».

Diversamente – si argomenta ancora nella memoria – il sistema introdotto con il denunciato art. 26 della legge regionale n. 9 del 2007, e successive modificazioni, risulterebbe incoerente con il descritto quadro normativo, dal quale si evincerebbe, anzitutto, che nessuna disposizione di legge, statale o regionale, prevede «che il trasferimento delle risorse finanziarie per l’esercizio delle funzioni delegate possa essere assoggettato a condizioni (come, nel caso che qui interessa, la presentazione del rendiconto)». Inoltre, le disposizioni censurate non attuerebbero un controllo di gestione esterno, ma forme di intervento più incisive e, pertanto, lesive dell’autonomia costituzionale attribuita agli enti locali, non potendo qualificarsi «la sospensione dei trasferimenti – in caso di mancata rendicontazione – oppure il loro recupero – laddove la rendicontazione risulti errata – alla stregua di mere misure &# 8220;precauzionali” […] né gravose, né eccessive rispetto alla finalità sottesa, e cioè il corretto impiego delle somme destinate dalla Regione alla Provincia stessa».

La Provincia di Reggio Calabria, ritenuta la correttezza del richiamo fatto dal giudice rimettente alla sentenza n. 16 del 2004, di questa Corte, sulla incostituzionalità di un intervento destinato ad incidere sulla autonomia di spesa di un Ente locale «per normali attività e compiti di competenza di questi ultimi», ribadisce, inoltre, che il procedimento di controllo previsto dalle norme denunciate «appare piuttosto introdurre un meccanismo di tipo sanzionatorio che non spetta certo alle Regioni, secondo l’attuale riparto delle competenze costituzionali, essendo invece attribuito alla Corte di Conti», risultando di per sé sufficiente, ed idoneo allo scopo di garantire il corretto impiego delle risorse finanziarie trasferite, il sistema di controlli già previsto dalla legge regionale n. 8 del 2002.

Considerato in diritto

1.- Il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria – Sezione staccata di Reggio Calabria, ha denunciato l’art. 26 della legge della Regione Calabria 11 maggio 2007, n. 9, recante «Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e finanziario (collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2007, art. 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002)», «come modificato» dall’art. 8 della legge della Regione Calabria 12 dicembre 2008, n. 40 (Ulteriori disposizioni di carattere ordinamentale e finanziario collegate alla manovra di assestamento del bilancio di previsione per l’esercizio finanziario 2008 ai sensi dell’art. 3, comma 4 della legge regionale 4 febbraio 2002, n. 8).

Nella prospettazione del rimettente, la norma censurata – la quale contemplerebbe un obbligo di rendiconto annuale da parte delle Province in riferimento alle risorse ad esse trasferite per l’esercizio delle funzioni amministrative loro conferite ai sensi della legge regionale 12 agosto 2002, n. 34 (Riordino delle funzioni amministrative regionali e locali) e della legge regionale 11 gennaio 2006, n. 1, recante «Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e finanziario (collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2006, art. 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002)»; obbligo che, nel caso di mancato rispetto, comporta la sanzione della sospensione delle erogazioni in favore dei medesimi enti – si porrebbe in contrasto con gli artt. 114, 118 e 119 della Costituzione, «in quanto prevede modalità di erogazione dei finanziamenti relativi alle funzioni conferite alle Province con legge regionale n. 34/2002 non compatibili con l’autonomia di queste ultime, costituzionalmente riconosciuta e tutelata».

2.- Preliminarmente, la questione deve ritenersi ammissibile sotto il profilo della sua proposizione all’esito della fase cautelare del giudizio a quo, avendo il T.a.r. emesso soltanto un provvedimento interinale e non essendosi, quindi, spogliato del potere di decidere definitivamente in detta sede (ex plurimis, sentenze n. 151 del 2009 e n. 161 del 2008).

3.- Sempre in via preliminare, occorre precisare quale sia effettivamente l’oggetto della questione sollevata dal rimettente, posto che, come reso palese dal dispositivo dell’ordinanza di rimessione, é impugnato l’art. 26 della legge regionale n. 9 del 2007, «come modificato» dall’art. 8 della legge regionale n. 40 del 2008, e, dunque, l’attuale norma recata dal citato art. 26, che consta di un solo comma, con il quale si trasferiscono le risorse alle Province, secondo una disciplina non incisa dalle censure di incostituzionalità.

