Ultime pronunce pubblicate deposito del 10/06/2010
 
198/2010 pres. AMIRANTE, red. FINOCCHIARO   visualizza pronuncia 198/2010
199/2010 pres. AMIRANTE, red. SAULLE   visualizza pronuncia 199/2010
200/2010 pres. AMIRANTE, red. GROSSI   visualizza pronuncia 200/2010
201/2010 pres. AMIRANTE, red. GALLO   visualizza pronuncia 201/2010
202/2010 pres. AMIRANTE, red. GROSSI   visualizza pronuncia 202/2010
203/2010 pres. AMIRANTE, red. SAULLE   visualizza pronuncia 203/2010
204/2010 pres. AMIRANTE, red. DE SIERVO   visualizza pronuncia 204/2010
205/2010 pres. AMIRANTE, red. FRIGO   visualizza pronuncia 205/2010
206/2010 pres. AMIRANTE, red. TESAURO   visualizza pronuncia 206/2010
207/2010 pres. AMIRANTE, red. NAPOLITANO   visualizza pronuncia 207/2010
208/2010 pres. AMIRANTE, red. NAPOLITANO   visualizza pronuncia 208/2010

 
 

Deposito del 10/06/2010 (dalla 198 alla 208)

 
S.198/2010 del 07/06/2010
Camera di Consiglio del 14/04/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Art. 66 del decreto del Presidente della Repubblica 26/04/1986, n. 131.

Oggetto: Fallimento e procedure concorsuali - Oneri fiscali - Ricorso al presidente del tribunale avverso il rifiuto del cancelliere di rilasciare, in difetto della preventiva registrazione, copia del verbale di conciliazione che ha definito il giudizio di opposizione allo stato passivo fallimentare promosso dall'istante - Dedotta illegittimità dell'avviso di liquidazione dell'imposta di registro dovuta, in relazione al suddetto verbale, dal ricorrente, che ha adito il giudice tributario - Divieto per i cancellieri e per i segretari degli organi giurisdizionali di rilasciare originali, copie ed estratti degli atti soggetti a registrazione in termine fisso, da loro formati o autenticati, se non dopo la registrazione e il relativo pagamento dell'imposta - Omessa previsione che possa essere rilasciata copia dell'atto conclusivo (sentenza o verbale di conciliazione) della causa di opposizione allo stato passivo fallimentare, ai fini della variazione di quest'ultimo, prima del pagamento dell'imposta di registro.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ord. 241/2009
S.199/2010 del 07/06/2010
Udienza Pubblica del 27/04 /2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SAULLE


Norme impugnate: Artt. 3 c. 4°, 4, 6, c. 1°, lett. c) e 8, c. 5°, della legge della Regione Calabria 30/04/2009, n. 15.

Oggetto: Pesca - Turismo - Norme della Regione Calabria - Esercizio delle attività di pesca turismo e ittiturismo - Disciplina di semplificazione dei relativi procedimenti autorizzatori - Estensione alle imprese di acquacoltura - Contrasto con il codice dell'ambiente che per l'attività di piscicoltura prevede procedure di valutazione di impatto ambientale - Lamentata carenza di una norma di salvaguardia in materia di valutazione di impatto ambientale;
Pesca - Turismo - Professioni - Norme della Regione Calabria - Esercizio delle attività di pesca turismo e ittiturismo - Prevista subordinazione dell'esercizio delle attività medesime alla iscrizione in appositi elenchi regionali, previa acquisizione di un attestato di frequenza con esito positivo di corsi formativi organ izzati dalla Regione - Contrasto con il principio fondamentale per cui spetta allo Stato l'individuazione dei titoli necessari per l'esercizio delle attività professionali e l'istituzione di albi ed elenchi, lamentata introduzione di limitazioni al libero svolgimento delle attività medesime.

Dispositivo: cessata materia del contendere
Atti decisi: ric. 48/2009
S.200/2010 del 07/06/2010
Udienza Pubblica del 28/04/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore GROSSI


Norme impugnate: Art. 8, c. 3°, della legge della Regione Basilicata 07/08/2009, n. 25.

Oggetto: Edilizia e urbanistica - Norme della Regione Basilicata - Obblighi a carico dei proprietari privati nell'intrapresa di nuove iniziative edilizie - Istituzione di un fascicolo di fabbricato, da redigere secondo uno schema tipo definito con apposito regolamento - Lamentata imposizione a privati di compiti propri della pubblica amministrazione, contraddittorietà rispetto ai fini, intervento in ambito riservato alla legge statale.

Dispositivo: inammissibilità
Atti decisi: ric. 89/2009
S.201/2010 del 07/06/2010
Udienza Pubblica del 11/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore GALLO


Norme impugnate: Artt. 8, c. 1°, lett. f), 10, c. 1°, lett. a) e b), nn. 1 e 2, 11, c. 1°, lett. b) ed f), 12, c. 1°, lett. b) e c), 19 e 27, c. 7°, della legge 05/05/2009, n. 42.

< em>Oggetto: Imposte e tasse - Finanza regionale - Delega al Governo in materia di federalismo fiscale - Prevista soppressione generalizzata dei trasferimenti statali diretti al finanziamento delle funzioni esercitate - Previsto aumento di tributi propri delle regioni a fronte della riduzione delle aliquote dell'imposizione fiscale statale - Prevista aliquota di compartecipazione regionale all'IVA o all'IRPEF - Lamentata interferenza sull'impianto dello statuto siciliano e sulle risorse sinora attribuite alla Sicilia, comportante notevole contrazione dei mezzi finanziari già a disposizione;

Sistema di finanziamento degli enti locali - Prevista compartecipazione al gettito di tributi erariali e regionali - Previsto finanziamento derivante dall'imposizione immobiliare e dal gettito derivante dai tributi il cui presupposto è connesso al trasporto su gomma e dalla compartecipazione ad un tributo erariale - Lamentata interferenza sull'impianto dello statuto siciliano e sulle risorse sinora attribuite alla Sicili a, per finanziamento degli enti locali non con risorse statali ma con quelle già spettanti alla Regione;

Principi e criteri direttivi finalizzati all'attribuzione alle Regioni e agli enti locali di un proprio patrimonio - Prevista determinazione da parte dello Stato di apposite liste che individuino nell'ambito delle distinte tipologie i singoli beni da attribuire, nonché attribuzione dei beni immobili sulla base del criterio di territorialità - Lamentato contrasto con lo statuto siciliano che attribuisce alla Regione tutti i beni, demaniali e patrimoniali, dello Stato, con eccezione di quelli riguardanti la difesa o servizi di carattere nazionale;

Prevista istituzione di un tavolo di confronto tra il Governo e ciascuna regione o provincia dotate di particolare autonomia, nell'ambito della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome - Lamentata interferenza con la Commissione paritetica prevista dallo statuto siciliano.

Dispositivo: non fondatezza - inammissibilità
Atti decisi: ric. 47/2009
O.202/2010 del 07/06/2010
Udienza Pubblica del 28/04/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore GROSSI


Norme impugnate: Artt. 3, c. 5°, lett. b), 4, c. 4°, lett. b) e 20 della legge della Regione Lazio 11/08/2009, n. 21.

Oggetto: Edilizia e urbanistica - Norme della Regione Lazio - Edilizia privata, edilizia residenziale pubblica, edilizia agevolata-convenzionata - Intrapresa di nuove iniziative edilizie e di interventi di ampliamento, demolizione e ricostruzione degli edifici - Obbligo di istituzione del fascicolo del fabbricat o - Lamentata contraddittorietà rispetto alle finalità d i incentivazione dell'edilizia, aggravio dei costi, accollo a privati di funzioni di vigilanza spettanti all'amministrazione, incidenza su materie e ambiti riservati alla fonte statale.

Dispositivo: estinzione del processo
Atti decisi: ric. 100/2009
O.203/2010 del 07/06/2010
Camera di Consiglio del 12/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SAULLE


Norme impugnate: Art. 131 del decreto del Presidente della Repubblica 30/05/2002, n. 115.

Oggetto: Patrocinio a spese dello Stato - Procedimento civile - Onorari dovuti all'ausiliario del giudice (in specie, esperto in mediazione tra coniugi) - Previsione legislativa che gli o norari dovuti all'ausiliario del magistrato siano prenotati a debito, a domanda, se non è possibile la ripetizione dalla parte a carico della quale sono poste le spese processuali, o dalla stessa parte ammessa, per vittoria della causa o per revoca dell'ammissione - Omessa inclusione dei detti onorari nel novero delle spese anticipate dall'erario.

Dispositivo: manifesta infondatezza
Atti decisi: ord. 1/2010
O.204/2010 del 07/06/2010
Udienza Pubblica del 25/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore DE SIERVO


Norme impugnate: Artt. 1 e 2 del decreto legge 05/03/2010, n. 29.

Oggetto: Elezioni - Elezione dei Consigli regionali delle Regioni a statuto ordinario - Procedimento elettorale - Interpretazione autentica dell'art. 9, commi 1 e 3, e dell'art. 10, comma 5, della legge 17 febbraio 1968, n. 108 - Presentazione delle liste alla cancelleria del tribunale - Rispetto del termine orario - Condizione di assolvimento - Presenza nei locali del Tribunale, entro il termine di legge, dei delegati incaricati della presentazione delle liste, muniti della prescritta documentazione, comprovabile con ogni mezzo idoneo - Regolarità della autenticazione delle firme - Sufficienza che i dati richiesti dall'art. 21, comma 2, ultima parte, del d.P.R. n. 445/2000, siano comunque desumibili in modo univoco da altri elementi presenti nella documentazione prodotta - Esclusione che la regolarità medesima possa essere inficiata dalla presenza di una irregolarità meramente formale quale la mancanza o la non leggibilità del timbro della autorità autenticante, dell'indicazione del luogo di autenticazione, dell'indicazione della qualificazione del l'autorità autenticante, purché autorizzata - Decisioni di ammissione e di eliminazione di liste di candidati o di singoli candidati da parte dell'Ufficio centrale regionale - Regime delle impugnative - Individuazione dei soggetti legittimati a ricorrere - Applicazione alle operazioni e ad ogni altra attività relative alle elezioni regionali in corso - Possibilità per i delegati incaricati della presentazione delle liste, che si siano trovati nelle condizioni descritte dal comma 1 dell'art. 1 del decreto impugnato, di presentare le liste dalle ore otto alle ore venti del primo giorno non festivo successivo a quello di entrata in vigore del decreto medesimo ? Consultazioni per il rinnovo degli organi delle Regioni a statuto ordinario fissate per il 28 e 29 marzo 2010 - Prevista affissione del manifesto recante le liste e le candidature ammesse, a cura dei sindaci, non oltre il sesto giorno antecedente la data della votazione - Ritenuta esorbitanz a del legislatore statale dalla potestà di stabilire i principi fondamentali nella materia concorrente della elezione dei Consigli regionali, ed interferenza nella correlata potestà regionale con l'adozione di norme di dettaglio, innovative, fittiziamente interpretative, eccezionali e derogatorie - Lamentata interferenza con le elezioni regionali già indette, contrasto con la normativa regionale, alterazione della par condicio tra le diverse liste in conseguenza della riammissione della lista del PDL nel collegio elettorale della Provincia di Roma.

Elezioni - Elezione dei Consigli regionali delle Regioni a statuto ordinario -Procedimento elettorale - Interpretazione autentica dell'art. 9, comma 1 e 3, e art. 10, comma 5, della legge 17 febbraio 1968, n. 108 - Presentazione delle liste alla cancelleria del tribunale - Rispetto del termine orario - Condizione di assolvimento - Presenza nei locali del Tribunale, entro il termine di legge, dei delegati incaricati della presentazione delle liste, muniti della prescritt a documentazione, comprovabile con ogni mezzo idoneo - Regolarità della autenticazione delle firme - Sufficienza che i dati richiesti dall'art. 21, comma 2, ultima parte, del d.P.R. n. 445/2000, siano comunque desumibili in modo univoco da altri elementi presenti nella documentazione prodotta - Esclusione che la regolarità medesima possa essere inficiata dalla presenza di una irregolarità meramente formale quale la mancanza o la non leggibilità del timbro della autorità autenticante, dell'indicazione del luogo di autenticazione, dell'indicazione della qualificazione dell'autorità autenticante, purché autorizzata - Decisioni di ammissione e di eliminazione di liste di candidati o di singoli candidati da parte dell'Ufficio centrale regionale - Regime delle impugnative - Individuazione dei soggetti legittimati a ricorrere - Applicazione alle operazioni e ad ogni altra attività relative alle elezioni regionali in corso - P ossibilità per i delegati incaricati della presentazione delle liste, che si siano trovati nelle condizioni descritte dal comma 1 dell'art. 1 del decreto, di presentare le liste dalle ore otto alle ore venti del primo giorno non festivo successivo a quello di entrata in vigore del decreto medesimo - Consultazioni per il rinnovo degli organi delle Regioni a statuto ordinario fissate per il 28 e 29 marzo 2010 - Affissione del manifesto recante le liste e le candidature ammesse, a cura dei sindaci, non oltre il sesto giorno antecedente la data della votazione - Ritenuta esorbitanza del legislatore statale dalla potestà di stabilire i principi fondamentali nella materia concorrente della elezione dei Consigli regionali, ed interferenza nella correlata potestà regionale con l'adozione di norme di dettaglio, innovative, interpretative - Lamentata mancanza di un'espressa "clausola di cedevolezza" di rispetto della divergente normativa regionale, mancanza di coordinamento con le Regioni, uso improprio e irragionevole della decret azione d'urgenza, irragionevole interferenza con le elezioni regionali già indette.

Elezioni - Elezione dei Consigli regionali delle Regioni a statuto ordinario - Procedimento elettorale - Interpretazione autentica degli artt. 9 e 10 della legge 17 febbraio 1968, n. 108 - Disposizioni sui termini per la presentazione delle liste, sull'autenticazione delle firme, sulle decisioni dell'Ufficio centrale regionale, nonché disposizioni per i procedimenti elettorali in corso - Ritenuta inapplicabilità delle predette disposizioni nella Regione Toscana che ha adottato una propria legge elettorale - In subordine, lamentata natura autoapplicativa, puntuale e di dettaglio delle norme impugnate e conseguente lesione della potestà legislativa concorrente della Regione in materia di procedimento elettorale regionale, irragionevole sanatoria.


Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi:</ strong> ric. 43, 45 e 52/2010
O.205/2010 del 07/06/2010
Camera di Consiglio del 26/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore FRIGO


Norme impugnate: Art. 525, c. 2°, del codice di procedura penale.

Oggetto: Processo penale - Dibattimento - Deliberazione - Previsione che alla deliberazione concorrano, a pena di nullità assoluta, gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento.

Dispositivo: manifesta infondatezza
Atti decisi: ord. 279/2009
O.206/2010 del 07/06/2010
Camera di Consiglio del 26/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore TESAURO


Norme impugnate: Art. 2, c. 3°, lett. c), della legge della Regione Calabria 05/11/2009, n. 40.

Oggetto: Miniere, cave e torbiere - Ambiente - Norme della Regione Calabria - Disciplina regionale delle attività estrattive - Materiali e sostanze provenienti da riutilizzazioni dei materiali lapidei di demolizione o di risulta di lavori edili e stradali - Inclusione nella categoria delle cave anziché in quella dei rifiuti - Lamentata sottrazione al regime dei rifiuti, contrasto con la normativa nazionale e comunitaria sui rifiuti.

Dispositivo: estinzione del processo
Atti decisi: ric. 2/2010
S.207/2010 del 07/06/2010
Udienza Pubblica del 28/04/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore NAPOLITANO


Norme impugnate: Decreto legge 01/07/2009 n. 78, convertito con modificazioni in legge 03/08/2009, n. 102; discussione limitata all'art. 17, c. 23°, lett. e), che aggiunge i c. 5° bis e 5° ter all'art. 71 del decreto legge 25/06/2008, n. 112, convertito con modificazioni in legge 06/08/2008, n. 133.

Oggetto: Bilancio e contabilità pubblica - Sanità pubblica - Impiego pubblico - Dipendenti assenti dal servizio per malattia - Accertamenti medico-legali - Compito istituzionale del Servizio sanitario nazionale, con oneri a carico delle aziende sanitarie locali - Reperimento, a decorrere dal 2010, di una quota di finanziamento nell'ambito delle risorse ordinarie destinate al Servizio sanitario nazionale, da ripartirsi fra le Regioni tenendo conto del numero dei dipendenti pubblici presenti nei ri spettivi territori - Lamentata incidenza sulla organizzazione funzionale e sulle competenze contabili e finanziarie delle aziende sanitarie, anziché sulle amministrazioni pubbliche fruitrici delle prestazioni medico-legali.

Dispositivo: illegittimità costituzionale
Atti decisi: ric. 84/2009
S.208/2010 del 07/06/2010
Udienza Pubblica del 28/04/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore NAPOLITANO


Norme impugnate: Art. 17, c. 23°, lett. e), del decreto legge 01/07/2009, n. 78, convertito con modificazioni in legge 03/08/2009, n. 102, che modifica l'art. 71 del decreto legge 25/06/2008, n. 112, convertito con modificazioni in legge 06/08/2008, n. 133.
Oggetto: Bilancio e contabilità pubblica - Sanità pubblica - Impiego pubblico - Dipendenti assenti dal servizio per malattia - Accertamenti medico-legali - Compito istituzionale del Servizio sanitario nazionale, con oneri a carico delle aziende sanitarie locali - Reperimento, a decorrere dal 2010, di una quota di finanziamento nell'ambito delle risorse ordinarie destinate al Servizio sanitario nazionale, da ripartirsi fra le Regioni tenendo conto del numero dei dipendenti pubblici presenti nei rispettivi territori - Lamentata incidenza sulla organizzazione funzionale e sulle competenze contabili e finanziarie delle aziende sanitarie anziché sulle amministrazioni pubbliche fruitrici delle prestazioni medico-legali, o, in subordine, lamentata natura di normativa di dettaglio riservata alle Regioni.

Dispositivo: inammissibilità
Atti decisi: ric. 74/2009

pronuncia successiva

SENTENZA N. 198

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 66 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986 n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), promosso dal Giudice delegato del Tribunale ordinario di Trani, nel procedimento vertente tra la Factorit s.p.a. e il cancelliere del Tribunale ordinario di Trani, con ordinanza del 15 aprile 2009, iscritta al n. 241 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 14 aprile 2010 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro.

Ritenuto in fatto

1. – Il giudice delegato del Tribunale ordinario di Trani, nel corso del procedimento camerale promosso con ricorso, ai sensi dell’art. 745 del codice di procedura civile, dalla società Factorit s.p.a. avverso il rifiuto del cancelliere del Tribunale – motivato, ai sensi dell’articolo 66, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), dal mancato versamento dell’imposta di registro sull’atto – di rilasciare copia autentica del verbale di conciliazione, con il quale era stato definito un giudizio di opposizione allo stato passivo ai sensi dell’art. 98 del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), testo originario, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 24 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dello stesso art. 66 del d.P.R. n. 131 del 1986 – rectius: art. 66, comma 2, dello stesso d.P.R. – nella parte in cui non consente il rilascio di copia dell’atto conclusivo (sentenza o verbale di conciliazione) della causa di opposizione allo stato passivo fallimentare, ai fini della variazione di quest’ultimo, prima del pagamento dell’imposta di registro.

Il rimettente premette che, con avviso di liquidazione e contestuale irrogazione di sanzione, l’Agenzia delle entrate di Trani aveva liquidato l’imposta di registro relativa al verbale di detta conciliazione di € 83.994,72, calcolandola in misura proporzionale anziché fissa, e che per tale ragione la Factorit s.p.a. aveva proposto ricorso alla Commissione tributaria provinciale di Bari, invocando l’errata applicazione dell’art. 40 del d.P.R. n. 131 del 1986. In pendenza di detto giudizio tributario, e, quindi, nelle more della registrazione dell’atto e del pagamento dell’imposta, la Factorit s.p.a. aveva chiesto alla cancelleria del Tribunale di Trani il rilascio di copia autentica del verbale di conciliazione onde poter procedere al deposito della stessa presso l’Ufficio fallimentare ai fini della variazione dello stato passivo. A seguito del rifiuto del cancelliere, la Factorit s.p.a. aveva promosso il gi udizio nel corso del quale è stata sollevata la questione di legittimità costituzionale.

Il giudice a quo osserva che l’art. 66 del citato d.P.R., al comma 1, stabilisce il divieto per cancellieri e segretari degli organi giurisdizionali di rilasciare originali, copie ed estratti degli atti soggetti a registrazione in termine fisso, da essi formati o autenticati, se non dopo la registrazione degli stessi, con relativo pagamento dell’imposta, prevedendo, al secondo comma, tassative eccezioni al divieto di rilascio di copia di atti, nelle more della registrazione. A tali deroghe, previste dal legislatore, si è aggiunta quella introdotta dalla sentenza della Corte costituzionale n. 522 del 2002, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma nella parte in cui non ammette la possibilità del rilascio dell’originale o della copia della sentenza o di altro provvedimento giurisdizionale che debba essere utilizzato per procedere alla esecuzione forzata, anche prima della registrazione.

Secondo il rimettente, le ragioni poste a base della decisione della Corte sarebbero invocabili anche nella fattispecie in esame. Infatti, il giudizio di opposizione allo stato passivo di cui all’art. 98 del r.d. n. 267 del 1942, testo originario, si conclude con una sentenza che, qualora passata in giudicato, accerta definitivamente il credito e costituisce titolo per la c.d. variazione dello stato passivo fallimentare, adempimento rimesso alla cancelleria ad impulso di parte.

Non dissimile dal caso esaminato sarebbe la definizione, avvenuta nel caso di specie, del giudizio con verbale di conciliazione giudiziale che ha accertato definitivamente il credito da ammettere al passivo.

Anche in tale ipotesi, la variazione dello stato passivo costituirebbe il momento di raccordo tra il giudizio di opposizione, ormai concluso, ed il procedimento concorsuale in corso, raccordo che consente al creditore di ottenere effettiva tutela del diritto di credito accertato, attraverso la partecipazione ai riparti predisposti dagli organi fallimentari. Sicché, pur in assenza di una condanna nei confronti della curatela fallimentare, non potrebbe negarsi che l’effettiva attuazione giurisdizionale del diritto vantato dal creditore concorsuale si concretizza con l’inserimento del credito nello stato passivo. Anzi, tale iter procedimentale, in pendenza del fallimento, rappresenterebbe l’unica forma di tutela del creditore concorsuale, non potendo costui far valere il suo diritto al di fuori del concorso dei creditori, ai sensi degli artt. 51 e 52 legge fall.

Pertanto, condizionare il rilascio della copia del verbale di conciliazione all’effettivo pagamento dell’imposta di registro equivarrebbe ad impedire l’attuazione del diritto di credito accertato giurisdizionalmente, tanto più là dove, come nella specie, penda contenzioso proprio in ordine alla legittimità della pretesa tributaria sul quantum debeatur e il tributo richiesto abbia anche consistenza notevole. Verrebbero così violati sia l’art. 24 della Costituzione, che assicura la possibilità non solo astratta e teorica di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti, sia l’art. 3 della Costituzione, per l’ingiustificata irragionevole differenza di trattamento a seconda che il debitore da aggredire esecutivamente sia fallito ovvero in bonis, poiché solo nel secondo caso, giusta il tenore dell’art. 66 del d.P.R. n. 131 del 1986 a seguito della sentenza di questa Corte n. 522 del 2002, il creditore potrebbe, in pendenza di registrazione, ottenere subito la copia dell’atto indispensabile alla realizzazione del diritto accertato giudizialmente, promuovendo l’esecuzione forzata.

In punto di rilevanza della questione, il rimettente, ribadita la natura giurisdizionale del procedimento camerale regolato dall’art. 745 cod. proc. civ., già affermata da questa Corte, sottolinea che, nella specie, l’esito del procedimento a quo è condizionato da quello della questione sollevata, non potendosi, neanche in via di interpretazione, ricondurre la soluzione del problema all’applicazione di taluna delle deroghe previste dal secondo comma del citato art. 66.

2. – Nel giudizio innanzi alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, con il patrocinio dell’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per la infondatezza della questione.

Premette l’Autorità intervenuta che i principi espressi da questa Corte con la richiamata sentenza n. 522 del 2002 si riferiscono a fattispecie diversa da quella dalla quale trae origine la questione di costituzionalità in esame, trattandosi in quel caso, a differenza che in questo, di instaurare una procedura esecutiva, in relazione alla quale è stato ritenuto prevalente l’interesse alla difesa del soggetto esecutante su quello dello Stato alla riscossione dell’imposta.

Ciò posto, l’Avvocatura rileva che la disposizione censurata deve essere coordinata con l’art. 65 del d.P.R. n. 131 del 1986, finalizzato ad evitare che le parti omettano la registrazione degli atti che sono soggetti a tale obbligo in un termine fisso. Al fine di valutare la conformità a Costituzione della norma censurata, dovrebbe, quindi, verificarsi la prevalenza o meno dell’interesse dello Stato alla riscossione dei tributi rispetto al contrapposto interesse privato a far valere determinati diritti parimenti tutelati dalla Costituzione.

Al riguardo, l’Avvocatura ricorda che la citata sentenza n. 522 del 2002 ha sottolineato che l’interesse alla riscossione dei tributi è posto dall’art. 53 Cost. sullo stesso piano di ogni diritto individuale. La costituzionalizzazione dell’interesse alla riscossione dei tributi potrebbe, dunque, giustificare i divieti di cui all’art. 66 censurato. Del resto – conclude l’Autorità intervenuta – lo stesso legislatore, là dove non ha ritenuto prevalente l’interesse alla riscossione delle imposte, ha individuato, nell’esercizio della sua discrezionalità, le eccezioni al principio del divieto di rilascio di documenti relativi ad atti non registrati (art. 66, comma 2, del d.P.R. n. 131 del 1986).

Considerato in diritto

1. – Il giudice delegato del Tribunale ordinario di Trani dubita della legittimità costituzionale dell’art. 66 del d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro) – rectius: art. 66, comma 2, dello stesso d.P.R. – nella parte in cui non consente il rilascio di copia dell’atto conclusivo (sentenza o verbale di conciliazione) della causa di opposizione allo stato passivo fallimentare, ai fini della variazione di quest’ultimo, prima del pagamento dell’imposta di registro, per violazione dell’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo della ingiustificata disparità di trattamento di situazioni analoghe, in funzione della circostanza che il debitore da aggredire sia fallito ovvero in bonis, poiché solo nel secondo caso il creditore potrebbe, in pendenza della registrazione, ottenere subito la copia dell’atto, indispensabile alla realizzazione del diritto accertato giudizialmente, promuovendo l’azione forzata; nonché per violazione dell’art. 24 della Costituzione, per l’impedimento all’attuazione del diritto di credito accertato giurisdizionalmente.

2. – La questione è fondata.

2.1. – L’art. 66, comma 1, del d.P.R. n. 131 del 1986 stabilisce che «i soggetti indicati nell’art. 10, lettere b) e c), possono rilasciare originali, copie ed estratti degli atti soggetti a registrazione in termine fisso da loro formati o autenticati solo dopo che gli stessi sono stati registrati». Il successivo comma 2 prevede che la disposizione indicata non si applica ad una serie di atti tassativamente enunciati.

Questa Corte ha già dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma censurata nella parte in cui non prevede che la norma contenuta nel comma 1 dello stesso art. 66 non si applica al rilascio dell’originale o della copia della sentenza o di altro provvedimento giurisdizionale che debba essere utilizzato per procedere all’esecuzione forzata (sentenza n. 522 del 2002).

La decisione muove dalla considerazione che la legge 9 ottobre 1971, n. 825 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per la riforma tributaria), ha imposto al legislatore delegato, come principio direttivo, di eliminare «ogni impedimento fiscale al diritto dei cittadini di agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi» (articolo 7, n. 7).

In attuazione di tale principio, l’articolo 63 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 634 (Disciplina dell’imposta di registro), il cui contenuto è poi sostanzialmente confluito nell’articolo 65 del d.P.R. n. 131 del 1986, ha soppresso il divieto di utilizzazione in giudizio di atti non registrati previsto dalla disciplina precedente, stabilendo, in luogo dello stesso, l’obbligo del cancelliere di inviarli all’ufficio del registro.

«Il legislatore della riforma» – osserva la citata sentenza – «ha pertanto ritenuto che la situazione di inadempimento dell’obbligazione relativa all’imposta di registro, emergente in occasione del processo di cognizione, non può avere l’effetto di precluderne lo svolgimento e la conclusione. È chiaro il giudizio di valore così espresso, per cui, nel bilanciamento tra l’interesse fiscale alla riscossione dell’imposta e quello all’attuazione della tutela giurisdizionale, il primo è ritenuto sufficientemente garantito dall’obbligo imposto al cancelliere di informare l’ufficio finanziario dell’esistenza dell’atto non registrato, ponendolo così in grado di procedere alla riscossione. Discipline di contenuto sostanzialmente identico sono state introdotte – sia pure in tempi diversi – per le imposte di successione, di bollo e sul valore aggiunto».

Considerando il bilanciamento fra i due interessi alla luce del principio secondo cui la garanzia della tutela giurisdizionale posta dall’articolo 24, primo comma, Cost. comprende anche la fase dell’esecuzione forzata, la quale è diretta a rendere effettiva l’attuazione del provvedimento giurisdizionale, la scelta compiuta dalla norma di cui si tratta è stata ritenuta da questa Corte irragionevole e contrastante con l’art. 24 della Costituzione (sentenza n. 321 del 1998).

Tale scelta comportava che la valutazione di bilanciamento fra l’interesse all’effettività della tutela giurisdizionale e quello alla riscossione dei tributi fosse effettuata, per i due tipi di processo, in modo irragionevolmente diverso: l’inadempimento dell’obbligazione tributaria – che pure non ha precluso lo svolgimento del processo di cognizione fino all’emanazione della sentenza (o di altro provvedimento esecutivo) ed ha determinato solo la comunicazione da parte del cancelliere all’ufficio del registro degli atti non registrati – impediva infatti che alla sentenza (o al provvedimento esecutivo) fosse data attuazione mediante l’esercizio della tutela giurisdizionale in via esecutiva.

I principi posti a base della richiamata sentenza si attagliano anche alla fattispecie in esame. Infatti, posto che la conciliazione giudiziale accerta il credito da ammettere al passivo, l’unico sistema attraverso il quale il creditore può ottenere tutela del proprio diritto è quello della partecipazione al riparto attraverso l’inserimento del credito nello stato passivo. Pertanto, la esclusione di tale possibilità, prima della registrazione dell’atto, pone il creditore in una condizione analoga a quella in cui viene a trovarsi il creditore cui sia inibita la esecuzione forzata per il mancato rilascio della copia della sentenza che ne abbia accertato il credito, prima della registrazione dell’atto. Condizione, quest’ultima, presa appunto in considerazione e tutelata con la declaratoria di illegittimità costituzionale di cui alla citata sentenza n. 522 del 2002.

Né può accedersi alla tesi dell’Avvocatura dello Stato, secondo cui appartiene in ogni caso alla discrezionalità del legislatore attribuire prevalenza all’interesse alla riscossione delle imposte e, quindi, legittimare il divieto di rilascio di documenti relativi ad atti non registrati, trovando, invece, tale discrezionalità un limite insuperabile con riferimento alle ipotesi in cui, come nella specie, il divieto sia, per le stesse ragioni esposte nella sentenza da ultimo richiamata, irragionevole.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 66, comma 2, del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), nella parte in cui non prevede che la disposizione di cui al comma 1 non si applichi al rilascio di copia dell’atto conclusivo (sentenza o verbale di conciliazione) della causa di opposizione allo stato passivo fallimentare, ai fini della variazione di quest’ultimo.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 199

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, e degli artt. 4, 6, comma 1, lettera c), e 8, comma 5, della legge della Regione Calabria 23 aprile 2009, n. 15 (Norme per l’esercizio delle attività di pescaturismo e ittiturismo), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 7-10 luglio 2009, depositato in cancelleria il 14 luglio 2009 ed iscritto al n. 48 del registro ricorsi 2009.

Visto l’atto di costituzione della Regione Calabria;

udito nell’udienza pubblica del 27 aprile 2010 il Giudice relatore Maria Rita Saulle;

uditi l’avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Graziano Pungì per la Regione Calabria.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso notificato il 7-10 luglio 2009 e depositato il 14 luglio 2009, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere e) e s), e terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, e degli artt. 4, 6, comma 1, lettera c), e 8, comma 5, della legge della Regione Calabria 30 (recte: 23) aprile 2009, n. 15 (Norme per l’esercizio delle attività di pescaturismo e ittiturismo).

In particolare, l’Avvocatura ritiene che l’art. 3, comma 4, nell’estendere la «disciplina di semplificazione dei procedimenti autorizzativi per l’esercizio» delle attività di pescaturismo e di ittiturismo alle imprese di acquacoltura, «senza prevedere norme di salvaguardia in materia di valutazione di impatto ambientale», introdurrebbe una deroga non prevista dalla normativa statale a tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, determinando in questo modo una violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione.

Sul punto il ricorrente precisa che, sebbene la legge regionale non contempli una definizione di acquacoltura, ad essa «è certamente riconducibile l’attività di piscicoltura per la quale» il combinato disposto dell’art. 7, comma 4, e dell’art. 1, lettera e), dell’allegato IV al decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) prevede «procedure di impatto ambientale limitatamente ai progetti che abbiano una superficie complessiva eccedente i 5 ettari».

Ad avviso della difesa dello Stato, anche gli artt. 4, 6, comma 1, lettera c), e 8, comma 5, dell’indicata legge della Regione Calabria, nella parte in cui «subordinano l’esercizio delle attività di pescaturismo e di ittiturismo alla iscrizione in appositi elenchi regionali», previa «presenza di un attestato di frequenza con esito positivo di corsi formativi organizzati dalla Regione», violerebbero l’art. 117, terzo comma, della Costituzione che attribuisce alla competenza legislativa concorrente Stato-Regioni la materia «professioni».

Osserva, infatti, il ricorrente che, sebbene le Regioni abbiano competenza legislativa residuale in materia di «turismo», il settore delle professioni turistiche ricade nella materia «professioni» e, pertanto, sulla base della consolidata giurisprudenza costituzionale, spetta allo Stato l’individuazione dei titoli necessari per l’esercizio di una determinata attività professionale turistica, nonché l’istituzione dei relativi albi ed elenchi.

Infine, le disposizioni regionali da ultimo indicate, sempre a giudizio del Presidente del Consiglio dei ministri, violerebbero l’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, poiché, introducendo limitazioni «al libero svolgimento dell’attività di pescaturismo e di ittiturismo, si risolvono […] in una lesione del principio della libera prestazione dei servizi, nonché della libera concorrenza».

2. – Con atto depositato in data 3 agosto 2009 si è costituita in giudizio la Regione Calabria concludendo per la declaratoria di inammissibilità e di infondatezza delle questioni.

Con riferimento alla censura riguardante l’art. 3, comma 4, della legge regionale n. 15 del 2009, la resistente ritiene che il ricorrente sia incorso in un’erronea interpretazione della disposizione impugnata; il legislatore regionale si sarebbe, infatti, limitato ad «estendere alle imprese di acquacoltura la possibilità di svolgere le attività di pescaturismo e ittiturismo», senza tuttavia far venire meno gli obblighi previsti dalla legislazione statale riguardo all’acquacoltura, ivi compresa la previa acquisizione della VIA (valutazione di impatto ambientale).

Anche la seconda censura, relativa all’art. 4 ed agli artt. 6, comma 1, lettera c), e 8, comma 5, ad avviso della difesa regionale, sarebbe frutto di una «non corretta percezione del dato normativo». Secondo la Regione il ricorrente avrebbe erroneamente considerato le suddette disposizioni regionali come norme dirette a disciplinare le professioni turistiche. In realtà, premesso che ai sensi dell’art. 12 della legge 20 febbraio 2006, n. 96 (Disciplina dell’agriturismo) l’attività di agriturismo è assimilata a quella di pescaturismo, la legge regionale impugnata si sarebbe limitata a dare attuazione alle disposizioni previste dalla citata legge statale in materia di agriturismo.

In particolare, la difesa regionale precisa che il certificato di abilitazione all’esercizio dell’attività di ittiturismo, di cui all’art. 4, comma 2, della legge regionale n. 15 del 2009, coinciderebbe con il certificato di abilitazione all’esercizio dell’attività di agriturismo di cui all’art. 7, comma 1, della citata legge statale n. 96 del 2006 che, tra l’altro, attribuirebbe alle Regioni il compito di disciplinarne le modalità di rilascio.

Allo stesso modo i corsi di formazione organizzati dalla Regione, ai sensi dell’art. 4, commi 1 e 2, della legge regionale n. 15 del 2009, e finalizzati al rilascio del succitato certificato di abilitazione, coinciderebbero con i corsi di preparazione di cui all’art. 7, comma 1, della menzionata legge statale n. 96 del 2006.

Pertanto, conclude la resistente, le norme regionali impugnate non avrebbero ad oggetto, come erroneamente ritenuto dal ricorrente, la disciplina di figure professionali nel settore turistico, bensì di attività economiche di tipo imprenditoriale.

Infine, quanto alla terza censura prospettata dal ricorrente e riferita all’asserito contrasto delle norme regionali da ultimo indicate con l’art. 117, secondo comma, lettera e), della Costituzione, la Regione resistente ne deduce l’inammissibilità per genericità.

3. – Con atto depositato il 23 marzo 2010, tenuto conto della delibera del Consiglio dei ministri del 12 marzo 2010, l’Avvocatura generale dello Stato ha dichiarato di rinunciare al ricorso, in quanto la Regione Calabria, con la legge regionale 28 dicembre 2009, n. 56 (Modifiche ed integrazioni alla Legge regionale 23 aprile 2009, n. 15 «Norme per l’esercizio di pescaturismo e ittiturismo»), ha in parte modificato e in parte abrogato le disposizioni impugnate.

4. – In prossimità dell’udienza, la Regione resistente ha depositato un atto con il quale ha chiesto la declaratoria di cessazione della materia del contendere.

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 4, e degli artt. 4, 6, comma 1, lettera c), e 8, comma 5, della legge della Regione Calabria 30 (recte: 23) aprile 2009, n. 15 (Norme per l’esercizio delle attività di pescaturismo e ittiturismo).

L’art. 3, comma 4, della legge regionale n. 15 del 2009 è impugnato per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, nella parte in cui non prevede la valutazione d’impatto ambientale (VIA) per le imprese di acquacoltura. Ad avviso del ricorrente, infatti, l’attività di acquacoltura, essendo riconducibile a quella di piscicoltura, sarebbe sottoposta alla procedura di impatto ambientale ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 7, comma 4, e 1, lettera e), dell’Allegato IV al decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale).

Il Presidente del Consiglio dei ministri censura, poi, gli artt. 4, 6, comma 1, lettera c), e 8, comma 5, della medesima legge regionale, nella parte in cui stabiliscono, da un lato, che l’esercizio delle attività di pescaturismo e di ittiturismo sia subordinato alla iscrizione in appositi elenchi regionali; e dall’altro, che detta iscrizione sia possibile previo rilascio di un attestato di frequenza con esito positivo di corsi formativi organizzati dalla Regione. Le citate disposizioni contrasterebbero con l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, in quanto, secondo costante giurisprudenza costituzionale, spetta allo Stato l’individuazione dei titoli per lo svolgimento delle attività professionali, nonché l’istituzione dei relativi albi.

Le norme regionali da ultimo indicate, prevedendo limitazioni all’esercizio delle attività di pescaturismo e di ittiturismo, risulterebbero, ad avviso del ricorrente, anche in contrasto con i principi della libera prestazione dei servizi e della libera concorrenza.

2. – Successivamente alla proposizione del ricorso col quale sono state sollevate le presenti questioni di legittimità costituzionale, la Regione Calabria, con legge regionale 28 dicembre 2009, n. 56 (Modifiche ed integrazioni alla Legge regionale 23 aprile 2009, n. 15 «Norme per l’esercizio di pescaturismo e ittiturismo»), ha in parte modificato e in parte abrogato le disposizioni impugnate.

3. – A seguito del citato jus superveniens, con atto depositato il 23 marzo 2010 e conforme alla deliberazione governativa del 12 marzo 2010 l’Avvocatura generale dello Stato, per conto del Presidente del Consiglio dei ministri, ha dichiarato di rinunciare al ricorso, in quanto l’intervenuto mutamento normativo ha fatto venire meno le ragioni della proposizione dello stesso.

4. – Alla predetta rinuncia non è, tuttavia, seguita una formale accettazione da parte della Regione Calabria.

Quest’ultima, con atto depositato in data 1° aprile 2010, ha chiesto infatti una declaratoria di cessazione della materia del contendere.

Secondo costante giurisprudenza di questa Corte, la rinuncia non regolarmente accettata, pur non determinando l’estinzione del processo, può fondare, unitamente ad altri elementi, una dichiarazione di cessazione della materia del contendere per carenza di interesse del ricorrente (da ultimo, ex plurimis, ordinanze nn. 126 e 117 del 2010).

Nel caso in esame, tenuto conto che le norme censurate non hanno avuto medio tempore attuazione – come affermato nell’atto depositato dalla resistente in prossimità dell’udienza – e che il succitato intervento normativo può ritenersi satisfattivo delle pretesa avanzata col ricorso, anche alla luce del contenuto dell’atto di rinuncia, deve essere dichiarata la cessazione della materia del contendere.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara cessata la materia del contendere.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Maria Rita SAULLE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 200

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 3, della legge della Regione Basilicata 7 agosto 2009, n. 25 (Misure urgenti e straordinarie volte al rilancio dell’economia e alla riqualificazione del patrimonio edilizio residenziale), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 6-9 ottobre 2009, depositato in cancelleria il 13 ottobre 2009 ed iscritto al n. 89 del registro ricorsi 2009.

Visto l’atto di costituzione, fuori termine, della Regione Basilicata;

udito nell’udienza pubblica del 28 aprile 2010 il Giudice relatore Paolo Grossi;

udito l’avvocato dello Stato Maurizio Borgo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Con ricorso notificato il 6 ottobre 2009 e depositato il successivo 13 ottobre, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato l’art. 8, comma 3, della legge della Regione Basilicata 7 agosto 2009, n. 25 (Misure urgenti e straordinarie volte al rilancio dell’economia e alla riqualificazione del patrimonio edilizio residenziale), pubblicata sul B.U.R. del 7 agosto 2009, n. 34, nella parte in cui dispone che, in fase di ultimazione dei lavori [di ampliamento, rinnovamento e riuso del patrimonio edilizio previsti dagli artt. 2, 3 e 5 della stessa legge], è fatto obbligo, oltre che di allegare la certificazione di qualificazione energetica, prevista dalla normativa vigente, anche di «istituire un fascicolo di fabbricato, da redigere secondo uno schema tipo che sarà definito con apposito regolamento da emanare entro trenta giorni dall’entrata in vigore della presente legge. Il regolamento indicherà, altresì, i contenuti e le modalità di redazione e di aggiornamento dello stesso».

Sulla premessa di una contraddizione rispetto alle espresse finalità della legge di incentivazione dell’edilizia privata, il ricorrente sostiene che la istituzione del fascicolo del fabbricato – nell’accollare ai privati una serie di accertamenti, nonché l’acquisizione e la conservazione di informazioni e documenti (compiti, questi ultimi, attribuiti alla pubblica amministrazione nell’esercizio della propria funzione di vigilanza) – si pone in contrasto: a) con l’art. 3 della Costituzione, per violazione del profilo del canone di ragionevolezza, e con l’art. 97 Cost., per lesione del principio di efficienza e buon andamento della pubblica amministrazione (come già affermato dalla sentenza n. 315 del 2003, «pronunciata con riferimento ad analoghe previsioni contenute nella legge della Regione Campania 22 ottobre 2002, n. 27»); b) con gli artt. 23, 41 e 42 Cost., trattandosi di «prestazioni imposte » che, «incidendo sulla libertà di iniziativa economica e sul diritto di proprietà», «non possono che trovare la loro fonte nella disciplina statale»; c) con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. per violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile (come ribadito da questa Corte nella sentenza n. 369 del 2008); d) in subordine, con l’art. 117, terzo comma, Cost., giacché, nella materia concorrente governo del territorio, «l’istituzione di un fascicolo di fabbricato costituisce indubbiamente espressione di un principio fondamentale», tanto più che «un obbligo siffatto non è, in alcun modo, desumibile dalla normativa vigente, cui le regioni possano far riferimento per le proprie leggi in materia».

Considerato in diritto

1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna l’art. 8, comma 3, della legge della Regione Basilicata 7 agosto 2009, n. 25 (Misure urgenti e straordinarie volte al rilancio dell’economia e alla riqualificazione del patrimonio edilizio residenziale), nella parte in cui dispone che, in fase di ultimazione dei lavori [di ampliamento, rinnovamento e riuso del patrimonio edilizio, previsti dagli artt. 2, 3 e 5 della stessa legge] è fatto obbligo, oltre che di allegare la certificazione di qualificazione energetica, prevista dalla normativa vigente, anche di «istituire un fascicolo di fabbricato, da redigere secondo uno schema tipo che sarà definito con apposito regolamento da emanare entro trenta giorni dall’entrata in vigore della presente legge»; e dispone che «il regolamento indicherà, altresì, i contenuti e le modalità di redazione e di aggiornamento dello stesso».

Secondo il ricorrente, l’istituzione del fascicolo del fabbricato si porrebbe in contrasto: a) con l’art. 3 della Costituzione, per violazione del canone di ragionevolezza, e con l’art. 97 Cost., per lesione del principio di efficienza e buon andamento della pubblica amministrazione; b) con gli artt. 23, 41 e 42 Cost., trattandosi di «prestazioni imposte» che, «incidendo sulla libertà di iniziativa economica e sul diritto di proprietà», «non possono che trovare la loro fonte nella disciplina statale»; c) con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. per violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile; d) in subordine, con l’art. 117, terzo comma, Cost. per lesione della competenza statale sui principi fondamentali in materia di governo del territorio.

2. – La questione, sotto tutti i prospettati profili, è inammissibile.

2.1. – Nei termini in cui è stato formulato, il ricorso risulta nel suo complesso apodittico, in quanto privo di un sufficiente sviluppo argomentativo a sostegno delle singole censure mosse alla norma impugnata (sentenza n. 45 del 2010); il ricorrente si limita, infatti, ad affermare la lesività della disposizione in esame rispetto ai richiamati principi costituzionali, senza tuttavia fornire una adeguata motivazione in ordine alle specifiche ragioni che determinerebbero la dedotta violazione di tali princípi.

In definitiva, le doglianze vengono basate esclusivamente sull’assunto (non altrimenti dimostrato) della non conformità della previsione del fascicolo del fabbricato al parametro di volta in volta evocato: esse, dunque, non rispondono ai requisiti di chiarezza e completezza richiesti per la valida proposizione di una questione di legittimità costituzionale, a maggior ragione nei giudizi proposti in via principale (sentenze n. 119 del 2010 e n. 139 del 2006).

2.2. – In particolare, con riferimento alle singole censure, il ricorrente innanzitutto deduce che la norma impugnata «viola l’art. 3 della Costituzione, sotto il profilo del canone di ragionevolezza, e l’art. 97 Cost., in relazione al principio di buon andamento della pubblica amministrazione, così come, peraltro, già rilevato» dalla sentenza n. 315 del 2003, «pronunciata con riferimento ad analoghe previsioni contenute nella legge della Regione Campania 22 ottobre 2002, n. 27, recante “Istituzione del registro storico-tecnico-urbanistico dei fabbricati ai fini della tutela della pubblica e privata incolumità”».

Proposta la censura in tali termini, va tuttavia rilevato che, in quel giudizio, l’esame della omologa figura del “registro del fabbricato”, come a suo tempo regolamentata dalla legge campana, non ha avuto ad oggetto la previsione della istituzione del registro in quanto tale, ma le peculiari modalità di redazione e di tenuta di questo, come allora specificamente disciplinate.

Chiarito espressamente che «nessun dubbio può sussistere riguardo alla doverosità della tutela della pubblica e privata incolumità, che rappresenta lo scopo dichiarato della legge, ed al conseguente obbligo di collaborazione che per la realizzazione di tale finalità può essere imposto ai proprietari degli edifici», ciò che nella richiamata decisione ha determinato la declaratoria di illegittimità costituzionale di alcune norme della citata legge regionale è stata la considerazione che le specifiche modalità di predisposizione e tenuta del registro fossero contrarie al generale canone di ragionevolezza, a cagione della eccessiva gravosità degli obblighi imposti ai proprietari e dei conseguenti oneri economici, nonché al principio di buon andamento della pubblica amministrazione, data la ritenuta intima contraddittorietà della imposta necessità di richiedere ad una pluralità di tecnici privat i informazioni già in possesso delle competenti amministrazioni.

Al contrario, la disposizione oggi impugnata prevede solo l’obbligo di istituzione del fascicolo del fabbricato, limitandosi – quanto alla definizione del contenuto e delle modalità di redazione e di aggiornamento dello stesso – ad operare un rinvio alla adozione, entro 30 giorni dall’entrata in vigore della legge, di un apposito regolamento (che, ove esorbitasse dagli specifici ámbiti di competenza regionale, sarebbe soggetto ai previsti rimedi giurisdizionali, compreso eventualmente anche il ricorso per conflitto di attribuzione innanzi a questa Corte: sentenze n. 45 del 2010 e n. 200 del 2009).

Dunque, il percorso argomentativo basato esclusivamente sulla mera asserita assimilazione delle due normative, rappresentando l’unica motivazione svolta nel ricorso a sostegno della denunciata violazione degli artt. 3 e 97 Cost., è come tale inidoneo a costituire sufficiente ed autonomo supporto argomentativo del palesato profilo di incostituzionalità.

2.3. – Quanto alla dedotta violazione degli artt. 23, 41 e 42 Cost., nel ricorso si afferma unicamente che gli obblighi di cui alla norma impugnata si atteggerebbero quali «prestazioni imposte» che, «incidendo sulla libertà di iniziativa economica e sul diritto di proprietà», «non possono che trovare la loro fonte nella disciplina statale».

Anche tale profilo è inammissibile, giacché il ricorso, da un lato, assume apoditticamente che la previsione della predisposizione del fascicolo del fabbricato costituisca «prestazione imposta» ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 23 Cost. e che la relativa riserva – in mancanza della individuazione da parte del ricorrente di una diretta correlazione della norma con uno specifico titolo di competenza attribuibile allo Stato (sentenza n. 344 del 2001) – sia esclusivamente di legge statale; dall’altro lato, richiama genericamente i princípi tutelati dagli artt. 41 e 42 Cost., senza alcuna spiegazione del perché e del come gli stessi sarebbero violati, trascurando, altresì, di considerare che essi non operano in modo assoluto ma in coerenza ed in bilanciamento con i previsti limiti della loro utilità e funzione sociale (sentenza n. 167 del 2009).

2.4. – Altrettanto è a dirsi in ordine alla asserita (ma ancora una volta non motivata) violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordinamento civile, che viene denunciata mediante un mero richiamo ad argomentazioni svolte dalla Corte nella sentenza n. 369 del 2008; argomentazioni che attengono, in termini del tutto generali, unicamente alla natura ed alla ratio del limite di cui al secondo comma, lettera l), dell’art. 117 Cost.

In particolare, la carenza di riferimento alcuno, non tanto alla specifica ed effettiva portata precettiva ed applicativa della disposizione impugnata, quanto piuttosto (e soprattutto) alla configurabilità della stessa (almeno in tesi) in termini di previsione diretta a regolare rapporti tra privati (sentenze n. 123 del 2010 e n. 295 del 2009), rende anche tale censura inammissibile.

2.5. – Quanto, infine, alla subordinata denuncia di violazione della competenza statale nella determinazione dei princípi fondamentali relativamente alla materia concorrente del «governo del territorio» (ex art. 117, terzo comma, Cost.), il ricorrente si limita ad affermare (senza altro aggiungere) che «l’istituzione del fascicolo del fabbricato costituisce indubbiamente espressione di un principio fondamentale della prefata materia», e che, della «normativa vigente», un siffatto obbligo non è in alcun modo desumibile.

Anche questa censura, nei termini prospettati, è generica ed apodittica, in quanto priva di un apporto argomentativo a sostegno della tesi (che si dà per dimostrata) della natura di principio fondamentale che la istituzione del fascicolo del fabbricato assumerebbe nella indicata materia concorrente; laddove, una adeguata motivazione di tale assunto sarebbe stata tanto più necessaria proprio in ragione della evidenziata assenza nella «normativa vigente» statale di previsioni relative ad un siffatto obbligo di istituzione.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 3, della legge della Regione Basilicata 7 agosto 2009, n. 25 (Misure urgenti e straordinarie volte al rilancio dell’economia e alla riqualificazione del patrimonio edilizio residenziale), proposta – in riferimento agli artt. 3, 23, 41, 42, 97, 117, secondo comma, lettera l), e 117, terzo comma, della Costituzione – dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 201

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 8, comma 1, lettera f), 10, comma 1, lettere a) e b), 11, comma 1, lettere b) e f), 12, comma 1, lettere b) e c), 19 e 27, comma 7, della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione), promosso dalla Regione Siciliana con ricorso notificato il 6 luglio 2009, depositato in cancelleria il 10 luglio 2009 ed iscritto al n. 47 del registro ricorsi 2009.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica dell’11 maggio 2010 il Giudice relatore Franco Gallo;

uditi l’ avvocato Michele Arcadipane per la Regione Siciliana nonchè l’avvocato dello Stato Glauco Nori per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. − Con ricorso notificato il 6 luglio e depositato il 10 luglio 2009, la Regione Siciliana ha promosso questioni di legittimità costituzionale dei seguenti articoli della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione): 8, comma 1, lettera f); 10, comma 1, lettere a) e b); 11, comma 1, lettere b) e f); 12, comma 1, lettere b) e c); 19; 27, comma 7. Quali parametri dell’impugnativa costituzionale, vengono evocati: a) gli articoli 81 e 119, quarto comma, della Costituzione; b) gli artt. 32, 33, 36, 37, 43 dello statuto della Regione Siciliana (Regio decreto legislativo 15 maggio 1946 n. 455, recante «Approvazione dello Statuto della Regione siciliana», convertito in legge costituzionale dalla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2); c) l’art. 2 del d.P.R. 26 luglio 1965, n. 1074 (Norme di attuazione dello Statuto della Regione siciliana in ma teria finanziaria); d) l’intero d.P.R. 1° dicembre1961, n. 1825 (Norme di attuazione dello Statuto della Regione siciliana in materia di demanio e patrimonio).

La Regione ricorrente premette che la citata legge n. 42 del 2009 − nel fissare i princípi ed i criteri direttivi cui il Governo deve ispirarsi nell’adottare uno o piú decreti legislativi attuativi dell’art. 119 Cost. − stabilisce che «alle regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano si applicano, in conformità con gli statuti, esclusivamente le disposizioni di cui agli artt. 15, 22 e 27» (art. 1, comma 2) e che, dunque, tra le disposizioni oggetto di impugnativa, è solo l’art. 27, comma 7, a spiegare efficacia nei confronti di essa ricorrente. Tuttavia, nonostante tale statuizione, secondo la ricorrente tutte le disposizioni denunciate «appaiono direttamente applicabili anche alla Regione siciliana» o comunque incidono sulle sue potestà regionali, «in violazione delle prerogative statutarie alla Regione assegnate».

1.1. − Un primo gruppo di censure ha per oggetto gli artt. 8, comma 1, lettera f), e 10, comma 1, lettere a) e b), numero 1) e numero 2), della legge n. 42 del 2009.

L’art. 8, comma 1, lettera f), prevede − quale principio e criterio direttivo della delega, «al fine di adeguare le regole di finanziamento alla diversa natura delle funzioni spettanti alle regioni, nonché al principio di autonomia di entrata e di spesa fissato dall’articolo 119 della Costituzione» − la «soppressione dei trasferimenti statali diretti al finanziamento delle spese» delle funzioni esercitate dalle Regioni, «ad eccezione dei contributi erariali in essere sulle rate di ammortamento dei mutui contratti dalle regioni».

L’art. 10, comma 1, lettera a), prevede, quale ulteriore criterio di delega, la cancellazione degli «stanziamenti di spesa, comprensivi dei costi del personale e di funzionamento, nel bilancio dello Stato», sempre con riferimento al finanziamento delle funzioni trasferite alle regioni, nelle materie di loro competenza legislativa ai sensi dell’articolo 117, terzo e quarto comma, Cost.

Il medesimo art. 10, comma 1, lettera b), n. 1) e n. 2), prevede, inoltre, che gli emanandi decreti legislativi siano ispirati al principio della riduzione delle aliquote dei tributi erariali e − per il finanziamento delle spese connesse alle materie di competenza legislativa di cui all’articolo 117, terzo e quarto comma, Cost. nonché delle spese relative alle materie di competenza esclusiva statale, in relazione alle quali le Regioni esercitano competenze amministrative − al principio del corrispondente aumento: a) dei tributi propri derivati, istituiti e regolati da leggi statali, il cui gettito è attribuito alle Regioni; b) delle addizionali sulle basi imponibili dei tributi erariali; c) del gettito derivante dall’aliquota media di equilibrio dell’addizionale regionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche, stabilito sul livello sufficiente ad assicurare al complesso delle Regioni un ammontare di risors e tale da pareggiare esattamente l’importo complessivo dei trasferimenti soppressi.

La ricorrente assume che tali previsioni, anche se non direttamente applicabili ad essa Regione, «interferiscono sull’impianto dell’art. 36 dello Statuto e sulle risorse sinora attribuite alla Sicilia», poiché incidono «sul complesso sistema di definizione dei rapporti tributari finalizzato all’attribuzione di gettito finanziario al sistema del federalismo fiscale regionale». Si osserva infatti nel ricorso che le impugnate disposizioni − in ragione della cessazione dei trasferimenti statali e della riduzione delle aliquote di imposizione fiscale − determinano, «tendenzialmente», una notevole contrazione dei mezzi finanziari regionali, che non è possibile compensare «con un gettito compartecipativo dell’IVA e dell’IRPEF, che la Sicilia ha già come risorse proprie». Ad avviso della Regione ricorrente, tale circostanza − unitamente al rilievo che, attualmente, la finanza della Regione siciliana « 2; direttamente ancorata all’imposizione fiscale statale» − «potrebbe determinare un notevole squilibrio» delle risorse finanziarie disponibili, pregiudicando la stessa possibilità per la Regione di esercitare le proprie funzioni per carenza delle risorse finanziarie, «in violazione, quindi, anche dei principi derivanti dagli artt. 81 e 119, quarto comma, della Costituzione».

1.2. − Un secondo gruppo di censure ha per oggetto l’art. 11, comma 1, lettere b) ed f), e l’art. 12, comma 1, lettere b) e c), della legge di delegazione n. 42 del 2009, per la pretesa violazione: a) degli artt. 36 e 37 dello statuto speciale della Regione Siciliana; b) delle relative norme di attuazione di cui al d.P.R. n. 1074 del 1965; c) degli artt. 81 e 119, quarto comma, Cost.

L’art. 11, comma 1, prevede − quali princípi e criteri direttivi dei futuri decreti legislativi in materia di finanziamento delle funzioni di comuni, province e città metropolitane − che si garantisca il finanziamento integrale in base al fabbisogno standard e che esso sia «assicurato dai tributi propri, da compartecipazioni al gettito di tributi erariali e regionali, da addizionali a tali tributi» (lettera b) ed inoltre che «il gettito delle compartecipazioni a tributi erariali e regionali» sia «senza vincolo di destinazione» (lettera f).

L’art. 12, comma 1, prevede, quale principio di delega, che le spese dei comuni relative alle funzioni fondamentali siano «prioritariamente finanziate»: a) dal gettito derivante da una compartecipazione all’IVA; b) dal gettito derivante da una compartecipazione all’imposta sul reddito delle persone fisiche; c) dalla imposizione immobiliare, con esclusione della tassazione patrimoniale sull’unità immobiliare adibita ad abitazione principale del soggetto passivo (lettera b). La stessa disposizione prevede altresí che le medesime spese delle province siano prioritariamente finanziate «dal gettito derivante da tributi il cui presupposto è connesso al trasporto su gomma e dalla compartecipazione ad un tributo dello Stato» (lettera c).

La ricorrente evidenzia che, anche per tali previsioni, la compartecipazione è relativa al gettito dei tributi riferibili al territorio, «trattandosi di attuazione dell’art. 119 della Costituzione» e che tale sistema di finanziamento determina una sottrazione di parte del gettito tributario spettante alla Regione in base all’art. 36 dello statuto ed al d.P.R. n. 1074 del 1965. Infatti − argomenta la ricorrente − la Regione Siciliana è titolare «di tutto il gettito dei cespiti tributari secondo il sistema delineato dalle disposizioni richiamate», parte del quale dovrebbe alimentare anche il finanziamento degli enti locali. La ricorrente afferma, in proposito, che la normativa impugnata, per finanziare le spese degli enti locali, prevede il ricorso a risorse non dello Stato, ma della Regione, la quale subisce, pertanto, una riduzione del gettito tributario a causa delle predette compartecipazioni, senza che siano previsti «mecc anismi compensativi della forte contrazione delle entrate regionali». Inoltre − si evidenzia ancora nel ricorso − l’onere finanziario di tale compartecipazione ai tributi erariali in favore degli enti locali a carico della Regione risulta indeterminato, con la conseguenza che il meccanismo in questione − già in sé lesivo degli artt. 36 e 37 dello statuto speciale e delle relative norme attuative − «pregiudicherebbe la possibilità per la Regione di esercitare le proprie funzioni per carenza di risorse finanziarie», cosí violando anche gli artt. 81 e 119, quarto comma, Cost.

1.3. − Con un terzo gruppo di censure viene impugnato l’intero art. 19 della legge n. 42 del 2009, per contrasto con gli artt. 32 e 33 dello statuto di autonomia e con le «relative norme di attuazione approvate con D.P.R. 1 dicembre 1961, n. 1825».

L’art. 19 fissa i princípi ed i criteri direttivi di delega per l’attribuzione alle Regioni ed agli enti locali di un proprio patrimonio, in attuazione dell’art. 119, comma sesto, Cost. La norma − nel prevedere l’attribuzione a titolo non oneroso, ad ogni livello di governo, di distinte tipologie di beni commisurate alle dimensioni territoriali, alle capacità finanziarie ed alle competenze e funzioni effettivamente svolte o esercitate dalle diverse Regioni ed enti locali − fa salva «la determinazione da parte dello Stato di apposite liste che individuino nell’ambito delle citate tipologie i singoli beni da attribuire» (art. 19, comma 1, lettera a). Inoltre, la successiva lettera b) del comma 1 del medesimo art. 19 prevede, quale criterio di delega con riguardo alla formazione del patrimonio degli enti locali situati in Sicilia, l’«attribuzione dei beni immobili sulla base del criterio di territorialit& #224;».

Secondo la ricorrente, tali disposizioni violano gli artt. 32 e 33 dello statuto siciliano, i quali attribuiscono alla Regione tutti i beni, demaniali e patrimoniali, dello Stato, con l’eccezione dei beni riguardanti la difesa o i servizi di carattere nazionale. Le citate disposizioni statutarie infatti, per un verso, vietano allo Stato di sottrarre alla Regione beni ad essa già trasferiti, come invece avverrebbe applicando i criteri di delega censurati; per altro verso, individuano nella Regione medesima la titolare esclusiva dei beni non ancora trasferiti o non piú utili alla difesa o ai servizi nazionali.

1.4 − Il quarto ed ultimo gruppo di censure è rivolto all’art. 27, comma 7, della medesima legge di delega, in relazione al quale si denuncia la violazione dell’art. 43 dello statuto regionale.

L’art. 27, comma 7, della legge n. 42 del 2009 istituisce presso la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, in attuazione del principio di leale collaborazione, «un tavolo di confronto tra il Governo e ciascuna regione a statuto speciale e ciascuna provincia autonoma». Esso è costituito dai Ministri per i rapporti con le regioni, per le riforme per il federalismo, per la semplificazione normativa, dell’economia e delle finanze e per le politiche europee nonché dai Presidenti delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome. Il tavolo individua linee guida, indirizzi e strumenti per assicurare il concorso delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome agli obiettivi di perequazione e di solidarietà e per valutare la congruità delle attribuzioni finanziarie ulteriori intervenute successivamente all’entrata in vigore degli statuti, ver ificandone la coerenza con i princípi contenuti nella legge di delega n. 42 del 2009 e con i nuovi assetti della finanza pubblica. L’ultimo inciso del comma impugnato prevede poi che, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della suddetta legge, è assicurata l’organizzazione del tavolo.

A parere della Regione ricorrente, i cómpiti e le funzioni attribuiti a tale «tavolo di confronto», «potrebbero rivelarsi» o una duplicazione della Commissione paritetica prevista dall’art. 43 dello statuto ovvero condizionarne comunque i lavori, «determinando linee guida ed indirizzi al fine della determinazione di nuove forme attuative dello Statuto». In ogni caso − conclude la Regione Siciliana − ne discenderebbe la violazione dell’art. 43 dello statuto regionale, che attribuisce alla Commissione paritetica ivi prevista anche l’attuazione dei rapporti finanziari correlati all’attuazione dello statuto.

2. − Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che tutte le questioni siano dichiarate inammissibili, ad eccezione dell’ultima, avente ad oggetto l’art. 27, comma 7, da dichiararsi non fondata

2.1. – Con riferimento ai profili di inammissibilità, la difesa dello Stato evidenzia che il non impugnato art. 1, comma 2, della legge n. 42 del 2009 dispone che «alle regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano si applicano, in conformità con gli statuti, esclusivamente le disposizioni di cui agli articoli 15, 22 e 27» della medesima legge. In conseguenza − eccepisce ancora l’Avvocatura −, tutte le censure prospettate dalla ricorrente, ad eccezione di quella avente ad oggetto l’art. 27, comma 7, hanno ad oggetto norme la cui applicazione per la Regione Siciliana è espressamente esclusa dalla stessa legge censurata. In ogni caso, secondo la difesa dello Stato, quand’anche le norme denunciate dovessero ritenersi applicabili anche alla Regione ricorrente, da ciò non discenderebbe l’effetto del «notevole squilibrio» delle risorse finanziarie regionali denunciato in ric orso, trattandosi comunque di princípi di delega il cui effetto eventualmente lesivo «potrebbe essere prodotto solo dalle norme delegate».

2.2. − La difesa dello Stato evidenzia, dunque, che è ammissibile solo la censura riguardante il comma 7 dell’art. 27 della legge n. 42 del 2009, cioè l’unica disposizione, tra quelle censurate, applicabile alle Regioni a statuto speciale. Nondimeno, tale censura, a parere dell’Avvocatura, non è fondata. In proposito, la difesa statale muove dal rilievo che la ricorrente ha prospettato solo come “possibile” l’effetto da cui discende la denuncia di incostituzionalità, e cioè che il «tavolo di confronto» tra il Governo e le Regioni a statuto speciale e le Province di Trento e Bolzano, previsto dalla norma impugnata, costituisca una duplicazione della Commissione paritetica istituita dall’art. 43 dello statuto oppure uno «strumento che ne condizioni i lavori». Per la medesima Avvocatura, la previsione normativa di tale «procedimento operativo» non concreta la creazione di un ulteriore organ o e si colloca ad un «livello politico», diverso dal «livello prevalentemente amministrativo» proprio della Commissione paritetica statutaria. La particolare vastità ed incisività della riforma del federalismo fiscale − conclude la difesa dello Stato − ha richiesto la creazione, da parte del legislatore, di un procedimento nel quale la paritetica partecipazione del Governo e di ciascuna Regione a statuto speciale e Provincia autonoma garantisca l’individuazione consensuale delle linee guida, le quali, peraltro, non «avranno nessun effetto vincolante, che la norma non attribuisce».

2.3. − Con successiva memoria, depositata in prossimità dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha ribadito le proprie conclusioni, con ulteriori argomentazioni.

Considerato in diritto

1. − La Regione Siciliana ha promosso questioni di legittimità degli articoli 8, comma 1, lettera f); 10, comma 1, lettere a) e b); 11, comma 1, lettere b) e f); 12, comma 1, lettere b) e c); 19; 27, comma 7, della legge 5 maggio 2009, n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione), in riferimento agli articoli 81 e 119, quarto comma, della Costituzione; agli artt. 32, 33, 36, 37, 43 dello statuto della Regione Siciliana (Regio decreto legislativo 15 maggio 1946 n. 455, recante «Approvazione dello Statuto della Regione siciliana», convertito in legge costituzionale dalla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2); all’art. 2 del d.P.R. 26 luglio 1965, n. 1074 (Norme di attuazione dello Statuto della Regione siciliana in materia finanziaria); all’intero d.P.R. 1° dicembre 1961, n. 1825 (Norme di attuazione dello Statuto della Regione siciliana in materia di demanio e patrimonio).

1.1. − Con un primo gruppo di censure, la ricorrente impugna gli artt. 8, comma 1, lettera f), e 10, comma 1, lettere a) e b), numero 1) e numero 2), della legge di delegazione n. 42 del 2009, denunziando la violazione dell’art. 36 dello statuto speciale regionale e degli artt. 81 e 119, quarto comma, Cost.

Queste norme prevedono, quali princípi e criteri direttivi della delega: a) la «soppressione dei trasferimenti statali diretti al finanziamento delle spese» delle funzioni esercitate dalle Regioni (art. 8, comma 1, lettera f); b) la «cancellazione degli […] stanziamenti di spesa, comprensivi dei costi del personale e di funzionamento, nel bilancio dello Stato», sempre con riferimento al finanziamento delle funzioni trasferite alle Regioni, nelle materie di loro competenza legislativa ai sensi dell’articolo 117, terzo e quarto comma, Cost. (art. 10, comma 1, lettera a); c) il «corrispondente aumento» sia dei tributi propri derivati, istituiti e regolati da leggi statali, il cui gettito è attribuito alle Regioni, sia delle addizionali sulle basi imponibili dei tributi erariali, sia, infine, del gettito derivante dall’aliquota media di equilibrio dell’addizionale regionale all’imposta sul reddito delle persone fisiche, suf ficiente ad assicurare al complesso delle Regioni un ammontare di risorse tale da pareggiare esattamente l’importo complessivo dei trasferimenti soppressi (art. 10, comma 1, lettera b, numeri 1 e 2).

La ricorrente impugna tali norme sul presupposto che esse, interferendo «sull’impianto dell’art. 36 dello Statuto e sulle risorse sinora attribuite alla Sicilia», incidono «sul complesso sistema di definizione dei rapporti tributari finalizzato all’attribuzione di gettito finanziario al sistema del federalismo fiscale regionale», perché le soppressioni dei trasferimenti statali di spesa non risultano compensate «con un gettito compartecipativo dell’IVA e dell’IRPEF, che la Sicilia ha già come risorse proprie». Ciò determinerebbe, «tendenzialmente», una notevole contrazione dei mezzi finanziari regionali ed un «notevole squilibrio» delle risorse finanziarie disponibili, pregiudicando la stessa possibilità per la Regione di esercitare le proprie funzioni per carenza delle risorse finanziarie, in violazione anche dei princípi derivanti dagli artt. 81 e 119, quarto comma, della Costituzione.

1.2. − Con un secondo gruppo di censure, la Regione Siciliana assume che gli artt. 11, comma 1, lettere b) ed f), e 12, comma 1, lettere b) e c), della legge di delegazione n. 42 del 2009, víolino gli artt. 36 e 37 dello statuto speciale della Regione Siciliana e le relative norme di attuazione di cui al d.P.R. n. 1074 del 1965, nonché gli artt. 81 e 119, quarto comma, Cost.

Le norme impugnate, fissando ulteriori princípi di delega, stabiliscono che: a) in materia di finanziamento delle funzioni di comuni, province e città metropolitane, si debba garantire il finanziamento integrale in base al fabbisogno standard e che esso sia «assicurato dai tributi propri, da compartecipazioni al gettito di tributi erariali e regionali, da addizionali a tali tributi» (art. 11, lettera b del comma 1); b) «il gettito delle compartecipazioni a tributi erariali e regionali» sia «senza vincolo di destinazione» (art. 11, lettera f del comma 1); c) le spese dei comuni relative alle funzioni fondamentali siano «prioritariamente finanziate» dal gettito derivante da una compartecipazione all’IVA, dal gettito derivante da una compartecipazione all’imposta sul reddito delle persone fisiche, dalla imposizione immobiliare (art. 12, lettera b del comma 1); d) le spese delle province siano prioritariamente finanziate «dal gettito derivan te da tributi il cui presupposto è connesso al trasporto su gomma e dalla compartecipazione ad un tributo dello Stato» (art. 12, lettera c del comma 1).

La ricorrente denuncia che tali norme determinano l’effetto di una sottrazione di parte del gettito tributario spettante alla Regione in base all’art. 36 dello statuto ed al d.P.R. n. 1074 del 1965. Infatti, essendo la Regione Siciliana già titolare «di tutto il gettito dei cespiti tributari secondo il sistema delineato dalle disposizioni richiamate», parte di esso, secondo gli impugnati princípi di delega, dovrebbe alimentare anche il finanziamento degli enti locali. Tale finanziamento è posto non a carico dello Stato, ma della Regione stessa, la quale subisce, pertanto, una riduzione del gettito tributario, senza alcun meccanismo compensativo. Inoltre, tale compartecipazione ai tributi erariali in favore degli enti locali a carico della Regione risulta indeterminata e, pertanto, il meccanismo in questione − già in sé lesivo degli artt. 36 e 37 dello statuto speciale e delle relative norme attuative − «pregiud icherebbe la possibilità per la Regione di esercitare le proprie funzioni per carenza di risorse finanziarie», con violazione anche degli artt. 81 e 119, quarto comma, Cost.

1.3. − Un terzo gruppo di censure ha ad oggetto l’intero art. 19 della legge n. 42 del 2009, di cui viene denunciato il contrasto con gli artt. 32 e 33 dello statuto di autonomia e con le «relative» norme di attuazione approvate con il d.P.R. n. 1825 del 1961.

L’art. 19 − nel fissare i princípi ed i criteri direttivi di delega per l’attribuzione alle Regioni ed agli enti locali di un proprio patrimonio, in attuazione dell’art. 119, comma sesto, Cost. − prevede l’attribuzione a titolo non oneroso, ad ogni livello di governo, di distinte tipologie di beni commisurate alle dimensioni territoriali, alle capacità finanziarie ed alle competenze e funzioni effettivamente svolte o esercitate dalle diverse regioni ed enti locali e fa salva «la determinazione da parte dello Stato di apposite liste che individuino nell’ambito delle citate tipologie i singoli beni da attribuire» (art. 19, comma 1, lettera a). Inoltre, la norma impugnata prevede l’«attribuzione dei beni immobili sulla base del criterio di territorialità», quale ulteriore criterio di delega con riferimento alla formazione del patrimonio degli enti locali (art. 19, comma 1, lettera b).

La ricorrente denuncia, in proposito, la violazione degli artt. 32 e 33 dello statuto siciliano, i quali − attribuendo alla Regione tutti i beni, demaniali e patrimoniali, dello Stato, con l’eccezione dei beni riguardanti la difesa o i servizi di carattere nazionale − vietano allo Stato di sottrarre alla Regione beni ad essa già trasferiti ed individuano nella Regione medesima la titolare esclusiva dei beni non ancora trasferiti o non piú utili alla difesa o ai servizi nazionali.

1.4. − Con un quarto ed ultimo gruppo di censure, la ricorrente deduce, in riferimento all’art. 43 dello statuto speciale, l’illegittimità costituzionale dell’art. 27, comma 7, della legge n. 42 del 2009.

La norma denunciata istituisce – in seno alla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano – «un tavolo di confronto tra il Governo e ciascuna regione a statuto speciale e ciascuna provincia autonoma», i cui cómpiti e funzioni – secondo la ricorrente – «potrebbero» rivelarsi una duplicazione di quelli della Commissione paritetica prevista dall’evocato art. 43 dello statuto speciale o, comunque, indebitamente condizionare i lavori di detta Commissione.

2. − Occorre innanzitutto esaminare l’eccezione preliminare dell’Avvocatura dello Stato, secondo cui tutte le censure avanzate nel ricorso − salvo quella avente ad oggetto l’art. 27, comma 7, della legge n. 42 del 2009 − sono inammissibili, perché le norme impugnate non sono applicabili alla Regione Siciliana, per il disposto del non impugnato art. 1, comma 2, della medesima legge, il quale stabilisce che «alle regioni a statuto speciale ed alle province autonome di Trento e di Bolzano si applicano, in conformità con gli statuti, esclusivamente le disposizioni di cui agli articoli 15, 22 e 27».

L’eccezione di inammissibilità è fondata.

Infatti, la “clausola di esclusione” contenuta nel citato art. 1, comma 2, della legge n. 42 del 2009 stabilisce univocamente che gli unici princípi della delega sul federalismo fiscale applicabili alle Regioni a statuto speciale ed alle Province autonome sono quelli contenuti negli artt. 15, 22 e 27. Di conseguenza, non sono applicabili alla Regione Siciliana gli indicati princípi e criteri di delega contenuti nelle disposizioni censurate. Né può sostenersi in contrario quanto addotto dalla ricorrente, secondo cui le disposizioni impugnate, ancorché ad essa non applicabili, «interferiscono sull’impianto dell’art. 36 dello Statuto e sulle risorse sinora attribuite alla Sicilia», poiché incidono «sul complesso sistema di definizione dei rapporti tributari finalizzato all’attribuzione di gettito finanziario al sistema del federalismo fiscale regionale». Trattasi, all’evidenza, di un’afferma zione che, per la sua genericità ed indeterminatezza, non è idonea a modificare la conclusione testè enunciata, che è fondata su una sicura esegesi del dato normativo, priva di plausibili alternative.

3. – È invece ammissibile la questione avente ad oggetto l’art. 27, comma 7, della legge n. 42 del 2010, trattandosi di norma applicabile anche alle Regioni a statuto speciale (e alle Province autonome), e perciò alla ricorrente. La norma impugnata, in attuazione del principio di leale collaborazione: a) prevede l’istituzione, presso la Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano, di «un tavolo di confronto tra il Governo e ciascuna regione a statuto speciale e ciascuna provincia autonoma», costituito dai Ministri per i rapporti con le regioni, per le riforme per il federalismo, per la semplificazione normativa, dell’economia e delle finanze e per le politiche europee nonché dai Presidenti delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome; b) attribuisce a detto «tavolo di confronto» la competenza ad individuare «linee guida, indirizzi e strumenti p er assicurare il concorso delle regioni a statuto speciale e delle province autonome agli obiettivi di perequazione e di solidarietà e per valutare la congruità delle attribuzioni finanziarie ulteriori intervenute successivamente all’entrata in vigore degli statuti, verificandone la coerenza con i princípi» contenuti nella legge di delega n. 42 del 2009 «e con i nuovi assetti della finanza pubblica».

La Regione ricorrente assume che i cómpiti e le funzioni attribuiti al “tavolo di confronto” potrebbero: a) rivelarsi una duplicazione di quelli della Commissione paritetica prevista dall’art. 43 dello statuto speciale e deputata a determinare le norme di attuazione dello statuto stesso; b) condizionare indebitamente i lavori di detta Commissione. Ne risulterebbe violato – sempre secondo la Regione – il citato art. 43, «che attribuisce alla Commissione paritetica ivi specificata anche l’attuazione dei rapporti finanziari correlati all’attuazione dello Statuto regionale».

La questione non è fondata.

Infatti, il «tavolo di confronto» istituito dalla norma censurata e la «Commissione paritetica» prevista dall’art. 43 dello statuto della Regione Siciliana non solo risultano del tutto diversi quanto alla composizione, ma hanno anche àmbiti operativi e funzioni diversi.

L’organo statutario − composto da quattro membri nominati dall’Alto Commissario della Sicilia e dal Governo dello Stato − è titolare di una speciale funzione di partecipazione al procedimento legislativo, in quanto, secondo la formulazione del citato art. 43, esso «determinerà le norme» relative sia al passaggio alla Regione degli uffici e del personale dello Stato sia all’attuazione dello statuto stesso. Detta Commissione rappresenta, dunque, un essenziale raccordo tra la Regione e il legislatore statale, funzionale al raggiungimento di tali specifici obiettivi.

Il «tavolo di confronto» − cui intervengono gli indicati membri del Governo e i Presidenti delle Regioni a statuto speciale − non ha, invece, alcuna funzione di partecipazione al procedimento di produzione normativa, perché la disposizione censurata si limita ad attribuirgli cómpiti e funzioni politico-amministrativi non vincolanti per il legislatore, di carattere esclusivamente informativo, consultivo e di studio («linee guida, indirizzi e strumenti»), nell’àmbito della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano. Il «tavolo» rappresenta, dunque, il luogo in cui si realizza, attraverso una permanente interlocuzione, il confronto tra lo Stato e le autonomie speciali per quanto attiene ai profili perequativi e finanziari del federalismo fiscale delineati dalla citata legge di delegazione, secondo il principio di leale collaborazione espressamente richiamato dalla s tessa disposizione censurata.

Dall’evidenziata diversità di funzioni discende che – contrariamente all’assunto della ricorrente – il tavolo tecnico non costituisce una “duplicazione” della Commissione paritetica prevista dall’art. 43 dello statuto speciale. La disposizione denunciata non può avere, pertanto, alcuna attitudine lesiva delle prerogative statutarie della Regione.

Conferma tale conclusione il fatto che – come sopra visto – l’art. 1, comma 2, della legge n. 42 del 2009 subordina l’applicazione dell’art. 27 alle Regioni a statuto speciale – e quindi anche l’istituzione e il funzionamento del «tavolo di confronto» – alla condizione che tale applicazione avvenga «in conformità con gli statuti» regionali. Ciò significa che la disposizione deve essere interpretata nel senso che le «linee guida, indirizzi e strumenti», adottati in sede di «tavolo di confronto», non possono interferire con la determinazione delle norme di attuazione dello statuto della Regione Siciliana, che rimane riservata alla Commissione paritetica.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 8, comma 1, lettera f), 10, comma 1, lettere a) e b), 11, comma 1, lettere b) e f), 12, comma 1, lettere b) e c), e 19 della legge 5 maggio 2009 n. 42 (Delega al Governo in materia di federalismo fiscale, in attuazione dell’articolo 119 della Costituzione), promosse dalla Regione Siciliana, con il ricorso indicato in epigrafe, in riferimento agli articoli 81 e 119, quarto comma, della Costituzione; agli artt. 32, 33, 36, 37 dello statuto della Regione Siciliana (Regio decreto legislativo 15 maggio 1946 n. 455, recante «Approvazione dello Statuto della Regione siciliana», convertito in legge costituzionale dalla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2); all’art. 2 del d.P.R. 26 luglio 1965, n. 1074 (Norme di attuazione dello Statuto della Regione siciliana in materia finanziaria) ed al d.P.R. 1° dicembre1961, n. 1825 (Norme di attuazione dello Statuto della R egione siciliana in materia di demanio e patrimonio);

2) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 27, comma 7, della medesima legge 5 maggio 2009, n. 42, promossa dalla Regione Siciliana, con il medesimo ricorso, in riferimento all’art. 43 dello statuto della Regione Siciliana.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Franco GALLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 202

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 5, lettera b), 4, comma 4, lettera b) e 20 della legge della Regione Lazio 11 agosto 2009, n. 21 (Misure straordinarie per il settore edilizio ed interventi per l’edilizia residenziale sociale), promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri notificato il 20 ottobre 2009, depositato in cancelleria il 27 ottobre 2009 ed iscritto al n. 100 del registro ricorsi 2009.

Visto l’atto di costituzione della Regione Lazio;

udito nell’udienza pubblica del 28 aprile 2010 il Giudice relatore Paolo Grossi;

uditi l’avvocato dello Stato Maurizio Borgo per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Massimo Luciani per la Regione Lazio.

Ritenuto che, con ricorso notificato il 20 ottobre 2009 e depositato il successivo 27 ottobre, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato l’art. 3, comma 5, lettera b), l’art. 4, comma 4, lettera b) e l’art. 20 della legge della Regione Lazio 11 agosto 2009, n. 21 (Misure straordinarie per il settore edilizio ed interventi per l’edilizia residenziale sociale), nella parte in cui [all’art. 3, comma 5, lettera b) ed all’art. 4, comma 4, lettera b)] «si prevede che la realizzazione degli interventi di ampliamento, demolizione e ricostruzione sia subordinata alla predisposizione del fascicolo del fabbricato secondo quanto previsto dalla l.r. n. 31/2002 (Istituzione del fascicolo del fabbricato) e dal relativo regolamento regionale di attuazione n. 6/2005, ovvero dagli specifici regolamenti comunali, qualora adottati», e nella parte in cui [ all’art. 20] «si prevede la redazione del fascicolo del fabbricato, da allegare al quadro tecnico-economico finale dell’intervento, a cura dei beneficiari del finanziamento regionale per l’edilizia residenziale pubblica, ivi compresa l’edilizia agevolata-convenzionale»;

che, secondo il ricorrente, le norme impugnate – nell’accollare ai privati una serie di accertamenti, nonché l’acquisizione e la conservazione di informazioni e documenti (compiti, questi ultimi, attribuiti alla pubblica amministrazione nell’esercizio della propria funzione di vigilanza) – si pongono in contrasto: a) con l’art. 3 della Costituzione, per irragionevolezza, e con l’art. 97 Cost., per violazione del principio di efficienza e buon andamento della pubblica amministrazione (come già affermato da questa Corte nella sentenza n. 315 del 2003); b) con gli artt. 23, 41 e 42 Cost., trattandosi di «prestazioni imposte» che, in quanto incidono sulla libertà di iniziativa economica e sul diritto di proprietà, devono trovare la loro fonte nella disciplina statale; c) con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. per violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia d i ordinamento civile; d) in subordine, con l’art. 117, terzo comma, Cost. per lesione della competenza statale sui principi fondamentali in materia di governo del territorio;

che si è costituita la Regione Lazio, la quale ha concluso per la declaratoria di inammissibilità o, comunque. di non fondatezza delle sollevate censure con riferimento a tutti i parametri evocati.

Considerato preliminarmente che la Regione Lazio risulta essersi costituita in giudizio, in persona del Vicepresidente e f.f. di Presidente della Giunta regionale, sulla base della determinazione del Segretario Generale del Consiglio regionale n. 449 del 10 novembre 2009 e sulla base della determinazione del Direttore del Dipartimento Territorio n. B5991 del 19 novembre 2009;

che, in particolare, nell’atto di determinazione del Segretario Generale del Consiglio regionale, la legittimazione dell’organo emittente è stata fondata sulle prerogative del Presidente del Consiglio regionale, delineate negli artt. 21 e 24 della legge regionale statutaria 11 novembre 2004, n. 1 (Nuovo Statuto della Regione Lazio), tra le quali non è prevista la competenza a deliberare sui giudizi innanzi alla Corte costituzionale;

che la norma cui occorre fare riferimento è l’art. 32, comma 2, della legge 11 marzo 1953, n. 87, cui si adegua l’art. 41, comma 4, del vigente Statuto della Regione Lazio, prevedendo, tra l’altro, che il Presidente della Regione, previa deliberazione della Giunta regionale, «promuove l’impugnazione delle leggi dello Stato e delle altre Regioni e propone ricorso per conflitti di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale» (ordinanza n. 126 del 2010);

che, in tale competenza ad autorizzare la promozione dei giudizi di costituzionalità, deve ritenersi compresa anche la deliberazione di costituirsi in tali giudizi, data la natura politica della valutazione che i due atti richiedono;

che, pertanto, la costituzione della Regione Lazio deve ritenersi inammissibile;

che, peraltro, successivamente alla proposizione del ricorso, la Regione Lazio, con l’art. 1 della legge regionale 3 febbraio 2010, n. 1 (recante «Modifiche alla legge regionale 11 agosto 2009, n. 21 - Misure straordinarie per il settore edilizio ed interventi per l’edilizia residenziale sociale - e successive modifiche»), è intervenuta su tutte le disposizioni impugnate mediante, da un lato, la sostituzione del comma 5 dell’art. 3 con altra norma che (per consentire la realizzazione dei menzionati interventi edilizi di ampliamento, demolizione e ricostruzione) non prevede più la predisposizione del fascicolo del fabbricato, e, dall’altro lato, la abrogazione espressa degli artt. 4, comma 4, lettera b), e 20 della legge regionale n. 21 del 2009;

che, proprio in considerazione di ciò, il ricorrente – con atto notificato alla Regione Lazio nella persona del Presidente della Giunta regionale pro tempore il 20 aprile 2010 e depositato presso la cancelleria di questa Corte il successivo 26 aprile – ha rinunciato al ricorso, affermando che tali modifiche hanno fatto venir meno le motivazioni del ricorso;

che, in mancanza di costituzione in giudizio della parte convenuta, la rinuncia al ricorso determina, ai sensi dell’art. 23 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, l’estinzione del processo (da ultimo, ordinanze n. 148 e n. 137 del 2010).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara estinto il processo.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo GROSSI, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 203

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 131 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), promosso dal Tribunale di Palermo sull’istanza proposta da C. A. con ordinanza del 7 febbraio 2008, iscritta al n. 1 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 12 maggio 2010 il Giudice relatore Maria Rita Saulle.

Ritenuto che il Tribunale di Palermo, nel corso di un procedimento volto alla liquidazione dei compensi di un ausiliario del giudice, con ordinanza del l7 febbraio 2008, notificata il successivo 27 febbraio, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 30, 31, 36 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 131 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui non prevede che le spese dei consulenti nominati dal giudice siano anticipate dallo Stato;

che il rimettente espone che il 9 agosto 2007, nell’ambito di un procedimento per la modifica delle condizioni della separazione personale dei coniugi, aveva liquidato a favore di C.A., nominata quale esperta in mediazione, la somma di 614,51 euro per onorari;

che la predetta somma era stata posta «a carico dell’Erario, salvo rivalsa ex art. 134 t.u. spese legali», sul presupposto che la consulenza era stata disposta «nell’esclusivo interesse dei minori (che non sono parte del procedimento) e che, pertanto, in relazione al tipo di attività» non fosse «possibile individuare la parte soccombente o, comunque, interessata» alla stessa;

che il giudice a quo riferisce che, successivamente, ha provveduto a modificare il suddetto provvedimento disponendo che il pagamento delle somme sopra indicate avvenisse mediante il procedimento della prenotazione a debito, secondo quanto disposto dalla norma censurata;

che sulla base di tali premesse il rimettente, dopo aver rilevato che il Tribunale di Trapani ha sollevato analoga questione, ritiene di dover proporre il presente dubbio di costituzionalità onde consentire alle parti processuali di costituirsi dinanzi alla Corte costituzionale;

che, in particolare, a parere del Tribunale, l’art. 131 del d.P.R. n. 115 del 2002 si pone in contrasto con gli artt. 24 e 111 della Costituzione «perché non è detto che gli esperti accettino l’incarico sapendo che non verranno pagati», potendo comportare ciò ritardi nella definizione del procedimento o, addirittura, il rischio di non reperire consulenti e, quindi, pregiudicare il diritto delle parti ad un giusto processo;

che, sempre a parere del giudice a quo, la mancata previsione da parte della norma censurata della anticipazione delle spese comporta l’ulteriore violazione degli artt. 24 e 111 della Costituzione, in relazione all’art. 3 della Costituzione, in quanto tale disciplina determina una disparità di trattamento economico degli ausiliari del giudice nel processo penale (per i quali è prevista l’anticipazione degli onorari a carico dello Stato), rispetto agli ausiliari utilizzati nel processo civile;

che l’art. 131 violerebbe anche l’art. 36 della Costituzione, sempre in relazione all’art. 3 della Costituzione, poiché esso priva di fatto l’ausiliario nominato nei procedimenti di separazione dei coniugi, in assenza di una soccombenza tra le parti, del proprio compenso a differenza di quanto previsto nel processo penale;

che la norma censurata si porrebbe in contrasto anche con gli artt. 30 e 31 della Costituzione, in quanto renderebbe «più difficile o, […] addirittura impossibile l’opera del giudice finalizzata ad assicurare il minor pregiudizio derivante dalla separazione ai minori […] sol perché figli di genitori non abbienti»;

che il Tribunale ritiene la questione rilevante nel procedimento camerale instaurato a seguito della richiesta dell’ausiliario di liquidazione dei propri onorari, «alla luce della (necessaria) revoca dell’inciso che li poneva a carico dell’Erario, essendo le spese della c.t.u. già state divise in parti uguali fra i coniugi, salvo rivalsa all’esito del giudizio di merito»;

che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata;

che l’Avvocatura, dopo aver rilevato che l’ordinanza di rimessione ha come presupposto analoga eccezione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Trapani dichiarata non fondata da questa Corte con la sentenza n. 287 del 2008, osserva che il rimettente ha omesso di tentare una interpretazione conforme a Costituzione della norma censurata;

che, in particolare, il Tribunale non avrebbe considerato il fatto che non vi è alcun principio costituzionale che imponga al legislatore la previsione di un modello unico di liquidazione delle spese e dei compensi per gli ausiliari del giudice e ciò anche tenuto conto della intrinseca diversità dei procedimenti – civile e penale – nell’ambito dei quali essi svolgono la propria opera;

che, comunque, le norme che regolano le spese processuali non inciderebbero sulla tutela giurisdizionale del diritto di chi agisce o si difende in giudizio, risultando, poi, il richiamo all’art. 111 della Costituzione, inconferente.

Considerato che il Tribunale di Palermo dubita, in riferimento agli artt. 3, 24, 30, 31, 36 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 131 del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), nella parte in cui non prevede che le spese dei consulenti nominati dal giudice siano anticipate dallo Stato;

che la questione è manifestamente infondata;

che il rimettente fonda i suoi dubbi di costituzionalità sull’errato presupposto interpretativo secondo il quale la norma censurata può comportare la gratuità dell’opera svolta dall’ausiliario del giudice e, di conseguenza, il contrasto con i principi costituzionali indicati;

che questa Corte ha, infatti, affermato che l’art. 131 del d.P.R. n. 115 del 2002, nel disciplinare il procedimento di liquidazione degli onorari dell’ausiliario nell’ambito dei giudizi civili, predispone il rimedio residuale della prenotazione a debito, proprio al fine di evitare che il diritto alla loro percezione venga pregiudicato dall’impossibile ripetizione dalle parti (sentenza n. 287 del 2008; ordinanze n. 195 del 2009 e n. 408 del 2008);

che, poi, quanto alla diversa disciplina dell’anticipazione degli onorari dell’ausiliario del magistrato nominato nell’ambito del processo penale, essa trova la sua ragione nella ontologica diversità di tale giudizio rispetto a quello civile (ordinanza n. 408 del 2008);

che, infine, quanto alla presunta violazione dell’art. 111 della Costituzione, è sufficiente osservare che il suo richiamo è inconferente, in quanto l’art. 131 censurato «disciplinando il procedimento di liquidazione delle spese sostenute dall’ausiliario del magistrato, non è idoneo ad incidere sui tempi di celebrazione del processo cui lo stesso procedimento è accessorio» (ordinanza n. 209 del 2008).

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 131 del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 30, 31, 36 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Palermo con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Maria Rita SAULLE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 204

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nei giudizi di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 del decreto-legge 5 marzo 2010, n. 29 (Interpretazione autentica di disposizioni del procedimento elettorale e relativa disciplina di attuazione), promossi con ricorsi delle Regioni Lazio, Piemonte e Toscana notificati l’11-13, il 12-13 ed il 29 marzo 2010, depositati in cancelleria l’11, il 12 ed il 30 marzo 2010 ed iscritti rispettivamente ai nn. 43, 45 e 52 del registro ricorsi 2010.

Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 25 maggio 2010 il Giudice relatore Ugo De Siervo;

uditi gli avvocati Alberto Romano per la Regione Piemonte, Pasquale Mosca per la Regione Toscana e l’avvocato dello Stato Michele Dipace per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto che, con ricorso depositato l’11 marzo 2010 (iscritto al r.r. n. 43 del 2010), la Regione Lazio ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 25, 48, 72, quarto comma, 77, 102, 104, 111 e 122, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 2 del decreto-legge 5 marzo 2010, n. 29 (Interpretazione autentica di disposizioni del procedimento elettorale e relativa disciplina di attuazione), pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 54 del 6 marzo 2010;

che la stessa Regione Lazio ha presentato, con il ricorso in epigrafe, istanza cautelare di sospensione dell’efficacia delle impugnate disposizioni, ai sensi dell’art. 35, primo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale);

che, secondo la ricorrente, le impugnate disposizioni contrasterebbero, innanzitutto, con l’art. 122, primo comma, Cost., avendo il legislatore statale illegittimamente violato la potestà legislativa concorrente della Regione nella materia del «sistema di elezione» del Presidente della Regione stessa e del Consiglio regionale, introdotta dalla legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1 (Disposizioni concernenti l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni), attraverso l’adozione di norme di dettaglio, asseritamente di interpretazione autentica, ma in realtà dotate di portata innovativa;

che, in secondo luogo, le denunciate disposizioni violerebbero gli artt. 3, 24, 25, 48, 102, 104 e 111 Cost., avendo il legislatore statale posto in essere un esercizio abnorme della potestà di interpretazione autentica, al solo fine di interferire con giudizi pendenti in vista della riammissione di liste escluse dalla competizione elettorale, contravvenendo al principio di ragionevolezza, vulnerando la funzione giurisdizionale e le garanzie del giusto processo, e ledendo l’eguaglianza del voto;

che, inoltre, le previsioni oggetto di doglianza confliggerebbero con gli artt. 72, quarto comma, e 77, secondo comma, Cost., dal momento che, per un verso, in materia elettorale sussisterebbe una riserva di assemblea tale da legittimare solo l’intervento di leggi ordinarie e che, d’altro canto, a fronte della vigenza protratta da più di quarant’anni della legge asseritamente interpretata, difetterebbero i presupposti di straordinaria necessità e urgenza che soli legittimano il ricorso alla decretazione d’urgenza;

che, con atto depositato il 16 marzo 2010, si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che, «previo rigetto della domanda di sospensiva», il ricorso sia dichiarato «inammissibile o comunque infondato»;

che hanno spiegato intervento in questo giudizio il sig. Mario Caravale e altri cittadini i quali hanno chiesto l’accoglimento del ricorso proposto dalla Regione Lazio, previa adozione della misura cautelare sospensiva;

che sono, altresì, intervenuti, con separati atti, i signori Perugia Maria Cristina e Mastrorillo Riccardo, nonché il Movimento difesa del cittadino (MDC) e il sig. Antonio Longo, a propria volta aderendo alle censure della Regione ricorrente;

che con ordinanza, di cui si è data lettura in occasione della camera di consiglio del 18 marzo 2010, fissata per discutere l’istanza di sospensione, tutti i surriferiti interventi sono stati dichiarati inammissibili;

che le parti hanno discusso l’istanza di sospensiva nella camera di consiglio sopra indicata;

che questa Corte, con ordinanza n. 107 del 2010, ha rigettato la domanda di sospensione dell’efficacia dell’impugnato decreto-legge;

che, con ricorso depositato il 12 marzo 2010 (iscritto al r.r. n. 45 del 2010), la Regione Piemonte ha sollevato, in riferimento agli 3, 5, 70, 72, 76, 77, 114, 120, 122, primo comma, della Costituzione, nonché all’art. 5, primo comma, della legge costituzionale n. 1 del 1999, questione di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 2 del decreto-legge n. 29 del 2010;

che, secondo il ricorrente, le impugnate disposizioni violerebbero gli artt. 122, primo comma, Cost., e 5, primo comma, della legge costituzionale n. 1 del 1999, avendo il legislatore statale dettato, in materia elettorale e con effetto sul procedimento elettorale in corso, nuove disposizioni di dettaglio in forma d’interpretazione autentica sebbene la potestà legislativa spetti, in questo ambito, ai legislatori regionali;

che, inoltre, le contestate disposizioni violerebbero gli artt. 3, 5, 70, 72, 76, 77, 114, 117 e 120 Cost., in quanto: a) il legislatore statale, in sede di adozione del decreto-legge in oggetto, non avrebbe cercato alcuna forma di coordinamento con le regioni, in antitesi con il principio di leale collaborazione; b) il Governo avrebbe illegittimamente esercitato il potere di decretazione legislativa d’urgenza laddove la Costituzione contemplerebbe, in materia elettorale, una riserva di legge formale, il cui procedimento appare d’altro canto consono «all’indicato principio di leale collaborazione una volta attratta alla sfera dell’autonomia regionale la disciplina elettorale»; c) in relazione al principio di ragionevolezza, la Costituzione qualifica il decreto-legge come «provvedimento provvisorio» e, come tale, il decreto qui impugnato non garantirebbe, in considerazione della sua aleatorietà, uno svolgimento della competizione e lettorale in grado di assicurare «il normale funzionamento di organi ed enti che sono ritenuti costitutivi della Repubblica italiana» ai sensi dell’art. 114 Cost.; d) lo stesso principio di ragionevolezza precluderebbe l’adozione di una disciplina retroattiva a procedimento elettorale già iniziato;

che, con atto depositato il 21 aprile 2010, si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato;

che il resistente sollecita l’adìta Corte a pronunciare l’inammissibilità del ricorso essendo venuto meno l’oggetto delle doglianze di parte regionale, dal momento che nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 86 del 14 aprile 2010 è stata data comunicazione che la Camera dei Deputati ha respinto il disegno di legge di conversione dell’impugnato decreto-legge n. 29 del 2010, e considerata, altresì, la pendenza di un disegno di legge di sanatoria degli effetti prodotti dal decreto-legge decaduto;

che, con ricorso depositato il 30 marzo 2010 (iscritto al r.r. n. 52 del 2010), la Regione Toscana ha sollevato, in riferimento all’art. 122, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli artt. 1 e 2 del decreto-legge n. 29 del 2010;

che, a detta della ricorrente, il legislatore statale avrebbe illegittimamente violato la potestà legislativa concorrente della Regione nella materia del «sistema di elezione» del Presidente della Regione stessa e del Consiglio regionale, per il tramite di norme di dettaglio, asseritamente di interpretazione autentica, ma in realtà provviste di portata innovativa;

che, con atto depositato il 3 maggio 2010, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, si è costituito nel giudizio promosso dalla Regione Toscana chiedendo, alla luce della sopravvenuta decadenza del denunciato decreto-legge, che sia pronunciata l’inammissibilità del ricorso, essendo venuto meno l’oggetto delle doglianze di parte regionale;

che con memoria depositata il 3 maggio 2010, il Presidente del Consiglio dei ministri ha sollecitato questa Corte a dichiarare l’inammissibilità del ricorso presentato dalla Regione Lazio per le suesposte ragioni;

che, in data 6 maggio 2010, la Regione Piemonte ha depositato una istanza di declaratoria di cessazione della materia del contendere, giacché, sopravvenuta la decadenza del decreto-legge n. 29 del 2010, nel proprio ambito territoriale non è destinata a trovare applicazione la legge “di sanatoria” 22 aprile 2010, n. 60 (Salvaguardia degli effetti prodotti dal decreto-legge 5 marzo 2010, n. 29, recante interpretazione autentica di disposizioni del procedimento elettorale e relativa disciplina di attuazione, non convertito in legge), non risultando «all’odierna esponente che siano sorti rapporti giuridici in base allo stesso decreto legge».

Considerato che l’identità delle disposizioni impugnate e la sostanziale corrispondenza di alcune delle doglianze proposte e dei parametri invocati rendono opportuna la riunione dei giudizi;

che il decreto-legge 5 marzo 2010, n. 29 (Interpretazione autentica di disposizioni del procedimento elettorale e relativa disciplina di attuazione), non è stato convertito in legge entro il termine di sessanta giorni dalla sua pubblicazione, come risulta dal comunicato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 86 del 14 aprile 2010;

che il Parlamento ha stabilito, con la legge 22 aprile 2010, n. 60 (Salvaguardia degli effetti prodotti dal decreto-legge 5 marzo 2010, n. 29, recante interpretazione autentica di disposizioni del procedimento elettorale e relativa disciplina di attuazione, non convertito in legge), che «restano validi gli atti e i provvedimenti adottati e sono fatti salvi gli effetti prodotti e i rapporti giuridici sorti sulla base del decreto-legge 5 marzo 2010, n. 29»;

che in via di principio, la sanatoria non costituisce «idoneo equipollente» (sentenza n. 84 del 1996) della conversione, giacché il relativo potere è «ontologicamente diverso, anche per le conseguenze giuridiche, […] in quanto riguarda i rapporti giuridici sorti nel periodo di vigenza del decreto, la cui provvisoria efficacia è venuta meno ex tunc» (sentenza n. 244 del 1997);

che il carattere impugnatorio del giudizio in via principale impone al ricorrente l’onere, da assolvere nel termine decadenziale, di una specifica determinazione, ai fini della permanenza dell’interesse a ricorrere contro il nuovo atto, in ordine alla eventuale, perdurante lesione della sua sfera di competenza (sentenze n. 37 del 2003, n. 405 del 2000 e n. 430 del 1997);

che quando sussiste per il ricorrente nei giudizi in via principale la possibilità concreta di effettiva e tempestiva riproposizione della questione con azione di impugnazione avente per oggetto la nuova disposizione, deve essere precluso il trasferimento della questione di costituzionalità sulla norma di «sanatoria» (sentenza n. 429 del 1997);

che, di conseguenza, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte (tra le molte, le ordinanze n. 341 del 2002 e n. 174 del 1995), le questioni aventi per oggetto il decreto-legge n. 29 del 2010 devono essere dichiarate manifestamente inammissibili.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale degli articoli 1 e 2 del decreto-legge 5 marzo 2010, n. 29 (Interpretazione autentica di disposizioni del procedimento elettorale e relativa disciplina di attuazione), sollevate, in riferimento agli artt. 3, 5, 24, 25, 48, 70, 72, 76, 77, 102, 104, 111, 114, 120 e 122, primo comma, della Costituzione, ed all’art. 5 della legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1 (Disposizioni concernenti l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni), dalle Regioni Lazio, Piemonte e Toscana con i ricorsi indicati in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Ugo DE SIERVO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 205

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 525, comma 2, del codice di procedura penale, promosso dal Tribunale di Roma nel procedimento penale a carico di A. M., con ordinanza del 28 aprile 2009, iscritta al n. 279 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 26 maggio 2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto che, con ordinanza del 28 aprile 2009, il Tribunale di Roma, in composizione monocratica, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 101 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 525, comma 2, del codice di procedura penale, «nella parte in cui prevede che alla deliberazione debbano concorrere a pena di nullità assoluta gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento»;

che il rimettente premette che, nel giudizio a quo, una parte dell’istruzione dibattimentale, consistita nell’escussione di alcuni testi, è stata espletata dinanzi ad altro giudice-persona fisica, che in precedenza era «assegnatario del ruolo»;

che a fronte del consenso del pubblico ministero all’utilizzazione delle prove già assunte ai sensi dell’art. 511 cod. proc. pen., la difesa ha invece chiesto che l’istruzione dibattimentale svolta venga rinnovata in ossequio all’art. 525, comma 2, cod. proc. pen.;

che il giudice a quo dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale di tale disposizione sotto plurimi profili;

che il rimettente assume preliminarmente che il problema della perdurante valenza probatoria dell’attività istruttoria dibattimentale già compiuta, nel caso di mutamento della persona fisica del giudicante, sarebbe stato già risolto dalla Corte costituzionale in senso opposto a quello indicato dalle sezioni unite della Corte di cassazione nella sentenza 15 gennaio 1999-17 febbraio 1999, n. 2;

che, infatti, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 17 del 1994, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione combinata degli artt. 238 e 512 cod. proc. pen., ritenendo ammissibile, ai sensi dell’art. 511 cod. proc. pen., l’acquisizione mediante lettura (o indicazione sostitutiva) dei verbali delle dichiarazioni rese dai testi escussi dinanzi al precedente collegio o al diverso giudice-persona fisica, a prescindere dall’esame del dichiarante (come confermerebbe altresì l’ordinanza di questa Corte n. 99 del 1996);

che – ciò posto – la disposizione censurata si porrebbe in contrasto, anzitutto, con i principi di eguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Cost.), tenuto conto del fatto che l’utilizzabilità di atti di natura probatoria formatisi davanti ad un diverso giudice è prevista da numerose disposizioni del codice di rito;

che essa è considerata, in specie, nell’art. 238 cod. proc. pen., il quale disciplina l’acquisizione dei verbali di prove di altri procedimenti penali, assunte tanto nell’incidente probatorio che nel dibattimento; nell’art. 26 cod. proc. pen., secondo cui i verbali delle prove assunte dinanzi ad altro giudice, incompetente per materia, conservano la loro validità; nell’art. 33-nonies cod. proc. pen., in forza del quale l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale non determina l’inutilizzabilità delle prove già acquisite; e, ancora, nell’art. 42 cod. proc. pen., ove si prevede che, nelle ipotesi di astensione e ricusazione, il provvedimento che accoglie la relativa dichiarazione stabilisce se ed in quale parte gli atti compiuti dinanzi al giudice astenutosi o ricusato conservino efficacia;

che a maggior ragione, pertanto, nell’ipotesi «fisiologica» di mutamento della persona fisica del giudice – ad esempio, per effetto di tramutamenti o aspettative – gli atti in questione dovrebbero rimanere efficaci;

che la norma impugnata si porrebbe in contrasto anche con l’art. 101 Cost., in base al quale – così come è letto dal rimettente – «tutti i giudici sono uguali dinanzi alla legge»;

che il giudice chiamato a sostituire il collega dovrebbe essere considerato, perciò, «a quest’ultimo uguale», tanto più che non si versa nemmeno nella situazione di «sospetto» contemplata dall’art. 42 cod. proc. pen., con riguardo ai casi di astensione o di ricusazione;

che detto principio non sarebbe, di contro, rispettato nella situazione in esame, stante il diverso trattamento riservato al giudice subentrato rispetto a quello previsto per i casi, dianzi indicati, di prove acquisite dinanzi ad altri giudici;

che risulterebbe violato, infine, l’art. 111 Cost., in forza del quale il processo deve avere una ragionevole durata: ritenere il giudice vincolato, nel caso in esame, dalla richiesta di parte di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale – e ciò sebbene i verbali delle prove testimoniali facciano già parte del fascicolo per il dibattimento, trattandosi di prove assunte nel contraddittorio tra le parti – significherebbe, infatti, dilatare irrazionalmente i tempi processuali, favorendo l’estinzione dei reati per prescrizione; esito, questo, tanto meno accettabile in una situazione di «emergenza», quale quella indotta dalle numerose condanne dello Stato italiano ad opera della Corte europea dei diritti dell’uomo, per l’eccessiva durata dei processi;

che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o infondata;

che, a parere della difesa dello Stato, la questione sarebbe inammissibile, avendo il rimettente omesso di descrivere compiutamente la fattispecie concreta e di motivare sulla rilevanza: in particolare, il giudice a quo non avrebbe precisato se il riesame dei testi escussi sia o meno necessario nella specie (e ciò, considerata la sussistenza di «situazioni di maggior rischio per la genuinità della prova in cui detto riesame è escluso»); se la rinnovazione dibattimentale sia o meno possibile e con quale prevedibile allungamento dei tempi processuali; se, infine e soprattutto, tale allungamento comporti il rischio della prescrizione del reato per cui si procede;

che, nel merito, la questione sarebbe comunque priva di fondamento, in quanto basata su censure già più volte disattese dalla Corte costituzionale.

Considerato che il Tribunale di Roma dubita, in riferimento agli artt. 3, 101 e 111 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 525, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui prevede che «alla deliberazione debbano concorrere a pena di nullità assoluta i medesimi giudici che hanno partecipato al dibattimento»;

che, al di là della generica formulazione del petitum, il rimettente si duole segnatamente della disciplina delle modalità di rinnovazione del dibattimento dopo il mutamento del giudice-persona fisica, quale risultante alla luce dell’interpretazione accolta dalle sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 15 gennaio 1999-17 febbraio 1999, n. 2) e recepita dalla giurisprudenza di legittimità successiva;

che, alla stregua di tale consolidato indirizzo interpretativo, il principio di immutabilità del giudice, enunciato dalla norma censurata, impone di procedere all’integrale rinnovazione del dibattimento ogni qualvolta intervengano cambiamenti della persona del giudice monocratico o della composizione del collegio;

che, in tale evenienza – conformemente a quanto già affermato da questa Corte con la sentenza n. 17 del 1994 – i verbali delle prove assunte dal precedente giudice, in quanto documentativi di un’attività legittimamente compiuta, confluiscono nel fascicolo per il dibattimento a disposizione del nuovo giudice e, quindi, possono essere utilizzati per la decisione attraverso lo strumento della lettura;

che siffatta conclusione va tuttavia coordinata con quanto previsto dell’art. 511, comma 2, cod. proc. pen., secondo cui «la lettura dei verbali di dichiarazioni è disposta solo dopo l’esame della persona che le ha rese, a meno che l’esame non abbia luogo»: dal che si desume come – al di fuori dell’ipotesi eccezionale regolata dall’art. 190-bis cod. proc. pen. – il nuovo giudice sia legittimato ad utilizzare le prove dichiarative precedentemente assunte, tramite semplice lettura, solo qualora detto esame non si compia, o per volontà delle parti – manifestata anche implicitamente, con la mancata richiesta di una nuova escussione del dichiarante – ovvero per sopravvenuta impossibilità di essa;

che in sostanza, dunque, il nuovo giudice deve procedere alla riassunzione della prova dichiarativa ove una parte ne faccia richiesta, sempre che l’atto non risulti impossibile: e proprio da siffatto “vincolo” scaturirebbe – secondo il giudice a quo – la lesione dei parametri costituzionali evocati;

che, ciò puntualizzato, l’eccezione di inammissibilità della questione per insufficiente descrizione della fattispecie e difetto di motivazione sulla rilevanza, formulata dall’Avvocatura generale dello Stato, non è fondata;

che la descrizione della vicenda processuale, contenuta nell’ordinanza di rimessione, è in effetti assai sintetica, ma comunque sufficiente a consentire la verifica della rilevanza;

che il giudice a quo riferisce, infatti, di dover rinnovare il dibattimento nel processo principale, essendo subentrato ad un collega a seguito di normali avvicendamenti negli uffici giudiziari; deduce, altresì, che davanti al precedente giudice erano stati escussi alcuni testimoni e che mentre il pubblico ministero ha consentito all’utilizzazione delle relative dichiarazioni, nel dibattimento rinnovato, tramite semplice lettura dei verbali, la difesa ha chiesto, invece, un nuovo esame dei dichiaranti: richiesta che il rimettente dovrebbe accogliere, in base al consolidato indirizzo interpretativo dianzi ricordato;

che l’assenza di situazioni che rendano impossibile il riesame dei testimoni e la circostanza che non si versi nelle ipotesi soggette all’eccezionale regime derogatorio di cui all’art. 190-bis cod. proc. pen. (se tale, almeno, è il senso del riferimento della difesa dello Stato alle «situazioni di maggior rischio per la genuinità della prova in cui detto riesame è escluso») possono ritenersi implicite in quanto riferito;

che tanto meno, poi – contrariamente a quanto assume l’Avvocatura dello Stato – può ritenersi che il giudice a quo fosse tenuto a quantificare il prevedibile allungamento dei tempi processuali prodotto dalla ripetizione dell’esame e a precisare se esso rischiasse effettivamente di provocare la prescrizione del reato oggetto di giudizio;

che, in tal modo, si confonde, infatti, la valutazione di rilevanza con quella di non manifesta infondatezza: il rimettente censura, in riferimento al principio di ragionevole durata del processo, un effetto negativo ascrivibile in termini generali alla norma censurata, che non deve necessariamente ricorrere nella situazione di specie; la questione resta in ogni caso rilevante, perché il suo accoglimento eviterebbe al rimettente di dover accogliere l’istanza della difesa di rinnovazione dell’esame dei testi;

che, quanto al merito, non sussiste, in realtà, alcun contrasto fra la costante giurisprudenza di legittimità e il precedente di questa Corte citato dal rimettente (sentenza n. 17 del 1994), nel quale, anzi, si sottolinea che, in caso di sostituzione del giudice in corso di dibattimento, la lettura del verbale del precedente esame testimoniale è legittima solo dopo nuovo esame del teste, salvo che questo non abbia luogo (come nel caso di sopravvenuta morte del teste medesimo); regola, questa, poi ribadita anche nell’ordinanza n. 99 del 1996, pure evocata dal rimettente;

che, per converso, questa Corte ha già più volte dichiarato manifestamente infondate questioni analoghe a quella odierna, con pronunce successive alla citata decisione delle sezioni unite della Corte di cassazione, totalmente ignorate dal giudice a quo (ordinanze n. 318 del 2008; n. 67 del 2007; n. 418 del 2004; n. 73 del 2003; n. 59 del 2002; n. 431 e n. 399 del 2001);

che la Corte ha rilevato, in specie, come la disciplina oggetto di scrutinio si correli al principio di immediatezza, che ispira l’impianto del codice di rito e di cui la regola dell’immutabilità del giudice costituisce strumento attuativo: principio che postula – salve le deroghe espressamente previste – l’identità tra il giudice che acquisisce le prove e il giudice che decide;

che la disciplina censurata risulta, in tale ottica, tutt’altro che irrazionale: la parte che chiede la rinnovazione dell’esame del dichiarante esercita infatti il proprio diritto, garantito dal principio di immediatezza, «all’assunzione della prova davanti al giudice chiamato a decidere» (ordinanze n. 318 del 2008, n. 67 del 2007 e n. 418 del 2004);

che, con specifico riferimento alle censure dall’odierno rimettente, questa Corte ha escluso, altresì, che sia configurabile una violazione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo del diverso trattamento riservato a fattispecie identiche o similari;

che, in particolare, si è rilevato come sia erroneo il richiamo, quale tertium comparationis, all’art. 238 cod. proc. pen., in tema di acquisizione dei verbali di prove provenienti da altro procedimento, il quale non consente affatto – in presenza della richiesta di nuovo esame avanzata da una delle parti – di utilizzare mediante lettura le precedenti dichiarazioni assunte da diverso giudice (ordinanza n. 399 del 2001; in senso conforme, ordinanze n. 59 del 2002 e n. 431 del 2001);

che il comma 5 dell’art. 238 cod. proc. pen. fa, infatti, espressamente salvo il diritto delle parti di ottenere l’esame delle persone le cui dichiarazioni sono state acquisite; mentre l’art. 511-bis cod. proc. pen., nel prevedere che il giudice dia lettura dei verbali degli atti indicati dall’art. 238, richiama il comma 2 dell’art. 511 cod. proc. pen., che, come già ricordato, prescrive che sia data lettura dei verbali di dichiarazioni solo dopo l’esame del dichiarante, salvo che questo non abbia luogo;

che parimenti non probante è stato ritenuto il riferimento agli artt. 26 e 33-nonies cod. proc. pen., i quali stabiliscono, rispettivamente, che «l’inosservanza delle norme sulla competenza non produce l’inefficacia delle prove già acquisite», e che «l’inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale non determina […] l’inutilizzabilità delle prove già acquisite»;

che nelle ipotesi indicate si assiste, infatti, ad un cambiamento delle persone fisiche dei giudicanti: con la conseguenza che possono ritenersi comunque applicabili, in difetto di indicazioni contrarie, le regole valevoli in via generale in caso di mutamento del giudice, ivi compresa quella sottoposta a censura (ordinanza n. 67 del 2007);

che tale considerazione è pienamente estensibile anche alle ulteriori fattispecie dell’astensione e della ricusazione del giudice, invocate dall’odierno rimettente;

che la previsione dell’art. 42, comma 2, cod. proc. pen. – secondo la quale «il provvedimento che accoglie la dichiarazione di astensione o di ricusazione dichiara se e in quale parte gli atti compiuti precedentemente dal giudice astenutosi o ricusato conservano efficacia» – vale, difatti, a delimitare l’area del possibile “recupero” dell’attività istruttoria già espletata, ma non esclude che, entro tale area – assistendosi, di nuovo, ad un mutamento della persona fisica del giudicante – trovino applicazione le regole generali relative a tale evenienza;

che questa Corte ha già avuto modo, per altro verso, di qualificare – in rapporto ad analoga censura – come «del tutto incongrue» le considerazioni sulla cui base il rimettente prospetta la violazione dell’art. 101 Cost. (ordinanza n. 399 del 2001);

che nella norma costituzionale ora citata non si legge affatto – come vuole il rimettente – che «tutti i giudici sono uguali dinanzi alla legge», ma che i giudici «sono soggetti soltanto alla legge»: principio che non risulta minimamente scalfito dall’applicabilità della disciplina in questione, volta a tutela di un diverso valore (quello di immediatezza);

che quanto, poi, alla ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.) – in assunto compromessa dalla necessità di rinnovare prove acquisite nella pienezza del contraddittorio – la Corte ha già reiteratamente rilevato come detto principio debba essere contemperato, alla luce dello stesso richiamo al concetto di «ragionevolezza» che compare nella formula normativa, con il complesso delle altre garanzie costituzionali, rilevanti nel processo penale: garanzie la cui attuazione positiva è insindacabile, ove frutto – come nella specie – di scelte non prive di una valida ratio (ordinanze n. 318 del 2008, n. 67 del 2007, n. 418 del 2004 e n. 399 del 2001);

che, in senso contrario, il giudice a quo rimarca come l’eccessiva durata dei processi sia stata causa di reiterate condanne dello Stato italiano da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, e perciò fonte di «notevoli esborsi per l’Erario»: fenomeno che, colorandosi dei tratti di una vera e propria «emergenza per il paese», imporrebbe il «ripudio di ogni attività ripetitiva eliminabile senza arrecare pregiudizio ai diritti fondamentali delle parti», legittimando, così, la convinzione che i tempi siano ormai «maturi» per la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 525, comma 2, cod. proc. pen. nei sensi auspicati;

che, in replica a tali considerazioni, va peraltro osservato che il diritto «all’assunzione della prova davanti al giudice chiamato a decidere» – diritto che, in base alla ricordata giurisprudenza di questa Corte, la parte esercita nel chiedere la rinnovazione dell’esame del dichiarante – si raccorda, almeno per quanto attiene all’imputato, anche alla garanzia prevista dall’art. 111, terzo comma, Cost., nella parte in cui riconosce alla «persona accusata di un reato […] la facoltà, davanti al giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico» e «di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa»;

che viene quindi in rilievo, a tale riguardo, quanto reiteratamente affermato proprio dalla Corte europea dei diritti dell’uomo – dalle cui censure, secondo il rimettente, l’accoglimento della questione dovrebbe mettere l’Italia al riparo – in relazione all’omologa previsione dell’art. 6, paragrafo 3, lettera d), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848 (previsione che è servita da modello a quella dell’art. 111 Cost., dianzi ricordata): e, cioè, che la possibilità, per l’imputato, di confrontarsi con i testimoni in presenza del giudice che dovrà poi decidere sul merito delle accuse costituisce una garanzia del processo equo, in quanto permette a quest’ultimo di formarsi un’opinione circa la credibilità dei testimoni fondata su un 217;osservazione diretta del loro comportamento; con la conseguenza che ogni mutamento di composizione dell’organo giudicante deve comportare, di norma, una nuova audizione del testimone le cui dichiarazioni possano apparire determinanti per l’esito del processo (sentenza 27 settembre 2007, Reiner e altri contro Romania; sentenza 30 novembre 2006, Grecu contro Romania; sentenza 10 febbraio 2005, Graviano contro Italia; sentenza 4 dicembre 2003, Milan contro Italia; sentenza 9 luglio 2002, P. K. contro Finlandia);

che la ratio giustificatrice della rinnovazione della prova non si richiama, dunque, ad una presunta incompletezza o inadeguatezza della originaria escussione, ma si fonda sulla opportunità di mantenere un diverso e diretto rapporto tra giudice e prova, particolarmente quella dichiarativa, non garantito dalla semplice lettura dei verbali: vale a dire la diretta percezione, da parte del giudice deliberante, della prova stessa nel momento della sua formazione, così da poterne cogliere tutti i connotati espressivi, anche quelli di carattere non verbale, particolarmente prodotti dal metodo dialettico dell’esame e del controesame; connotati che possono rivelarsi utili nel giudizio di attendibilità del risultato probatorio, così da poterne poi dare compiutamente conto nella motivazione ai sensi di quanto previsto dall’art. 546 comma 1, lettera e), cod. proc. pen.;

che è ben vero che l’anzidetto diritto della parte alla nuova audizione non è assoluto, ma “modulabile” (entro limiti di ragionevolezza) dal legislatore: nei ricordati precedenti, questa Corte ha fatto, in effetti, riferimento alla possibilità che il legislatore introduca «presidi normativi volti a prevenire il possibile uso strumentale e dilatorio» del diritto in questione (ordinanze n. 318 del 2008 e n. 67 del 2007); mentre la stessa Corte di Strasburgo ha riconosciuto che esso ammette eccezioni;

che ciò non toglie, tuttavia, che il riesame del dichiarante, in presenza di una richiesta di parte, continui a rappresentare la regola: il che priva di ogni validità la ricordata convinzione del rimettente, riguardo al fatto che «i tempi [siano] maturi» per l’accoglimento della questione di costituzionalità proposta;

che tale regola nel processo penale costituisce uno dei profili del diritto alla prova, strumento necessario del diritto di azione e di difesa, da riconoscere lungo l’arco di tutto il complesso procedimento probatorio, quale diritto alla ricerca della prova, alla sua introduzione nel processo, alla partecipazione diretta alla sua acquisizione davanti al giudice terzo e imparziale, da ultimo alla sua valutazione ai fini della decisione da parte dello stesso giudice;

che si tratta di regola costituente uno degli aspetti essenziali del modello processuale accusatorio, espresso dal vigente codice di procedura penale;

che per tali ragioni la sua osservanza è presidiata dalla massima sanzione processuale, vale a dire dalla nullità assoluta;

che la questione va dichiarata, pertanto, manifestamente infondata.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 525, comma 2, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 101 e 111 della Costituzione, dal Tribunale di Roma con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 206

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, lettera c), della legge della Regione Calabria 5 novembre 2009, n. 40 (Attività estrattive nel territorio della Regione Calabria), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 28 dicembre 2009/4 gennaio 2010, depositato in cancelleria il 5 gennaio 2010 ed iscritto al n. 2 del registro ricorsi 2010.

Udito nella camera di consiglio del 26 maggio 2010 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro.

Ritenuto che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato il 28 dicembre 2009/4 gennaio 2010, depositato il 5 gennaio 2010, ha proposto, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 3, lettera c), della legge della Regione Calabria 5 novembre 2009, n. 40 (Attività estrattive nel territorio della Regione Calabria), pubblicata nel Bollettino ufficiale della Regione Calabria del 31 ottobre 2009, n. 20, supplemento straordinario del 10 novembre 2009, n. 1;

che, ad avviso del ricorrente, il citato art. 2, comma 3, lettera c), stabilendo che «appartengono alla categorie delle cave» anche «gli altri materiali e le sostanze» «provenienti da riutilizzazioni dei materiali lapidei di demolizione o di risulta o di lavori edili stradali, in conformità con quanto previsto dalle norme di tutela ambientale», renderebbe inapplicabile a detti materiali, in modo aprioristico e generico, la disciplina dei rifiuti e, comunque, ne limiterebbe l’ambito di applicabilità, ponendosi in contrasto con la definizione di «rifiuto» stabilita dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) e, «in ambito comunitario», dalla direttiva 2006/12/CE del 5 aprile 2006 (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa ai rifiuti);

che, secondo la difesa erariale, l’oggetto e la sfera di applicazione della parte IV del d.lgs. n. 152 del 2006, «e delle altre disposizioni specifiche, complementari, particolari e speciali», sarebbe «individuato dalla definizione di “rifiuto”, congiuntamente alla disposizione che prevede i limiti di applicazione della stessa», mentre l’art. 183, comma 1, lettera a), di tale decreto legislativo definisce rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto che rientra nelle categorie di cui all’allegato A alla parte quarta del presente decreto e di cui il detentore si disfi o abbia deciso o abbia l’obbligo di disfarsi» e l’art. 185 identifica i rifiuti sottratti alla disciplina stabilita in detta parte IV, nonché le condizioni di esclusione, senza comprendere i materiali oggetto della norma censurata, con previsione di carattere eccezionale, quindi non applicabile oltre i casi espressamente considerati;

che, pertanto, i materiali indicati nell’art. 2, comma 3, lettera c), della legge regionale in esame rientrerebbero nella definizione di rifiuto e non sarebbe sufficiente a sottrarli alla relativa disciplina la previsione della «“riutilizzazione” degli stessi», in virtù di una nozione che sarebbe in contrasto con quella fornita dalla Corte di giustizia delle Comunità europee e dalla Commissione europea, in violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. (parametro questo indicato soltanto nella motivazione del ricorso);

che, infine, l’interpretazione restrittiva della definizione di rifiuto offerta dalla norma impugnata contrasterebbe con il principio di precauzione, favorendo il rischio di una gestione incontrollata dei rifiuti, con pregiudizio per la tutela della salute e dell’ambiente, poiché i materiali indicati nella medesima potrebbero essere considerati «sottoprodotti» soltanto all’esito di un esame caso per caso ed in presenza delle condizioni stabilite dall’art. 183, comma 1, lettera p), del d.lgs. n. 152 del 2006, mentre la loro qualificazione come rifiuto non escluderebbe la possibilità di utilizzarli in attività di recupero autorizzate quali quelle previste dal decreto ministeriale 5 febbraio 1998 (Individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle procedure semplificate di recupero ai sensi degli articoli 31 e 33 del decreto legislativo 5 febbraio 1997, n. 22), nell’osservanza del medesimo;

che la Regione Calabria non si è costituita in giudizio;

che, con atto notificato alla controparte in data 18/23 marzo 2010, depositato presso la cancelleria di questa Corte il 24 marzo 2010, l’Avvocatura generale dello Stato, per conto del Presidente del Consiglio dei ministri, ha dichiarato di rinunciare al presente ricorso, in quanto, come indicato nella proposta di rinuncia formulata dal Ministro per i rapporti con le Regioni, approvata dal Consiglio dei ministri nella riunione del 12 marzo 2010, la Regione Calabria, con legge 28 dicembre 2009, n. 53 (Modifica legge regionale n. 40 del 2009, art. 2, comma 3, lettera c, recante: «Attività estrattive nel territorio della Regione Calabria»), ha abrogato la norma impugnata.

Considerato che, in mancanza di costituzione in giudizio della parte resistente, la rinuncia al ricorso determina, ai sensi dell’art. 23 delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, l’estinzione del processo (fra le più recenti, ordinanze n. 158 e n. 148 del 2010).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara estinto il processo.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

SENTENZA N. 207

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 23, lettera e), del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, nella parte in cui aggiunge all’art. 71 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, i commi 5-bis e 5-ter, promosso con ricorso della Regione Toscana notificato il 2 ottobre 2009, depositato in cancelleria l’8 ottobre 2009 ed iscritto al n. 84 del registro ricorsi 2009.

Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 28 aprile 2010 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;

uditi l’avvocato Lucia Bora per la Regione Toscana e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso notificato il 2 ottobre 2009 e depositato il successivo 8 ottobre, la Regione Toscana ha promosso, tra le altre, la questione di legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 117 e 119 della Costituzione – dell’art. 17, comma 23, lettera e), del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, nella parte in cui aggiunge all’art. 71 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, i seguente commi: «5-bis. Gli accertamenti medico-legali sui dipendenti assenti dal servizio per malattia effettuati dalle aziende sanitarie locali su richiesta delle Amministrazioni pubbliche interessat e rientrano nei compiti istituzionali del Servizio sanitario nazionale; conseguentemente i relativi oneri restano comunque a carico delle aziende sanitarie locali», e «5-ter. A decorrere dall’anno 2010 in sede di riparto delle risorse per il finanziamento del Servizio sanitario nazionale è individuata una quota di finanziamento destinata agli scopi di cui al comma 5-bis, ripartita fra le regioni tenendo conto del numero dei dipendenti pubblici presenti nei rispettivi territori; gli accertamenti di cui al medesimo comma 5-bis sono effettuati nei limiti delle ordinarie risorse disponibili a tale scopo».

2.– Osserva la ricorrente che le disposizioni impugnate, cosi come formulate, obbligano le Regioni a sostenere, per il tramite del fondo sanitario, l’onere delle visite fiscali ai dipendenti assenti dal servizio per malattia. Infatti, se è vero che gli accertamenti medico-legali effettuati dalle Aziende sanitarie rientrano nei compiti istituzionali del Servizio Sanitario, ciò non comporta la conseguenza che le relative prestazioni siano effettuate a titolo gratuito.

La Regione Toscana ricorda che, nell’esercizio delle proprie competenze in materia di tutela della salute ed organizzazione del servizio sanitario regionale, nel 2005 ha emanato una delibera di Giunta (n. 622 del 6 giugno 2005) in base alla quale le visite fiscali richieste dai datori di lavoro pubblici per i propri dipendenti assenti per malattia venivano poste a carico dell’amministrazione richiedente, trattandosi di certificazioni mediche da effettuare non nell’interesse del lavoratore, ma del datore di lavoro per accertare la legittimità dell’assenza del dipendente.

Tale delibera, prosegue la ricorrente, è stata oggetto di impugnazione dall’Amministrazione statale sulla base del presupposto che per il datore di lavoro «pubblica amministrazione» il servizio di visita fiscale fosse gratuito in quanto prestazione rientrante nei livelli essenziali di assistenza (LEA) dovuti al lavoratore. Il Tribunale amministrativo della Regione Toscana (sentenze n. 43531 del 2004 e n. 60381 del 2006) e il Consiglio di Stato poi (Sez. V, n. 5690 del 2008) hanno riconosciuto la legittimità dell’operato della Regione, rilevando che le suddette visite «si sostanziano in un momento procedimentale tecnico volto a tutelare un interesse specifico dell’Amministrazione istante ed il loro espletamento non risponde, quindi, all’interesse diffuso della salute collettiva. Pertanto la visita fiscale disposta nell’interesse dell’Amministrazione non integra un L.E.A.». Lo stesso principio, peraltro, è stat o affermato anche dalla Corte di cassazione con la sentenza della Sez. I, n. 13992, del 28 maggio 2008.

A parere della ricorrente, la norma impugnata vanificherebbe la legittima scelta organizzativa regionale: imponendo la gratuità delle visite fiscali, il relativo onere verrebbe a ricadere sulle aziende sanitarie e, quindi, sul fondo sanitario regionale.

Le norme impugnate, dunque, sarebbero lesive delle attribuzioni regionali di cui all’art. 117 Cost, in materia di tutela della salute e di organizzazione del servizio sanitario. Infatti, l’attività di controllo medico-legale sulle condizioni di salute dei lavoratori dipendenti, al fine di accertare, su richiesta del datore di lavoro, la legittimità dell’assenza dal lavoro, pur rientrando nelle competenze delle ASL, non costituisce prestazione di cura e prevenzione e, pertanto, non risponde ai fini di tutela della salute collettiva garantiti dalla legge 23 dicembre 1978, n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale). Non sarebbe, quindi, precluso alle Regioni richiedere il pagamento delle prestazioni secondo una tariffa determinata.

Il finanziamento sanitario, prosegue la ricorrente, è, infatti, finalizzato al soddisfacimento dei LEA, determinati sulla base di accordi Stato-Regioni e deve essere utilizzato per far fronte alle prestazioni dirette alla tutela della salute. Ciò sarebbe ulteriormente dimostrato, secondo la Regione Toscana, dal d.P.C.m. 29 novembre 2001 (Definizione dei livelli essenziali di assistenza) e dalle sue successive modificazioni (d.P.C.m. 28 novembre 2003 e d.P.C.m. 21 aprile 2008) che escludono totalmente dai LEA le prestazioni rappresentate da «certificazioni mediche, comprese le prestazioni diagnostiche necessarie per il loro rilascio, non rispondenti ai fini della tutela della salute collettiva, anche quando richieste da disposizioni di legge».

La Regione Toscana evidenzia anche che «le norme impugnate individuano la quota necessaria a finanziare gli accertamenti medico-legali in riferimento all’espletamento delle visite fiscali, quale parte del Fondo Sanitario e non come fondo aggiuntivo da destinare agli scopi di cui sopra, pertanto la prestazione richiesta si configura come un L.E.A., per la cui definizione risulta necessario l’accordo in conferenza Stato-Regione (secondo quanto la Corte Costituzionale, con le sentenze n. 134 del 2006 e n. 88 del 2003, ha ritenuto costituzionalmente necessitato)».

Le disposizioni impugnate oltre a ledere la competenza legislativa regionale in materia di tutela della salute di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. si porrebbero in contrasto anche con l’art. 119 Cost. in quanto la Regione, per garantire invariato il livello di assistenza sanitaria, si troverebbe nella condizione di dover integrare il fondo sanitario regionale con proprie risorse finanziarie.

In altri termini, il legislatore statale, con le disposizioni oggetto di impugnativa, impone di utilizzare il finanziamento sanitario per prestazioni del tutto estranee alla finalità del finanziamento stesso, riducendo le risorse per i LEA, che restano così a carico delle Regioni.

3.– In data 10 novembre 2009 si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri concludendo per la declaratoria di infondatezza del ricorso.

La parte resistente precisa che fin dall’anno 1988 i fondi per gli accertamenti medico-legali sono stati trasferiti dagli stati di previsione dei singoli Ministeri al Fondo Sanitario Nazionale, come evidenziato nella relazione del 16 maggio 2004 del Tavolo di monitoraggio dei livelli essenziali di assistenza sanitaria istituito presso la Segreteria della Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le Regioni e le Province autonome.

Pertanto, le norme oggetto di impugnazione, nel prevedere che gli accertamenti medico-legali rientrano nei compiti istituzionali del servizio sanitario nazionale, non dispongono un incremento del livello del finanziamento del servizio sanitario nazionale stesso, in quanto il fondo sanitario nazionale già ingloba le risorse destinate a tale scopo.

La disposizione impugnata si limita a prevedere che sia individuata, all’interno del Fondo Sanitario Nazionale, la quota complessiva di risorse che consente la copertura degli oneri connessi all’espletamento delle visite fiscali e che sia ripartita tra le Regioni sulla base del numero di dipendenti pubblici presenti nelle Regioni medesime.

Qualora la spesa effettiva per gli accertamenti medico-legali risulti inferiore alla quota individuata in sede di riparto, le Regioni potranno utilizzare le restanti risorse per altre finalità sanitarie. L’individuazione di tale quota, pertanto, non si configurerebbe come un vincolo di bilancio, ma come un’indicazione per la programmazione regionale.

L’Avvocatura dello Stato sottolinea, infine, che l’ammontare delle predette risorse sarà definito congiuntamente con le Regioni, perché sul riparto del fondo sanitario nazionale è prevista l’adozione dell’intesa nella Conferenza Stato-Regioni.

4.– Con memoria illustrativa depositata in data 7 aprile 2010 la difesa del Presidente del Consiglio ha ribadito le argomentazioni esposte nell’atto di costituzione, insistendo nella richiesta di rigetto del ricorso.

Considerato in diritto

1.– La Regione Toscana ha promosso, tra le altre, la questione di legittimità costituzionale – per violazione degli artt. 117 e 119 della Costituzione – dell’art. 17, comma 23, lettera e), del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, nella parte in cui aggiunge all’art. 71 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, i seguenti commi: «5-bis. Gli accertamenti medico-legali sui dipendenti assenti dal servizio per malattia effettuati dalle aziende sanitarie locali su richiesta delle Amministrazioni pubbliche interessate rientrano nei compiti istituzionali del Servizio sanitario nazionale; conseg uentemente i relativi oneri restano comunque a carico delle aziende sanitarie locali», e «5-ter. A decorrere dall’anno 2010 in sede di riparto delle risorse per il finanziamento del Servizio sanitario nazionale è individuata una quota di finanziamento destinata agli scopi di cui al comma 5-bis, ripartita fra le regioni tenendo conto del numero dei dipendenti pubblici presenti nei rispettivi territori; gli accertamenti di cui al medesimo comma 5-bis sono effettuati nei limiti delle ordinarie risorse disponibili a tale scopo».

2.– In particolare, secondo la ricorrente, sarebbe violata la competenza legislativa concorrente della Regione in materia di tutela della salute e di organizzazione del servizio sanitario di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto le norme impugnate, imponendo la gratuità delle visite fiscali, gravano del relativo onere le aziende sanitarie e, quindi, il fondo sanitario regionale, così vanificando la scelta organizzativa regionale di richiedere il pagamento delle prestazioni secondo una tariffa determinata.

Infatti, l’attività di controllo medico-legale sulle condizioni di salute dei lavoratori dipendenti, al fine di accertare, su richiesta del datore di lavoro, la legittimità dell’assenza del lavoratore, pur rientrando nelle competenze delle ASL, non costituisce un livello essenziale di assistenza, non essendo una prestazione di cura e prevenzione e, tanto meno, avendo la finalità di tutelare la salute collettiva.

Inoltre, secondo la Regione Toscana, sarebbe lesa anche l’autonomia finanziaria regionale di cui all’art. 119 Cost. perché la Regione, per garantire invariato il livello di assistenza sanitaria, si troverebbe costretta ad integrare il fondo sanitario regionale con proprie risorse finanziarie.

2.1.– È riservata a separate pronunce ogni decisione sulle ulteriori questioni di legittimità costituzionale del decreto legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, proposte dalla Regione Toscana con il presente ricorso.

3.– La questione innanzi indicata è fondata.

3.1.– Il legislatore statale nell’ultimo biennio è intervenuto ripetutamente in tema di assenze per malattia dei dipendenti pubblici. In un primo momento, l’art. 71, comma 3, del d.l. n. 112 del 2008, ha previsto che l’Amministrazione «dispone il controllo in ordine alla sussistenza della malattia del dipendente anche nel caso di assenza di un solo giorno, tenuto conto delle esigenze funzionali e organizzative». Successivamente, l’art. 17, comma 23, lettera e), del decreto-legge n. 78 del 2009, oggetto del presente giudizio, ha modificato l’art. 71 del d.l. n. 112 del 2008, da un lato aggiungendovi i commi 5-bis e 5-ter, e, dall’altro, abrogando il citato comma 3.

Tale ultima disposizione è stata poi trasfusa, ad opera dell’art. 69 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni), senza alcuna modifica, nell’art. 55-septies, comma 5, primo periodo, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche).

A sua volta, l’art. 74, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2009 afferma che numerosi articoli del medesimo decreto legislativo, tra i quali l’art. 69, che come si è visto, contiene il nuovo art. 55-septies ora citato, sono espressione della potestà legislativa esclusiva attribuita allo Stato dall’art. 117, secondo comma, lettere l) ed m), della Costituzione

3.2.– Così delineato il quadro normativo di riferimento, è necessario, ai fini del presente giudizio, individuare l’ambito materiale al quale ricondurre la disciplina oggetto dell’impugnazione della Regione Toscana. Tale materia è quella della «tutela della salute» di cui all’art. 117, terzo comma, Cost.

Infatti, nonostante l’autoqualificazione compiuta dal legislatore statale con il citato art. 74, comma 1, del d.lgs. n. 150 del 2009, la disciplina in esame non è riconducibile alla materia della «determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale», attribuita dall’articolo 117, secondo comma, lettera m), Cost., alla competenza legislativa esclusiva dello Stato.

Nella giurisprudenza di questa Corte si è costantemente affermato che «ai fini del giudizio di legittimità costituzionale, la qualificazione legislativa non vale ad attribuire alle norme una natura diversa da quella ad esse propria, quale risulta dalla loro oggettiva sostanza» (ex plurimis, sentenze n. 447 del 2006 e n. 482 del 1995).

In altri termini, per individuare la materia alla quale devono essere ascritte le disposizioni oggetto di censura, non assume rilievo la qualificazione che di esse dà il legislatore, ma occorre fare riferimento all’oggetto ed alla disciplina delle medesime, tenendo conto della loro ratio e tralasciando gli aspetti marginali e gli effetti riflessi, così da identificare correttamente e compiutamente anche l’interesse tutelato (sentenze n. 430, n. 169 e n. 165 del 2007).

La fissazione dei livelli essenziali di assistenza si identifica, secondo la giurisprudenza di questa Corte, nella «determinazione degli standard strutturali e qualitativi delle prestazioni da garantire agli aventi diritto su tutto il territorio nazionale», non essendo «pertanto inquadrabili in tale categoria le norme volte ad altri fini, quali, ad esempio, l’individuazione del fondamento costituzionale della disciplina, da parte dello Stato, di interi settori materiali o la regolamentazione dell’assetto organizzativo e gestorio degli enti preposti all’erogazione delle prestazioni» (sentenza n. 371 del 2008).

Si è già avuto modo di affermare che, in tema di tutela della salute, la disciplina statale che determina i livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale comporta una forte compressione della sfera di autonomia regionale. Pertanto, con riferimento alle prestazioni richieste alle aziende sanitarie, la deroga alla competenza legislativa delle Regioni, in favore di quella dello Stato, è ammessa solo nei limiti necessari ad evitare che, in parti del territorio nazionale, gli utenti debbano assoggettarsi ad un regime di assistenza sanitaria inferiore, per quantità e qualità, a quello ritenuto intangibile dallo Stato (sentenza n. 387 del 2007).

Così delineata la nozione di prestazione sanitaria che possieda le caratteristiche per rientrare nell’ambito dei livelli essenziali di assistenza, deve ritenersi condivisibile la ricostruzione operata dalla giurisprudenza ordinaria e amministrativa, secondo cui l’accertamento medico-legale sui dipendenti pubblici assenti dal servizio per malattia è un’attività strumentale al controllo della regolarità dell’assenza del dipendente, volta principalmente alla tutela di un interesse del datore di lavoro, la quale trova solo indirettamente un collegamento con prestazioni poste a tutela della salute del lavoratore (Cass. Sez. 1, sentenza n. 13992 del 28 maggio 2008 e Cons. di Stato Sez. V, sentenza n. 5690 del 29 gennaio 2008).

Inoltre, sarebbe del tutto irragionevole, qualora si volesse riconoscere agli accertamenti medico-legali sui dipendenti assenti dal servizio per malattia il carattere di livello essenziale di assistenza, limitare tale qualificazione alla sola ipotesi delle visite fiscali richieste dalle amministrazioni pubbliche e non anche riconoscere pari natura a quelle richieste dai datori di lavoro privati, dato che si attribuirebbe a questo tipo di verifiche il carattere di prestazione diretta a realizzare uno standard strutturale e qualitativo tale da dover essere garantito in modo uniforme a tutti gli aventi diritto sul territorio nazionale.

3.4.– Le norme in esame, dunque, devono essere correttamente ricondotte alla materia di competenza legislativa concorrente della «tutela della salute» (art. 117, terzo comma, della Costituzione) che, come la Corte ha più volte ribadito, è «assai più ampia» rispetto a quella precedente dell’«assistenza ospedaliera» (sentenze n. 134 del 2006 e n. 270 del 2005), ed esprime «l’intento di una più netta distinzione fra la competenza regionale a legiferare in queste materie e la competenza statale, limitata alla determinazione dei principi fondamentali della disciplina» (sentenza n. 162 del 2007).

Infatti, la disciplina degli accertamenti medico-legali sui dipendenti assenti per malattia, anche se viene attivata per soddisfare l’interesse del datore di lavoro volto a controllare e verificare la regolarità e legittimità dell’assenza per malattia del lavoratore, viene altresì a configurare una prestazione di tipo sanitario che si sostanzia, quanto meno, in una diagnosi sulla salute del lavoratore conforme o difforme rispetto a quella effettuata dal medico curante o alla condizione denunciata dal lavoratore e che può anche determinare l’adozione di misure che eccedono la persona del dipendente, qualora l’accertamento evidenzi patologie che presentino rischi di contagio.

Inoltre, questa Corte ha più volte affermato che le norme che disciplinano gli aspetti organizzativi dell’attività sanitaria vanno anch’esse ricondotte alla materia della tutela della salute, quando sono idonee ad incidere sulla salute dei cittadini, costituendo le modalità di organizzazione del servizio sanitario la cornice funzionale ed operativa che garantisce la qualità e l’adeguatezza delle prestazioni erogate (sentenza n. 181 del 2006).

Nel caso in questione, risulta evidente la stretta inerenza che tutte le norme de quibus presentano con l’organizzazione del servizio sanitario e con il relativo finanziamento, tenendo, tra l’altro, conto che è stato legislativamente previsto che tale tipo di prestazioni possa essere effettuato solo mediante le aziende sanitarie locali.

3.5.– Una volta stabilito che le norme impugnate dalla Regione Toscana rientrano nella materia «tutela della salute», occorre verificare, trattandosi di una materia rimessa alla competenza legislativa concorrente, se alle stesse possa essere riconosciuta la natura di normativa di principio.

La risposta deve essere negativa, in quanto la disciplina introdotta dai commi 5-bis e 5-ter non lascia alcuno spazio di intervento alla Regione non solo per un’ipotetica legiferazione ulteriore, ma persino per una normazione secondaria di mera esecuzione, con l’effetto, peraltro, di vincolare risorse per l’effettuazione di una prestazione che non rientra nella materia di competenza esclusiva dello Stato di cui al già citato art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., incidendo, in tal modo, anche sull’autonomia finanziaria della Regione, tutelata dall’art. 119 Cost.

In conclusione, il comma 5-bis dell’art. 71 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, il quale dispone che le visite fiscali sul personale dipendente delle pubbliche amministrazioni rientrano tra i compiti istituzionali del servizio sanitario nazionale e che i relativi oneri sono a carico delle aziende sanitarie, non è ascrivibile ad alcun titolo di competenza legislativa esclusiva dello Stato e, trattandosi di normativa di dettaglio in materia di «tutela della salute», si pone in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., mentre il comma 5-ter, che vincola una quota delle risorse per il finanziamento del servizio sanitario nazionale, destinandole a sostenere il costo di una prestazione che non può essere qualificata come livello essenziale di assistenza, si pone in contrasto con l’art. 119 Cost., ledendo l’autonomia finanziaria delle Regioni.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riservata a separate pronunce ogni decisione sulle ulteriori questioni di legittimità costituzionale del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, proposte dalla Regione Toscana con il ricorso indicato in epigrafe;

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 17, comma 23, lettera e), del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, nella parte in cui aggiunge all’art. 71 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, i commi 5-bis e 5-ter.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte Costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedente

SENTENZA N. 208

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 23, lettera e), del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, modificativo dell’art. 71 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, promosso dalla Regione Puglia con ricorso notificato il 1° ottobre 2009, depositato in cancelleria il 6 ottobre 2009 ed iscritto al n. 74 del registro ricorsi 2009.

Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 28 aprile 2010 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano;

udito l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso notificato il 1° ottobre 2009 e depositato il successivo 6 ottobre, la Regione Puglia ha promosso questione di legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 117 e 119 della Costituzione – dell’art. 17, comma 23, lettera e), del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, nella parte in cui aggiunge all’art. 71 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, i seguenti commi: «5-bis. Gli accertamenti medico-legali sui dipendenti assenti dal servizio per malattia effettuati dalle aziende sanitarie locali su richiesta delle Amministrazioni pubbliche interessate rientrano nei co mpiti istituzionali del Servizio sanitario nazionale; conseguentemente i relativi oneri restano comunque a carico delle aziende sanitarie locali», e «5-ter. A decorrere dall’anno 2010 in sede di riparto delle risorse per il finanziamento del Servizio sanitario nazionale è individuata una quota di finanziamento destinata agli scopi di cui al comma 5-bis, ripartita fra le regioni tenendo conto del numero dei dipendenti pubblici presenti nei rispettivi territori; gli accertamenti di cui al medesimo comma 5-bis sono effettuati nei limiti delle ordinarie risorse disponibili a tale scopo».

Il ricorso è stato notificato al Presidente del Consiglio esclusivamente presso l’Avvocatura generale dello Stato.

Secondo la ricorrente, le norme oggetto del ricorso si limitano a regolare l’imputazione degli oneri finanziari correlati all’effettuazione delle visite fiscali, fissando la regola per cui detti oneri non gravano sui soggetti pubblici fruitori delle prestazioni medico-legali, bensì sulle strutture sanitarie incaricate del loro svolgimento, di talché esse incidono in via diretta ed esclusiva sulla organizzazione funzionale e sulle competenze contabili e finanziarie delle aziende sanitarie alle quali è imposto di sopportare il costo delle prestazioni in questione.

La Regione evidenzia che la fattispecie regolata dai commi 5-bis e 5-ter dell’art. 71 del d.l. n. 112 del 2008 non è riconducibile ad alcuna materia in cui lo Stato ha la competenza legislativa esclusiva, ai sensi del comma secondo dell’art. 117 Cost., né ad ambiti materiali rientranti nella competenza concorrente, ai sensi del comma terzo della medesima disposizione costituzionale, sicché si dovrebbe ritenere che la potestà legislativa in materia appartenga in via residuale alle Regioni ex art. 117, quarto comma, Cost.

In subordine, qualora si voglia ricondurre le norme impugnate alla materia «tutela della salute» di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., secondo la ricorrente sarebbe comunque violata la competenza legislativa delle Regioni, dal momento che i commi introdotti dall’art. 17, comma 23, lettera e), del decreto-legge n. 78 del 2009, non possono essere qualificati come normativa di principio. Le disposizioni in esame, infatti, incidono sull’organizzazione del servizio, in particolare sulle competenze finanziarie e contabili delle aziende sanitarie locali, e introducono una disciplina del tutto autosufficiente che non lascia alcuno spazio di intervento al legislatore regionale, con l’effetto di vincolare determinate risorse per l’effettuazione di una prestazione che non rientra in materie di competenza esclusiva dello Stato.

Infine, sotto altro diverso e concorrente profilo, la Regione lamenta la violazione dell’art. 119 della Costituzione, atteso che le norme in esame stabiliscono un preciso vincolo rispetto alla finalizzazione di una parte del finanziamento del Servizio sanitario nazionale in una materia che esula dalla potestà legislativa esclusiva del legislatore statale e che, come tale, è regolata dal principio dell’autonomia finanziaria delle Regioni di cui all’art. 119 Cost., che vieta allo Stato sia di gestire autonomamente le risorse delle Regioni sia di stabilire una destinazione vincolata ai finanziamenti statali.

Si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri concludendo per la declaratoria di infondatezza del ricorso.

La parte resistente precisa che fin dall’anno 1988 i fondi per gli accertamenti medico-legali sono stati trasferiti dagli stati di previsione dei singoli Ministeri al Fondo Sanitario Nazionale, come evidenziato nella relazione del 16 maggio 2004 del Tavolo di monitoraggio dei livelli essenziali di assistenza sanitaria istituito presso la Segreteria della Conferenza permanente per i rapporti fra lo Stato, le Regioni e le Province autonome.

Per questo motivo, a parere dell’Avvocatura dello Stato, la disposizione in questione non si configurerebbe come un vincolo di bilancio, ma come una mera indicazione per la programmazione regionale.

Infine, la difesa del Presidente del Consiglio dei ministri evidenzia che l’ammontare delle risorse da destinare agli accertamenti medico-legali sui dipendenti pubblici assenti dal servizio per malattia sarà definito congiuntamente con le Regioni, perché sul riparto del Fondo Sanitario Nazionale è prevista l’adozione dell’intesa nella Conferenza Stato-Regioni.

Con memoria depositata in data 7 aprile 2010 la difesa del Presidente del Consiglio ha ribadito le proprie difese concludendo per il rigetto del ricorso.

All’udienza del 28 aprile 2010 l’Avvocatura dello Stato ha eccepito l’inammissibilità del ricorso in quanto notificato solo presso l’Avvocatura generale dello Stato.

Considerato in diritto

1.– La Regione Puglia ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 17, comma 23, lettera e), del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, nella parte in cui aggiunge all’art. 71 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, i seguenti commi: «5-bis. Gli accertamenti medico-legali sui dipendenti assenti dal servizio per malattia effettuati dalle aziende sanitarie locali su richiesta delle Amministrazioni pubbliche interessate rientrano nei compiti istituzionali del Servizio sanitario nazionale; conseguentemente i relativi oneri restano comunque a carico delle aziende sanitarie locali», e «5 -ter. A decorrere dall’anno 2010 in sede di riparto delle risorse per il finanziamento del Servizio sanitario nazionale è individuata una quota di finanziamento destinata agli scopi di cui al comma 5-bis, ripartita fra le regioni tenendo conto del numero dei dipendenti pubblici presenti nei rispettivi territori; gli accertamenti di cui al medesimo comma 5-bis sono effettuati nei limiti delle ordinarie risorse disponibili a tale scopo», per violazione degli artt. 117 e 119 della Costituzione.

Il ricorso è stato notificato al Presidente del Consiglio esclusivamente presso l’Avvocatura generale dello Stato.

L’Avvocatura dello Stato ha evidenziato l’inammissibilità del ricorso non potendo ritenersi validamente instaurato il giudizio in forza della errata notificazione dell’atto introduttivo.

2.– Il ricorso è inammissibile.

Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, infatti, «ai giudizi costituzionali non si applicano le norme sulla rappresentanza dello Stato in giudizio previste dall’art. 1 della legge 25 marzo 1958, n. 260, e dalla legge 3 aprile 1979, n. 103», con la conseguenza che, per la rituale proposizione del giudizio, l’atto deve essere notificato presso la sede del Presidente del Consiglio dei ministri (sent. n. 344 del 2005, sent. n. 333 del 2000, ord. n. 42 del 2004).

Nella fattispecie in esame, quindi, non può ritenersi validamente instaurato il giudizio in forza della notificazione del ricorso al Presidente del Consiglio dei ministri, avvenuta presso l’Avvocatura generale dello Stato.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile il ricorso indicato in epigrafe proposto dalla Regione Puglia avverso l’art. 17, comma 23, lettera e), del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, in riferimento agli artt. 117 e 119 della Costituzione.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 giugno 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 10 giugno 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA