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Deposito del 21/07/2010 (dalla 259 alla 265)

 
S.259/2010 del 07/07/2010
Udienza Pubblica del 25/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore TESAURO


Norme impugnate: Provvedimento del Commissario del Governo per la Provincia autonoma di Bolzano prot. n. 964/2008, Area III, del 10/09/2008.
Provvedimento e lettera del Questore della Provincia autonoma di Bolzano n. 11-A/2008/P.A.S.I. del 17/09/2008.
Provvedimenti del Questore della Provincia autonoma di Bolzano nn. 11-A/2008/P.A.S.I. del 16/09/2008 e del 21/10/2008.
Provvedimento del Questore della Provincia autonoma di Bolzano nn. 11-A/2008/P.A.S.I. del 22/10/2008 e lettera del 21/10/2008.
Provvedimento e lettera del Questore della Provincia autonoma d i Bolzano nn. 11-A/2008/P.A.S.I. dell'11/10/2008.
Provvedimento e lettera del Questore della Provincia autonoma di Bolzano nn. 11-A/2008/P.A.S.I. dell'11/10/2008.

Oggetto: Sicurezza pubblica - Controlli di polizia nei confronti di alcuni esercizi pubblici siti nella Provincia di Bolzano.

Dispositivo: respinge il ricorso
Atti decisi: confl. enti 19, 20, 21, 25, 26 e 27/2008
O.260/2010 del 07/07/2010
Camera di Consiglio del 09/06/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Artt. 186, c. 2°, del codice della strada (d.lgs. 30.4.1992, n. 285) e 23 della legge 24/11/1981, n. 689.

Oggetto: Circolazione stradale - Reato di guida sotto l'influenza dell'alcool - Sanzioni amministrative accessorie conseguenti a comportamento penalmente rilevante - Opposizione avverso provvedimento prefettizio di sospensione provvisoria della validità della patente di guida - Ritenuta impossibilità per il prefetto di valutare le esigenze lavorative del trasgressore in sede di applicazione della sanzione accessoria - Omessa previsione che il giudice dell'opposizione, esercitando i medesimi poteri conferiti al giudice dell'esecuzione penale e al giudice dell'opposizione alle misure restrittive di cui al d.P.R. n. 309 del 1990, possa disciplinare la sospensione della patente in modo da non ostacolare il lavoro del trasgressore.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 330/2009
O.261/2010 del 07/07/2010
Camera di Consiglio del 09/06/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore CRISCUOLO


Norme impugnate: Art. 305 del codice di procedura civile, nel testo anteriore alla modifica apportata dall'art. 46, c. 14°, della legge 18/2/2009, n. 69.

Oggetto: Procedimento civile - Interruzione del processo per intervenuta dichiarazione di fallimento di parte costituita - Termine di sei mesi per la prosecuzione o la riassunzione del processo interrotto - Decorrenza dalla data dell'interruzione determinata, ai sensi dell'art. 43, comma terzo, della legge fallimentare, dall'apertura del fallimento - Eccepita estinzione del giudizio per intempestività della riassunzione effettuata dalla parte interessata - Decorrenza del termine per la riassunzione del processo, ad opera di parte diversa da quella fallita, dalla data dell'interruzi one per intervenuta dichiarazione di apertura del fallimento ex art. 4 3, comma terzo, della legge fallimentare, anziché dalla data dell'effettiva conoscenza dell'evento interruttivo.

Dispositivo: manifesta infondatezza
Atti decisi: ord. 293/2009
O.262/2010 del 07/07/2010
Camera di Consiglio del 09/06/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore MAZZELLA


Norme impugnate: Artt. 2 e 3 della legge della Regione Calabria 19/10/2009, n. 31.

Oggetto: Amministrazione pubblica - Impiego pubblico - Norme della Regione Calabria - Costituzione dei presidi idraulici - Personale tecnico-amministrativo con qualifiche di sorveglianti e ufficiali idraulici - Individuazione nell'ambito del personale di ruol o della Regione anche tra quello dei bacini LSU e LPU, nonché autorizzazione all'AFOR ad assumere a tempo determinato il personale già utilizzato per lo stesso servizio dalla società affidataria dell'appalto di cui al bando di gara del 30/1/2008, nelle more dell'espletamento delle procedure selettive - Lamentata forma di inquadramento riservato, nonché inosservanza delle procedure di reclutamento stabilite dalla legislazione nazionale.

Dispositivo: estinzione del processo
Atti decisi: ric. 106/2009
O.263/2010 del 07/07/2010
Camera di Consiglio del 23/06/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore FRIGO


Norme impugnate: Art. 6, c. 2°, 3°, 4°, 5° e 6°, della legge 20/06/2003, n. 140.

< em>Oggetto: Parlamento - Intercettazioni "occasionali" di comunicazioni o conversazioni di membri del Parlamento - Utilizzazione in procedimento penale subordinata alla autorizzazione della Camera di appartenenza.

Dispositivo: manifesta inammissibilità
Atti decisi: ord. 76/2010
O.264/2010 del 07/07/2010
Camera di Consiglio del 23/06/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SAULLE


Conflitto: Ammissibilità di conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della mancata presentazione al Parlamento del disegno di legge di cui all'art. 132 c. 2° Cost.; delle proposte di legge costituzionale d'iniziativa del dep. Karl Zeller (A. C . n. 18 del 29/04/2008), e del dep. Gianclaudio Bressa (A. C. n. 454 del 29/04/2008); e del disegno di legge costituzionale d'iniziativa del sen. Gianvittore Vaccari (A. S. n. 1161 del 28/10/2008).

Oggetto: Regioni - Variazioni territoriali - Referendum per la modificazione territoriale delle Regioni - Distacco del Comune di Livinallongo del Col di Lana dalla Regione Veneto e aggregazione alla Regione Trentino-Alto Adige - Mancata presentazione al Parlamento, da parte del Ministro per l'interno, entro sessanta giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del risultato del referendum che ha approvato la proposta, del disegno di legge di cui all'art. 132, secondo comma, della Costituzione - "Atto di imminente emanazione da individuarsi nel disegno di legge governativo di variazione territoriale relativo al Comune ricorrente", sulla scorta di alcuni disegni di legge costituzionale presentati dal Governo nel corso della XV legisla tura di variazione territoriale relativi al distacco di determinati C omuni da Regioni di diritto comune e alla loro aggregazione a Regioni a statuto speciale; Proposte di legge costituzionale d'iniziativa, rispettivamente, del deputato Karl Zeller e del deputato Gianclaudio Bressa e disegno di legge costituzionale d'iniziativa del senatore Gianvittore Vaccari.

Dispositivo: inammissibile
Atti decisi: confl. pot. amm. 3/2010
S.265/2010 del 07/07/2010
Udienza Pubblica del 25/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore FRIGO


Norme impugnate: Art. 275, c. 3°, del codice di procedura penale, come modificato dall'art. 2 del decreto legge 23/02/2009, n. 11, convertito con modificazioni in legge 23/04/2009, n. 38.

Oggetto: Processo penale - Misure cautelari - Criteri di scelta delle misure - Obbligatorietà, in presenza di esigenze cautelari, della misura della custodia cautelare in carcere per i reati di cui agli artt. 600-bis, 609-bis e 609-quater del cod. pen.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ord. 310, 311/2009; 14, 66/2010

pronuncia successiva

SENTENZA N. 259

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi per conflitti di attribuzione tra enti sorti a seguito dell’ordinanza del Commissario del Governo per la Provincia autonoma di Bolzano n. 964/2008, Area III, del 10 settembre 2008; del decreto del Questore della Provincia autonoma di Bolzano n. 11-A/2008/P.A.S.I., del 17 settembre 2008, e della relativa lettera di comunicazione datata 18 settembre 2008, dei decreti del Questore della Provincia autonoma di Bolzano n. 11-A/2008/P.A.S.I., del 16 settembre 2008 e del 21 ottobre 2008, e delle relative lettere di comunicazione; del decreto del Questore della Provincia autonoma di Bolzano n. 11-A/2008/P.A.S.I., del 22 ottobre 2008 e della relativa lettera di comunicazione; del decreto del Questore della Provincia autonoma di Bolzano n. 11-A/2008/P.A.S.I., del 21 ottobre 2008, e della relativa lettera di comunicazione e del decreto del Questore della Provincia autonoma di Bolzano n. 11-A/2008/P.A.S.I., dell’11 ottobre 2008, e della relativa le ttera di comunicazione, atti aventi ad oggetto la chiusura di alcuni esercizi pubblici siti nella Provincia autonoma di Bolzano, promossi dalla Provincia autonoma di Bolzano con ricorsi notificati il 13 novembre e l’11 dicembre 2008, depositati in cancelleria il 21 novembre e il 19 dicembre 2008 ed iscritti ai nn. 19, 20, 21, 25, 26 e 27 del registro conflitti tra enti 2008.

Udito nell’udienza pubblica del 25 maggio 2010 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro;

uditi gli avvocati Giuseppe Franco Ferrari e Roland Riz per la Provincia autonoma di Bolzano.

Ritenuto in fatto

1.– Con ricorso, iscritto al reg. ric. n. 19 del 2008, notificato il 13 novembre 2008, depositato il successivo 21 novembre, la Provincia autonoma di Bolzano ha proposto conflitto di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione all’ordinanza del Commissario del Governo per la Provincia di Bolzano del 10 settembre 2008 (prot. n. 964/2008, Area III del 10 settembre 2008, comunicato alla Provincia di Bolzano il 19 settembre 2008), che ha disposto la chiusura per sette giorni dell’esercizio pubblico “Kalterer Weinstadl” a seguito dell’intervenuto accertamento, nel corso di controlli di polizia, della somministrazione di bevande alcoliche, presso il medesimo esercizio, oltre l’orario consentito, in violazione del disposto dell’art. 6 del decreto-legge 3 agosto 2007, n. 117 (Disposizioni urgenti modificative del codice della strada per incrementare i livelli di sicurezza nella cir colazione), convertito, con modificazioni, dalla legge 2 ottobre 2007, n. 160.

Tale provvedimento – secondo la ricorrente – opererebbe un’illegittima invasione delle competenze in materia di esercizi pubblici e di spettacoli pubblici per quanto attiene alla pubblica sicurezza, attribuite alla Provincia dagli artt. 9, primo comma, nn. 6 e 7, e 16 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), oltre che delle attribuzioni già spettanti all’autorità di pubblica sicurezza, assegnate al Presidente della Provincia, nelle materie di competenza provinciale, dall’art. 20 del medesimo statuto speciale e dalle relative norme di attuazione, in specie dall’art. 3, primo comma, e 4, primo comma, lettera b), del decreto del Presidente della Repubblica 1° novembre 1973, n. 686 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la regione Trentino-Alto Adige concernente eserc izi pubblici e spettacoli pubblici), nonché dall’art. 4, comma 1, decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento), e dall’art. 3, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 19 novembre 1987, n. 526 (Estensione alla regione Trentino-Alto Adige ed alle province autonome di Trento e Bolzano delle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616).

Esso sarebbe, quindi, gravemente lesivo delle prerogative costituzionali assegnate alla Provincia, oltre che dalle predette norme statutarie e di attuazione, anche dagli artt. 105 e 107 dello statuto medesimo e dall’art. 117 della Costituzione in relazione all’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione).

L’attribuzione alla Provincia delle competenze inerenti anche alla funzione di garanzia della sicurezza pubblica, in relazione a determinate materie di spettanza provinciale, risponderebbe ad esigenze di contemperamento tra un adeguato collegamento con il territorio ed un sufficiente grado di accentramento della medesima funzione, in ossequio a quanto stabilito dall’art. 97 Cost., oltre che, nel quadro dei principi delineati dalle norme dello statuto e dalle norme di attuazione dello stesso, alla salvaguardia dell’autonomia speciale della Provincia autonoma di Bolzano che trova il suo fondamento nell’art. 6 della Costituzione.

Pertanto, la ricorrente chiede che la Corte dichiari che non spetta allo Stato, e per esso al Commissario del Governo per la Provincia di Bolzano, disporre con proprio provvedimento la sospensione della licenza di un esercizio pubblico e, per l’effetto, annulli l’atto impugnato.

2.– Con i ricorsi iscritti al reg. conflitti del 2008 ai numeri 20, 21, 25, 26 e 27, la Provincia autonoma di Bolzano ha proposto conflitto di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione a sei decreti del Questore della Provincia di Bolzano che hanno disposto la sospensione della licenza di alcuni esercizi pubblici.

In particolare, il ricorso iscritto al n. 20 del reg. conflitti del 2008 concerne il provvedimento del Questore della Provincia di Bolzano del 18 settembre 2008 (n. 11-A/2008/P.A.S.I., del 17 settembre 2008, comunicato alla Provincia di Bolzano il 18 settembre 2008) e la relativa lettera di comunicazione. Con tale provvedimento è stata disposta la chiusura per dieci giorni, ai sensi dell’art. 100 del regio decreto 16 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), dell’esercizio pubblico “Caffè Agadir”, sito in Bolzano, in quanto, nel corso di controlli di polizia, è stata accertata la presenza abituale di persone pregiudicate ed il verificarsi di liti ed aggressioni che hanno comportato la necessità dell’intervento delle forze dell’ordine, con l’individuazione di una persona non in regola con le norme sul soggiorno.

Con il ricorso iscritto al n. 21 del reg. conflitti del 2008 sono stati impugnati il provvedimento del Questore della Provincia di Bolzano del 16 settembre 2008 (n. 11-A/2008/P.A.S.I., del 16 settembre 2008, comunicato alla Provincia di Bolzano il 16 settembre 2008), con cui è stata disposta la chiusura per dieci giorni, ai sensi dell’art. 100 T.U.L.P.S., dell’esercizio pubblico “Bar Casablanca”, sito in Bolzano, e la relativa lettera di comunicazione, nonché il successivo provvedimento del medesimo Questore del 21 ottobre 2008 (n. 11-A/2008/P.A.S.I., del 21 ottobre 2008, comunicato alla Provincia di Bolzano il 22 ottobre 2008), con cui è stata disposta nuovamente la chiusura per 15 giorni, ai sensi dell’art. 100 T.U.L.P.S., del medesimo esercizio, e la relativa lettera di comunicazione. Tali provvedimenti sono stati adottati dal Questore in quanto, nel corso di controlli di polizia, era stata accertata la presenz a abituale di persone pregiudicate e la violazione delle disposizioni in materia di orario di chiusura dei locali pubblici e, successivamente, si era reso necessario l’intervento delle forze di polizia per sedare una rissa in corso tra persone di nazionalità straniera, intervento in esito al quale era stato altresì disposto il sequestro di 2 grammi di cocaina.

Il ricorso iscritto al n. 25 del reg. conflitti del 2008 ha ad oggetto il provvedimento del Questore della Provincia di Bolzano del 22 ottobre 2008 (n. 11-A/2008/P.A.S.I., del 22 ottobre 2008, comunicato alla Provincia di Bolzano il 22 ottobre 2008), con cui è stata disposta la chiusura per sette giorni, ai sensi dell’art. 100 T.U.L.P.S., dell’esercizio pubblico “New Bar”, sito in Bolzano, e la relativa lettera di comunicazione, datata 22 ottobre 2008, nonché la lettera del Questore prot. n. 11-A/2008/P.A.S.I. del 21 ottobre 2008, comunicata alla Provincia di Bolzano in data 21 ottobre 2008. Siffatto provvedimento è stato adottato in quanto, nel corso di controlli di polizia, era stata accertata la presenza abituale, in detto esercizio pubblico, di persone pregiudicate.

Con i ricorsi iscritti ai nn. 26 e 27 del reg. conflitti del 2008, sono stati, infine, impugnati, rispettivamente, il provvedimento del Questore della Provincia di Bolzano dell’11 ottobre 2008 (n. 11-A/2008/P.A.S.I., dell’11 ottobre 2008, comunicato alla Provincia di Bolzano il 14 ottobre 2008), con cui è stata disposta la chiusura per dieci giorni dell’esercizio pubblico “Bar Muuh”, sito in Merano, e la relativa lettera di comunicazione datata 11 ottobre 2008, comunicata alla Provincia di Bolzano in data 14 ottobre 2008, nonché il provvedimento del Questore dell’11 ottobre 2008 (n. 11-A/2008/P.A.S.I., dell’11 ottobre 2008, comunicato alla Provincia di Bolzano il 14 ottobre 2008), con cui è stata disposta la chiusura per dieci giorni dell’esercizio pubblico “Bar Romana”, sito in Merano, e la relativa lettera di comunicazione. Anche tali provvedimenti sono stati adottati in quanto, ne l corso di controlli di polizia, era stata accertata, in detti esercizi pubblici, la presenza abituale di persone pregiudicate.

Secondo la ricorrente, i provvedimenti avrebbero illegittimamente invaso le competenze in tema di “turismo ed industria alberghiera”, “esercizi pubblici” e “spettacoli pubblici per quanto attiene alla pubblica sicurezza”, attribuite alla Provincia dagli artt. 8, primo comma, n. 20, 9, primo comma, nn. 6 e 7, e 16 dello statuto speciale, nonché le attribuzioni già spettanti all’autorità di pubblica sicurezza, assegnate al Presidente della Provincia, nelle rispettive materie, dall’art. 20 del medesimo statuto speciale e dalle relative norme di attuazione (in specie dall’art. 3, primo comma, del d.P.R. n. 686 del 1973, nonché dall’art. 4, comma 1, d.lgs. n. 266 del 1992 e dall’art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 526 del 1987).

Tali provvedimenti sarebbero, quindi, gravemente lesivi delle prerogative costituzionali attribuite alla medesima Provincia, oltre che dalle predette norme statutarie e di attuazione statutaria, anche dall’art. 107 dello statuto e dall’art. 117 della Costituzione in relazione all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001.

In tutti i citati ricorsi, la ricorrente sostiene, inoltre, che l’attribuzione alla Provincia delle competenze inerenti anche alla funzione di garanzia della sicurezza pubblica, in relazione a determinate materie di spettanza provinciale, risponderebbe ad esigenze di contemperamento tra un adeguato collegamento con il territorio ed un sufficiente grado di accentramento della medesima funzione, in ossequio a quanto stabilito dall’art. 97 Cost., oltre che, nel quadro dei principi delineati dalle norme dello statuto e dalle norme di attuazione, alla salvaguardia dell’autonomia speciale della Provincia autonoma di Bolzano che trova il suo fondamento nell’art. 6 della Costituzione.

Pertanto, la ricorrente chiede che la Corte dichiari che non spetta allo Stato, e per esso al Questore della Provincia di Bolzano, imporre con proprio provvedimento la sospensione della licenza di un esercizio pubblico e, per l’effetto, annulli gli atti impugnati.

3.– All’udienza pubblica del 22 settembre 2009 la Provincia di Bolzano ha insistito per l’accoglimento delle conclusioni svolte nelle difese scritte.

4.– In ordine ai conflitti iscritti ai numeri 20, 21, 25, 26 e 27 del registro conflitti del2008, questa Corte, con ordinanza istruttoria, in esito all’udienza del 22 settembre 2009, ha disposto l’acquisizione dei provvedimenti del Questore impugnati, che non erano stati prodotti in giudizio.

5.– Nell’imminenza della successiva udienza pubblica del 25 maggio 2010, alla quale il giudizio era stato nel frattempo rinviato, la ricorrente ha depositato ulteriori memorie, insistendo per l’accoglimento dei ricorsi.

6.– Il Presidente del Consiglio dei ministri non ha svolto attività difensiva.

Considerato in diritto

1.– Con sei distinti ricorsi, la Provincia autonoma di Bolzano ha proposto altrettanti conflitti di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione ad una serie di provvedimenti di sospensione della licenza di svariati esercizi pubblici, adottati, rispettivamente, dal Commissario del Governo (reg. confl. n. 19 del 2008) e dal Questore (reg. confl. nn. 20, 21, 25, 26 e 27 del 2008) della Provincia di Bolzano.

La Provincia ritiene – in tutti i ricorsi – che con l’adozione degli atti impugnati lo Stato abbia violato le competenze legislative ed amministrative provinciali in materia di “turismo e industria alberghiera”, “esercizi pubblici” e “spettacoli pubblici per quanto attiene alla pubblica sicurezza”, di cui agli artt. 8, primo comma, n. 20, 9, primo comma, nn. 6 e 7, e 16 del decreto del Presidente della Repubblica 31 agosto 1972, n. 670 (Approvazione del testo unico delle leggi costituzionali concernenti lo statuto speciale per il Trentino-Alto Adige), e le connesse attribuzioni di cui all’art. 20 del medesimo statuto.

Secondo la ricorrente, tali norme attribuirebbero al Presidente della Provincia i poteri di pubblica sicurezza inerenti alle materie di competenza provinciale, configurando come meramente residuali i poteri di pubblica sicurezza spettanti agli organi statali. Nella Provincia di Bolzano, la linea di demarcazione fra le proprie competenze e le competenze statali non correrebbe, pertanto, «fra le funzioni di polizia amministrativa e l’area delle funzioni di polizia di pubblica sicurezza», ma si delineerebbe all’interno di quest’ultima, come risulterebbe confermato dalle pertinenti norme di attuazione dello statuto speciale ed in specie dagli artt. 3, primo comma, e 4, primo comma, lettera b), del decreto del Presidente della Repubblica 1° novembre 1973, n. 686 (Norme di attuazione dello statuto speciale per la regione Trentino-Alto Adige concernente esercizi pubblici e spettacoli pubblici), dall’art. 3, comma 3, del decreto del Presidente della Repubblica 19 novembre 1987, n. 526 (Estensione alla regione Trentino-Alto Adige ed alle province autonome di Trento e Bolzano delle disposizioni del decreto del Presidente della Repubblica 24 luglio 1977, n. 616), nonché dall’art. 4, comma 1, decreto legislativo 16 marzo 1992, n. 266 (Norme di attuazione dello statuto speciale per il Trentino-Alto Adige concernenti il rapporto tra atti legislativi statali e leggi regionali e provinciali, nonché la potestà statale di indirizzo e coordinamento).

I provvedimenti impugnati sarebbero lesivi delle prerogative provinciali, in quanto gli interessi tutelati dall’autorità statale di pubblica sicurezza con i predetti non avrebbero rilevanza esterna alle materie di competenza provinciale ed alle connesse attribuzioni provinciali di cui all’art. 20 dello statuto speciale, non attenendo in modo diretto all’ordine pubblico strettamente inteso, e rientrando, invece, nell’ampia competenza provinciale delimitata dalle citate norme statutarie e di attuazione statutaria.

2.– I ricorsi proposti, avendo ad oggetto provvedimenti di contenuto analogo, corrispondenti alla sospensione della licenza di esercizio pubblico, e impugnati con censure di identico contenuto, vanno riuniti e decisi con un’unica pronuncia.

3.– I ricorsi non sono fondati.

3.1.– Cinque dei sei ricorsi proposti (quelli iscritti ai numeri 20, 21, 25, 26 e 27 del 2008) impugnano alcuni decreti di sospensione temporanea della licenza di esercizi pubblici, adottati dal Questore della Provincia di Bolzano ai sensi dell’art. 100 del regio decreto 16 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), allo scopo di scongiurare il verificarsi di situazioni atte a turbare l’ordine pubblico e la sicurezza. Come riconosciuto dalla stessa ricorrente, dal testo degli atti impugnati, prodotti in giudizio, emerge, infatti, che l’adozione dei medesimi è avvenuta in quanto, nel corso di controlli di polizia, è stata accertata la presenza abituale di persone pregiudicate e talora si sono verificate liti ed aggressioni che hanno comportato la necessità dell’intervento delle forze dell’ordine.

Tali atti rientrano fra quelli, adottati ai sensi dell’art. 100 T.U.L.P.S., di sospensione della licenza di pubblico esercizio, la cui finalità, come questa Corte ha già espressamente affermato, «non è quella di sanzionare la condotta del gestore di un pubblico esercizio per avere consentito la presenza, nel proprio locale, di persone potenzialmente pericolose per l’ordine pubblico e la sicurezza dei cittadini, bensì quella di impedire, attraverso la chiusura del locale, il protrarsi di una situazione di pericolosità sociale; ragion per cui si ha riguardo esclusivamente alla esigenza obiettiva di tutelare l’ordine e la sicurezza dei cittadini, indipendentemente da ogni responsabilità dell’esercente» (sentenza n. 129 del 2009).

I provvedimenti impugnati, in quanto strumentali esclusivamente alla tutela della sicurezza dei cittadini, non determinano, quindi, alcuna lesione delle prerogative della Provincia e non sono riconducibili ai poteri di polizia assegnati al suo Presidente in materia di esercizi pubblici, costituendo legittimo svolgimento dei compiti di ordine pubblico, riservati allo Stato.

3.2.– Analoghe considerazioni devono svolgersi con riguardo al ricorso iscritto al n. 19 del 2008, avente ad oggetto un’ordinanza del Commissario del Governo per la Provincia di Bolzano, con cui è stata del pari disposta la sospensione temporanea della licenza di un esercizio pubblico, anche se a seguito dell’intervenuto accertamento, nel corso di controlli di polizia, della somministrazione di bevande alcoliche, presso il medesimo locale, oltre l’orario consentito, in violazione del disposto dell’art. 6 del decreto-legge 3 agosto 2007, n. 117 (Disposizioni urgenti modificative del codice della strada per incrementare i livelli di sicurezza nella circolazione), convertito, con modificazioni, dalla legge 2 ottobre 2007, n. 160.

Anche in tal caso, infatti, il provvedimento in esame è stato posto in essere in vista della prevalente necessità di tutelare la pubblica sicurezza, in attuazione di quanto, a tale scopo, prescritto dal citato art. 6 del d.l. n. 117 del 2007. Questa Corte ha già riconosciuto, a tal proposito, che la predetta disposizione si inserisce in un contesto normativo volto a favorire una «presa di coscienza dei pericoli, per l’incolumità degli utenti della strada, derivanti dall’abuso di bevande alcoliche» (sentenza n. 152 del 2010), cosicché risulta evidente che i provvedimenti adottati in attuazione della stessa sono volti esclusivamente ad evitare che si possano verificare episodi di guida in stato di ubriachezza potenzialmente lesivi dell’ordine pubblico.

Pertanto il provvedimento in esame non lede alcuna competenza provinciale, in quanto adottato nell’esercizio della competenza statale esclusiva in materia di ordine pubblico e pubblica sicurezza.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara che spettava allo Stato adottare:

- l’ordinanza del Commissario del Governo per la Provincia di Bolzano n. 964/2008, Area III, del 10 settembre 2008, con la quale è stata disposta la chiusura per sette giorni dell’esercizio pubblico “Kalterer Weinstadl”, sito in Caldano (reg. ric. n. 19 del 2008);

- il decreto del Questore della Provincia di Bolzano del 18 settembre 2008 (n. 11-A/2008/P.A.S.I., del 17 settembre 2008, comunicato alla Provincia di Bolzano il 18 settembre 2008), con cui è stata disposta la chiusura per dieci giorni, dell’esercizio pubblico bar “Caffè Agadir”, sito in Bolzano, e la relativa lettera di comunicazione, datata 17 settembre 2008, giunta al protocollo provinciale in data 18 settembre 2008 (reg. conflitti n. 20 del 2008);

- il decreto del Questore della Provincia di Bolzano del 16 settembre 2008 (n. 11-A/2008/P.A.S.I., del 16 settembre 2008, comunicato alla Provincia di Bolzano il 16 settembre 2008), con cui è stata disposta la chiusura per dieci giorni, dell’esercizio pubblico bar caffè “Bar Casablanca”, sito in Bolzano, e la relativa lettera di comunicazione, datata 16 settembre 2008, giunta al protocollo provinciale in data 16 settembre 2008, nonché il decreto del Questore della Provincia di Bolzano del 21 ottobre 2008 (n. 11-A/2008/P.A.S.I., del 21 ottobre 2008, comunicato alla Provincia di Bolzano il 22 ottobre 2008), con cui è stata disposta la chiusura per quindici giorni del medesimo bar caffè “Bar Casablanca”, e la relativa lettera di comunicazione, datata 21 ottobre 2008, giunta al protocollo provinciale in data 22 ottobre 2008 (reg. conflitti n. 21 del 2008);

- il decreto del Questore della Provincia di Bolzano (n. 11-A/2008/P.A.S.I., del 22 ottobre 2008, comunicato alla Provincia di Bolzano il 22 ottobre 2008), con cui è stata disposta la chiusura per sette giorni dell’esercizio pubblico “New Bar”, sito in Bolzano, e la relativa lettera di comunicazione, datata 22 ottobre 2008, nonché la lettera del Questore prot. n. 11-A/2008/P.A.S.I. del 21 ottobre 2008, comunicata alla Provincia di Bolzano in data 21 ottobre 2008, con cui quest’ultimo formulava richiesta di parere ai sensi dell’art. 21 dello statuto speciale (reg. conflitti n. 25 del 2008);

- il decreto del Questore della Provincia di Bolzano (n. 11-A/2008/P.A.S.I., dell’11 ottobre 2008, comunicato alla Provincia di Bolzano il 14 ottobre 2008), con cui è stata disposta la chiusura per dieci giorni dell’esercizio pubblico “Bar Muuh”, sito in Merano, e la relativa lettera di comunicazione, datata 11 ottobre 2008, comunicata alla Provincia di Bolzano in data 14 ottobre 2008 (reg. conflitti n. 26 del 2008);

- il decreto del Questore della Provincia di Bolzano (n. 11-A/2008/P.A.S.I., dell’11 ottobre 2008, comunicato alla Provincia di Bolzano il 14 ottobre 2008), con cui è stata disposta la chiusura per dieci giorni dell’esercizio pubblico “Bar Romana”, sito in Merano, e la relativa lettera di comunicazione, datata 11 ottobre 2008, comunicata alla Provincia di Bolzano in data 14 ottobre 2008 (reg. conflitti n. 27 del 2008).

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Giuseppe TESAURO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 21 luglio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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ORDINANZA N. 260

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 186, comma 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), e dell’art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), promosso dal Giudice di pace di Chiavenna nel procedimento vertente tra G. P. e la Prefettura di Sondrio, con ordinanza del 27 maggio 2009, iscritta al n. 330 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Udito nella camera di consiglio del 9 giugno 2010 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro.

Ritenuto che, nel corso di un giudizio di opposizione a ordinanza-ingiunzione con cui il Prefetto di Sondrio aveva disposto a carico di P.G. la sospensione cautelare della patente, per guida in stato di ebbrezza, l’opponente ha chiesto la determinazione delle modalità della sospensione, nel senso di limitare l’inibizione alla guida alla fascia oraria dalle ore 22.00 alle ore 7.00, con eventuale estensione del divieto all’intera giornata in corrispondenza del sabato e della domenica, sì da non impedirgli lo svolgimento della propria attività lavorativa;

che il Giudice di pace di Chiavenna, con ordinanza del 27 maggio 2009, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 186, comma 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), e dell’art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), per violazione degli artt. 1, 3, 4 e 97 della Costituzione;

che il rimettente riferisce che l’opponente ha sollecitato il giudice a esercitare, in ordine alle modalità di esecuzione della misura cautelare, i poteri derivanti dal combinato disposto dell’art. 62, secondo comma, della legge n. 689 del 1981, e dell’art. 75, comma 12, del decreto del Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza, testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), a tutela della propria posizione lavorativa;

che, secondo il giudice a quo, l’art. 23 della legge n. 689 del 1981 non conferisce tali poteri al giudice dell’opposizione a ordinanza-ingiunzione, onde è da considerare rilevante ai fini del decidere non solo la questione di legittimità costituzionale dell’art. 186, comma 2, del codice della strada – che dispone la sospensione della patente per guida in stato di ebbrezza – sollevata dall’opponente, ma anche quella, che il rimettente solleva d’ufficio, riguardante lo stesso art. 23 della legge n. 689 del 1981, nella parte in cui non consente al giudice dell’opposizione ad una misura cautelare prevista dal codice della strada di esercitare i poteri che sono conferiti al giudice dell’esecuzione penale e al giudice dell’opposizione alle misure restrittive previste in materia di stupefacenti;

che, riguardo alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice denuncia la disparità di trattamento con i casi in cui al giudice dell’esecuzione penale e al giudice dell’opposizione alle misure restrittive previste in materia di stupefacenti è consentito modulare l’attuazione della misura della sospensione tenendo conto delle esigenze di lavoro del soggetto e, inoltre, il contrasto con il principio dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e con il valore del lavoro come elemento fondante della vita collettiva (artt. 1, 3 e 4 della Costituzione), oltre che con quello della ragionevolezza;

che, nei casi riferiti, la tutela delle condizioni di lavoro beneficia soggetti resisi responsabili di reati ben più gravi, perché il condannato a pena detentiva sino a due anni di reclusione, che abbia ottenuto la sostituzione della pena detentiva con la libertà controllata o con la semi-detenzione, può ottenere dal magistrato di sorveglianza, giusta l’art. 62 della legge n. 689 del 1981, che la sospensione della patente di guida sia disciplinata in modo da non ostacolare lo svolgimento dell’attività lavorativa, ed il soggetto a carico del quale è stata accertata la detenzione di sostanze stupefacenti può vedersi applicata dal prefetto, in base all’art. 75, comma 12, del d.P.R. n. 309 del 1990, la misura della sospensione della patente di guida con modalità tali da non ostacolare il lavoro del condannato;

che, viceversa, il quadro normativo disegnato dagli artt. 186, comma 2, e 223 del codice della strada e 23 della legge n. 689 del 1981 prevede che il conducente che si sia reso colpevole del reato di guida in stato di ebbrezza, anche in presenza di un tasso alcolemico appena superiore al limite di legge, debba scontare il periodo della eventuale sospensione cautelare disposta dal prefetto senza alcun riguardo alle proprie esigenze lavorative, non potendo né l’autorità amministrativa né il giudice dell’opposizione adottare una soluzione diversa.

Considerato che il Giudice di pace di Chiavenna dubita della legittimità costituzionale degli artt. 186, comma 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), e 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), nella parte in cui non prevedono che il giudice dell’opposizione all’ordinanza-ingiunzione, con la quale il prefetto irroga la sanzione cautelare della sospensione della patente per guida in stato di ebbrezza, possa regolare l’esecuzione della misura con modalità tali da non ostacolare il lavoro del condannato;

che tale combinato disposto, secondo il rimettente, viola gli artt. 1, 3, 4 e 97 Cost., per disparità di trattamento rispetto ai casi nei quali il giudice dell’esecuzione penale, riguardo al condannato a pena detentiva sostituita da libertà controllata o da semi-detenzione, e il giudice dell’opposizione, riguardo al condannato a misure restrittive previste dal T.U. sugli stupefacenti, possono disciplinare la sospensione della patente in modo da non ostacolare lo svolgimento dell’attività lavorativa; per irragionevolezza, a causa del trattamento deteriore rispetto a quello che consegue alla commissione di reati più gravi; nonché per contrasto con il valore del lavoro come elemento fondante della vita collettiva;

che l’ordinanza del Giudice di pace di Chiavenna è priva di qualsiasi descrizione del fatto da cui possa rilevarsi se sussistano le esigenze lavorative conclamate dall’opponente e se, per soddisfare le stesse, sia indispensabile il possesso della patente di guida (vedi, in precedenza, su analoga questione relativa alla sospensione della patente, l’ordinanza n. 45 del 2007, di inammissibilità per insufficiente descrizione delle esigenze lavorative che avrebbero reso necessario l’uso della patente di guida);

che, sulla base delle anzidette considerazioni, la questione proposta è manifestamente inammissibile per omessa motivazione sulla rilevanza della stessa nel giudizio a quo (ex plurimis, ordinanze n. 85 del 2010; n. 201 del 2009; n. 441 del 2008), a prescindere da qualsiasi considerazione in merito alla fondatezza della stessa per avere il rimettente confuso la diversa natura della sospensione cautelare della patente (costantemente riaffermata dalla giurisprudenza costituzionale con ordinanze n. 344 del 2004, n. 167, n. 313 e n. 381 del 1998) con le normative concernenti l’esecuzione delle sanzioni accessorie.

Visti gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 186, comma 2, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), e dell’art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), sollevata, in riferimento agli articoli 1, 3, 4 e 97 della Costituzione, dal Giudice di pace di Chiavenna con l’ordinanza in epigrafe indicata.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 21 luglio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


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ORDINANZA N. 261

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 305 del codice di procedura civile, promosso dal Tribunale di Vicenza nel procedimento vertente tra R. C. e la Gemma s.r.l. ed altri, con ordinanza del 28 agosto 2009, iscritta al n. 293 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 9 giugno 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.

Ritenuto che il Tribunale di Vicenza, con ordinanza depositata il 28 agosto 2009, ha sollevato, in riferimento agli articoli 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 305 del codice di procedura civile «nella parte in cui prevede, nel caso di fallimento della parte costituita, che il termine perentorio per la riassunzione del processo decorra, per le parti diverse da quella fallita, dalla data dell’interruzione anziché dalla data in cui tali parti ne abbiano avuto effettiva conoscenza»;

che, come il rimettente riferisce, con atto di citazione notificato in data 18 aprile 2006, R. C. ha proposto opposizione al decreto ingiuntivo n. 407 del 2006 emesso dal Tribunale di Vicenza su ricorso della società G. s.r.l.;

che detta società si è costituita con comparsa depositata il 2 febbraio 2007;

che nell’udienza fissata in pari data il giudice, concessa la provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo, ha ordinato la chiamata in causa della G. P. s.n.c., la quale si è costituita con comparsa depositata il 20 luglio 2007;

che all’udienza celebrata in quella data il giudice, concessi alle parti i termini di cui all’art. 183, sesto comma, cod. proc. civ., ha rinviato al 19 giugno 2008 per l’ammissione delle prove;

che, con atto depositato il 20 gennaio 2008, è intervenuta in causa la R. s.r.l., assumendo di essere cessionaria del credito della convenuta, oggetto del decreto ingiuntivo;

che l’udienza del 19 giugno 2008 è stata rinviata di ufficio al 1° ottobre 2008;

che in tale udienza sono comparsi i soli difensori dell’opponente, della terza chiamata in causa e della terza intervenuta;

che alla medesima udienza l’opponente ha depositato una visura camerale dalla quale è risultato che l’opposta era stata dichiarata fallita dal Tribunale di Verona in data 11 marzo 2008;

che il giudice ha dichiarato l’interruzione del processo, ai sensi dell’art. 43, terzo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione concordata e della liquidazione coatta amministrativa), introdotto dall’art. 41 del decreto legislativo 9 gennaio 2006 n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005 n. 80);

che, con ricorso depositato in data 19 marzo 2009, l’opponente ha riassunto il processo, chiedendo la fissazione dell’udienza per la prosecuzione dello stesso;

che tale udienza si è tenuta in data 24 giugno 2009;

che, con atto depositato il 3 giugno 2009, il fallimento G. s.r.l. si è costituito eccependo, in via preliminare, l’estinzione del processo per omessa tempestiva riassunzione nel termine di sei mesi dalla data della dichiarazione di fallimento;

che alla predetta udienza l’opponente ha contestato che fosse decorso il termine di sei mesi previsto dall’art. 305 cod. proc. civ., ritenendo che tale termine decorresse, anche dopo la modifica dell’art. 43 della legge fallimentare, dalla data di dichiarazione in udienza dell’intervenuto fallimento e non dalla data della sentenza di fallimento;

che, in subordine, l’opponente ha chiesto che fosse sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 305 cod. proc. civ., mentre il fallimento G. s.r.l. ha insistito nella propria eccezione di estinzione del processo;

che il giudice a quo ritiene applicabili al processo in corso l’art. 305 cod. proc. civ., nel testo anteriore alle modifiche apportate dall’art. 46, comma 14, della legge 18 giugno 2009 n. 69 (Disposizioni per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività nonché in materia di processo civile) e l’art. 43 della legge fallimentare, nel testo risultante dalle modifiche apportate con il d.lgs. n. 5 del 2006;

che, in particolare, il rimettente osserva che l’art. 305 cod. proc. civ., così come riformato, si applica solo ai processi iniziati dopo la data di entrata in vigore della legge n. 69 del 2009, per cui non trova applicazione nel giudizio a quo;

che, ad avviso del giudicante, la questione comunque rileva anche con riferimento al testo modificato dell’art. 305 cod. proc. civ., in cui è previsto un termine più breve per la riassunzione del processo a seguito di interruzione dello stesso;

che, inoltre, il giudice a quo ritiene che l’art. 43 della legge fallimentare, come integrato dal d.lgs. n. 5 del 2006, sia applicabile alla fattispecie in esame, a norma degli artt. 150 e 153 del medesimo decreto legislativo, perché il fallimento della G. s.r.l. è stato dichiarato dopo l’entrata in vigore della riforma, cioè dopo il 16 luglio 2006;

che, infine, il rimettente osserva che l’art. 41 del citato d.lgs. è applicabile anche ai processi pendenti, trattandosi di norma processuale;

che, in punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo afferma che, fino alla modifica della legge fallimentare operata nel 2006, nel caso di fallimento della parte costituita l’interruzione del processo, a norma dell’art. 300, primo e secondo comma, cod. proc. civ., conseguiva alla dichiarazione in giudizio o alla notificazione dell’evento da parte del procuratore costituito per la fallita;

che, invece, l’art. 41 del d.lgs. n. 5 del 2006 ha aggiunto all’art. 43 della legge fallimentare il seguente comma: «l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo», disposizione da interpretare nel senso che il fallimento della parte provoca, automaticamente, detta interruzione, senza necessità di dichiarazione in giudizio o di notificazione alle parti dell’evento;

che in tal senso, ad avviso del rimettente, si sarebbe espressa anche la Corte di cassazione nella sentenza resa a Sezioni unite il 20 marzo 2008, n. 7443, sicché non vi sarebbe spazio per una diversa interpretazione della norma, altrimenti destinata a rivelarsi pleonastica, in quanto l’interruzione del processo, come conseguenza della perdita della capacità della parte fallita di stare in giudizio, sarebbe già prevista dall’art. 300 cod. proc. civ.;

che, con particolare riferimento al giudizio in corso, secondo il rimettente la questione sarebbe rilevante perché il deposito del ricorso in riassunzione (19 marzo 2009) è avvenuto dopo il decorso del termine di sei mesi dalla data del fallimento (11 marzo 2008) e, pertanto, l’applicazione dei citati artt. 43 della legge fallimentare e 305 cod. proc. civ. porterebbe all’accoglimento dell’eccezione di estinzione del processo e alla definitiva esecutività del decreto ingiuntivo, a norma dell’art. 653 cod. proc. civ.;

che, inoltre, secondo il giudice a quo, benché al momento della dichiarazione d’interruzione del processo (udienza del 1° ottobre 2008) il termine semestrale, tenuto conto della sospensione feriale, non fosse ancora spirato e la parte fosse a conoscenza dell’atto interruttivo, tale argomento non sarebbe decisivo per affermare che non vi sia stata violazione del diritto di difesa e del diritto di uguaglianza delle parti nel processo, non essendo noto il momento in cui l’opponente era venuta a conoscenza del fallimento e non essendo provato che ne fosse a conoscenza prima dell’udienza del 1° ottobre 2008; sicché, in ogni caso, essa avrebbe avuto a disposizione un termine assai breve e del tutto insufficiente per valutare l’opportunità di proseguire nell’attività processuale oppure di lasciare che il processo si estinguesse;

che, in particolare, il rimettente ritiene, alla luce della modifica della legge fallimentare, che il fallimento della parte costituita produca l’effetto automatico dell’interruzione del processo così come già previsto dagli artt. 299, 300, terzo comma, e 301 cod. proc. civ., per le ipotesi, rispettivamente, della morte o della perdita della capacità di stare in giudizio della parte non ancora costituita; della medesima evenienza con riguardo alla parte costituita personalmente; della morte, radiazione o sospensione del procuratore della parte costituita;

che, in relazione a dette ipotesi, la Corte costituzionale è intervenuta per dichiarare la illegittimità costituzionale dell’art. 305 cod. proc. civ. nella parte in cui fa decorrere il termine per la riassunzione dall’interruzione del processo, anziché dal momento in cui le parti hanno avuto conoscenza dell’evento;

che, al riguardo, il giudice a quo cita la pronunzia n. 139 del 1967 concernente l’art. 301 cod. proc. civ. e quella n. 159 del 1971 relativa agli artt. 299 e 301, terzo comma, cod. proc. civ.; egli richiama, inoltre, la sentenza n. 34 del 1970 in tema di decorrenza del termine per la prosecuzione del processo sospeso, di cui all’art. 297, primo comma, cod. proc. civ., del quale fu dichiarata l’illegittimità costituzionale in base ad argomentazioni analoghe a quelle in tema d’interruzione del processo;

che il giudicante osserva come in passato la Corte costituzionale sia intervenuta con pronunzie di illegittimità dell’art. 305 cod. proc. civ., in tutti i casi in cui il codice aveva previsto il carattere automatico dell’effetto interruttivo al verificarsi dell’evento;

che il rimettente, inoltre, sottolinea la possibilità che la parte, diversa da quella fallita, resti ignara del fallimento della controparte anche per lungo tempo, venendo a conoscenza del fallimento stesso dopo il decorso del termine di legge per la riassunzione o comunque, come nel caso di specie, a ridosso del detto termine;

che, a suo avviso, benché gli artt. 16 e 17 della legge fallimentare prevedano forme di pubblicità volte a rendere noto ai terzi il fallimento (peraltro, soltanto dalla data d’iscrizione della sentenza nel registro delle imprese), sembra incongruo addossare alla parte l’onere di effettuare continue verifiche nei registri per controllare se la controparte è fallita;

che, dunque, secondo il rimettente la disposizione censurata si pone in contrasto con l’art. 111, secondo comma, Cost. e con il principio di uguaglianza in quanto la parte in bonis, a seguito della modifica dell’art. 43 della legge fallimentare, è posta in una posizione di svantaggio rispetto alla parte fallita perché ad essa è imposto l’onere di svolgere indagini onerose al fine di evitare che l’ignoranza del fallimento dell’avversario possa far maturare preclusioni a suo danno, con esiti assai gravosi, come nei giudizi di impugnazione;

che, inoltre, ad avviso del giudice a quo, un comportamento malizioso o negligente della curatela, consistente nel mero astenersi dal dare notizia all’altra parte del fallimento, può trasformare un istituto come quello dell’interruzione, diretto a garantire la parte interessata dall’evento dal rischio che il processo prosegua in un momento nel quale essa non può svolgere attività difensiva, in uno strumento per danneggiare, anche in modo irreparabile, la controparte ignara;

che, ancora, secondo il rimettente, la norma impugnata risulta in contrasto anche con l’art. 24, secondo comma, Cost., perché alla parte interessata alla prosecuzione del giudizio ed estranea all’evento interruttivo non è assicurato il diritto di difesa, in modo effettivo ed adeguato; essa è, infatti, posta nella condizione di subire il rischio che un evento ignoto, e non conoscibile secondo canoni di ordinaria diligenza, vada a pregiudicare la possibilità di difendere le proprie ragioni nel processo, subendo anche conseguenze assai gravi derivanti dall’estinzione del giudizio;

che per il rimettente, anche in questo caso, è necessario, per ricondurre ad equità il sistema, come modificato a seguito della riforma del 2006 della legge fallimentare, un intervento della Corte costituzionale sulla disposizione impugnata;

che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in giudizio chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile, perché il rimettente non avrebbe esperito il doveroso tentativo di ricercare una interpretazione costituzionalmente orientata della normativa censurata.

Considerato che il Tribunale di Vicenza dubita, in riferimento agli articoli 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 305 del codice di procedura civile, «nella parte in cui prevede, nel caso di fallimento della parte costituita, che il termine perentorio per la riassunzione del processo decorra, per le parti diverse da quella fallita, dalla data dell’interruzione anziché dalla data in cui tali parti ne abbiano avuto effettiva conoscenza»;

che la questione è manifestamente infondata;

che, infatti, identica questione è stata già dichiarata non fondata «nei sensi di cui in motivazione» da questa Corte con sentenza n. 17 del 2010;

che nella pronunzia citata è stato ribadito che la disciplina in tema d’interruzione del processo è espressiva dell’esigenza di tutelare non soltanto la parte colpita dall’evento interruttivo, ma anche di preservare il diritto di difesa della parte cui il fatto interruttivo non si riferisce, con la conseguenza che quest’ultima deve essere messa in grado di conoscere se si sia o meno verificato l’evento interruttivo e da quale momento decorra il termine per la riassunzione;

che questa Corte, dunque, richiamando i princìpi già affermati nelle sentenze n. 36 del 1976, n. 159 del 1971, n. 34 del 1970 e n. 139 del 1967, ha nuovamente affermato che nel vigente sistema di diritto processuale civile è ormai acquisito il principio secondo cui, nei casi d’interruzione automatica del processo (artt. 299, 300, terzo comma, 301, primo comma, cod. proc. civ.), il termine per la riassunzione decorre non già dal giorno in cui l’evento interruttivo si è verificato, bensì dal giorno in cui esso è venuto a conoscenza della parte interessata alla riassunzione e che «l’art. 43 del r.d. n. 267 del 1942, con il terzo comma (aggiunto dall’art. 41 del d.lgs. n. 5 del 2006), ha introdotto un nuovo caso d’interruzione automatica del processo, conseguente all’apertura del fallimento, mentre in precedenza anche nell’ipotesi di fallimento della parte l’interruzione del proces so derivava dalla dichiarazione in giudizio o dalla notificazione dell’evento interruttivo ad opera del procuratore costituito della parte medesima (ex multis: Cass., Sez. un., n. 7443 del 2008, e giurisprudenza in essa richiamata)»;

che, in particolare, nella sentenza n. 17 del 2010 questa Corte ha affermato che il terzo comma dell’art. 43 della legge fallimentare «nulla ha previsto per la riassunzione, sicché al riguardo continua a trovare applicazione l’art. 305 cod. proc. civ., nel testo risultante a seguito delle ricordate pronunzie di questa Corte e del principio di diritto che sulla base di esse si è consolidato. Infatti, non sono ravvisabili ragioni idonee a giustificare, per la fattispecie qui in esame, una disciplina giuridica diversa rispetto alle altre ipotesi d’interruzione automatica, attesa l’identità di ratio e di posizione processuale delle parti interessate, che le accomuna»;

che il rimettente non adduce elementi nuovi per superare il convincimento qui richiamato, sicché va ribadita l’interpretazione costituzionalmente orientata dell’articolo 305 cod. proc. civ. alla luce delle sentenze citate.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 305 del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli articoli 24, secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale di Vicenza con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, palazzo della Consulta il 7 luglio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 21 luglio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 262

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2 e 3 della legge della Regione Calabria 19 ottobre 2009, n. 31 (Norme per il reclutamento del personale ( Presidi idraulici), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 17-22 dicembre 2009, depositato in cancelleria il 23 dicembre 2009 ed iscritto al n. 106 del registro ricorsi 2009.

Visto l’atto di costituzione della Regione Calabria;

udito nella camera di consiglio del 9 giugno 2010 il Giudice relatore Luigi Mazzella.

Ritenuto che il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso, in riferimento agli artt. 3, 51 e 97 della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 2 e 3 della legge della Regione Calabria 19 ottobre 2009, n. 31 (Norme per il reclutamento del personale ( Presidi idraulici);

che il ricorrente premette che l’art. 1 della suddetta legge regionale stabilisce che il dipartimento dei lavori pubblici e l’Autorità del bacino regionale sono autorizzati a stipulare, entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della medesima legge, protocolli d’intesa con le amministrazioni pubbliche per la definizione: dell’entità e delle modalità delle risorse umane e finanziarie necessarie per la gestione tecnico-amministrativa dei presidi idraulici; dell’organizzazione e del funzionamento del servizio di sorveglianza idraulica mediante l’utilizzo di personale specializzato; dell’organizzazione e del funzionamento del servizio di manutenzione di corsi d’acqua e dei versanti da attuare mediante l’utilizzo della manodopera costituita da operai idraulico-forestali;

che, secondo il successivo art. 2, «il personale tecnico-amministrativo necessario per la costituzione dei presidi idraulici sarà individuato nell’ambito del personale di ruolo della Regione Calabria anche tra quello dei bacini LSU e LPU»;

che l’art. 3 della stessa legge regionale n. 31 del 2009 dispone che, al fine di garantire la continuità del servizio di monitoraggio della rete idrogeografica regionale, l’Azienda Foreste Regionali (AFOR) è autorizzata ad assumere a tempo determinato e fino ad un massimo di due mesi il personale già utilizzato per lo stesso servizio dalla società affidataria dell’appalto di cui al bando di gara del 30 gennaio 2008, nelle more che la medesima AFOR provveda all’assunzione, a decorrere dal 1° gennaio 2010, a tempo indeterminato, del personale con qualifiche di sorveglianti e ufficiali idraulici necessario per lo svolgimento del predetto servizio, a mezzo di procedure selettive ai sensi dell’articolo 16 della legge 28 febbraio 1987, n. 56 (Norme sull’organizzazione del mercato del lavoro) presso le competenti sedi decentrate per l’impiego di ogni singola provincia ricadenti, in funzione del relativo f abbisogno, nei singoli presidi idraulici;

che il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene che l’art. 2 prevedrebbe l’inclusione del personale dei bacini LSU e LPU in quello di ruolo della Regione Calabria e, pertanto, consentirebbe una forma di inquadramento riservato, in violazione del principio espresso dall’art. 97, terzo comma, Cost., secondo il quale il concorso pubblico costituisce la forma generale ed ordinaria di reclutamento per il pubblico impiego, la cui eventuale deroga deve essere giustificata da peculiari situazioni individuate dal legislatore;

che – ad avviso della difesa dello Stato – l’art. 3 della legge della Regione Calabria n. 31 del 2009, sarebbe illegittimo perché, consentendo l’assunzione da parte dell’AFOR del personale utilizzato dalla società affidataria dell’appalto del servizio di monitoraggio della rete idrografica regionale al fine di garantire la continuità di detto servizio, autorizzerebbe il ricorso a contratti di lavoro a tempo determinato in difetto del requisito dell’eccezionalità al quale l’art. 36, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche), subordina il ricorso da parte delle pubbliche amministrazioni alle forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale previste dal codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell’impresa;

che pertanto la norma, violando l’art. 36 del d.lgs. n. 165 del 2001, si porrebbe in contrasto con i principi di cui agli artt. 3, 51 e 97 della Costituzione;

che la Regione Calabria si è costituita in giudizio e chiede che venga dichiarata la cessazione della materia del contendere;

che la resistente deduce, al riguardo, che la legge regionale 28 dicembre 2009, n. 52 (Modifiche ed integrazioni alla legge regionale 19 ottobre 2009, n. 31 «Norme per il reclutamento del personale − Presidi idraulici»), ha modificato l’art. 2 della legge regionale n. 31 del 2009, abrogando le parole «anche tra quello dei bacini LSU e LPU» e ha integralmente sostituito l’art. 3 della precedente legge regionale n. 31 del 2009 il quale, nella sua attuale versione, non contiene più la previsione dell’assunzione a tempo determinato del personale già utilizzato per lo stesso servizio dalla società affidataria dell’appalto, ma fa direttamente riferimento alle procedure selettive di cui all’art. 16 della legge n. 56 del 1987, conformemente a quanto previsto dall’art. 35, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 165 del 2001;

che la Regione aggiunge che le norme denunciate non hanno avuto alcuna applicazione nelle more delle modificazioni apportate dalla legge regionale n. 52 del 2009;

che, nella seduta del 1° marzo 2010, il Consiglio dei ministri, tenuto conto del venir meno delle motivazioni del ricorso, ha rinunciato alla propria impugnazione;

che la rinuncia è stata accettata dalla Regione Calabria con delibera n. 339 del 10 maggio 2010 della Giunta regionale, depositata in cancelleria il 20 maggio 2010.

Considerato che il Presidente del Consiglio dei ministri dubita, in riferimento agli artt. 3, 51 e 97 della Costituzione, della legittimità costituzionale degli artt. 2 e 3 della legge della Regione Calabria 19 ottobre 2009, n. 31 (Norme per il reclutamento del personale ( Presidi idraulici);

che, con deliberazione del Consiglio dei ministri del 1° marzo 2010, il ricorrente ha rinunciato all’impugnazione, ritenendo essere venute meno le motivazioni del ricorso;

che la rinuncia è stata formalmente accettata dalla Regione Calabria con delibera n. 339 del 10 maggio 2010 della Giunta regionale, depositata in cancelleria il 20 maggio 2010;

che, ai sensi dell’art. 23 delle norme integrative per i giudizi dinanzi alla Corte costituzionale, la rinuncia al ricorso, seguita dall’accettazione delle parti costituite, comporta l’estinzione del processo.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara estinto il processo.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Luigi MAZZELLA, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 21 luglio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 263

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), promosso dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli nel procedimento penale a carico di M. C. con ordinanza del 30 settembre 2009, iscritta al n. 76 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 23 giugno 2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo.

Ritenuto che, con ordinanza del 30 settembre 2009, il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli ha sollevato questione di legittimità costituzionale, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, dell’art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), nella parte in cui richiede l’autorizzazione della Camera di appartenenza al fine di utilizzare le intercettazioni «occasionali» di conversazioni o comunicazioni di un membro del Parlamento, anche quando si tratti di utilizzazione nei confronti dello stesso parlamentare interessato;

che il giudice a quo premette che il pubblico ministero, esercitata l’azione penale nei confronti di numerosi imputati, tra i quali M. C., membro, all’epoca dei fatti, del Senato della Repubblica, cui erano contestati alcuni reati contro la pubblica amministrazione (artt. 317, 323 e 326 del codice penale), aveva depositato la documentazione relativa a intercettazioni telefoniche concernenti il citato M. C., chiedendo che fosse inoltrata al Senato l’istanza di autorizzazione alla loro utilizzazione prevista dall’art. 6, comma 2, della legge n. 140 del 2003;

che, in conformità a tale disposizione, era stata fissata udienza camerale, nel corso della quale era stata sollevata la questione di costituzionalità;

che, in punto di rilevanza, il rimettente evidenzia come ricorrano, nella specie, i presupposti d’insorgenza dell’obbligo di richiedere l’autorizzazione prescritta dal citato art. 6, comma 2: le intercettazioni in discussione non costituirebbero, difatti, il frutto di captazioni «dirette» delle comunicazioni del parlamentare, ma dell’occasionale interlocuzione del medesimo con altri imputati, le cui utenze erano state sottoposte legittimamente a controllo, ai sensi degli artt. 266 e seguenti del codice di procedura penale;

che la richiesta del pubblico ministero, d’altro canto, non riguarda la posizione degli imputati non parlamentari – rispetto ai quali, a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 390 del 2007, non è più necessaria alcuna autorizzazione della Camera di appartenenza – ma unicamente quella del membro del Parlamento coinvolto;

che l’utilizzazione, nel processo in corso, delle conversazioni intercettate sarebbe, inoltre, «assolutamente “necessaria” (rectius: rilevante)»: i colloqui intercettati, infatti, non solo sarebbero attinenti ai fatti contestati, ma soprattutto rappresenterebbero «un fondamentale strumento per svelare il legame che intercorre tra le condotte attribuite al parlamentare e quelle contestate agli altri imputati», risultando così influenti sui provvedimenti adottandi a conclusione dell’udienza preliminare o del rito alternativo, eventualmente richiesto dall’imputato;

che, quanto alla non manifesta infondatezza, il rimettente osserva che l’autorizzazione della Camera di appartenenza per l’utilizzazione delle comunicazioni del parlamentare occasionalmente intercettate non è prevista dall’art. 68, terzo comma, Cost., che contempla esclusivamente un’autorizzazione «preventiva» «per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni»;

che il meccanismo di controllo previsto dall’art. 6 della legge n. 140 del 2003 si porrebbe, pertanto, in contrasto con l’art. 3 Cost., non potendosi ritenere che il diritto alla riservatezza del parlamentare, tutelato dalla norma censurata, assuma, nella gerarchia dei valori costituzionalmente protetti, un peso maggiore rispetto al principio d’eguaglianza dei cittadini davanti alla giurisdizione;

che il contrasto con l’art. 3 Cost. emergerebbe anche sotto altro profilo, atteso che la norma impugnata, a seguito della citata sentenza n. 390 del 2007, consente di utilizzare le intercettazioni di cui si discute nei confronti dei terzi, indipendentemente da ogni autorizzazione, determinando, con ciò, un’ingiustificata disparità di trattamento rispetto all’utilizzazione nei confronti del parlamentare coinvolto, subordinata, viceversa, all’autorizzazione;

che nel giudizio di costituzionalità è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza o, comunque, manifestamente infondata nel merito.

Considerato che il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli dubita, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), nella parte residuata alla declaratoria di incostituzionalità recata dalla sentenza n. 390 del 2007: chiedendo, in particolare, che sia rimosso l’obbligo di chiedere l’autorizzazione della Camera di appartenenza al fine di utilizzare le intercettazioni «occasionali» di conversazioni o comunicazioni di membri del Parlamento, anche quando si discuta dell’utilizzazione nei confronti dello stesso parlamentare interessato;

che, conformemente a quanto eccepito dall’Avvocatura generale dello Stato, l’ordinanza di rimessione presenta carenze in punto di descrizione della fattispecie concreta e di motivazione sulla rilevanza – con particolare riguardo alla natura «casuale» e non «indiretta» delle intercettazioni di cui si discute nel giudizio a quo – tali da precludere lo scrutinio nel merito della questione;

che questa Corte – puntualizzando la distinzione tra le ipotesi considerate dagli artt. 4 e 6 della legge n. 140 del 2003 – ha rilevato, infatti, che la disciplina dell’autorizzazione preventiva, delineata dal primo dei citati articoli in attuazione dell’art. 68, terzo comma, Cost. – il quale «vieta di sottoporre ad intercettazione, senza autorizzazione, non le utenze del parlamentare, ma le sue comunicazioni» – deve trovare applicazione «tutte le volte in cui il parlamentare sia individuato in anticipo quale destinatario dell’attività di captazione»: dunque, non soltanto quando siano sottoposti a intercettazione utenze o luoghi appartenenti al soggetto politico o nella sua disponibilità (intercettazioni «dirette»), ma anche quando siano monitorati utenze o luoghi di soggetti diversi, che possono tuttavia «presumersi frequentati dal parlamentare» (intercettazioni «indirette»: sentenza n. 390 del 2007);

che, viceversa, la disciplina dell’autorizzazione successiva, prevista dall’impugnato art. 6, si riferisce unicamente alle intercettazioni «casuali» (o «fortuite»): rispetto alle quali, cioè – «proprio per il carattere imprevisto dell’interlocuzione del parlamentare» – «l’autorità giudiziaria non potrebbe, neanche volendo, munirsi preventivamente del placet della Camera di appartenenza» (sentenza n. 390 del 2007);

che, nella specie, il giudice a quo assume che le intercettazioni di cui si discute nel giudizio principale avrebbero natura «occasionale», con conseguente sussistenza del presupposto di applicabilità della norma censurata, ma lo fa in termini sostanzialmente apodittici, ricollegando detta natura, in pratica, alla sola circostanza che l’attività di captazione è stata disposta su utenze in uso ad altri imputati;

che, come già chiarito da questa Corte, pronunciando su questioni di legittimità costituzionale analoghe a quella odierna, siffatta indicazione non può ritenersi sufficiente;

che, in sede di motivazione sulla rilevanza, è, infatti, necessario che «il giudice mostri di aver tenuto effettivamente conto del complesso di elementi significativi al fine di affermare o escludere la “casualità” dell’intercettazione», alla stregua della distinzione dianzi tracciata: «e così, ad esempio, dei rapporti intercorrenti tra parlamentare e terzo sottoposto a intercettazione, avuto riguardo al tipo di attività criminosa oggetto di indagine; del numero di conversazioni intercorse tra il terzo e il parlamentare; dell’arco di tempo durante il quale tale attività di captazione è avvenuta, anche rispetto a eventuali proroghe delle autorizzazioni e al momento in cui sono sorti indizi a carico del parlamentare» (sentenza n. 114 del 2010);

che l’odierno rimettente – il quale non specifica, tra l’altro, i fatti per cui si procede, limitandosi a un mero riferimento numerico agli articoli di legge che prevedono le astratte ipotesi di reato cui tali fatti dovrebbero corrispondere – non precisa neppure se, nel momento in cui le intercettazioni ebbero luogo, il parlamentare figurasse già nel novero delle persone sottoposte a indagini: ipotesi nella quale «la qualificazione dell’intercettazione come “casuale”» richiederebbe «una verifica particolarmente attenta»;

che in tale eventualità, difatti, pur non potendo ipotizzarsi una presunzione assoluta del carattere «indiretto» dell’intercettazione, tale da fare sorgere sempre l’esigenza dell’autorizzazione preventiva (sentenza n. 390 del 2007), il sospetto dell’elusione della garanzia è comunque più forte (sentenza n. 114 del 2010);

che anche in caso contrario, tuttavia – ove, cioè, gli indizi di reità nei confronti del membro del Parlamento fossero emersi solo nel corso dell’attività di intercettazione – occorrerebbe pur sempre verificare se non sia intervenuto, nell’autorità giudiziaria, «un mutamento di obbiettivi: nel senso che – in ragione anche dell’obbligo di perseguire gli autori del reato – le ulteriori intercettazioni potrebbero risultare finalizzate, nelle strategie investigative dell’organo inquirente, a captare non più (soltanto) le comunicazioni del terzo titolare dell’utenza, ma (anche) quelle del suo interlocutore parlamentare» (sentenza n. 113 del 2010, concernente anch’essa una questione di costituzionalità analoga all’attuale);

che nell’ipotesi ora indicata – tanto più verosimile qualora si fosse di fronte a operazioni protratte nel tempo e il terzo sottoposto a controllo risultasse essere un interlocutore abituale del parlamentare (circostanze esse pure non specificate dal rimettente) – «ogni “casualità” verrebbe evidentemente meno: le successive captazioni delle comunicazioni del membro del Parlamento, lungi dal restare fortuite, diverrebbero “mirate” (e, con ciò, “indirette”), esigendo quindi l’autorizzazione preventiva della Camera, ai sensi dell’art. 4» (sentenza n. 113 del 2010);

che a ciò conseguirebbe un più o meno energico restringimento delle intercettazioni assoggettabili al regime di cui all’art. 6, che imporrebbe – quantomeno – di rivedere la valutazione sulla necessità della loro utilizzazione, presupposta dalla norma impugnata (sentenza n. 113 del 2010): valutazione che – come ad altro fine rimarcato da questa Corte – spetta indubbiamente all’autorità giudiziaria, «la quale peraltro deve, essa per prima, commisurare le proprie scelte anche all’esigenza del sacrificio minimo indispensabile dei valori di libertà e indipendenza della funzione parlamentare» (sentenza n. 188 del 2010);

che, nell’assenza delle verifiche dianzi indicate e di adeguata corrispondente motivazione sul punto, la questione va dichiarata, dunque, manifestamente inammissibile.

Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 2, 3, 4, 5 e 6, della legge 20 giugno 2003, n. 140 (Disposizioni per l’attuazione dell’art. 68 della Costituzione nonché in materia di processi penali nei confronti delle alte cariche dello Stato), sollevata, in riferimento all’art. 3, primo comma, della Costituzione, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Napoli con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 21 luglio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedentePronuncia successiva

ORDINANZA N. 264

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

nel giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sorto a seguito della mancata presentazione al Parlamento, da parte del Ministro dell’interno, entro sessanta giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del risultato del referendum (che ha approvato la proposta di distacco dei Comuni di Livinallongo del Col di Lana, Cortina d’Ampezzo e Colle Santa Lucia dalla Regione Veneto e la sua aggregazione alla Regione Trentino Alto-Adige/Südtirol) del disegno di legge di cui all’art. 132, secondo comma, della Costituzione – in ossequio all’articolo 45, comma 4, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo) –, nonché della presentazione da parte dei deputati Karl Zeller, Gianclaudio Bressa e del senatore Gianvittore Vaccari di altrettante proposte di legge costituzionale ciascuna delle quali aventi ad oggetto «Distacco dei comuni di Cortina d’Ampezzo, di Livinallongo del Col di Lana e Colle Santa Lucia dalla Regione Veneto e loro aggregazione alla Regione autonoma Trentino Alto-Adige, ai sensi dell’art. 132, secondo comma, della Costituzione», promosso dal Comune di Livinallongo del Col di Lana con ricorso depositato in cancelleria il 12 aprile 2010 ed iscritto al n. 3 del registro conflitti tra poteri dello Stato 2010, fase di ammissibilità.

Udito nella camera di consiglio del 23 giugno 2010 il Giudice relatore Maria Rita Saulle.

Ritenuto che, con ricorso depositato in data 12 aprile 2010, il Comune di Livinallongo del Col di Lana (BL), rappresentato dal sindaco pro tempore, ha sollevato conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti del Consiglio dei ministri, della Camera dei deputati, del Senato della Repubblica, dei Presidenti di entrambe le Camere, nonché dei deputati Karl Zeller, Gianclaudio Bressa e del senatore Gianvittore Vaccari, per violazione dell’art. 132, secondo comma, della Costituzione, e dell’art. 45, quarto comma, della legge 25 maggio 1970, n. 352 (Norme sui referendum previsti dalla Costituzione e sulla iniziativa legislativa del popolo);

che il ricorrente lamenta che, nonostante il rituale svolgimento del referendum ex art. 132, secondo comma, Cost., concernente la proposta di distacco del Comune di Livinallongo del Col di Lana dalla Regione Veneto e la sua aggregazione (unitamente ad altri comuni) alla Regione Trentino Alto-Adige/Südtirol – consultazione conclusasi in senso favorevole al suddetto distacco –, il Ministro dell’interno avrebbe lasciato inutilmente decorrere il termine di sessanta giorni per la presentazione del relativo disegno di legge di variazione territoriale regionale, così come previsto dall’art. 45, quarto comma, della legge n. 352 del 1970;

che, inoltre, sempre successivamente a tale termine, i deputati Karl Zeller e Gianclaudio Bressa, nonché il senatore Gianvittore Vaccari, avrebbero presentato alla rispettive Camere di appartenenza altrettante proposte di legge costituzionale ciascuna delle quali aventi ad oggetto «Distacco dei comuni di Cortina d’Ampezzo, di Livinallongo del Col di Lana e Colle Santa Lucia dalla Regione Veneto e loro aggregazione alla Regione autonoma Trentino Alto-Adige, ai sensi dell’art. 132, secondo comma, della Costituzione»;

che, dette condotte omissive e commissive avrebbero determinato, sempre secondo il ricorrente, la «menomazione del diritto di iniziativa per la variazione territoriale regionale» e di quello «di autodeterminazione» attribuiti al Comune dall’art. 132, secondo comma, Cost.;

che, quanto al requisito soggettivo del conflitto, nel ricorso si argomenta la legittimazione del Comune a promuovere il presente giudizio sostenendo, in particolare, che l’agire dei comuni interessati alla procedura di variazione territoriale regionale «non tanto in qualità di enti locali autonomi, quanto come enti cui l’art. 132, secondo comma, Cost.» attribuirebbe una specifica «funzione pubblica concorrente e quindi condizionante la funzione legislativa dello Stato», anche in forza della stessa «posizione» riservata agli Enti locali dal «nuovo disegno costituzionale» dopo la riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, quali soggetti che costituiscono la Repubblica (art. 114 Cost.);

che, quanto al requisito oggettivo del conflitto, le asserite violazioni risulterebbero addebitabili, in primo luogo, alla mancata presentazione al Parlamento, nel termine previsto dall’art. 45, quarto comma, della legge n. 352 del 1970, del disegno di legge per il distacco del Comune di Livinallongo del Col di Lana (BL) dalla Regione Veneto e la sua aggregazione alla Regione Trentino Alto-Adige/Südtirol;

che, infatti, ad avviso del ricorrente, anche se l’obbligo di presentazione in questione risulta «radicato in una norma di legge ordinaria», tale norma farebbe «corpo con la disciplina costituzionale» rilevante, cosicché la sua violazione configurerebbe «un’evidente menomazione della posizione del Comune richiedente la modifica della Regione di appartenenza in ossequio all’art. 132 Cost.»;

che, in secondo luogo, il ricorrente si duole della presentazione al Parlamento di alcune proposte di legge costituzionale per il distacco e la conseguente aggregazione del predetto Comune avanzate da tre parlamentari – nelle persone dei deputati Karl Zeller, Gianclaudio Bressa e del senatore Gianvittore Vaccari –, posto che tali iniziative avrebbero determinato un inutile aggravamento della procedura prevista dall’art. 45, quarto comma, della legge n. 352 del 1970, in base quale il disegno di legge avente ad oggetto la variazione territoriale avrebbe, invece, natura ordinaria;

che, pertanto, il ricorrente conclude chiedendo a questa Corte di:

– «accertare la menomazione del diritto di iniziativa alla variazione territoriale regionale e del diritto di autodeterminazione del Comune di Livinallongo del Col di Lana per violazione, nella forma dell’inadempimento, dell’obbligo previsto all’art. 45, quarto comma, della legge n. 352 del 1970, posta in essere dal Consiglio dei ministri attraverso la mancata presentazione al Parlamento del disegno di legge per il distacco del predetto Comune dalla Regione Veneto e la sua aggregazione alla Regione Trentino Alto-Adige/Südtirol»;

− «accertare la menomazione del diritto di iniziativa alla variazione territoriale regionale e del diritto di autodeterminazione del Comune di Livinallongo del Col di Lana per violazione, nella forma dell’aggravamento della procedura legislativa, dell’obbligo previsto all’art. 45, quarto comma, della legge n. 352 del 1970, posta in essere dal Consiglio dei ministri attraverso la presentazione al Parlamento del disegno di legge governativo di variazione territoriale regionale avente natura costituzionale, anziché avente natura ordinaria in ossequio all’art. 45, quarto comma, della legge n. 352 del 1970»;

− «accertare la menomazione del diritto di iniziativa alla variazione territoriale regionale e del diritto di autodeterminazione del Comune di Livinallongo del Col di Lana per violazione nella forma dell’aggravamento della procedura legislativa, dell’obbligo previsto all’art. 45 quarto comma, della legge n. 352 del 1970 posta in essere» dai deputati Karl Zeller e Gianclaudio Bressa, nonché dal senatore Gianvittore Vaccari e, «ove occorra, dalle Camere di appartenenza e dai Presidenti delle medesime, attraverso l’esercizio del diritto di iniziativa legislativa avente natura costituzionale, anziché avente natura ordinaria in ossequio all’art. 45, quarto comma, della legge n. 352 del 1970»;

– «adottare una pronuncia sostitutiva dell’ingiustificato rifiuto da parte del Consiglio dei ministri a dar vita ai suddetti atti vincolati, affinché sia in tal modo ordinata la presentazione al Parlamento del predetto disegno di legge entro un termine prefissato, nonché la sua presentazione con natura ordinaria».

Considerato che, in questa fase del giudizio, a norma dell’art. 37, terzo e quarto comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), questa Corte è chiamata a deliberare, senza contraddittorio, se il ricorso sia ammissibile sotto il profilo dell’esistenza o meno della «materia di un conflitto la cui risoluzione spetti alla sua competenza», valutando, in particolare, se sussistano i requisiti oggettivi e soggettivi di un conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato;

che, sotto il profilo soggettivo, il conflitto è palesemente inammissibile in quanto, come già affermato da questa Corte in più occasioni, deve escludersi che un ente locale possa essere riconosciuto quale «potere dello stato» (da ultimo, ordinanza n. 84 del 2009); né può ritenersi che tale figura, pur essendo «esterna all’organizzazione dello Stato», eserciti un potere che rientri nello «svolgimento di più ampie funzioni, i cui atti finali siano imputati allo Stato-autorità» (così, con specifico riferimento alla Provincia, ordinanze n. 380 del 1993 e n. 101 del 1970);

che difetta altresì il requisito oggettivo del conflitto, dal momento che il ricorrente lamenta la lesione delle proprie prerogative unicamente in relazione a fasi successive a quella concernente la celebrazione del referendum ex art. 132, secondo comma, Cost., alla quale soltanto si riferiscono il diritto di iniziativa e di autodeterminazione del Comune di Livinnalongo del Col di Lana e che costituisce il momento iniziale del procedimento decisionale complesso previsto per la variazione territoriale cui esso aspirerebbe;

che, infine, il ricorso risulta finalizzato non già al ripristino del corretto confine fra le diverse attribuzioni costituzionali coinvolte, quanto piuttosto ad ottenere una pronuncia che tenga luogo degli atti tuttora mancanti al completamento della procedura di variazione territoriale di cui all’art. 132 Cost., estranea alla giurisdizione attribuita a questa Corte.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara inammissibile il ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato proposto dal Comune di Livinallongo del Col di Lana (BL) nei confronti del Consiglio dei ministri, della Camera dei deputati, del Senato della Repubblica, dei Presidenti di entrambe le Camere, nonché dei deputati Karl Zeller, Gianclaudio Bressa e del senatore Gianvittore Vaccari.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Maria Rita SAULLE, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 21 luglio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA


pronuncia precedente

SENTENZA N. 265

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, promossi dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Belluno con ordinanze del 28 e 30 settembre 2009, dal Tribunale di Torino, sezione per il riesame, con ordinanza del 28 maggio 2009 e dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Venezia con ordinanza del 4 novembre 2009, rispettivamente iscritte ai nn. 310 e 311 del registro ordinanze 2009 e ai nn. 14 e 66 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 1, 6 e 11, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visti l’atto di costituzione di C. A. nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 25 maggio 2010 e nella camera di consiglio del 26 maggio 2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo;

uditi l’avvocato Sandro De Vecchi per C. A. e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. – Con due ordinanze di contenuto analogo, depositate il 28 e il 30 settembre 2009 (r.o. n. 310 e n. 311 del 2009), il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Belluno ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui, in presenza di esigenze cautelari, impone di applicare la misura della custodia in carcere alla persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli artt. 609-quater (ordinanza n. 310 del 2009) e 609-bis del codice penale (ordinanza n. 311 del 2009).

Nei procedimenti principali, il giudice a quo è chiamato a pronunciarsi sulle istanze formulate dai difensori di persone indagate, rispettivamente, per il delitto di atti sessuali con minorenne aggravati continuati (artt. 81, 609-ter e 609-quater cod. pen.) e per il delitto di violenza sessuale aggravata continuata (artt. 81, 61, numeri 1, 5, e 11, e 609-bis cod. pen.): istanze volte ad ottenere la revoca o la sostituzione con altra di minore gravità (la sola sostituzione, nel caso dell’ordinanza r.o. n. 311 del 2009) della misura della custodia cautelare in carcere, cui l’indagato si trova sottoposto. Ad avviso del rimettente, mentre l’istanza di revoca non sarebbe accoglibile, stante la persistenza delle esigenze cautelari, queste ultime potrebbero essere fronteggiate con una misura meno gravosa di quella in atto e, in particolare – nel caso dell’ordinanza r.o. n. 311 del 2009 – con la misura degli arresti domi ciliari.

All’accoglimento delle istanze di sostituzione osterebbe, nondimeno, il vigente testo dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., che, a seguito della modifica operata dall’art. 2 del decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009, non consente di applicare una misura diversa dalla custodia cautelare in carcere alla persona nei cui confronti sono riconoscibili gravi indizi di colpevolezza per un’ampia serie di reati, tra cui quelli previsti dagli artt. 609-bis e 609-quater cod. pen., salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari.

In accoglimento delle eccezioni dei difensori, il rimettente ritiene, peraltro, di dover sollevare questione di legittimità costituzionale della citata disposizione.

Al riguardo, il giudice a quo rileva come molti dei delitti richiamati nel comma 3 dell’art. 275 cod. proc. pen., pur nella loro indubbia gravità, siano comunque meno gravi di altri reati non richiamati, sulla base del raffronto delle relative pene edittali (così, ad esempio, i delitti di cui agli artt. 416 e 416-bis cod. pen., inclusi nell’elenco, sono puniti meno severamente della cessione di sostanze stupefacenti o della rapina aggravata, viceversa esclusi). Risulterebbe, dunque, evidente come la scelta legislativa di imporre, in presenza di esigenze cautelari, la misura «estrema» della custodia in carcere non dipenda da una valutazione «quantitativa» della gravità dei delitti, ma da una valutazione di tipo essenzialmente «qualitativo».

Anteriormente alla novella del 2009, la norma impugnata sanciva la presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere esclusivamente in rapporto al delitto di associazione di tipo mafioso e ai delitti posti in essere con metodi o per finalità mafiose. Per tale verso, la disposizione rispondeva – secondo il giudice a quo – alla ratio di sollevare il giudice penale dall’onere di motivare la scelta della misura carceraria in particolari situazioni di pressione ambientale, determinate dalla presenza dell’associazione di stampo mafioso, e soprattutto per questa ragione aveva superato il vaglio della Corte costituzionale, sotto il profilo del rispetto dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza, stante il coefficiente di pericolosità per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva connaturato agli illeciti di quel genere (ordinanza n. 450 del 1995).

La medesima ratio sarebbe ravvisabile anche in rapporto ad altre fattispecie criminose attualmente richiamate dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., quali, segnatamente, i delitti di tipo associativo di cui all’art. 416, sesto comma, cod. pen. e all’art. 74 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza); non, invece, in relazione ai reati sessuali cui il legislatore del 2009 ha esteso la presunzione, trattandosi di delitti che, pur nella loro «gravità e odiosità», presentano «una meno spiccata caratterizzazione pubblicistica», essendo offensivi di un bene giuridico prettamente individuale (la libertà sessuale).

Sotto tale profilo, la norma novellata si porrebbe dunque in contrasto con l’art. 3 Cost., avendo introdotto, con riferimento ai reati in questione, un trattamento, da un lato, ingiustificatamente identico a quello previsto per i delitti già in precedenza elencati dallo stesso art. 275, comma 3, cod. proc. pen., e, dall’altro, ingiustificatamente più severo di quello stabilito per altri reati.

Risulterebbero violati, di conseguenza, anche gli artt. 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., giacché, ove venga a cadere la «giustificazione cautelare della detenzione», l’indagato o imputato si troverebbe a subire una immotivata compressione della propria libertà personale e un trattamento riservato al colpevole, prima della sentenza di condanna.

2. – Con ordinanza depositata il 28 maggio 2009 (r.o. n. 14 del 2010), il Tribunale di Torino, sezione per il riesame, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 27 e 117, primo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 275, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui non consente di applicare gli arresti domiciliari o, comunque, misure cautelari diverse e meno afflittive della custodia in carcere in relazione ai delitti previsti dagli artt. 600-bis [primo comma] e 609-bis cod. pen.

Il Tribunale rimettente è investito dell’appello avverso l’ordinanza del 13 febbraio 2009, con la quale il Giudice per le indagini preliminari del medesimo Tribunale ha respinto l’istanza di sostituzione con gli arresti domiciliari della misura della custodia cautelare in carcere, applicata ad una persona indagata, tra l’altro, per i delitti di induzione alla prostituzione minorile (art. 600-bis, primo comma, cod. pen.) e di violenza sessuale aggravata dalle condizioni di minorata difesa della vittima (artt. 609-bis e 61, numero 5, cod. pen.).

In via preliminare, il giudice a quo esclude che possa accogliersi la richiesta di revoca della misura cautelare formulata dal difensore in udienza, giacché – a prescindere dalla limitazione dell’istanza iniziale alla sola sostituzione della misura – le esigenze cautelari, legate al pericolo di reiterazione delle condotte criminose, non sarebbero comunque venute integralmente meno. Nondimeno, l’assenza di elementi circa l’esistenza di altre relazioni con ragazze minorenni, l’effetto deterrente connesso al tempo trascorso in carcere e le particolari contingenze in cui i delitti sarebbero maturati giustificherebbero una valutazione di idoneità di misure meno gravose a fronteggiare il pericolo di ricaduta nel reato: onde sussisterebbero le condizioni per sostituire, in accoglimento dell’appello, la misura in atto con quella degli arresti domiciliari.

Tale operazione risulterebbe, tuttavia, preclusa dalla norma impugnata, la quale, nel testo vigente, stabilisce – a fianco di una presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari («salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari»), non rilevante nella specie – una presunzione assoluta di adeguatezza della sola misura cautelare della custodia in carcere, applicabile in rapporto ad un’ampia serie di reati, tra cui quelli che interessano.

Ad avviso del giudice a quo, tale disposizione non si sottrarrebbe a dubbi di legittimità costituzionale.

Quanto alla rilevanza della questione, il rimettente osserva che, alla luce di una consolidata interpretazione giurisprudenziale, la disposizione impugnata, in quanto norma processuale, deve ritenersi applicabile – in base al principio tempus regit actum – anche alle misure cautelari da adottare per fatti delittuosi commessi, come nel caso di specie, anteriormente all’entrata in vigore della legge novellatrice.

Con riguardo, poi, alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo rileva come la disciplina delle misure cautelari personali sia ispirata ai principi di proporzione, adeguatezza e graduazione, espressamente enunciati dall’art. 2, numero 59, della legge di delegazione 16 febbraio 1987, n. 81 (Delega legislativa al Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale), la quale prevede, altresì, l’adeguamento del nuovo codice di rito ai principi della Costituzione e alla normativa convenzionale internazionale. Nell’ambito di tale normativa verrebbe in particolare rilievo l’art. 5, paragrafi 1, lettera c), e 4, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con la legge 4 agosto 1955, n. 848: disposizione la cui inosservanza porrebbe la norma interna in contrasto con l’art. 117 , primo comma, Cost., che impone al legislatore ordinario di rispettare i vincoli derivanti dagli «obblighi internazionali».

In applicazione dei ricordati principi di proporzionalità, adeguatezza e graduazione, nel sistema del codice di procedura penale, una volta accertata l’esistenza di gravi indizi di colpevolezza e la sussistenza di esigenze cautelari, il giudice è chiamato ad operare – motivandola – la scelta della misura. Nell’ipotesi, poi, in cui venga applicata la misura «massima» della custodia in carcere, egli è tenuto ad esporre, a pena di nullità, le «concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all’art. 274 non possono essere soddisfatte con altre misure» (art. 292, comma 2, lettera c-bis, cod. proc. pen.).

La norma impugnata derogherebbe chiaramente a tali principi, che pure trovano riconoscimento negli artt. 13 e 27 Cost., discendendo – secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 299 del 2005 – «direttamente dalla natura servente che la Costituzione assegna alla carcerazione preventiva rispetto alle finalità del processo, da un lato, ed alle esigenze di tutela della collettività, dall’altro, tali da giustificare, nel bilanciamento tra interessi, il temporaneo sacrificio della libertà personale di chi non è stato ancora giudicato colpevole in via definitiva». Nella giurisprudenza costituzionale risulterebbe, in effetti, costante l’affermazione per cui, in ossequio al favor libertatis che ispira l’art. 13 Cost., deve essere comunque scelta la soluzione che comporta il minore sacrificio della libertà personale: principio del quale proporzionalità e adeguatezza rappresentano un corollario.

È ben vero che, secondo un orientamento altrettanto costante della giurisprudenza costituzionale, «mentre la sussistenza in concreto di una o più delle esigenze cautelari prefigurate dalla legge (l’an della cautela) comporta, per definizione, l’accertamento, di volta in volta, della loro effettiva ricorrenza, non può invece ritenersi soluzione costituzionalmente obbligata quella di affidare sempre e comunque al giudice l’apprezzamento del tipo di misura in concreto ritenuta come necessaria (il quomodo della tutela), ben potendo tale scelta essere effettuata in termini generali dal legislatore». La scelta legislativa dovrebbe essere, tuttavia, operata pur sempre nel «rispetto del limite della ragionevolezza e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti».

Nell’ipotesi in esame, per converso, risulterebbe leso proprio il canone della ragionevolezza, sotto il duplice profilo della disparità di trattamento rispetto agli altri casi di sussistenza di gravi indizi di colpevolezza e di esigenze cautelari, e della disparità di trattamento «interna» tra le varie forme di manifestazione concreta delle fattispecie criminose considerate.

Le ipotesi nelle quali la Corte costituzionale ha ritenuto non irragionevole l’imposizione da parte del legislatore della misura cautelare più rigorosa presenterebbero, infatti, particolarità atte a rendere chiara e ben delimitata la ragione della prevalenza sui principi di graduazione e di adeguatezza. Tali, in specie, i casi della pregressa evasione, che impedisce l’applicazione della misura degli arresti domiciliari (artt. 276, comma 1-ter, e 284, comma 5-bis, cod. proc. pen., vagliati, rispettivamente, dalle ordinanze n. 40 del 2002 e n. 130 del 2003), o dell’essere il soggetto gravemente indiziato di un reato aggravato dalle finalità di associazioni di tipo mafioso (ordinanza n. 450 del 1995).

Altrettanto non potrebbe dirsi, invece, per le fattispecie in esame. Risulterebbero difatti evidenti le differenze che intercorrono, ad esempio, tra i reati sessuali in discorso e quello di cui all’art. 416-bis cod. pen. L’appartenenza ad una associazione mafiosa è un delitto di pericolo a carattere permanente, che implica un vincolo «totalizzante» di adesione ad un sodalizio caratterizzato da una particolare forza intimidatrice e da un elevato grado di «diffusività» nel contesto ambientale, tali da porre a rischio, per comune sentire, primari beni individuali e collettivi. Sarebbe, di conseguenza, pienamente giustificabile la presunzione legislativa di adeguatezza della sola misura cautelare carceraria, la quale risulterebbe indispensabile per neutralizzare la pericolosità del soggetto, determinandone il forzoso distacco dal sodalizio.

I delitti sessuali che vengono in rilievo costituiscono, di contro, reati di evento, a carattere non necessariamente permanente, che abbracciano un’ampia gamma di condotte, tra loro estremamente diversificate, in quanto frutto di vari contesti ambientali e relazioni interpersonali, talora meramente contingenti. In questa prospettiva, se rientra nella discrezionalità del legislatore la scelta di inasprire la repressione di fatti avvertiti come particolarmente riprovevoli, quali quelli che aggrediscono la libertà sessuale, risulterebbe, di contro, censurabile l’indissolubile collegamento a tali fatti di una presunzione di pericolosità dell’autore.

Non consentendo di tener conto delle possibili varianti, la norma impugnata determinerebbe, dunque, la totale equiparazione nel trattamento cautelare di situazioni diverse sul piano oggettivo e soggettivo. Essa genererebbe, in pari tempo, rischi di confusione fra trattamento cautelare, improntato al principio del sacrificio minimo della libertà personale, e trattamento punitivo, avente connotazioni più propriamente retributive, con possibile attribuzione alla cautela di una funzione di anticipazione della pena, in contrasto con l’art. 27 Cost.

Né varrebbe far leva, in senso contrario, sulla prevista esclusione della presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere nelle ipotesi attenuate contemplate dalle stesse norme incriminatrici dei reati sessuali, trattandosi di ipotesi «comunque estremamente circoscritte, secondo l’interpretazione ormai consolidata di esse».

3. – Il novellato art. 275, comma 3, cod. proc. pen. è sottoposto a scrutinio di legittimità costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 13 Cost., anche dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Venezia con ordinanza depositata il 4 novembre 2009 (r.o. n. 66 del 2010), nella parte in cui non consente la sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari in relazione al delitto previsto dall’art. 609-quater, primo comma, numero 1), cod. pen.

Il giudice a quo premette di essere investito dell’istanza di revoca o di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere, applicata ad una persona indagata per il delitto continuato di cui all’articolo ora citato, avendo indotto ad atti sessuali un minore di atti quattordici; fatto commesso nei giorni 10 e 11 dicembre 2008.

Ad avviso del rimettente, non sussisterebbero le condizioni per la revoca della misura, permanendo le esigenze cautelari di cui all’art. 274, comma 1, lettera c), cod. proc. pen., che, tuttavia – tenuto conto dell’«evoluzione migliorativa» del quadro sulla cui base era stata disposta la custodia in carcere – potrebbero essere adeguatamente soddisfatte con la misura meno afflittiva degli arresti domiciliari.

Anche in questo caso, l’accoglimento dell’istanza di sostituzione risulterebbe, peraltro, impedito dal nuovo testo dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., che, per la sua natura processuale, dovrebbe ritenersi applicabile, in forza del principio tempus regit actum, anche in relazione ai fatti commessi anteriormente alla sua entrata in vigore.

La nuova disciplina si porrebbe, tuttavia, in contrasto con gli artt. 3 e 13 Cost. Essa metterebbe, difatti, in «crisi» i principi di adeguatezza e graduazione che, in via generale, regolano l’esercizio del potere cautelare, rovesciando la logica del «minore sacrificio necessario» sottostante alla formulazione originaria dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., in forza della quale è conferito ordinariamente al giudice della cautela il potere-dovere di distinguere i diversi fatti riconducibili alla medesima figura di reato e la differente intensità delle esigenze di tutela, ai fini della scelta della misura meglio rispondente al caso concreto.

È ben vero che la Corte costituzionale ha reputato ragionevoli, e dunque costituzionalmente compatibili, interventi normativi che, in deroga ai suddetti principi, hanno introdotto presunzioni del tipo considerato nel sistema delle misure cautelari, riconoscendo che «spetta al legislatore individuare il punto di equilibrio tra le diverse esigenze della minore restrizione possibile della libertà personale e della effettiva garanzia degli interessi di rilievo costituzionale tutelati attraverso la previsione degli strumenti cautelari nel processo penale» (ordinanza n. 450 del 1995). Ciò è avvenuto, tuttavia, con riferimento ad iniziative ben delimitate, volte a fronteggiare «emergenze» a carattere straordinario: quali, segnatamente, quelle di contrasto della criminalità di tipo mafioso, la quale, per la complessità della sua struttura e i durevoli vincoli «di appartenenza, radicamento e progettuali» che la connotano, esprime un elev ato coefficiente di pericolosità per i valori fondamentali della convivenza civile e dell’ordine democratico.

Mai, peraltro, la giurisprudenza costituzionale avrebbe autorizzato il legislatore a trasformare la regola dell’«adeguatezza» e della «graduazione» in eccezione, precludendo, in base ad ampie generalizzazioni, la possibilità di un trattamento individualizzante rispetto al grado delle esigenze cautelari e sancendo, in via astratta, l’irrilevanza di qualsiasi forma di evoluzione migliorativa delle medesime.

L’estensione della presunzione legale assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere al «troppo ampio e mutevole» catalogo di delitti oggi richiamati dalla norma censurata sarebbe avvenuta, in effetti, secondo logiche diverse e del tutto incompatibili rispetto a quelle passate positivamente al vaglio del Giudice delle leggi.

Con particolare riguardo alla tutela penale della libertà sessuale, si sarebbe infatti al cospetto di fenomeni di devianza individuale che si manifestano attraverso condotte della più diversa gravità, spesso conseguenti a patologie, le quali possono, in un non trascurabile numero di casi, risultare contenibili, sul piano cautelare, con misure diverse dalla custodia in carcere: donde un insopprimibile bisogno di differenziare, sulla base di un apprezzamento in concreto, i vari fatti riconducibili al paradigma legale astratto.

È del resto costante, nella giurisprudenza costituzionale, l’affermazione per cui, in ossequio al favor libertatis che ispira l’art. 13 Cost., la discrezionalità legislativa nella disciplina della materia considerata deve orientarsi verso scelte che implichino il «minore sacrificio necessario». Con la conseguenza che ove la compressione dei principi di «adeguatezza» e «graduazione» non trovi coerente ragione giustificatrice nel corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti, essa costituirebbe lesione dell’art. 3 Cost., sotto il profilo dell’irragionevolezza, attraverso un uso distorto della discrezionalità legislativa.

È quanto si sarebbe appunto verificato con la norma censurata, la quale, tramite la ricordata presunzione assoluta, avrebbe ingiustamente parificato situazioni uguali, bensì, quanto a requisiti legali di fattispecie, ma diverse quanto a specifici connotati di fatto: realizzando, così, un inaccettabile «eccesso di mezzi» rispetto al fine della prevenzione di nuovi delitti.

4. – È intervenuto, in tutti i giudizi di costituzionalità, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate manifestamente infondate.

La difesa dello Stato osserva come la Corte costituzionale, proprio nell’ordinanza n. 450 del 1995, invocata dagli stessi giudici rimettenti, abbia precisato che mentre non può prescindersi da un accertamento, in concreto, dell’effettiva sussistenza delle esigenze cautelari prefigurate dalla legge, al contrario, la scelta del tipo di misura cautelare non impone di riservare al giudice analogo potere di apprezzamento, «ben potendo essere effettuata in termini generali dal legislatore, nel rispetto della ragionevolezza della scelta e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti».

Nella specie, la scelta legislativa di imporre, in presenza di esigenze cautelari, la custodia in carcere non potrebbe essere ritenuta irragionevole solo perché i reati sessuali presenterebbero una meno spiccata caratterizzazione pubblicistica rispetto ai delitti associativi di stampo mafioso, trattandosi di reati che comunque offendono il bene fondamentale, di rilevanza costituzionale, della libertà personale.

Le fattispecie criminose in questione costituiscono, inoltre, reati di evento, dei quali non potrebbe essere apoditticamente sostenuta la minore gravità rispetto ai delitti associativi, che sono pur sempre dei reati di pericolo.

La norma denunciata non violerebbe neppure l’art. 13, primo comma, Cost., essendo stato rispettato il principio della riserva di legge in materia di provvedimenti restrittivi della libertà personale; né l’art. 27, secondo comma, Cost., stante l’estraneità della presunzione di non colpevolezza all’assetto e alla conformazione delle misure restrittive della libertà personale che operano sul piano cautelare, del tutto distinto rispetto a quello concernente la condanna e l’irrogazione della pena, così come puntualizzato dalla citata ordinanza n. 450 del 1995.

Insussistente sarebbe, infine, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. denunciata dal Tribunale di Torino, tenuto conto del fatto che, pure in presenza di disposizioni della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo volte a salvaguardare i diritti dei detenuti, la Corte di Strasburgo non si è mai espressa nel senso dell’incompatibilità con tali disposizioni di una norma nazionale quale quella denunciata.

5. – Nel giudizio relativo all’ordinanza r.o. n. 310 del 2009 si è costituito C. A., persona sottoposta alle indagini nel procedimento a quo, chiedendo che la norma impugnata sia dichiarata costituzionalmente illegittima, nella parte in cui include i reati «a sfondo sessuale» tra quelli per i quali è obbligatoriamente prevista la custodia in carcere in presenza di gravi indizi di colpevolezza e di esigenze cautelari.

Il difensore della parte privata rileva come, tramite l’estensione ai reati sessuali della disciplina anteriormente prevista per i soli delitti di associazione mafiosa o a questa collegati, il legislatore del 2009 abbia inteso rispondere, con un «segnale forte», ad un «diffuso quanto generico “bisogno di giustizia”», suscitato da vicende concrete che hanno avuto ampia risonanza nei mass media.

Il legislatore non avrebbe, tuttavia, tenuto conto del diverso spirito della norma originaria, dando vita ad una disciplina di più che dubbia compatibilità costituzionale, secondo quanto rilevato dal Consiglio superiore della magistratura già in sede di espressione del parere sul decreto-legge n. 11 del 2009. In rapporto ai reati sessuali non sarebbe, infatti, ravvisabile la ragione giustificativa che ha indotto la Corte costituzionale a disattendere le censure mosse, sul piano del rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza, alla presunzione di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere sancita in rapporto i delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso.

Sarebbe, in effetti, evidente la disparità di trattamento fra colui che si trova indagato per un reato a sfondo sessuale, il quale, in presenza di esigenze cautelari, viene obbligatoriamente sottoposto a custodia carceraria, senza possibilità di attenuazione della stessa, e chi, indagato per reati diversi – magari ben più gravi, non soltanto dal punto di vista della pena edittale, ma anche per la sicurezza collettiva (quale, ad esempio, la cessione di sostanze stupefacenti a minori) – può invece fruire di misure meno gravose.

Conformemente a quanto ritenuto dal giudice a quo, la norma censurata violerebbe, dunque, tanto l’art. 3 Cost., per equiparazione nel trattamento cautelare di situazioni oggettivamente e soggettivamente diverse, sia in astratto che in concreto; quanto gli artt. 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., giacché l’automatismo applicativo della custodia in carcere per i reati in questione renderebbe inoperanti i criteri di adeguatezza e proporzionalità, da cui deriva la necessità che sia sempre affidata al giudice la determinazione della misura più consona al caso concreto, trasformando indebitamente lo strumento cautelare in una anticipazione della pena.

Considerato in diritto

1. – Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Belluno, il Tribunale di Torino, sezione per il riesame, e il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Venezia dubitano della legittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui non consente di applicare misure cautelari diverse e meno afflittive della custodia in carcere alla persona raggiunta da gravi indizi di colpevolezza in ordine a taluni reati, oggetto dei procedimenti a quibus: vale a dire per i delitti di violenza sessuale (art. 609-bis del codice penale: ordinanze r.o. n. 311 del 2009 e n. 14 del 2010), atti sessuali con minorenne (art. 609-quat er del medesimo codice: ordinanze n. 310 del 2009 e n. 66 del 2010, la seconda delle quali riferisce, peraltro, più specificamente la censura alla fattispecie degli atti sessuali con minore di anni quattordici, prevista dal numero 1 del primo comma di detto articolo), induzione o sfruttamento della prostituzione minorile (art. 600-bis, primo comma, cod. pen.: ordinanza r.o. n. 14 del 2010).

Ad avviso dei giudici rimettenti, la norma censurata violerebbe l’art. 3 della Costituzione sotto plurimi profili.

In primo luogo – secondo il Giudice veneziano – per la irrazionale deroga da essa apportata ai principi di adeguatezza, proporzionalità e graduazione, che regolano, in via generale, l’esercizio del potere cautelare: deroga che non risulterebbe sorretta, quanto ai delitti a sfondo sessuale, da ragioni giustificatrici analoghe a quelle che hanno indotto questa Corte a ritenere costituzionalmente legittimo lo speciale regime cautelare in discussione rispetto alla criminalità di tipo mafioso, cui esso era in precedenza circoscritto.

In secondo luogo – a parere del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Belluno – per la ingiustificata equiparazione dei reati considerati, i quali, pur nella loro gravità e «odiosità», offendono un bene individuale, ai delitti di stampo mafioso, che mettono invece in pericolo le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva.

In terzo luogo – tanto secondo il Giudice bellunese che secondo il Tribunale di Torino – per la sottoposizione di detti reati ad un trattamento cautelare ingiustificatamente più severo di quello stabilito per altre fattispecie criminose, cui la disciplina censurata non è estesa, ancorché punite con pene più gravi.

Da ultimo – a parere dei Giudici per le indagini preliminari bellunese e veneziano – per l’irragionevole equiparazione, sul piano cautelare, delle varie condotte integrative dei delitti cui attengono le censure dei rimettenti (violenza sessuale e atti sessuali con minorenne), le quali potrebbero risultare, in concreto, marcatamente differenziate tra loro sul piano oggettivo e soggettivo.

I giudici a quibus denunciano altresì, concordemente, la violazione dell’art. 13 Cost., rilevando come la norma impugnata venga ad imporre un sacrificio della libertà personale dell’indagato o dell’imputato superiore a quello minimo che, nelle circostanze concrete, può risultare necessario e sufficiente al fine di soddisfare le esigenze cautelari.

Risulterebbe leso, ancora – secondo il Giudice bellunese e il Tribunale di Torino – l’art. 27, secondo comma, Cost., in quanto la previsione normativa sottoposta a scrutinio finirebbe per attribuire al trattamento cautelare una funzione di anticipazione della pena, contrastante con la presunzione di non colpevolezza.

Il solo Tribunale di Torino prospetta, infine, la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., per asserito contrasto della norma censurata con l’art. 5, paragrafi 1, lettera c), e 4, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.

2. – Le ordinanze di rimessione sollevano questioni analoghe, relative alla medesima norma, sicché i giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione.

3. – In via preliminare, va osservato che si presenta del tutto plausibile la soluzione interpretativa sulla cui base anche il Tribunale di Torino e il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Venezia affermano la rilevanza delle questioni nei procedimenti a quibus, benché questi abbiano ad oggetto imputazioni di fatti commessi prima della vigenza della norma censurata.

La giurisprudenza di legittimità risulta, infatti, concorde nel ritenere che il nuovo testo dell’art. 275, comma 3, cod. proc. pen., introdotto dalla novella del 2009, sia destinato a trovare applicazione – in forza del principio tempus regit actum, che disciplina la successione delle norme processuali – anche nei procedimenti in corso, relativi appunto a fatti commessi anteriormente alla data di entrata in vigore della novella suddetta: ciò, quantomeno allorché si discuta, come nei casi di specie, di istanze di sostituzione della misura della custodia cautelare in carcere, precedentemente applicata, con altra misura meno gravosa (oscillazioni giurisprudenziali si riscontrano solo in rapporto all’ipotesi inversa).

4. – Nel merito, la questione è fondata in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., nei limiti di seguito specificati.

5. – La disposizione oggetto di scrutinio trova collocazione nell’ambito della disciplina codicistica delle misure cautelari personali, in particolare di quelle coercitive (artt. 272-286-bis), tutte consistenti nella privazione – in varie qualità, modalità e tempi – della libertà personale dell’indagato o dell’imputato durante il procedimento e prima comunque del giudizio definitivo sulla sua responsabilità.

In ragione di questi caratteri, i limiti di legittimità costituzionale di dette misure, a fronte del principio di inviolabilità della libertà personale (art. 13, primo comma, Cost.), sono espressi – oltre che dalla riserva di legge, che esige la tipizzazione dei casi e dei modi, nonché dei tempi di limitazione di tale libertà, e dalla riserva di giurisdizione, che esige sempre un atto motivato del giudice (art. 13, secondo e quinto comma, Cost.) – anche e soprattutto, per quanto qui rileva, dalla presunzione di non colpevolezza (art. 27, secondo comma, Cost.), in forza della quale l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva.

L’antinomia tra tale presunzione e l’espressa previsione, da parte della stessa Carta costituzionale, di una detenzione ante iudicium (art. 13, quinto comma) è, in effetti, solo apparente: giacché è proprio la prima a segnare, in negativo, i confini di ammissibilità della seconda. Affinché le restrizioni della libertà personale dell’indagato o imputato nel corso del procedimento siano compatibili con la presunzione di non colpevolezza è necessario che esse assumano connotazioni nitidamente differenziate da quelle della pena, irrogabile solo dopo l’accertamento definitivo della responsabilità: e ciò, ancorché si tratti di misure – nella loro specie più gravi – ad essa corrispondenti sul piano del contenuto afflittivo. Il principio enunciato dall’art. 27, secondo comma, Cost. rappresenta, in altre parole, uno sbarramento insuperabile ad ogni ipotesi di assimilazione della coercizione processuale penale alla coercizione propria del diritto penale sostanziale, malgrado gli elementi che le accomunano.

Da ciò consegue – come questa Corte ebbe a rilevare sin dalla sentenza n. 64 del 1970 – che l’applicazione delle misure cautelari non può essere legittimata in alcun caso esclusivamente da un giudizio anticipato di colpevolezza, né corrispondere – direttamente o indirettamente – a finalità proprie della sanzione penale, né, ancora e correlativamente, restare indifferente ad un preciso scopo (cosiddetto “vuoto dei fini”). Il legislatore ordinario è infatti tenuto, nella tipizzazione dei casi e dei modi di privazione della libertà, ad individuare – soprattutto all’interno del procedimento e talora anche all’esterno (sentenza n. 1 del 1980) – esigenze diverse da quelle di anticipazione della pena e che debbano essere soddisfatte – entro tempi predeterminati (art. 13, quinto comma, Cost.) – durante il corso del procedimento stesso, tali da giustificare , nel bilanciamento di interessi meritevoli di tutela, il temporaneo sacrificio della libertà personale di chi non è stato ancora giudicato colpevole in via definitiva.

Ulteriore indefettibile corollario dei principi costituzionali di riferimento è che la disciplina della materia debba essere ispirata al criterio del “minore sacrificio necessario” (sentenza n. 299 del 2005): la compressione della libertà personale dell’indagato o dell’imputato va contenuta, cioè, entro i limiti minimi indispensabili a soddisfare le esigenze cautelari riconoscibili nel caso concreto.

Sul versante della “qualità” delle misure, ne consegue che il ricorso alle forme di restrizione più intense – e particolarmente a quella “massima” della custodia carceraria – deve ritenersi consentito solo quando le esigenze processuali o extraprocessuali, cui il trattamento cautelare è servente, non possano essere soddisfatte tramite misure di minore incisività. Questo principio è stato affermato in termini netti anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, secondo la quale, in riferimento alla previsione dell’art. 5, paragrafo 3, della Convenzione, la carcerazione preventiva «deve apparire come la soluzione estrema che si giustifica solamente allorché tutte le altre opzioni disponibili si rivelino insufficienti» (sentenze 2 luglio 2009, Vafiadis contro Grecia, e 8 novembre 2007, Lelièvre contro Belgio).

Il criterio del “minore sacrificio necessario” impegna, dunque, in linea di massima, il legislatore, da una parte, a strutturare il sistema cautelare secondo il modello della “pluralità graduata”, predisponendo una gamma alternativa di misure, connotate da differenti gradi di incidenza sulla libertà personale; dall’altra, a prefigurare meccanismi “individualizzati” di selezione del trattamento cautelare, parametrati sulle esigenze configurabili nelle singole fattispecie concrete.

6. – Il complesso di indicazioni costituzionali dianzi evidenziate trova puntuale eco nella disciplina dettata dal codice di procedura penale, in attuazione della direttiva n. 59 della legge di delegazione 16 febbraio 1987, n. 81.

Nella cornice di tale disciplina, la gravità in astratto dei reati oggetto del procedimento rileva, difatti – in linea di principio – solo come limite generale di applicazione delle misure cautelari (art. 280, commi 1 e 2, cod. proc. pen.) o come quantum del limite temporale massimo di durata (ai fini della cosiddetta scarcerazione automatica: art. 303 cod. proc. pen.), non come criterio di scelta sul “se” e sulla “specie” della misura.

Un giudizio di gravità può essere legittimato, in determinate prospettive, solo sul fatto concreto oggetto del procedimento (ad esempio, artt. 274, comma 1, lettera c, e 275, comma 2, cod. proc. pen.) e in via generale è richiesto, come condizione di applicazione delle misure, sugli indizi a carico: è la cosiddetta gravità indiziaria prevista dall’art. 273, comma 1, dello stesso codice.

Si tratta, peraltro, di condizione necessaria, ma non sufficiente, dovendo la gravità indiziaria sempre accompagnarsi ad esigenze cautelari, specificamente individuate dalla legge, legate alla tutela dell’acquisizione o della genuinità della prova, al pericolo di fuga dell’imputato ovvero al rischio di commissione di gravi reati o di reati della stessa specie di quello per cui si procede (art. 274 cod. proc. pen.).

In accordo con il modello sopra indicato, viene altresì tipizzato un “ventaglio” di misure, di gravità crescente in relazione all’incidenza sulla libertà personale: divieto di espatrio (art. 281), obbligo di presentazione alla polizia giudiziaria (art. 282), allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis), divieto e obbligo di dimora (variamente modulabile quanto ai tempi e ai limiti territoriali: art. 283), arresti domiciliari (variamente modulabili anche in luoghi diversi dall’abitazione propria del soggetto, vale a dire in altri luoghi privati o in luoghi pubblici di cura o di assistenza: art. 284), custodia cautelare in carcere (art. 285).

Di particolare rilievo, ai presenti fini, sono poi i criteri di scelta delle misure nel novero di quelle tipizzate. Il primo e fondamentale è quello di adeguatezza (art. 275, comma 1), secondo il quale, «nel disporre le misure, il giudice tiene conto della specifica idoneità di ciascuna in relazione alla natura e al grado delle esigenze cautelari da soddisfare nel caso concreto». A questo precetto fa riscontro uno specifico obbligo di motivazione sul punto, sancito a pena di nullità (art. 292, comma 2, lettera c, cod. proc. pen.).

È di tutta evidenza come proprio nel criterio di adeguatezza, correlato alla “gamma” graduata delle misure, trovi espressione il principio – implicato dal quadro costituzionale di riferimento – del “minore sacrificio necessario”: entro il “ventaglio” delle alternative prefigurate dalla legge, il giudice deve infatti prescegliere la misura meno afflittiva tra quelle astrattamente idonee a tutelare le esigenze cautelari nel caso concreto, in modo da ridurre al minimo indispensabile la lesività determinata dalla coercizione endoprocedimentale.

A completamento e specificazione del criterio in parola è, poi, previsto che la più gravosa delle misure cautelari personali coercitive, vale a dire la custodia cautelare carceraria, «può essere disposta soltanto quando ogni altra misura risulti inadeguata» (art. 275, comma 3, primo periodo, cod. proc. pen.). Su ciò il giudice che la applica è tenuto a dare, a pena di nullità, una motivazione appropriata, mediante «l’esposizione delle concrete e specifiche ragioni per le quali le esigenze di cui all’articolo 274 non possono essere soddisfatte con altre misure» (art. 292, comma 2, lettera c-bis, cod. proc. pen.). Si tratta della natura cosiddetta residuale-eccezionale, o di extrema ratio, di questa misura.

È inoltre enunciato il criterio di proporzionalità, secondo il quale «ogni misura deve essere proporzionata all’entità del fatto e alla sanzione che sia stata o si ritiene possa essere irrogata» (art. 275, comma 2, cod. proc. pen.).

7. – Tratto saliente complessivo del regime ora ricordato – conforme al quadro costituzionale di riferimento – è quello di non prevedere automatismi né presunzioni. Esso esige, invece, che le condizioni e i presupposti per l’applicazione di una misura cautelare restrittiva della libertà personale siano apprezzati e motivati dal giudice sulla base della situazione concreta, alla stregua dei ricordati principi di adeguatezza, proporzionalità e minor sacrificio, così da realizzare una piena “individualizzazione” della coercizione cautelare.

Da tali coordinate si discosta in modo vistoso – assumendo, con ciò, carattere derogatorio ed eccezionale – la disciplina attualmente espressa dal secondo e dal terzo periodo del comma 3 dell’art. 275 cod. proc. pen., non presente nel testo originario del codice, ma in esso inserita via via, con lo strumento della decretazione d’urgenza, in un primo tempo tramite l’aggiunta del solo secondo periodo al citato art. 275, comma 3, sulla spinta di una situazione apprezzata come “emergenziale”, legata segnatamente alla rilevata recrudescenza del fenomeno della criminalità mafiosa e di altri gravi o gravissimi reati (art. 5, comma 1, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, recante «Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa», convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, e art. 1, comma 1, del decreto-legge 9 settembre 1991, n. 292, recante «Disposizioni in materia di custodia cautelare, di avocazione dei procedimenti penali per reati di criminalità organizzata e di trasferimenti di ufficio di magistrati per la copertura di uffici giudiziari non richiesti», convertito, con modificazioni, dalla legge 8 novembre 1991, n. 356); successivamente (attraverso l’art. 5 della legge 8 agosto 1995, n. 332, recante «Modifiche al codice di procedura penale in tema di semplificazione dei procedimenti, di misure cautelari e di diritto di difesa») con un contenimento di questa speciale disciplina, mediante una drastica riduzione dei reati a essa assoggettati a quelli di cui all’art. 416-bis cod. pen. ovvero commessi avvalendosi delle condizioni previste da detto articolo o per agevolare le associazioni ivi indicate; infine, nuovamente e notevolmente ampliando il novero dei reati stessi, con le addizioni recate al vigente secondo periodo e con quelle ulterior i incluse nel nuovo terzo periodo del comma 3 dell’art. 275 (med iante gli interventi parimenti emergenziali dell’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38).

In base alla disciplina in questione, nei procedimenti per taluni delitti, analiticamente elencati, ove ricorra la condizione della gravità indiziaria, il giudice dispone senz’altro l’applicazione della misura cautelare della custodia carceraria, «salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari».

Per comune opinione, la previsione ora ricordata racchiude una duplice presunzione. La prima, a carattere relativo, attiene alle esigenze cautelari, che il giudice deve considerare sussistenti, quante volte non consti la prova della loro mancanza (prova di tipo negativo, dunque, che deve necessariamente proiettarsi su ciascuna delle fattispecie identificate dall’art. 274 cod. proc. pen.). La seconda, a carattere assoluto, concerne la scelta della misura: ove la presunzione relativa non risulti vinta, subentra un apprezzamento legale, vincolante e incontrovertibile, di adeguatezza della sola custodia carceraria a fronteggiare le esigenze presupposte, con conseguente esclusione di ogni soluzione “intermedia” tra questa e lo stato di piena libertà dell’imputato.

Il modello ora evidenziato si traduce, sul piano pratico, in una marcata attenuazione dell’obbligo di motivazione dei provvedimenti applicativi della custodia cautelare in carcere. Secondo un indirizzo consolidato della giurisprudenza di legittimità, difatti, in presenza di gravi indizi di colpevolezza per uno dei reati considerati, il giudice assolve il suddetto obbligo dando semplicemente atto dell’inesistenza di elementi idonei a vincere la presunzione di sussistenza delle esigenze cautelari, senza dovere specificamente motivare sul punto; mentre solo nel caso in cui l’indagato o la sua difesa abbiano allegato elementi di segno contrario, egli sarà tenuto a giustificare la ritenuta inidoneità degli stessi a superare la presunzione. Non vi sarà luogo, in ogni caso, ad esporre quanto ordinariamente richiesto dalla seconda parte delle lettere c) e c-bis) dell’art. 292, comma 2, cod. proc. pen., rimanendo irrilevante , a fronte dell’apprezzamento legale, l’eventuale convinzione del giudice che le esigenze cautelari possano essere concretamente soddisfatte tramite una misura cautelare meno incisiva di quella “massima”.

Tali marcati profili di scostamento rispetto al regime ordinario avevano indotto il legislatore – nell’ambito di un più generale disegno di recupero delle garanzie in materia di misure cautelari – a delimitare in senso restrittivo il campo di applicazione della disciplina derogatoria, costituente un vero e proprio regime cautelare speciale di natura eccezionale. Riferito, ai suoi esordi, ad una nutrita e disparata serie di figure criminose, il regime speciale era stato infatti circoscritto – a partire dal 1995, come dianzi ricordato – ai soli procedimenti per delitti di mafia in senso stretto (art. 5, comma 1, della citata legge n. 332 del 1995).

In tali limiti, la previsione aveva superato il vaglio tanto di questa Corte che della Corte europea dei diritti dell’uomo. Entrambe le Corti avevano, infatti, in vario modo valorizzato la specificità dei predetti delitti, la cui connotazione strutturale astratta (come reati associativi e, dunque, permanenti entro un contesto di criminalità organizzata, o come reati a tale contesto comunque collegati) valeva a rendere «ragionevoli» – nei relativi procedimenti – le presunzioni in questione, e segnatamente quella di adeguatezza della sola custodia carceraria, trattandosi, in sostanza, della misura più idonea a neutralizzare il periculum libertatis connesso al verosimile protrarsi dei contatti tra imputato ed associazione.

In particolare, con l’ordinanza n. 450 del 1995, questa Corte aveva escluso che la presunzione in parola violasse gli artt. 3, 13, primo comma, e 27, secondo comma, Cost., rilevando che se la verifica della sussistenza delle esigenze cautelari («l’an della cautela») non può prescindere da un accertamento in concreto, l’individuazione della misura da applicare («il quomodo») non comporta indefettibilmente l’affidamento al giudice di analogo potere di apprezzamento, potendo la scelta essere effettuata anche in termini generali dal legislatore, purché «nel rispetto del limite della ragionevolezza e del corretto bilanciamento dei valori costituzionali coinvolti» (in senso analogo, sul punto, ordinanze n. 130 del 2003 e n. 40 del 2002). Nella specie, deponeva nel senso della ragionevolezza della soluzione adottata «la delimitazione della norma all’area dei delitti di criminalità organizzata di tipo mafioso», tenuto cont o del «coefficiente di pericolosità per le condizioni di base della convivenza e della sicurezza collettiva che agli illeciti di quel genere è connaturato».

A sua volta, la Corte di Strasburgo – pronunciando su un ricorso volto a denunciare l’irragionevole durata della custodia cautelare in carcere applicata ad un indagato per il delitto di cui all’art. 416-bis cod. pen. e la conseguente violazione dell’art. 5, paragrafo 3, della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo – non aveva mancato di rilevare come una presunzione quale quella prevista dall’art. 275, comma 3, cod. proc. pen. potesse, in effetti, «impedire al giudice di adattare la misura cautelare alle esigenze del caso concreto» e, dunque, «apparire eccessivamente rigida». Nondimeno, secondo la Corte europea, la disciplina in esame rimaneva giustificabile alla luce «della natura specifica del fenomeno della criminalità organizzata e soprattutto di quella di stampo mafioso», e segnatamente in considerazione del fatto che la carcerazione provvisoria delle persone accusate del delitto in qu estione «tende a tagliare i legami esistenti tra le persone interessate e il loro ambito criminale di origine, al fine di minimizzare il rischio che esse mantengano contatti personali con le strutture delle organizzazioni criminali e possano commettere nel frattempo delitti» (sentenza 6 novembre 2003, Pantano contro Italia).

8. – È su questo quadro che si innesta l’ulteriore intervento novellistico che dà origine agli odierni quesiti di costituzionalità, operato con il decreto-legge n. 11 del 2009, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 38 del 2009.

Compiendo un “salto di qualità” a ritroso, rispetto alla novella del 1995, l’art. 2, comma 1, lettere a) e a-bis), del citato provvedimento d’urgenza riespande l’ambito di applicazione della disciplina eccezionale ai procedimenti aventi ad oggetto numerosi altri reati, individuati in parte mediante diretto richiamo agli articoli di legge che descrivono le relative fattispecie e per il resto tramite rinvio “mediato” alle norme processuali di cui all’art. 51, commi 3-bis e 3-quater, cod. proc. pen.; reati tra i quali si annoverano quelli considerati dalle ordinanze di rimessione, e cioè l’induzione o sfruttamento della prostituzione minorile (art. 600-bis, primo comma, cod. pen.); la violenza sessuale (art. 609-bis cod. pen.), salvo che ricorra l’attenuante di cui al terzo comma («casi di minore gravità»); gli atti sessuali con minorenne (art. 609-quater cod. pen.), salvo che ricorra l&# 8217;attenuante di cui al quarto comma («casi di minore gravità»).

È agevole constatare come le estensioni operate – successivamente implementate da modifiche legislative che non hanno interessato direttamente la norma impugnata (ad esempio, art. 12, comma 4-bis, del d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, recante il «Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero», aggiunto dalla legge 15 luglio 2009, n. 94, recante «Disposizioni in materia di sicurezza pubblica») – riguardino fattispecie penali in larga misura eterogenee fra loro (fatta eccezione per i delitti “a sfondo sessuale”), e cioè poste a tutela di differenti beni giuridici, assai diversamente strutturate e con trattamenti sanzionatori anche notevolmente differenti (si pensi all’omicidio volontario, al sequestro di persona a scopo di estorsione, all’associazione finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri, ai delitti commessi con finalità di terrorismo o di eversione) e accomunate unicamente dall’essere i relativi procedimenti assoggettati al regime cautelare speciale in questione.

9. – Tutte le ordinanze di rimessione censurano la norma impugnata limitatamente al fatto che non consente di applicare una misura cautelare meno afflittiva nei procedimenti a quibus, aventi ad oggetto i delitti sessuali dianzi citati. È, dunque, sottoposta allo scrutinio di costituzionalità esclusivamente la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare carceraria, mentre resta fuori del devoluto la presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari: dandosi per scontata questa sussistenza, ciò che rileva, secondo i rimettenti, e determina l’illegittimità costituzionale è la lesione del principio del “minore sacrificio necessario”.

10. – La lesione denunciata è effettivamente riscontrabile.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit». In particolare, l’irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia “agevole” formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (sentenza n. 139 del 2010).

Per questo verso, alle figure criminose che interessano non può estendersi la ratio già ritenuta, sia da questa Corte che dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, idonea a giustificare la deroga alla disciplina ordinaria quanto ai procedimenti relativi a delitti di mafia in senso stretto: vale a dire che dalla struttura stessa della fattispecie e dalle sue connotazioni criminologiche – connesse alla circostanza che l’appartenenza ad associazioni di tipo mafioso implica un’adesione permanente ad un sodalizio criminoso di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali e dotato di particolare forza intimidatrice – deriva, nella generalità dei casi concreti ad essa riferibili e secondo una regola di esperienza sufficientemente condivisa, una esigenza cautelare alla cui soddisfazione sarebbe adeguata solo la custodia in carcere (non essendo le misure “minori& #8221; sufficienti a troncare i rapporti tra l’indiziato e l’ambito delinquenziale di appartenenza, neutralizzandone la pericolosità).

Con riguardo ai delitti sessuali in considerazione non è consentito pervenire ad analoga conclusione. La regola di esperienza, in questo caso, è ben diversa: ed è che i fatti concreti, riferibili alle fattispecie in questione (pur a prescindere dalle ipotesi attenuate e considerando quelle ordinarie) non solo presentano disvalori nettamente differenziabili, ma anche e soprattutto possono proporre esigenze cautelari suscettibili di essere soddisfatte con diverse misure.

Per quanto odiosi e riprovevoli, i fatti che integrano i delitti in questione ben possono essere e in effetti spesso sono meramente individuali, e tali, per le loro connotazioni, da non postulare esigenze cautelari affrontabili solo e rigidamente con la massima misura.

Altrettanto può dirsi per quei fatti che si manifestano all’interno di specifici contesti (ad esempio, quello familiare o scolastico o di particolari comunità), in relazione ai quali le esigenze cautelari possono trovare risposta in misure diverse dalla custodia carceraria e che già il legislatore ha previsto, proprio in via specifica, costituite dall’esclusione coatta in vario modo e misura dal contesto medesimo: gli arresti domiciliari in luogo diverso dalla abitazione del soggetto (art. 284 cod. proc. pen.), eventualmente accompagnati anche da particolari strumenti di controllo (quale il cosiddetto braccialetto elettronico: art. 275-bis), l’obbligo o il divieto di dimora o anche solo di accesso in determinati luoghi (art. 283), l’allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis, ove al comma 6 sono specificamente evocati anche i casi in cui si proceda per taluno dei delitti a sfondo sessuale qui in esame).

A riprova conclusiva della molteplicità e varietà dei fatti punibili per i titoli in esame si può notare che il delitto di violenza sessuale (art. 609-bis cod. pen.) già in astratto comprende – pur tenendo conto della sottrazione al regime cautelare speciale delle ipotesi attenuate – condotte nettamente differenti quanto a modalità lesive del bene protetto, quali quelle corrispondenti alle previgenti fattispecie criminose della violenza carnale e degli atti di libidine violenti. Ciò rende anche più debole la “base statistica” della presunzione assoluta considerata.

11. – La ragionevolezza della soluzione normativa scrutinata non potrebbe essere rinvenuta neppure, per altro verso, nella gravità astratta del reato, considerata sia in rapporto alla misura della pena, sia – come mostra invece di ritenere l’Avvocatura generale dello Stato – in rapporto alla natura (e, in particolare, all’elevato rango) dell’interesse tutelato. Questi parametri giocano un ruolo di rilievo, ma neppure esaustivo, in sede di giudizio di colpevolezza, particolarmente per la determinazione della sanzione, ma risultano, di per sé, inidonei a fungere da elementi preclusivi ai fini della verifica della sussistenza di esigenze cautelari e – per quanto qui rileva – del loro grado, che condiziona l’identificazione delle misure idonee a soddisfarle.

D’altra parte, l’interesse tutelato penalmente è, nella generalità dei casi, un interesse primario, dotato di diretto o indiretto aggancio costituzionale, invocando il quale si potrebbe allargare indefinitamente il novero dei reati sottratti in modo assoluto al principio di adeguatezza, fino a travolgere la valenza di quest’ultimo facendo leva sull’incensurabilità della discrezionalità legislativa.

Ove dovesse aversi riguardo, poi, alla misura edittale della pena, la scelta del legislatore non potrebbe che apparire palesemente scompensata e arbitraria. Procedimenti relativi a gravissimi delitti – puniti con pene più severe di quelli che qui vengono in rilievo (taluni addirittura con l’ergastolo) – restano, infatti, sottratti al regime cautelare speciale: basti pensare alla strage (art. 422 cod. pen.), alla devastazione o saccheggio (art. 419 cod. pen.), alla rapina e all’estorsione aggravate (artt. 628, terzo comma, e 629, secondo comma, cod. pen.), alla produzione, traffico e detenzione illeciti di stupefacenti, anche con riguardo all’ipotesi aggravata di cessione a minorenni (artt. 73 e 80, comma 1, lettera a, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309).

12. – Tanto meno, infine, la presunzione in esame potrebbe rinvenire la sua fonte di legittimazione nell’esigenza di contrastare situazioni causa di allarme sociale, determinate dalla asserita crescita numerica di taluni delitti.

Proprio questa, per contro, è la convinzione che traspare dai lavori parlamentari relativi alla novella del 2009 e che ha portato ad attribuire carattere “emergenziale” all’esigenza di precludere l’applicazione di misure cautelari “attenuate” nei confronti degli indiziati di delitti di tipo sessuale.

La norma oggetto di scrutinio si colloca, infatti, nel corpo delle disposizioni – racchiuse nel capo I del decreto-legge n. 11 del 2009 – volte ad un generale inasprimento del regime cautelare, repressivo e penitenziario dei delitti in questione: inasprimento che, nell’idea dei compilatori, rappresenterebbe la necessaria risposta alla preoccupazione diffusasi nell’opinione pubblica, di fronte alla – percepita – ingravescenza di tale deplorevole forma di criminalità (esplicita, al riguardo, la relazione al disegno di legge di conversione A.C. 2232).

La eliminazione o riduzione dell’allarme sociale cagionato dal reato del quale l’imputato è accusato, o dal diffondersi di reati dello stesso tipo, o dalla situazione generale nel campo della criminalità più odiosa o più pericolosa, non può essere peraltro annoverata tra le finalità della custodia preventiva e non può essere considerata una sua funzione. La funzione di rimuovere l’allarme sociale cagionato dal reato (e meglio che allarme sociale si direbbe qui pericolo sociale e danno sociale) è una funzione istituzionale della pena perché presuppone, ovviamente, la certezza circa il responsabile del delitto che ha provocato l’allarme e la reazione della società.

Non è dubitabile, in effetti, che il legislatore possa e debba rendersi interprete dell’acuirsi del sentimento di riprovazione sociale verso determinate forme di criminalità, avvertite dalla generalità dei cittadini come particolarmente odiose e pericolose, quali indiscutibilmente sono quelle considerate. Ma a tale fine deve servirsi degli strumenti appropriati, costituiti dalla comminatoria di pene adeguate, da infliggere all’esito di processi rapidi a chi sia stato riconosciuto responsabile di quei reati; non già da una indebita anticipazione di queste prima di un giudizio di colpevolezza.

Nella specie, per converso, la totale vanificazione del principio di adeguatezza, in difetto di una ratio correlata alla struttura delle fattispecie criminose di riferimento, cumulandosi alla presunzione relativa di sussistenza delle esigenze cautelari, orienta chiaramente lo “statuto custodiale” – in conformità alle evidenziate risultanze dei lavori parlamentari – verso finalità “metacautelari”, che nel disegno costituzionale devono essere riservate esclusivamente alla sanzione penale inflitta all’esito di un giudizio definitivo di responsabilità.

13. – Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve dunque concludere che la norma impugnata viola, in parte qua, sia l’art. 3 Cost., per l’ingiustificata parificazione dei procedimenti relativi ai delitti in questione a quelli concernenti i delitti di mafia nonché per l’irrazionale assoggettamento ad un medesimo regime cautelare delle diverse ipotesi concrete riconducibili ai paradigmi punitivi considerati; sia l’art. 13, primo comma, Cost., quale referente fondamentale del regime ordinario delle misure cautelari privative della libertà personale; sia, infine, l’art. 27, secondo comma, Cost., in quanto attribuisce alla coercizione processuale tratti funzionali tipici della pena.

Al fine di attingere, quanto meno ad un livello minimo e tenuto conto dei limiti delle questioni devolute allo scrutinio di questa Corte, la compatibilità costituzionale della norma censurata non è peraltro necessario rimuovere integralmente la presunzione di cui discute.

Ciò che rende costituzionalmente inaccettabile la presunzione stessa è per certo il suo carattere assoluto, che si risolve in una indiscriminata e totale negazione di rilievo al principio del “minore sacrificio necessario”, anche quando sussistano – come nei casi oggetto dei procedimenti a quibus, secondo quanto riferiscono i giudici rimettenti – specifici elementi da cui desumere, in positivo, la sufficienza di misure diverse e meno rigorose della custodia in carcere.

La previsione di una presunzione solo relativa di adeguatezza di quest’ultima – atta a realizzare una semplificazione del procedimento probatorio suggerita da taluni aspetti ricorrenti del fenomeno criminoso considerato, ma comunque superabile da elementi probatori di segno contrario – non eccede, per contro, i limiti di compatibilità con i parametri evocati, rimanendo per tale verso non censurabile l’apprezzamento legislativo, in rapporto alle caratteristiche dei reati in questione, della ordinaria configurabilità di esigenze cautelari nel grado più intenso (per una conclusione analoga, con riguardo alla fattispecie da essa esaminata, sentenza n. 139 del 2010). In tale modo, si evita comunque l’irrazionale equiparazione dei procedimenti relativi a tali reati a quelli concernenti la criminalità di tipo mafioso e si lascia spazio alla differenziazione delle varie fattispecie concrete riconducibili ai paradigmi punitivi astratti.

I reati in questione restano assoggettati ad un regime cautelare speciale, tuttavia attenuato dalla natura relativa – e quindi superabile – della presunzione di adeguatezza della custodia carceraria e, perciò, non incompatibile con il quadro costituzionale di riferimento.

L’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, cod. proc. pen. va dichiarato, pertanto, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

14. – La censura formulata dal Tribunale di Torino in relazione all’art. 117, primo comma, Cost. resta assorbita.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 275, comma 3, secondo e terzo periodo, del codice di procedura penale, come modificato dall’art. 2 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito, con modificazioni, dalla legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui – nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti di cui agli articoli 600-bis, primo comma, 609-bis e 609-quater del codice penale, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari – non fa salva, altresì, l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Giuseppe FRIGO, Redattore

Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 21 luglio 2010.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: DI PAOLA