Appare, però, del tutto evidente l’intenzione del rimettente, posta in luce dalla motivazione dello stesso atto di promovimento di censurare la disciplina più recente, recata dal citato art. 8, la quale si incentra sull’obbligo di rendicontazione delle spese e della sospensione delle erogazioni in caso di mancata presentazione del rendiconto; regolamentazione mutuata, con tutta evidenza, dal citato art. 26.

Sicché, lo scrutinio deve riguardare l’art. 8 della legge della Regione Calabria 12 dicembre 2008, n. 40, modificativo dell’art. 26 della legge della Regione Calabria 11 maggio 2007, n. 9, nella parte in cui prevede un obbligo di rendiconto annuale, entro il 15 marzo dell’anno successivo al trasferimento delle risorse (che avviene in due rate semestrali), da parte delle Province; nel caso di mancato rispetto ciò comporta la sanzione della sospensione delle erogazioni in favore dei medesimi enti e, segnatamente, della corresponsione della prima rata semestrale dell’anno successivo.

4.- La questione non è fondata.

Si premette che le funzioni amministrative alle quali si riferisce la norma denunciata, che riguardano taluni specifici settori (segnatamente: sviluppo economico e attività produttive; territorio, ambiente e infrastrutture; servizi alla persona e alla comunità; polizia amministrativa regionale e locale), sono funzioni “conferite” agli enti locali in dichiarata «attuazione del principio di sussidiarietà e degli altri princìpi indicati nell’articolo 118 della Costituzione, nell’articolo 4, comma 3, della legge 15 marzo 1997, n. 59 e negli articoli 3 e seguenti del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267» (art. 1 della legge della Regione Calabria n. 34 del 2002; legge sulla quale è successivamente intervenuta la legge della stessa Regione n. 1 del 2006).

La Regione ha mantenuto, in base all’art. 3 della citata legge regionale n. 34 del 2002, le funzioni di programmazione, di indirizzo, di coordinamento e di controllo e, nell’ambito di queste ultime, secondo quanto prescrive il successivo art. 5, essa «esercita il controllo delle funzioni e dei compiti conferiti agli Enti locali». D’altro canto l’art. 16 della stessa legge regionale del 2002 prevede l’obbligo di trasferimento agli enti locali delle risorse finanziarie, umane, organizzative e strumentali necessarie per l’esercizio delle funzioni e dei compiti ad essi conferiti. In particolare, secondo la disposizione da ultimo richiamata, la «Regione trasferisce annualmente agli Enti locali le risorse finanziarie per il finanziamento delle funzioni conferite, secondo criteri di programmazione che tengano conto delle esigenze di perequazione, della capacità di autofinanziamento dell’ente beneficiario, del fabbisogno di spesa, della predisposizione di strumenti di razionalizzazione delle strutture organizzative e dell’attività gestionale, nonché della promozione dell’esercizio associato di competenze e di sviluppo della relativa progettualità».

In siffatto contesto, gli artt. 19 e 20 della medesima legge regionale in esame stabiliscono, rispettivamente, un reciproco obbligo di informazione tra Regione ed enti locali su dati statistici e ogni altro elemento utile allo svolgimento delle funzioni di rispettiva competenza, nonché l’istituzione di un osservatorio sulla riforma amministrativa, con l’ulteriore previsione di un rapporto annuale della Giunta regionale «sullo stato delle autonomie e una relazione sull’andamento del conferimento delle funzioni e sui suoi riflessi in materia di impiego pubblico, con particolare riferimento alle risorse finanziarie impiegate ed agli esiti della contrattazione in sede decentrata».

Non può, peraltro, sottacersi che già la legge della Regione Calabria 4 febbraio 2002, n. 8 (Ordinamento del bilancio e della contabilità della Regione Calabria), al comma 3 dell’art. 58 – relativamente alle “Entrate e spese degli enti locali per funzioni delegate” – prevedeva: «Al fine di consentire adeguate forme di controllo economico e finanziario sulle attività delegate agli enti locali, la Giunta regionale emana apposite direttive per la predisposizione e presentazione del rendiconto e della relazione di cui al precedente comma 2».

Inoltre, l’art. 65 della medesima legge regionale n. 8 del 2002 rinvia, per «quant’altro attinente la materia della contabilità regionale, non espressamente disciplinato dalla presente legge», alle norme contenute nel decreto legislativo 28 marzo 2000, n. 76 (Princìpi fondamentali e norme di coordinamento in materia di bilancio e di contabilità delle regioni, in attuazione dell’articolo 1, comma 4, della L. 25 giugno 1999, n. 208) e, in quanto applicabili, alle norme di contabilità generale dello Stato. E’, dunque, evidente il rinvio all’art. 12 del citato d.lgs. n. 76 del 2000 che, al comma 3 dispone appunto: «La legge regionale detta norme per assicurare, in relazione alle funzioni delegate dalle regioni agli enti locali, la possibilità del controllo regionale sulla destinazione dei fondi a tale fine assegnati dalle regioni agli enti locali».

Deve, altresì, essere posto in rilievo che la legge della Regione Calabria 19 ottobre 2004, n. 25 (Statuto della Regione Calabria) impone – nel Titolo VI, relativo ai “Rapporti con gli Enti Locali “ – alla Regione (art. 46) di adeguare i princìpi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento (comma 1), tra l’altro informando «la propria attività ai princìpi dell’autonomia, della sussidiarietà, della solidarietà, della adeguatezza, della responsabilità e della differenziazione delle funzioni, in relazione alle caratteristiche dei soggetti istituzionali» (comma 2, lettera a). A sua volta il successivo art. 47 – concernente il “Finanziamento delle funzioni conferite e delegate” – al comma 1 stabilisce: «La Regione trasferisce annualmente agli enti locali una quota delle sue entrate ordinarie, al netto di quelle gravate da vi ncoli esterni di destinazione, per il finanziamento delle funzioni conferite, secondo criteri che tengano conto delle esigenze di perequazione, del fabbisogno di spesa, della predisposizione di strumenti di razionalizzazione delle strutture organizzative e dell’attività gestionale, nonché della promozione dell’esercizio associato di funzioni».

5.- In questo quadro, va anzitutto osservato che, proprio in ragione del conferimento delle funzioni amministrative alle Province in attuazione dell’art. 118 Cost., le leggi regionali, innanzi richiamate, di conferimento delle funzioni alle Province prevedono poteri di coordinamento e controllo da parte della Regione.

Ciò premesso, l’autonomia delle Province non è incisa neppure dal fatto che, sulle funzioni conferite, la Regione possa in ogni caso operare opportunamente un intervento di rimodulazione, sia nell’ipotesi, ovviamente, di materie residuali, sia nell’ipotesi di materie concorrenti, attraverso lo sviluppo dei principi stabiliti dalla legge statale. In questo senso l’intervento regionale disposto dalla norma denunciata nei confronti degli enti locali deve infatti essere letto come svolgimento dei principi statali in materia di coordinamento della finanza pubblica – materia di competenza legislativa concorrente ai sensi del terzo comma dell’art. 117 Cost. (da ultimo, sentenze n. 40 del 2010, n. 284 del 2009 e 237 del 2009, che ribadiscono come il contenimento della spesa pubblica risponda ad esigenze di coordinamento finanziario) – e deve essere considerato strumentale al rispetto del patto di stabilità inte rna, in forza dei vincoli imposti dall’appartenenza all’Unione europea.

Sempre in siffatta ottica, assume rilievo il principio, di cui al d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), richiamato dalla stessa legge regionale n. 34 del 2002, del rendiconto alle Regioni da parte degli enti locali. Tale obbligo di rendiconto, peraltro, viene in rilievo non già come un tipo di controllo gestionale, da parte della Regione, ma di tipo informativo sulle risorse trasferite per l’esercizio delle funzioni conferite. Di qui, l’insussistenza di ogni interferenza di questo tipo di controllo con le scelte di merito delle Province.

La prospettiva dello svolgimento da parte della Regione di princìpi di coordinamento della finanza pubblica dettati dalla legislazione statale trova, peraltro, conforto negli artt. 12 del d.lgs. n. 76 del 2000 e 58 della legge regionale n. 8 del 2002, in precedenza evidenziati.

La richiesta rendicontazione alle Province calabresi opera, dunque, in un quadro di competenze fissato non solo dalle leggi regionali (segnatamente, leggi n. 34 del 2002 e n. 1 del 2006, che confermano in capo alla Regione poteri di coordinamento-controllo in relazione al disposto ed attuato conferimento di funzioni), ma anche dalla legge statale.

6.- Nel descritto contesto, deve, in ogni caso, precisarsi che l’intervento legislativo denunciato non vulnera l’autonomia finanziaria della Provincia in materia di spesa, giacché, come detto, non tocca le scelte di merito su tale profilo – che rimangono intatte, ovviamente in coerenza con le funzioni da esercitare – ma richiede soltanto un flusso informativo sull’avvenuto esercizio del potere di spesa, peraltro escludendovi le voci – di per sé rilevanti – delle spese per il personale trasferito e di funzionamento.

Nella specie, rimane ferma la discrezionalità della provincia nella scelta di destinazione delle risorse finanziarie rispetto all’esercizio della funzione amministrativa conferitale e tale discrezionalità non viene neppure incisa dalla prevista sospensione delle erogazioni in assenza della presentazione del rendiconto, poiché questa cautela si lega soltanto al dato oggettivo dell’omissione, senza toccare, appunto, il merito delle scelte allocative delle risorse medesime. Sicché, non risulta pertinente il richiamo, da parte del rimettente, alla sentenza n. 16 del 2004, di questa Corte, ove si rileva il contrasto con l’art. 119 Cost. di norma sui vincoli di destinazione alle spesa anche degli enti infraregionali.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8 della legge della Regione Calabria 12 dicembre 2008, n. 40 (Ulteriori disposizioni di carattere ordinamentale e finanziario collegate alla manovra di assestamento del bilancio di previsione per l’esercizio finanziario 2008 ai sensi dell’art. 3, comma 4 della legge regionale 4 febbraio 2002, n. 8), modificativo dell’art. 26 della legge della Regione Calabria 11 maggio 2007, n. 9, recante «Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e finanziario (collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2007, art. 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002)», sollevata, in riferimento agli artt. 114, 118 e 119 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per la Calabria – Sezione staccata di Reggio Calabria, con l’ordinanza in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 marzo 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'8 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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ORDINANZA N. 129

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 26 della legge della Regione Calabria 11 maggio 2007, n. 9, recante «Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e finanziario (collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2007, art. 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002)», promosso dal Tribunale amministrativo regionale per la Calabria – Sezione staccata di Reggio Calabria con ordinanza del 21 maggio 2008, iscritta al n. 291 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2008.

Visto l’atto di costituzione della Provincia di Reggio Calabria;

udito nell’udienza pubblica del 9 febbraio 2010 il Giudice relatore Paolo Maddalena;

udito l’avvocato Aristide Police per la Provincia di Reggio Calabria.

Ritenuto che, con ordinanza del 21 maggio 2008, il Tribunale amministrativo regionale per la Calabria – Sezione staccata di Reggio Calabria, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 26 della legge della Regione Calabria 11 maggio 2007, n. 9, recante «Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e finanziario (collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2007, art. 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002)», denunciandone il contrasto con gli artt. 114, 118 e 119 della Costituzione;

che il censurato art. 26 dispone, al comma 1, il trasferimento alle Province, Comuni ed altri enti, all’inizio di ogni trimestre solare, delle risorse finanziarie «per l’esercizio delle funzioni amministrative loro conferite ai sensi della l.r. 12 agosto 2002, n. 34 e della l.r. 11 gennaio 2006, n. 1»;

che la medesima norma prevede, al comma 2, che «Per ciascun esercizio finanziario, le erogazioni successive a quella riferita al primo trimestre sono subordinate alla presentazione, da parte degli enti interessati, del monitoraggio fisico e finanziario con riferimento al trimestre decorso», stabilendo, altresì, la sospensione di dette erogazioni «nel caso di mancata presentazione del rendiconto, riguardante anche un solo capitolo di bilancio, qualora l’ente interessato non abbia dato riscontro al sollecito inoltrato a cura del dirigente della struttura di riferimento o del predetto dipartimento»;

che, inoltre, al comma 5 dello stesso art. 26, si prevede l’obbligo degli enti indicati al precedente comma 1 «di presentare il monitoraggio fisico e finanziario con cadenza trimestrale, nonché il rendiconto delle somme utilizzate alle scadenze stabilite dalla normativa regionale e secondo modalità e termini indicate dalle competenti strutture della Regione»;

che il rimettente, dopo aver richiamato le ricordate norme, premette che il giudizio innanzi a sé pendente riguarda l’impugnazione, da parte della Provincia di Reggio Calabria, della nota prot. n. 2248 del 30 gennaio 2008 del dirigente del Settore organizzazione e personale della Regione Calabria, con la quale viene fornito «riscontro negativo» alla diffida provinciale in data 17 dicembre 2007, con cui è stato intimato alla Regione di erogare «in via diretta ed immediata le risorse finanziarie relative alle funzioni conferite alla provincia stessa in attuazione della legge reg. cal. n. 34/2002»;

che il giudice a quo evidenzia di avere, nella camera di consiglio del 7 maggio 2008, «accolto a termine, ovvero sino alla pronuncia della Corte costituzionale sulla questione oggetto della presente ordinanza, l’istanza cautelare introdotta con il ricorso in esame, ritenendo rilevante e non manifestamente infondata, nei sensi di seguito specificati, la questione di costituzionalità dell’art. 26 della legge reg. cal. n. 9/2007»;

che, quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente osserva che, avuto riguardo agli artt. 114, secondo comma, 118, secondo comma e 119, primo comma, Cost., il riconoscimento costituzionale dell’autonomia delle Province risulterebbe «evidentemente non coerente con l’assoggettamento delle stesse, nell’esplicazione delle funzioni “conferite”, a controllo trimestrale della relativa spesa, con la previsione, oltre tutto, di sospensione necessaria di ogni erogazione nel caso che il rendiconto non venga inviato a seguito di specifica diffida»;

che, secondo il giudice a quo, «le modalità di erogazione dei finanziamenti relativi alle funzioni conferite alle province dalla legge reg. cal. n. 34/2002, contemplate dall’art. 26 della legge reg. cal. n. 9/2007 sono lesive dell’autonomia delle Province medesime, che vengono sottoposte ad una forma di controllo “finanziario” molto penetrante, non compatibile con la posizione loro riconosciuta dalla Costituzione»;

che, a tal riguardo, nell’ordinanza di rimessione si rammenta che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 16 del 2004, avrebbe chiarito «che nei confronti degli enti locali non possono considerarsi costituzionalmente ammissibili interventi finanziari vincolati nella destinazione, per normali attività e compiti di competenza di questi ultimi»; e tali sarebbero, nella specie, «le funzioni conferite con la legge reg. cal. n. 34/2002»;

che, dunque, la disposizione denunciata contrasterebbe con gli artt. 114, secondo comma, 118, secondo comma, e 119, primo comma, Cost., «in quanto prevede modalità di erogazione dei finanziamenti relativi alle funzioni conferite alle province con legge reg. cal. n. 34/2002 non compatibili con l’autonomia di queste ultime, costituzionalmente riconosciuta e tutelata»;

che si è costituita in giudizio la Provincia di Reggio Calabria, in persona del Presidente pro tempore, la quale ha concluso nel senso della incostituzionalità della norma denunciata, ribadendo argomentatamente le proprie ragioni con memoria successivamente depositata.

Considerato che è stato sottoposto allo scrutinio di questa Corte l’art. 26 della legge della Regione Calabria 11 maggio 2007, n. 9 (Provvedimento generale recante norme di tipo ordinamentale e finanziario – collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2007, art. 3, comma 4, della legge regionale n. 8/2002);

che la norma censurata – nello stabilire, in sintesi, un obbligo di rendiconto trimestrale da parte delle Province, che nel caso di mancato rispetto comporta, previa diffida, la sanzione della sospensione delle erogazioni in favore dei medesimi enti – violerebbe, ad avviso del giudice a quo, gli artt. 114, 118 e 119 Cost., «in quanto prevede modalità di erogazione dei finanziamenti relativi alle funzioni conferite alle province con legge reg. cal. n. 34/2002 non compatibili con l’autonomia di queste ultime, costituzionalmente riconosciuta e tutelata»;

che, successivamente alla pubblicazione, in data 21 maggio 2008, dell’ordinanza di rimessione, il denunciato art. 26 della legge regionale n. 9 del 2007 è stato interessato da più interventi di modifica;

che, dapprima, l’art. 25, commi 6 e 7, della legge della Regione Calabria 13 giugno 2008, n. 15, recante «Provvedimento generale di tipo ordinamentale e finanziario (collegato alla manovra di finanza regionale per l’anno 2008 ai sensi dell’art. 3, comma 4, della legge regionale 4 febbraio 2002, n. 8)», ha mutato da trimestrale in semestrale il termine entro il quale la Provincia è tenuta a provvedere alla comunicazione del monitoraggio e del rendiconto;

che, in seguito, è intervenuto l’art. 8 della legge della Regione Calabria 12 dicembre 2008, n. 40 (Ulteriori disposizioni di carattere ordinamentale e finanziario collegate alla manovra di assestamento del bilancio di previsione per l’esercizio finanziario 2008 ai sensi dell’art. 3, comma 4 della legge regionale 4 febbraio 2002, n. 8);

che detto art. 8 ha sostituito il comma 1 del censurato art. 26, diversamente modulando il trasferimento delle risorse finanziarie alle Province per l’esercizio delle funzioni amministrative conferite, abrogando, al contempo, i restanti commi (da 2 a 5) del medesimo art. 26 e dettando esso stesso una disciplina sull’obbligo di rendiconto da parte delle Province, in base alla quale, tra l’altro, tale obbligo diviene annuale – comportando, in caso di omissione, la sospensione della corresponsione della prima rata semestrale dell’anno successivo – senza, però, riguardare «le spese per il personale trasferito e per le spese di funzionamento»;

che, pertanto, alla luce delle evidenziate sopravvenienze normative si impone la restituzione degli atti al giudice rimettente, per una rinnovata valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza della sollevata questione (ex plurimis, ordinanze n. 38 del 2010, n. 43 e n. 26 del 2009).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

ordina la restituzione degli atti al Tribunale amministrativo regionale della Calabria – Sezione staccata di Reggio Calabria.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 marzo 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'8 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedente

ORDINANZA N. 130

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della deliberazione del Senato della Repubblica del 22 luglio 2009 (Doc. IV-ter, n. 11), relativa alla insindacabilità, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione, delle opinioni espresse dal senatore Francesco Storace nei confronti del dott. Henry John Woodcock, promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma con ricorso depositato in cancelleria il 24 novembre 2009 ed iscritto al n. 12 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2009, fase di ammissibilità.

Udito nella camera di consiglio del 10 febbraio 2010 il Giudice relatore Paolo Maddalena.

Ritenuto che, con ricorso depositato il 24 novembre 2009, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma ha proposto conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Senato della Repubblica per sentir dichiarare, da questa Corte, che non spetta al Senato medesimo affermare che i fatti per cui è in corso procedimento penale dinanzi ad esso G.U.P., a carico del senatore Francesco Storace, concernono opinioni espresse nell’esercizio delle sue funzioni, ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione; e, conseguentemente, per vedere annullata la relativa deliberazione adottata nella seduta del 22 luglio 2009 (Doc. IV-ter, n. 11);

che il ricorrente espone che il procedimento penale ha avuto origine dalla querela sporta dal magistrato Henry John Woodcock, sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Potenza, per il reato di diffamazione a mezzo stampa, in riferimento ad una intervista rilasciata da Francesco Storace, senatore all’epoca dei fatti, e pubblicata sul quotidiano “La Repubblica” in data 19 giugno 2006, dal titolo «Gossip e vendetta contro di noi»;

che tale intervista – si soggiunge nel ricorso – «si inseriva nel contesto del grande clamore suscitato dalla divulgazione delle risultanze di una indagine penale», condotta dall’anzidetto magistrato, «che aveva coinvolto Vittorio Emanuele di Savoia e che aveva poi determinato la trasmissione degli atti alla Procura di Roma per competenza in relazione alle indagini che interessavano a vario titolo alcuni esponenti del partito di Alleanza Nazionale»;

che l’imputazione nei confronti dell’allora senatore Storace era, dunque, del delitto di diffamazione aggravata commessa con il mezzo della stampa per aver offeso, con attribuzione di fatti determinati, la reputazione dell’anzidetto magistrato, «mettendo in dubbio […] la correttezza, l’imparzialità e la serenità di giudizio del medesimo»;

che il giudice confliggente evidenzia, ancora, che, a seguito di eccezione avanzata dalla difesa dell’imputato ex art. 3 della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’articolo 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), non ravvisando l’esistenza di un nesso funzionale tra le dichiarazioni oggetto di imputazione e l’esercizio del mandato parlamentare, trasmetteva gli atti del procedimento penale, previa sospensione dello stesso, al Senato della Repubblica;

che, nella seduta del 22 luglio 2009, l’Assemblea del Senato, approvando la proposta della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari, deliberava l’insindacabilità, ai sensi dell’art. 68, primo comma, Cost., delle dichiarazioni rese da Francesco Storace, senatore all’epoca dei fatti, nel corso della anzidetta intervista;

che il ricorrente pone in rilievo che la Giunta, nella sua relazione, auspica un mutamento della giurisprudenza costituzionale in materia di insindacabilità parlamentare, tale da valorizzare il c.d. “contesto politico-parlamentare” in cui il fatto oggetto di incriminazione si colloca e, nella specie, la circostanza che la «inchiesta cosiddetta gossip investì pesantemente l’intero panorama politico italiano»; di qui, secondo la medesima Giunta, la sussistenza del nesso funzionale tra le dichiarazioni extra moenia rese dal senatore Storace «sul fatto politico del giorno» e la sua funzione di parlamentare;

che, ad avviso del ricorrente, non risulterebbe, invece, «che alcun dibattito in sede parlamentare si sia svolto in relazione alla indagine in questione e né che siano state discusse mozioni o altre iniziative parlamentari sempre con riferimento a tale vicenda», non essendo sufficiente «il clamore suscitato dalla inchiesta giudiziaria» a far assimilare le opinioni espresse da un parlamentare sul c.d. “fatto politico del giorno” alle opinioni espresse «nell’esercizio delle sue funzioni istituzionali»;

che, pertanto, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma sostiene che «le opinioni espresse dall’allora senatore Storace attengano unicamente alla sua veste di uomo politico e non anche all’esercizio delle sue funzioni di senatore, inquadrandosi perfettamente nella linea di difesa del partito politico di appartenenza, che si assume nello specifico ingiustamente aggredito da una inchiesta giudiziaria asseritamente mossa da finalità ed obiettivi politici, ma senza che rispetto a tali opinioni esista la benché minima correlazione con l’esercizio delle funzioni parlamentari»;

che, dunque, in assenza di atti tipici del parlamentare su cui poter fondare, nella specie, l’esistenza di un collegamento tra le dichiarazioni extra moenia e la funzione parlamentare, il ricorrente denuncia «la menomazione della propria sfera di attribuzione, costituzionalmente garantita, in conseguenza dell’adozione, da parte del Senato della indicata deliberazione».

Considerato che, in questa fase del giudizio, la Corte è chiamata, a norma dell’art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, a deliberare, senza contraddittorio, se il ricorso sia ammissibile in quanto vi sia la «materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza», sussistendone i requisiti soggettivo ed oggettivo e restando impregiudicata ogni ulteriore questione, anche in punto di ammissibilità;

che, sotto il profilo del requisito soggettivo, va riconosciuta la legittimazione del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma a sollevare conflitto, in quanto organo giurisdizionale, in posizione di indipendenza costituzionalmente garantita, competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere cui appartiene nell’esercizio delle funzioni attribuitegli;

che, parimenti, deve essere riconosciuta la legittimazione del Senato della Repubblica ad essere parte del presente conflitto, quale organo competente a dichiarare in modo definitivo la propria volontà in ordine all’applicabilità dell’art. 68, primo comma, della Costituzione;

che, per quanto attiene al profilo oggettivo, il giudice ricorrente lamenta la lesione della propria sfera di attribuzione, costituzionalmente garantita, in conseguenza di un esercizio ritenuto illegittimo, per inesistenza dei relativi presupposti, del potere spettante al Senato della Repubblica di dichiarare l’insindacabilità delle opinioni espresse dai membri di quel ramo del Parlamento ai sensi dell’art. 68, primo comma, della Costituzione;

che, dunque, esiste la materia di un conflitto la cui risoluzione spetta alla competenza di questa Corte.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara ammissibile, ai sensi dell’art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87, il conflitto di attribuzione proposto dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma nei confronti del Senato della Repubblica con il ricorso indicato in epigrafe;

dispone:

a) che la cancelleria della Corte costituzionale dia immediata comunicazione della presente ordinanza al ricorrente Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma;

b) che il ricorso e la presente ordinanza siano, a cura del ricorrente, notificati al Senato della Repubblica, in persona del suo Presidente, entro il termine di sessanta giorni dalla comunicazione di cui al punto a), per essere successivamente depositati, con la prova dell’avvenuta notifica, presso la cancelleria della Corte entro il termine di trenta giorni previsto dall’art. 24, comma 3, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 24 marzo 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo MADDALENA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria l'8 aprile 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA