Deposito del 22/07/2010 (dalla 266 alla 278) |
S.266/2010 del 07/07/2010 Udienza Pubblica del 08/06/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SAULLE Norme impugnate: Legge della Regione Lombardia 06/08/2009, n. 19 e art. 2 della legge della Regione Toscana 17/09/2009, n. 53. Oggetto: Ambiente - Caccia - Norme della Regione Lombardia - Piano di cattura dei richiami vivi per la stagione venatoria 2009/2010 - Lamentata assenza dei presupposti e delle condizioni poste dalla normativa comunitaria, contrasto con i principi stabiliti dal legislatore statale e dalla legge quadro regionale. Ambiente - Caccia - Norme della Regione Toscana - Protezione della fauna selvatica omeoterma e prelievo v enatorio - Cattura di uccelli selvatici da richiamo - Autorizzazione alla cattura delle specie cesena, merlo, tordo bottaccio e tordo sassello, da utilizzare a scopo di richiamo - Lamentata assenza dei presupposti e delle condizioni poste dalla normativa europea, mancanza del parere favorevole dell'ISPRA richiesto dalla legge statale al fine di garantire standard minimi e uniformi di tutela della fauna. Dispositivo: illegittimità costituzionale Atti decisi: ric. 94 e 102/2009 |
S.267/2010 del 07/07/2010 Udienza Pubblica del 22/06/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore CASSESE Norme impugnate: Art. 22, c. 4°, del decreto legge 01/07/2009, n. 78; artt. 1, c. 1°, lett. a) e b), 2, c. 1°, 2°, 3° e 6°, 5 e 6 della legge della R egione Calabria 30/04/2009, n. 11 e art. 1, c. 1°, della legge della Regione Calabria 07/12/2009, n. 48. Oggetto: Contabilità e bilancio - Sanità pubblica - Norme della Regione Calabria - Ripiano del disavanzo di esercizio per l'anno 2008 ed accordo con lo Stato per il rientro dai disavanzi del servizio sanitario regionale - Copertura del disavanzo 2008 mediante il gettito derivante dall'incremento, per l'anno 2009, delle aliquote fiscali nella misura massima prevista dalla vigente normativa e mediante ogni altra risorsa necessaria - Lamentata unilateralità degli interventi in contrasto con le modalità stabilite dalle leggi finanziarie statali; Copertura del disavanzo 2007 mediante l'Accordo per il rientro dai disavanzi disciplinato dalla legge regionale censurata - Lamentata unilateralità degli interventi in contrasto con le modalità stabilite dalle leggi finanziarie statali; Autorizzazione a lla Giunta regionale a definire e stipulare l'accordo per il rientro dai disavanzi previsto dall'art. 1, comma 180, della legge n. 311 del 2004 - Lamentata unilateralità degli interventi in contrasto con le modalità stabilite dalle leggi finanziarie statali; Regolamentazione dell'accordo per il rientro dal disavanzo sanitario per l'anno 2007 - Lamentata unilateralità degli interventi in contrasto con le modalità stabilite dalle leggi finanziarie statali; Attribuzione ai direttori generali delle aziende sanitarie e ospedaliere del compito di effettuare le procedure di riconciliazione, accertamento e riconoscimento dei debiti esistenti al 31 dicembre 2007 - Lamentata indebita estensione al territorio della Regione Calabria delle procedure di prescrizione dei debiti pregressi nel settore sanitario valevoli solo per le Regioni che sottoscrivono con lo Stato un Accordo contenente il Piano di rientro dai disavanzi, contrasto con le modalit&ag rave; stabilite dalle leggi finanziarie statali; Individuazione de lle risorse che l'accordo deve destinare alle Aziende sanitarie e ospedaliere per la copertura dei disavanzi antecedenti al 31 dicembre 2007 - Lamentata unilaterale autoattribuzione della possibilità di accedere ai finanziamenti introdotti dalla legislazione statale con il cosiddetto fondo per il ripiano dei disavanzi pregressi e autorizzazione alle aziende sanitarie al ricorso all'indebitamento per la copertura dei disavanzi registrati fino a tutto l'anno 2007 - Contrasto con la normativa nazionale che prevede tale possibilità solo per le Regioni che hanno sottoscritto con lo Stato l'Accordo contenente il Piano di rientro dai disavanzi e limitatamente ai disavanzi registrati sino all'anno 2005; Sanità pubblica - Norme della Regione Calabria - Fondazione per la ricerca e la cura dei tumori Tommaso Campanella - Eventualità che non si addivenga al riconoscimento della Fondazione quale istituto di ricerca e cura a carattere scientifico entro la data del 31 dicembre 2009 - Conseguente recesso della Regione dalla Fondazione e nomina di un commissario liquidatore con il compito di redigere un piano per la riconduzione delle unità operative complesse esistenti presso la Fondazione nell'ambito dell'Azienda Ospedaliera Universitaria Mater Domini e la continuazione presso l'Azienda medesima dei rapporti di lavoro del personale sanitario e dei dirigenti medici in servizio nella Fondazione; Istituzione, con nomina del Consiglio regionale, dell'Autorità per il sistema sanitario, composta da cinque esperti di nomina regionale e da tre rappresentanti rispettivamente designati dalla Guardia di Finanza, dai NAS e dalla Corte dei conti, al fine di potenziare l'attività di controllo, vigilanza ed ispezione sulle aziende pubbliche e private accreditate che erogano prestazioni sanitarie - Contrasto con le norme statali volte a limitare il numero delle strutture di supporto agli organismi istituzionali Bilancio e contabilità pubblica - Sanità pubblica - Acc ordo ai sensi dell'art. 1, comma 180, della legge n. 311 del 2004 - Piano di rientro dal deficit sanitario - Nomina di un Commissario governativo per la predisposizione e l'attuazione del piano triennale, recante indicazione dei necessari interventi di contenimento strutturale della spesa, avente tutti i poteri spettanti agli organi della Regione e in sostituzione di essi - Lamentato illegittimo e irragionevole esercizio dei poteri sostitutivi dello Stato al fine improprio di regolamentare l'assetto organizzativo e gestorio degli Enti preposti all'erogazione delle prestazioni sanitarie, estromissione della Regione in materie di sua competenza, lamentata disparità di trattamento rispetto alle altre Regioni, difetto assoluto di proporzionalità della sostituzione rispetto alle finalità perseguite Sanità pubblica - Norme della Regione Calabria - Modifica dell'art. 5, comma 1, della legge della Regione Calabria n. 11/2009 - Fondazione per la ricer ca e la cura dei tumori Tommaso Campanella - Proroga del termine, dal 31 dicembre 2009 al 31 dicembre 2010, entro il quale la Fondazione deve essere trasformata in Istituto di ricerca e cura a carattere scientifico, a pena del recesso della Regione dalla Fondazione e della nomina di un commissario liquidatore - Riproposizione degli stessi profili di incostituzionalità già prospettati con il Ric. n. 43/2009 avverso l'art. 5, comma 1. Dispositivo: illegittimità costituzionale - illegittimità costituzionale parziale - estinzione del processo Atti decisi: ric. 43 e 54/2009; 22/2010 |
S.268/2010 del 07/07/2010 Camera di Consiglio del 09/06/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SAULLE Norme impugnate: Art. 19 dell a legge della Regione Molise 10/08/1993, n. 19. Oggetto: Caccia - Norme della Regione Molise - Comitati di gestione degli ambiti territoriali - Composizione. Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale Atti decisi: ord. 74/2010 |
S.269/2010 del 07/07/2010 Udienza Pubblica del 08/06/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore TESAURO Norme impugnate: Artt. 2, c. 2° e 4° e 6, c. 11°, 35°, 43°, 51° e 55°, lett. d), della legge della Regione Toscana 09/06/2009, n. 29. Oggetto: Straniero - Norme della Regione Toscana - Misure per "l'accoglienza, l'integrazione partecipe e la tutela dei cittadin i stranieri" - Ambito soggettivo - Previsione di specifici interventi anche "a favore di cittadini stranieri comunque dimoranti sul territorio regionale" - Lamentata incidenza sulla disciplina dell'ingresso e del soggiorno di stranieri riservata allo Stato - Contrasto con i principi fondamentali della legislazione nazionale; Ambito soggettivo - Estensione degli interventi anche "a cittadini neocomunitari" - Lamentata incidenza sulla disciplina della condizione giuridica del cittadino comunitario riservata allo Stato - Contrasto con i principi fondamentali della legislazione nazionale; Previsione di interventi socio assistenziali urgenti ed indifferibili in favore di "tutte le persone dimoranti nel territorio regionale, anche se prive di titolo di soggiorno" - Lamentata introduzione di un sistema socio assistenziale parallelo per gli stranieri irregolari in contrasto con la legislazione nazionale; Rete regionale di sportelli informativi - Funzioni di supporto ai comuni nella sperimentazione, avvio ed esercizio delle funzioni relati ve al rilascio dei titoli di soggiorno, nonché di promozione del coordinamento tra gli enti locali per lo sviluppo dei servizi volti a facilitare e semplificare i rapporti tra stranieri e la pubblica amministrazione - Lamentato intervento della rete regionale in funzioni che la legge statale non attribuisce ai comuni - Contrasto con la legislazione nazionale che attribuisce le funzioni di rilascio e rinnovo dei permessi di soggiorno alle questure; Iscrizione al servizio sanitario regionale per gli stranieri titolari di permesso di soggiorno per richiesta di asilo, status di rifugiato, protezione sussidiaria o ragioni umanitarie "nella fase di ricorso giurisdizionale avverso il provvedimento di diniego del riconoscimento dei relativi status"- Lamentata incidenza su disciplina di esclusiva competenza statale - Contrasto con la normativa nazionale; Promozione da parte della Regione di intese e azioni congiunte con le istituzioni europee e le agenzie delle Nazion i Unite competenti nella materia delle migrazioni, nonché di intese volte a facilitare l'ingresso in Italia di stranieri per la frequenza di corsi di formazione professionale o tirocini formativi - Lamentata attività internazionale al di fuori dei limiti consentiti alle Regioni, in contrasto con la normativa nazionale. Dispositivo: non fondatezza - inammissibilità Atti decisi: ric. 52/2009 |
S.270/2010 del 23/06/2010 Udienza Pubblica del 22/06/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore TESAURO Norme impugnate: Art. 4, c. 4° quinquies, del decreto legge 23/12/2003, n. 347, convertito con modificazioni in legge 18/02/2004, n. 39, aggiunto dall'art . 1, c. 10°, del decreto legge 28/08/2008, n. 134, convertito con modi ficazioni in legge 27/10/2008, n. 166. Oggetto: Impresa e imprenditore - Disposizioni urgenti in materia di ristrutturazione di grandi imprese in crisi - Operazioni di concentrazione effettuate entro il 30 giugno 2009, tra imprese operanti nei servizi pubblici essenziali connesse o contestuali o comunque previste nel programma debitamente autorizzato, relativo alla procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza - Esclusione della necessità di autorizzazione di cui alla legge 10 ottobre 1990, n. 287 - Obbligo delle stesse imprese di notificare le suddette operazioni all'Autorità garante della concorrenza e del mercato unitamente alla proposta di misure comportamentali idonee a prevenire il rischio di imposizione di prezzi o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose per i consumatori in conseguenza dell'operazione - Previsione dell'adozione da parte dell'Autorità, entr o trenta giorni dalla comunicazione dell'operazione, della prescrizione delle predette misure con le modificazioni ed integrazioni ritenute necessarie, nonché della definizione del termine, non inferiore a tre anni, entro il quale le posizioni di monopolio eventualmente determinatesi devono cessare - Sanzioni in caso di inottemperanza. Dispositivo: non fondatezza Atti decisi: ord. 223, 224 e 225/2009 |
S.271/2010 del 08/07/2010 Udienza Pubblica del 06/07/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore CASSESE Norme impugnate: Art. 21, c. 1°, nn. 2 e 3, della legge 24/01/1979, n. 18. Oggetto: Elezioni - Elezioni dei membri de l Parlamento europeo spettanti all'Italia - Sistema elettorale - Attri buzione alla lista, sia singola sia formata da liste collegate, nelle varie circoscrizioni, di tanti seggi quante volte il rispettivo quoziente elettorale di lista risulti contenuto nella cifra elettorale circoscrizionale della lista - Previsione che i seggi che rimangono ancora da attribuire siano assegnati, rispettivamente, nelle circoscrizioni per le quali le ultime divisioni hanno dato maggiori resti e, in caso di parità di resti, a quelle circoscrizioni nelle quali si è ottenuta la maggiore cifra elettorale circoscrizionale - Rispetto del numero dei seggi preventivamente attribuito alle singole circoscrizioni in relazione alla popolazione residente - Mancata previsione. Dispositivo: inammissibilità Atti decisi: ord. 22, 23, 28, 29, 30, 31, 32 e 33/2010 |
S.272/2010 del 07/07/2010 Udienza Pubblica del 07/07/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore QUARANTA Norme impugnate: Artt. 6, 7, c. 6°, e 9, c. 6°, della legge della Regione Toscana 06/04/2000, n. 54; art. 19 del regolamento del Comune di Pisa, adottato con deliberazione 2-12-2003, n. 104. Oggetto: Telecomunicazioni - Norme della Regione Toscana in materia di impianti di radiocomunicazione - Disciplina per il rilascio dell'autorizzazione all'installazione o alla modifica degli impianti - Previsione che gli oneri relativi allo svolgimento dei controlli previsti dalla normativa regionale siano posti a carico dei richiedenti l'autorizzazione, dei titolari degli impianti fissi per la telefonia mobile, nonché dei concessionari per radiodiffusione di programmi radiofonici e televisivi a carattere commerciale - Ricorso in opposizione all'ingiunzione di pagamento di somma dovuta a titolo di o nere per lo svolgimento dei controlli ARPAT su impianti di telefonia mobile relativamente agli anni 2003-2005 - Dedotto contrasto con la disciplina statale che, in attuazione di direttive comunitarie, prescrive alle pubbliche amministrazioni e agli enti territoriali il divieto di imporre, per l'impianto di reti o per l'esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, oneri o canoni che non siano stabiliti per legge. Dispositivo: illegittimità costituzionale - inammissibilità Atti decisi: ord. 30/2009 |
S.273/2010 del 07/07/2010 Udienza Pubblica del 07/07/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SILVESTRI Norme impugnate: Art. 23, c. 4°, del decreto legisl ativo 11/05/1999, n. 152 (che ha sostituito l'art. 17 del regio decreto 11/12/1933, n. 1775), come sostituito dall'art. 7, c. 1°, lett. b), del decreto legislativo 18/08/2000, n. 258. Oggetto: Reati e pene - Impossessamento abusivo di acque pubbliche - Configurazione, in virtù del d.lgs. n. 152 del 1999, quale illecito amministrativo - Denunciata depenalizzazione della fattispecie. Dispositivo: inammissibilità Atti decisi: ord. 328/2009 |
S.274/2010 del 07/07/2010 Udienza Pubblica del 07/07/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore FRIGO Norme impugnate: Decreto del Ministro dell'Interno 08/08/2009. Dispositivo: accoglie il ricorso Atti decisi: confl. enti 10 e 11/2009 |
O.275/2010 del 07/07/2010 Udienza Pubblica del 08/06/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore TESAURO Norme impugnate: Artt. 2, c. 1°, lett. c), 11, 12, 13, 14, c. 1°, e 16 della legge della Regione Marche 26/05/2009, n. 13. Oggetto: Str aniero - Norme della Regione Marche - Misure "a sostegno dei diritti e dell'integrazione dei cittadini stranieri immigrati" - Inclusione tra i destinatari anche de "i cittadini stranieri immigrati in attesa del procedimento di regolarizzazione" - Fattispecie non contemplata dalla normativa statale in materia di immigrazione - Contrasto con i principi fondamentali della legislazione nazionale; Determinazione della Regione "di evitare la realizzazione nel territorio regionale di centri di identificazione ed espulsione o, comunque, di centri di detenzione per migranti, nei quali lo stato di reclusione e la limitazione delle libertà personali siano disposte al di fuori del medesimo quadro di garanzie previsto a tutela dei cittadini italiani" - Contrasto e interferenza con la normativa nazionale. Dispositivo: estinzione del processo Atti decisi: ric. 51/2009 |
Camera di Consiglio del 23/06/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore CRISCUOLO Norme impugnate: Artt. 107, 108, 143, 143 bis e 156 bis del codice civile. Oggetto: Matrimonio - Possibilità tra persone dello stesso sesso - Esclusione. Dispositivo: manifesta infondatezza - manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 110/2010 |
O.277/2010 del 07/07/2010 Udienza Pubblica del 06/07/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore MADDALENA Norme impugnate: Art. 1 , c. 231°, 232° e 233°, della legge 23/12/2005, n. 266. Oggetto: Corte dei conti - Giudizio di responsabilità - Definizione agevolata del procedimento mediante pagamento di una percentuale del danno quantificato nella sentenza di primo grado - Facoltà di accesso alla definizione agevolata per i soggetti la cui sentenza di assoluzione in primo grado sia stata riformata in appello, a seguito dell'accoglimento del gravame interposto dal pubblico ministero - Mancata previsione. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 182/2009 |
S.278/2010 del 23/06/2010 Udienza Pubblica del 22/06/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore DE SIERVO Norme impugnate: Artt. 3, c. 9°, 25, c. 1° e 2°, lett. a), f), g), h), l) e q), 26, c. 1°, e 27, c. 14°, 24°, lett. c) e d), 27°, 28°, 31° e 34° della legge 23/07/2009, n. 99. Oggetto: Edilizia e urbanistica - Turismo - Strutture turistico-ricettive all'aperto (campeggi) - Installazioni e rimessaggi dei mezzi mobili di pernottamento - Possibilità di collocazione permanente senza previsione di un termine per la rimozione - Esclusione che si tratti di attività rilevanti ai fini urbanistici, edilizi e paesaggistici - Lamentata adozione di normativa puntuale e analitica nella materia concorrente del governo del territorio, nonché incidenza sulla materia del turismo riservata alla Regione; Energia - Energia nucleare - Delega al Governo per l'adozione di uno o più decreti legislativi di riassetto normativo recanti la disciplina della localizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare, di impianti di fabbr icazione del combustibile nucleare, dei sistemi di stoccaggio del combustibile irraggiato e dei rifiuti radioattivi, nonché dei sistemi per il deposito definitivo dei materiali e rifiuti radioattivi e per la definizione delle misure compensative da corrispondere e da realizzare in favore delle popolazioni interessate - Adozione dei decreti su proposta del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, previa acquisizione del parere della Conferenza unificata Stato-Regioni - Lamentata inutilizzabilità del modulo della delega legislativa nell'ambito di competenze legislative concorrenti, nonché lamentata mancanza di compartecipazione paritaria delle Regioni nella forma dell'intesa; Energia - Delega al Governo in materia nucleare - Principi e criteri direttivi per l'esercizio della delega da parte del Governo - Obbligo di dete rminare le modalità di esercizio del potere sostitutivo del Gov erno in caso di mancato raggiungimento delle necessarie intese con i diversi enti locali coinvolti - Mancata previsione di criteri direttivi volti ad assicurare la disciplina del procedimento dell'intesa sì da garantirne il carattere "forte" - Lamentata rimessione allo Stato della possibilità di decidere unilateralmente, con conseguente vanificazione della previsione dell'intesa; Previsione che la costruzione e l'esercizio di impianti per la produzione di energia elettrica nucleare e di impianti per la messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi o per lo smantellamento di impianti nucleari a fine vita e tutte le opere connesse siano soggetti ad autorizzazione unica rilasciata dal Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell'ambiente e con il Ministro delle infrastrutture e trasporti, d'intesa con la Conferenza unificata - Mancata previsione dell'intesa con la Regione direttamente interessata, in relazione ai profili di localizzazione t erritoriale; Principi e criteri direttivi per l'esercizio della delega da parte del Governo - Controlli di sicurezza e di radioprotezione - Previsione che siano effettuati con il supporto e la consulenza di esperti di analoghe organizzazioni di sicurezza europee - Previsione di una opportuna campagna di informazione alla popolazione italiana - Lamentata estromissione delle Regioni; Energia - Energia nucleare - Definizione delle tipologie degli impianti per la produzione di energia elettrica nucleare che possono essere realizzati nel territorio nazionale, da adottarsi con delibera del CIPE previo parere della Conferenza unificata - Obbligo di esprimere il parere entro sessanta giorni, trascorsi i quali il parere si intende acquisito - Lamentata carenza di adeguato coinvolgimento delle Regioni; Energia - Misure per la sicurezza e il potenziamento del settore energetico - Criteri per l'erogazione del Fondo di sviluppo delle isole minori - Mancata previsione di una intesa forte fra Stato e Conferenza unificata o Regione interessata - Interventi ammessi al relativo finanziamento - Lamentata adozione previa intesa con gli enti locali con totale estromissione della Regione; Rilascio dell'autorizzazione - Disciplina del procedimento da seguire in caso di mancata definizione dell'intesa con la Regione - Adozione di un decreto del Presidente della Repubblica previa delibera del Consiglio dei ministri integrato con la partecipazione del Presidente della Regione - Lamentato carattere simbolico della partecipazione regionale; Energia - Misure per la sicurezza e il potenziamento del settore energetico - Varianti di rilievo localizzativi interessanti il tracciato degli elettrodotti - Approvazione da parte del Ministero dello sviluppo economico di concerto con il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e con il Ministero dell'ambiente e con il consenso del Presidente delle Regioni interessate - Mancata previsione di una intesa forte fra Stato e Conferenza unificata o con la Regione interessata; Energia - Misure per la sicurezza e il potenziamento del settore energetico - Delega legislativa per la disciplina della ricerca e coltivazione delle risorse geotermiche - Lamentata inutilizzabilità del modulo della delega legislativa nell'ambito di competenze legislative concorrenti; Procedure di autorizzazione per la costruzione e l'esercizio di terminali di rigassificazione di gas naturale liquefatto - Utilizzo del modulo della Conferenza dei servizi anziché dell'intesa; Procedure di autorizzazione per la costruzione e l'esercizio di terminali di rigassificazione di gas naturale liquefatto - Autorizzazione ai fini della conformità urbanistica dell'opera - Obbligo di richiedere il parere motivato degli enti locali - Lamentata contraddittorietà con la precedente norma secondo cui l'intesa con la Regione costituisce "variazione" degli strumenti urbanistici vigenti; Autorizzazione alla perforazione del pozzo esplorativo, alla costruzi one degli impianti e delle opere necessarie, delle opere connesse e de lle infrastrutture indispensabili all'attività di perforazione - Prevista Conferenza dei servizi con mera partecipazione della Regione accanto agli enti locali - Mancata previsione dell'intesa, necessaria nell'ambito di competenze legislative concorrenti. Dispositivo: illegittimità costituzionale - non fondatezza - inammissibilità - estinzione del processo Atti decisi: ric. 69, 70, 71, 72, 73, 75, 76, 77, 82, 83 e 91/2009 |
SENTENZA N. 266 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale della legge della Regione Lombardia 6 agosto 2009, n. 19 [Approvazione del piano di cattura dei richiami vivi per la stagione venatoria 2009/2010 ai sensi della legge regionale 5 febbraio 2007, n. 3 (Legge quadro sulla cattura dei richiami vivi)], e dell’art. 2 della legge della Regione Toscana 17 settembre 2009, n. 53 [Disciplina dell’attività di cattura degli uccelli selvatici da richiamo per l’anno 2009 ai sensi dell’articolo 4 della legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), e dell’articolo 34 della legge regionale 12 gennaio 1994, n. 3 (Recepimento della legge 11 febbraio 1992, n. 157 “Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio”)], promossi dal Presidente del Consiglio dei ministri con i ricorsi rispettivamente notificati il 12-19 ottobre 2009 e il 20-24 novembre 2009, depositati in cancelleria il 21 ottobre 2009 ed il 26 novembre 2009 ed iscritti ai nn. 94 e 102 del registro ricorsi 2009. Visti gli atti di costituzione delle Regioni Lombardia e Toscana; udito nell’udienza pubblica dell’8 giugno 2010 il Giudice relatore Maria Rita Saulle; uditi l’avvocato dello Stato Sergio Fiorentino per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Marcello Cardi per la Regione Lombardia, Silvia Fantappiè e Lucia Bora per la Regione Toscana. Ritenuto in fatto 1. – Con ricorso notificato il 12 ottobre 2009 e depositato il successivo 21 ottobre, il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato la legge della Regione Lombardia 6 agosto 2009, n. 19 [Approvazione del piano di cattura dei richiami vivi per la stagione venatoria 2009/2010 ai sensi della legge regionale 5 febbraio 2007, n. 3 (Legge quadro sulla cattura dei richiami vivi)], per contrasto con l’art. 117, primo e secondo comma, lettera s), della Costituzione. 1.2 – Con il primo motivo di ricorso, il ricorrente censura la citata legge regionale n. 19 del 2009 per aver autorizzato la gestione degli impianti per la cattura delle specie indicate nell’allegato “A” della medesima legge «in assenza dei presupposti e delle condizioni poste» dall’art. 9 della direttiva 79/409/CEE (Direttiva del Consiglio concernente la conservazione degli uccelli selvatici). In particolare, il ricorrente osserva che la citata norma comunitaria subordina la «possibilità di autorizzare in deroga la cattura di determinate specie di uccelli in piccole quantità alla comprovata assenza di altre soluzioni soddisfacenti, al rispetto di condizioni rigidamente controllate e all’impiego di modalità selettive in modo che le catture vengano effettuate solo nella misura in cui siano strettamente necessarie a soddisfare le richieste del mondo venatorio». Sotto tale profilo, dunque, risulterebbe integrata la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., non avendo la Regione Lombardia rispettato le misure dettate dalla direttiva citata, così come, peraltro, precisa sempre il ricorrente, sarebbe confermato «dal parere negativo dell’ISPRA del 9 giugno 2009». 1.3 – In secondo luogo, la legge regionale impugnata violerebbe anche il principio stabilito dall’art. 4 della legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), in base al quale, ad avviso del ricorrente, la potestà legislativa regionale in ordine alla autorizzazione del piano di cattura dei richiami vivi dovrebbe essere «esercitata non solo nel rispetto dei principi stabiliti dal legislatore comunitario […], ma anche dei principi stabiliti dal legislatore statale […], che richiede espressamente il parere favorevole dell’ISPRA». Pertanto, posto che la suddetta disposizione statale integrerebbe, sempre secondo il ricorrente, una «esigenza unitaria per ciò che concerne la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ponendo un limite a interventi regionali che possono pregiudicare gli equilibri ambientali», la legge regionale impugnata violerebbe a nche l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. 2. – Con memoria depositata in data 24 novembre 2009, si è costituita in giudizio la Regione Lombardia chiedendo che il ricorso sia dichiarato manifestamente inammissibile o, comunque, infondato. 2.1 – Dopo aver ricostruito il quadro normativo comunitario, statale e regionale, di riferimento, la resistente evidenzia che la finalità della disciplina censurata è «quella di assicurare il rifornimento dei richiami vivi ai cacciatori che esercitano l’attività venatoria nella forma dell’appostamento fisso e temporaneo», in attuazione dell’art. 4 della legge n. 157 del 1992 e dell’art. 7 della legge della Regione Lombardia 16 agosto 1993, n. 26 (Norme per la protezione della fauna selvatica e per la tutela dell’equilibrio ambientale e disciplina dell’attività venatoria). Ciò premesso, in ordine al primo motivo del ricorso, la difesa regionale deduce che l’art. 9 della direttiva 79/409/CEE ammette la possibilità di derogare al divieto di cattura dei richiami vivi, «sempre che non vi siano altre soluzioni soddisfacenti», al fine di consentire «in condizioni rigidamente controllate e in modo selettivo la cattura, la detenzione o altri impieghi misurati di determinati uccelli in piccole quantità» (art. 1, paragrafo 1, lettera c, della direttiva 79/409/CEE). Il secondo comma dello stesso art. 9 della direttiva, prosegue la Regione Lombardia, dispone che le predette deroghe dovranno menzionare: le specie coinvolte, i mezzi, gli impianti e i metodi di cattura o di uccisione autorizzata, le condizioni di rischio e le circostanze di tempo e di luogo in cui dette deroghe possono essere applicate, l’autorità abilitata a dichiarare che le condizioni stabilite sono soddisfatte e a decidere quali mezzi, impianti e metodi possano essere utilizzati, entro quali limiti e da quali persone, nonché, infine, i controlli da effettuarsi. Orbene, la difesa della resistente evidenzia che l’art. 1, comma 2, della legge regionale n. 3 del 2007 «prevede che il Consiglio regionale approvi con legge, “sentito l’Istituto nazionale per la fauna selvatica (INFS)” (ora ISPRA), entro il mese di giugno di ogni anno, il piano con cui è individuato il numero massimo di impianti da abilitare per Provincia e il numero massimo dei richiami vivi da catturare per singola specie consentita e complessivamente per ogni provincia». Detto piano annuale, prosegue la resistente, è stato adottato, con la legge impugnata, in considerazione della comprovata insufficienza (desunta dai dati forniti dalle singole Province) del patrimonio di richiami vivi appartenenti alle specie in essa individuate in possesso dei cacciatori lombardi rispetto all’ammontare potenzialmente consentito in base alle previsioni della legge regionale n. 26 del 1993. La Regione Lombardia deduce, infatti, di non disporre allo stato di un sistema alternativo alla cattura, nonostante l’amministrazione regionale – in ottemperanza a quanto previsto dal comma 6 dell’art. 1 della legge regionale n. 3 del 2007 – abbia da tempo attivato e finanziato un programma finalizzato all’incremento dell’allevamento delle specie di uccelli utilizzabili come richiami vivi, poiché gli allevatori non avrebbero garantito la copertura del fabbisogno complessivo. Quanto all’individuazione delle specie utilizzate allo scopo di richiamo, la difesa regionale sottolinea che, in quanto appartenenti a specie cacciabili, esse sarebbero soggette ad un prelievo ben più consistente attraverso l’esercizio venatorio, sicché, anche sotto tale profilo, non vi sarebbe alcun contrasto della disciplina impugnata con le esigenze di conservazione delle diverse specie coinvolte dettate dalla direttiva 79/409/CEE. In conformità con le precedenti argomentazioni, la resistente ritiene che la potestà legislativa della Regione riconosciuta dall’art. 4, comma 3, della legge n. 157 del 1992 sia stato esercitato nel rispetto di tutte le condizioni e presupposti previsti dalla citata normativa comunitaria. 2.2 – Con riferimento al secondo motivo di censura, la Regione Lombardia deduce che, contrariamente a quanto prospettato dal ricorrente, il parere dell’ISPRA avrebbe un indubbio carattere obbligatorio, ma non anche vincolante. Osserva al riguardo la difesa regionale che l’art. 7, comma 1, della legge n. 157 del 1992 qualifica detto istituto come «organo scientifico e tecnico di ricerca e consulenza per lo Stato, le Regioni e le Province», cosicché la funzione istituzionale ad esso spettante non potrebbe «essere quella di sostituirsi alle amministrazioni nel compimento delle proprie scelte in materia di caccia, ma quello di supportarle sotto il profilo squisitamente tecnico». Peraltro, nonostante la natura non vincolante del parere reso dall’ISPRA sul piano di cattura oggetto della legge impugnata, la Regione Lombardia evidenzia di averne comunque tenuto conto nell’esercizio dell’attività legislativa impugnata, riducendo di oltre quarantamila unità la stima del fabbisogno di richiami vivi rispetto a quella originariamente effettuata. Sulla base di tali osservazioni, secondo la difesa regionale, sarebbe quindi infondata la dedotta violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione all’art. 4, comma 3, della legge n. 157 del 1992. 3. – Con memoria depositata in data 17 maggio 2009, la difesa regionale ha integralmente ribadito le argomentazioni già svolte nell’atto di costituzione a sostegno della inammissibilità e, comunque, della infondatezza delle questioni proposte con il ricorso. 4. – Con distinto ricorso notificato il 20 novembre 2009 e depositato il successivo 26 novembre, il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato, in riferimento all’art. 117, primo e secondo comma, lettera s), della Costituzione, l’art. 2 della legge della Regione Toscana 17 settembre 2009, n. 53 [Disciplina dell’attività di cattura degli uccelli selvatici da richiamo per l’anno 2009 ai sensi dell’articolo 4 della legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), e dell’articolo 34 della legge regionale 12 gennaio 1994, n. 3 (Recepimento della legge 11 febbraio 1992, n. 157 “Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio”)], nella parte in cui prevede che «le Province di Arezzo, Firenze, Lucca, Pisa, Pistoia e Siena sono autorizzate alla gestione degli impianti di cattura e alla cattura, per l’anno 2009, di uccelli appartenenti alle specie: cesena, merlo, tordo bottaccio e tordo sassello da utilizzare a scopo di richiamo, nei quantitativi suddivisi per provincia, per tipo e per specie così come risulta dall’allegato A alla presente legge». 4.1 – Il ricorrente premette che la legge regionale n. 53 del 2009 ha la finalità di disciplinare la cattura di uccelli selvatici da richiamo prevista dall’art. 4 della legge n. 157 del 1992, nonché dall’art. 34, comma 6, della legge della Regione Toscana n. 3 del 1994. In tale quadro normativo, ad avviso del ricorrente, l’art. 2 della citata legge regionale n. 53 del 2009, rubricato «cattura di uccelli selvatici a fini di richiamo», si porrebbe in contrasto innanzitutto con l’art. 117, primo comma, Cost. per violazione dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario. In particolare, l’autorizzazione alla cattura dei citati esemplari appartenenti alla fauna selvatica da utilizzare a scopo di richiamo risulterebbe disposta in «assenza dei presupposti e delle condizioni poste dall’art. 9 della direttiva 79/409/CEE (Direttiva del Consiglio concernente la conservazione degli uccelli selvatici)», il quale ammette il prelievo in deroga di piccole quantità di esemplari di alcune specie appartenenti alla fauna selvatica a condizione che «non vi siano altre soluzioni soddisfacenti». A sostegno di tale profilo di incostituzionalità il ricorrente deduce che – così come osservato nel parere sfavorevole del 14 agosto 2009, rilasciato dall’Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale (ISPRA) alla Regione istante – «i dati relativi ai richiami attualmente detenuti in Regione» mostrerebbero «come la riproduzione in cattività non solo rappresenti una valida alternativa alla ca ttura, ma costituisca anche la principale fonte di approvvigionamento per i cacciatori». 4.2 – In secondo luogo, ad avviso del ricorrente, con la norma impugnata la Regione avrebbe approvato con legge il piano di cattura dei richiami vivi in assenza del prescritto parere favorevole dell’ISPRA, così come invece richiesto dall’art. 4, comma 3, della legge n. 157 del 1992. Conseguentemente l’art. 2 della legge regionale n. 53 del 2009 si porrebbe in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione all’art. 4 della legge n. 157 del 1992, contenente uno standard minimo ed uniforme di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema inderogabile per il legislatore regionale. 5. – Con memoria depositata in data 22 dicembre 2009, si è costituita in giudizio la Regione Toscana, chiedendo che le sollevate questioni di legittimità costituzionale siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate. 5.1 – In primo luogo, la resistente osserva che, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, la possibilità di derogare al regime limitativo della caccia prevista dall’art. 9 della direttiva 79/409/CEE sarebbe ammissibile al ricorrere di tre condizioni: innanzitutto che non risulti percorribile un’altra soluzione soddisfacente; in secondo luogo, che sussista uno dei motivi tassativamente elencati dal citato art. 9, n. 1, lettere a), b) e c); in terzo luogo, che la deroga sia adottata con le prescritte formalità indicate al n. 2 del medesimo articolo. Quanto al primo requisito, prosegue la Regione Toscana, il preambolo della legge regionale n. 53 del 2009 espliciterebbe chiaramente le ragioni giustificative della autorizzazione in deroga delle amministrazioni provinciali all’attivazione dei relativi impianti di cattura, affermando che «la disponibilità degli uccelli da utilizzare come ric hiami vivi risulta essere largamente insufficiente rispetto al fabbisogno accertato, in rapporto al numero dei cacciatori e al quantitativo di richiami utilizzabile da ciascuno di essi» e che, «nonostante numerose iniziative inerenti l’attività di allevamento attuate da privati, allo stato attuale non si riesce a colmare il divario tra il suddetto fabbisogno e la disponibilità effettiva», con il conseguente diffondersi del «fenomeno dell’acquisizione illegale di uccelli da richiamo con grave danno alle popolazioni delle specie di appartenenza». 5.2 – Con riferimento alla seconda condizione, la Regione Toscana sottolinea che l’attività di cattura dei richiami vivi è stata qualificata, in sede di accordo tra Governo, Regioni e Province autonome, quale specifica fattispecie di deroga riconducibile alla lettera c) dell’art. 9 della citata direttiva. 5.3 – In terzo luogo, la resistente osserva che l’art. 2 della legge n. 53 del 2009 risulterebbe rispettoso di tutti i requisiti prescritti dall’art. 9 della richiamata direttiva comunitaria, avendo tale articolo menzionato: le specie (nei quantitativi suddivisi per provincia e per tipo) che formano oggetto della deroga, le autorità abilitate alla gestione degli impianti di cattura, nonché quelle deputate alla vigilanza e ai controlli sull’attività stessa. 5.4 – Pertanto, ad avviso della Regione Toscana, il primo motivo di ricorso dovrebbe essere respinto. 6. – Quanto al secondo motivo, la resistente osserva che, a seguito della riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, la materia della caccia – pur incontrando i limiti derivanti, oltre che dall’ordinamento comunitario, anche dai principi stabiliti dalla normativa statale in base all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. – rientrerebbe tra le competenze assegnate alla potestà legislativa residuale delle Regioni ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost. Ciò premesso, prosegue la Regione, l’art. 4 della legge n. 157 del 1992 prevedrebbe, in relazione all’attività di cattura, la necessità di acquisire il parere dal competente Istituto (ISPRA), ma non anche che la potestà legislativa regionale sia da esso vincolata. Inoltre, sempre ad avviso della resistente, anche la circolare del 22 novembre 1996, n. 31502 (Applicazione dell’art. 4 della legge 11 febbraio 1992, n. 157), adottata dal Ministero delle risorse agricole alimentari e forestali, confermerebbe «l’esigenza di considerare, al fine della determinazione del quantitativo di richiami necessario, anche le richieste provenienti dai cacciatori, raccolte dalle Province competenti». 6.1 – Conseguentemente, posto che la disposizione impugnata sarebbe stata adottata nel rispetto degli indirizzi statali che informano la materia, anche il secondo motivo di ricorso dovrebbe essere respinto. Considerato in diritto 1. – Con due distinti ricorsi, ritualmente notificati e depositati, il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato – in riferimento all’art. 117, primo e secondo comma, lettera s), della Costituzione –, rispettivamente, la legge della Regione Lombardia 6 agosto 2009, n. 19 [Approvazione del piano di cattura dei richiami vivi per la stagione venatoria 2009/2010 ai sensi della legge regionale 5 febbraio 2007, n. 3 (Legge quadro sulla cattura dei richiami vivi)], e l’art. 2 della legge della Regione Toscana 17 settembre 2009, n. 53 [Disciplina dell’attività di cattura degli uccelli selvatici da richiamo per l’anno 2009 ai sensi dell’articolo 4 della legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), e dell’articolo 34 della legge regionale 12 gennaio 1994, n. 3 (Recepimento della legge 11 febbraio 1992, n. 157 “Norme per la p rotezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio”)]. 2. – Il ricorrente dubita, in primo luogo, della legittimità costituzionale delle norme impugnate, rispettivamente adottate dalle Regioni Lombardia e Toscana, poiché, in entrambi i casi, l’autorizzazione alla gestione degli impianti di cattura di alcune specie appartenenti alla fauna selvatica a scopo di richiamo sarebbe stata rilasciata «in assenza dei presupposti e delle condizioni poste» dall’art. 9 della direttiva 409/79/CEE (Direttiva del Consiglio concernente la conservazione degli uccelli selvatici), in violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. 3. – In secondo luogo, il ricorrente lamenta, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., la illegittimità costituzionale delle medesime norme in quanto, in entrambi i casi, l’adozione dei piani di cattura in parola sarebbe stata rilasciata in mancanza del parere favorevole del competente Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale (ISPRA), che, invece, ad avviso del ricorrente, risulterebbe prescritto dall’art. 4 della legge n. 157 del 1992, quale standard minimo ed uniforme di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema inderogabile per il legislatore regionale. 4. – Considerata l’omogeneità delle questioni sollevate, i ricorsi possono essere riuniti per essere decisi con un’unica sentenza. 5. – La questione di legittimità costituzionale concernente la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. è fondata. 6. – L’art. 9 della citata direttiva 79/409/CEE – oggi riprodotto (senza alcuna modificazione di sostanza) nell’art. 9 della direttiva 2009/147/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio concernente la conservazione degli uccelli selvatici) – prevede che gli Stati membri, «sempre che non vi siano altre soluzioni soddisfacenti», possano derogare alle misure di protezione poste dalla medesima direttiva per il conseguimento di una serie di interessi generali tassativamente indicati fra i quali, per quanto riguarda il presente giudizio, quello di «consentire in condizioni rigidamente controllate e in modo selettivo la cattura, la detenzione o altri impieghi misurati di uccelli in piccole quantità». La costante giurisprudenza di questa Corte ha già chiarito che si tratta di «un potere di deroga esercitabile in via eccezionale» che ammette «l’abbattimento o la cattura di uccelli selvatici appartenenti alle specie protette dalla direttiva medesima, alle condizioni ed ai fini di interesse generale indicati dall’art. 9.1, e secondo le procedure e le modalità di cui al punto 2 dello stesso art. 9» (sentenze n. 168 del 1999 e n. 250 del 2008). Il carattere eccezionale del potere in questione è stato peraltro ribadito anche dalla giurisprudenza comunitaria (in particolare, Corte di giustizia CE, 8 giugno 2006, causa C-118/94), secondo la quale l’autorizzazione degli Stati membri a derogare al divieto generale di cacciare le specie protette è subordinata alla adozione di misure di deroga dotate di una motivazione che faccia riferimento esplicito e adeguatamente circostanziato alla sussistenza di tutte le condizioni prescritte dall’art. 9, paragrafi 1 e 2. Detti requisiti, infatti – precisa sempre la Corte di giustizia della Comunità europea (oggi Corte di giustizia dell’Unione europea) – perseguono il duplice scopo di limitare le deroghe allo stretto necessario e di permettere la vigilanza degli organi comunitari a ciò preposti. In particolare, il paragrafo 2 dell’art. 9 della citata direttiva prevede che le deroghe debbano menzionare: a) le specie che formano oggetto delle medesime; b) i mezzi, gli impianti o i metodi di cattura o di uccisione autorizzati; c) le condizioni di rischio e le circostanze di tempo e di luogo in cui esse possono essere applicate; d) l’autorità abilitata a dichiarare che le condizioni stabilite sono soddisfatte e a decidere quali mezzi, impianti o metodi possono essere utilizzati, entro quali limiti e da quali persone; e) i controlli che saranno effettuati. Alla luce di tali considerazioni, dunque, il rispetto del vincolo comunitario derivante dall’art. 9 della direttiva 79/409/CEE (oggi art. 9 della direttiva 2009/147/CE) impone l’osservanza dell’obbligo della puntuale ed espressa indicazione della sussistenza di tutte le condizioni in esso specificamente indicate, e ciò a prescindere dalla natura (amministrativa ovvero legislativa) del tipo di atto in concreto utilizzato per l’introduzione della deroga al divieto di caccia e di cattura degli esemplari appartenenti alla fauna selvatica stabilito agli articoli da 5 a 8 della medesima direttiva. 7. – Ebbene, tale onere non risulta rispettato in alcuno degli atti legislativi impugnati. In particolare, quanto alla legge della Regione Lombardia n. 19 del 2009, deve rilevarsi la completa omissione di qualsiasi cenno in ordine alla sussistenza delle condizioni e dei presupposti richiesti dalla direttiva. Quanto all’art. 2 della legge della Regione Toscana n. 53 del 2009, invece, la motivazione, seppure formalmente esistente, risulta fondata su petizioni di principio prive di alcun riferimento alle condizioni concrete che avrebbero potuto, in ipotesi, giustificare la deroga adottata. Inoltre, il mancato assolvimento di tale onere risulta ancora più evidente se si considerano le puntuali obiezioni svolte dall’ISPRA (nel parere datato 14 agosto 2009), secondo il quale «i dati relativi ai richiami attualmente detenuti» dalla Regione Toscana avrebbero mostrato «come la riproduzione in cattività» non solo rappresentasse «una valida alternativa alla cattura», ma costituisse anche «la principale fonte di approvvigionamento per i cacciatori». 8. – Pertanto, in accoglimento dei ricorsi del Presidente del Consiglio dei ministri, deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale di entrambe le disposizioni regionali impugnate, per violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 9 della direttiva 79/409/CEE – oggi riprodotto nell’art. 9 della direttiva 2009/147/CE. 9. – Rimane assorbita ogni ulteriore censura. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Lombardia 6 agosto 2009, n. 19 [Approvazione del piano di cattura dei richiami vivi per la stagione venatoria 2009/2010 ai sensi della legge regionale 5 febbraio 2007, n. 3 (Legge quadro sulla cattura dei richiami vivi)]; dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 della legge della Regione Toscana 17 settembre 2009, n. 53 [Disciplina dell’attività di cattura degli uccelli selvatici da richiamo per l’anno 2009 ai sensi dell’articolo 4 della legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), e dell’articolo 34 della legge regionale 12 gennaio 1994, n. 3 (Recepimento della legge 11 febbraio 1992, n. 157 “Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio”)]. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Maria Rita SAULLE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA SENTENZA N.267 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 22, comma 4, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga dei termini), promosso dalla Regione Calabria con ricorso notificato il 31 luglio 2009, depositato in cancelleria il 7 agosto 2009 ed iscritto al n. 54 del registro ricorsi 2009, e degli artt. 1, comma 1, lettere a) e b), 2, commi 1, 2, 3 e 6, 5 e 6 della legge della Regione Calabria 30 aprile 2009, n. 11 (Ripiano del disavanzo di esercizio per l’anno 2008 ed accordo con lo Stato per il rientro dai disavanzi del servizio sanitario regionale), e dell’art. 1, comma 1, della legge della Regione Calabria 7 dicembre 2009, n. 48 (Modifica alla legge regionale n. 11/2009 su «Ripiano del disavanzo d’esercizio per l’anno 2008 ed accordo con lo Stato per il rientro dai disavanzi del servizio sanitario regionale»), promossi con due ricorsi del Presidente del Consiglio dei ministri, notif icati il 22-25 giugno 2009 e l’11-15 febbraio 2010, depositati il 25 giugno 2009 e il 17 febbraio 2010 ed iscritti al n. 43 del registro ricorsi 2009 e al n. 22 del registro ricorsi 2010. Visti l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri e gli atti di costituzione della Regione Calabria; udito nell’udienza pubblica del 22 giugno 2010 il Giudice relatore Sabino Cassese; uditi l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Massimo Luciani per la Regione Calabria. Ritenuto in fatto 1. – La Regione Calabria, con ricorso del 31 luglio 2009, depositato il 7 agosto 2009 (reg. ric. n. 54 del 2009), ha impugnato l’art. 22, comma 4, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), per violazione degli artt. 3, 117, commi secondo e terzo, 120, secondo comma, e 121 della Costituzione, nonché dell’art. 8, commi 1, 4 e 5, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3). Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato e depositato il 25 giugno 2009 (reg. ric. n. 43 del 2009), ha impugnato gli artt. 1, comma 1, lettere a) e b), 2, commi 1, 2, 3 e 6, 5 e 6 della legge della Regione Calabria 30 aprile 2009, n. 11 (Ripiano del disavanzo di esercizio per l’anno 2008 ed accordo con lo Stato per il rientro dai disavanzi del servizio sanitario regionale), per violazione degli artt. 3, 51, 81, 97, 117, terzo comma, e 118 della Costituzione. Con ricorso notificato il 15 febbraio 2010 e depositato il 17 febbraio 2010, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha altresì impugnato l’art. 1, comma 1, della legge della Regione Calabria 7 dicembre 2009, n. 48 (Modifica alla legge regionale n. 11 su “Ripiano del disavanzo di esercizio per l’anno 2008 e accordo con lo Stato per il rientro dai disavanzi del servizio sanitario regionale”), per violazione degli artt. 3, 51, 81 e 97 della Costituzione. 2. – Con il primo dei ricorsi indicati in epigrafe (reg. ric. n. 54 del 2009), la Regione Calabria censura l’art. 22, comma 4, del d.l. n. 78 del 2009. La disposizione impugnata riguarda il risanamento, il riequilibrio economico-finanziario e la riorganizzazione del sistema sanitario della Regione Calabria. La norma prevede la diffida da parte del Presidente del Consiglio dei ministri alla Regione a predisporre, entro settanta giorni, un Piano da sottoscriversi con l’Accordo per il rientro dai disavanzi del servizio sanitario, di cui all’art. 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato “legge finanziaria 2005”), e stabilisce che, decorso inutilmente tale termine o valutata la non congruità del Piano preparato dalla Regione, sia nominato un Commissario per la predisposizione, previo accertamento dei debiti pregressi, di un nuovo Piano, approvato dal Consiglio dei ministri e attuato dallo stesso Commissario. 2.1. – La Regione Calabria lamenta la violazione degli artt. 3, 117, commi secondo e terzo, 120, secondo comma, e 121 Cost., per illegittimo e irragionevole esercizio dei poteri sostitutivi dello Stato. La ricorrente rileva anche un difetto assoluto di proporzionalità nella disposizione censurata, con conseguente violazione dell’art. 8, comma 5, della legge n. 131 del 2003, attuativa dell’art. 120 Cost. La Regione, in particolare, sostiene che la norma impugnata violerebbe l’art. 120, secondo comma, Cost., sia per la mancata previsione di dettagliati criteri per l’esercizio dei poteri sostitutivi, sia sotto il profilo della irragionevolezza (art. 3 Cost.) e del mancato rispetto dei principi di sussidiarietà e di leale collaborazione nella disciplina e nell’esercizio dei poteri sostitutivi. Ulteriore violazione degli artt. 3 e 120, secondo comma, Cost., sarebbe ravvisabile in riferimento alla non congruità del termine assegnato per adempiere ai sensi della norma interposta di cui all’art. 8, comma 1, della legge n. 131 del 2003. 2.2. – Si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, sostenendo l’infondatezza del ricorso. Ad avviso della difesa dello Stato, la norma impugnata non lederebbe l’art. 120 Cost., né la legge n. 131 del 2003. La disposizione censurata non violerebbe, inoltre, il principio di ragionevolezza, dal momento che il Piano di rientro, per poter raggiungere gli obiettivi di riorganizzazione e di razionalizzazione ad esso assegnati, deve riguardare necessariamente tutti gli aspetti del servizio sanitario. La difesa dello Stato rileva che vi sarebbe un collegamento diretto tra la norma censurata e la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali. Né sarebbe configurabile una violazione del principio di proporzionalità. 3. – Con il secondo dei ricorsi indicati in epigrafe (reg. ric. n. 43 del 2009), il Presidente del Consiglio dei ministri censura gli artt. 1, comma 1, lettere a) e b), 2, commi 1, 2, 3 e 6, 5 e 6 della legge della Regione Calabria n. 11 del 2009, riguardante il ripianamento del deficit del servizio sanitario regionale. In particolare, l’art. 1 di tale legge detta le modalità di copertura del disavanzo di gestione del servizio sanitario imputabile all’anno 2008. L’art. 2 disciplina le procedure e la struttura dell’Accordo tra lo Stato e la Regione Calabria per il rientro dai disavanzi del servizio sanitario (commi 1 e 2), affida ai direttori generali delle aziende sanitarie e ospedaliere il compito di effettuare le procedure di riconciliazione, accertamento e riconoscimento dei debiti esistenti al 31 dicembre 2007 (comma 3), individua le risorse che l’Accordo deve destinare alle Aziende sanitarie e ospedaliere per la c opertura dei disavanzi antecedenti al 31 dicembre 2007 (comma 6). L’art. 5 della legge impugnata prevede che, qualora non si addivenga entro il 31 dicembre 2009 al riconoscimento della «Fondazione per la ricerca e la cura dei tumori Tommaso Campanella» quale Istituto di ricerca e cura a carattere scientifico, la Regione receda da tale Fondazione e nomini un commissario liquidatore con il compito di predisporre «un piano esecutivo particolareggiato, nei tempi e nei modi, per la riconduzione delle attività e delle funzioni della Fondazione nell’ambito delle attività e delle funzioni dell’Azienda ospedaliera universitaria Mater Domini». Inoltre, «il piano, previo parere della competente Commissione permanente, è approvato dal Presidente della Giunta regionale e dal Rettore e deve essere compiutamente realizzato entro 60 giorni dalla data di approvazione, pena la riduzione del 70% di ogni eventuale emolumento connesso alla funzione di commissario liquidatore fino alla conclusione dell'incarico». Lo stesso piano, infine, «prevede la riconduzione nell’ambito della struttura organizzativa dell’Azienda Mater Domini delle unità operative complesse allo stato esistenti presso la Fondazione che possano dimostrare notevoli volumi di attività e che siano di interesse ai fini della riduzione della migrazione sanitaria. In tal caso le predette unità entrano a fare parte della struttura sanitaria ed operativa del Mater Domini; i rapporti di lavoro dei dirigenti medici e del personale sanitario in atto presso tali unità continuano presso l’Azienda senza soluzione di continuità». L’art. 5 della legge impugnata è stato modificato dall’art. 1, comma 1, della legge della Regione Calabria n. 48 del 2009, che ha posticipato al 31 dicembre 2010 il termine entro il quale la «Fondazione per la ricerca e cura dei tumori Tommaso Campanella» deve ottenere il riconoscimento quale Istituto di ricerca e cura a carattere scientifico. Anche questa norma è stata censurata dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il terzo dei ricorsi indicati in epigrafe (reg. ric. n. 22 del 2010). L’art. 6 della legge impugnata, infine, prevede che «al fine di ottimizzare e potenziare l’attività di controllo, vigilanza e ispezione sulle Aziende pubbliche e private accreditate che erogano prestazioni di assistenza sanitaria il Consiglio regionale nomina l’Autorità per il sistema sanitario ai sensi della legge regionale 4 agosto 1995, n. 39 e s.m.i. (Disciplina della proroga degli organi amministrativi e delle nomine di competenza regionale. Abrogazione della legge regionale 5 agosto 1992, n. 13), con il compito di fornire referti periodici agli organi regionali di indirizzo e di gestione amministrativa competenti e per le seguenti funzioni: a) valutare e controllare l’adeguatezza delle attività sanitarie e socio-sanitarie; b) analizzare atti e circostanze sanitarie e amministrativo-contabili; c) verificare, attraverso indagini su materie specifiche, l'applicazione degli standards di qualità e appropriatezza; d ) proporre ogni forma di intervento surrogatorio e/o di sanzione prevista dalla normativa vigente. L’Autorità è composta da cinque esperti, di cui tre nominati dal Consiglio regionale, tra cui il responsabile e due dal Presidente della Giunta regionale, con le modalità previste dalla legge regionale n. 39/1995, scelti tra professionalità della pubblica amministrazione, della magistratura amministrativa e/o contabile, del mondo accademico ed esercita la propria attività presso il Consiglio regionale. Ai fini delle attività ispettive e di controllo, l’Autorità è integrata da tre rappresentanti designati rispettivamente dalla Guardia di Finanza, dal NAS dei carabinieri e dalla Corte dei Conti. Al trattamento economico da attribuire ai membri dell’Autorità provvede, in sede di avviso pubblico, l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale, che assegna il personale amministrativo necessario a supportarne le a ttività, individuandolo all'interno della struttura burocratica d el Consiglio regionale». 3.1. – A giudizio dell’Avvocatura generale dello Stato, gli artt. 1, comma 1, lettere a) e b), e 2, commi 1, 2, 3 e 6 della legge impugnata violerebbero gli artt. 81, 117, terzo comma, e 118 Cost. Il meccanismo finanziario da essi previsti, infatti, non sarebbe in linea con le modalità stabilite dall’art. 1, commi 174 e 180, della legge n. 311 del 2004, donde la norma eccederebbe la competenza concorrente della Regione in materia di tutela della salute e di coordinamento della finanza pubblica, violerebbe il principio di leale collaborazione e sarebbe priva di copertura finanziaria. 3.2. – L’Avvocatura dello Stato, inoltre, censura l’art. 5 della legge della Regione Calabria n. 11 del 2009, in quanto tale norma, disponendo il passaggio di personale medico e sanitario di diritto privato all’Azienda ospedaliera universitaria Mater Domini, comporterebbe maggiori oneri per la finanza pubblica, non quantificati e privi di copertura (in violazione dell’art. 81 Cost.), e consentirebbe l’accesso all’impiego pubblico in assenza di pubblico concorso in violazione degli artt. 3, 51 e 97 Cost. 3.3. – La difesa dello Stato, infine, censura l’art. 6 della legge impugnata, riguardante l’istituzione dell’Autorità per il sistema sanitario, per violazione degli artt. 81 e 117, terzo comma, Cost. In primo luogo, tale articolo prevede che ai componenti dell’Autorità sia attribuito un trattamento economico, senza però fissarne, almeno in maniera indicativa, gli importi, determinando perciò «oneri non quantificati e non coperti». In secondo luogo, l’istituzione dell’Autorità non rispetterebbe i principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica, con particolare riferimento alla limitazione del numero delle strutture di supporto a quelle strettamente indispensabili al funzionamento degli organismi istituzionali, come previsto dall’art. 29 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razio nalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, e dall’art. 68 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133. 4. – Con il terzo dei ricorsi indicati in epigrafe (reg. ric. n. 22 del 2010), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato l’art. 1, comma 1, della legge della Regione Calabria n. 48 del 2009, che ha posticipato al 31 dicembre 2010 il termine entro il quale la «Fondazione per la ricerca e la cura dei tumori Tommaso Campanella» deve essere riconosciuta quale Istituto di ricerca e cura a carattere scientifico, proponendo al riguardo le medesime censure già illustrate nel precedente ricorso reg. ric. n. 43 del 2009. Ad avviso della difesa dello Stato, la norma impugnata, confermando quanto previsto dalla disposizione già censurata e limitandosi a introdurre un mero slittamento temporale ai fini dell’efficacia, mantiene inalterata la previsione del passaggio di personale medico e sanitario con rapporto di lavoro di diritto privato all’Azienda ospedalier a universitaria Mater Domini, con conseguente violazione degli artt. 3, 51, 81 e 97 Cost. 5. – In entrambi i giudizi promossi dal Presidente del Consiglio dei ministri si è costituita la Regione Calabria, sostenendo che le censure prospettate dalla difesa dello Stato sono inammissibili e comunque non fondate. 5.1. – Con riferimento al primo ricorso (reg. ric. n. 43 del 2009), la resistente afferma di non essere «venuta meno in alcun modo al principio di leale collaborazione». La legge regionale non violerebbe alcuna previsione contenuta nella normativa statale in materia di tutela della salute e di coordinamento della finanza pubblica, e in particolare nell’art. 1, commi 174 e 180, della legge n. 311 del 2004. 5.2. – La Regione, poi, respinge le censure relative alla ipotesi di commissariamento e liquidazione della «Fondazione per la ricerca e la cura dei tumori Tommaso Campanella». Tale Fondazione, secondo quanto ricostruito dalla resistente, è stata costituita sulla base di un Protocollo di intesa sottoscritto in data 5 giugno 2002, tra gli altri, dal Ministro della salute, dal Presidente della Regione Calabria e dal Rettore dell’Università «Magna Grecia» di Catanzaro, con cui le parti si impegnavano a «realizzare un centro di eccellenza oncologico», anche «con l’intento di rendere agevole il suo riconoscimento come IRCCS». Questa realizzazione aveva quali premesse la «mancanza di un tale centro nella Regione Calabria e nelle zone viciniori» e l’«interesse per l’istituzione di un tale centro anche per le Regioni del Sud e del Mediterraneo». La disposizione censurata, quindi, mirerebbe a garantire la continuità assisten ziale e la meritoria azione del Centro nella eventualità che esso non sia riconosciuto quale IRCCS e si addivenga allo scioglimento del consorzio che aveva dato vita alla Fondazione. Non vi sarebbe, dunque, alcuna violazione dell’art. 81 Cost., in quanto, in primo luogo, la norma prevede la realizzazione di un futuro e ipotetico piano esecutivo particolareggiato ed è solo in quella sede che potrà essere compiuta la precisa indicazione di spesa, e, in secondo luogo, la riorganizzazione del Centro, al cui funzionamento la Regione contribuisce già in misura ingente, è diretto a raggiungere un risparmio di risorse e non un aumento di spesa. Né vi sarebbe lesione dell’art. 97 Cost.; ad avviso della Regione, infatti, l’estensione della norma eccezionale è delimitata in modo molto preciso, essendo applicabile solo ed esclusivamente ai dipendenti di uno specifico Centro di ricerca e assistenza. Ricorrerebbero, inoltre, «peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico», vale a dire garantir e la continuità di un «servizio così importante sotto molteplici punti di vista – per le drammatiche patologie che tratta, per la sua unicità nel territorio non solo calabrese ma di tutto il Sud Italia, per l’importanza che assume in chiave di mitigazione delle migrazioni sanitarie verso il Nord del Paese, che tanto aggravio di spesa comportano per il servizio sanitario nazionale». 5.3. – La Regione Calabria, inoltre, sostiene l’infondatezza della censura riguardante l’istituzione dell’Autorità per il sistema sanitario, in quanto le norme statali richiamate dal ricorrente non disporrebbero alcun divieto di istituire nuovi organismi, ma imporrebbero di «farlo compatibilmente con le esigenze della finanza pubblica». Nel caso in questione, la legge regionale non solo non sarebbe in contrasto con tali esigenze, «ma addirittura le soddisfa, poiché, con un meccanismo caratterizzato da particolare snellezza operativa e ricchezza di capacità professionali, permette un rigoroso controllo sull’efficienza e sui costi delle prestazioni sanitarie». In aggiunta, la disposizione censurata riguarderebbe l’organizzazione amministrativa regionale, materia da annoverare tra le competenze residuali spettanti alla Regione. Infine, non vi sarebbe alcuna lesione dell’art. 81 Cost., derivante dalla previ sione di compensi ai membri del nuovo organismo, in quanto la legge impugnata rinvia, al riguardo, alle determinazioni dell’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale, «che – dovendosi rispettare l’autonomia dell’organo consiliare – provvederà attingendo alle risorse di spettanza del Consiglio». 5.4. – Con riguardo, infine, all’impugnazione, da parte del Presidente del Consiglio dei ministri, dell’art. 1, comma 1, della legge della Regione Calabria n. 48 del 2009, che ha posticipato al 31 dicembre 2010 il termine entro il quale la Fondazione per la ricerca e la cura dei tumori Tommaso Campanella deve ottenere il riconoscimento quale Istituto di ricerca e cura a carattere scientifico, la Regione Calabria eccepisce l’inammissibilità del ricorso sotto un duplice profilo. In primo luogo, il ricorrente non avrebbe censurato la legge regionale n. 48 del 2009, limitandosi a riproporre i motivi di gravame già rivolti nei confronti della legge della Regione Calabria n. 11 del 2009. In secondo luogo, una ulteriore ragione di inammissibilità discenderebbe dal carattere «assertivo e indimostrato» delle censure prospettate dal Presidente del Consiglio dei ministri. Quanto al merito delle censure, la Regione ribadisce le arg omentazioni sostenute con riferimento al primo ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri (reg. ric. n. 43 del 2009). 6. – Nelle more dei giudizi, il 17 dicembre 2009 il Ministro dell’economia e delle finanze, il Ministro della salute e il Presidente della Giunta regionale della Calabria hanno stipulato l’Accordo per il Piano di rientro del servizio sanitario regionale ai sensi dell’art. 1, comma 180, della legge n. 311 del 2004. In conseguenza di ciò, la Regione Calabria, con atto depositato presso la cancelleria di questa Corte il 29 gennaio 2010, ha dichiarato di rinunciare al ricorso n. 54 del 2009. Tale rinuncia è stata formalmente accettata dall’Avvocatura generale dello Stato, per conto del Presidente del Consiglio dei ministri, con atto depositato presso la cancelleria di questa Corte in data 12 marzo 2010. Con atto depositato presso la cancelleria di questa Corte il 23 febbraio 2010, l’Avvocatura generale dello Stato, per conto del Presidente del Consiglio dei ministri, ha dichiarato di rinunciare parzialmente al ricorso n. 43 del 2009, con riguardo alle censure relative agli artt. 1, comma 1, lettere a) e b), e 2, commi 1, 2, 3 e 6, della legge della Regione Calabria n. 11 del 2009. La rinuncia parziale è stata formalmente accettata dalla Regione Calabria, con atto depositato presso la cancelleria di questa Corte in data 16 marzo 2010. 7. – In data 6 aprile 2010, l’Avvocatura generale dello Stato, per il Presidente del Consiglio dei ministri, ha depositato una memoria illustrativa riguardante il giudizio promosso con il ricorso n. 43 del 2009, con cui sono ribadite le censure prospettate in riferimento agli artt. 5 e 6 della legge impugnata. 8. – In data 7 aprile 2010, in vista dell’udienza pubblica fissata per il giorno 27 aprile 2010, la Regione Calabria ha depositato, fuori termine, una memoria illustrativa. In data 31 maggio 2010, in prossimità della nuova udienza fissata per il 22 giugno 2010, la Regione Calabria ha depositato, per entrambi i giudizi promossi dal Presidente del Consiglio dei ministri, apposite memorie. Con la memoria riguardante il ricorso n. 43 del 2009, la Regione eccepisce l’inammissibilità delle censure prospettate dal ricorrente contro l’art. 5 della legge n. 11 del 2009, in quanto formulate con «apodittica sinteticità», nonché la loro non fondatezza, per i motivi già illustrati nell’atto di costituzione. Quanto all’art. 6 della legge n. 11 del 2009, la Regione ribadisce che la disposizione impugnata non violerebbe alcun principio fondamentale in materia di coordinamento della finanza pubblica né l’ art. 81 Cost. Con la memoria riguardante il ricorso n. 22 del 2010, la Regione conferma le argomentazioni dedotte nell’atto di costituzione, chiedendo che il ricorso venga dichiarato inammissibile e, comunque, non fondato. 9. – In data 1° giugno 2010, l’Avvocatura generale dello Stato, per il Presidente del Consiglio dei ministri, ha depositato una memoria illustrativa riguardante il ricorso n. 22 del 2010, con cui la difesa dello Stato respinge l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla Regione Calabria, in quanto il ricorso «contiene, fra le altre, una censura specifica riferita espressamente al mero slittamento temporale ai fini dell’efficacia» disposto dalla legge della Regione Calabria n. 48 del 2009. Considerato in diritto 1. – Le questioni sottoposte all’esame di questa Corte con i tre ricorsi indicati in epigrafe (reg. ric. n. 43 e 54 del 2009 e n. 22 del 2010) riguardano una serie di interventi per il riequilibrio economico-finanziario e la riorganizzazione del sistema sanitario della Regione Calabria, effettuati a seguito della dichiarazione dello stato di emergenza socio-economico-sanitaria della Regione (decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 11 dicembre 2007). 1.1. – Con ricorso del 31 luglio 2009, depositato il 7 agosto 2009 (reg. ric. n. 54 del 2009), la Regione Calabria ha impugnato l’art. 22, comma 4, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini) – riguardante il risanamento, il riequilibrio economico-finanziario e la riorganizzazione del sistema sanitario della Regione Calabria – per violazione degli artt. 3, 117, secondo e terzo comma, 120, secondo comma, e 121 della Costituzione, nonché dell’art. 8, commi 1, 4 e 5, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3). 1.2. – Con ricorso notificato e depositato il 25 giugno 2009 (reg. ric. n. 43 del 2009), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato gli artt. 1, comma 1, lettere a) e b), 2, commi 1, 2, 3 e 6, 5 e 6 della legge 30 aprile 2009, n. 11 (Ripiano del disavanzo di esercizio per l’anno 2008 ed accordo con lo Stato per il rientro dai disavanzi del servizio sanitario regionale), per violazione degli artt. 3, 51, 81, 97, 117, terzo comma, e 118 della Costituzione. 1.3. – Infine, con il ricorso n. 22 del 2010, notificato il 15 febbraio 2010 e depositato il 17 febbraio 2010, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato l’art. 1, comma 1, della legge della Regione Calabria 7 dicembre 2009, n. 48 (Modifica alla legge regionale n. 11 su «Ripiano del disavanzo di esercizio per l’anno 2008 e accordo con lo Stato per il rientro dai disavanzi del servizio sanitario regionale»). Tale disposizione ha prorogato l’efficacia dell’art. 5 della legge della Regione Calabria n. 11 del 2009, posponendo dal 31 dicembre 2009 al 31 dicembre 2010 il termine entro il quale la «Fondazione per la ricerca e la cura dei tumori Tommaso Campanella» deve ottenere il riconoscimento quale Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico. 1.4. – I giudizi, in considerazione della loro connessione soggettiva e oggettiva, devono essere riuniti, per essere decisi con un’unica pronuncia. 2. – In data 17 dicembre 2009, successivamente alla proposizione dei ricorsi iscritti al n. 43 e al n. 54 del registro ricorsi del 2009, il Ministro dell’economia e delle finanze, il Ministro della salute e il Presidente della Giunta regionale della Calabria hanno stipulato l’Accordo per il Piano di rientro del servizio sanitario regionale ai sensi dell’art. 1, comma 180, della legge 30 dicembre 2004 n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato “legge finanziaria 2005”). 2.1. – La Regione Calabria, con atto depositato presso la cancelleria di questa Corte il 29 gennaio 2010, ha dichiarato di rinunciare al ricorso n. 54 del 2009. Tale rinuncia è stata formalmente accettata dall’Avvocatura generale dello Stato, per conto del Presidente del Consiglio dei ministri, con atto depositato presso la cancelleria di questa Corte in data 12 marzo 2010. La rinuncia al ricorso, accettata dalla controparte, comporta, ai sensi dell’art. 23 delle norme integrative per i giudizi dinanzi a questa Corte, l’estinzione del giudizio promosso dalla Regione Calabria avente ad oggetto l’art. 22, comma 4, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78. 2.2. – Con atto depositato presso la cancelleria di questa Corte il 23 febbraio 2010, l’Avvocatura generale dello Stato, per conto del Presidente del Consiglio dei ministri, ha dichiarato di rinunciare parzialmente al ricorso n. 43 del 2009, con riguardo alle censure relative agli artt. 1, comma 1, lettere a) e b), e 2, commi 1, 2, 3 e 6, della legge della Regione Calabria n. 11 del 2009. Tale rinuncia parziale, formalmente accettata dalla Regione Calabria, con atto depositato presso la cancelleria di questa Corte in data 16 marzo 2010, comporta l’estinzione del giudizio promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri in relazione agli artt. 1, comma 1, lettere a) e b), e 2, commi 1, 2, 3 e 6, della legge della Regione Calabria n. 11 del 2009. 3. – Restano da trattare le questioni, promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri con i ricorsi n. 43 del 2009 e n. 22 del 2010, concernenti l’art. 5 (così come modificato dall’art. 1, comma 1, della legge della Regione Calabria n. 48 del 2009) e l’art. 6 della legge della Regione Calabria n. 11 del 2009. Le questioni riguardano, in particolare, le modalità stabilite per la eventuale liquidazione della «Fondazione per la ricerca e la cura dei tumori Tommaso Campanella» e l’istituzione dell’Autorità per il sistema sanitario. 4. – L’art. 5 della legge della Regione Calabria n. 11 del 2009 prevede che, qualora non si addivenga entro il 31 dicembre 2009 al riconoscimento della «Fondazione per la ricerca e la cura dei tumori Tommaso Campanella» quale Istituto di ricerca e cura a carattere scientifico, la Regione receda da tale Fondazione e nomini un commissario liquidatore con il compito di predisporre «un piano esecutivo particolareggiato, nei tempi e nei modi, per la riconduzione delle attività e delle funzioni della Fondazione nell’ambito delle attività e delle funzioni dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Mater Domini». Il piano «prevede la riconduzione nell’ambito della struttura organizzativa dell’Azienda Mater Domini delle unità operative complesse allo stato esistenti presso la Fondazione che possano dimostrare notevoli volumi di attività e che siano di interesse ai fini della riduzione della migrazione sanitaria. In t al caso le predette unità entrano a fare parte della struttura sanitaria ed operativa del Mater Domini; i rapporti di lavoro dei dirigenti medici e del personale sanitario in atto presso tali unità continuano presso l’Azienda senza soluzione di continuità». Il termine entro il quale la «Fondazione per la ricerca e la cura dei tumori Tommaso Campanella» avrebbe dovuto ottenere il riconoscimento quale Istituto di ricerca e cura a carattere scientifico è stato posticipato al «31 dicembre 2010» dall’art. 1, comma 1, della legge della Regione Calabria n. 48 del 2009. 4.1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso n. 43 del 2009, lamenta che l’art. 5 della legge della Regione Calabria n. 11 del 2009, disponendo il passaggio di personale medico e sanitario di diritto privato all’Azienda ospedaliera universitaria Mater Domini, violerebbe sia l’art. 81 Cost., in quanto comporterebbe maggiori oneri per la finanza pubblica, non quantificati e privi di copertura finanziaria, sia gli artt. 3, 51 e 97 Cost., perché consentirebbe l’accesso all’impiego pubblico in assenza di pubblico concorso in violazione dei principi di ragionevolezza, imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, nonché del principio del pubblico concorso. 4.2. – La difesa dello Stato, inoltre, con il ricorso n. 22 del 2010, lamenta che l’art. 1, comma 1, della legge della Regione Calabria n. 48 del 2009, confermando le disposizioni contenute nell’art. 5 della legge regionale n. 11 del 2009 (già impugnata con il ricorso n. 43 del 2009) e limitandosi a prevedere un mero slittamento temporale ai fini dell’efficacia, mantiene inalterata la previsione del passaggio di personale medico e sanitario con rapporto di lavoro di diritto privato all’Azienda ospedaliera universitaria Mater Domini, con conseguente violazione degli artt. 3, 51, 81 e 97 Cost. 5. – L’art. 6 della legge impugnata prevede l’istituzione dell’Autorità per il sistema sanitario, nominata dal Consiglio regionale, al fine di ottimizzare e potenziare l’attività di controllo, vigilanza e ispezione sulle Aziende pubbliche e private accreditate che erogano prestazioni di assistenza sanitaria. L’Autorità è composta da cinque esperti scelti «tra professionalità della pubblica amministrazione, della magistratura amministrativa e/o contabile, del mondo accademico» ed esercita la propria attività presso il Consiglio regionale. Al trattamento economico da attribuire ai membri dell’Autorità «provvede, in sede di avviso pubblico, l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale, che assegna il personale amministrativo necessario a supportarne le attività, individuandolo all’interno della struttura burocratica del Consiglio regionale». Il Presidente del Consiglio dei ministri lamenta che questa disposizione violerebbe, in primo luogo, l’art. 81 Cost., in quanto determinerebbe «oneri non quantificati e non coperti». In secondo luogo, essa lederebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., perché l’istituzione dell’Autorità non sarebbe in linea con i principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica, con particolare riferimento alla limitazione del numero delle strutture di supporto a quelle strettamente indispensabili al funzionamento degli organismi istituzionali, come previsto dall’art. 29 del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all'evasione fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 4 agosto 2006, n. 248, e dall’art. 68 del decreto-legge 2 5 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133. 6. – In via preliminare, vanno respinte le eccezioni di inammissibilità sollevate dalla Regione Calabria. In primo luogo, non può condividersi quanto sostenuto dalla Regione, secondo la quale il ricorso n. 22 del 2010 sarebbe inammissibile perché la difesa dello Stato, nulla osservando sulla legittimità o meno della proroga disposta dalla legge della Regione Calabria n. 48 del 2009, si sarebbe limitato a riprodurre i motivi di gravame di cui al ricorso n. 43 del 2009. Tra le censure prospettate, infatti, una è riferita espressamente allo slittamento temporale, ai fini dell’efficacia, determinato dalla posposizione del termine dal 31 dicembre 2009 al 31 dicembre 2010. Inoltre, dal ricorso si evince che il Presidente del Consiglio dei ministri ha inteso censurare l’art. 5 della legge della Regione Calabria n. 11 del 2009 anche nella versione risultante a seguito del sopravvenuto art. 1, comma 1, della legge della Regione Calabria n. 48 del 2009, nel presupposto che quest’ultimo, posponendo il termine, non abbia fatto venir meno gli asseriti vizi di legittimità della disposizione. In secondo luogo, le censure prospettate dal Presidente del Consiglio dei ministri con riferimento agli artt. 5 e 6 della legge della Regione Calabria n. 11 del 2009, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa regionale, sono argomentate in modo non generico né assertivo, talché le specifiche motivazioni che le sorreggono sono agevolmente individuabili. 7. – Nel merito, le questioni sono fondate. 7.1. – L’art. 5 della legge della Regione Calabria n. 11 del 2009, così come modificato dall’art. 1, comma 1, della legge della Regione Calabria n. 48 del 2009, prevede che, a seguito della eventuale liquidazione della «Fondazione per la ricerca e la cura dei tumori Tommaso Campanella» (ente di diritto privato), determinate unità operative allo stato esistenti presso la Fondazione possano entrare a fare parte della struttura sanitaria ed operativa dell’Azienda ospedaliera universitaria Mater Domini (azienda di diritto pubblico) e «i rapporti di lavoro dei dirigenti medici e del personale sanitario in atto presso tali unità continuano presso l’Azienda senza soluzione di continuità». Tale ultima disposizione produce l’effetto di consentire l’accesso di personale dipendente da un soggetto privato all’impiego di ruolo presso pubbliche amministrazioni in modo automatico, senza alcun tipo di filtro , e, soprattutto, anche in caso di assenza di concorso pubblico. La norma non fornisce indicazioni circa la sussistenza dei requisiti fissati da questa Corte per poter ammettere deroghe al principio del concorso pubblico, vale a dire la peculiarità delle funzioni che il personale svolge (sentenze n. 195 del 2010 e n. 293 del 2009) o specifiche necessità funzionali dell’amministrazione (da ultimo, sentenza n. 195 del 2010). La disposizione, inoltre, non distingue tra le diverse categorie di personale (a tempo determinato o a tempo indeterminato, dirigenziale o non dirigenziale), non opera alcuna distinzione con riguardo al modo in cui il personale della Fondazione è stato reclutato, né indica le modalità di inserimento dei dipendenti nell’Azienda ospedaliera universitaria Mater Domini. Ne discende la violazione del principio del concorso pubblico di cui agli artt. 3, 51 e 97 Cost. 7.2. – L’art. 6 della legge della Regione Calabria n. 11 del 2009, istituendo l’Autorità per il servizio sanitario, si pone in contrasto con i principi fondamentali stabiliti dalla legislazione statale in materia di coordinamento della finanza pubblica, con conseguente violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. L’art. 29 del d.l. n. 223 del 2006, infatti, prevede una riduzione della spesa complessiva delle amministrazioni pubbliche per organi collegiali e altri organismi, anche monocratici, comunque denominati, da raggiungere per il tramite del riordino, della soppressione o dell’accorpamento delle strutture. Tale articolo, successivamente integrato dall’art. 68 del d.l. n. 112 del 2008, reca disposizioni di principio ai fini del coordinamento della finanza pubblica per le Regioni, le Province autonome, gli enti locali e gli enti del Servizio sanitario nazionale (comma 6). In particolare, esso dispone la «limitazione del numero delle strutture di supporto a quelle strettamente indispensabili al funzionamento degli organismi» (comma 2, lettera c). L’Autorità per il sistema sanitario prevista dall’art. 6 della legge regionale n. 11 del 2009, che si configura quale nuovo organismo di supporto alle attività di vigilanza e di controllo del Consiglio regionale, non presenta il carattere di indispensabilità richiesto dalla normativa di principio statale. Sotto questo profilo, in primo luogo, l’Autorità si aggiunge ad altri uffici regionali già esistenti in materia sanitaria, come il Garante della salute (legge della Regione Calabria 10 luglio 2008, n. 22 – “Istituzione del Garante della salute della Regione Calabria”), con una parziale sovrapposizione dei compiti di vigilanza sulla qualità del servizio sanitario. In secondo luogo, la creazione della Autorità e le sue attribuzioni non sono coordinate in alcun modo con le funzioni spettanti al Dipartimento della tutela della salute e politiche sanitarie della Regione, soprattutto per quanto riguarda le attività di controllo. Ne deriva il mancato rispetto dei principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica e di contenimento della spesa stabiliti dalla legislazione statale con gli artt. 29 del d.l. n. 223 del 2006 e 68 del d.l. n. 112 del 2008, con conseguente violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. 8. – Restano assorbiti gli ulteriori profili di censura dedotti dal ricorrente. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 della legge della Regione Calabria 30 aprile 2009, n. 11 (Ripiano del disavanzo di esercizio per l’anno 2008 ed accordo con lo Stato per il rientro dai disavanzi del servizio sanitario regionale), così come modificato dall’art. 1, comma 1, della legge della Regione Calabria 7 dicembre 2009, n. 48 (Modifica alla legge regionale n. 11/2009 su «Ripiano del disavanzo d’esercizio per l’anno 2008 ed accordo con lo Stato per il rientro dai disavanzi del servizio sanitario regionale»), nella parte in cui prevede che, a seguito della liquidazione della «Fondazione per la ricerca e la cura dei tumori Tommaso Campanella», unità operative allo stato esistenti presso la Fondazione possano entrare a fare parte della struttura sanitaria ed operativa dell’Azienda ospedaliera universitaria Mater Domini e che i rapporti di lavoro dei dirigenti medici e del personale sa nitario in atto presso tali unità continuino presso l’Azienda «senza soluzione di continuità»; dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 6 della legge della Regione Calabria n. 11 del 2009; dichiara estinto il giudizio concernente l’art. 22, comma 4, del decreto-legge 1° luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), promosso dalla Regione Calabria con il ricorso, indicato in epigrafe, iscritto al n. 54 del registro ricorsi del 2009; dichiara estinto il giudizio concernente gli artt. 1, comma 1, lettere a) e b), e 2, commi 1, 2, 3 e 6, della legge della Regione Calabria n. 11 del 2009, promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso, indicato in epigrafe, iscritto al n. 43 del registro ricorsi del 2009. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Sabino CASSESE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA SENTENZA N. 268 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 19 della legge della Regione Molise 10 agosto 1993, n. 19 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Molise, nel procedimento vertente tra la Federazione provinciale coltivatori diretti di Campobasso e la Provincia di Campobasso ed altri, con ordinanza del 22 aprile 2009, iscritta al n. 74 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 12, prima serie speciale, dell’anno 2010. Udito nella camera di consiglio del 9 giugno 2010 il Giudice relatore Maria Rita Saulle. Ritenuto in fatto 1. – Con ordinanza del 22 aprile 2009, il Tribunale amministrativo regionale per il Molise ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 117, commi secondo, lettera s), e terzo della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 19 della legge della Regione Molise 10 agosto 1993, n. 19 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio). L’indicata norma regionale, riguardante la composizione dei Comitati di gestione degli ambiti territoriali per la gestione programmata della caccia, è censurata nella parte in cui non consente la partecipazione paritaria delle associazioni venatorie e di quelle degli agricoltori nei suddetti organismi. 1.1. – Premette il rimettente che il giudizio principale ha ad oggetto l’impugnazione di due delibere della Giunta provinciale di Campobasso e di una delibera della Giunta regionale del Molise, con le quali, in applicazione dell’impugnato art. 19, sono stati, tra l’altro, costituiti i Comitati di gestione degli ambiti territoriali di caccia di Campobasso e di Termoli e designati i relativi membri (11 rappresentanti delle associazioni venatorie e «soli 5 rappresentanti delle organizzazioni degli agricoltori»). La ricorrente nel giudizio a quo lamenta il contrasto del citato art. 19 della legge regionale n. 19 del 1993 con il principio di rappresentanza paritaria delle organizzazioni professionali agricole e delle associazioni venatorie stabilito dall’art. 14, comma 10, della legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio). 1.2. – In punto di non manifesta infondatezza, il giudice a quo, riportato il contenuto del citato art. 14, comma 10, della legge n. 157 del 1992, rileva che le funzioni attribuite ai Comitati di gestione attengono «all’ambiente, all’agricoltura e alla caccia»; materie, queste ultime, rientranti nella tutela dell’ambiente e nella valorizzazione del territorio, ai sensi dell’art. 117, commi secondo, lettera s), e terzo della Costituzione. La stessa legge n. 157 del 1992, a suo avviso, considererebbe, infatti, l’agricoltura come uno strumento di «valorizzazione e di conservazione dell’ambiente naturale». Il legislatore statale, prosegue il Tribunale rimettente, nello stabilire, per quanto attiene alla composizione degli enti di gestione degli ambiti territoriali di caccia, il «principio fondamentale» della rappresentanza paritaria tra organizzazioni degli agricoltori e quelle venatorie, avrebbe voluto dare rilievo «al bene ambiente […] cercando […] un equilibrio tra i valori coinvolti nell’esercizio della caccia». Tanto premesso, secondo il giudice a quo, la norma regionale impugnata, nel disciplinare la composizione degli enti di gestione degli ambiti territoriali di caccia, non avrebbe assicurato la presenza paritaria dei rappresentanti delle organizzazioni professionali agricole e delle associazioni venatorie, violando così il citato art. 14, comma 10, della legge statale n. 157 del 1992 ed incidendo in una materia riservata «alla legislazione esclusiva, o in subordine concorrente, dello Stato». Il rimettente, accanto all’asserito contrasto con l’art. 117, commi secondo, lettera s), e terzo della Costituzione, assume la violazione dell’art. 3 della Costituzione sotto il profilo della ragionevolezza. L’art. 19 della legge regionale n. 19 del 1993, a suo avviso, introdurrebbe una deroga al suddetto principio di rappresentatività «senza alcuna evidente ragione» e ciò in contraddizione con il fine principale della medesima legge regionale di introdurre una disciplina del prelievo venatorio nel rispetto della normativa statale di cui alla legge n. 157 del 1992. 2. – Quanto alla rilevanza, il giudice a quo osserva che l’eventuale dichiarazione di incostituzionalità della norma regionale censurata, «laddove non garantisce la parità numerica dei membri delle organizzazioni faunistiche e di quelle» degli agricoltori, «[…] muterebbe la disciplina primaria» applicabile nel giudizio principale, determinando il venir meno del parametro normativo alla stregua del quale sono state adottate le delibere provinciali impugnate. Considerato in diritto 1. – Il Tribunale amministrativo regionale per il Molise dubita, in riferimento agli artt. 3 e 117, commi secondo, lettera s), e terzo, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 19 della legge della Regione Molise 10 agosto 1993, n. 19 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), nella parte in cui, con riferimento alla composizione degli enti di gestione degli ambiti territoriali di caccia, «non consente la partecipazione paritaria di associazioni venatorie e di agricoltori». La norma impugnata, a parere del rimettente, sarebbe in contrasto con i citati parametri costituzionali e, in particolare, quale norma interposta, con l’art. 14, comma 10, della legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), che, nel disciplinare la composizione degli organi direttivi dei suddetti ambiti territoriali, sancisce il principio della presenza paritaria delle associazioni venatorie e di quelle degli agricoltori. 2. – La questione è fondata in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione. L’art. 19 della legge regionale n. 19 del 1993 prevede la creazione dei Comitati di gestione degli ambiti territoriali di caccia e stabilisce i criteri di composizione degli stessi. Ancorché il Tribunale rimettente impugni l’intero art. 19, la censura riguarda esclusivamente la composizione dei Comitati di gestione della caccia. In particolare, il comma 1, lettera a), statuisce che detti Comitati sono costituiti «da cinque rappresentanti delle organizzazioni professionali agricole maggiormente rappresentative a livello nazionale ed organizzate nella provincia di cui uno per organizzazione. Nel caso in cui le associazioni anzidette siano presenti in numero inferiore a cinque, le designazioni necessarie per completare le rappresentative saranno espresse dalle organizzazioni aventi il maggior numero di iscritti». La successiva lettera b) prevede la partecipazione di «un rappresentante per ciascuna associazione venatoria riconosciuta a livello nazionale ed organizzata nella provincia da almeno un anno. Inoltre, ciascuna associazione designa, fino ad un massimo di tre, un numero di componenti che rappresentino ciascuno almeno un decimo del totale dei cacciatori residenti nella provincia ammessi ad esercitare l’attività venatoria», negli ambiti territoriali di caccia. Il citato art. 14, comma 10, della legge n. 157 del 1992 sancisce, invece, che «negli organi direttivi degli ambiti territoriali di caccia deve essere assicurata la presenza paritaria, in misura pari complessivamente al 60 per cento dei componenti, dei rappresentanti di strutture locali delle organizzazioni professionali agricole maggiormente rappresentative a livello nazionale e delle associazioni venatorie nazionali riconosciute, ove presenti in forma organizzata sul territorio. Il 20 per cento dei componenti è costituito da rappresentanti di associazioni di protezione ambientale presenti nel Consiglio nazionale per l’ambiente e il 20 per cento da rappresentanti degli enti locali». Dal raffronto delle due discipline normative – regionale e statale – risulta evidente il contrasto della disposizione impugnata con l’indicata norma statale interposta. Il legislatore regionale ha individuato, infatti, criteri di composizione dei Comitati di gestione degli ambiti territoriali di caccia che non necessariamente prevedono – in conformità al disposto della citata norma statale – la presenza paritaria delle associazioni venatorie e di quella degli agricoltori, ponendo così queste ultime in una posizione di potenziale svantaggio, sotto il profilo della loro rappresentanza, nei suddetti Comitati di gestione della caccia. Questa Corte ha già affermato che il principio di rappresentatività, di cui al citato art. 14, comma 10, della legge n. 157 del 1992, ha carattere inderogabile (sentenza n. 299 del 2001) e, in particolare, che detta disposizione, nello stabilire «i criteri di composizione degli organi preposti alla gestione dell’attività venatoria negli ambiti territoriali individuati secondo le modalità indicate, fissa uno standard minimo ed uniforme di composizione degli organi stessi che deve essere garantito in tutto il territorio nazionale» (sentenza n. 165 del 2009). La previsione regionale va, pertanto, dichiarata illegittima in quanto non rispetta il suddetto standard di tutela uniforme. Restano assorbiti gli altri profili di censura dedotti dal giudice rimettente. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 19, comma 1, lettere a) e b), della legge della Regione Molise 10 agosto 1993, n. 19 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), nella parte in cui, con riferimento alla composizione degli enti di gestione degli ambiti territoriali di caccia, non garantisce la paritaria rappresentanza delle associazioni venatorie e delle organizzazioni professionali agricole. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Maria Rita SAULLE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA SENTENZA N. 269 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 2, commi 2 e 4; 6, commi 11, 35, 43, 51 e 55, lettera d), della legge della Regione Toscana 9 giugno 2009, n. 29 (Norme per l’accoglienza, l’integrazione partecipe e la tutela dei cittadini stranieri nella Regione Toscana), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 30 luglio/3 agosto 2009, depositato in cancelleria il 6 agosto 2009 ed iscritto al n. 52 del registro ricorsi 2009. Visto l’atto di costituzione della Regione Toscana; udito nell’udienza pubblica dell’8 giugno 2010 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro; uditi l’avvocato dello Stato Sergio Fiorentino per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Lucia Bora per la Regione Toscana. Ritenuto in fatto 1.– Con ricorso, notificato il 30 luglio/3 agosto 2009, depositato il successivo 6 agosto, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’articolo 2, commi 2 e 4, e dell’articolo 6, commi 11, 35, 43, 51 e 55, lettera d), della legge della Regione Toscana 9 giugno 2009, n. 29 (Norme per l’accoglienza, l’integrazione partecipe e la tutela dei cittadini stranieri nella Regione Toscana), in riferimento all’articolo 117, commi secondo, lettere a) e b), e nono, della Costituzione. 1.1.– In particolare, il ricorrente, dopo aver premesso che la citata legge regionale mira a realizzare l’accoglienza solidale dei cittadini stranieri e reca norme ispirate ai principi di eguaglianza e pari opportunità, impugna l’art. 2, comma 2, della medesima legge, nella parte in cui stabilisce che «specifici interventi sono previsti anche a favore di cittadini stranieri comunque dimoranti sul territorio regionale, nei limiti indicati dalla presente legge». Tale norma, infatti, disciplinando specifici interventi in favore degli immigrati privi di regolare permesso di soggiorno, agevolerebbe il soggiorno degli stranieri che dimorano irregolarmente nel territorio nazionale e quindi inciderebbe sulla disciplina dell’ingresso e del soggiorno degli immigrati, di competenza esclusiva del legislatore statale. Essa, peraltro, si porrebbe in contrasto anche con i principi fondamentali stabiliti dagli artt. 4, 5, 10, 11, 13 e 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero) ed introdurrebbe casi diversi ed ulteriori, rispetto a quelli individuati dalla norma statale, di inoperatività della regola generale, che stabilisce la «condizione di illegittimità dell’immigrato irregolare». Anche l’art. 2, comma 4, della medesima legge regionale sarebbe, poi, costituzionalmente illegittimo nella parte in cui, disponendo che «gli interventi previsti dalla presente legge sono estesi anche a cittadini neocomunitari compatibilmente con le previsioni normative vigenti, fatte salve norme più favorevoli», introdurrebbe una misura concernente i cittadini comunitari, in violazione della competenza legislativa esclusiva statale in materia di rapporti con l’Unione europea stabilita dall’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., oltre che in contrasto con i principi costituzionali in tema di «diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea». Quanto, poi, all’art. 6, comma 35, della medesima legge regionale, il ricorrente ne sostiene l’illegittimità costituzionale, nella parte in cui stabilisce che «tutte le persone dimoranti nel territorio regionale, anche se prive di titolo di soggiorno, possono fruire degli interventi socio assistenziali urgenti ed indifferibili, necessari per garantire il rispetto dei diritti fondamentali riconosciuti ad ogni persona in base alla Costituzione ed alle norme internazionali». Così disponendo, la norma regionale impugnata riconoscerebbe allo straniero irregolarmente presente in Italia una serie di prestazioni non individuate puntualmente, riservando alla Regione il compito di fissare i criteri per identificare i caratteri dell’urgenza e dell’indifferibilità ed il contenuto di tali prestazioni, e quindi dando vita ad un sistema socio-assistenziale parallelo per gli stranieri non presenti regolarmente nel territorio dello Stato , in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost., oltre che dell’art. 35, comma 3, e dell’art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998. Egualmente illegittimo sarebbe, inoltre, l’art. 6, comma 51, della legge regionale n. 29 del 2009, nella parte in cui stabilisce che «la rete regionale di sportelli informativi supporta i comuni nella sperimentazione, avvio ed esercizio delle funzioni relative al rilascio dei titoli di soggiorno; promuove inoltre il coordinamento tra gli enti locali per lo sviluppo dei servizi volti a facilitare e semplificare i rapporti tra i cittadini stranieri e la pubblica amministrazione». Tale norma inciderebbe sulle materie «condizione giuridica dello straniero» ed «immigrazione» in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost., poiché estenderebbe i compiti di detta rete regionale a funzioni – inerenti agli adempimenti in tema di rilascio e rinnovo dei permessi di soggiorno – che le norme statali non attribuiscono ai Comuni, ma alle Questure, in violazione quindi dell’art. 5, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 286 del 1998. È, inoltre, impugnato, l’art. 6, comma 55, lettera d), nella parte in cui garantisce l’iscrizione al servizio sanitario regionale anche per quegli stranieri che abbiano proposto ricorso giurisdizionale avverso il provvedimento di diniego del permesso di soggiorno per riconoscimento dello status di rifugiato, della richiesta di asilo, della protezione sussidiaria o per ragioni umanitarie. Così disponendo, la Regione – ad avviso del ricorrente – avrebbe inciso sulla posizione dei soggetti sopra indicati, introducendo un disciplina riconducibile alla competenza esclusiva dello Stato stabilita dall’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost., senza, peraltro, operare nessun richiamo o rinvio alle pertinenti norme statali. Sono, infine, impugnati i commi 11 e 43 del medesimo art. 6 della legge regionale n. 29 del 2009, i quali, rispettivamente, stabiliscono che «la Regione promuove intese e azioni congiunte con gli enti locali, con le altre regioni, con gli uffici centrali e periferici delle amministrazioni statali, con le istituzioni europee, le agenzie delle Nazioni Unite competenti nella materia delle migrazioni», e che «la Regione, in conformità alla legislazione statale, promuove intese volte a facilitare l’ingresso in Italia di cittadini stranieri per la frequenza di corsi di formazione professionale o tirocini formativi». Tali norme sarebbe lesive dell’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), e nono comma, Cost.: la prima perché in contrasto con l’art. 6, commi 2 e 3, della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3), il quale non include gli organismi internazionali tra i soggetti con i quali le Regioni possono instaurare rapporti; entrambe poiché assegnerebbero alle Regioni compiti internazionali in una materia, quella delle politiche migratorie, che non appartiene alla competenza regionale e che attiene appunto alla disciplina dei flussi migratori. 2.– Nel giudizio si è costituita la Regione Toscana, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o comunque infondate. La resistente premette che le disposizioni impugnate incidono tutte negli ambiti delle attribuzioni legislative regionali, essendo volte a favorire l’attuazione di politiche territoriali efficaci, con particolare riferimento all’istruzione, alla sanità, al lavoro, all’assistenza sociale, materie tutte di competenza legislativa concorrente e residuale delle Regioni, ai sensi del terzo e quarto comma dell’art. 117 della Costituzione. In particolare, con riferimento alle specifiche censure sollevate nei confronti degli artt. 2, comma 2, e 6, comma 35, della legge regionale n. 29 del 2009, la Regione Toscana osserva che le disposizioni impugnate si limiterebbero a prevedere prestazioni sociali urgenti ed indifferibili nei confronti di immigrati già presenti sul territorio regionale senza intaccare né le condizioni di ingresso e soggiorno, né la capacità giuridica dello straniero, mantenendosi nell’ambito della propria competenza in materia di assistenza sociale e di tutela della salute. Anche le censure sollevate nei confronti dell’art. 2, comma 4, della legge regionale n. 29 del 2009 sarebbero prive di fondamento. La citata disposizione regionale, infatti, estendendo anche ai cittadini neocomunitari gli interventi di integrazione previsti per i cittadini extracomunitari, non farebbe altro che favorire detta integrazione, presupposto imprescindibile per una piena attuazione delle disposizioni comunitarie in materia di cittadinanza europea. Essa si collocherebbe all’interno della sfera delle competenze regionali residuali o concorrenti di cui all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost. (assistenza sociale, istruzione, salute, abitazione), nel pieno rispetto – espressamente sancito – della normativa nazionale e comunitaria in materia. Quanto, poi, alle censure proposte nei confronti dell’art. 6, comma 51, della legge regionale n. 29 del 2009, la resistente ne sostiene l’infondatezza, alla luce della considerazione che la norma impugnata si limiterebbe a prevedere attività di supporto alla rete informativa già presente ed avviata, tra l’altro, sulla base del Protocollo d’intesa del 2006 fra l’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) ed il Ministero dell’Interno, senza intaccare le competenze statali in tema di rilascio e rinnovo dei permessi di soggiorno. Del pari infondate sarebbero, inoltre, le censure sollevate nei confronti dell’art. 6, comma 55, lettera d), della legge regionale in esame, posto che la predetta norma si limiterebbe a disciplinare la materia della salute, di propria competenza, nel pieno rispetto di quanto stabilito dal legislatore statale. Quanto, poi, all’art. 6, comma 11, della legge regionale n. 29 del 2009, la resistente sostiene che la suddetta disposizione, nel prevedere che la Regione possa, nell’ambito delle proprie competenze connesse alla materia dell’immigrazione, raccordarsi con gli altri enti, nazionali ed esteri, coinvolti, sarebbe pienamente coerente con il riparto costituzionale delle competenze di cui all’art. 117, nono comma, Cost. provvedendo a disciplinare, con norma programmatica, attività di mero rilievo internazionale nelle materie di propria competenza, nel pieno rispetto della politica estera dettata dallo Stato e della disciplina sull’immigrazione parimenti statale. Infine, sulla base di analoghe argomentazioni, sarebbero prive di fondamento anche le censure sollevate nei confronti del comma 43 del medesimo art. 6 della legge regionale n. 29 del 2009, incidendo tale disposizione su una materia, quella della formazione professionale e dei tirocini estivi, che rientra nella competenza regionale residuale ai sensi dell’art. 117, quarto comma, della Costituzione. 3.– All’udienza pubblica, il ricorrente e la resistente hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni svolte nelle difese scritte. Considerato in diritto 1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri dubita della legittimità costituzionale degli articoli 2, commi 2 e 4, e 6, commi 11, 35, 43, 51 e 55, lettera d), della legge della Regione Toscana 9 giugno 2009, n. 29 (Norme per l’accoglienza, l’integrazione partecipe e la tutela dei cittadini stranieri nella Regione Toscana). Il ricorrente assume che le citate disposizioni esorbiterebbero dalla sfera di competenza regionale, incidendo su materie quali la «condizione giuridica dello straniero», l’«immigrazione», i «rapporti dello Stato con l’Unione europea», di competenza esclusiva del legislatore statale, in violazione dell’articolo 117, commi secondo, lettere a) e b), e nono, della Costituzione. 2.– In particolare, è impugnato l’art. 2, comma 2, della legge regionale citata, nella parte in cui, prevedendo specifici interventi in favore degli immigrati privi di regolare permesso di soggiorno, inciderebbe sulla disciplina dell’ingresso e del soggiorno degli immigrati, di competenza esclusiva del legislatore statale. 2.1.– La questione è inammissibile. Questa Corte ha già avuto occasione di affermare che la delibera governativa di impugnazione della legge e l’allegata relazione ministeriale, alla quale si rinvia, devono contenere l’indicazione delle disposizioni impugnate a pena di inammissibilità delle relative censure. Nella specie, di tale disposizione non si fa alcuna menzione nella delibera del Consiglio dei ministri (ed in specie nell’allegata relazione del Ministro per i rapporti con le Regioni) che dispone l’impugnazione della legge regionale, cosicché deve essere dichiarata inammissibile la relativa questione. 3.– È, poi, impugnato l’art. 2, comma 4, della medesima legge regionale, nella parte in cui, disponendo che «gli interventi previsti dalla presente legge sono estesi anche a cittadini neocomunitari compatibilmente con le previsioni normative vigenti, fatte salve norme più favorevoli», violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost. Tale norma, ad avviso del ricorrente, introdurrebbe una misura concernente i cittadini comunitari, riconducibile alla competenza legislativa esclusiva statale in materia di disciplina dei rapporti con l’Unione europea, oltre che in contrasto con i principi posti in tema di «diritto di asilo e condizione giuridica dei cittadini di Stati non appartenenti all’Unione europea» di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), nel testo modificato dall’art. 37 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito dalla legge 6 agosto 2008, n.133. 3.1.– La questione non è fondata. La norma regionale censurata si inserisce in un quadro normativo volto a favorire la piena integrazione anche dei cittadini neocomunitari, presupposto imprescindibile per l’attuazione delle disposizioni comunitarie in materia di cittadinanza europea. Con il decreto legislativo 6 febbraio 2007, n. 30 (Attuazione della direttiva 2004/38/CE relativa al diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri), il legislatore statale delegato ha dato attuazione alla direttiva comunitaria 29 aprile 2004, n. 2004/38/CE (Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa al diritto dei cittadini dell'Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, che modifica il regolamento (CEE) n. 1612/68 ed abroga le direttive 64/221/CEE, 68/360/CEE, 72/194/CEE, 73/148/CEE, 75/34/CEE, 75/35/CEE, 90/364/CEE, 90/365/CEE e 93/96/CEE), concernente il diritto di libera circolazione e di soggiorno dei cittadini dell’Unione europea e dei loro familiari. Con il predetto decreto sono stati stabiliti precisi criteri inerenti al diritto di soggiorno dei cittadini dell’Unione europea, volti a disciplinare il riconoscimento in favore dei medesimi di una serie di prestazioni relative a diritti civili e sociali. Le indicazioni contenute nel citato decreto, tuttavia, devono essere armonizzate con le norme dell’ordinamento costituzionale italiano che sanciscono la tutela della salute, assicurano cure gratuite agli indigenti, l’esercizio del diritto all’istruzione, e, comunque, attengono a prestazioni concernenti la tutela di diritti fondamentali, spettanti ai cittadini neocomunitari in base all’art. 12 del Trattato, che impone sia garantita, ai cittadini comunitari che si trovino in una situazione disciplinata dal diritto dell’Unione europea, la parità di trattamento ris petto ai cittadini dello Stato membro. In questa prospettiva, la norma regionale in esame non determina alcuna lesione delle competenze legislative statali in tema di rapporti con l’Unione europea, limitandosi ad assicurare anche ai cittadini neocomunitari quelle prestazioni ad essi dovute nell’osservanza di obblighi comunitari e riguardanti settori di propria competenza, concorrente o residuale, riconducibili al settore sanitario, dell’istruzione, dell’accesso al lavoro ed all’edilizia abitativa e della formazione professionale. 4.– Il Presidente del Consiglio dei ministri deduce, inoltre, l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 35, della legge regionale n. 29 del 2009, nella parte in cui dispone che, fermo restando quanto previsto dall’articolo 5, comma 4, della legge regionale 24 febbraio 2005, n. 41 (Sistema integrato di interventi e servizi per la tutela dei diritti di cittadinanza sociale), «tutte le persone dimoranti nel territorio regionale, anche se prive di titolo di soggiorno, possono fruire degli interventi socio assistenziali urgenti ed indifferibili, necessari per garantire il rispetto dei diritti fondamentali riconosciuti ad ogni persona in base alla Costituzione ed alle norme internazionali». Detta norma, infatti, riconoscerebbe allo straniero irregolarmente presente in Italia una serie di prestazioni non individuate puntualmente, riservando alla Regione la fissazione dei criteri per identificare i caratteri dell’urgenza e dell’indifferibilità, quindi, lo stesso contenuto di tali prestazioni, e dando vita così ad un sistema socio-assistenziale parallelo per gli stranieri non presenti regolarmente nel territorio dello Stato, in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost., oltre che dell’art. 35, comma 3, e dell’art. 41 del d.lgs. n. 286 del 1998. 4.1.– La questione non è fondata. Questa Corte ha già più volte affermato che «lo straniero è […] titolare di tutti i diritti fondamentali che la Costituzione riconosce spettanti alla persona» (sentenza n. 148 del 2008) ed in particolare, con riferimento al diritto all’assistenza sanitaria, ha precisato che esiste «un nucleo irriducibile del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana, il quale impone di impedire la costituzione di situazioni prive di tutela, che possano appunto pregiudicare l’attuazione di quel diritto». Quest’ultimo deve perciò essere riconosciuto «anche agli stranieri, qualunque sia la loro posizione rispetto alle norme che regolano l’ingresso ed il soggiorno nello Stato, pur potendo il legislatore prevedere diverse modalità di esercizio dello stesso» (sentenza n. 252 del 2001). Il legislatore statale, con il d.lgs. n. 286 del 1998, ha recepito tale impostazione, sta tuendo, in specie all’art. 35, comma 3, che «ai cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale, non in regola con le norme relative all’ingresso ed al soggiorno, sono assicurate, nei presìdi pubblici ed accreditati, le cure ambulatoriali ed ospedaliere urgenti o comunque essenziali, ancorché continuative, per malattia ed infortunio e sono estesi i programmi di medicina preventiva a salvaguardia della salute individuale e collettiva», assicurando altresì la tutela sociale della gravidanza e della maternità, a parità di trattamento con le cittadine italiane, la tutela della salute del minore, le vaccinazioni, gli interventi di profilassi internazionale, la profilassi, la diagnosi e la cura delle malattie infettive ed eventualmente bonifica dei relativi focolai. In questo quadro si colloca la norma regionale censurata, la quale, in attuazione dei principi fondamentali posti dal legislatore statale in tema di tutela della salute, provvede ad assicurare anche agli stranieri irregolari le fondamentali prestazioni sanitarie ed assistenziali atte a garantire il diritto all’assistenza sanitaria, nell’esercizio della propria competenza legislativa, nel pieno rispetto di quanto stabilito dal legislatore statale in tema di ingresso e soggiorno in Italia dello straniero, anche con riguardo allo straniero dimorante privo di un valido titolo di ingresso. 5.– Viene, inoltre, impugnato l’art. 6, comma 51, della citata legge regionale, nella parte in cui stabilisce che «la rete regionale di sportelli informativi supporta i comuni nella sperimentazione, avvio ed esercizio delle funzioni relative al rilascio dei titoli di soggiorno; promuove inoltre il coordinamento tra gli enti locali per lo sviluppo dei servizi volti a facilitare e semplificare i rapporti tra i cittadini stranieri e la pubblica amministrazione». Così disponendo, essa inciderebbe sulle materie «condizione giuridica dello straniero» ed «immigrazione», in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost. poiché non si limiterebbe a garantire un supporto nell’informazione relativa agli adempimenti per il rilascio ed il rinnovo dei permessi di soggiorno, ma estenderebbe i compiti di detta rete regionale a funzioni che le norme statali non attribuiscono ai Comuni, in contrasto con quanto statuito dall 217;art. 5, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 286 del 1998, che demanda alle Questure le funzioni di rilascio e rinnovo dei permessi di soggiorno. 5.1.– Anche tale questione non è fondata. La norma impugnata disciplina una mera attività di supporto alla rete informativa già presente ed avviata, tra l’altro, sulla base del Protocollo d’intesa stipulato nel 2006 fra l’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) ed il Ministero dell’Interno, con il quale si è dato inizio ad una sperimentazione volta ad attribuire progressivamente competenze ai Comuni per quanto riguarda l’istruttoria relativa al rilascio ed al rinnovo del permesso di soggiorno. Essa, pertanto, lungi dal regolare aspetti propriamente incidenti sulla materia dell’immigrazione, si limita a prevedere una forma di assistenza in favore degli stranieri presenti sul territorio regionale che si sostanzia nel mero affidamento agli enti locali di quegli adempimenti che, nell’ambito dei procedimenti di richiesta e rinnovo di permesso di soggiorno e di carta di soggiorno, diversamente sarebbero stati svolti direttamente dagli stessi richiedenti (sentenza n. 156 del 2006), nel pieno rispetto delle competenze statali di cui all’art. 5, commi 2 e 4, del d.lgs. n. 286 del 1998 . La Regione, peraltro, già dal 5 marzo 2008 ha provveduto a regolare forme di assistenza ed implementazione della rete di sportelli informativi per gli stranieri, avviando un progetto delineato nel Protocollo d’intesa stipulato con l’ANCI e poi ampliato con il successivo Protocollo stipulato tra Regione Toscana e ANCI Toscana in data 8 febbraio 2010, in vista dell’obiettivo di fornire un’attività di mero supporto e sostegno alla già esistente rete di assistenza ai cittadini stranieri, in armonia con quanto stabilito, peraltro, nel citato Protocollo d’intesa stipulato nel 2006 fra l’ANCI ed il Ministero dell’Interno. 6.– È, poi, censurato l’art. 6, comma 55, lettera d), della legge regionale n. 29 del 2009, nella parte in cui garantisce l’iscrizione al servizio sanitario regionale anche agli stranieri che abbiano proposto ricorso giurisdizionale avverso il provvedimento di diniego del permesso di soggiorno per riconoscimento dello status di rifugiato, richiesta di asilo, protezione sussidiaria o per ragioni umanitarie. Così disponendo, la Regione – ad avviso del ricorrente – avrebbe inciso sulla posizione dei soggetti sopra indicati, la cui regolamentazione spetterebbe alla competenza dello Stato, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost., senza, peraltro, operare alcun richiamo o rinvio alle pertinenti norme statali. 6.1.– La questione non è fondata. Tale norma, al pari dell’art. 6, comma 55, si inserisce in un contesto normativo caratterizzato dal riconoscimento in favore dello straniero, anche privo di un valido titolo di soggiorno, di un nucleo irriducibile di tutela del diritto alla salute protetto dalla Costituzione come ambito inviolabile della dignità umana. Al di là delle indicazioni generali contenute nel citato art. 35, comma 3, del d.lgs,. n. 286 del 1998, in tema di assistenza sanitaria, occorre ricordare che, con particolare riferimento alla categoria di soggetti presi in considerazione dalla norma regionale in esame, l’art. 34, comma 1, lettera b), del medesimo decreto prescrive l’iscrizione al servizio sanitario nazionale degli stranieri che abbiano richiesto il rinnovo del titolo di soggiorno anche per asilo politico, per asilo umanitario o per richiesta di asilo. A chiarificazione dell’esatta portata della norma appena richiamata il Ministero della Sanit& #224;, con una circolare del 24 marzo 2000, n. 5, al punto I.A.6., ha precisato che l’iscrizione obbligatoria al servizio sanitario nazionale di coloro che abbiano presentato richiesta di asilo sia politico che umanitario è prescritta per tutto il «periodo che va dalla richiesta all’emanazione del provvedimento, incluso il periodo dell’eventuale ricorso contro il provvedimento di diniego del rilascio del permesso di soggiorno». In considerazione di tali prescrizioni, appare evidente che la norma regionale impugnata si limita a disciplinare la materia della tutela della salute, per la parte di propria competenza, nel pieno rispetto di quanto stabilito dal legislatore statale in ordine alla posizione dei soggetti sopra indicati, alle cui norme implicitamente fa rinvio. 7.– Sono, infine, censurati i commi 11 e 43 dell’art. 6, nella parte in cui, il primo stabilisce che «La Regione promuove intese e azioni congiunte con gli enti locali, con le altre regioni, con gli uffici centrali e periferici delle amministrazioni statali, con le istituzioni europee, le agenzie delle Nazioni Unite competenti nella materia delle migrazioni»; il secondo dispone che «La Regione, in conformità alla legislazione statale, promuove intese volte a facilitare l’ingresso in Italia di cittadini stranieri per la frequenza di corsi di formazione professionale o tirocini formativi». Secondo la difesa dello Stato, entrambe le disposizioni sarebbero illegittime: la prima perché in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), e nono comma, Cost. e con l’art. 6, commi 2 e 3, della legge n. 131 del 2003, il quale non include gli organismi internazionali tra i soggetti con i quali le Regioni possono instaurare rapporti; entrambe poiché assegnerebbero alle Regioni, in contrasto con quanto stabilito dal predetto art. 117, secondo comma, lettere a) e b), e nono comma, Cost., compiti internazionali in una materia, quella delle politiche migratorie, che non appartiene alla competenza regionale e che attiene alla disciplina dei flussi migratori. 7.1.– Anche le predette questioni non sono fondate. Questa Corte ha ripetutamente affermato, quanto al potere estero delle Regioni, che esso si risolve in «attività di mero rilievo internazionale», che corrispondono a quelle attività compiute con omologhi organismi esteri «aventi per oggetto finalità di studio o di informazione (in materie tecniche) oppure la previsione di partecipazione a manifestazioni dirette ad agevolare il progresso culturale o economico in ambito locale, ovvero, infine, l’enunciazione di propositi intesi ad armonizzare unilateralmente le rispettive condotte» (sentenza n. 454 del 2007), nelle materie di competenza regionale, ovvero in quelle azioni finalizzate al raccordo delle proprie attività – sempre nelle materie di propria competenza – con iniziative dell’amministrazione statale, dell’Unione europea o anche degli organismi internazionali (sentenza n. 131 del 2008), che siano ovviamente adottate nel rispetto dei principi della politica estera fissati dallo Stato. Sulla base di tali premesse, risulta evidente che le censure sollevate nei confronti delle citate disposizioni regionali sono prive di fondamento. Infatti, quanto al comma 11 dell’art. 6, esso non fa altro che raccordare l’attività della Regione, nelle materie di propria competenza, con quella delle altre Regioni, delle amministrazioni statali, delle istituzioni europee e degli organismi internazionali, in vista del più efficace perseguimento, in via puramente indiretta ed accessoria, delle finalità delineate dal legislatore statale in tema di politiche migratorie. Quanto, poi, al comma 43 del medesimo art. 6, l’obiettivo della norma è chiaramente quello di consentire alla Regione di promuovere intese (al fine di agevolare la frequenza degli stranieri ai corsi di formazione professionale o tirocini formativi), che si riferiscono ad un ambito di competenza legislativa regionale residuale, corrispondente appunto alla formazione professionale, peraltro espressamente da realizzare «in conformità alla legislazione statale» e cioè nel pieno rispetto dei principi della politica estera fissati dallo Stato. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 2, legge della Regione Toscana 9 giugno 2009, n. 29 (Norme per l’accoglienza, l’integrazione partecipe e la tutela dei cittadini stranieri nella Regione Toscana), promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe; dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 2, comma 4, e 6, commi 11, 35, 43, 51 e 55, lettera d), della medesima legge della Regione Toscana n. 29 del 2009, promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettere a) e b), e nono comma, della Costituzione. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Giuseppe TESAURO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA SENTENZA N. 270 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell’articolo 4, comma 4-quinquies, del decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347 (Misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39, introdotto dall’articolo 1, comma 10, del decreto-legge 28 agosto 2008, n. 134 (Disposizioni urgenti in materia di ristrutturazione di grandi imprese in crisi), convertito, con modificazioni, dalla legge 27 ottobre 2008, n. 166, promossi dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio con tre ordinanze del 27 maggio 2009, rispettivamente iscritte ai nn. 223, 224 e 225 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 37, prima serie speciale, dell’anno 2009. Visti gli atti di costituzione di Eurofly s.p.a ed altra, del Commissario straordinario di Alitalia-Linee Aeree Italiane s.p.a. in amministrazione straordinaria e di Alitalia Compagnia Aerea Italiana s.p.a. nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 22 giugno 2010 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro; uditi gli avvocati Aldo Travi, Romolo Persiani e Cristoforo Osti per la Eurofly s.p.a ed altra, Massimo Luciani, Gian Michele Roberti e Filippo Lattanzi per l’Alitalia Compagnia Aerea Italiana s.p.a., Mario Sanino per il Commissario straordinario di Alitalia-Linee Aeree Italiane s.p.a. in amministrazione straordinaria e l’avvocato dello Stato Paolo Gentili per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.– Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con tre ordinanze del 27 maggio 2009, emesse nel corso di altrettanti giudizi, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 41 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 10, del decreto-legge 28 agosto 2008, n. 134 (Disposizioni urgenti in materia di ristrutturazione di grandi imprese in crisi), convertito, con modificazioni, dalla legge 27 ottobre 2008, n. 166, nella parte in cui ha introdotto il comma 4-quinquies nell’articolo 4 del decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347 (Misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39 (recte: ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 4-quinquies, del decreto-legge n. 347 del 2003, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 39 del 2004, introdotto dall ’art. 1, comma 10, del decreto-legge n. 134 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 2008). 2.– La prima ordinanza (r.o. n. 223 del 2009) premette che Eurofly s.p.a., in persona del legale rappresentante, ha dedotto che esercita un’impresa di trasporto aereo di linea, in concorrenza, tra l’altro, con Alitalia-Linee Aeree Italiane s.p.a. (di seguito, Alitalia) ed AirOne s.p.a., chiedendo l’annullamento del provvedimento dell’Autorità della concorrenza e del mercato (d’ora in poi, Autorità), adottato nell’adunanza del 3 dicembre 2008, a conclusione del procedimento n. C/9812, articolando sei motivi di censura. Siffatto provvedimento, reso sulla comunicazione della società Alitalia-Compagnia Aerea Italiana s.p.a. (infra: CAI), effettuata ai sensi del citato art. 4, comma 4-quinquies, avente ad oggetto la notificazione preventiva dell’operazione di concentrazione relativa all’acquisizione di alcuni rami d’azienda delle società Alitalia-Linee Aeree Italiane s.p.a., in amministrazione straordinaria, Alitalia Servizi s.p.a., in amministrazione straordinaria, Alitalia Airport s.p.a., in amministrazione straordinaria, Alitalia Express s.p.a., in amministrazione straordinaria, Volare s.p.a, in amministrazione straordinaria (gruppo AZ), e delle società AirOne s.p.a., AirOne City Liner s.p.a., European Avia Service s.p.a., Air One Technic s.p.a. e Challey Ltd (gruppo AP), ha prescritto misure comportamentali, per prevenire il rischio di imposizione di prezzi ed altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose per i consumatori, cons eguenti alla concentrazione, fissando al 3 dicembre 2011 la data prima della quale sarà stabilito il successivo termine entro il quale le posizioni di monopolio eventualmente determinatesi a seguito dell’operazione devono cessare, previo avvio di idoneo procedimento istruttorio. 2.1.– Il TAR espone che, con il primo motivo, Eurofly s.p.a. ha eccepito l’illegittimità del provvedimento impugnato, in quanto avrebbe dato applicazione al citato art. 4, comma 4-quinquies, che si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 41 Cost. La ricorrente, con il secondo motivo, ha dedotto che il provvedimento impugnato violerebbe il d.l. n. 347 del 2003, convertito dalla legge n. 39 del 2004, ed il d.l. n. 134 del 2008, convertito dalla legge n. 166 del 2008, poiché l’esclusione della autorizzazione dell’operazione di concentrazione riguarderebbe soltanto le «imprese operanti nel settore dei servizi pubblici essenziali» e, in virtù dell’art. 1 della legge 12 giugno 1990, n. 146 (Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge), sarebbero tali soltanto i servizi aerei per il collegamento con le isole e, alla data dell’operazione, CAI, non era titolare di concessione per l’esercizio dell’attività di trasporto aereo, quindi, il citato art. 4, comma 4-quinquies, n on sarebbe applicabile. Eurofly s.p.a., con il terzo ed il quarto motivo, ha, rispettivamente, eccepito che le norme alla base del provvedimento impugnato si porrebbero in contrasto con l’art. 86 del Trattato del 15 marzo 1957 (Trattato che istituisce la Comunità europea), nella versione in vigore dal 1° febbraio 2003 al 30 novembre 2009 (di seguito, Trattato CE), nonché con gli artt. 3, lettera g), 10 e 82 del medesimo, e dovrebbero essere disapplicate, insistendo per il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia delle Comunità europee, al fine di accertare l’esatta interpretazione di tali disposizioni. Il quinto motivo ha prospettato l’illegittimità del provvedimento impugnato, in quanto la valutazione dell’operazione di concentrazione spetterebbe alla Commissione europea. In linea gradata, la ricorrente ha chiesto che sia disposto rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, per accertare se «una situazione di controllo congiunto di fatto possa sussistere nel caso sia provata l’esistenza di una forte comunione di interessi; nel caso di acquisto del controllo congiunto tramite una “scatola vuota” imprese interessate debbano considerarsi le imprese madri e non la società veicolo; l’acquisto del controllo di CAI e l’ingresso del socio straniero debbano essere considerati quale unica operazione di concentrazione». Eurofly s.p.a., con il sesto motivo, ha chiesto l’annullamento del citato provvedimento, deducendone l’illegittimità in relazione ai contenuti degli «obblighi imposti», in quanto incongrui rispetto al fine di scongiurare il rischio di condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose per i consumatori. 2.2.– L’ordinanza di rimessione espone che CAI ha proposto ricorso incidentale condizionato, affidato a tre motivi, chiedendo l’annullamento del provvedimento impugnato da Eurofly s.p.a., nel caso di accoglimento, anche parziale, del ricorso principale. 2.3.– Posta questa premessa, il TAR espone le ragioni del rigetto dell’eccezione di inammissibilità del ricorso, per difetto di legittimazione ad agire, proposta dall’Avvocatura dello Stato, osservando che la ricorrente, impresa concorrente di quelle interessate dalla concentrazione, è titolare di una posizione «differenziata» rispetto «alla posizione di tutti gli altri membri della collettività» e «qualificata», poiché non contesta le prescrizioni contenute nel provvedimento impugnato a tutela dei consumatori, ma dubita della legittimità dell’operazione di concentrazione presupposta dal provvedimento, in quanto consentita dalla norma censurata. 2.4.– Secondo l’ordinanza di rimessione, la norma censurata ha disposto che le operazioni di concentrazione delle imprese operanti nel settore dei servizi pubblici essenziali, effettuate entro il 30 giugno 2009, connesse o contestuali, o comunque previste nel programma debitamente autorizzato di cui all’art. 2, comma 2, del d.l. n. 347 del 2003, ovvero nel provvedimento di autorizzazione di cui all’art. 5, comma 1, di detto decreto-legge, rispondono a preminenti interessi generali e non sono soggette all’autorizzazione di cui alla legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato), fermo quanto previsto dagli artt. 2 e 3 della medesima. La disposizione ha, inoltre, stabilito che, fatto salvo quanto previsto dalle norme comunitarie, le parti devono preventivamente notificare all’Autorità le concentrazioni che rientrano nella competenza della medesima, unitamente alla proposta di misure c omportamentali idonee a prevenire il rischio di imposizione di prezzi o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose per i consumatori. L’Autorità, con propria deliberazione, adottata entro trenta giorni dalla comunicazione, prescrive le suddette misure, con le modificazioni ed integrazioni ritenute necessarie, fissando il termine, non inferiore a tre anni, entro il quale le posizioni di monopolio eventualmente determinatesi devono cessare; in caso di inottemperanza, sono applicabili le sanzioni previste dall’art. 19 della legge n. 287 del 1990. L’Autorità, con provvedimento del 3 dicembre 2008: ha reso obbligatoria la misura comportamentale con cui CAI si è impegnata a garantire su tutte le rotte piena e ampia copertura del proprio programma di fidelizzazione, salvo specifiche iniziative promozionali relative alla commercializzazione una tantum di particolari tariffe scontate su determinate rotte; ha integrato detta misura, con ulteriori prescrizioni; ha stabilito che CAI deve applicare siffatte misure per tre anni dalla data di inizio delle attività della stessa società, fissando al 3 dicembre 2011 la data prima della quale sarà stabilito il successivo termine, entro il quale le posizioni di monopolio eventualmente determinatesi a seguito dell’operazione devono cessare, previo avvio di idoneo procedimento istruttorio. 2.5.– Sintetizzato il contenuto del provvedimento impugnato, il rimettente espone gli argomenti a conforto del rigetto delle censure svolte da Eurofly s.p.a. nei motivi dal secondo al sesto. In primo luogo, approfondisce le ragioni dell’inammissibilità delle doglianze concernenti le condizioni asseritamente gravose per i consumatori e dell’infondatezza della tesi diretta a contestare la configurabilità del servizio di trasporto aereo come servizio pubblico essenziale. In secondo luogo, espone diffusamente gli argomenti a conforto dell’infondatezza della censura con la quale la ricorrente ha dedotto che sull’operazione avrebbe dovuto pronunciarsi la Commissione europea. In terzo luogo, svolge gli argomenti per dimostrare l’inesistenza dell’eccepito contrasto delle norme nazionali applicabili alla fattispecie con le disposizioni comunitarie invocate dalla ricorrente. 2.6.– Il TAR, dopo avere sottolineato che «i motivi di impugnativa con cui la ricorrente ha dedotto vizi propri dell’atto sono in parte infondati ed in parte inammissibili», solleva questione di legittimità costituzionale del citato art. 4, comma 4-quinquies. A suo avviso, detta disposizione costituirebbe una «norma-provvedimento», poiché concerne le operazioni di concentrazione, effettuate entro il 30 giugno 2009, tra imprese operanti nel settore dei servizi pubblici essenziali connesse o contestuali o comunque previste nel programma, debitamente autorizzato, relativo alla procedura di amministrazione straordinaria delle grandi imprese in stato di insolvenza. Dunque, essa ha un limitato ambito di applicazione e sarebbe stata emanata con riferimento «alla vicenda Alitalia, tanto che il decreto in cui è contenuta la norma è comunemente noto come c.d. “decreto Alitalia”». D’altronde, osserva il rimettente, anche l’amministrazione resistente ha prospettato che, «con l’operazione CAI-Alitalia-AirOne», è «stato salvato da sicuro e imminente collasso un sistema integrato di trasporti pubblici, via aerea su scala nazionale» e la controinteressata ha precisato che «le vic ende sottese all’adozione del provvedimento legislativo sono a tutti ben note [...]. I rischi di scomparsa della compagnia di bandiera e di disoccupazione di migliaia di lavoratori hanno spinto il Governo ad intervenire con misure drastiche che consentissero la continuità operativa delle imprese incaricate dello svolgimento di servizi pubblici essenziali entrate in crisi». La disposizione censurata costituirebbe, quindi, una «norma-provvedimento» che, secondo il giudice a quo, la giurisprudenza costituzionale avrebbe ritenuto ammissibile, salvo il rispetto della funzione giurisdizionale e del principio di ragionevolezza e la sua sottoposizione ad uno scrutinio stretto di costituzionalità in ordine a detti profili. Il canone della ragionevolezza comporta che le disposizioni le quali realizzano una disparità di trattamento devono essere valutate all’esito di un bilanciamento dei valori in gioco. Ad avviso del rimettente, la norma censurata stabilisce che le operazioni di concentrazione in esame sono strumentali alla tutela di preminenti interessi generali e, appunto per questo, sono sottratte alla disciplina prevista dagli artt. 6 e 16 della legge n. 287 del 1990. L’art. 16 di detta legge dispone che: le operazioni di concentrazione indicate nell’art. 5 devono essere preventivamente comunicate all’Autorità, qualora il fatturato totale realizzato a livello nazionale dall’insieme delle imprese interessate sia superiore a determinate soglie (comma1); quando l’Autorità ritenga che l’operazione di concentrazione possa essere vietata ai sensi dell’art. 6, avvia l’istruttoria e, se non reputi ciò necessar io, deve comunicare le proprie conclusioni alle imprese interessate ed al Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato (comma 4). L’art. 6, comma 1, della legge n. 287 del 1990 stabilisce che l’Autorità valuta se dette operazioni di concentrazione comportino la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante sul mercato nazionale, in guisa da eliminare o ridurre in modo sostanziale e durevole la concorrenza (comma 1), e, al termine dell’istruttoria prevista dall’art. 16, comma 4, se accerta che l’operazione produce tali effetti, vieta la concentrazione, ovvero la autorizza, prescrivendo le misure necessarie per impedirli (comma 2). La norma censurata avrebbe sottratto all’Autorità il potere di svolgere il controllo secondo il procedimento previsto dalla legge n. 287 del 1990, permettendole soltanto di prescrivere misure comportamentali, escludendo il potere di vietare l’operazione e di imporre ulteriori misure. Secondo il rimettente, l’incidenza dell’operazione di concentrazione sulla concorrenza risulterebbe dallo stesso provvedimento impugnato, il quale, in primo luogo, indica che «CAI, a seguito dell’operazione, sarà l’unico vettore ad offrire servizi di trasporto aereo passeggeri di linea su numerose tratte, tra cui alcune fra le più importanti in temi di trasportato, mentre sulle altre rotte risulterà fortemente ridotta la presenza di operatori concorrenti, con poche eccezioni» (paragrafo 13). In secondo luogo, pone in luce che, «considerata la situazione concorrenziale che verrà a determinarsi a seguito dell’operazione», si avrà «la creazione di un vettore che potrà gestire una rete di collegamenti capillare su tutto il territorio nazionale, detenendo sui singoli collegamenti posizioni di assoluto rilievo – se non di unica offerta – in termini di frequenze allo stato disponibili» (paragra fo 31). Inoltre, poiché la norma censurata stabilisce che l’Autorità definisce il termine, non inferiore a tre anni, entro il quale le posizioni di monopolio eventualmente determinatesi devono cessare, tali posizioni sono destinate a durare almeno tre anni. Dunque, detta norma avrebbe discriminato le imprese del settore aereo, prevedendo un trattamento più favorevole per quelle interessate alla concentrazione, che hanno incrementato la propria posizione in termini concorrenziali, in danno delle altre già operanti nel settore, o che, in prospettiva, potrebbero operarvi. Ad avviso del giudice a quo, siffatta discriminazione non sarebbe ragionevole, con conseguente violazione dell’art. 3 Cost. e del principio della libertà di concorrenza, che costituisce una delle espressioni della libertà di iniziativa economica privata, non avendo la norma censurata neppure dato conto degli interessi che mirerebbe a garantire e che, all’interno di un bilanciamento di tutti quelli in gioco, potrebbero giustificare la deroga del principio di eguaglianza ed il sacrificio della libertà di concorrenza. Il citato art. 4, comma 4-quinquies, indica, infatti, che le operazioni di concentrazione in esame «rispondono a preminenti interessi generali», senza offrire «una precisa spiegazione» al riguardo e senza dare conto sia delle ragioni della loro prevalenza rispetto ad altri interessi di rango costituzionale, sia dell’impossibilità di conseguirli con modalità diverse, rispettose dei principi di eguaglianza e di tutela della concorrenza. A questo fine, sarebbe insufficiente la considerazione, contenuta nella premessa del d.l. n. 134 del 2008, in ordine alla «importanza che i servizi forniti dalle società operanti nei settori dei servizi pubblici essenziali non subiscano interruzioni». Anche tenendo conto della rilevanza della continuità di tali servizi, non sarebbe, infatti, «agevole comprendere né dal testo di legge, né aliunde, perché tale risultato debba essere perseguito attraverso una norma discriminatoria per gli al tri operatori del settore aereo che forniscono lo stesso servizio pubblico essenziale e lesiva del principio di tutela della libertà di concorrenza». La norma censurata violerebbe, quindi, l’art. 41 Cost., il quale garantisce la libertà dell’iniziativa economica privata, una delle cui articolazioni fondamentali sarebbe costituita dalla tutela della concorrenza, mentre l’art. 1 della legge n. 287 del 1990 stabilisce che le norme in questa contenute sono state emanate in attuazione di detto parametro costituzionale, a tutela del diritto di iniziativa economica. Secondo il TAR, la questione di legittimità costituzionale sarebbe rilevante, in quanto l’eccezione di inammissibilità proposta dall’Avvocatura dello Stato è stata rigettata, sono stati ritenuti in parte infondati, in parte inammissibili, i motivi del ricorso aventi ad oggetto vizi propri del provvedimento impugnato, ed è stato dichiarato inammissibile il ricorso incidentale condizionato. Pertanto, l’accoglimento della questione «si rifletterebbe inevitabilmente sulla legittimità dell’impugnato provvedimento […] che, nel prescrivere le misure comportamentali per la CAI, ha applicato la norma» censurata, «postulando l’avvenuta realizzazione dell’operazione di concentrazione». Il rimettente espone, infine, le ragioni a conforto della inammissibilità del ricorso incidentale condizionato proposto da CAI. 3.– La seconda ordinanza (r.o. n. 224 del 2009) premette che, nel giudizio principale, Meridiana s.p.a., in persona del legale rappresentante, ha dedotto che esercita l’attività di trasporto aereo di linea in concorrenza, tra le altre, con Alitalia ed AirOne s.p.a., chiedendo, con otto motivi, l’annullamento del provvedimento dell’Autorità sopra richiamato. 3.1.– Il TAR espone che, con il primo motivo, la ricorrente ha eccepito l’illegittimità di detto provvedimento, in quanto adottato in violazione degli artt. 7 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi) e degli artt. 7 e 13 del decreto del Presidente della Repubblica 30 aprile 1998, n. 217 (Regolamento recante norme in materia di procedure istruttorie di competenza dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato). Meridiana s.p.a., con il secondo motivo, ha denunciato violazione e falsa applicazione dell’art. 5 del regolamento di organizzazione e funzionamento dell’attività dell’Autorità e dei principi generali concernenti l’attività degli organi collegiali amministrativi, nonché eccesso di potere. L’ordinanza di rimessione sintetizza, infine, il contenuto dei motivi dal terzo all’ottavo, sostanzialmente coincidenti con quelli proposti da Eurofly s.p.a., ed espone che CAI ha proposto ricorso incidentale condizionato, di contenuto identico a quello del giudizio introdotto dall’ordinanza r.o. n. 223 del 2009. 3.2.– Posta questa premessa, il TAR espone gli argomenti a conforto del rigetto dell’eccezione di inammissibilità del ricorso, per difetto di legittimazione ad agire, proposta dall’Avvocatura dello Stato (identici a quelle svolti per dichiarare infondata l’identica eccezione proposta nel giudizio introdotto da Eurofly s.p.a.), sintetizza la disciplina stabilita dalla norma censurata ed il contenuto del provvedimento impugnato. 3.3.– Il giudice a quo esamina, quindi, i primi due motivi del ricorso, ritenendoli infondati, nonché i motivi dal quarto all’ottavo, rigettati con motivazione identica a quella svolta nell’ordinanza r.o. n. 223 del 2009. Il rimettente censura, infine, il citato art. 4, comma 4-quinquies, in riferimento ai parametri costituzionali ed ai profili indicati dalla ordinanza r.o. n. 223 del 2009, con argomentazioni sostanzialmente identiche a quelle svolte in quest’ultimo provvedimento di rimessione, anche in ordine alla rilevanza della questione ed all’inammissibilità del ricorso incidentale condizionato. 4.– La terza ordinanza (r.o. n. 225 del 2009) premette che la Federconsumatori-Federazione Nazionale di Consumatori e Utenti (infra: Federconsumatori), in persona del legale rappresentante, ha impugnato il citato provvedimento dell’Autorità, articolando due motivi di censura. Con il primo motivo, la ricorrente ha eccepito che il provvedimento impugnato violerebbe l’art. 3 della legge n. 241 del 1990, nonché gli artt. 2, 3, 41 e 117 Cost. e l’art. 81 del Trattato CE, deducendo che l’art. 1, comma 10, del d.l. n. 134 del 2008, nel testo risultante dalla legge di conversione n. 166 del 2008, ed inoltre si porrebbe in contrasto con norme costituzionali e comunitarie. Con il secondo motivo, ha eccepito l’illegittimità costituzionale della legge n. 166 del 2008, in riferimento agli art. 2, 3, 41 e 117 Cost., vulnerati dal «congelamento» dei poteri dell’Autorità. Secondo il TAR, l’eccezione di inammissibilità del ricorso, per difetto di legittimazione ad agire, proposta dall’Avvocatura dello Stato, è infondata, in quanto la ricorrente, ente esponenziale dei consumatori, è titolare di una posizione differenziata e qualificata. Il citato art. 4, comma 4-quinquies, stabilisce, infatti, che le misure comportamentali che l’Autorità deve prescrivere sono preordinate a prevenire il rischio di imposizione di prezzi o di altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose per i consumatori in conseguenza dell’operazione di concentrazione. La ricorrente non ha proposto censure riferite a tali misure comportamentali; nondimeno essa è legittimata a contestare la concentrazione presupposta dal provvedimento impugnato, in quanto consentita dalla norma censurata. La disciplina legislativa in materia di concorrenza è, infatti, stabilita anche a tutela dei consumatori, i qual i potrebbero essere pregiudicati da una ridotta concorrenza tra le imprese del settore. 4.1.– L’ordinanza di rimessione, sintetizzati la disciplina stabilita dalla norma impugnata ed il contenuto del provvedimento impugnato, ne ha escluso il contrasto con l’art. 82 del Trattato CE, ritenendo non pertinente il richiamo dell’art. 81 del medesimo. Il rimettente dubita, invece, della legittimità costituzionale del citato art. 4, comma 4-quinquies, in riferimento agli artt. 3 e 41 Cost., sotto i profili e per le ragioni esposte nell’ordinanza r.o. n. 223 del 2009 che, sostanzialmente, riproduce. Infine, il TAR deduce che la questione sarebbe rilevante, premettendo che «ha respinto l’eccezione d’inammissibilità del ricorso ed ha respinto le censure con cui la ricorrente ha dedotto la violazione delle norme comunitarie», ed osservando che «l’eventuale annullamento della detta norma di legge, pertanto, si rifletterebbe inevitabilmente sulla legittimità dell’impugnato provvedimento dell’Autorità […] che, nel prescrivere le misure comportamentali per la CAI, ha applicato la norma di legge della cui costituzionalità si dubita, postulando l’avvenuta realizzazione dell’operazione di concentrazione». 5.– Nei giudizi promossi dalle ordinanze r.o. n. 223 e n. 224 del 2009 si sono costituite, con separati atti, di contenuto sostanzialmente identico, Eurofly s.p.a., in persona del legale rappresentante, e Meridiana s.p.a., in persona del legale rappresentante, entrambe ricorrenti nei processi principali, chiedendo, anche nelle memorie depositate in prossimità dell’udienza pubblica, che la questione sia accolta. Eurofly s.p.a., nella memoria, ha indicato che ha modificato la propria denominazione sociale in Meridiana fly s.p.a. Le parti premettono una analitica esposizione delle fasi della privatizzazione di Alitalia-Linee Aeree Italiane s.p.a. (infra: Alitalia), muovendo dalla pubblicazione, nel 2006, di un invito a manifestare l’interesse all’acquisto della partecipazione dello Stato in tale società, esauritosi senza successo nel 2007, sino alla presentazione in tale anno da parte di Air France-KLM di un’offerta di acquisto giudicata idonea, ma non andata a buon fine e ritirata il 21 aprile 2008. Le società espongono, quindi, le modalità del conferimento ad Intesa San Paolo s.p.a. del ruolo di advisor, allo scopo di elaborare un piano e di individuare i soggetti interessati all’acquisizione; esaminano alcuni profili relativi agli asseriti rapporti della predetta con AirOne s.p.a. e CAI ed indicano che, alla fine del mese di luglio del 2008, l’advisor aveva presentato un programma di acquisizione e di gestione (c.d. Piano Fenice), sostenendo che il d.l. n. 134 del 2008 sarebbe stato emanato per rendere applicabile nella specie l’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi e permettere al Commissario straordinario di vendere l’azienda in tempi brevissimi, a trattativa privata, introducendo, altresì, una deroga ai poteri dell’Autorità. Le parti ripercorrono le modalità della sottoposizione delle società del gruppo Alitalia alla procedura di amministrazione straordinaria, della modifica dello statuto e dell’oggetto sociale di CAI e della formulazione da parte di quest’ultima di un’offerta di acquisto; a loro avviso, sarebbe indubbio che essa era la «Fenice», che doveva emergere dalle ceneri di Alitalia. Inoltre, dette società pongono in dubbio il possesso da parte del soggetto designato quale esperto per la valutazione di mercato di Alitalia del requisito dell’indipendenza e riassumono gli eventi successivi che, tra l’altro, sarebbero stati caratterizzati: dal ritiro da parte di CAI della propria offerta; dalla pubblicazione da parte del Commissario straordinario dell’Alitalia dell’invito a presentare manifestazioni d’interesse per l’acquisto di uno o più rami d’azienda di quest’ultima e delle imprese cont rollate; dalla manifestazione di «gioia» da parte di detto Commissario, all’atto della conferma da parte di CAI della propria offerta, in data 25 settembre 2008, per una conclusione che evitava di «mettere a terra gli aerei» (risultato conseguito senza che fossero state intavolate trattative con altri potenziali acquirenti, tra questi le ricorrenti); dall’offerta vincolante di CAI in data 31 ottobre 2008; dal deposito della perizia sul valore dei beni e dalla offerta di acquisto di CAI sino al perfezionamento della vendita. 5.1.– Entrambe le società contestano le eccezioni di inammissibilità sollevate dalle altri parti del giudizio e dall’interveniente, osservando che CAI avrebbe svolto argomenti a sostegno dell’inammissibilità della questione proposta nel diverso giudizio introdotto da Federconsumatori. Secondo le parti, il TAR ha dichiarato infondati tutti i motivi dei ricorsi non concernenti l’illegittimità costituzionale del citato art. 4, comma 4-quinquies, proprio allo scopo di potere ritenere rilevante la sollevata questione. Inoltre, contestano che la disposizione censurata conterrebbe tre norme, di diverso contenuto precettivo, come eccepito da CAI, sostenendo che essa recherebbe, invece, un unico precetto, avente ad oggetto l’attribuzione all’Autorità del potere di stabilire misure comportamentali e la sottrazione alla medesima del controllo previsto dalla legge n. 287 del 1990. 5.1.1.– L’eccezione di inammissibilità della questione, motivata con la considerazione che il rimettente avrebbe chiesto la pronuncia di una sentenza «sostitutiva», sarebbe infondata, poiché non terrebbe conto del petitum formulato dal TAR, mentre l’incidenza della norma sullo svolgimento di un servizio pubblico essenziale neppure potrebbe essere causa di inammissibilità della questione. Del pari infondata sarebbe l’eccezione di inammissibilità della questione per difetto di incidentalità, dato che il TAR avrebbe correttamente deciso gli altri motivi, proprio al fine di ritenere la questione rilevante. Meridiana fly s.p.a. e Meridiana s.p.a. contestano, infine, l’eccezione di difetto di motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza della questione, argomentata con la considerazione che il TAR non avrebbe chiarito «se, in caso positivo perché, la delibera dell’Autorità impugnata nel giudizio principale dovrebbe essere annullata» e neppure indicato che i vizi del provvedimento deriverebbero dalla norma censurata. A loro avviso, i rimettenti non erano tenuti a motivare sul punto e l’inidoneità del provvedimento impugnato allo scopo di garantire la concorrenza risulterebbe dalla circostanza che esso, nell’osservanza del citato art. 4, comma 4-quinquies, stabilisce esclusivamente misure comportamentali, irrilevanti rispetto alla tutela della concorrenza, con la conseguenza che ogni valutazione al riguardo da parte dei rimettenti sarebbe stata superflua. Inoltre, il TAR ha anche precisato che l’accoglimento del la questione influirebbe sull’eventuale annullamento del provvedimento dell’Autorità. 5.2.– Nel merito, secondo le parti, l’operazione di concentrazione in esame avrebbe determinato un monopolio di fatto sulle linee di navigazione aeree più importanti e redditizie del nostro Paese (in particolare, sulla tratta Roma-Linate), in danno delle imprese concorrenti, costrette a subire il rafforzamento delle posizioni dell’operatore dominante sulle tratte economicamente più interessanti, dato che non sono stati ceduti slot, come sarebbe accaduto, qualora fosse stata applicata la legge n. 287 del 1990. A loro avviso, la disposizione censurata costituirebbe una «norma-provvedimento», carattere confortato dai lavori preparatori, dalle notizie di stampa, dalle circostanze che essa era diretta «a consentire un’operazione concreta e specifica» e che il d.l. n. 134 del 2008 è stato emanato pochi giorni dopo che era maturata la proposta della «cordata CAI», nonché dalla limitazione temporale che impedirebbe di applicarla ad altri casi. Meridiana fly s.p.a. e Meridiana s.p.a., richiamando la giurisprudenza di questa Corte, alcuni orientamenti della dottrina, e facendo generico riferimento alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo ed al Trattato dell’Unione europea, svolgono diffuse argomentazioni per sostenere che le leggi-provvedimento, benché non siano ex se illegittime, sarebbero soggette ad uno scrutinio stretto di legittimità costituzionale. Nella specie, assumerebbe rilievo la circostanza che la legge n. 287 del 1990, non solo per l’espresso richiamo dell’art. 41 Cost., stabilisce una disciplina essenziale a garanzia della libertà dell’iniziativa economica privata, è collocata in un quadro regolamentato a tutela della concorrenza quale «interesse costituzionalmente protetto» ed attribuisce all’Autorità il controllo delle operazioni di concentrazione, allo scopo di scongiurare l’eliminazione o la riduzione della concorrenza in modo sostanziale e durevole. 5.2.1.– In relazione alle censure riferite all’art. 41 Cost., secondo le parti, la giurisprudenza costituzionale e la dottrina avrebbero affermato che la tutela della concorrenza ha copertura costituzionale, soprattutto dopo la modifica dell’art. 117 Cost. La negativa incidenza della norma censurata sulla concorrenza sarebbe dimostrata dalle considerazioni che con essa: è stata posta nel nulla la disciplina della legge n. 287 del 1990, attuativa dell’art. 41 Cost.; è stata determinata una situazione di mercato in grado di assicurare extraprofitti ad un’impresa egemone; è stata accreditata una nozione di «monopolio utile», quale strumento dirigistico, strumentale a realizzare finalità non chiare; sarebbe stata violata la disciplina dell’Unione europea, dato che il regolamento 20 gennaio 2004, n. 139 (Regolamento del Consiglio relativo al controllo delle concentrazioni tra imprese – «Regolamento comu nitario sulle concentrazioni») riconosce che le concentrazioni possono avere effetti positivi, ma richiede l’esistenza di uno strumento specifico in grado di garantire un controllo efficace. Entrambe le società approfondiscono le ragioni della pretesa inidoneità delle misure comportamentali contenute nel provvedimento dell’Autorità a garantire la tutela della concorrenza, deducendo che non sarebbe comprensibile come la norma censurata possa tutelare l’utilità sociale. In ogni caso, il legislatore avrebbe dovuto fornire una adeguata giustificazione in ordine a detto profilo, spettando a questa Corte «l’identificazione del fine sociale e della riferibilità ad esso di programmi e controlli» (sentenze n. 196 del 1998 e n. 63 del 1991). A loro avviso, anche ritenendo sussistenti ragioni di utilità sociale, questa Corte dovrebbe accertare se la norma abbia realizzato un intervento ragionevole e proporzionato, come non sarebbe accaduto. Infatti, pur reputando la deroga in esame preordinata a realizzare un obiettivo di pubblico interesse, in assenza di ogni indicazione nella disposizione censurata, non si comprenderebbe perché, a detto fine, sarebbe stato necessario garantire un monopolio per tre anni. Un onere correlato al servizio pubblico può, inoltre, sussistere in relazione ad alcune tratte svantaggiate (quali quelle che assicurano i collegamenti con le isole), non a quella tra gli aeroporti di Milano-Linate e Roma-Fiumicino. Infine, qualora l’obiettivo avuto di mira fosse stato quello di garantire la promozione di un «campione nazionale», in nome di preminenti interessi generali, avrebbe dovuto essere utilizzato lo strumento dell’art. 25 della legge n. 287 del 1 990, ovvero dell’art. 8, comma 2, della stessa legge. La constatazione che la disciplina prevista da detta legge prevede la possibilità di deroghe conforterebbe che l’operazione di concentrazione in esame, in violazione degli obblighi assunti in seno all’Unione europea, sarebbe stata preordinata a «creare un campione nazionale, consegnandogli per tre anni» il monopolio assoluto del mercato. Secondo le parti, la volontà del legislatore di «assicurare il “salvataggio” di Alitalia (e di AirOne) attraverso la concentrazione proposta da CAI» non sarebbe sufficiente a far escludere la violazione degli artt. 3 e 41 Cost. La legge n. 287 del 1990 prevede la possibilità di autorizzare un’operazione di concentrazione pregiudizievole della concorrenza, nei casi e nei modi dalla stessa stabiliti; nondimeno, non potrebbero essere autorizzate le concentrazioni che comportano «la eliminazione della concorrenza dal mercato o restrizioni alla concorrenza non strettamente giustificate dagli interessi generali». Inoltre, all’Autorità spetta il potere di prescrivere le misure necessarie per ristabilire le «condizioni di piena concorrenza entro un termine prefissato» e questo limite costituirebbe la condizione di compatibilità con l’art. 41 Cost. del potere eccezionale di autorizzare concentrazioni pregiudizievoli de lla concorrenza. A loro avviso, il potere previsto dall’art. 25 della legge n. 287 del 1990 neppure avrebbe reso ammissibile l’operazione di concentrazione in esame e, per tale ragione, ne sarebbe stata esclusa l’applicabilità, in pregiudizio delle ragioni della concorrenza e del mercato. 5.2.2.– La norma censurata avrebbe permesso la concentrazione dei due maggiori vettori aerei nazionali, incrementandone la posizione di dominio, in danno delle imprese concorrenti, che non hanno avuto accesso agli slot più importanti, senza alcuna considerazione per la tutela della concorrenza ed in violazione dell’art. 3 Cost., anche in quanto le società alienate sono state liberate dai debiti pregressi. La lesione dei parametri costituzionali evocati dal TAR sarebbe stata determinata dall’esigenza di salvaguardare «preminenti interessi nazionali», che la disposizione si limita a menzionare. Il rilievo attribuito alle vicende aziendali di Alitalia ed AirOne non giustificherebbe la mancata considerazione dei riflessi della concentrazione sulle aziende concorrenti e, quindi, sarebbe mancato un corretto bilanciamento tra gli interessi della «cordata CAI» e «le posizioni qualificate degli altri operatori». Peraltro, la considerazione che il requisito della motivazione non concerne gli atti legislativi non escluderebbe che detti interessi debbano essere esplicitati e debba risultare l’avvenuto apprezzamento e bilanciamento di tutti quelli in gioco, come non sarebbe accaduto. In definitiva, concludono le parti, la sorte del trasporto aereo in Italia avrebbe potuto essere salvaguardata mediante misure rispettose della tutela del mercato e dei parametri costituzionali evocati dai rimettenti, anche dando applicazione all’art. 25 della legge n. 287 del 1990. 6.– Nei tre giudizi si è costituita CAI, in persona del legale rappresentante, parte dei processi principali, chiedendo, con argomentazioni sostanzialmente identiche nei distinti atti di costituzione e nelle memorie depositate in prossimità dell’udienza pubblica, che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile e, comunque, manifestamente infondata. 6.1.– La parte sintetizza anzitutto le vicende di Alitalia sino alle date di ammissione alla procedura di amministrazione straordinaria e di dichiarazione dello stato di insolvenza, la modalità della proposta di acquisto di alcuni beni e rapporti giuridici, le linee essenziali del progetto industriale alla base di tale acquisto ed il contenuto del provvedimento impugnato nei giudizi principali. Posta questa premessa, CAI deduce che il TAR avrebbe «sbrigativamente» rigettato un’eccezione di inammissibilità, con la quale era stato contestato l’interesse di Federconsumatori a censurare l’atto impugnato (la deduzione è svolta anche negli atti riguardanti i giudizi non introdotti da quest’ultima parte). Il rimettente ha, infatti, affermato che il citato art. 4, comma 4-quinquies, dispone che «le misure comportamentali sono preordinate alla tutela dei consumatori» ed ha precisato che Federconsumatori, in relazione a ques te, «non ha proposto alcuna censura», ritenendola, tuttavia, legittimata ad agire in giudizio. Secondo CAI, il giudice a quo non si sarebbe avveduto che l’interesse che avrebbe potuto legittimare Federconsumatori sarebbe stato soltanto quello dei consumatori e che la ricorrente non ha censurato le misure comportamentali. L’operazione di concentrazione costituiva un dato di mero fatto e avrebbe potuto avere giuridico rilievo, in relazione all’interesse a ricorrere, soltanto qualora Federconsumatori avesse dedotto che nessuna misura comportamentale avrebbe potuto evitare il rischio di pregiudizi da parte dei consumatori, non essendo identificabile un astratto interesse di questi ultimi a contestare direttamente l’operazione di concentrazione. Le uniche norme di interesse della ricorrente sarebbero, quindi, quelle a tutela dei consumatori e la questione di costituzionalità concernente la norma relativa all’an della concentrazione sarebbe irrilevante. Siffatta conclusione si imporrebbe anche in quanto Federconsumatori, ne l giudizio principale, avrebbe contestato l’operazione di concentrazione, proponendo un ricorso direttamente rivolto contro le norme di legge che l’autorizzavano. Nelle memorie, CAI ha insistito nella deduzione, svolta in tutti i giudizi, secondo la quale, la questione è stata sollevata dopo il rigetto di tutti gli altri motivi e, quindi, costituirebbe l’unico oggetto dei processi principali, con conseguente carenza del requisito dell’incidentalità, risultando le fattispecie identiche a quella decisa dalla sentenza n. 38 del 2009, della quale riporta ampi brani. 6.1.1.– Secondo la parte, la questione sarebbe, altresì, inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza, in considerazione sia del rigetto di tutti i motivi dei ricorsi, sia del fatto che l’eventuale annullamento della norma censurata «si rifletterebbe inevitabilmente sulla legittimità» del provvedimento impugnato. A suo avviso, «la facoltizzazione dell’operazione di integrazione» rinverrebbe fondamento anche in norme ulteriori e la disposizione che i rimettenti dovrebbero applicare non coinciderebbe con quella censurata. Pertanto, nei giudizi principali «si discute di una norma diversa» da quest’ultima, come sarebbe dimostrato dal fatto che lo stesso TAR, «non sapendo come qualificare il rapporto tra la norma censurata e il giudizio a quo, opina che quella norma sia stata “postulata” (in una con l’operazione di integrazione) dal provvedimento» impugnato, prefigurando una relazione insufficiente ai fini della rilevanza della questione. Nelle memorie CAI ha insistito in tale eccezione, deducendo che i rimettenti non si sarebbero avveduti che il citato art. 4, comma 4-quinquies, conterrebbe una pluralità di norme e non avrebbero precisato quale di essa hanno inteso censurare. 6.1.2.– Secondo la parte, la questione sarebbe inammissibile anche in quanto i rimettenti avrebbero chiesto una pronuncia di tipo sostitutivo, deducendo che la norma censurata non «spiegherebbe» quale sia l’interesse costituzionalmente rilevante perseguito, ritenendo a questo fine insufficiente l’indicazione, contenuta nella premessa del d.l. n. 134 del 2008, in ordine all’esigenza di evitare l’interruzione dei servizi forniti dalle società operanti nei settori dei servizi pubblici essenziali, e prospettando che neppure sarebbe comprensibile la ragione del conseguimento di un tale risultato mediante una disposizione discriminatoria delle imprese concorrenti. A suo avviso, il TAR sarebbe incorso in una palese contraddittorietà: da un lato, avrebbe riconosciuto la pregevolezza del fine perseguito (la continuità dei servizi pubblici essenziali); dall’altro, avrebbe negato «che il legislatore ne abbia spiegato la sostanza». Indipendentemente da ogni considerazione in ordine alla configurabilità dell’obbligo della motivazione di un atto legislativo, sarebbe chiaro che i rimettenti non avrebbero censurato 1’an del perseguimento di un fine da essi stessi giudicato pregevole, ma il quomodo, richiedendo in tal modo una pronuncia additiva o sostitutiva, senza indicare il contenuto dell’auspicata sostituzione e senza dimostrare che quella chiesta è una soluzione costituzionalmente obbligata. Ritenendo, invece, che il TAR abbia chiesto una pronuncia demolitoria, la questione sarebbe egualmente inammissibile, poiché il suo eventuale accoglimento comprometterebbe l’interesse generale alla continuità dei servizi essenziali, evidenziato dagli stessi giudici a quibus. 6.2.– Nel merito, CAI contesta il carattere di «norma-provvedimento» della disposizione censurata, che i rimettenti hanno desunto dalla circostanza che il decreto-legge nel quale è inserita sarebbe «comunemente noto» come «decreto Alitalia», senza avvedersi che le acquisizioni del linguaggio giornalistico non possono essere recepite, «acriticamente, dall’operatore del diritto». Siffatta disposizione riguarda, invece, tutte, indistintamente, le «imprese operanti nel settore dei servizi pubblici essenziali», quindi, recherebbe una norma generale ed astratta, non rilevando, in contrario, che concerne solo dette imprese, essendo sufficiente la sua riferibilità a tutte le fattispecie connotate da determinate caratteristiche oggettive o soggettive, mentre la occasio legis non influirebbe sulla ratio legis. Peraltro, la norma non avrebbe autorizzato ex lege una concentrazione, ma si sarebbe limitata a disciplinare i poteri dell’Autorità in modo diverso da quello ordinariamente previsto dalla legge n. 287 del 1990; gli effetti contestati sarebbero stati prodotti dalla «intermediazione del provvedimento amministrativo», tant’è «che la stessa Alitalia-Cai ha avuto modo di dolersi innanzi al giudice amministrativo delle concrete misure adottate». Secondo la parte, in un momento di grave crisi economico-finanziaria, il legislatore, nell’esercizio della propria discrezionalità, ragionevolmente apprezzando il pubblico interesse, avrebbe stabilito per determinate operazioni di concentrazione, coinvolgenti rilevanti compendi industriali ed occupazionali, una disciplina in parte differente da quella prevista dalla legge n. 287 del 1990, senza fare venire meno l’intermediazione del procedimento e del provvedimento amministrativo. Il riferimento ai lavori parlamentari sarebbe inconferente ed erroneo, poiché essi evidenzierebbero il carattere generale ed astratto della norma (sono richiamati gli interventi di alcuni senatori e le dichiarazioni del Ministro dello sviluppo economico rese nel corso dei lavori congiunti delle Commissioni VIII e X° del Senato, nella seduta del 23 settembre 2008), dimostrando che «la vicenda di Alitalia è soltanto una tra le realtà interessate dalla regolamentazione in esame», al punto che nel corso dei lavori preparatori sarebbe stata stigmatizzata «la pericolosità di un provvedimento del genere che pur essendo stato concepito per l’Alitalia, ha un carattere generale» (intervento del senatore Teresa Armato). 6.3.– Ad avviso di CAI, secondo la giurisprudenza costituzionale, il legislatore ordinario può emanare «norme-provvedimento», soggette ad uno scrutinio stretto di costituzionalità; quindi, qualora fosse fondata la tesi del TAR, occorrerebbe identificare le «particolari situazioni di interesse generale» che giustificano la norma e che, ad avviso dei rimettenti, non risulterebbero indicate. Quest’ultima conclusione sarebbe, da un canto, erronea, in quanto le ordinanze di rimessione hanno evocato un inesistente principio di motivazione degli atti legislativi; dall’altra, sarebbe viziata da contraddittorietà, poiché lo stesso TAR ha riconosciuto «l’oggettiva ed assoluta rilevanza della continuità dei servizi pubblici essenziali» e, quindi, non si comprenderebbe perché questa ragione sia inidonea ad integrare l’interesse generale di cui è stata eccepita la carenza. L’interpretazione della norma censurata fornita dalle ricorrenti nei giudizi principali, secondo la quale essa avrebbe inteso garantire la «continuità dei gruppi Alitalia-AirOne», non considera che l’esigenza tutelata è stata quella di assicurare lo svolgimento di servizi pubblici essenziali. In ogni caso, i rimettenti non avrebbero considerato che l’intervento del legislatore ordinario sarebbe stato reso necessario dalla grave situazione economica, suffragata dai rilievi svolti dalla Banca d’Italia, contenuti nel bollettino del 15 aprile 2008, n. 52, in ordine alla crisi dell’economia mondiale, in generale, e dell’Italia, in particolare, divenuti più allarmanti nelle considerazioni svolte nel bollettino del 15 luglio 2008, n. 53, confortate dai risultati della Relazione generale sulla situazione economica del Paese nel 2008 del Ministero dell’economia e delle finanze, presentata ai sensi dell’art icolo unico della legge 21 agosto 1949, n. 639 (Relazione annua al Parlamento sulla situazione economica del paese), nonché dal rapporto annuale dell’Istat per il 2008. In presenza di univoci indici di una grave crisi economico-finanziaria, l’intervento del legislatore ordinario sarebbe stato giustificato dall’esigenza di permettere operazioni strumentali a garantire la salvaguardia ed il rilancio di compendi industriali ed occupazionali strategici per il Paese, anche mediante un adattamento della disciplina ordinaria delle concentrazioni, nell’osservanza dei principi di ragionevolezza e proporzionalità. Secondo CAI, il TAR avrebbe erroneamente prospettato il difetto di un ragionevole bilanciamento degli interessi in gioco, dato che: in primo luogo, non avrebbe indicato quale avrebbe dovuto essere siffatto bilanciamento, ciò che evidenzierebbe una ulteriore ragione di inammissibilità della questione; in secondo luogo, avrebbe contraddittoriamente eccepito il difetto di tale corretto bilanciamento e l’inesistenza di un interesse di rango costituzionale tutelato dalla norma in esame. Ad avviso della parte, il citato art. 4, comma 4-quinquies, avrebbe, invece, realizzato un ragionevole bilanciamento, in quanto: la procedura a trattativa privata non avrebbe escluso nessun acquirente in possesso dei requisiti di legge; la deroga è stata temporalmente limitata sino al 30 giugno 2009, in coincidenza con la fase prevedibilmente più acuta della crisi finanziaria ed economica; la disciplina ordinaria è stata mantenuta ferma in riferimento alle intese ed agli abusi di posizione dominante (artt. 2 e 3 della legge n. 287 del 1990) ed alle norme comunitarie. Peraltro, la disciplina censurata avrebbe una limitata incidenza, alla luce della transitoria sospensione dei soli rimedi strutturali, per tre anni, e del potere dell’Autorità di stabilire le misure comportamentali idonee a garantire la tutela dell’interesse dei consumatori. Non si tratterebbe, dunque, di una vera “deroga” della disciplina antitrust, ma di mera sospensione transitoria delle misure strutturali, per permettere operazioni di consolidamento industriale, concernenti la salvaguardia ed il rilancio di cespiti strategici. Secondo la parte, questa valutazione sarebbe confortata dal contenuto del provvedimento impugnato nel giudizio principale, che ha integrato le misure comportamentali proposte dalla notificante, ha previsto una misura sostanzialmente strutturale (il cospicuo riposizionamento di 50 slot dalla rotta Linate-Fiumicino, con possibile apertura di spazi a soggetti terzi), ha prescritto congrue misure a tutela dei consumatori. Inoltre, le misure comportamentali neppure incidono sul potere dell’Autorità di reprimere gli abusi di posizione dominante e le intese anticompetitive; comunque, decorsi tre anni, l’Autorità si è riservata di intervenire, in termini strutturali, sulle posizioni di monopolio ancora eventualmente esistenti. Il TAR ha, infine, ritenuto infondate le censure dirette a prospettare un contrasto della norma censurata con il diritto comunitario, escluso anche dalla Commissione europea, e ciò confermerebbe che la disciplina in esame avrebbe realizzato un parziale e limitato adattamento del regime nazionale di controllo delle concentrazioni, riconducibile alle legittime prerogative del legislatore nazionale. Inoltre, le ordinanze di rimessione avrebbero erroneamente assunto la legge n. 287 del 1990 quale parametro costituzionale interposto, senza considerare che le soluzioni realizzate da detta legge non sono costituzionalmente vincolate e che la norma censurata è giustificata da una specifica contingenza economica ed ha natura transitoria. 6.4.– Ad avviso della parte, l’art. 3 Cost. sarebbe stato evocato in modo oscuro e incerto, con modalità che evidenzierebbero l’inammissibilità della questione per insufficiente motivazione in ordine alla non manifesta infondatezza; comunque, il TAR non avrebbe chiarito in cosa si sostanzierebbe la disparità di trattamento in danno delle imprese concorrenti, emergendo in tal modo l’infondatezza della censura riferita all’art. 3 Cost. Infine, secondo CAI, assumerebbe rilievo che la deroga della disciplina a tutela della concorrenza, in presenza di interessi pubblici rilevanti, è prevista anche in altri ordinamenti (ad esempio, in Germania), ed è contemplata dalla stessa legge n. 287 del 1990. Il richiamo operato dalle ricorrenti al pregiudizio dell’affidamento degli altri operatori del settore sarebbe irrilevante, sia perché l’argomento non è stato svolto dai rimettenti, sia perch 3; la pretesa al mantenimento delle regole preesistenti non costituirebbe un affidamento tutelabile. Da ultimo, il TAR, nel prospettare il pregiudizio in danno dei consumatori, avrebbe del tutto trascurato la previsione delle misure comportamentali contenuta nel citato art. 4, comma 4-quinquies. 7.– Nei primi due giudizi si è costituito il Commissario straordinario di Alitalia-Linee Aeree Italiane s.p.a., in amministrazione straordinaria (di seguito, Commissario), intervenuto anche nel terzo, chiedendo, nei distinti atti, che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile o manifestamente infondata, sviluppando gli argomenti a conforto di detta conclusione nelle memorie, di contenuto in larga misura coincidente, depositate in prossimità dell’udienza pubblica. 7.1.– Il Commissario eccepisce l’inammissibilità della questione, per difetto del requisito dell’incidentalità, osservando che il TAR ha ritenuto infondati tutti i motivi dei ricorsi principali, dichiarando inammissibile il ricorso incidentale condizionato (proposto nei primi due giudizi), con la conseguenza che i processi principali hanno quale unico, residuo petitum la questione di costituzionalità, che sarebbe, quindi, inammissibile, configurandosi detti giudizi come una sorta di impugnazione diretta della legge. I rimettenti hanno, inoltre, dedotto che l’accoglimento della questione influirebbe sulla legittimità del provvedimento impugnato, che «ha applicato la norma di legge della cui costituzionalità si dubita, postulando l’avvenuta realizzazione dell’operazione di concentrazione», con argomentazione inidonea a giustificare la rilevanza della questione. Non sarebbe, infatti, comprensibile come l’eventuale accoglimento della questione possa influire sul provvedimento impugnato, avente ad oggetto le misure comportamentali finalizzate alla tutela dei consumatori, con conseguente difetto di motivazione in ordine al nesso di pregiudizialità tra processo principale e giudizio di legittimità costituzionale. Sotto un ulteriore profilo, la questione sarebbe inammissibile, in quanto il TAR non avrebbe adempiuto l’onere di sperimentare un’interpretazione adeguatrice della norma censurata e, comunque, avrebbe evocato gli artt. 3 e 41 Cost. in modo confuso ed eterogeneo, senza chiarire in cosa consisterebbe l’eccepita disparità di trattamento e per quale ragione gli imprenditori concorrenti sarebbero stati discriminati. 7.2.– Nel merito, secondo il Commissario, il citato art. 4, comma 4-quinquies, non costituirebbe una «norma-provvedimento», ma disciplinerebbe una fattispecie generale ed astratta, configurazione non esclusa dalla circostanza che è stata applicata in un solo caso. La disposizione recherebbe una norma «di portata generale la cui ratio deve essere individuata nella volontà del legislatore di procedere alla risoluzione della crisi attraversata da alcuni grandi gruppi industriali operanti nei settori dei servizi pubblici essenziali, e ciò nel rispetto delle esigenze dei risparmiatori e dei lavoratori e favorendo altresì il rilancio delle realtà aziendali interessate attraverso il contemperamento di tutti gli interessi pubblici coinvolti». Il TAR, con motivazione contraddittoria, ha affermato che la norma dà conto della rilevanza della continuità dei servizi pubblici essenziali, ma non avrebbe chiarito quali siano i preminenti interessi generali che, all’esito del bilanciamento dei valori in gioco, potrebbero «giustificare la deroga operata al principio costituzionale della par condicio ed al valore costituzionalmente rilevante della libertà di concorrenza». Ad avviso del Commissario, la considerazione che la norma ha modificato il d.l. n. 347 del 2003, concernente l’amministrazione straordinaria applicabile alle grandi imprese con almeno cinquecento dipendenti, dimostrerebbe, da sola, l’intento di salvaguardare numerosi posti di lavoro. Il legislatore ordinario, nell’osservanza dei canoni di ragionevolezza e proporzionalità, avrebbe stabilito una disciplina volta ad evitare la disgregazione di grandi gruppi industriali (strategici per il nostro sistema paese), salvaguardando il livello occupazionale, in coincidenza con la fase grave della crisi finanziaria globale. La mancata realizzazione di tale intervento avrebbe determinato una situazione gravissima dal punto di vista occupazionale e la disgregazione di assets industriali fondamentali per il sistema economico del Paese. La deroga stabilita dalla norma sarebbe stata strumentale rispetto allo scopo di garantire la continuità del servizio pubblico del trasporto aereo ad opera di un vettore in grado di svolgerlo in modo completo e libero da esigenze di vario genere, che ne avrebbero potuto condizionare l’esercizio. Nell’eventualità che il servizio pubblico essenziale di trasporto aereo fosse stato svolto da una serie di piccoli vettori, ciascuno soggetto a proprie e specifiche esigenze e scelte di politica industriale, alcune rotte, economicamente non convenienti, avrebbero, infatti, potuto essere cancellate ed il costo dei relativi biglietti avrebbe potuto lievitare, in danno dei consumatori. La ragionevolezza e la proporzionalità della disciplina censurata sarebbero confortate dalla considerazione che la deroga non si pone in contrasto con le norme comunitarie, è temporalmente limitata e concerne le sole concentrazioni realizzate entro il 30 giugno 2009, e cioè è stata prevista per un tempo limitato, coincidente con la fase più acuta della recente crisi economica, così da fare escludere che la concorrenza sia stata pregiudicata in modo sostanziale e durevole. D’altronde, la disciplina in esame, al fine di garantire la tutela dei consumatori, prevede il potere dell’Autorità di stabilire idonee misure comportamentali, mantenendo «inalterati i rimedi volti a evitare un vulnus alla ratio della medesima norma derogata» e la Commissione europea avrebbe ritenuto che essa non viola i principi ispiratori ed i valori essenziali di riferimento del sistema comunitario antitrust. Infine, conclude il Commissario, sarebbe irrilevante la mancata, espressa indicazione della ragioni della norma, in difetto di un obbligo di motivazione degli atti legislativi. 8.– In tutti e tre i giudizi è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo, negli atti di intervento e nelle memorie depositate in prossimità dell’udienza pubblica, che la questione sia dichiarata inammissibile, ovvero manifestamente infondata. 8.1.– L’interveniente, nei distinti atti depositati in relazione ai tre giudizi, di contenuto sostanzialmente identico, eccepisce l’inammissibilità della questione, per difetto di motivazione sulla rilevanza, ritenendo insufficiente l’indicazione contenuta nelle ordinanze di rimessione, secondo la quale l’accoglimento della questione comporterebbe l’annullamento del provvedimento impugnato. A suo avviso, il TAR avrebbe dovuto dimostrare che, in difetto della norma censurata, la concentrazione, valutata secondo il procedimento previsto dalla legge n. 287 del 1990, non avrebbe superato il controllo da questa previsto e sarebbe stata vietata. I rimettenti non avrebbero, inoltre, considerato che la concentrazione «ha modificato la titolarità soggettiva» degli slot, «ma non ne ha accresciuto il numero, e quindi non ha inciso sugli equilibri di mercato; la posizione concorrenziale degli operatori “minori”, quali le ricorrenti Meridiana ed Eurofly, è rimasta immutata, perché non è diminuito il numero dei loro diritti di volo sulle medesime tratte» e le predette neppure hanno «dedotto che l’incremento globale di fatturato», conseguente alla concentrazione, è tale da permettere economie di scala in grado di consentire «riduzioni tariffarie irraggiungibili dai ricorrenti». La concentrazione non sarebbe stata, infine, resa possibile dal citato art. 4, comma 4-quinquies, ma dalla procedura di vendita prevista dal comma 4-quater di tale norma, quindi la questione sarebbe stata «mal posta». 8.2.– Nel merito, secondo l’interveniente, l’applicabilità della norma censurata a tutte le «imprese di cui all’articolo 2, comma 2, secondo periodo», ne escluderebbe il carattere di «norma-provvedimento», non rilevando, in contrario, la limitazione temporale alle operazioni effettuate entro il 30 giugno 2009, introdotta per «rendere l’intervento normativo strettamente limitato alle necessità della particolare situazione economica in atto al momento della sua adozione e, quindi, proporzionato» a tale scopo. D’altronde, la legge di conversione è stata pubblicata il 27 ottobre 2008 ed a tale data non sarebbe stato possibile individuare le operazioni di concentrazione concluse entro il 30 giugno 2009. In ogni caso, il TAR avrebbe inesattamente sostenuto che la norma censurata doveva contenere una specifica motivazione a conforto della disciplina dalla stessa stabilita, dato che gli interessi tutelati e la ratio della disposizione vanno desunti dalla disciplina, anche attraverso l’interpretazione sistematica. In riferimento alla censura di violazione del principio di eguaglianza, la considerazione che la norma in esame riguarda soltanto le grandi imprese, le quali svolgono servizi pubblici essenziali, e sono in amministrazione straordinaria, renderebbe palese che il legislatore ordinario poteva stabilire una disciplina speciale per un determinato settore, ferma l’osservanza del principio di ragionevolezza, che non sarebbe stato leso. Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, l’art. 25 della legge n. 287 del 1990 consentirebbe particolari operazioni di concentrazione e, nella specie, è stato «soltanto disposto per legge, con efficacia temporalmente limitata a circa 10 mesi, che le concentrazioni interessanti le imprese di servizi pubblici essenziali in amministrazione straordinaria “rispondono a preminenti interessi generali”». Peraltro, deroghe analoghe a quella in esame sarebbero previste anche dalle norme comunitarie (art. 21, paragrafo 4, del Regolamento CE n. 139 del 2004), quindi, sarebbero possibili da parte degli Stati membri dell’Unione europea. Il citato art. 4, comma 4-quinquies, neanche esclude ogni controllo dell’Autorità ed avrebbe disciplinato un’autorizzazione che può contenere misure comportamentali, anche molto penetranti, mantenendo fermo il potere di detta Autorità, decorso un termine dilatorio, di disporre misure strutturali, per eliminare eventuali situazioni di monopolio. Inoltre, costituirebbe una mera illazione del TAR la considerazione che il decorso di detto termine renderebbe intangibili le eventuali posizioni di monopolio determinate dalla norma in questione. Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, la disciplina in esame sarebbe in armonia con le norme di settore e con le disposizioni comunitarie ed avrebbe introdotto una regolamentazione specifica per un settore peculiare in un periodo di crisi economica mondiale, per garantire la continuità dei servizi pubblici essenziali, a tutela dei diritti fondamentali dei cittadini. In ordine alla censura riferita all’art. 41 Cost., secondo l’interveniente, nei settori dei servizi pubblici essenziali esistono situazioni di posizione dominante che le concentrazioni possono rafforzare, e ciò sarebbe presupposto dalla norma censurata, la quale, altrimenti, sarebbe del tutto superflua; nondimeno, tale constatazione non potrebbe «costituire di per sé un motivo di illegittimità costituzionale». Il TAR non avrebbe, inoltre, esplicitato le ragioni dell’inadeguatezza delle misure comportamentali prescritte dall’Autorità, né chiarito «se, e in caso positivo perché, ritiene che la delibera dell’Autorità impugnata nel giudizio principale dovrebbe essere annullata», omettendo anche di indicare quali siano gli ipotetici vizi del provvedimento, con conseguente irrilevanza della questione. L’errore che vizierebbe la tesi dei rimettenti risiederebbe nella configurazione della disciplina degli artt. 5, 6 e 16 della legge n. 287 del 1990 come l’unica in grado di attuare e tutelare la concorrenza. Ed invece, conclude l’interveniente, la disciplina comunitaria dimostrerebbe l’esigenza di bilanciare i differenti interessi in gioco, non sussistendo neppure il divieto di rafforzare le posizioni dominanti attraverso le concentrazioni, in quanto è vietato soltanto che i soggetti titolari di una tale pos izione operino «in modo da eliminare o ridurre in modo sostanziale e durevole la concorrenza» (art. 6, comma 1, della legge n. 287 del 1990; art. 2, paragrafo 3, del Regolamento CE n. 139 del 2004). 9.– All’udienza pubblica le parti e l’interveniente hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni svolte negli atti difensivi. Considerato in diritto 1.– Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con tre ordinanze, emesse nel corso di altrettanti giudizi, ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 41 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 10, del decreto-legge 28 agosto 2008, n. 134 (Disposizioni urgenti in materia di ristrutturazione di grandi imprese in crisi), convertito, con modificazioni, dalla legge 27 ottobre 2008, n. 166, nella parte in cui ha introdotto il comma 4-quinquies nell’articolo 4 del decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347 (Misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39 (recte: ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 4, comma 4-quinquies, del decreto-legge n. 347 del 2003, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 39 del 2004, introdotto dall’art. 1, comma 10, del decreto-legge. n. 134 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 166 del 2008). 1.1.– Il citato art. 4, comma 4-quinquies, stabilisce che le operazioni di concentrazione concluse dalle imprese sottoposte ad amministrazione straordinaria, che operano nel settore dei servizi pubblici essenziali, connesse o contestuali o comunque previste nel programma debitamente autorizzato, ai sensi dell’art. 4, comma 2, del d.l. n. 347 del 2003, convertito dalla legge n. 39 del 2004, ovvero nel provvedimento di autorizzazione di cui all’art. 5, comma 1, di detto decreto-legge, rispondono a preminenti interessi generali e sono escluse dalla necessità dell’autorizzazione di cui alla legge 10 ottobre 1990, n. 287 (Norme per la tutela della concorrenza e del mercato), fermo quanto previsto dagli articoli 2 e 3 della stessa legge. La norma dispone, inoltre, che, fatto salvo quanto previsto dalla normativa comunitaria, qualora dette operazioni di concentrazione rientrino nella competenza dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato (d’ora in poi, Autorità), le parti sono, comunque, tenute a notificarle preventivamente a questa, unitamente alla proposta di misure comportamentali idonee a prevenire il rischio di imposizione di prezzi o altre condizioni contrattuali ingiustificatamente gravose per i consumatori in conseguenza dell’operazione. L’Autorità, con propria deliberazione adottata entro trenta giorni dalla comunicazione dell’operazione, prescrive le suddette misure, con le modificazioni ed integrazioni ritenute necessarie, fissando il termine, comunque non inferiore a tre anni, entro il quale le posizioni di monopolio eventualmente determinatesi devono cessare. La disposizione prevede, infine, che, in caso di inottemperanza, si applicano le sanzioni di cui all’articolo 19 della legge n. 287 del 1990 e che essa è riferibile alle operazioni di concentrazione effettuate entro il 30 giugno 2009. 1.2.– Le ordinanze, con argomentazioni in larga misura coincidenti, premettono che il citato art. 4, comma 4-quinquies, costituirebbe una «norma-provvedimento», come tale soggetta ad uno scrutinio stretto di costituzionalità, in relazione ai principi di ragionevolezza e non arbitrarietà. Secondo i rimettenti, la disposizione violerebbe siffatti principi, ponendosi in contrasto con gli artt. 3 e 41 Cost., in quanto avrebbe introdotto, per l’operazione di concentrazione oggetto dei giudizi principali, una deroga del procedimento di controllo stabilito dalla legge n. 287 del 1990, che sarebbe irragionevole, perché non coerente con la disciplina della concorrenza stabilita dall’art. 41 Cost., e lesiva della libertà di concorrenza e della parità di trattamento tra imprese concorrenti. La norma avrebbe, infatti, reso possibile che un «unico vettore» offra «servizi di trasporto aereo passeggeri di linea su numerose tratte», consentendo una forte riduzione su altre della «presenza di operatori concorrenti, con poche eccezioni» e permettendo che un unico vettore possa «gestire una rete di collegamenti capillare su tutto il territorio nazionale, detenendo sui singoli collegamenti posizioni di assoluto rilievo». Siffatti parametri sarebbero vulnerati anche in quanto la posizione di monopolio eventualmente determinata dalla concentrazione è destinata a durare per almeno tre anni, in danno delle imprese concorrenti, senza che siano stati esplicitati gli interessi che la norma mira a realizzare. A questo fine sarebbero, infatti, insufficienti l’indicazione che le operazioni di concentrazione oggetto della disposizione «rispondono a preminenti interessi generali» e la considerazione, contenuta nella premessa del decreto-legge n. 134 del 2008, in ordine alla «importanza che i servizi forniti dalle società operanti nei settori dei servizi pubblici essenziali non subiscano interruzioni», in mancanza di chiarimenti sulle ragioni dell’impossibilità di tutelare detti interessi con modalità diverse, rispettose dei principi di eguaglianza e di tutela della concorrenza. Il TAR richiama, quindi, la regolamentazione stabilita dalla legge n. 287 del 1990 quale parametro di controllo della ragionevolezza della norma censurata, dato che la prima, sebbene si autoqualifichi come di attuazione dell’art. 41 Cost., costituisce pur sempre una legge ordinaria e non reca l’unica possibile disciplina attuativa di tale parametro, con la conseguenza che la deroga della medesima, di per sé sola, non può comportare violazione degli artt. 3 e 41 Cost. 2.– I giudizi, avendo ad oggetto la medesima norma, censurata in riferimento agli stessi parametri costituzionali, sotto gli stessi profili e con argomentazioni sostanzialmente coincidenti, pongono un’identica questione di legittimità costituzionale e, quindi, vanno riuniti e decisi con un’unica sentenza. 3.– Alitalia-Linee Aeree Italiane s.p.a., in amministrazione straordinaria (di seguito, Commissario), non è parte del processo principale in cui è stata pronunciata l’ordinanza di rimessione iscritta nel r.o. n. 225 del 2009, in quanto non è stata in esso convenuta, né vi ha spiegato intervento. Pertanto, l’intervento di tale società, in persona del Commissario straordinario, nel giudizio di legittimità costituzionale introdotto da detta ordinanza è inammissibile, dato che, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, in linea generale, possono partecipare al medesimo (oltre al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale) solo le parti del giudizio principale (sentenze n. 47 del 2008 e n. 314 del 2007). La costituzione di detta società nei giudizi introdotti dalle ordinanze r.o. n. 223 e n. 224 del 2009 è, invece, ammissibile, in quanto, sebbene non costituita nei processi principali, in questi è soggetto controinteressato, poiché il ricorso dinanzi al Tribunale amministrativo rimettente è stato proposto anche nei suoi confronti. Secondo la giurisprudenza costituzionale, sono infatti «parti in causa», cui va notificata l’ordinanza di rimessione, «tutti i soggetti fra i quali è in corso il giudizio principale», «restando ininfluente se la parte si sia costituita» (v. ordinanze n. 377 e n. 13 del 2006). Dunque, dovendo l’ordinanza di rimessione essere notificata a tali «parti in causa», ai fini dell’integrazione del contraddittorio, è conseguentemente ammissibile la costituzione del Commissario in detti giudizi. 4.– In linea preliminare, devono essere esaminate le eccezioni di inammissibilità delle questioni, proposte da Alitalia-Compagnia Aerea Italiana s.p.a. (infra: CAI), dal Commissario e dall’interveniente. 4.1.– Secondo CAI, le questioni sarebbero anzitutto inammissibili per difetto di motivazione sulla rilevanza, in quanto il citato art. 4, comma 4-quinquies, conterrebbe una pluralità di norme ed i rimettenti non avrebbero precisato quale di esse abbiano inteso censurare e neppure svolto argomenti per dimostrare che i parametri costituzionali sarebbero lesi dalla norma che ha autorizzato la concentrazione, anziché da quella concernente le misure comportamentali. Il TAR avrebbe, inoltre, ritenuto la norma in questione «postulata» dall’Autorità nell’adottare il provvedimento impugnato, evocando un’implicazione logica insufficiente ai fini della rilevanza della questione, senza neppure considerare che l’operazione di concentrazione in esame rinverrebbe fondamento in norme ulteriori. In particolare, secondo l’Avvocatura generale dello Stato, detta operazione sarebbe stata resa possibile dalla procedura di vendita disciplinata dall’art. 4, comma 4-quater, del d.l. n. 347 del 2003, convertito dalla legge n. 39 del 2004, quindi la questione sarebbe stata «mal posta». Ad avviso del Commissario, i rimettenti non avrebbero, poi, chiarito come l’eventuale dichiarazione di illegittimità della norma censurata possa influire sul provvedimento impugnato. Secondo CAI, l’ordinanza r.o. n. 225 del 2009 ha ritenuto le misure comportamentali oggetto del provvedimento impugnato strumentali alla tutela dell’interesse dei consumatori e, benché abbia affermato che in relazione alle medesime Federconsumatori «non ha proposto alcuna censura», avrebbe, contraddittoriamente, affermato l’interesse della ricorrente «a mettere in discussione la legittimità della stessa operazione di concentrazione». Inoltre, il giudice a quo non avrebbe considerato che Federconsumatori poteva agire a tutela dell’interesse dei consumatori e, tuttavia, non ha censurato le misure comportamentali; l’operazione di concentrazione costituiva un dato di mero fatto e avrebbe potuto avere giuridico rilievo soltanto se la ricorrente avesse dedotto che nessuna misura comportamentale poteva garantire detto interesse, non sussistendone uno astratto dei consumatori a contestare direttamente tale operazione, con cons eguente irrilevanza della questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la norma concernente l’an della concentrazione. L’Avvocatura generale dello Stato, ha, invece, eccepito il difetto di motivazione sulla rilevanza, anche sostenendo che la concentrazione «ha modificato la titolarità soggettiva» degli slot, «ma non ne ha accresciuto il numero, quindi, non ha inciso sugli equilibri di mercato». Inoltre, a suo avviso, i rimettenti avrebbero dovuto dimostrare che la concentrazione, in difetto della norma impugnata, non avrebbe superato il controllo esercitato ai sensi della legge n. 287 del 1990. Secondo CAI ed il Commissario, la questione sarebbe, infine, inammissibile anche per difetto del requisito dell’incidentalità, poiché il rigetto delle censure concernenti i vizi propri dell’atto impugnato e l’inammissibilità dei ricorsi incidentali condizionati avrebbero comportato che unico e residuo petitum dei giudizi principali sarebbe la questione di legittimità costituzionale; in relazione a tale profilo, le fattispecie sarebbero omologhe a quella decisa da questa Corte con la sentenza n. 38 del 2009. 4.2.– Le eccezioni non sono fondate. Le ordinanze di rimessione r.o. n. 223 e n. 224 del 2009, con motivazione sostanzialmente identica, hanno diffusamente esposto le ragioni della titolarità da parte delle ricorrenti «di una posizione di interesse legittimo e cioè di una posizione qualificata e differenziata», osservando che ognuna è «concorrente delle imprese che hanno posto in essere l’operazione di concentrazione». In particolare, hanno chiarito perché tale posizione non sussista in relazione alle misure comportamentali e sia, invece, configurabile in riferimento alle censure concernenti «la legittimità della stessa operazione di concentrazione» «presupposta dal provvedimento», sottolineando che la disciplina in materia di concentrazioni è stabilita «anche e soprattutto a tutela della libertà di concorrenza tra le imprese». I rimettenti hanno, infine, osservato che una diversa soluzione condurrebbe alla «paradossale e non accettabile conclusione che, a fronte di un’operazione di concentrazione disposta dalla legge in “deroga” alla normale disciplina in materia, le imprese concorrenti sarebbero prive di ogni forma di tutela giurisdizionale». Secondo l’ordinanza r.o. n. 225 del 2009, la circostanza che Federconsumatori ha messo in discussione «la legittimità della stessa operazione di concentrazione», «presupposta dal provvedimento», è sufficiente a far ritenere sussistente l’interesse ad agire, poiché la disciplina in materia di concorrenza «è dettata anche a tutela dei consumatori», non rilevando, in contrario, la mancata formulazione di specifiche censure in ordine alle misure comportamentali oggetto del provvedimento impugnato. Tutti i giudici a quibus hanno, infine, avuto cura di indicare che l’accoglimento della questione «si rifletterebbe inevitabilmente sulla legittimità dell’impugnato provvedimento». L’ampia motivazione svolta nelle ordinanze di rimessione in ordine a detti profili ed alla rilevanza della questione rende applicabile il principio, secondo il quale il riscontro dell’interesse ad agire e «la verifica della legittimazione delle parti sono rimessi alla valutazione del giudice rimettente, attenendo entrambi alla rilevanza dell’incidente di costituzionalità e non sono suscettibili di riesame ove sorretti da una motivazione non implausibile» (sentenze n. 50 del 2007, n. 173 del 1994, n. 124 del 1968, n. 17 del 1960). Non rientra, infatti, tra i poteri di questa Corte «quello di sindacare, in sede di ammissibilità, la validità dei presupposti di esistenza del giudizio a quo, a meno che questi non risultino manifestamente e incontrovertibilmente carenti» (sentenza n. 62 del 1992) ed essendo sufficiente che, come accaduto nella specie, l’ordinanza di rimessione argomenti non implausibilmente la rilevanza della questione di legittimità costituzionale (tra le più recenti, sentenza n. 34 del 2010). 4.2.1.– In riferimento alle specifiche deduzioni svolte dalle parti, va, anzitutto, osservato che il TAR ha censurato esclusivamente la sottrazione, da parte della norma impugnata, dell’operazione di concentrazione alla regolamentazione prevista dalla legge n. 287 del 1990, senza affatto porre in questione la disciplina dell’amministrazione straordinaria e della procedura di vendita. Il citato art. 4, comma 4-quinquies (che ha appunto ad oggetto siffatta deroga, le modalità del controllo e le misure applicabili alle operazioni di concentrazione nello stesso indicate), è, dunque, la sola norma a venire in rilievo, mentre, ai fini della rilevanza, è sufficiente che la disposizione censurata incida sulla decisione del giudizio principale, costituendo ininfluente questione di fatto la concreta possibilità delle parti di giovarsi degli effetti della decisione (sentenza n. 241 del 2008). L’ulteriore argomento dell’interveniente, concernente l’idoneità della modificazione della titolarità soggettiva degli slot ad incidere sulla concorrenza, indipendentemente da ogni considerazione in ordine alla sua fondatezza, concerne il merito, non la rilevanza della questione. 4.2.2.– Il requisito dell’incidentalità ricorre, poi, quando la questione investe una disposizione avente forza di legge, che il rimettente deve applicare, quale passaggio obbligato ai fini della risoluzione della controversia oggetto del processo principale (tra le molte, sentenze n. 151 del 2009 e n. 303 del 2007), e manca, invece, qualora il petitum del giudizio abbia ad oggetto direttamente una norma, in difetto di un atto che ad essa abbia dato applicazione (sentenza n. 84 del 2006; ordinanze n. 17 del 1999 e n. 291 del 1986). Siffatto requisito sussiste, quindi, quando l’annullamento della norma censurata sia imprescindibile per la rimozione del provvedimento che le ha dato applicazione, a sua volta necessaria in relazione alla situazione giuridica fatta valere nel giudizio principale, come accade appunto nel caso delle «leggi o norme-provvedimento» (tale è la disposizione in esame, come si precisa di seguito). Diversamente, sarebbe, infatti, negata «ogni garanzia» ed «ogni controllo» (così sin dalla sentenza n. 59 del 1957), dato che, in riferimento a norme aventi tale carattere, la tutela dei soggetti viene a connotarsi «secondo il regime tipico dell’atto legislativo adottato, trasferendosi dall’ambito della giustizia amministrativa a quello proprio della giustizia costituzionale» (ex plurimis, sentenze n. 241 del 2008, n. 62 del 1993). In definitiva, quando il rapporto che intercorre tra il provvedimento impugnato nel giudizio principale e la norma è di «mera esecuzione» e, nondimeno, l’adozione del primo sia indispensabile per la produzione degli effetti previsti dalla seconda, sussiste l’incidentalità della questione, in virtù di un principio in questi termini enunciato anche dalla sentenza n. 38 del 2009, non pertinentemente richiamata a conforto dell’eccezione di inammissibilità. 5.– Secondo CAI, le questioni sarebbero inammissibili anche in quanto i rimettenti avrebbero chiesto una pronuncia di tipo sostitutivo, omettendo di indicare una soluzione costituzionalmente obbligata. Inoltre, il TAR avrebbe contraddittoriamente riconosciuto la rilevanza dell’interesse tutelato dal citato art. 4, comma 4-quinquies, (identificato in quello di garantire la continuità di un servizio pubblico essenziale) e negato che «il legislatore ne abbia spiegato la sostanza». Peraltro, a suo avviso, qualora si ritenga che i rimettenti abbiano chiesto una pronuncia di mero annullamento della norma, le questioni sarebbero egualmente inammissibili, poiché il loro eventuale accoglimento comprometterebbe detto interesse, ritenuto meritevole di tutela dallo stesso TAR. L’eccezione non è fondata. I giudici a quibus deducono che la norma censurata avrebbe «sottratto» all’Autorità «il compito di svolgere il procedimento di cui alla legge n. 287 del 1990» e, in buona sostanza, sostengono che l’accoglimento della questione renderebbe applicabile la disciplina prevista da detta legge. Pertanto, non hanno chiesto nessuna addizione ed il petitum consiste nella richiesta di annullamento della norma, mentre il giudizio di prevalenza dell’interesse dalla stessa tutelato rispetto agli altri interessi in gioco attiene al merito, non all’ammissibilità della questione. 6.– Il Commissario ha, infine, eccepito l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale (eccezione esaminabile in riferimento ai giudizi introdotti dalle ordinanze r.o. n. 223 e n. 224 del 2009), a causa della mancata sperimentazione dell’interpretazione adeguatrice e del difetto di motivazione sulla non manifesta infondatezza. A suo avviso, e secondo CAI, il TAR avrebbe, inoltre, evocato gli artt. 3 e 41 Cost. in modo confuso ed eterogeneo, senza chiarire in cosa consisterebbe la dedotta disparità di trattamento, facendo riferimento talora alla ragionevolezza, talaltra alla libertà di concorrenza, talaltra, ancora, alla parità di trattamento. Anche questa eccezione non è fondata. Relativamente al primo profilo, è sufficiente osservare che la formulazione lessicale della disposizione non permette un’interpretazione diversa da quella fornita dai rimettenti (ritenuta lesiva degli artt. 3 e 41 Cost.). In ordine al secondo profilo, va sottolineato che le ordinanze di rimessione hanno svolto ampie argomentazioni a conforto delle censure e l’eccezione ne pone in discussione la fondatezza e la congruità, con osservazioni concernenti il merito, non l’ammissibilità della questione. 7.– Nel merito, la questione non è fondata. 7.1.– La disposizione censurata è contenuta in un atto normativo che, per quanto qui interessa, ha modificato la procedura di amministrazione straordinaria preordinata a garantire la gestione delle crisi di imprese di grandissime dimensioni, introdotta dal decreto-legge n. 347 del 2003, convertito dalla legge n. 39 del 2004. Il d.l. n. 347 del 2003, in particolare, dispone che alla procedura possa darsi corso, tra l’altro, quando si intenda realizzare il risanamento dell’impresa, anche mediante un piano di cessione dei complessi aziendali inserito all’interno di un programma finalizzato ad assicurare la prosecuzione dell’esercizio dell’impresa in crisi, nonché nel caso in cui il riequilibrio sia perseguito mediante la cessione di semplici complessi di beni e contratti, regolando le modalità di tale cessione. L’operazione di concentrazione oggetto del provvedimento impugnato nei giudizi principali è relativa all’acquisizione di alcuni rami d’azienda di società sottoposte ad amministrazione straordinaria e di altre società; e consiste precisamente «nell’acquisizione […] di taluni beni e rapporti giuridici» di un gruppo di società in amministrazione straordinaria e «del controllo esclusivo delle società» facenti parte di un altro gruppo (così, la premessa ed il paragrafo 4 di detto provvedimento). Le modifiche della disciplina dell’amministrazione straordinaria e le modalità della cessione dei beni, tuttavia, non vengono in rilievo, dato che non sono state prese in considerazione dai giudici rimettenti, i quali hanno censurato esclusivamente la regolamentazione del controllo della concentrazione, in riferimento alla disciplina antitrust, stabilita dal citato art. 4, comma 4-quinquies, dubitando della legittimità costituzionale di questa sola norma. 7.2.– Il primo profilo rilevante ai fini della decisione concerne la qualificazione della disposizione censurata come «norma-provvedimento», che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, va affermata quando essa «incide su un numero determinato e molto limitato di destinatari ed ha contenuto particolare e concreto» (sentenze n. 267 del 2007, n. 2 del 1997), anche in quanto ispirata da particolari esigenze (sentenza n. 429 del 2002). Nella specie, più elementi depongono nel senso della natura provvedimentale del citato art. 4, comma 4-quinquies. In primo luogo, la norma è stata inserita da un decreto-legge composto da cinque disposizioni (l’ultima si limita a stabilire l’immediata efficacia dell’atto normativo), una delle quali reca un’altra norma concernente, significativamente, soltanto Alitalia-Linee Aeree Italiane s.p.a., Alitalia Servizi s.p.a. e le società da queste controllate (art. 3, comma 1). In secondo luogo, il limite temporale della norma censurata, unitamente alle condizioni di applicabilità della medesima, l’hanno resa applicabile, in sostanza, alla sola operazione di concentrazione oggetto dei giudizi principali. In terzo luogo, il rilievo di detta norma nella definizione della citata vicenda, nonché la coincidenza temporale tra approvazione, entrata in vigore della medesima e perfezionamento della concentrazione cost ituiscono indici sintomatici della riferibilità della disposizione soltanto a quella fattispecie. D’altra parte, il riferimento costante, nel corso dei lavori preparatori, alla concentrazione oggetto dei giudizi principali, indipendentemente dalle divergenti valutazioni offerte in ordine all’opportunità della scelta operata, alla luce del ristretto orizzonte temporale della norma e dei presupposti della deroga, ne conferma il carattere provvedimentale. La natura di «norma-provvedimento» del citato art. 4, comma 4-quinquies, tuttavia, da sola, non incide sulla legittimità della disposizione. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, la legge ordinaria può, infatti, attrarre nella propria sfera di disciplina oggetti o materie normalmente affidati all’autorità amministrativa (tra le più recenti, sentenza n. 137 del 2009, n. 288 del 2008 e n. 267 del 2007) e tale carattere comporta soltanto che in detta ipotesi la legge deve osservare, per quanto qui interessa, limiti generali, in breve il principio di ragionevolezza e non arbitrarietà, ed è soggetta ad uno scrutinio stretto di costituzionalità (alle pronunce sopra richiamate, adde sentenze n. 429 del 2002, n. 185 del 1998, n. 153 e n. 2 del 1997). La legittimità di questo tipo di leggi va, in particolare, «valutata in relazione al loro specifico contenuto» (sentenze n. 137 del 2009, n. 267 del 2007 e n. 492 del 1995) e devono risultare i criteri che ispirano le scelte con esse realizzate, nonché le relative modalità di attuazione (sentenza n. 137 del 2009). Peraltro, poiché la motivazione non inerisce agli atti legislativi (sentenza n. 12 del 2006), è sufficiente che detti criteri, gli interessi oggetto di tutela e la ratio della norma siano desumibili dalla norma stessa, anche in via interpretativa, in base agli ordinari strumenti ermeneutici, fermo restando che il sindacato di questa Corte sulla eventuale irragionevolezza della scelta compiuta dal legislatore «non può spingersi fino a considerare la consistenza degli elementi di fatto posti a base della scelta medesima» (sentenze n. 347 del 1995 e n. 66 del 1992). 8.– La norma è censurata nella parte in cui, autorizzando l’operazione di concentrazione oggetto dei giudizi principali in deroga al procedimento prescritto dalla legge n. 287 del 1990, determinerebbe una compressione della libertà di concorrenza in assenza di ragionevoli giustificazioni e per ciò stesso violerebbe gli artt. 3 e 41 della Costituzione. I parametri evocati dal TAR esigono di ricordare che questa Corte, nelle più risalenti pronunce concernenti l’art. 41 Cost., ha sottolineato che la «libertà di concorrenza» costituisce manifestazione della libertà d’iniziativa economica privata, che, ai sensi del secondo e del terzo comma di tale disposizione, è suscettibile di limitazioni giustificate da ragioni di «utilità sociale» e da «fini sociali» (sentenze n. 46 del 1963 e n. 97 del 1969). In seguito, è stata offerta una nozione più ampia della garanzia della libertà di concorrenza ed è stato osservato, in primo luogo, che essa ha «una duplice finalità: da un lato, integra la libertà di iniziativa economica che spetta nella stessa misura a tutti gli imprenditori e, dall’altro, è diretta alla protezione della collettività, in quanto l’esistenza di una pluralità di imprenditori, in concorrenza tra loro, giova a migliorare la qualità dei prodotti e a contenerne i prezzi» (sentenza n. 223 del 1982); in secondo luogo, che la concorrenza costituisce un «valore basilare della libertà di iniziativa economica […] funzionale alla protezione degli interessi dei consumatori» (sentenza n. 241 del 1990). Emerge in questa lettura dell’art. 41 Cost., particolarmente del primo comma, lo stretto collegamento logico-sistematico con l’art. 3 della Costituzione. Le più recenti decisioni di questa Corte, dopo la modifica dell’art. 117 Cost. ad opera della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) e la previsione della «tutela della concorrenza» come materia attribuita alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, hanno posto in luce che la nozione interna di concorrenza riflette «quella posta dall’ordinamento comunitario» (sentenze n. 45 del 2010, n. 430 del 2007 e n. 12 del 2004). In particolare, si è rilevato che detta locuzione «comprende, tra l’altro, interventi regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali: le misure legislative di tutela in senso proprio, che hanno ad oggetto gli atti ed i comportamenti delle imprese che influiscono negativamente sull’assetto concorrenziale dei mercati e ne disciplinano le modalità di controllo, eventualmente anche di sanzione; le misure legislative di promozione, che mirano ad aprire un mercato o a consolidarne l’apertura, eliminando barriere all’entrata, riducendo o eliminando vincoli al libero esplicarsi della capacità imprenditoriale e della competizione tra imprese, in generale i vincoli alle modalità di esercizio delle attività economiche. In tale maniera, vengono perseguite finalità di ampliamento dell’area di libera scelta sia dei cittadini, sia delle imprese, queste ultime anche quali fruitrici, a loro volta, di beni e di servizi» (sentenze n. 430 e n. 401 del 2007). «Si tratta, in altri termini, dell’aspetto più precisamente di promozione della concorrenza, che è una delle leve della politica economica del Paese» (sentenze n. 80 del 2006, n. 242 del 2005, n. 175 del 2005 e n. 272 del 2004). A detta materia sono state, quindi, ricondotte, ad esempio, le misure volte a evitare che un operatore estenda la propria posizione dominante in altri mercati (sentenz a n. 326 del 2008), ovvero a scongiurare «pratiche abusive a danno dei consumatori» (sentenza n. 51 del 2008), oppure a garantire la piena apertura del mercato (sentenza n. 320 del 2008), non quelle che «lo riducono o lo eliminano» (sentenza n. 430 del 2007; analogamente, sentenze n. 63 del 2008 e n. 431 del 2007). 8.1.– Nell’interpretare le clausole generali «utilità sociale» e «fini sociali» contenute nell’art. 41, secondo e terzo comma, Cost., questa Corte, sin dalle pronunce più risalenti, ha affermato che le ragioni ad esse riconducibili «non devono necessariamente risultare da esplicite dichiarazioni del legislatore» (sentenza n. 46 del 1963, ove sono richiamate le sentenze n. 5 e n. 54 del 1962), assumendo in seguito come «principio ripetutamente affermato» quello secondo il quale il giudizio in ordine «all’utilità sociale alla quale la Costituzione condiziona la possibilità di incidere sui diritti dell’iniziativa economica privata concerne solo la rilevabilità di un intento legislativo di perseguire quel fine e la generica idoneità dei mezzi predisposti per raggiungerlo» (sentenze n. 63 del 1991, n. 388 del 1992 e n. 446 del 1988). La successiva giurisprudenza ha confermato che le esigenze di «utilit 24; sociale» devono essere bilanciate con la concorrenza (sentenza n. 386 del 1996; analogamente, sentenza n. 241 del 1990) e va qui ribadita la necessità che l’individuazione delle medesime «non appaia arbitraria» e che esse non siano perseguite dal legislatore mediante misure palesemente incongrue (sentenza n. 548 del 1990; nello stesso senso, sentenze n. 152 del 2010 e n. 167 del 2009), assumendo rilievo in tale valutazione anche il «carattere temporalmente limitato della disciplina» che le prevede (sentenza n. 94 del 2009). La necessità che dette misure siano ragionevoli e non realizzino una ingiustificata disparità di trattamento rende chiara la correlazione, ancora una volta, tra gli artt. 3 e 41 Cost. Alle clausole generali in esame sono stati ricondotti anche interessi qualificati in vario modo e collegati alla sfera economica, quali, in particolare, quelli attinenti alla esigenza di protezione di una data produzione (sentenza n. 20 del 1980), ovvero a quella «di salvaguardare l’equilibrio di mercato tra domanda ed offerta» in un determinato settore (sentenza n. 63 del 1991), oppure strumentali a garantire i valori della concorrenzialità e competitività delle imprese (sentenza n. 439 del 1991), o anche «l’esigenza di interesse generale di riconoscimento e valorizzazione del ruolo» di imprese di determinate dimensioni (sentenza n. 64 del 2007). In definitiva, è stato rilevato, nella sostanza, che la sfera di autonomia privata e la concorrenza non ricevono «dall’ordinamento una protezione assoluta» e possono, quindi, subire le limitazioni ed essere sottoposte al coordinamento necessario «a consentire il soddisfacimento cont estuale di una pluralità di interessi costituzionalmente rilevanti» (sentenza n. 279 del 2006, ordinanza n. 162 del 2009). 8.2.– Nonostante, peraltro, il ricordato rilievo dato in qualche occasione al bilanciamento tra utilità sociale e concorrenza, la giurisprudenza di questa Corte ha affrontato solo indirettamente il rapporto tra concorrenza e regolazione generale e il profilo dell’equilibrio tra l’esigenza di apertura del mercato e di garanzia dell’assetto concorrenziale rispetto alle condotte degli attori del mercato stesso, cioè imprese e consumatori, da una parte; e, dall’altra, la tutela degli interessi diversi, di rango costituzionale, individuati nell’art. 41, secondo e terzo comma, Cost., che possono venire in rilievo e la tutela dei quali richiede un bilanciamento con la concorrenza. Eppure, è chiaro che il parametro costituzionale in esame, stabilendo che l’iniziativa economica privata non può svolgersi in contrasto con «l’utilità sociale» ed in modo da recare danno alla sicurezza, alla libert&# 224; ed alla dignità umana, e prevedendo che l’attività economica pubblica e privata può essere indirizzata e coordinata a «fini sociali», consente una regolazione strumentale a garantire la tutela anche di interessi diversi rispetto a quelli correlati all’assetto concorrenziale del mercato garantito. Beninteso, la dovuta coerenza con l’ordinamento comunitario, in particolare con il principio che «il mercato interno ai sensi dell’art. 3 del Trattato sull’Unione europea comprende un sistema che assicura che la concorrenza non sia falsata» (Protocollo n. 27 sul mercato interno e la concorrenza, allegato al Trattato di Lisbona entrato in vigore il 1° dicembre 2009, che conferma l’art. 3, lettera g, del Trattato CE), comporta il carattere derogatorio e per ciò stesso eccezionale di questa regolazione. In altri termini, occorre che siffatto intervento del legislatore costituisca la sola misura in grado di garantire al giusto la tutela di quegli interessi. I criteri utilizzati normalmente nella valutazione antitrust di una operazione di concentrazione sono, infatti, collegati, direttamente o indirettamente, al fine di garantire un assetto concorrenziale del mercato: la considerazione delle quote dalle quali si parte a quelle cui si perviene, la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante, l’ostacolo significativo alla concorrenza, il potenziale pregiudizio per i consumatori, fino al test di efficienza anche interna dell’esito dell’operazione e al rilievo particolare e specifico dell’acquisizione di un’impresa in stato d’insolvenza. È questa, in sintesi, la valutazione spettante ad un’autorità indipendente al fine di autorizzare un’operazione di concentrazione, che il nostro ordinamento giuridico, in virtù della legge 287 del 1990, chiede all’Autorità antitrust e che quest’ultima ha svolto negli ultimi vent’anni. Si tratta di una valutazione che va al di là del controllo ex post sulla condotta delle imprese tipico della funzione di garanzia e, proprio in quanto si esercita ex ante, cioè su un progetto di concentrazione, finisce per avvicinarsi e toccare il confine tra tutela della concorrenza e regolazione del mercato. Ciò nonostante, è pur sempre una valutazione prevalentemente economica, che resta coerente con la natura tecnica e indipendente dell’Autorità, in quanto limitata alla verifica del perseguimento dei cosiddetti obiettivi economici del mercato, in particolare del suo assetto concorrenziale. 8.3.– La valutazione richiesta per le operazioni di concentrazione di dimensione nazionale, qual è quella oggetto dei giudizi principali, come non implausibilmente ritenuto dai rimettenti, è ispirata ai criteri che sovraintendono a quella svolta dalla Commissione europea, Direzione generale concorrenza, delle concentrazioni di dimensione comunitaria. La relativa disciplina è contenuta nel regolamento 20 gennaio 2004, n. 139 (Regolamento del Consiglio relativo al controllo delle concentrazioni tra imprese – «Regolamento comunitario sulle concentrazioni»), completato, per quanto qui soprattutto interessa, dalla Comunicazione della Commissione 5 febbraio 2004, n. 2004/C31/03, recante gli «Orientamenti relativi alla valutazione delle concentrazioni orizzontali a norma del regolamento del Consiglio relativo al controllo delle concentrazioni tra imprese» (infra: Orientamenti). Anche la disciplina del controllo delle concentrazioni di dime nsioni comunitarie contiene criteri di valutazione strumentali a finalizzarla ai cosiddetti obiettivi economici del mercato unico. Il regolamento n. 139 del 2004 consente, in particolare, di apprezzare le eventuali efficienze generate dalle concentrazioni. La valutazione delle concentrazioni tiene conto sia dell’incidenza delle medesime sulle imprese concorrenti, sia della circostanza che, ai fini della dichiarazione di incompatibilità, rileva anche l’idoneità delle stesse a cagionare un danno ai consumatori. Il criterio di valutazione fondato sul test di efficienza «è che i consumatori non devono ritrovarsi in una situazione peggiore a seguito della concentrazione»; «a tal fine, i miglioramenti di efficienza devono essere considerevoli e tempestivi e, in linea di principio, apportare dei vantaggi ai consumatori in quei mercati rilevanti nei quali sarebbero altrimenti probabili problemi sotto il profilo della concorrenza» (Orientamenti, paragrafo 79). Una concentrazione valutata negativamente può, inoltre, essere ritenuta «compatibile con il mercato comune, se una delle imprese partecipanti alla concentrazione versa in stato di crisi», in base ad un apprezzamento condotto sulla scorta di criteri prestabiliti (Orientamenti, paragrafi 89-90). Peraltro, anche anteriormente al regolamento n. 139 del 2004, la circostanza che l’impresa da salvare potesse rischiare altrimenti di uscire dal mercato è stata ritenuta un fattore suscettibile di positiva valutazione. Né è mancato, nella prassi della Commissione, il rilievo che «un’autorizzazione della concentrazione subordinata a condizioni appropriate» può, eventualmente, essere «più favorevole per gli utenti di un deterioramento della struttura del mercato causato dalla potenziale cessazione delle attività» da parte di una determinata impresa, specie quando entrano in gioco interessi rilevanti non riconducibili solo e/o direttamente all’assetto concorrenziale del mercato, come ad esempio il pluralismo dell’informazione (Commissione europea, decisione del 2 aprile 2003, caso COMP/M.2876, Newscorp/Telepiù). Il citato regolamento presuppone, poi, l’esistenza di norme antitrust nazionali, ma non necessariamente di norme che impongono l’autorizzazione preventiva alle concentrazioni. L’art. 21, paragrafo 4, del regolamento n. 139 del 2004 stabilisce, infine, che «gli Stati membri possono adottare opportuni provvedimenti per tutelare legittimi interessi diversi da quelli presi in considerazione» dal medesimo, nei limiti dallo stesso stabiliti e compatibili con i principi del diritto comunitario. Il fatto, poi, che il rispetto di tale limite sia verificato dalla Commissione, e in ultima analisi dal giudice comunitario, non ne esclude l’idoneità ad incidere sull’esito della concentrazione, in quanto il controllo vale solo a distinguere gli interventi a fini protezionistici degli Stati da quelli dovuti ad interessi pubblici legittimi diversi dalla concorrenza (Commissione europea, Relazione sulla politica della concorrenza 2009, del 3 giugno 2010). 8.4.– La rilevanza dei molteplici interessi coinvolti dalle operazioni di concentrazione, ai fini della valutazione delle medesime, risulta anche dalla disciplina stabilita in altri Stati membri dell’Unione europea. In Francia, ad esempio, è prevista la possibilità di sottrarre all’Autorità antitrust il potere di autorizzare una determinata concentrazione, quando entrano in considerazione «motivi di interesse generale diversi dalla protezione della concorrenza», che con questa devono essere bilanciati (l’art. L 430-7-1 II del codice di commercio, come risultante dalla legge 4 agosto 2008, n. 776, prevede il potere del Ministro dell’economia di avocare il caso, in presenza di «motivi di interesse generale» non meglio precisati dalla norma). In Germania è previsto il potere del Ministro dell’economia, all’esito di uno specifico procedimento, di stabilire per le imprese vincoli e condizioni, di autori zzare operazioni di concentrazione in precedenza vietate dall’Autorità di concorrenza; e ciò per ragioni di interesse generale, qualora la limitazione della concorrenza sia «compensata dai vantaggi che si rinvengono per l’economia generale oppure se la concentrazione viene giustificata da un preminente interesse della collettività» (art. 42 GWB, legge sulla concorrenza). Nel Regno Unito, l’Enterprise Act del 2002, sezione 42, prevede il potere di intervento del Segretario di Stato competente per gli Affari e l’Impresa quando ritiene che sulla valutazione della concentrazione possono incidere «considerazioni di pubblico interesse», in particolare nel settore della sicurezza nazionale e dei media. Inoltre, lo stesso Segretario di Stato può aggiungere ulteriori motivi di interesse pubblico anche rispetto ad una specifica concentrazione, con l’approvazione del Parlamento entro 28 giorni (motivo della stabilità del sistema finanziario nazionale, ad esempio, fatto prevalere nel caso dell’ ;acquisizione della Halifax Bank of Scotland da parte della Lloyds TSB nel 2008, sui rischi dell’operazione per la concorrenza). 8.5.– Siffatta possibilità è prevista anche nel nostro ordinamento dall’art. 25 della legge n. 287 del 1990. Tale norma stabilisce che «Il Consiglio dei Ministri, su proposta del Ministro dell’industria, del commercio e dell’artigianato determina in linea generale e preventiva i criteri sulla base dei quali l’Autorità può eccezionalmente autorizzare, per rilevanti interessi generali dell’economia nazionale nell’ambito dell’integrazione europea, operazioni di concentrazione vietate ai sensi dell’art. 6, sempreché esse non comportino la eliminazione della concorrenza dal mercato o restrizioni alla concorrenza non strettamente giustificate dagli interessi generali predetti» e prescrivendo «le misure necessarie per il ristabilimento di condizioni di piena concorrenza entro un termine prefissato». All’interno delle figure tipizzate dal diritto antitrust, le concentrazioni fruiscono, in definitiva, di una disciplina complessivamente più flessibile, vuoi in quanto sottoposte ad un controllo ordinariamente, ma non necessariamente, preventivo, vuoi in quanto possono essere, in alcuni casi eccezionali, suscettibili di una valutazione che può adeguatamente tenere conto dell’esigenza di tutelare preminenti interessi generali diversi da quelli collegati all’obiettivo di garantire un assetto competitivo del mercato. L’attenzione per questi interessi diversi si può tradurre in un potere di valutazione, in sostanza di regolazione generale, comunque non tecnica, demandato normalmente all’autorità politica, eventualmente in aggiunta o in sostituzione dell’Autorità indipendente preposta al controllo antitrust. La funzione di garanzia a questa spettante rimane, beninteso, anche in questa ipotesi inalterata quanto al controllo ex post degli esiti della concentrazione, in particolare rispetto al divieto di abuso di posizione dominante. 9.– Nel quadro di tali principi, alla luce del generale contesto normativo di riferimento, il citato art. 4, comma 4-quinquies, risulta immune dalle censure proposte dai rimettenti. La disciplina del controllo delle concentrazioni stabilita dalla legge n. 287 del 1990, che fa espressa applicazione dell’art. 41 Cost., è caratterizzata dall’attribuzione in via generale all’Autorità del compito di valutare se esse comportino la costituzione o il rafforzamento di una posizione dominante sul mercato nazionale tale da eliminare o ridurre in modo sostanziale e durevole la concorrenza, stabilendo le misure necessarie per porvi rimedio. Inoltre, l’art. 25 della legge n. 287 del 1990 contempla uno specifico meccanismo per tutelare interessi diversi dalla concorrenza. Tale disciplina, tuttavia, non è a contenuto costituzionalmente vincolato. Il legislatore ordinario può, infatti, prevedere la possibilità di autorizzare operazioni di concentrazione in vista del contemperamento con altri interessi costituzionalmente rilevanti, diversi da quelli inerenti all’assetto concorrenziale del mercato. Nel caso in esame, peraltro, il legislatore è intervenuto con una norma-provvedimento, sì che lo scrutinio di ragionevolezza al quale questa va sottoposta richiede di accertare in maniera stringente se siano identificabili interessi in grado di giustificarla, desumibili anche in via interpretativa, e se sia stata realizzata una scelta proporzionata ed adeguata, fermo restando che tale scrutinio di costituzionalità non può spingersi sino a valutare autonomamente gli elementi di fatto posti a base della scelta. Tale verifica ha esito positivo. Il citato art. 4, comma 4-quinquies, indica che le operazioni di concentrazione da esso considerate rispondono «a preminenti interessi generali», con formula che assume concretezza alla luce del contesto nel quale la norma è inserita e dei lavori preparatori. La considerazione che la disposizione è contenuta in un decreto-legge è, anzitutto, sintomatica della necessità di provvedere in via d’urgenza; il riferimento, contenuto nella premessa di tale atto normativo, all’esigenza di modificare la procedura di amministrazione straordinaria per le imprese di grandissime dimensioni, «individuando una specifica disciplina per le grandi imprese operanti nei settori dei servizi pubblici essenziali volta a garantire la continuità nella prestazione di tali servizi», e l’inserimento della medesima nella legge che la regolamenta, fanno, inoltre, emergere le ragioni della scelta. Nella specie occorreva fronteggiare una situazione di gravissima crisi di un’impresa (come dimostra la sottoposizione della medesima all’amministrazione straordinaria), che svolgeva un servizio pubblico essenziale del quale doveva essere garantita la continuità (circostanza, quest’ultima, espressamente condivisa dai rimettenti), peraltro in un settore particolare, notoriamente di importanza strategica per l’economia nazionale, meritevole di distinta considerazione, che esigeva di scongiurare distorsioni ed interruzioni suscettibili di ricadute sistemiche in ulteriori comparti. Il legislatore ordinario ha dunque inteso realizzare un intervento diretto a garantirne la continuità ed a permettere la conservazione del rilevante valore dell’azienda (costituita da una pluralità di beni e rapporti, di varia natura), al fine di scongiurare, in tal modo, anche una grave crisi occupazionale. Di tale obiettivo danno ampio conto i lavori preparatori. Dagli interventi al Senato ed alla Camera, nelle Commissioni ed in Assemblea, risulta, infatti, che è stato continuo il riferimento alla «necessità di un’azione importante ed ampia per il salvataggio dell’Alitalia» e traspare costante il convincimento della ritenuta strumentalità della norma in esame rispetto a tale obiettivo. Emerge univoco l’intento di garantire la continuità del trasporto aereo su tutte le rotte nazionali, anche su quelle economicamente non convenienti, e di evitare la dissoluzione di un’impresa di rilevanti dimensioni e la dispersione del valore aziendale, in vista della tutela dei livelli occupazionali e di esigenze strategiche dell’economia nazionale. Questi interessi, sebbene attengano, prevalentemente, alla sfera economica, per le osservazioni dianzi svolte, ed in considerazione della gravità della congiuntura economica e d ella peculiarità del settore di riferimento, sono riconducibili alle ragioni di «utilità sociale» ed ai «fini sociali» (art. 41 Cost.) che giustificano uno specifico, eccezionale, intervento di regolazione estraneo alla sfera di competenza dell’Autorità indipendente. La considerazione che siffatta scelta, dal punto di vista dell’obiettivo generale perseguito e dello strumento utilizzato, neppure è eccentrica rispetto al contesto normativo di riferimento suffraga, inoltre, l’inesistenza di profili di irragionevolezza. La soluzione privilegiata dalla disposizione in esame può essere iscritta, infatti, nella nuova modalità di approccio alla crisi dell’impresa che caratterizza il nostro ordinamento, alla quale è stata ispirata anche la riforma della legge fallimentare, connotata dal superamento della concezione liquidatoria dell’impresa, in favore di quella diretta alla conservazione del valore dell’azienda, per fini di utilità sociale (tra questi, la tutela del lavoro), conseguibile anche mediante cessioni e concentrazioni. Se, in definitiva, il bilanciamento di una molteplicità di interessi impone una scelta non tipica del controllo antitrust, ma, in sostanza, caratterizzata da una connotazione di politica economica e di regolazione del mercato imposta da una situazione eccezionale, questa scelta non può essere giudicata irragionevole per il solo fatto di essere stata operata mediante un atto legislativo. 10.– Una volta identificati gli interessi generali costituzionalmente rilevanti che, anche alla luce delle peculiarità della fase economica e del servizio pubblico espletato dalle imprese coinvolte nella concentrazione, sono riconducibili alle clausole generali «utilità sociale» e «fini sociali» dell’art. 41, secondo e terzo comma, Cost., la soluzione realizzata per garantirne la tutela resiste al necessario test di proporzionalità al quale va sottoposta. L’esame del contesto generale di riferimento ha, anzitutto, evidenziato che la disciplina rilevante della concorrenza permette di tenere conto di detti interessi e di valorizzarli anche al fine di una particolare conformazione del controllo delle concentrazioni. È poi particolarmente significativo che il citato art. 4, comma 4-quinquies, sebbene abbia introdotto una deroga della disciplina di regola applicabile, in riferimento al potere dell’Autorità di prescrivere misure strutturali e di esercitare i poteri previsti dall’art. 6, comma 2, della legge n. 287 del 1990, ha mantenuto fermi gli artt. 2 e 3 della medesima e, quindi, la possibilità di colpire ex post l’eventuale abuso di posizione dominante che seguisse alla concentrazione. A questo fine, va considerato che l’art. 102 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea è applicabile da parte delle autorità antitrust nazionali anche ad una posizione dominante che consegua ad una concentrazione di dimensione nazionale, ciò che rafforza il potere dell’Autorità di intervenire, comunque, con misure volte ad evitare lo sfruttamento abusivo di una posizione dominante. Il legislatore ordinario ha, altresì, dimostrato attenzione all’interesse dei consumatori (obiettivo, nella specie, di rilievo, alla luce dell’intento di garantire il mantenimento di un servizio di trasporto fondamentale per il nostro Paese, su tutte le rotte), che, come sopra evidenziato, in ogni latitudine costituisce oggetto di specifica considerazione nella disciplina delle concentrazioni. La norma in esame ha, infatti, mantenuto fermo il potere dell’Autorità di stabilire le misure comportamentali idonee a garantire i consumatori, e neppure ha inciso sulla possibilità di esercitare un controllo continuo e di adottarle in tempi diversi, conformandole e modulandole in vario modo, anche temporaneamente, tenendo conto a tal fine dell’evoluzione del mercato e dell’incidenza di questa sugli interessi dei consumatori. Si tratta di un profilo di sicuro rilievo nel giudizio di proporzionalità della misura; per apprezzarne l’importanza, è sufficiente ricordare che la Commissione europea, benché abbia ritenuto che «gli impegni di natura strutturale […] sono in linea di principio preferibili in base allo scopo del regolamento sulle concentrazioni […]», nondimeno, ha precisato che neppure si può «escludere automaticamente la possibilità che anche altri tipi di impegni siano atti a prevenire un ostacolo significativo alla concorrenza effettiva» (paragrafo 15 della comunicazione 22 ottobre 2008 n. 2008/C267/01, recante «Comunicazione della Commissione concernente le misure correttive considerate adeguate a norma del regolamento CE n. 139/2004 del Consiglio e del regolamento CE n. 802/2004 della Commissione»). Il regolamento n. 139 del 2004, come è stato ricordato, stabilisce, poi, quale limite invalicabile di una favorevole valutazione delle concentrazioni, la circostanza che esse non devono comportare «un pregiudizio durevole per la concorrenza». In relazione a questo profilo, il citato art. 4, comma 4-quinquies, ha attribuito all’Autorità il potere di definire «il termine, comunque non inferiore a tre anni, entro il quale le posizioni di monopolio eventualmente determinatesi devono cessare». Il carattere transitorio della deroga del potere dell’Autorità di disporre determinate misure concorre, pertanto, a fare escludere l’irragionevolezza della norma e la violazione degli artt. 3 e 41 della Costituzione. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara inammissibile l’intervento della Alitalia-Linee Aeree Italiane s.p.a., in amministrazione straordinaria, in persona del Commissario straordinario, nel giudizio introdotto dall’ordinanza iscritta nel r.o. n. 225 del 2009; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 4, comma 4-quinquies, del decreto-legge 23 dicembre 2003, n. 347 (Misure urgenti per la ristrutturazione industriale di grandi imprese in stato di insolvenza), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2004, n. 39, introdotto dall’articolo 1, comma 10, del decreto-legge 28 agosto 2008, n. 134 (Disposizioni urgenti in materia di ristrutturazione di grandi imprese in crisi), convertito, con modificazioni, dalla legge 27 ottobre 2008, n. 166, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 41 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio, con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Giuseppe TESAURO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA SENTENZA N. 271 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 1, n. 2 e n. 3, della legge 24 gennaio 1979, n. 18 (Elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia), promossi dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con ordinanze dell’11 (nn. 3 ordinanze), del 14, del 15 dicembre 2009, dell’11 (nn. 2 ordinanze) e del 14 dicembre 2009 rispettivamente iscritte ai nn. 22, 23, 28, 29, 30, 31, 32 e 33 del registro ordinanze 2010 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 6 e 7, prima serie speciale, dell’anno 2010. Visti gli atti di costituzione di Giuseppe Gargani, Pasquale Sommese, Maddalena Calia, Nicola Vendola ed altri, Oliviero Diliberto ed altri, Felice Carlo Besostri ed altri, Salvatore Caronna ed altra, Roberto Gualtieri, Giovanni Collino, Oreste Rossi, Iva Zanicchi, Sonia Viale, del PD – Partito Democratico, della Regione Sardegna, di Sebastiano Sanzarello, della Regione Siciliana, di Gino Trematerra, Giommaria Uggias, dell’IDV – Italia dei Valori, di Giuseppe Arlacchi ed altro nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 6 luglio 2010 il Giudice relatore Sabino Cassese; uditi gli avvocati Mario Sanino e Lorenzo Lentini per Giuseppe Gargani e Pasquale Sommese, Federico Sorrentino e Antonello Rossi per Maddalena Calia, Oreste Morcavallo per Gino Trematerra, Giampaolo Parodi e Luigi Manzi per Sonia Viale, Vincenzo Cerulli Irelli per il PD – Partito Democratico e Roberto Gualtieri, Stelio Mangiameli per Giovanni Collino, Oreste Rossi e Iva Zanicchi, Giuseppe Morbidelli e Paolo Trombetti per Salvatore Caronna, Alessandra Camba per la Regione Sardegna, Giovanni Pitruzzella per la Regione Siciliana, Luca Di Raimondo per Nicola Vendola ed altri, Silvio Crapolicchio per Oliviero Diliberto ed altri, Felice Carlo Besostri per Felice Carlo Besostri, Sergio Scicchitano e Giommaria Uggias per Giommaria Uggias, Sergio Scicchitano per l’IDV – Italia dei Valori e Giuseppe Arlacchi ed altro e l’avvocato dello Stato Sergio Fiorentino per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. – Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione II bis, con tre ordinanze di identico tenore dell’11 dicembre 2009 (r.o. nn. 29 e 30 del 2010) e del 14 dicembre 2009 (r.o. n. 31 del 2010), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 1, n. 2, della legge 24 gennaio 1979, n. 18 (Elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia), in riferimento agli artt. 1, 3, 48, 49, 51 e 97 della Costituzione, e all’art. 11 della Costituzione, in relazione all’art. 10 del Trattato sull’Unione europea, come modificato dal Trattato di Lisbona, e agli artt. 10, 11, 39 e 40 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti «CEDU»). Ad avviso del collegio rimettente, la norma censurata sarebbe illegittima in quanto prevede «la soglia nazionale di sbarramento […] senza stabilire alcun correttivo, anche in sede di riparto dei resti», in particolare «non consentendo anche alle liste escluse dalla soglia di sbarramento di partecipare all’assegnazione dei seggi attribuiti con il meccanismo dei resti», in tal modo privandole del «c.d. diritto di tribuna». 1.1. – Il giudice a quo riferisce che i ricorrenti nei giudizi principali hanno impugnato il verbale delle operazioni dell’Ufficio elettorale centrale nazionale presso la suprema Corte di cassazione, con cui è stato adottato l’atto di proclamazione degli eletti al Parlamento europeo in esito alle elezioni svoltesi in data 6 e 7 giugno 2009, nonché gli atti presupposti, connessi e consequenziali, chiedendone l’annullamento nella parte in cui non sono stati assegnati seggi alle seguenti liste: «Sinistra e Libertà – Federazione dei Verdi» (r.o. nn. 29 e 31 del 2010); «Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea – Partito dei Comunisti italiani» (r.o. nn. 30 e 31 del 2010); «Associazione politica nazionale Lista Pannella»; «La Destra»; «Movimento per le Autonomie»; «Partito Pensionati»; «Alleanza di Centro per la Libertà» (r.o. n. 31 del 2010). I ricorrenti nei giudizi principali hanno altr esì chiesto, secondo quanto riferisce il collegio rimettente, la conseguente proclamazione dei candidati della Lista «Sinistra e Libertà – Federazione dei Verdi», Nicola Vendola (r.o. n. 29 del 2010) e della lista «Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea – Partito dei Comunisti italiani», Oliviero Diliberto (r.o. n. 30 del 2010), in sostituzione dei candidati risultati eletti della lista «Lega Nord», ovvero del candidato della lista «Italia dei Valori – Lista Di Pietro». I ricorrenti nei giudizi principali hanno lamentato, secondo quanto rappresenta il Tribunale rimettente, che alle predette liste «Sinistra e Libertà – Federazione dei Verdi» e «Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea – Partito dei Comunisti italiani», in ragione del mancato raggiungimento della soglia di sbarramento, non siano stati attribuiti seggi, pur avendo alcuni candidati delle medesime liste ottenuto un numero di voti maggiore rispetto ai «resti» che hanno consentito ai candidati di altre liste, le quali hanno superato la soglia di sbarramento, di beneficiare «dei due seggi residuati dopo l’assegnazione dei seggi a quoziente intero». Il collegio rimettente, in particolare, espone che i ricorrenti nel giudizio principale hanno dedotto la falsa applicazione della disposizione contenuta nell’ultimo periodo dell’art. 21, comma 1, n. 2, della legge n. 18 del 1979 («si considerano resti anche le cifre elettorali nazionali delle liste che non hanno raggiunto il quoziente elettorale nazionale»). Questa disposizione, a loro avviso, imporrebbe di considerare come resti, ai fini della attribuzione dei seggi non assegnati a quoziente intero, anche la cifra elettorale nazionale delle liste che non hanno superato la soglia di sbarramento del 4%, di cui all’art. 21, comma 1, n. 1-bis, della legge n. 18 del 1979, in modo da concedere ad esse un «diritto di tribuna». Ove tale interpretazione non fosse accolta, i ricorrenti deducono in via subordinata l’illegittimità costituzionale della norma censurata. Nei giudizi principali si sono costituiti o sono intervenuti i seguenti soggetti: Ministero dell’interno – Ufficio elettorale centrale nazionale e Italia dei Valori (r.o. n. 30 del 2010); Giommaria Uggias, Sonia Viale e Lega Nord per l’Indipendenza della Padania (r.o. nn. 29 e 30 del 2010), Salvatore Caronna, Roberto Gualtieri, Oreste Rossi e Luigi De Magistris (r.o. n. 31 del 2010). 1.2. – Il giudice a quo, innanzitutto, esclude di poter accogliere il ricorso in virtù della prospettata interpretazione dell’art. 21, comma 1, n. 2, ultimo periodo, della legge n. 18 del 1979, in base alla quale tale previsione normativa «consentirebbe anche alle liste escluse dalla soglia di sbarramento di partecipare all’assegnazione dei seggi attribuiti con il meccanismo dei resti». Il collegio rimettente chiarisce infatti che una simile interpretazione poggia su una indebita sovrapposizione fra il concetto di «cifra elettorale nazionale», che è «presupposto previsto, nel minimo del 4%, per l’ammissione al riparto dei seggi» e «quello di quoziente elettorale nazionale», che è invece «frutto di un’elaborazione matematica per l’assegnazione in concreto dei seggi». L’impossibilità di aderire alla interpretazione offerta dai ricorrenti impone al Tribunale rimettente di esaminare le eccezioni di legittimità costituzionale da essi sollevate in via subordinata. Il rimettente, peraltro, esclude anche che la previsione della clausola di sbarramento del 4%, in sé considerata, contrasti con le norme costituzionali o con il diritto comunitario. Tuttavia, il giudice a quo ritiene rilevante, e non manifestamente infondata, la questione di legittimità costituzionale della disciplina censurata, in quanto riferita al «meccanismo che esclude il c.d. diritto di tribuna, non consentendo anche alle liste escluse dalla soglia di sbarramento di partecipare all’assegnazione dei seggi attribuiti con il meccanismo dei resti». In punto di rilevanza, il collegio rimettente osserva che la norma censurata osta all’accoglimento della domanda dei ricorrenti nel giudizio principale, candidati per una lista che non ha superato la soglia di sbarramento, di partecipare con i propri voti alla ripartizione dei «resti». In ordine alla non manifesta infondatezza, ad avviso del rimettente, la disposizione, in primo luogo, violerebbe l’art. 3 Cost. sotto diversi profili. Essa sarebbe manifestamente irragionevole, in quanto consentirebbe alle liste che hanno superato la soglia di sbarramento, «in sede di computo dei resti eccedenti il quorum elettorale intero», di ottenere ulteriori seggi «sulla base di cifre elettorali irragionevolmente ben più modeste […] rispetto a quelle riportate dalle liste che non hanno raggiunto la soglia di sbarramento del 4% e che vengono escluse dalla norma in esame anche dal predetto riparto dei resti». La disposizione sarebbe, poi, non proporzionata rispetto al fine di favorire le aggregazioni politiche, il quale verrebbe già sufficientemente assicurato dalla esclusione delle liste minori ad opera della clausola di sbarramento del 4%. Un «ulteriore profilo di irragionevolezza», infine, risiederebbe nel «denegato accesso al rimb orso delle spese effettuate dai partiti che hanno partecipato con proprie liste alla competizione elettorale, ma che non hanno raggiunto il quorum, in quanto ciò appare suscettibile di determinare una possibile disparità di trattamento fra i diversi attori politici». In secondo luogo, la disciplina censurata, ad avviso del giudice a quo, sarebbe illegittima in quanto «porrebbe radicalmente nel nulla la volontà popolare di una più o meno ampia platea di elettori», rispetto ad essi interrompendo il «filo democratico» che unisce insieme i diversi momenti in cui si articola l’esercizio della sovranità popolare (art. 1 Cost.): il diritto di associarsi in partiti politici al fine di concorrere a determinare la politica nazionale (art. 49 Cost.); il diritto di concorrere direttamente all’elezione dei parlamentari (art. 48 Cost.); il principio secondo cui ciascun parlamentare esercita i suoi poteri rappresentando l’intera Nazione e non una limitata cerchia di elettori (art. 67 Cost.). In terzo luogo, la norma impugnata violerebbe l’art. 11 Cost., in relazione sia all’art. 10 del Trattato sull’Unione europea, come modificato dal Trattato di Lisbona, secondo cui «il funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa» e «ogni cittadino ha diritto di partecipare alla vita democratica dell’Unione», sia agli artt. 10, 11, 39 e 40 della CEDU [recte: della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione europea], che sanciscono «il diritto di ciascun individuo di manifestare le proprie convinzioni e di godere dell’elettorato attivo e passivo per il Parlamento europeo» e «non possono non porsi anche a fondamento della necessità di rappresentanza degli elettori comunitari nel Parlamento europeo». 1.4. – È intervenuto, in tutti i giudizi, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate manifestamente inammissibili o, comunque, manifestamente infondate. Secondo la difesa dello Stato, la questione sarebbe inammissibile, innanzitutto, per la «evidente perplessità e contraddittorietà delle censure» prospettate dal giudice rimettente, il quale, da un lato, «riconosce la compatibilità con la Costituzione della clausola di sbarramento» e, dall’altro lato, «solleva questioni attinenti alla legittimità del sistema di attribuzione dei seggi che non potrebbero essere accolte senza mettere in discussione la stabilità di quella scelta legislativa», dal momento che la clausola di sbarramento «sarebbe inevitabilmente superata» ove si consentisse anche alla liste che non l’hanno raggiunta di concorrere alla assegnazione dei seggi non attribuiti in base ai quozienti interi. Costituisce ulteriore ragione di inammissibilità, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, la «manifesta irragionevolezza dell’intervento additivo» richiesto. Il riconoscimento di un diritto di tribuna alle liste che non hanno superato lo sbarramento risulterebbe infatti affidato, nella prospettiva fatta propria dal giudice a quo, a circostanze accidentali: esso dipenderebbe, secondo la difesa dello Stato, dalla duplice circostanza che residuino seggi da assegnare dopo il riparto effettuato in base ai quozienti interi e che i voti ottenuti dalla lista che non ha superato la soglia di sbarramento siano maggiori dei resti rimasti a disposizione della lista che la ha superata. Nel merito, la difesa dello Stato richiama la giurisprudenza di questa Corte secondo cui l’eguaglianza del voto non è compromessa se, in virtù del sistema elettorale prefigurato dal legislatore, «i suffragi espressi da taluni elettori non concorrono, in concreto, all’attribuzione di seggi» ed aggiunge che la previsione di un quorum funzionale per l’attribuzione dei seggi non comporta che coloro che hanno votato per liste che non raggiungono il quorum restano privi di rappresentanza politica, ma significa solo che tale rappresentanza «è costituita […] sulla base della prevalente aggregazione dell’opinione politica degli elettori». 1.5. – Si sono costituiti in giudizio i ricorrenti nei giudizi principali, chiedendo che questa Corte dichiari l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata. In prossimità dell’udienza, i ricorrenti hanno depositato memorie illustrative, ribadendo e sviluppando quanto affermato nei rispettivi atti di costituzione e insistendo per l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale 1.6. – Si sono altresì costituiti in giudizio, chiedendo che la questione di legittimità costituzionale sia dichiarata inammissibile o infondata, alcuni soggetti controinteressati nei giudizi principali (Giommaria Uggias, Oreste Rossi, Roberto Gualtieri, Luigi De Magistris, Salvatore Caronna e Francesca Balzani, Sonia Viale, Italia dei Valori, Giuseppe Arlacchi). In prossimità dell’udienza, alcuni di essi (Roberto Gualtieri, Salvatore Caronna e Francesca Balzani, Sonia Viale) hanno depositato memorie illustrative, ribadendo quanto affermato nei rispettivi atti di costituzione e insistendo per la dichiarazione di inammissibilità o infondatezza della questione. 2. – Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio, sezione II bis, con cinque ordinanze di identico tenore dell’11 dicembre 2009 (r.o. nn. 22, 23 e 28 del 2010), del 14 dicembre 2009 (r.o. n. 32 del 2010) e del 15 dicembre 2009 (r.o. n. 33 del 2010), ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 1, n. 3, della legge n. 18 del 1979, in riferimento agli artt. 1, 3, 48, 49, 51, 56, 57 e 97 Cost., nonché agli artt. 10, 11 e 117 Cost., in relazione agli artt. 1, 2 e 7 dell’Atto relativo all’elezione dei rappresentanti del Parlamento europeo a suffragio universale diretto, allegato alla Decisione del Consiglio del 20 settembre 1976, n. 76/787/CECA/CEE/Euratom, come modificato dalla Decisione del Consiglio 25 giugno 2002, n. 2002/772/CE/Euratom (d’ora in avanti «Atto di Bruxelles») e agli artt. 10, 11, 39 e 40 della CEDU. Secondo il Tribunale rimettente, tale disposizione sarebbe illegittima nella parte in cui, «senza rispettare il numero dei seggi preventivamente attribuito alle singole circoscrizioni, in relazione alla popolazione residente, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 18 del 1979», stabilisce quanto segue: «[l’Ufficio elettorale] attribuisce, poi, alla lista, sia essa singola sia formata da liste collegate a norma dell’articolo 12, nelle varie circoscrizioni, tanti seggi quante volte il rispettivo quoziente elettorale di lista risulti contenuto nella cifra elettorale circoscrizionale della lista. I seggi che rimangono ancora da attribuire sono assegnati, rispettivamente, nelle circoscrizioni per le quali le ultime divisioni hanno dato maggiori resti e, in caso di parità di resti, a quelle circoscrizioni nelle quali si è ottenuta la maggiore cifra elettorale circoscrizionale». 2.1. – Il Collegio rimettente riferisce che i ricorrenti nei giudizi principali hanno impugnato il verbale delle operazioni dell’Ufficio elettorale centrale nazionale del 26 giugno 2009, nella parte in cui con esso «si è provveduto all’assegnazione dei seggi nella competizione per il rinnovo dei rappresentanti del Parlamento europeo del 6 e 7 giugno 2009», contestando, in particolare, l’effetto di «contrazione» del numero di seggi previamente attribuiti, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 18 del 1979, alle circoscrizioni territoriali dell’Italia meridionale e dell’Italia insulare, asseritamente determinato dall’applicazione della norma censurata. Quest’ultima prevede, infatti, un sistema di assegnazione dei seggi alle liste in base al numero dei votanti nelle singole circoscrizioni che, ad avviso dei ricorrenti nei giudizi principali, si porrebbe in contrasto con il diverso criterio di attribuzione d ei seggi sulla base della popolazione, stabilito dal predetto art. 2 della legge n. 18 del 1979 conformemente al diritto europeo (art. 189 Tr. CE e Atto di Bruxelles). Il giudice a quo espone che, alla luce di tali considerazioni, i ricorrenti nei giudizi principali hanno chiesto: in via principale, la correzione del verbale dell’Ufficio elettorale centrale nazionale, nonché di quelli degli uffici circoscrizionali, con conseguente elezione dei ricorrenti stessi a parlamentari europei, previa disapplicazione dell’art. 21 della legge n. 18 del 1979; in via subordinata, la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale ai fini della dichiarazione di illegittimità costituzionale degli artt. 21 e 22 della legge n. 18 del 1979. Il Tribunale amministrativo rimettente riferisce che si sono costituiti o sono intervenuti nei giudizi principali i seguenti soggetti: Ministero dell’Interno e Ufficio elettorale centrale nazionale presso la Corte suprema di cassazione (r.o. nn. 22, 28, 32 e 33 del 2010); Roberto Gualtieri (r.o. nn. 22, 23, 28, 32 e 33 del 2010); Salvatore Caronna (r.o. nn. 22, 28 e 33 del 2010); Sonia Viale (r.o. n. 22 del 2010); Lega Nord per l’Indipendenza della Padania (r.o. n. 22 del 2010); Partito Democratico (r.o. n. 22 del 2010); Regione Sardegna (r.o. nn. 28, 32 del 2010); Regione Siciliana (r.o. n. 32 del 2010). 2.2. – Ciò premesso, il giudice a quo, dopo aver ricostruito il contenuto della disciplina, nazionale e sovranazionale, per le elezioni del Parlamento europeo, osserva che l’applicazione della norma censurata produce, «di fatto», un effetto distorsivo, consistente nella assegnazione a ciascuna circoscrizione di un numero di seggi «direttamente correlato all’affluenza al voto», anziché proporzionale alla popolazione residente, come è invece previsto dall’art. 2 della legge n. 18 del 1979, nonché dal diritto comunitario, che stabilisce i principi della «rappresentanza territoriale» e della «proporzionalità degressiva», in base alla quale «il numero degli eletti in ciascuna ripartizione territoriale deve garantire un’adeguata rappresentanza della popolazione nella corrispondente circoscrizione». In particolare, rispetto alla ripartizione di seggi effettuata in attuazione dell’art. 2 della legge n. 18 d el 1979 (che prevede 18 seggi per la circoscrizione dell’Italia meridionale e 8 seggi per quella dell’Italia insulare), i risultati elettorali del 2009 avrebbero determinato, secondo quanto rileva il giudice a quo, «un deficit di rappresentanza […] per i cittadini delle circoscrizioni del Sud e delle Isole, che hanno visto la diminuzione di 3 e 2 rappresentanti rispettivamente (con la conseguente mancata elezione de[i] ricorrent[i]) in ragione della ripartizione di voti sulla base di altro e discordante criterio (di cui all’art. 21) riferito al numero di cittadini che hanno esercitato il diritto di voto». In ragione del descritto effetto distorsivo, il collegio rimettente ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della disposizione censurata, osservando, in punto di rilevanza, che «una eventuale pronuncia di incostituzionalità della Corte costituzionale imporrebbe di decidere la posizione de[i] ricorrent[i] […] alla stregua della nuova disciplina che ne risulterebbe». In ordine alla non manifesta infondatezza, il Tribunale amministrativo rimettente dubita della legittimità costituzionale della disposizione censurata in relazione a diversi parametri costituzionali. Essa sarebbe in contrasto, in primo luogo, con l’art. 3 Cost., con riguardo sia alla ragionevolezza, sia all’uguaglianza: la «intrinseca irragionevolezza» deriverebbe dalla «prospettata contraddittorietà […] con l’intenzione del legislatore, quale risultante dai lavori parlamentari preparatori e dal tenore del citato art. 2» della legge n. 18 del 1979, secondo il quale i seggi devono essere distribuiti in proporzione della popolazione residente in ogni circoscrizione; il canone dell’eguaglianza sarebbe violato con riferimento sia al diritto di elettorato attivo, per la lesione del principio di uguaglianza del voto, sia al diritto di elettorato passivo, in quanto si consentirebbe «ad una o più liste, all’interno delle circoscrizioni in cui vi è stata una maggiore affluenza di elettori, di ottenere più seggi, alterando il numero di quelli assegnati alle medesime circoscrizioni, a scapito dei candidati che concorrono nelle circoscrizioni con minore affluenza di votanti». In secondo luogo, risulterebbero violati i principi di buon andamento e imparzialità di cui all’art. 97 Cost., in quanto, mentre l’art. 2 della legge n. 18 del 1979 avrebbe correttamente accolto l’indicazione del legislatore comunitario relativa alla facoltà degli Stati «di autovincolarsi ad un sistema di ripartizione territoriale – per circoscrizione – dei seggi», al contrario la norma censurata «àncora il risultato elettorale […] ad un sistema premiante delle circoscrizioni in cui la popolazione […] si è dimostrata politicamente e civicamente più matura», senza che tale diverso criterio trovi «una sua ratio nell’ordinamento». In terzo luogo, vi sarebbe un contrasto con l’art. 1 Cost., in base al quale «anche l’esercizio delle procedure nazionali relative all’attribuzione di profili di sovranità all’Unione europea, quali l’elezione degli europarlamentari», deve avvenire «in conformità al principio democratico». In quarto luogo, sarebbero lesi gli artt. 10 e 11 Cost., in relazione agli artt. 1, 2 e 7 dell’Atto di Bruxelles, in quanto il «sistema della ripartizione territoriale» dei seggi, benché non obbligatorio in base al diritto comunitario, «risponde alle esigenze di proporzionalità e rappresentatività della popolazione», con la conseguenza che il legislatore nazionale non potrebbe prevedere un «meccanismo contrastante» con tale sistema, ma semmai alternativo ed equivalente nel perseguimento dello scopo. In quinto luogo, sarebbero violati gli artt. 48, 49 e 51 Cost., considerati anche in congiunzione con gli artt. 2, 18, 21, 39, 64, 67, 82 e 118 Cost., i quali «affermano il criterio della rappresentatività della popolazione, quale derivazione del più alto principio democratico». In sesto luogo, la disposizione impugnata violerebbe gli artt. 10 e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 10, 11, 39 e 40 della CEDU [recte: della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea], i quali «sanciscono il diritto di ciascun individuo di manifestare le proprie convinzioni e di godere dell’elettorato attivo e passivo per il Parlamento europeo», a sua volta «strettamente conness[i] a quelli tutelati dagli articoli che nella Carta costituzionale affermano la regola democratica secondo il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost». Ad avviso del collegio rimettente, che richiama in proposito le sentenze n. 348 e n. 349 del 2007 di questa Corte, la disposizione censurata sarebbe incompatibile con le predette norme della CEDU e, dunque, con gli obblighi internazionali di cui agli artt. 10 e 117 Cost. Infine, il giudice a quo ritiene che la norma censurata violi anche gli artt. 56 e 57 Cost., che sanciscono il principio di «rappresentatività del cittadino nelle istituzioni», del quale costituisce espressione «il criterio della rappresentanza proporzionale territoriale». 2.3. – È intervenuto in tutti i giudizi il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate manifestamente non fondate. L’Avvocatura osserva, preliminarmente, che la legge n. 18 del 1979 prevede un sistema elettorale proporzionale «c.d. perfetto», il quale cioè «garantisce in massimo grado la rappresentatività politica del corpo elettorale, a parziale scapito della rappresentatività territoriale». Ciò premesso, la difesa dello Stato rileva che, in base al diritto comunitario citato dal rimettente, il criterio della rappresentatività territoriale del Parlamento europeo (c.d. proporzionalità degressiva) è riferibile alle sole «rappresentanze nazionali» e non anche a rappresentanze di realtà territoriali interne agli Stati membri. In particolare, ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, l’Atto di Bruxelles, all’opposto di quanto ritenuto dal giudice rimettente, recherebbe «una decisa opzione in favore della rappresentatività politica, in senso proporzionale e su base nazionale, degli eletti al Parlamento europeo», dal momento che esso consente la «costituzione di circoscrizioni o altre suddivisioni interne […] solo in funzione di specificità nazionali e a condizione che non venga pregiudicato il carattere proporzionale del voto, vale a dire la rappresentatività del voto rispetto alla composizione politica dell’elettorato dell’intero Stato membro». Secondo la difesa dello Stato, il legislatore nazionale non avrebbe inteso avvalersi di tale facoltà, dato che le circoscrizioni di cui alla legge n. 18 del 1979 non perseguono lo scopo di «attribuire rilevanza a realtà territoriali omogenee sul piano istituzionale», ma rispondono a mere finalità amministrative «volte a favorire l’ordinato svolgimento delle operazioni elettorali oltre che a consentire una effettiva campagna elettorale, mantenendo a livelli fisiologici il rapporto tra elettori e candidati». Sulla base di tali considerazioni, l’Avvocatura generale dello Stato esclude l’asserita lesione delle fonti sovranazionali. Né sussisterebbe, secondo la difesa dello Stato, il prospettato contrasto con l’art. 3 Cost. Il principio della eguaglianza del voto, infatti, sarebbe potuto semmai essere «vulnerato» dalla scelta dell’opposto criterio dell’attribuzione alle varie circoscrizioni di un numero di seggi fisso, in base al quale «gli eletti nelle circoscrizioni con minore affluenza finirebbero per rappresentare un numero minore di votanti». Quanto, poi, all’asserita intrinseca irragionevolezza della disposizione censurata, per contraddittorietà rispetto all’art. 2 della medesima legge n. 18 del 1979, l’Avvocatura generale dello Stato osserva che, in realtà, le due previsioni «fa[nno] corpo», «perché la suddivisione dei seggi in circoscrizioni non può prescindere dalla fissazione del meto do di attribuzione dei seggi medesimi, che la legge elettorale in esame ha stabilito in funzione della maggiore garanzia della rappresentatività in senso proporzionale, come previsto nel principio fondamentale contenuto nell’art. 1, comma 2, della legge, secondo il quale “l’assegnazione dei seggi tra le liste concorrenti è effettuata in ragione proporzionale” (non, quindi, su base circoscrizionale)». 2.4. – Si sono costituiti tutti i ricorrenti nei giudizi principali, chiedendo che questa Corte dichiari l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata. Si sono altresì costituite in giudizio, insistendo per l’accoglimento della sollevata questione di legittimità costituzionale, le Regioni Sardegna e Sicilia, intervenute in alcuni dei giudizi principali. In prossimità dell’udienza, alcuni dei ricorrenti nei giudizi principali costituitisi nel giudizio costituzionale (Giuseppe Gargani, Pasquale Sommese, Maddalena Calia e Sebastiano Sanzarello) hanno depositato memorie illustrative, ribadendo e sviluppando quanto sostenuto nei rispettivi atti di costituzione e insistendo affinché la Corte dichiari l’illegittimità costituzionale della disciplina censurata. Anche le Regioni Sicilia e Sardegna hanno depositato memorie illustrative in prossimità dell’udienza, confermando quanto sost enuto nei rispettivi atti di costituzione e insistendo per l’accoglimento della questione di legittimità costituzionale 2.5. – Si sono costituiti in giudizio, chiedendo che la Corte dichiari inammissibile o infondata la questione, alcuni soggetti controinteressati nei giudizi principali (Salvatore Caronna, Roberto Gualtieri, Sonia Viale, Iva Zanicchi, Giovanni Collino, Oreste Rossi, Partito democratico). In prossimità dell’udienza, alcuni di tali soggetti (Salvatore Caronna, Roberto Gualtieri, Sonia Viale, Partito democratico) hanno depositato memorie illustrative, sviluppando le argomentazioni svolte nei rispettivi atti di costituzione e insistendo affinché la Corte dichiari inammissibile o comunque non fondata la questione. Considerato in diritto 1. – Con otto ordinanze, il Tribunale amministrativo regionale del Lazio solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 1, n. 2 e n. 3, della legge 24 gennaio 1979, n. 18 (Elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia), in riferimento agli artt. 1, 3, 48, 49, 51, 56, 57 e 97 della Costituzione, nonché agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, in relazione all’art. 10 del Trattato sull’Unione europea, agli artt. 1, 2 e 7 dell’Atto relativo all’elezione dei rappresentanti del Parlamento europeo a suffragio universale diretto, allegato alla Decisione del Consiglio del 20 settembre 1976, n. 76/787/CECA/CEE/Euratom, come modificato dalla Decisione del Consiglio 25 giugno 2002, n. 2002/772/CE/Euratom (d’ora in avanti «Atto di Bruxelles») e agli artt. 10, 11, 39 e 40 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamen tali, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848 (d’ora in avanti «CEDU») [recte: della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea]. All’art. 21, comma 1, n. 2, della legge n. 18 del 1979 si riferiscono, in particolare, le censure contenute in tre ordinanze di rimessione del Tar del Lazio (r.o. nn. 29, 30 e 31 del 2010), di identico tenore, le quali riguardano l’accesso al riparto dei seggi, in base ai resti, delle liste che non abbiano superato la soglia di sbarramento del 4%. All’art. 21, comma 1, n. 3, si riferiscono, invece, le censure proposte dal Tar del Lazio con cinque ordinanze di rimessione (r.o. nn. 22, 23, 28, 32 e 33 del 2010), anch’esse di identico tenore, le quali attengono alle modalità di ripartizione dei seggi fra le diverse circoscrizioni elettorali. 2. – In ragione della loro connessione oggettiva, i giudizi possono essere riuniti, per essere decisi con un’unica pronuncia. 3. – Preliminarmente, vanno esposte le principali caratteristiche della disciplina per l’elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia, nel cui contesto si collocano le disposizioni oggetto di censura. 3.1. – L’ordinamento comunitario, nell’attesa dell’introduzione di una procedura uniforme per l’elezione dei rappresentanti al Parlamento europeo, ha demandato agli Stati membri la definizione di tale disciplina, fissando tuttavia alcuni principi comuni. Tali principi sono contenuti nell’Atto di Bruxelles, che esprime una scelta di fondo a favore di sistemi elettorali di tipo proporzionale. Esso stabilisce, infatti, che «in ciascuno Stato membro, i membri del Parlamento europeo sono eletti a scrutinio di lista o uninominale preferenziale con riporto di voti di tipo proporzionale» (art. 1), secondo disposizioni nazionali che «non devono nel complesso pregiudicare il carattere proporzionale del voto» (art. 7); permette agli Stati membri di costituire circoscrizioni elettorali, ma «senza pregiudicare complessivamente il carattere proporzionale del voto» (art. 2); consente ai legislatori nazionali di prevedere una soglia minima per l’attribuzione dei seggi, purché essa non sia « fissata a livello nazionale oltre il 5% dei suffragi espressi» (art. 2-bis). La disciplina europea, dunque, è ispirata al principio di proporzionalità politica: consente l’istituzione di circoscrizioni interne, purché non pregiudichino tale principio. 3.2. – In attuazione della disciplina europea, l’Italia, con la legge n. 18 del 1979, ha scelto un sistema elettorale proporzionale c.d. «puro», con assegnazione dei seggi nell’ambito di un collegio nazionale unico. Il collegio è tuttavia articolato in cinque circoscrizioni elettorali (Italia nord occidentale; Italia nord orientale; Italia centrale; Italia meridionale; Italia insulare), in cui devono essere presentate le liste e alle quali, in virtù di una previsione introdotta con la legge 9 aprile 1984, n. 61 (Disposizioni tecniche concernenti la elezione dei rappresentanti dell’Italia al Parlamento europeo), è assegnato preventivamente un numero di seggi, in proporzione alla popolazione residente. Inoltre, con la legge 20 febbraio 2009, n. 10 (Modifiche alla legge 24 gennaio 1979, n. 18, concernente l’elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia), è stata introdotta una soglia di sb arramento del 4% dei voti validi espressi. 3.3. – Le modalità di assegnazione dei seggi sono definite dall’art. 21 della legge n. 18 del 1979, che prevede le seguenti fasi. Innanzitutto, è determinata la «cifra elettorale nazionale» di ciascuna lista, data dalla «somma dei voti riportati nelle singole circoscrizioni dalle liste aventi il medesimo contrassegno» (art. 21, comma 1, n. 1), e sono individuate «le liste che abbiano conseguito sul piano nazionale almeno il 4 per cento dei voti validi espressi» (art. 21, comma 1, n. 1-bis). Successivamente, si procede al riparto proporzionale dei seggi tra le diverse liste che hanno superato la soglia di sbarramento, in base alla cifra elettorale nazionale di ciascuna lista e secondo la formula dei quozienti interi e dei più alti resti. In particolare, la cifra elettorale nazionale di ciascuna lista è divisa per il «quoziente elettorale nazionale» (dato dal totale delle cifre elettorali nazionali delle liste ammesse alla ripartizione dei seggi diviso per il numero dei seggi da attribuire) e si assegnano ad ogni lista tanti seggi quante volte il quoziente elettorale nazionale risulti contenuto nella rispettiva cifra elettorale nazionale. I seggi residui sono poi attribuiti alle liste per le quali le ultime divisioni hanno dato maggiori resti, considerandosi resti anche «le cifre elettorali nazionali delle liste che non hanno raggiunto il quoziente elettorale nazionale» (art. 21, comma 1, n. 2). Infine, si procede alla distribuzione, nelle singole circoscrizioni, dei seggi assegnati alle varie liste. A tal fine, la cifra elettorale circoscrizionale di ciascuna lista viene divisa per il «quoziente elettorale di lista» (che è dato dalla cifra elettorale nazionale di lista diviso per il numero di seggi assegnati alla lista stessa). Si attribuiscono, poi, ad ogni lista, nelle varie circoscrizioni, tanti seggi quante volte il rispettivo quoziente elettorale di lista risulti contenuto nella cifra elettorale circoscrizionale della lista. I seggi che rimangono ancora da attribuire sono assegnati nelle circoscrizioni per le quali le ultime divisioni hanno dato maggiori resti (art. 21, comma 1, n. 3). 4. – Con le ordinanze di cui al r.o. nn. 29, 30 e 31, il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 1, n. 2, della legge n. 18 del 1979, in riferimento agli artt. 1, 3, 48, 49, 51 e 97 Cost., nonché all’art. 11 Cost., in relazione all’art. 10 del Trattato sull’Unione europea e agli artt. 10, 11, 39 e 40 della CEDU [recte: della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea]. La disposizione è censurata nella parte in cui prevede «la soglia nazionale di sbarramento […] senza stabilire alcun correttivo, anche in sede di riparto dei resti», in particolare «non consentendo anche alle liste escluse dalla soglia di sbarramento di partecipare all’assegnazione dei seggi attribuiti con il meccanismo dei resti». 4.1. – Il Collegio rimettente, pur riconoscendo la legittimità costituzionale della soglia di sbarramento in sé considerata, osserva che, secondo la disposizione censurata, ai fini del riparto dei seggi non attribuiti in base ai quozienti interi, «si considerano resti anche le cifre elettorali nazionali delle liste che non hanno raggiunto il quoziente elettorale nazionale». Ad avviso del giudice a quo, tale disciplina sarebbe illegittima nella parte in cui essa non prevede che si considerino resti anche le cifre elettorali nazionali delle liste che non hanno raggiunto la soglia di sbarramento del 4%, negando, in tal modo, a tali liste il c.d. «diritto di tribuna». Secondo il Tribunale rimettente, la norma censurata, in primo luogo, sarebbe in contrasto con l’art. 3 Cost., sotto diversi profili: essa irragionevolmente consentirebbe alle liste che hanno superato la soglia di ottenere seggi, in sede di computo dei resti, sulla base di cifre elettorali più modeste di quelle delle liste che, non avendo superato la soglia, risultano invece escluse anche dal riparto dei seggi in base ai resti; la norma oggetto di censura sarebbe, poi, non proporzionata rispetto al fine di favorire le aggregazioni politiche, già sufficientemente assicurato dalla esclusione delle liste minori dal riparto dei seggi a quoziente intero; infine, un ulteriore profilo di irragionevolezza viene individuato dal Collegio rimettente nella circostanza che le liste le quali, per mancato superamento della soglia, non ottengono alcun seggio, si vedono private (in base peraltro a diversa disciplina non censurata dal rimettente) del rimborso de lle spese elettorali. In secondo luogo, il Tribunale amministrativo rimettente lamenta la violazione degli artt. 1, 48, 49, 51 e 97 Cost., in quanto la disposizione censurata «porrebbe radicalmente nel nulla la volontà popolare di una più o meno ampia platea di elettori». Infine, il Collegio rimettente deduce la violazione dell’art. 11 Cost, in relazione sia all’art. 10 del Trattato sull’Unione europea, come modificato dal Trattato di Lisbona, secondo cui «il funzionamento dell’Unione si fonda sulla democrazia rappresentativa» e «ogni cittadino ha diritto di partecipare alla vita democratica dell’Unione», sia agli artt. 10, 11, 39 e 40 della CEDU [recte: della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea], che sanciscono «il diritto di ciascun individuo di manifestare le proprie convinzioni e di godere dell’elettorato attivo e passivo per il Parlamento europeo». 4.2. – La questione è inammissibile. In primo luogo, essa è prospettata in modo contraddittorio. Il Collegio rimettente, infatti, da un lato, giudica manifestamente infondata una ipotetica questione di legittimità costituzionale riferita alla introduzione della soglia di sbarramento, per effetto della quale le liste che non raggiungono il 4% dei voti validi sono escluse dal riparto dei seggi; dall’altro lato, censura la disciplina relativa all’attribuzione dei seggi in base ai resti in quanto, in applicazione della previsione della soglia di sbarramento, esclude da tale attribuzione le liste che non l’abbiano superata. Di qui la contraddizione: se la soglia di sbarramento è legittima – come il giudice rimettente riconosce – allora non può censurarsi la conseguente scelta del legislatore di escludere dall’attribuzione dei seggi in base ai resti le liste che non l’abbiano superata; se, invece, la disciplina sul riparto dei seggi in base ai resti è illegittima, nella parte in cui esclude le liste che non abbiano superato la soglia di sbarramento – come il giudice rimettente lamenta – allora non può sostenersi che il legislatore possa legittimamente introdurre tale soglia. In ogni caso, ove pure si ammettesse che una clausola di sbarramento, che estrometta del tutto dall’attribuzione dei seggi le liste sotto il 4%, senza alcun correttivo, sia in contrasto con i parametri costituzionali indicati dal Collegio rimettente, va osservato che quest’ultimo domanda una pronuncia additiva. Il giudice a quo, infatti, chiede a questa Corte di introdurre un meccanismo diretto ad attenuare gli effetti della soglia di sbarramento, consistente nel concedere alle liste che non l’abbiano superata la possibilità di partecipare, con le rispettive cifre elettorali, alla aggiudicazione dei seggi distribuiti in base ai resti. Ma tale attenuazione non ha una soluzione costituzionalmente obbligata, potendosi immaginare numerosi correttivi volti a temperare gli effetti della soglia di sbarramento, a partire dalla riduzione della soglia stessa. Ne deriva, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, che la questione sollevata, sollecitando un intervento additivo in assenza di una soluzione costituzionalmente obbligata, deve ritenersi inammissibile (fra le più recenti, sentenza n. 58 del 2010; ordinanze n. 59 e n. 22 del 2010). 5. – Con le ordinanze di rimessione di cui al r.o. nn. 22, 23, 28, 32 e 33 del 2010, il Tribunale amministrativo regionale del Lazio ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 1, n. 3, della legge n. 18 del 1979, in riferimento agli artt. 1, 3, 48, 49, 51, 56, 57 e 97 Cost., nonché in riferimento agli artt. 10, 11 e 117 Cost., in relazione agli artt. 1, 2 e 7 dell’Atto di Bruxelles e agli artt. 10, 11, 39 e 40 della CEDU [recte: della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea]. La disposizione è censurata nella parte in cui regola la distribuzione nelle varie circoscrizioni dei seggi attribuiti a ciascuna lista sul piano nazionale, «senza rispettare il numero dei seggi preventivamente attribuito alle singole circoscrizioni, in relazione alla popolazione residente, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 18 del 1979». 5.1. – Ad avviso del Tribunale rimettente, l’applicazione della norma censurata darebbe luogo ad un effetto distorsivo, consistente nella «traslazione» di seggi da una circoscrizione all’altra: alcuni seggi, assegnati ad una determinata circoscrizione in base al criterio della popolazione, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 18 del 1979, si trasferirebbero, invece, ad altra circoscrizione, in virtù del diverso criterio di riparto previsto dalla norma censurata, fondato sui voti validi espressi. Più precisamente, tale «traslazione», essendo conseguenza del differente rapporto, nelle varie circoscrizioni, fra numero di abitanti e numero di voti validi espressi, penalizzerebbe le circoscrizioni nelle quali è più bassa l’affluenza alle urne. In particolare, il Collegio rimettente rileva come i risultati elettorali del 2009 avrebbero determinato «un deficit di rappresentanza […] per i cittadini delle circoscr izioni del Sud e delle Isole, che hanno visto la diminuzione di 3 e 2 rappresentanti rispettivamente, con la conseguente mancata elezione dei ricorrenti nei giudizi principali». Sotto tale profilo, secondo il giudice a quo, la disposizione censurata contrasterebbe con diversi parametri costituzionali. Sarebbe violato, innanzitutto, l’art. 3 Cost., sia sotto il profilo dell’eguaglianza, con riferimento al diritto di elettorato attivo e passivo, sia sotto il profilo della «intrinseca irragionevolezza» della norma censurata, che sarebbe contraddittoria rispetto alla «intenzione del legislatore, quale risultante dai lavori parlamentari preparatori e dal tenore dell’[…] art. 2» della legge n. 18 del 1979, secondo il quale i seggi devono essere distribuiti in proporzione della popolazione residente in ogni circoscrizione. Sarebbe leso, poi, il «principio di rappresentanza territoriale», che il collegio rimettente ritiene imposto sia da principî della Costituzione italiana (artt. 1, 48, 49, 51, 56 e 57 Cost.), nel presupposto che essi si applichino anche alle modalità di elezione dei membri del Parlamento europ eo spettanti all’Italia, sia, per il tramite degli artt. 10, 11 e 117 Cost., dal diritto europeo e, segnatamente, dagli artt. 1, 2 e 7 dell’Atto di Bruxelles, nonché dagli artt. 10, 11, 39 e 40 della CEDU [recte: della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea]. 5.2. – La questione è inammissibile. Il legislatore italiano, cui, come chiarito, spetta disciplinare la materia in attesa che l’Unione europea introduca una procedura uniforme, ha optato per un sistema elettorale proporzionale a collegio unico nazionale, articolato in circoscrizioni, nell’ambito delle quali devono essere presentate le liste. Peraltro, la legge n. 18 del 1979, nella sua versione originaria, non assegnava a ciascuna circoscrizione un determinato numero di seggi in base alla popolazione residente, limitandosi ad indicare il numero minimo e massimo di candidati per lista. Nelle elezioni del 1979, quindi, la distribuzione dei seggi fra le circoscrizioni avvenne in ragione dei voti espressi in ciascuna di esse, secondo la disciplina oggi censurata. Le liste presentate nelle circoscrizioni meridionali e insulari, a causa anche della minore partecipazione alla votazione, ottennero un numero di seggi inferiore a quello che ad esse sarebbe spettato in proporzione alla popolaz ione residente nelle medesime circoscrizioni. Per tentare di rimediare a questo inconveniente, con la legge n. 61 del 1984, il legislatore ha modificato l’art. 2 della legge n. 18 del 1979, prevedendo espressamente che a ciascuna circoscrizione venga assegnato un numero di seggi proporzionale alla popolazione in essa residente. La legge n. 61 del 1984, però, non ha tratto tutte le conseguenze dalla assegnazione dei seggi alle circoscrizioni in base alla popolazione. Essa, infatti, ha lasciato inalterata la disciplina censurata, che, ai fini della distribuzione dei seggi fra le circoscrizioni, considera il rapporto fra la cifra elettorale circoscrizionale della lista e il quoziente elettorale nazionale di lista, anziché il quoziente circoscrizionale. Dal 1984 in poi, pertanto, nella disciplina elettorale italiana per il Parlamento europeo, convivono due ordini di esigenze: da un lato, l’assegnazione dei seggi nel collegio unico nazionale in proporzione ai voti validamente espressi; dall’altro, la distribuzione dei seggi fra le circoscrizioni in proporzione alla popolazione. Il primo riflette il criterio della proporzionalità politica e premia la partecipazione alle consultazioni elettorali e l’esercizio del diritto di voto. Il secondo riflette il principio della rappresentanza c.d. territoriale, determinata in base alla popolazione (ma astrattamente determinabile anche in base ai cittadini, o agli elettori, o in base a una combinazione di tali criteri). Tali ordini di esigenze, però, sono difficilmente armonizzabili e, anzi, non possono essere fra loro perfettamente conciliati. Esistono, tuttavia, diversi possibili meccanismi correttivi che, senza modificare la ripartizione proporzionale dei seggi in sede di collegio unico nazionale, riducono l’effetto traslativo lamentato dal rimettente, cioè lo scarto fra seggi conseguiti nelle circoscrizioni in base ai voti validamente espressi e seggi ad esse spettanti in base alla popolazione. Questi meccanismi, peraltro, conseguono tale obiettivo al prezzo di alterare, in maggiore o minore misura, il rapporto proporzionale fra voti conseguiti e seggi attribuiti a ciascuna lista nell’ambito della singola circoscrizione. Ma il legislatore, sia nel 1984 che nelle successive occasioni in cui ha riesaminato la disciplina elettorale in questione, non ha introdotto un meccanismo correttivo, con la conseguenza che, nonostante il disposto dell’art. 2 della legge n. 18 del 1979, come modificato nel 1984, il riparto dei seggi fra le circoscrizioni ha continuato ad avvenire, come in precedenza, in proporzione ai voti validi, a prescindere dalla previa assegnazione in ragione della popolazione. Anche dai lavori preparatori della legge n. 61 del 1984 emerge la consapevolezza, da parte del legislatore, che la finalità di rispettare la previa assegnazione dei seggi in proporzione alla popolazione avrebbe richiesto una più ampia revisione della disciplina contenuta negli artt. 21 e 22 della legge n. 18 del 1979. Ciò non è però avvenuto, né allora, né successivamente, quando, con la legge n. 10 del 2009, il legislatore si è limitato ad introdurre la soglia di sbarramento, oltretutto calcolandola «sul piano nazionale». Tutto ciò premesso, deve osservarsi che il Collegio rimettente sollecita una pronuncia che abbia come effetto l’introduzione, ad opera di questa Corte, di un sistema di distribuzione dei seggi fra le circoscrizioni che, a differenza di quello previsto dalla disposizione censurata, sia rispettoso del riparto previamente effettuato in base alla popolazione ai sensi dell’art. 2 della legge n. 18 del 1979. Ma il giudice a quo non precisa quale dei possibili sistemi dovrebbe essere introdotto per contemperare il principio della proporzionalità politica con quello della rappresentanza territoriale. Alla disciplina prevista, per la Camera dei deputati, dall’art. 83, comma 1, n. 8, del d.P.R. 30 marzo 1957, n. 361 (Approvazione del testo unico delle leggi recanti norme per la elezione della Camera dei deputati), che secondo alcune parti private intervenute nel giudizio costituzionale potrebbe applicarsi in virtù del rinvio di cui all& #8217;art. 51 della legge n. 18 del 1979, il Collegio rimettente, in realtà, riserva solo un breve cenno, in quella parte dell’ordinanza di rimessione in cui riferisce le tesi dei ricorrenti nei giudizi principali. In ogni caso, va detto che tale disciplina rappresenta soltanto uno dei diversi possibili meccanismi in grado di ridurre l’effetto di slittamento di seggi da una circoscrizione all’altra. Ma non può che spettare al legislatore individuare, con specifico riferimento all’organo rappresentativo preso in considerazione, la soluzione più idonea a porre rimedio alla lamentata incongruenza della disciplina censurata. In presenza di una pluralità di soluzioni, nessuna delle quali costituzionalmente obbligata, questa Corte non potrebbe sostituirsi al legislatore in una scelta ad esso riservata (fra le più recenti, sentenza n. 58 del 2010; ordinanze n. 59 e n. 22 del 2010). per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 21, comma 1, n. 2 e n. 3, della legge 24 gennaio 1979, n. 18 (Elezione dei membri del Parlamento europeo spettanti all’Italia), sollevate, in riferimento agli artt. 1, 3, 48, 49, 51, 56, 57 e 97 della Costituzione, nonché agli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione, in relazione all’art. 10 del Trattato sull’Unione europea, agli artt. 1, 2 e 7 dell’Atto relativo all’elezione dei rappresentanti del Parlamento europeo a suffragio universale diretto, allegato alla Decisione del Consiglio del 20 settembre 1976, n. 76/787/CECA/CEE/Euratom, come modificato dalla Decisione del Consiglio 25 giugno 2002, n. 2002/772/CE/Euratom e agli artt. 10, 11, 39 e 40 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, dal Tribunale amministrativo regionale del Lazio con le ordinanze in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l'8 luglio 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Sabino CASSESE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA SENTENZA N. 272 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 6, 7, comma 6, e 9, comma 6, della legge della Regione Toscana 6 aprile 2000, n. 54 (Disciplina in materia di impianti di radiocomunicazione) e dell’art. 19 del Regolamento del Comune di Pisa per l’installazione, il monitoraggio e la localizzazione degli impianti di telefonia mobile, approvato con delibera del Consiglio comunale del 2 dicembre 2003, n. 104, promosso dal Tribunale di Pisa nel procedimento vertente tra la H3G s.p.a. e la S.E.PI. − Società Entrate Pisa s.p.a. con ordinanza del 3 ottobre 2008, iscritta al n. 30 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell’anno 2009. Visti l’atto di costituzione della H3G s.p.a. nonché l’atto di intervento della Regione Toscana; udito nell’udienza pubblica del 7 luglio 2010 il Giudice relatore Alfonso Quaranta; uditi gli avvocati Claudia Zhara Buda per la H3G s.p.a. e Lucia Bora per la Regione Toscana. Ritenuto in fatto 1.— Il Tribunale ordinario di Pisa, con l’ordinanza indicata in epigrafe, ha sollevato – in riferimento agli articoli 3 e 117, commi primo e terzo, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale degli articoli 6, «comma 6», 7, comma 6, e 9, comma 6, della legge della Regione Toscana 6 aprile 2000, n. 54 (Disciplina in materia di impianti di radiocomunicazione) e dell’art. 19 del Regolamento del Comune di Pisa per l’installazione, il monitoraggio e la localizzazione degli impianti di telefonia mobile, approvato con delibera del Consiglio comunale del 2 dicembre 2003, n. 104. 1.1.— Il remittente premette, in punto di fatto, di dover decidere in ordine all’opposizione proposta dalla società “H3G” s.p.a. avverso l’ingiunzione emessa dalla società “S.E.PI.” s.p.a., avente ad oggetto il pagamento di «oneri per lo svolgimento di controlli ARPAT sugli impianti di telefonia mobile». In particolare, si sottolinea nell’ordinanza di rimessione, la società opponente ha chiesto l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia, di tale ingiunzione – emessa ai sensi degli artt. 6, comma 6, 7, comma 6, e 9, comma 6, della legge della Regione Toscana n. 54 del 2000 e dell’art. 19 del già citato Regolamento del Comune di Pisa n. 104 del 2003 – per «violazione della normativa nazionale in materia di comunicazioni elettroniche e di prevenzione del rischio connesso all’esposizione alle radiazioni elettromagnetiche». Ai sensi, infatti, dell’art. 93 del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), norma che dà attuazione – come sottolineato dalla parte ricorrente nel giudizio a quo – a talune direttive comunitarie, le «pubbliche amministrazioni, le Regioni, le Provincie ed i Comuni non possono imporre per l’impianto di reti o per l’esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, oneri e canoni che non siano stabiliti per legge». 1.2.— Tanto premesso, il giudice remittente – non senza osservare che, «in riferimento all’art. 93» del d.lgs. n. 259 del 2003, la parte opponente nel giudizio principale ha chiesto sollevarsi questione di legittimità costituzionale dei predetti artt. 6, «comma 6», 7, comma 6, e 9, comma 6, della legge regionale n. 54 del 2000, per violazione degli artt. 3, 41 e 117, della Costituzione – rammenta che sul contenuto del predetto art. 93 del Codice delle comunicazioni elettroniche si è già espressa la Corte costituzionale con la sentenza n. 336 del 2005. In particolare, è stato affermato che «la disposizione in esame deve ritenersi espressione di un principio fondamentale, in quanto persegue la finalità di garantire a tutti gli operatori un trattamento uniforme e non discriminatorio, attraverso la previsione del divieto di porre a carico degli stessi oneri o canoni». Si è anche precisato che, in mancanza di un tale principio, «ciascuna Regione potrebbe liberamente prevedere obblighi “pecuniari” a carico dei soggetti operanti sul proprio territorio, con il rischio, appunto, di una ingiustificata discriminazione rispetto ad operatori di altre Regioni, per i quali, in ipotesi, tali obblighi potrebbero non essere imposti», concludendosi, pertanto, «che la finalità della norma è anche quella di “tutela della concorrenza”, sub specie di garanzia di parità di trattamento e di misure volte a non ostacolare l’ingresso di nuovi soggetti nel settore» (così , testualmente, la sentenza n. 336 del 2005, ma è richiamata anche la sentenza n. 450 del 2006). Sulla base di tali rilievi, il giudice a quo reputa che la Regione Toscana, con le norme censurate, abbia violato gli art. 4 e 93 del d.lgs. n. 259 del 2003, stabilendo che gli oneri relativi all’effettuazione di verifiche e controlli «degli impianti radio base della telefonia mobile esistenti sul proprio territorio sono posti a carico dei titolari di detti impianti». Ed invero, se il primo di tali articoli «si mette in linea con i dettami comunitari, realizzando l’obiettivo della liberalizzazione e semplificazione delle procedure anche al fine di garantire l’attuazione delle regole della concorrenza» (è richiamata, in particolare, la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 7 marzo 2002, n. 2002/21/CE, che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica), il secondo si colloca nel novero di quei «principi fondamentali», la cui «determinazione, nelle materie di legislazione concorr ente, è riservata allo Stato». 1.3.— Pertanto, i predetti artt. 6, «comma 6», 7, comma 6, e 9, comma 6, della legge regionale n. 54 del 2000, nonché il già citato art. 19 del Regolamento del Comune di Pisa n. 104 del 2003, sarebbero costituzionalmente illegittimi per violazione degli artt. 3 e 117, commi primo e terzo, Cost. In particolare, il primo di tali parametri sarebbe violato giacché la disciplina regionale (e comunale) in contestazione, «imponendo per le attività inerenti al proprio territorio oneri e costi non previsti da altre Regioni, relativamente alle verifiche e controlli degli impianti radio-base» delle imprese esercenti l’attività di telefonia, determinerebbe «una disparità di trattamento tra operatori economici la cui attività è distribuita sul territorio nazionale». Del pari, sarebbe violato anche il primo comma dell’art. 117 Cost., giacché l’imposizione di oneri e costi non contemplati in altre Regioni darebbe luogo ad «un’alterazione del sistema concorrenziale del mercato nazionale, in violazione della normativa comunitaria», la quale, tra l’altro, prescrive «che le procedure previste per la concessione del diritto di installare le predette infrastrutture di comunicazione elettronica debbano essere tempestive, non discriminatorie e trasparenti, onde assicurare che vigano le condizioni necessarie per una concorrenza leale ed effettiva» (in tal senso si esprime il ventiduesimo considerando della direttiva 2002/21/CE). Infine, la «deroga all’art. 93» del d.lgs. n. 259 del 2003, integrando una situazione di contrasto «con la menzionata norma statale che esprime un principio fondamentale cui le Regioni, nella materie di legislazione concorrente, non possono derogare», darebbe luogo anche alla violazione del terzo comma dell’art. 117 Cost. 1.4.— Ritenendo la questione non manifestamente infondata, il remittente osserva conclusivamente che la stessa risulta rilevante nel giudizio a quo, «atteso che alla luce del petitum e della causa petendi (annullamento per illegittimità dell’ingiunzione di pagamento opposta) è necessaria la soluzione della questione di incostituzionalità», non sussistendo le condizioni per «una lettura costituzionalmente orientata delle norme in discussione». 2.— È intervenuta in giudizio la Regione Toscana, con memoria depositata il 28 gennaio 2009, chiedendo che la questione sia dichiarata «inammissibile ed infondata». 3.— È intervenuta in giudizio la società “H3G” s.p.a. con atto depositato in cancelleria il 2 marzo 2009. 3.1.— In limine, la società interveniente – nel ricostruire i termini dell’iniziativa assunta nel giudizio principale, nonché l’evoluzione legislativa intervenuta in materia – sottolinea che l’art. 93, comma 1, del d.lgs. n. 259 del 2003, «al fine di promuovere ed agevolare l’installazione delle infrastrutture per le telecomunicazioni», ha sancito che le «pubbliche Amministrazioni, le Regioni, le Province ed i Comuni non possono imporre, per l’impianto di reti o per l’esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, oneri o canoni che non siano stabiliti per legge». Ciò premesso, la società interveniente eccepisce, in via preliminare, la non assoggettabilità del Regolamento comunale al sindacato di costituzionalità, richiamando quel costante orientamento della giurisprudenza della Corte che esclude, per i regolamenti amministrativi, la possibilità del sindacato ex art. 134 Cost. 3.2.— In secondo luogo, viene eccepita «l’inammissibilità del giudizio» per sopravvenuta inefficacia delle norme contenute nella legge regionale n. 54 del 2000, in quanto incompatibili con il d.lgs. n. 259 del 2003. Si assume, infatti, che la necessaria coerenza tra norme di principio e di dettaglio, operanti nella stessa materia, ha come conseguenza che «il mutamento delle prime non può non comportare il mutamento delle seconde». Si richiama, in merito, la giurisprudenza costituzionale relativa all’art. 10 della legge 10 febbraio 1953, n. 62 (Adeguamento delle leggi regionali alle leggi della Repubblica), secondo cui, «in conseguenza del subentrare, nella legislazione statale, di nuovi principi (espressi o impliciti che siano), bene può verificarsi l’abrogazione di precedenti norme regionali» (sentenza n. 40 del 1972). La società interveniente richiama, a conferma dell’abrogazione per sopravvenuta incompatibilità di norme regionali di dettaglio in contrasto con norme statali di principio, un consolidato indirizzo della giurisprudenza sia di legittimità che amministrativa. 3.3.― È solo, quindi, in via di subordine che la società “H3G” s.p.a. ha chiesto la declaratoria di illegittimità delle norme regionali censurate, limitatamente, peraltro, agli artt. 7, comma 6, e 9, comma 6, della legge regionale n. 54 del 2000. Difatti, l’art. 6 – che si compone di un solo comma, diviso in quattro lettere (diversamente da quanto indicato dal giudice remittente, che censura un inesistente comma 6) – disciplina unicamente le funzioni comunali, nulla disponendo, invece, «relativamente agli oneri per i controlli sanitari per gli impianti di telefonia mobile». Quanto, invece, all’illegittimità costituzionale dei predetti artt. 7, comma 6, e 9, comma 6, della legge regionale della Toscana n. 54 del 2000, la società “H3G” s.p.a. richiama le sentenze della Corte costituzionale n. 336 del 2005 e n. 450 del 2006, e dunque la qualificazione come principio fondamentale, della materia “ordinamento delle comunicazione”, di quello enunciato dall’art. 93 del d.lgs. n. 259 del 2003, disatteso – a suo dire – dalla disciplina regionale in esame. 4.— Con memoria depositata presso la cancelleria il 16 giugno 2010, la Regione Toscana ha meglio precisato le proprie difese, insistendo per la declaratoria di non fondatezza della questione sollevata. 4.1.— Ricostruito il complessivo quadro normativo nel quale si inseriscono le disposizioni censurate, la difesa della Regione assume che, «diversamente da quanto sostenuto dalla società “H3G” s.p.a., la legge regionale n. 54 del 2000 deve ritenersi tuttora in vigore», nonché «pienamente compatibile con i principi fondamentali posti dalla legislazione statale nelle materie qui in argomento». In particolare, sarebbe da escludere la violazione dell’art. 93 del d.lgs. n. 259 del 2003. Poiché esso, infatti, si limita soltanto a vietare «oneri o canoni che non siano stabiliti per legge», senza imporre che tale legge sia statale, tale condizione risulterebbe senz’altro soddisfatta dalla legge regionale n. 54 del 2000. Del resto, la Corte costituzionale ha affermato – prosegue la difesa regionale, richiamando la sentenza n. 350 del 2008 – che «le disposizioni del Codice delle comunicazioni intervengono in molteplici ambiti materiali, diversamente tra loro caratterizzati in relazione al riparto della competenza legislativa tra Stato e Regioni», essendo rinvenibili, accanto a titoli di esclusiva competenza statale e di competenza ripartita, «anche materie di competenza legislativa residuale delle Regioni, quali, in particolare, l’“industria” ed il “commercio”». 4.2.— Tanto premesso, poiché «il controllo delle emissioni elettromagnetiche è un’attività che attiene alla tutela della salute, materia di competenza concorrente» e considerato, altresì, che lo stesso d.lgs. n. 259 del 2003 fa salvo il rispetto della normativa in materia di tutela dell’ambiente e della salute, occorre verificare – secondo la difesa della Regione – «quali siano i principi fondamentali in materia di controllo sulle emissioni e, di conseguenza, se questi principi siano stati o meno correttamente rispettati dalla normativa regionale impugnata». In proposito, la difesa regionale rileva – innanzitutto – come gli stessi artt. 107, comma 6, e 185, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 259 del 2003 prevedano oneri a carico degli esercenti i servizi di comunicazione elettronica. Sul punto, inoltre, la Regione Toscana osserva che l’art. 33 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale) non solo prevede che «le tariffe per la copertura dei costi sopportati dall’autorità competente per l’organizzazione e lo svolgimento delle attività istruttorie, di monitoraggio e controllo previste dal codice siano applicate ai proponenti», ma stabilisce anche che, per le stesse finalità, «le Regioni possono definire proprie modalità di quantificazione e corresponsione degli oneri da porre in capo ai proponenti». Parimenti, ai sensi del combinato disposto degli artt. 11, comma 3, e 18 del decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59 (Attuazione integrale della direttiva 96/61/CE relativa alla prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento), le «spese occorrenti per effettuare i rilievi, gli accertamenti ed i sopralluoghi necessari per l’istruttoria delle domande di autorizzazione integrata ambientale e per i successivi controlli previsti dall’art. 11, comma 3, sono a carico del gestore». È lo stesso legislatore statale, dunque, ad ammettere che le Regioni possano intervenire a disciplinare gli oneri conseguenti ai controlli effettuati per finalità di tutela della salubrità ambientale. Né, d’altra parte, indicazioni in senso contrario sembrano ricavabili – sempre secondo la difesa regionale – dalle sentenze n. 336 del 2005 e n. 450 del 2006 della Corte costituzionale, giacché le stesse avrebbero censurato soltanto la scelta del legislatore regionale «di stabilire la misura dei predetti oneri economici senza, però, prevedere alcun criterio di determinazione quantitativa degli stessi» (è citata, in particolare, la seconda di tali sentenze). Evenienza, questa, da escludere nel caso di specie, giacché tali criteri «sono quelli stabiliti dal tariffario ARPAT» ed individuati, oggi, dalla legge della Regione Toscana 22 giugno 2009, n. 30, recante «Nuova disciplina dell’Agenzia regionale per la protezione ambientale della Toscana (ARPAT)». Infine, la difesa regionale nega «che in Toscana si operi diversamente da quanto avviene nel resto del territorio nazionale». Cita, al riguardo, le scelte compiute nelle Regioni Lombardia, Marche, Molise e Puglia e consistite nell’adozione di norme che – in sostanziale applicazione del principio cuius commoda, eius et incommoda – hanno posto «gli oneri dei controlli a carico dei gestori degli impianti», ciò che, oltretutto, escluderebbe che «l’asserita disparità di trattamento e violazione della concorrenza» abbia realmente «il rilievo lamentato». Considerato in diritto 1.— Il Tribunale ordinario di Pisa ha sollevato – in riferimento agli articoli 3 e 117, commi primo e terzo, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale degli articoli 6, «comma 6», 7, comma 6, e 9, comma 6, della legge della Regione Toscana 6 aprile 2000, n. 54 (Disciplina in materia di impianti di radiocomunicazione) e dell’art. 19 del Regolamento del Comune di Pisa per l’installazione, il monitoraggio e la localizzazione degli impianti di telefonia mobile, approvato con delibera del Consiglio comunale del 2 dicembre 2003, n. 104. 1.1.— In particolare, il giudice a quo assume che gli atti normativi in contestazione sarebbero costituzionalmente illegittimi nello stabilire che gli oneri relativi all’effettuazione di verifiche e controlli degli impianti radio base della telefonia mobile, esistenti sul territorio della Regione Toscana (e in particolare nel Comune di Pisa), siano posti a carico dei titolari di detti impianti. Tali atti derogherebbero agli artt. 4 e 93 del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259 (Codice delle comunicazioni elettroniche), atteso che, in particolare, il secondo dei citati articoli stabilisce che le «pubbliche amministrazioni, le Regioni, le Province ed i Comuni non possono imporre per l’impianto di reti o per l’esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, oneri e canoni che non siano stabiliti per legge». In tal modo la disciplina regionale in contestazione (della quale il Regolamento comunale censurato costituirebbe pedissequa attuazione), «imponendo per le attività inerenti al proprio territorio oneri e costi non previsti da altre Regioni, relativamente alle verifiche e controlli degli impianti radio-base», determinerebbe «una disparità di trattamento tra operatori economici la cui attività è distribuita sul territorio nazionale», donde la violazione dell’art. 3 Cost. Sarebbero, inoltre, violati i commi primo e terzo dell’art. 117 Cost. Per un verso, infatti, l’imposizione di oneri e costi non contemplati in altre Regioni darebbe luogo ad «un’alterazione del sistema concorrenziale del mercato nazionale, in violazione della normativa comunitaria», la quale, tra l’altro, prescrive «che le procedure previste per la concessione del diritto di installare le predette infrastrutture di comunicazione elettronica debbano essere tempestive, non discriminatorie e trasparenti, onde assicurare che vigano le condizioni necessarie per una concorrenza leale ed effettiva» (in tal senso dispone il ventiduesimo “considerando” della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 7 marzo 2002, n. 2002/21/CE, che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica). Per altro verso, la disciplina normativa in esame, nell’introdurre una «deroga all’art. 93» del d.lgs. n. 259 del 2003, si porrebbe in contrasto «con la menzionata norma statale che esprime un principio fondamentale cui le Regioni, nella materie di legislazione concorrente, non possono derogare». 2.— Ciò premesso, in via preliminare deve essere dichiarata l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale, sia nella parte in cui investe l’art. 19 del Regolamento del Comune di Pisa, approvato con delibera del Consiglio comunale del 2 dicembre 2003, n. 104, sia nella parte in cui ha ad oggetto l’art. 6 della legge della Regione Toscana n. 54 del 2000. 2.1.— In relazione, difatti, alla censura che investe la citata disposizione regolamentare, questa Corte non può che ribadire come essa costituisca «norma sottratta al sindacato di costituzionalità» (ex multis, ordinanza n. 192 del 2010; nello stesso senso, da ultimo, anche sentenza n. 58 del 2010 e ordinanza n. 59 del 2009). 2.2.— Quanto, invece, all’art. 6 della legge regionale in esame (censurato, peraltro, dal Tribunale rimettente in un inesistente «comma 6»), deve rilevarsi che esso si limita a disciplinare le funzioni comunali in materia di impianti di radiocomunicazione, tra le quali rilevano anche – lettera c) – quelle «di vigilanza e di controllo secondo quanto previsto dall’art. 9». È, pertanto, soltanto nell’art. 9 che si rinviene la disposizione che pone – al comma 6 – «a carico dei titolari degli impianti fissi per la telefonia mobile, nonché dei concessionari per radiodiffusione di programmi radiofonici e televisivi a carattere commerciale» gli «oneri relativi all’effettuazione dei controlli» compiuti dall’ARPAT e «finalizzati a garantire: a) il rispetto dei limiti di esposizione e delle misure di cautela, di cui agli articoli 3 e 4 del decreto ministeriale n. 381 del 1998; b) l’attuazione, da parte dei soggetti obbligati, delle azioni di risanamento previste dall’articolo 8; c) il mantenimento dei parametri tecnici dell’impianto dichiarati dal gestore ai sensi dell’articolo 5, comma 3» (così testualmente, il comma 3 del medesimo art. 9). L’art. 6, lettera c), non contiene, dunque, una norma che disciplina il profilo della ripartizione degli oneri economici conseguenti ai controlli effettuati dall’ARPAT, sicché essa – oltre a non porsi in contrasto, di per sé, con l’art. 93 del d.lgs. n. 259 del 2003 – non viene neppure in rilievo nel giudizio a quo, che ha ad oggetto l’impugnativa del provvedimento che ha ingiunto il pagamento di somme, tra l’altro, proprio per l’effettuazione di tali controlli. La questione relativa all’art. 6 è, pertanto, inammissibile per difetto di rilevanza nel giudizio principale. 3.— La questione relativa agli artt. 7, comma 6, e 9, comma 6, della legge regionale in esame, oltre ad essere ammissibile, è anche fondata. 3.1.— In limine, deve essere disattesa l’eccezione sollevata dalla difesa della parte privata, intervenuta nel presente giudizio, secondo cui le norme censurate dovrebbero ritenersi abrogate tacitamente per sopravvenuta incompatibilità con l’art. 93 del d.lgs. n. 259 del 2003. Sul punto è necessario premettere che il «controllo sull’attuale vigenza di una norma giuridica spetta istituzionalmente al giudice comune e precede ogni possibile valutazione sulla legittimità costituzionale della medesima norma» (sentenza n. 222 del 2007). Nel caso di specie, tuttavia, il Tribunale remittente, nel negare che ricorrano le condizioni per «una lettura costituzionalmente orientata delle norme in discussione», ha, di fatto, implicitamente escluso la possibilità – suggerita dalla difesa della parte privata – di risolvere il contrasto tra le disposizioni regionali e la citata norma statale in applicazione dell’art. 10 della legge 10 febbraio 1953, n. 62 (Adeguamento delle leggi regionali alle leggi della Repubblica), cioè ritenendo abrogate le prime per sopravvenuta e diretta incompatibilità con la seconda. Anche nel caso in esame, quindi, come in quello in cui il giudice a quo escluda espressamente, con affermazione non palesemente infondata, la ricorrenza di un fenomeno abrogativo, questa Corte non può che rilevare come «ragioni essenziali di certezza del diritto» impongano, di fronte a un contrasto tra le disposizioni di legge regionale censurate e una successiva norma di principio statale, di «dichiarare l’illegittimità costituzionale delle norme sottoposte al proprio giudizio» (sentenza n. 153 del 1995). 3.2.— Tanto premesso, deve osservarsi che gli artt. 7, comma 6, e 9, comma 6, della legge della Regione Toscana n. 54 del 2000 violano l’art. 117, terzo comma, Cost. Sul punto, occorre rilevare, innanzitutto, che la giurisprudenza costituzionale ha ritenuto l’art. 93 del d.lgs. n. 259 del 2003 «espressione di un principio fondamentale» della materia dell’ordinamento delle comunicazioni, «in quanto persegue la finalità di garantire a tutti gli operatori un trattamento uniforme e non discriminatorio, attraverso la previsione del divieto di porre a carico degli stessi oneri o canoni» (sentenza n. 336 del 2005, in particolare, punto 15.1. del Considerato in diritto). Su queste basi si è, dunque, precisato che, in «mancanza di un tale principio», ogni singola Regione «potrebbe liberamente prevedere obblighi “pecuniari” a carico dei soggetti operanti sul proprio territorio, con il rischio, appunto, di una ingiustificata discriminazione rispetto ad operatori di altre Regioni, per i quali, in ipotesi, tali obblighi potrebbero non essere imposti». In forza di tali rilievi, pertanto, questa Corte & #232; pervenuta alla conclusione che «la finalità della norma è anche quella di “tutela della concorrenza”, sub specie di garanzia di parità di trattamento e di misure volte a non ostacolare l’ingresso di nuovi soggetti nel settore» (ancora sentenza n. 336 del 2005, punto 15.1. del Considerato in diritto). Tali principi sono stati, inoltre, puntualizzati da questa Corte con la sentenza n. 450 del 2006, che si è pronunciata sulla legittimità costituzionale, per violazione dell’art. 117, terzo comma Cost., proprio in ragione dell’ipotizzato contrasto con l’art. 93 del d.lgs. n. 259 del 2003, degli artt. 6, comma 4, e 15 della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 4 novembre 2005, n. 25, recante «Disciplina per l’installazione, la localizzazione e l’esercizio di stazioni radioelettriche e di strutture di radiotelecomunicazioni. Modificazioni alla legge regionale 6 aprile 1998, n. 11 (Normativa urbanistica e di pianificazione territoriale della Valle d’Aosta), e abrogazione della legge regionale 21 agosto 2000, n. 31». In particolare, con tale sentenza si è affermato come la previsione da parte del legislatore regionale «di oneri economici posti a carico degli operatori, in relazione all’attività di consulenza tecnica svolta dall’ARPA», sia «suscettibile di determinare un trattamento discriminatorio e non uniforme tra gli operatori del settore, con conseguente violazione del principio fissato dal legislatore statale» (cioè proprio quello desumibile dall’art. 93 del d.lgs. n. 259 del 2003), con la conseguenza della illegittimità costituzionale della censurata disciplina valdostana. Nella medesima sentenza è stato anche disatteso l’argomento svolto in quella sede dalla difesa regionale (secondo cui «gli oneri in esame altro non sarebbero che corrispettivi per l’attività di consulenza svolta dall’ARPA in favore degli operatori di settore»), osservandosi che l’ARPA non svolge «una attività di consulenza liberamente richiesta dalle parti, bensì una attività autoritativamente prevista», ponendosi, difatti, il parere reso da tale ente come «un momento procedimentale obbligatorio», tale da far emergere «il carattere autoritativo ed impositivo della prestazione pecuniaria stessa». 3.3.— Orbene, le suddette considerazioni valgono anche per gli artt. 7, comma 6, e 9, comma 6, della legge della Regione Toscana n. 54 del 2000 ora in esame. In relazione, infatti, alla prima delle citate norme (che – come si è detto – pone «a carico dei richiedenti l’autorizzazione» all’installazione od alla modifica degli impianti di telefonia mobile gli «oneri relativi allo svolgimento dei controlli effettuati dall’ARPAT all’atto del rilascio dell’autorizzazione), la sentenza n. 450 del 2006 di questa Corte assume valore di precedente specifico, giacché anche le disposizioni allora dichiarate costituzionalmente illegittime riguardavano proprio le spese per l’attività di consulenza tecnica svolta dall’ARPA nell’ambito dei procedimenti autorizzatori. Ad analoga conclusione si deve pervenire anche per l’art. 9, comma 6, della stessa legge regionale, che pone a carico «dei titolari degli impianti fissi per la telefonia mobile, nonché dei concessionari per radiodiffusione di programmi radiofonici e televisivi a carattere commerciale» gli oneri relativi all’effettuazione dei controlli, compiuti dall’ARPAT nell’ambito delle sue funzioni «di vigilanza e controllo». A favore di tale esito dello scrutinio di costituzionalità depone, innanzitutto, la formulazione letterale dell’art. 93 del d.lgs. n. 259 del 2003, che stabilisce un divieto di imposizione di oneri e canoni «per l’impianto di reti» e «per l’esercizio dei servizi di comunicazione elettronica»; formula che, nel suo carattere generico, include anche la fattispecie contemplata dal predetto art. 9, comma 6 (e non soltanto quella di cui al precedente art. 7, comma 6), della legge regionale in esame. Inoltre, se lo scopo del citato art. 93 è quello di impedire che le Regioni possano «liberamente prevedere obblighi “pecuniari” a carico dei soggetti operanti sul proprio territorio» e, dunque, di scongiurare il rischio «di una ingiustificata discriminazione rispetto ad operatori di altre Regioni, per i quali, in ipotesi, tali obblighi potrebbero non essere imposti», deve rilevarsi come tale esigenza si ponga, nello stesso modo, per tutti gli obblighi pecuniari, siano essi imposti in occasione del rilascio dell’autorizzazione ovvero previsti per interventi di vigilanza e di controllo che si rendano necessari nel corso dello svolgimento del servizio e che, dunque, siano inerenti al rapporto instauratosi con l’amministrazione proprio in forza dell’originario titolo autorizzativo. Né, infine, può sottacersi la circostanza – messa in luce dalla parte privata intervenuta nel presente giudizio – secondo cui gli oneri di cui al citato art. 9, comma 6, si presentano del tutto «imprevedibili, in quanto non predeterminati, non conosciuti e non quantificabili in anticipo dai gestori di telefonia al momento dell’attivazione degli impianti», non avendo provveduto, nella specie, la Giunta regionale ad individuare «tutte le modalità tecniche e procedurali per lo svolgimento dei controlli» in questione. Tale circostanza evidenzia, vieppiù, l’illegittimità costituzionale della norma suddetta, come si evince, d’altronde, anche dalla citata sentenza n. 450 del 2006. Difatti, alla necessità di pervenire ad una pronuncia caducatoria delle norme regionali valdostane, sopra meglio identificate, non è stata estranea la considerazione che esse demandavano «alla Giunta regionale di stabilire la misura dei predetti oneri economici senza, però, prevedere alcun criterio di determinazione quantitativa degli stessi». 4.— Neppure, d’altra parte, ad escludere la declaratoria di illegittimità costituzionale degli artt. 7, comma 6, e 9, comma 6, della legge regionale censurata, possono valere i rilievi svolti dalla difesa della Regione Toscana. 4.1.— Essa, innanzitutto, deduce che «la legittima imposizione di oneri per i controlli» sarebbe «prevista anche dal d.lgs. n. 259 del 2003». Ai sensi, infatti, dell’art. 107, comma 6, alla dichiarazione dell’interessato, finalizzata al rilascio dell’autorizzazione, devono essere allegati, tra gli altri, «gli attestati dell’avvenuto versamento del contributo a titolo di rimborso delle spese riguardanti l’attività di vigilanza e controllo relativo al primo anno da cui decorre l’autorizzazione generale»; analogamente, l’art. 185, comma 1, lettera b), del medesimo decreto legislativo, pone a carico dei titolari delle gestioni radioelettriche su navi un «contributo annuo per verifiche e controlli». Nondimeno, tale circostanza non comporta – come ipotizzato dalla difesa regionale, in particolare nel corso della discussione in udienza – alcuna antinomia con l’art. 93 del d.lgs. n. 259 del 2003. Quest’ultima norma, infatti, non esclude in assoluto la possibilità di imposizione di oneri o canoni per l’impianto di reti o per l’esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, prescrivendo che essi debbano essere, in ogni caso, stabiliti per atto legislativo, e dunque anche con lo stesso d.lgs. n. 259 del 2003. 4.2.— La difesa regionale, inoltre, nell’evidenziare che «il controllo delle emissioni elettromagnetiche è un’attività che attiene alla tutela della salute, materia di competenza concorrente» e che lo stesso decreto legislativo n. 259 del 2003 fa salvo il rispetto della normativa in materia di tutela dell’ambiente e della salute, ritiene di individuare, nella stessa legislazione statale, un principio in forza del quale le Regioni avrebbero libertà di disciplinare anche il profilo attinente alla ripartizione degli oneri economici conseguenti ai controlli effettuati per finalità di tutela della salubrità ambientale. In particolare, sono citati, sul punto, l’art. 33 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), nonché gli artt. 11, comma 3, e 18 del decreto legislativo 18 febbraio 2005, n. 59 (Attuazione integrale della direttiva 96/61/CE relativa alla prevenzione e riduzi one integrate dell’inquinamento). Nello svolgere simili rilievi, tuttavia, la difesa regionale non tiene conto della circostanza che, per le comunicazioni elettroniche, il disposto dell’art. 93 del d.lgs. n. 259 del 2003 si pone come lex specialis non suscettibile di deroga, dettando una disciplina che esclude, per gli operatori di quel settore, l’imposizioni di oneri e canoni che non siano previsti dalla legge statale. 4.3.— L’illegittimità costituzionale delle censurate disposizioni regionali non può essere, infatti, neppure esclusa in base al rilievo che il citato art. 93 si limiterebbe a sancire una riserva di legge per così dire “generica”; ciò che, pertanto, non precluderebbe un intervento delle Regioni, purché esso sia disposto con atto legislativo. Sul punto è sufficiente osservare che la citata disposizione ha inteso riferirsi, con tutta evidenza, alla sola legge statale. È quanto si desume, in primo luogo, dalla circostanza che il richiamo alla legge, contenuto in una norma dello Stato, deve essere interpretato – in assenza di ulteriori specificazioni – come rinvio ad una fonte legislativa comunque di provenienza statale. In secondo luogo, l’accoglimento dell’opzione ermeneutica suggerita dalla difesa regionale avrebbe come effetto di contraddire la stessa ratio legis, come individuata da questa Corte nella già citata sentenza n. 336 del 2005, e cioè evitare che ogni Regione possa «liberamente prevedere obblighi “pecuniari” a carico dei soggetti operanti sul proprio territorio, con il rischio, appunto, di una ingiustificata discriminazione rispetto ad operatori di altre Regioni, per i quali, in ipotesi, tali obblighi potrebbero non essere imposti». 5.— Sulla scorta delle considerazioni che precedono deve, dunque, pervenirsi alla declaratoria di illegittimità costituzionale degli artt. 7, comma 6, e 9, comma 6, della legge della Regione Toscana n. 54 del 2000, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., con conseguente assorbimento delle altre censure. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 7, comma 6, e 9, comma 6, della legge della Regione Toscana 6 aprile 2000, n. 54 (Disciplina in materia di impianti di radiocomunicazione); dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 6 della medesima legge della Regione Toscana n. 54 del 2000 e dell’articolo 19 del Regolamento del Comune di Pisa per l’installazione, il monitoraggio e la localizzazione degli impianti di telefonia mobile, approvato con delibera del Consiglio comunale del 2 dicembre 2003, n. 104, sollevata – in riferimento agli articoli 3 e 117, commi primo e terzo, della Costituzione – dal Tribunale ordinario di Pisa, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Alfonso QUARANTA , Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA SENTENZA N. 273 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 4, del decreto legislativo 11 maggio 1999 n. 152 (Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole), come modificato dall’art. 7 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 258 (Disposizioni correttive e integrative del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152, in materia di tutela delle acque dall’inquinamento, a norma dell’articolo 1, comma 4, della legge 24 aprile 1998, n. 128), che sostituisce l’art. 17 del regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775 (Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici), promosso dal Tribunale di Firenze, sezione distaccata di Pontassieve, con ordinanza del 3 marz o 2009, iscritta al n. 328 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2010. Visti gli atti di costituzione di R.A. ed altri, di C.M. e P.V., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 7 luglio 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri; uditi gli avvocati Tullio Padovani, Eriberto Rosso, Anna Francini per S.G. ed altri, Giuseppe Giuffrè e Giandomenico Falcon per R.A., Gemma Bearzotti per C.M., Paolo Dell’Anno per P.V. e l’avvocato dello Stato Massimo Giannuzzi per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. − Con ordinanza depositata il 3 marzo 2009, il Tribunale di Firenze, sezione distaccata di Pontassieve, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 4, del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152 (Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole), come modificato dall’art. 7 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 258 (Disposizioni correttive e integrative del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152, in materia di tutela delle acque dall’inquinamento, a norma dell’articolo 1, comma 4, della legge 24 aprile 1998, n. 128), nella parte in cui, sostituendo l’art. 17 del regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775 (Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici), sanziona come mero illecito amministrativo le condotte di derivazione o utilizzazione di acqua pubblica in assenza di provvedimento di autorizzazione o concessione dell’autorità competente. 1.1. – Il rimettente riferisce che il procedimento a quo riguarda soggetti, già responsabili di cantieri approntati per la realizzazione della tratta ferroviaria ad alta velocità tra Firenze e Bologna, ai quali si contesta l’indebito impossessamento di acque pubbliche utilizzate nel corso dei lavori. In particolare, agli imputati è contestato il delitto di furto aggravato, perpetrato «con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, in concorso tra loro, ciascuno nelle rispettive qualità ricoperte nell’arco temporale indicato, al fine di trarne un ingiusto profitto (consistito nell’impiego gratuito di acqua pubblica a servizio delle proprie attività di cantiere con particolare riferimento all’impiego di acqua negli impianti di betonaggio e al lavaggio dei mezzi meccanici e in generale all’impiego di acque chiare nelle attività di cantiere)». Il rimettente riferisce ancora che l’acqua oggetto di furto, per un quantitativo stimato in non meno di cinque milioni di metri cubi, sarebbe stata in parte prelevata dalle falde sotterranee intercettate durante i lavori di scavo nelle gallerie, in parte estratta mediante perforazione di pozzi, e in parte prelevata dai corsi d’acqua limitrofi ai cantieri, il tutto in assenza delle prescritte autorizzazioni e concessioni del Genio Civile della Provincia di Firenze. Sempre in ipotesi accusatoria, le condotte contestate sarebbero state poste in essere nel periodo dal 1997 al 2005 (con l’esclusione del 2001, anno in cui era stata chiesta la concessione). Il pubblico ministero – secondo quanto segnala il rimettente – ritiene ininfluente, in punto di qualificazione penalistica delle condotte, la disposizione contenuta nell’art. 23, comma 4, del d.lgs. n. 152 del 1999, che sanziona come illecito amministrativo la condotta di «derivazione o utilizzo» di acque pubbliche in assenza di autorizzazione o concessione, perché diverso sarebbe il bene giuridico tutelato penalmente, attraverso la fattispecie del furto aggravato, rispetto a quello presidiato dalla sanzione amministrativa: nel primo caso il patrimonio dello Stato, nel secondo la regolamentazione del prelievo delle acque e la tutela della salubrità di queste. Di conseguenza, la stessa condotta, ove accertata, darebbe luogo alla violazione sia del precetto penale sia di quello amministrativo, con applicazione concomitante delle due norme indicate. In senso contrario, prosegue il giudice a quo, le difese degli imputati hanno sostenuto la tesi della specialità della norma che prevede l’illecito amministrativo, rispetto alla previsione del delitto di furto, con conseguente irrilevanza penale della condotta di prelievo di acque sotterranee o superficiali per fini industriali, a norma dell’art. 9 della legge 24 novembre 1989, n. 681 (Modifiche al sistema penale). 1.2. – Il rimettente considera pregiudiziale, nel contesto descritto, una verifica della asserita prevalenza della norma che sanziona in via amministrativa il prelievo abusivo di acqua su quella penale contestata, «atteso che qualunque verifica in fatto della imputazione deve presupporre necessariamente la giurisdizione del giudice penale». Lo stesso rimettente procede quindi a richiamare per grandi linee l’evoluzione della disciplina delle acque, osservando come, ancor prima della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia di risorse idriche), già l’art. 1 del r.d. n. 1775 del 1933 avesse attribuito alle acque classificate di «pubblico generale interesse» il carattere della demanialità. Le acque prive di rilevanza pubblica, e non inserite espressamente negli elenchi previsti dalla legge, erano rimaste oggetto delle disposizioni del codice civile. Con la legge n. 36 del 1994, emanata in una fase storica in cui era ormai diffusa l’attenzione alla tutela delle risorse idriche, il legislatore nazionale ha proceduto a ridefinire l’intera disciplina delle acque pubbliche, in una prospettiva di vero e proprio rovesciamento dei principi sottesi alla regolamentazione del prelievo e dell’utilizzo dell’acqua. Per effetto della cosiddetta legge Galli, si è passati da un regime ordinario di carattere privatistico, che richiedeva una specifica classificazione da parte della pubblica amministrazione per qualificare un’acqua come di pubblico interesse, ad un regime «rigidamente pubblico in ordine alla proprietà della risorsa idrica», nel quale tutte le acque, superficiali e sotterranee, sono pubbliche, rimanendo nella discrezionalità della pubblica amministrazione soltanto il potere di disciplinare diversamente le modalità di utilizzo delle acque, a seconda dei soggetti e delle finalità. Successivamente, è entrato in vigore il d.lgs. n. 152 del 1999, di recepimento di numerose direttive comunitarie, il quale ha dettato norme a tutela delle acque dall’inquinamento, ed è intervenuto anche sul testo unico approvato con il r.d. n. 1775 del 1933, in particolare sostituendo l’art. 17 di quest’ultimo con il comma 4 dell’art. 23 del citato d.lgs. La previsione richiamata ha stabilito il divieto di derivare o utilizzare acqua pubblica senza un provvedimento autorizzativo o concessorio dell’autorità competente, comminando al contravventore, «fatti salvi ogni altro adempimento o comminatoria previsti dalle leggi vigenti», una sanzione amministrativa pecuniaria, oltre alla cessazione dell’utenza abusiva e al pagamento dei canoni non corrisposti. A partire quindi dall’entrata in vigore del d.lgs. n. 152 del 1999, si è posto il problema di individuare la norma sanzionatoria applicabile in relazione a condotte di impossessamento di acque pubbliche analoghe a quelle descritte nel capo di imputazione. Il giudice a quo segnala come, dopo qualche iniziale incertezza, la giurisprudenza di legittimità si sia consolidata su posizioni di «sostanziale abrogazione della rilevanza penale della condotta descritta», affermando da ultimo (Corte di cassazione, sentenza n. 25548 del 2007) che la previsione contenuta nell’art. 23, comma 4, del d.lgs. n. 152 del 1999 costituisce norma speciale rispetto a quella generale di cui all’art. 624 del codice penale, in quanto presenta due elementi specializzanti: l’oggetto dell’impossessamento (l’acqua pubblica) ed il dolo specifico (la finalità industriale). Il rimettente richiama anche un precedente di segno contrario (Corte di cassazione, sentenza n. 37237 del 2001), che aveva ritenuto sussistente un concorso reale e non apparente tra le norme, là dove la previsione amministrativa sarebbe volta a tutelare la salubrità delle acque e quella codicistica il bene nel suo valore patrimoniale. Il Tribunale tuttavia, in assonanza con la giurisprudenza più recente, ritiene che la verifica del rapporto di specialità debba fondarsi su una comparazione strutturale tra le fattispecie più che sulla loro funzione protettiva, ed aggiunge, richiamando ancora la sentenza n. 25548 del 2007 della Corte di cassazione, che «anche il d.lgs. n. 152 del 1999, art. 23 tutela la proprietà delle acque, sia pure sotto un peculiare profilo». In particolare, la disposizione che configura l’illecito amministrativo presidierebbe gli interessi patrimoniali dell’Erario in quanto stabilisce che il contrav ventore deve corrispondere, in ogni caso, i canoni evasi, i quali rappresentano il corrispettivo del bene ai sensi degli artt. 13 e 18 della legge n. 36 del 1994. Inoltre, nel caso oggetto del procedimento principale, la condotta di impossessamento dell’acqua sotterranea e superficiale sarebbe stata posta in essere con specifica finalità industriale, con la conseguenza che, in base al criterio di specialità previsto dall’art. 9 della legge n. 681 del 1989, dovrebbe trovare applicazione la sola sanzione amministrativa. Tutto ciò premesso, il rimettente ritiene che la disposizione che configura l’illecito amministrativo sia costituzionalmente illegittima, per violazione del canone della ragionevolezza e del principio di uguaglianza. 1.3. – Con riguardo alla rilevanza della questione, il Tribunale precisa, innanzitutto, che fino alla pubblicazione del d.lgs. n. 258 del 2000, di integrazione e correzione del d.lgs. n. 152 del 1999, le condotte di impossessamento di acque pubbliche per fini di vantaggio patrimoniale erano punite a titolo di furto. Pertanto, per i fatti antecedenti posti ad oggetto del procedimento a quo, in ipotesi di declaratoria di illegittimità costituzionale della norma che ha configurato l’illecito amministrativo, potrebbe nuovamente trovare applicazione la fattispecie incriminatrice, non ostandovi il principio sancito dall’art. 2 cod. pen., a sua volta attuativo dell’art. 25 Cost. Dopo aver richiamato ampiamente la sentenza n. 394 del 2006 della Corte costituzionale sul tema del sindacato di costituzionalità con effetti in malam partem, il giudice a quo afferma che la norma censurata sarebbe sussumibile nella categoria delle «norme di favore», in quanto avrebbe operato una «depenalizzazione “di favore” in relazione a determinati soggetti, con carattere di irragionevolezza con riferimento alla gerarchia dei beni giuridici tutelati dall’ordinamento». 1.4. – Con riguardo alla non manifesta infondatezza della questione, il giudice a quo nuovamente si riporta alla sentenza n. 394 del 2006, nella parte in cui si afferma che «un sindacato sul merito delle scelte legislative è possibile solo ove esse trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio». Ciò che ricorrerebbe nel caso odierno, in quanto il regime sanzionatorio introdotto nel 1999 per le condotte di derivazione e utilizzo abusivi di acque pubbliche a fini industriali, sarebbe viziato «da irragionevolezza e grave contraddizione con alcune norme di rango costituzionale». In particolare, l’introduzione di una norma di depenalizzazione dell’impossessamento abusivo, a fini di lucro, di un bene giuridico di cui si è riconosciuto il valore fondamentale per la collettività, risulta, secondo il rimettente, «manifestamente privo di razionalità e di armonia con il sistema di tutela dato», ancor più se si pone mente al fatto che in precedenza, cioè fino all’anno 2000, le stesse condotte erano sanzionate penalmente. L’irrazionalità della scelta legislativa sarebbe ancor più palese considerando che continua ad essere penalmente sanzionata la sottrazione di beni patrimoniali i quali, nella scala di valori, risultano di importanza di gran lunga inferiore alla risorsa idrica. Sussisterebbero dunque, secondo il Tribunale di Firenze, profili di illegittimità costituzionale della norma censurata, là dove essa «non soltanto introduce una disparità di trattamento sanzionatorio di condotte identiche relative allo stesso bene giuridico, ancorché poste in essere in momenti diversi, senza che emerga ragione a fondamento, ma introduce una disparità di trattamento sanzionatorio fra beni di diverso valore sociale, apprestando tutela diminuita proprio a quel bene che, con la medesima legge, si intende tutelare più incisivamente». Inoltre, l’illegittimità della norma censurata emergerebbe anche in relazione al diverso trattamento riservato ad «altre condotte di impossessamento relative al medesimo bene giuridico, e da ritenersi ancora sanzionate dalla norma incriminatrice generale di cui all’art. 624 cod. pen.». A tale proposito il rimettente richiama nuovamente la giurisprudenza della Corte di cassazione, e in particolare la già citata sentenza n. 25548 del 2007, per dissentire dalla affermazione ivi contenuta, secondo la quale le due norme – artt. 624 cod. pen. e 23, comma 4, d.lgs. n. 152 del 1999 – regolano la stessa materia, vale a dire l’impossessamento di un bene altrui per trarne vantaggio. Ciò sarebbe vero solo con riferimento alle condotte che, al pari di quelle contestate nel procedimento principale, consistano in «derivazione o utilizzo», locuzioni che, peraltro, configurerebbero soltanto alcuni possibili modi di impossessamento dell’acqua. Vi sarebbero dunque «casi di impossessamento che non vengono realizzati attraverso una derivazione, o che non sono finalizzati all’utilizzo industriale del bene, ma che sono comunque caratterizzati da fine di lucro, i quali necessariamente sfuggono alla previsione della norma amm inistrativa, e ricadono […] sotto l’impero della fattispecie penale, questa volta essa stessa speciale rispetto alla norma amministrativa». A titolo esemplificativo, il Tribunale cita il caso di un soggetto il quale procedesse alla trivellazione di un pozzo di acque sotterranee, ritenendole di pregio, al fine di farne commercio, «anche eventualmente mediante la pura e semplice cessione a terzi. In tal caso l’impossessamento non si realizzerebbe mediante derivazione, né avrebbe come finalità un utilizzo dell’acqua pubblica a fini industriali (utilizzo che presuppone nella quasi totalità dei casi il rilascio del bene stesso dopo il suo utilizzo), e quindi necessariamente sarebbe la norma penale a dispiegare i propri effetti». Pertanto, la norma censurata avrebbe anche introdotto una ingiustificata disparità di trattamento sanzionatorio tra condotte di identico disvalore, relative allo stesso bene, «ancorché poste in essere con motivazioni differenti». 1.5. – Il Tribunale di Firenze argomenta ulteriormente sul profilo della rilevanza della questione, con specifico riguardo al fenomeno della successione delle leggi, osservando come, nella perdurante vigenza della norma censurata, una parte delle condotte in contestazione – quelle successive alla depenalizzazione – risulterebbe priva di rilevanza penale, mentre l’altra parte, costituita dalle condotte precedenti, risulterebbe non più punibile ai sensi dell’art. 2, secondo comma, cod. pen. In caso di accoglimento della questione, si verificherebbe «la nuova espansione della norma incriminatrice penale», quantomeno per i fatti pregressi, al momento non ancora prescritti. Trattandosi infatti di condotte antecedenti all’entrata in vigore della norma di favore, non verrebbe in rilievo il principio di irretroattività della norma penale, bensì il diverso principio della retroattività della norma penale più mite, che, peraltro, nella specie non potrebbe spiegare alcun effetto. In proposito, è ancora richiamata la sentenza n. 394 del 2006 della Corte costituzionale, nella parte in cui si trova affermato che «è giocoforza ritenere che il principio di retroattività della norma penale più favorevole in tanto è destinato a trovare applicazione, in quanto la norma sopravvenuta sia, di per sé, costituzionalmente legittima». Le stesse conclusioni sarebbero applicabili, sempre secondo il rimettente, alla ipotesi della declaratoria di illegittimità di una norma a carattere amministrativo con effetti di depenalizzazione. 2.− Con atto depositato il 16 febbraio 2010, è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile o, comunque, infondata. La difesa dello Stato osserva come il giudice a quo – il quale dichiara di aderire all’orientamento della Corte di cassazione secondo cui l’art. 23 del d.lgs. n. 152 del 1999 è norma speciale rispetto all’art. 624 cod. pen. –, non abbia assolto all’onere di verificare se sia possibile dare un’interpretazione costituzionalmente orientata alla norma in esame. Sarebbe questo, a parere dell’Avvocatura generale, il percorso da seguire nel caso di specie, posto che il citato art. 23, nel sanzionare in via amministrativa le condotte di derivazione e utilizzo abusivi di acque pubbliche, intende assicurare la realizzazione degli obiettivi indicati dall’art. 144 del d.lgs. n. 152 del 2006, come sarebbe dimostrato dalla previsione della possibilità di presentare domanda di concessione in sanatoria, ai sensi dell’art. 96, comma 6, del medesimo decreto. Differente, invece, risulterebbe l’ambito di applicazione del delitto di furto, sicché tra le due previsioni non ricorrerebbe un rapporto di specialità, come affermato dal rimettente, bensì un concorso formale di reati, disciplinato dall’art. 81 cod. pen. Tale opzione ermeneutica, secondo la difesa dello Stato, consentirebbe di fugare i dubbi di legittimità costituzionale sollevati dal rimettente. 3. – Con comparsa depositata l’11 febbraio 2010, si è costituito in giudizio M.C., imputato nel procedimento principale, concludendo per la manifesta infondatezza della questione. La difesa dell’imputato richiama l’ordinanza di rimessione nella parte in cui il giudice a quo effettua la comparazione tra l’art. 23 del d.lgs. n. 152 del 1999, che punisce la violazione del divieto di derivazione o utilizzo di acqua pubblica con la sanzione amministrativa, e l’art. 624 cod. pen., dando atto che, secondo la giurisprudenza di legittimità consolidata, la condotta di impossessamento abusivo di acque pubbliche non riveste (più) rilevanza penale (Corte di cassazione, sentenza n. 25548 del 2007). Ciò posto, si osserva come il rimettente, che pure dichiara di aderire a tale orientamento giurisprudenziale, abbia sollevato questione di legittimità costituzionale ritenendo la previsione richiamata in contrasto con l’art. 3 Cost., sicché la violazione del principio di uguaglianza deriverebbe proprio dall’elemento specializzante della «finalità industriale». In realtà, prosegue la stessa difesa, il rimettente avrebbe omesso di analizzare le ragioni su cui si fonda la scelta di non sanzionare penalmente la condotta descritta nell’art. 23, comma 4, del d.lgs. n. 152 del 1999, avendo focalizzato la sua attenzione sulla presunta contraddittorietà tra il sistema delineato dal d.lgs. n. 152 del 1999, di tutela rafforzata del bene giuridico costituito dalle acque pubbliche, e la introduzione, in quello stesso sistema, di una norma che ne depenalizza «l’impossessamento illecito a fini di lucro». La parte privata segnala inoltre come, nel percorso logico del giudice a quo, il fine industriale venga equiparato al fine di lucro, ciò che appare quanto meno riduttivo se si considera che il primo, a differenza del secondo, presuppone un’organizzazione di lavoro e trascende l’interesse del singolo. Sarebbe poi evidente che, mentre nella fattispecie che punisce il delitto di furto l’interesse primario è rappresentato dalla tutela della proprietà privata, in quella delineata dall’art. 23 del d.lgs. n. 152 del 1999 oggetto di tutela è la riserva idrica, all’interno di un regime concessorio, con sanzioni pecuniarie sicuramente elevate se raffrontate al costo dell’acqua. Il differente disvalore sociale delle condotte indicate, giustificherebbe quindi il diverso sistema sanzionatorio. Del resto, nel bilanciamento tra interessi parimenti meritevoli di tutela, non di rado il legislatore ha privilegiato l’attività industriale e commerciale a scapito delle esigenze ambientali, come avviene per l’inquinamento acustico delle zone limitrofe agli aeroporti e per l’inquinamento atmosferico prodotto dai mezzi di trasporto urbani. Si tratta di scelte sicuramente discutibili sul piano politico, ma non prive di ragionevolezza, sicché la questione sarebbe manifestamente infondata. 4. – Con atto depositato il 15 febbraio 2010, si sono costituiti in giudizio R.A., S.C., G.G., Z.F., L.M., M.N., F.G., C.U., O.C., M.P.P. e M.C., tutti imputati nel procedimento a quo, nonché il Consorzio C.A.V.E.T. Alta Velocità Emilia-Toscana, in persona del legale rappresentante pro tempore, in qualità di responsabile civile e civilmente obbligato per la pena pecuniaria. La difesa delle parti indicate svolge alcune considerazioni sul ragionamento prospettato dal giudice a quo a fondamento della questione, concludendo per l’inammissibilità o, comunque, l’infondatezza della stessa. 4.1. – Si osserva in primo luogo, sotto il profilo della rilevanza, che il rimettente si sarebbe limitato ad affrontare le ricadute dell’eventuale pronuncia di accoglimento in rapporto al fenomeno della successione delle leggi penali nel tempo, regolato dall’art. 2 cod. pen., mentre in realtà, come sollecitato dalla stessa difesa, il giudice a quo avrebbe dovuto prioritariamente stabilire se, stante il disposto dell’art. 48 del r.d. n. 1775 del 1933, nel caso di specie possano trovare applicazione la norma censurata ovvero quella che punisce il furto, invocata in alternativa dal medesimo giudice. Il richiamato art. 48, terzo comma, stabilisce che «quando il regime di un corso d’acqua o di un bacino di acqua pubblica sia modificato permanentemente per esecuzione da parte dello Stato di opere rese necessarie da ragioni di pubblico interesse, l’utente, oltre all’eventuale riduzione o cessazione del canone, ha diritto ad una indennità, qualora non gli sia possibile senza spese eccessive di adattare la derivazione al corso di acqua modificato». Se infatti, incontestabilmente, l’esecuzione del tracciato ferroviario per l’alta velocità tra Firenze e Bologna è qualificabile alla stregua di un’opera di pubblica utilità eseguita dallo Stato, esiste il presupposto per l’applicazione dell’art. 48, terzo comma, con la conseguenza che sarebbe esclusa in radice l’antigiuridicità delle condotte, venendo così a mancare la rilevanza della questione. 4.2. – Nel merito, la difesa osserva come rientri nella piena ed insindacabile discrezionalità del legislatore, con il solo limite della ragionevolezza delle opzioni assunte, l’individuazione delle condotte punibili, nonché la scelta e la quantificazione delle relative sanzioni. Nel caso in esame, pur essendo innegabile che l’acqua pubblica costituisca un oggetto di tutela di primario valore, ciò che assume importanza nel sistema normativo «non è tanto la materiale fisicità del bene, quanto la concreta disponibilità dello stesso». Posto dunque che la capacità di disporre delle acque pubbliche non è libera ma amministrata, la scelta di qualificare come illecito amministrativo il prelievo abusivo delle predette acque sembra tutt’altro che irrazionale, risultando il naturale completamento di una disciplina di base amministrativa, e dimostrandosi consona alla peculiare forma aggressiva in esame. Più specificamente, mentre il delitto di furto tipizza un’aggressione ad un potere altrui (che non è proprio, o anche, dell’agente), la fattispecie di prelievo abusivo di acque pubbliche tipizza «una aggressione ad un potere che è di tutti, ma che è tale in forza di una programmata e controllata parcellizzazione ad opera di un soggetto-filtro la cui volontà, in definitiva, è la prima e più importante ad essere frodata». Non risulterebbe sussistente neppure la disparità di trattamento sanzionatorio tra il prelievo abusivo di acque pubbliche finalizzato al mero commercio della risorsa idrica, in assunto del rimettente punito come illecito penale, e il medesimo prelievo diretto ad uso industriale, punito come illecito amministrativo. Il ragionamento del giudice a quo sarebbe sul punto viziato dalla mancata considerazione del rilievo che riveste, nella fattispecie sanzionata in via amministrativa, il dolo specifico, che, pur non essendo un elemento materiale del fatto, nondimeno costituisce elemento della fattispecie e concorre alla tipizzazione della stessa. L’elemento del dolo specifico, sottolinea la difesa, «determina una indubbia specificazione dell’illecito, contribuendo all’emersione di una peculiarità che poi si riflette sull’intera struttura di quello, rendendola un unicum e, conseguentemente, meritevole di un proprio non estensibile giudizio disvaloriale». La differente struttura delle fattispecie di prelievo abusivo di acque pubbliche finalizzato al commercio delle stesse, e di prelievo abusivo finalizzato all’uso industriale, esige, contrariamente a quanto sostenuto dal rimettente, un trattamento differenziato, in ossequio al principio sancito dall’art. 3, secondo comma, Cost. 5. – Con atto depositato il 15 febbraio 2010 si è costituito in giudizio P.V., pure imputato nel procedimento a quo, per sostenere la manifesta infondatezza della questione sollevata dal Tribunale di Firenze. 5.1. – La difesa della parte procede innanzitutto al riepilogo del quadro normativo di riferimento, per evidenziare come il solo sintetico esame degli interventi legislativi succedutisi nella regolamentazione della materia in esame sarebbe sufficiente a smentire le argomentazioni poste dal rimettente a fondamento dell’incidente di legittimità costituzionale. È vero infatti che l’art. 17 del r.d. n. 1775 del 1933, come novellato dal d.lgs. n. 152 del 1999, regola la medesima fattispecie contemplata dalla previsione del furto di cosa pubblica, e che pertanto, secondo la giurisprudenza consolidata, trova applicazione il disposto dell’art. 9, comma 2, della legge n. 689 del 1981, con conseguente prevalenza della disciplina amministrativa. La condotta contemplata dalle due fattispecie è perfettamente coincidente e consiste nell’impossessamento mediante sottrazione del bene al legittimo detentore, mentre risulta «irrilevante l’altro elemento strutturale che caratterizza il reato ex art. 624, il dolo specifico – finalità di profitto – dal momento che l’illecito amministrativo è circoscritto alla sola condotta del prelievo volontario ed al correlato utilizzo della risorsa idrica senza concessione e senza pagamento del canone». 5.2. – La difesa dell’imputato procede quindi all’esame delle censure prospettate dal rimettente, secondo il quale la discrezionalità del legislatore, nell’individuazione delle condotte connotate da disvalore sociale e nella scelta delle sanzioni applicabili, sarebbe stata male esercitata. La stessa difesa richiama sul punto la giurisprudenza costituzionale secondo cui la discrezionalità legislativa incontra il limite dell’arbitrarietà, o manifesta irragionevolezza dell’opzione adottata (sentenze n. 206 del 2003 e n. 287 del 2000), vizi entrambi ravvisabili quando «la sperequazione normativa tra fattispecie omogenee assuma aspetti e dimensioni tali da non potersi considerare protetta da alcuna ragionevole giustificazione» (sentenza n. 394 del 2006). Nella specie, tuttavia, non emergerebbero indizi in tal senso: lungi dall’aver semplicemente depenalizzato la fattispecie del prelievo abusivo di acque pubbliche, l’intervento legislativo attuato con il d.lgs. n. 152 del 1999 «ha disciplinato in modo organico, innovativo e globale» la materia delle utenze idriche, introducendo uno speciale regime amministrativo di consenso. Nemmeno sarebbe ravvisabile un contrasto con altre norme di rango costituzionale, peraltro non indicate dal rimettente, giacché la disciplina in esame risulterebbe perfettamente coerente con il più ampio disegno governativo di gestione delle risorse idriche, sotto il profilo sia quantitativo sia qualitativo, che assoggetta a permessi tanto il prelievo quanto lo scarico di acque dopo l’utilizzo. A proposito poi della distinzione tra «fruizione» e tutela delle risorse ambientali, la difesa richiama ancora la giurisprudenza costituzionale (sentenza n. 105 del 2008), con riguardo all’affermazione secondo cui l’emersione del problema ambientale avrebbe spinto il legislatore ad intervenire per la tutela della risorsa idrica mediante specifica e organica disciplina, superando così l’impostazione del testo unico del 1933, limitata alla regolamentazione del solo profilo della fruizione (sentenza n. 1 del 2010). Risulterebbe del resto opinabile l’idea di fondo che sorregge il percorso motivazionale seguito dal giudice a quo, secondo cui per assicurare tutela puntuale ed efficace l’ordinamento non può fare a meno della sanzione penale detentiva; al contrario, la sanzione amministrativa, specie se consistente, può rappresentare un efficace deterrente per enti e imprese. In una prospettiva più ampia, prosegue la difesa, la scelta legislativa di trasformare la risorsa idrica in un bene esclusivamente pubblico si giustifica, come avviene per altri beni del demanio, con la necessità di regolarne l’uso (con misure di programmata gestione) in modo da consentirne la fruizione diffusa, risultando altresì rilevante la diversità ontologica della risorsa idrica, come bene pubblico, rispetto agli altri beni protetti dall’art. 624 cod. pen. La stessa difesa passa quindi ad esaminare la denunciata disparità di trattamento sanzionatorio tra la condotta di prelievo non autorizzato di acque, sanzionata in via amministrativa, e l’impossessamento di altri beni, perseguito a titolo di furto, e ciò perfino in casi di particolari forme di impossessamento del medesimo bene costituito dall’acqua pubblica. Dopo aver segnalato la genericità ed indeterminatezza dell’assunto, si osserva che, per un verso, i beni protetti dalla norma penale non rivestono minore significato valoriale rispetto alla risorsa idrica, come agevolmente desumibile da un pur sintetico esame delle circostanze aggravanti menzionate dall’art. 625 cod. pen. (la tutela riguarda, infatti, non solo l’oggetto dell’impossessamento, ma anche le modalità con le quali si realizza tale effetto), e, per altro verso, che la denunciata disparità di trattamento sanzionatorio delle possibili diverse condotte di impossessamento dell’acqua è frutto di un ragionamento privo di fondamento. Premessa la condivisibile distinzione tra la condotta di impossessamento e quella di utilizzazione (in rapporto di presupposizione), la difesa dell’imputato rileva come la condotta delineata dalla norma oggetto di censura non distingua tra derivazione e utilizzazione, né ponga un limite finalistico all’utilizzazione dell’acqua, posto che l’unico limite esistente, costituito dall’uso domestico, opera in senso inverso, esentando l’utente dall’obbligo di ottenere la previa concessione. In realtà, a parere della stessa difesa, l’illecito amministrativo deve ritenersi integrato per il solo fatto che l’utente abusivo si è sottratto non solo al potere di controllo dell’amministrazione concedente, ma anche alla corresponsione del canone per l’uso dell’acqua, con la conseguenza che tutti gli altri usi, ad eccezione di quello domestico, risulterebbero ugualmente sanzionabili ai sensi dell’art. 23 del d.lgs. n. 152 del 1999. La questione di legittimità costituzionale sarebbe dunque inammissibile perché sollevata su una erronea interpretazione della normativa censurata. 6. – In prossimità dell’udienza pubblica, la difesa di S.C., G.G., Z.F., L.M., M.N., F.G., C.U., O.C., M.P.P., M.C., e del Consorzio C.A.V.E.T. Alta Velocità Emilia-Toscana, ha depositato memoria illustrativa nella quale sono riesaminati i profili di censura prospettati dal rimettente. 6.1. − In via preliminare, la difesa delle parti suddette reputa le questioni inammissibili in quanto la prevalenza della norma che sanziona in via amministrativa le condotte in esame, affermata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione e condivisa dal rimettente, costituisce espressione di una scelta politico-criminale riservata al legislatore, non manifestamente irragionevole né lesiva del principio di uguaglianza. Il rimettente, prosegue la difesa, vorrebbe che la norma che configura l’illecito amministrativo fosse dichiarata illegittima allo scopo di consentire la «riespansione» della norma penale, in tal modo richiedendo un intervento con esiti in malam partem, ma la Corte ha già più volte dichiarato inammissibili questioni con le quali venivano richiesti interventi di contrasto alle scelte depenalizzatrici compiute dal legislatore ordinario. Né varrebbero in senso contrario gli argomenti con i quali la stessa Corte costituzionale ha ritenuto illegittima la normativa «di favore» in materia di reati elettorali (sentenza n. 394 del 2006): nella citata pronuncia si trova affermato che, per potersi qualificare una norma come «di favore», deve trattarsi di norma di privilegio in senso proprio, la quale sottrae una certa classe di soggetti o di condotte all’ambito di applicazione di altra norma maggiormente comprensiva, e si trovi in rapporto di compresenza con quest’ultima. La norma censurata dall’odierno rimettente, viceversa, non presenterebbe i caratteri indicati, trattandosi di previsione che al più, secondo la teorizzazione contenuta nella stessa sentenza n. 394 del 2006, «delimita l’area di intervento di una norma incriminatrice», con la quale si esprime una valutazione legislativa in termini di meritevolezza ovvero di “bisogno di pena”, cui la Corte non potrebbe sovrapporre una diversa strategia di criminalizzazione. 6.2. – Un ulteriore profilo di inammissibilità delle questioni sarebbe collegato alla applicabilità, alle condotte contestate, della disposizione contenuta all’art. 48, terzo comma, del r.d. n. 1775 del 1933. L’argomento, sul quale il rimettente non avrebbe preso posizione nonostante le sollecitazioni provenienti dalle parti, è già stato esposto nella memoria di costituzione e sintetizzato al paragrafo 4.1. 6.3. – La difesa assume inoltre che la norma che sanziona il delitto di furto non potrebbe comunque trovare applicazione nel caso in esame, stante la natura dell’opera eseguita. L’applicazione del richiamato art. 48, pure se non intesa come limite al divieto di derivazione senza provvedimento concessorio, determinerebbe una “disponibilità materiale” in capo al soggetto esecutore dell’opera pubblica, qualificabile come detenzione, tale da escludere a priori la configurabilità del furto. Tutt’al più si potrebbe ipotizzare l’applicabilità delle diverse fattispecie dell’appropriazione indebita, sanzionata dall’art. 646 cod. pen., ovvero della deviazione di acque e modificazione dello stato dei luoghi, punita dall’art. 632 cod. pen., dovendosi peraltro considerare, quanto alla prima fattispecie, che mancherebbe comunque la querela, e, riguardo alla seconda fattispecie, che essa r icorre solo in presenza della «totale sottrazione dell’acque dalla sua naturale destinazione, in modo permanente o anche solo saltuario» (è richiamata la sentenza della Corte di cassazione n. 48057 del 2009). Risulterebbe pertanto erronea la individuazione della norma penale che verrebbe a «riespandere» il proprio campo di applicazione, ove la previsione dell’illecito amministrativo fosse dichiarata illegittima costituzionalmente. 6.4. − Nel merito, la stessa difesa evidenzia l’infondatezza della questione. Richiamati i profili di censura prospettati dal rimettente, si osserva che oggetto di tutela della norma censurata non è la risorsa in sé, quanto la funzione amministrativa che garantisce il contemperamento di diversi interessi. Non vi sarebbe dunque una “intangibilità” assoluta della risorsa idrica, e l’intero sistema dei «servizi idrici», per quanto fondato sul riconoscimento delle acque come risorsa da proteggere, è finalizzato a disciplinare «non l’acqua ma gli usi della stessa». L’articolato modello organizzativo presuppone che la capacità di disporre delle acque pubbliche non è libera ma, appunto, amministrata e dunque controllata. In tal senso, la tutela del profilo quantitativo delle risorse idriche risulta più appropriata di quella penale, che può invece risultare tecnicamente necessaria nell’ambito della tutela qualitativa, ove occorre evitare il deterioramento potenzialmente irreversibile della risorsa e della salute, quali effetti dell’inquinamento. La difesa richiama la Circolare della Presidenza del Consiglio dei Ministri dedicata ai «Criteri orientativi per la scelta tra sanzioni penali e sanzioni amministrative» (Circ. P.C.M. 19.12.1983), nella quale sono indicati i principi di proporzionalità e sussidiarietà ai quali deve ispirarsi il legislatore, tanto più nei casi in cui oggetto di tutela sia una funzione amministrativa di gestione. Quanto alla censura di disparità di trattamento di condotte diverse, egualmente aggressive del medesimo bene giuridico, la stessa sarebbe manifestamente infondata per due ordini di ragioni. In primo luogo, il rimettente muoverebbe da un erroneo presupposto, vale a dire che il legislatore avrebbe distinto tra le diverse motivazioni che sorreggono la condotta vietata, mentre in realtà la distinzione esiste tra “ambiti oggettivi di attività”: da un lato le attività strumentali all’uso domestico, per le quali non è necessaria autorizzazione, e dall’altro le attività non strumentali a tale uso. Tra queste ultime nessuna distinzione può essere fatta: sono tutte vietate, a prescindere dal fine di lucro, se consistono in derivazione o utilizzazione di acqua in assenza di provvedimento autorizzativo dell’autorità competente. E del resto, come correttamente posto in evidenza dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, la sanzione amministrativa tutela anch’essa gli interessi patrimoniali dello Stato, con la conseguenza che la norma censurata e la fattispecie che punisce il furto si trovano sicuramente in rapporto di specialità. In conclusione, si richiama l’attenzione sulla diversità intercorrente tra la situazione oggetto del procedimento principale, di realizzazione di un’opera di interesse pubblico, e altri casi di uso della risorsa idrica a fini di lucro al di fuori di tale contesto. L’eventuale differente trattamento sanzionatorio non sarebbe irragionevole. 7. – In data 15 giugno 2010 ha depositato memoria R.A., imputato nel procedimento a quo, già costituito nel giudizio incidentale. La difesa dell’imputato richiama i termini della questione e quindi argomenta sui possibili profili di inammissibilità. 7.1. – In primo luogo, si assume l’erronea individuazione della norma oggetto, in quanto l’esclusione della sanzione penale non sarebbe conseguenza diretta della disposizione che ha introdotto l’illecito amministrativo, ma discenderebbe dall’applicazione delle regole che disciplinano il concorso apparente di norme, e in particolare dall’art. 9 della legge n. 689 del 1981, che il rimettente non ha censurato. Sarebbe inoltre incompleta la motivazione in punto di rilevanza della questione, in quanto lo stesso rimettente dà per scontato che qualora non vi fosse la sanzione amministrativa, troverebbe applicazione la disposizione che punisce il furto. È quindi richiamato l’art. 48 del r.d. n. 1775 del 1933, a sostegno della mancanza di antigiuridicità delle condotte contestate, con argomenti sostanzialmente coincidenti con quelli già sintetizzati al paragrafo 4.1, cui si rinvia. 7.2. – Nel merito, le questioni risulterebbero infondate. Con riferimento alla lamentata disparità di trattamento tra condotte realizzate prima o dopo l’entrata in vigore della norma di depenalizzazione, la difesa osserva come, a prescindere dalla circostanza che l’effetto depenalizzante opererebbe anche per le condotte antecedenti, la censura risulti oltremodo singolare, in quanto tutte le disposizioni che intervengono a modificare disposizioni precedenti introducono necessariamente una “disparità di trattamento” tra condotte identiche, né il legislatore ha l’onere di far emergere ragioni a fondamento delle proprie scelte. Quanto alla prospettata irragionevolezza della scelta legislativa di tutelare le risorse idriche in modo meno pregnante rispetto ad altri beni, di importanza sicuramente inferiore, la difesa sottolinea la differenza esistente tra la condotta di spossessamento del legittimo proprietario, al quale venga sottratta la cosa mobile, al fine di trarne profitto, e la condotta di derivazione e utilizzazione dell’acqua in assenza di provvedimento concessorio o autorizzatorio: in tale secondo caso non vi è alterazione della destinazione del bene, costituendo al contrario l’uso industriale uno degli usi consentiti dell’acqua. Nella specie, verrebbe in rilievo la necessità che l’uso dell’acqua sia regolato attraverso specifici provvedimenti amministrativi, come confermato anche dalla previsione della possibile continuazione provvisoria del prelievo in presenza di particolari ragioni di interesse pubblico generale, purché l’utilizzazione non risulti in palese contrasto con i diritti di terzi e con il buon regime delle acque. Con riguardo, infine, alla prospettata ulteriore disparità di trattamento che il rimettente individua nel mantenimento della incriminazione di altre condotte, di aggressione al medesimo bene, la difesa rileva che, nell’ipotesi esemplificativamente riportata nell’ordinanza di rimessione, quella cioè del soggetto che si appropri di acqua di pregio per imbottigliarla e venderla, saremmo di fronte ad un uso non consentito della risorsa, e dunque ad un comportamento che non potrebbe essere autorizzato. Peraltro, e conclusivamente, ove mai esistessero altri comportamenti, di disvalore pari a quello delle condotte in esame, che fossero sanzionati penalmente, ciò dovrebbe comportare l’illegittimità costituzionale della perdurante incriminazione, non già della previsione dell’illecito amministrativo, come invece pretenderebbe il rimettente. Considerato in diritto 1. − Il Tribunale di Firenze, sezione distaccata di Pontassieve, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 4, del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152 (Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole), come modificato dall’art. 7 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 258 (Disposizioni correttive e integrative del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152, in materia di tutela delle acque dall’inquinamento, a norma dell’articolo 1, comma 4, della legge 24 aprile 1998, n. 128), nella parte in cui, sostituendo l’art. 17 del regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775 (Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici), sanziona come mero illecito amministrativo le condotte di derivazione o utilizzazione di acqua pubblica in assenza di provvedimento di autorizzazione o concessione dell’autorità competente. La norma è oggetto di censura in radice, per l’irragionevolezza che avrebbe contrassegnato la scelta legislativa di «depenalizzare» condotte in precedenza perseguite a titolo di furto, a fronte della finalità, dichiarata nell’art. 1 del d.lgs. n. 152 del 1999, di rafforzare la tutela della risorsa idrica. Ulteriori censure sono prospettate sotto il profilo della ingiustificata disparità di trattamento, derivante sia dal raffronto con la tutela apprestata ad altri beni, di valore sicuramente inferiore all’acqua, la cui indebita appropriazione è presidiata dalla sanzione penale, sia dal raffronto tra le stesse condotte di impossessamento abusivo dell’acqua, a seconda che siano state poste in essere prima o dopo l’entrata in vigore della norma in esame, ovvero che risultino sorrette o non dalla «finalità industriale». Con riferimento a quest’ultimo profilo, l’illegittimità costituzionale è costruita dal rimettente secondo lo schema della «norma di favore», sul presupposto che la sanzione amministrativa trovi applicazione nei confronti di un’unica categoria di soggetti, cioè di coloro i quali si impossessano abusivamente di acqua pubblica per fini industriali. 2. – Preliminarmente deve essere disattesa la prospettazione dell’Avvocatura dello Stato, che sostiene l’inammissibilità della questione, per non avere il rimettente esplorato la possibilità di dare della norma censurata un’interpretazione costituzionalmente orientata, fondata sulla coesistenza tra sanzione amministrativa e sanzione penale. In particolare non opererebbe, nel caso di specie, il principio sancito all’art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale). Detto principio è infatti applicabile, secondo la consolidata giurisprudenza di legittimità, all’ipotesi dell’impossessamento abusivo di acqua pubblica in forza del necessario riferimento alla struttura delle fattispecie, piuttosto che al bene protetto, per l’identificazione del rapporto di specialità tra norma amministrativa e norma penale, con la conseguenza che l’art. 23 del d.lgs. n. 152 del 1999 deve prevalere sull’art. 624 cod. pen. (ex plurimis, Corte di cassazione, sentenze n. 21008 del 2010; n. 25548 del 2007; n. 186 del 2006; n. 39977 del 2005; n. 26877 del 2004). D’altra parte, la coesistenza della sanzione penale e di quella amministrativa non sarebbe necessariamente il frutto di una interpretazione costituzionalmente orientata. L’effetto di depenalizzazione, scaturente dall’applicazione del principio di specialità, è stato voluto dal legislatore, che ben conosceva il sistema normativo nel quale la nuova disposizione andava ad inserirsi. La valutazione sulle questioni si riduce, dunque, in questa prospettiva, alla verifica della non manifesta irragionevolezza della scelta compiuta dal legislatore con l’introduzione della norma censurata. 3. – Le questioni sono inammissibili per ragioni diverse, di seguito specificate. 3.1. – Il rimettente censura come irragionevole la scelta del legislatore di depenalizzare l’impossessamento abusivo di acqua pubblica, perché in contraddizione con il complessivo indirizzo legislativo degli ultimi decenni, volto a rafforzare la tutela del bene acqua, preservando la sua fruizione da parte della generalità dei cittadini. Tale orientamento di maggior tutela dell’ambiente e degli interessi della collettività sarebbe in contrasto con l’attenuazione del rigore punitivo nei confronti dei soggetti che sottraggono quantitativi più o meno ingenti di acqua all’uso pubblico, per realizzare profitti diretti, derivanti da eventuali commercializzazioni dell’acqua abusivamente captata, o indiretti, derivanti da utilizzazione dell’acqua stessa per finalità industriali o comunque produttive, ottenendo la disponibilità del bene senza sostenere alcun costo. 3.2. – Occorre ricordare, con riferimento a tale censura, come questa Corte abbia costantemente affermato che «il potere di configurare le ipotesi criminose, determinando la pena per ciascuna di esse, e di depenalizzare fatti dianzi configurati come reati […] rientra nella discrezionalità legislativa censurabile, in sede di sindacato di costituzionalità, solo nel caso in cui sia esercitata in modo manifestamente irragionevole» (sentenza n. 364 del 2004, ed in precedenza, ex plurimis, sentenza n. 313 del 1995, ordinanze n. 110 del 2003, n. 144 del 2001, n. 58 del 1999). A proposito dell’efficacia delle sanzioni penali e di quelle amministrative, questa Corte ha pure osservato: «La sanzione penale non è l’unico strumento attraverso il quale il legislatore può cercare di perseguire la effettività dell’imposizione di obblighi o di doveri […]. Vi può essere uno spazio nel quale tali obblighi e doveri sono operanti, ma non assistiti da sanzione penale, bensì accompagnati da controlli e da responsabilità solo amministrative o politico-amministrative. Ed è anzi rimesso alla scelta discrezionale del legislatore, purché non manifestamente irragionevole, valutare quando e in quali limiti debba trovare impiego lo strumento della sanzione penale, che per sua natura costituisce extrema ratio, da riservare ai casi in cui non appaiano efficaci altri strumenti per la tutela di beni ritenuti essenziali» (ordinanza n. 317 del 1996). 4. – In conformità ai principi sopra ricordati, nel caso di specie non si può ritenere che la scelta di depenalizzazione operata dal legislatore con la norma censurata sia manifestamente irragionevole. Deve essere innanzitutto considerato il contesto normativo in cui si inserisce la disposizione censurata, che attua il disegno del legislatore di regolare in modo sistematico e programmato l’utilizzazione collettiva di un bene indispensabile e scarso, come l’acqua, che comporta la prevalenza delle regole amministrative di fruizione sul mero aspetto dominicale. L’integrale pubblicizzazione delle acque superficiali e sotterranee è stata strettamente legata dall’art. 1 della legge 5 gennaio 1994, n. 36 (Disposizioni in materia di risorse idriche) alla salvaguardia di tale risorsa ed alla sua utilizzazione secondo criteri di solidarietà. Da questo doppio principio discende la conseguenza che deve essere la pubblica amministrazione a disciplinare e programmare l’uso delle acque, allo scopo di consentire un equilibrato consumo per finalità diverse da quelle domestiche, nel quadro della fondamentale distinzione contenuta negli artt. 17, comma 1, e 95, primo comma, del r.d. n. 1775 del 1933. Non viene in rilievo la contrapposizione tra lo Stato, proprietario del bene, ed i privati, ma l’integrazione tra pubblico e privato, nel quadro della regolazione programmata e controllata dell’uso dell’acqua, che costituisce bene di tutti e, in quanto tale, deve essere distribuita secondo criteri razionali ed imparziali stabiliti da apposite regole amministrative. La legge non distingue tra i soggetti privati che si impossessano di acque sotterranee, ma, a norma del citato art. 95, primo comma, del r.d. n. 1775 del 1933, regola diversamente gli usi domestici, definiti e delimitati dall’art. 93 del medesimo t.u., e gli usi diversi, per i quali sono necessarie l’autorizzazione alla ricerca ed allo scavo e la concessione per l’utilizzo, secondo il piano di massima allegato alla domanda di autorizzazione. In questo quadro, spetta alla pubblica amministrazione competente programmare, regolare e controllare il corretto utilizzo del bene acqua in un dato territorio, non già in una prospettiva di mera tutela della proprietà demaniale, ma in quella del contemperamento tra la natura pubblicistica della risorsa e la sua destinazione a soddisfare i bisogni domestici e produttivi dei consociati. Questi ultimi hanno titolo ad utilizzare le acque sotterranee, nel rispetto delle norme amministrative poste a salvaguardia dell’integrità della risorsa, che non può essere indiscriminatamente depauperata da prelievi che sfuggono ai poteri regolativi della pubblica amministrazione. Da quanto appena detto si deduce che la scelta legislativa di sanzionare solo in via amministrativa eventuali comportamenti trasgressivi delle regole di utilizzo delle acque non è manifestamente irragionevole, giacché deve aversi primariamente riguardo al rapporto tra cittadini e pubblica amministrazione nell’accesso ad un bene che appartiene in principio alla collettività. Tale rapporto viene alterato dalla violazione di norme che non sono poste soltanto a presidio della proprietà pubblica del bene, collocato in una sfera separata rispetto a quella dei cittadini, ma soprattutto a garanzia di una fruizione compatibile con l’entità delle risorse idriche disponibili in un dato territorio e con la loro equilibrata distribuzione tra coloro che aspirano a farne uso. Se tutti hanno diritto di accedere all’acqua, l’aspetto dominicale della tutela si colloca in secondo piano, rispetto alla primaria esigenza di programm are e vigilare sulle ricerche e sui prelievi, allo scopo di evitare che impossessamenti incontrollati possano avvantaggiare indebitamente determinati soggetti a danno di altri o dell’intera collettività. La sanzione amministrativa prevista dalla norma censurata, d’altra parte, non è irrisoria e priva di efficacia dissuasiva, giacché i trasgressori, previa cessazione delle utenze abusive, sono tenuti al pagamento di una somma da 3.000 a 30.000 euro, oltre che dell’intero importo dei canoni non corrisposti. L’intento principale del legislatore è quello di ricondurre nell’alveo della regolarità un uso dell’acqua non in linea con la disciplina amministrativa, come dimostra peraltro la possibilità della continuazione provvisoria del prelievo – prevista dalla stessa norma censurata – «in presenza di particolari ragioni di interesse pubblico generale, purché l’utilizzazione non risulti in palese contrasto con i diritti dei terzi e con il buon regime delle acque». L’intreccio tra interessi pubblici e privati, emergente da tale ultima previsione, dimostra che tutto il sistema è fi nalizzato a mantenere l’equilibrio ambientale, l’equa utilizzazione delle risorse idriche da parte dei cittadini e l’effettività dei piani di salvaguardia delle stesse, predisposti dalle autorità competenti. Altre scelte legislative sarebbero astrattamente possibili, ma non spetta a questa Corte dare valutazioni di merito, una volta rilevata la non manifesta irragionevolezza di quella che sta alla base della norma censurata. 5. – La non manifesta irragionevolezza della scelta legislativa di depenalizzazione dell’impossessamento abusivo di acqua pubblica a fini non domestici, rende manifesta l’inconferenza del richiamo del rimettente alla sentenza n. 394 del 2006 di questa Corte, in tema di “norme penali di favore”. Tale pronuncia si basa sul presupposto della compresenza nell’ordinamento di una norma penale che contiene una fattispecie più ampia e di una norma che irragionevolmente prevede un trattamento più favorevole per specifiche condotte, altrimenti rientranti nella previsione generale. Il caso oggetto del presente giudizio riguarda una norma che ha escluso dalla rilevanza penale comportamenti che astrattamente avrebbero potuto essere ricondotti alla previsione generale di cui all’art. 624 del codice penale, secondo una scelta legislativa non riconducibile al fenomeno delle cosiddette norme penali di favore. Infatti, come si è visto al par. 3, non si riscontra una palese irragionevolezza nell’orientamento del legislatore a considerare recessivo il profilo proprietario della tutela delle acque pubbliche rispetto a quello programmatorio e gestionale, maggiormente consono, nella valutazione dello stesso legislatore, alla finalità di regolare un corretto uso, da parte dei cittadini, delle risorse idriche, alle quali comunque hanno titolo ad accedere. Il riferimento, operato dal rimettente, all’ipotesi di un’appropriazione dell’acqua pubblica a mero scopo di commercializzazione – indipendentemente quindi da un uso industriale, agricolo o comunque produttivo – esula dall’oggetto del giudizio principale e pertanto non assume rilevanza nell’attuale incidente di legittimità costituzionale. Essendo mirata in definitiva ad indurre un sindacato sulle scelte discrezionali sanzionatorie del legislatore, in una situazione non caratterizzata dalla manifesta irragionevolezza delle relative opzioni, la questione sollevata dal rimettente risulta inammissibile. 6. – Parimenti inammissibile è la questione basata sulla presunta irragionevolezza della depenalizzazione dell’impossessamento abusivo di acqua pubblica, in quanto si doterebbe un bene prezioso per la collettività di una tutela meno intensa rispetto ad altri beni di minore rilevanza nella scala dei valori costituzionali. Il rimettente tuttavia non precisa quali sarebbero tali beni e non indica neppure quali dovrebbero essere i criteri oggettivi per istituire una simile gerarchia di valori, assunta come punto di riferimento astratto per motivare l’asserita violazione, sotto questo profilo, dell’art. 3 Cost. La questione è pertanto inammissibile per carente motivazione sulla non manifesta infondatezza. 7. – Non ha maggior pregio la questione costruita sulla presunta arbitrarietà della depenalizzazione sotto il profilo intertemporale, giacché, ad avviso del rimettente, i comportamenti anteriori all’entrata in vigore della norma depenalizzatrice sarebbero sottoposti al rigore della norma penale, mentre quelli successivi sarebbero assoggettati soltanto alla sanzione amministrativa. L’affermazione del rimettente prova troppo. Difatti, se il ragionamento potesse avere ingresso nella considerazione del giudice costituzionale, tutte le norme di depenalizzazione sarebbero illegittime, giacché vi è pur sempre un termine temporale della loro entrata in vigore. A ciò si deve aggiungere che l’effetto discriminatorio prospettato dal giudice a quo non potrebbe verificarsi, in ragione dell’art. 2 cod. pen., del quale non si tiene alcun conto nell’ordinanza di rimessione. La questione pertanto difetta palesemente di rilevanza sotto il suddetto profilo ed è di conseguenza inammissibile. 8. – Infine, come già rilevato al par. 4, la legge non distingue tra utilizzazioni industriali, agricole o di altro tipo, ma soltanto tra usi domestici e altri usi. Non è ipotizzabile pertanto, al contrario di quanto asserito dal rimettente, una discriminazione tra gli usi industriali e gli altri usi possibili, che possono essere di vario genere e sono tutti assoggettabili, in caso di trasgressione delle norme amministrative, al medesimo regime sanzionatorio. La questione è quindi inammissibile per erronea ricostruzione del quadro normativo. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 4, del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152 (Disposizioni sulla tutela delle acque dall’inquinamento e recepimento della direttiva 91/271/CEE concernente il trattamento delle acque reflue urbane e della direttiva 91/676/CEE relativa alla protezione delle acque dall’inquinamento provocato dai nitrati provenienti da fonti agricole), come modificato dall’art. 7 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 258 (Disposizioni correttive e integrative del decreto legislativo 11 maggio 1999, n. 152, in materia di tutela delle acque dall’inquinamento, a norma dell’articolo 1, comma 4, della legge 24 aprile 1998, n. 128), che sostituisce l’art. 17 del regio decreto 11 dicembre 1933, n. 1775 (Testo unico delle disposizioni di legge sulle acque e impianti elettrici), sollevate, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal T ribunale di Firenze, sezione distaccata di Pontassieve, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Gaetano SILVESTRI, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA SENTENZA N. 274 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi per conflitti di attribuzione tra enti sorti a seguito del decreto del Ministro dell’interno dell’8 agosto 2009, recante: «Determinazione degli ambiti operativi delle associazioni di osservatori volontari, requisiti per l’iscrizione nell’elenco prefettizio e modalità di tenuta dei relativi elenchi, di cui ai commi da 40 a 44 dell’articolo 3 della legge 15 luglio 2009, n. 94», promossi dalle Regioni Toscana ed Emilia-Romagna con ricorsi notificati il 5 ed il 7 ottobre 2009, depositati in cancelleria l’8 ed il 13 ottobre 2009 ed iscritti ai nn. 10 e 11 del registro conflitti tra enti 2009. Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 7 luglio 2010 il Giudice relatore Giuseppe Frigo; uditi gli avvocati Lucia Bora per la Regione Toscana, Giandomenico Falcon per la Regione Emilia-Romagna e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. – Con ricorso notificato il 5 ottobre 2009 e depositato il successivo 8 ottobre (reg. confl. enti n. 10 del 2009), la Regione Toscana ha proposto conflitto di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione al decreto del Ministro dell’interno 8 agosto 2009, pubblicato nella Gazzetta ufficiale della Repubblica, serie generale, n. 183 dell’8 agosto 2009, recante «Determinazione degli ambiti operativi delle associazioni di osservatori volontari, requisiti per l’iscrizione nell’elenco prefettizio e modalità di tenuta dei relativi elenchi, di cui ai commi da 40 a 44 dell’articolo 3 della legge 15 luglio 2009, n. 94», prospettando la violazione dell’art. 117, commi secondo, lettera h), quarto e sesto, della Costituzione e del principio di leale collaborazione. La ricorrente espone che con il decreto impugnato è stata data attuazione ai commi da 40 a 44 dell’art. 3 della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), i quali consentono ai sindaci di avvalersi della collaborazione di associazioni di cittadini ai fini della segnalazione alle Forze di polizia dello Stato o locali di eventi pericolosi per la sicurezza urbana ovvero di situazioni di disagio sociale. La ricorrente deduce, altresì, di avere già proposto questione di legittimità costituzionale in via principale nei confronti delle disposizioni di cui ai commi 40, 41, 42 e 43 del citato 3, per contrasto con i medesimi parametri dianzi indicati. Come rilevato in tale sede, dette disposizioni non potrebbero essere infatti inquadrate nella materia «ordine pubblico e sicurezza», nella quale lo Stato ha competenza legislativa esclusiva (art. 117, secondo comma, lettera h, Cost.): materia da intendere, per consolidata giurisprudenza costituzionale, in senso restrittivo, e cioè come comprensiva dei soli interventi finalizzati alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico, inteso, quest’ultimo, quale complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui cui si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale. In assenza di ogni indicazione limitativa in tale direzione, il concetto di «sicurezza urbana» abbraccerebbe, infatti, anche misure volte a contrastare il degrado delle città e a favorire l’ordinato sviluppo delle relazioni socio-economiche, riconducibili alla materia «polizia amministrativa locale», di competenza regionale esclusiva (art. 117, comma secondo, lettera h, e quarto, Cost.). A sua volta, l’espressione «disagio sociale» comprenderebbe situazioni di difficoltà di integrazione dell’individuo nel tessuto sociale derivanti dalle più varie cause, evocative, come tali, di interventi rientranti nella materia «politiche sociali», anch’essa di competenza regionale residuale: competenza che la ricorrente ha, in effetti, esercitato con la legge regionale 24 febbraio 2005, n. 41 (Sistema integrato di interventi e servizi per la tutela dei diritti di cittadinanza sociale), il cui art. 58 prevede specificamente l’ado zione di «politiche per le persone a rischio di esclusione sociale». Tali considerazioni varrebbero anche in rapporto al decreto ministeriale attuativo su cui si fonda l’odierno conflitto. I suoi primi sette articoli devolvono, infatti, al prefetto – cioè ad un rappresentante territoriale del Governo – senza alcun coinvolgimento delle Regioni, tutte le funzioni e le competenze: in specie, la tenuta dell’elenco delle associazioni di osservatori (art. 1), la definizione del contenuto delle convenzioni che i sindaci possono stipulare con le associazioni stesse (art. 4, comma 2), la revoca delle iscrizioni (art. 6) e la revisione degli elenchi (art. 7); realizzando, con ciò, una inammissibile intromissione nelle attribuzioni regionali in materia di «polizia amministrativa locale» e di «politiche sociali». Meramente eventuale e del tutto marginale sarebbe, d’altronde, la forma di partecipazione delle Regioni prefigurata dall’art. 8 del decreto, concernente l’organizzazione di cors i di formazione e di aggiornamento per gli osservatori volontari. Risulterebbe violato, di conseguenza, anche l’art. 117, sesto comma, Cost., in forza del quale lo Stato può esercitare la potestà regolamentare solo nelle materie di sua competenza legislativa esclusiva: violazione tanto più evidente ove si consideri che la ricorrente ha già disciplinato la materia con la legge regionale 3 aprile 2006, n. 12 (Norme in materia di polizia comunale e provinciale), il cui art. 7 prevede specificamente che i comuni e le province possano stipulare convenzioni con le associazioni di volontariato iscritte nel registro regionale, «per realizzare collaborazioni tra queste ultime e le strutture di polizia locale rivolte a favorire l’educazione alla convivenza, al senso civico e al rispetto della legalità». Particolarmente lesiva, per questo verso, risulterebbe la norma transitoria di cui all’art. 9 del decreto impugnato, la quale – incidendo sulla citata disciplina regionale – consente alle associazioni che già collaboravano con le autorità locali di continuare ad esercitare l’attività solo per un limitato periodo di tempo, dovendo indi uniformarsi a quanto stabilito dal decreto censurato e, dunque, passare sotto la vigilanza del prefetto. Da ultimo, l’atto impugnato risulterebbe lesivo del principio di leale collaborazione, giacché, disciplinando ambiti di competenza regionale, avrebbe dovuto prevedere quantomeno l’intesa con le Regioni interessate o, comunque, adeguate forme di concertazione con queste ultime. Per le ragioni esposte, la ricorrente chiede che la Corte dichiari che il decreto ministeriale censurato è lesivo delle attribuzioni regionali e, per l’effetto, lo annulli. 2. – Avverso il medesimo decreto ministeriale ha proposto conflitto di attribuzione anche la Regione Emilia-Romagna con ricorso notificato il 7 ottobre 2009 e depositato il successivo 13 ottobre (reg. confl. enti n. 11 del 2009), denunciando la violazione degli artt. 117, secondo, quarto e sesto comma, e 118 Cost., nonché del principio di leale collaborazione. Premesso di avere anch’essa proposto questione di legittimità costituzionale in via principale nei confronti delle norme legislative statali attuate dal decreto impugnato, la ricorrente rileva come l’accoglimento di tale questione comporterebbe automaticamente l’illegittimità del decreto attuativo, per lesione delle prerogative costituzionali della Regione: in particolare, per avere disciplinato materie quali la «polizia amministrativa locale», la «sicurezza urbana» (in quanto materia ulteriore rispetto all’«ordine pubblico e sicurezza») e il «disagio sociale», che l’art. 117, secondo e quarto comma, Cost., riserverebbe alla potestà legislativa regionale. Il decreto impugnato risulterebbe emesso anche in violazione del sesto comma dell’art. 117 Cost., che limita la potestà regolamentare dello Stato alle materie di cui al secondo comma dello stesso articolo. Passando quindi analiticamente in rassegna i contenuti del decreto, la ricorrente rileva come ne resti avvalorata la conclusione che esso disciplina l’attività dei volontari in relazione ai servizi di polizia amministrativa locale: attività che la Regione Emilia-Romagna ha regolato con la legge 4 dicembre 2003, n. 24 (Disciplina della polizia amministrativa locale e promozione di un sistema integrato di sicurezza). Rimarchevole sarebbe la circostanza che, malgrado ciò, non venga riconosciuto alcun ruolo alle Regioni, fatta eccezione per quanto previsto dall’art. 8, in tema di organizzazione di corsi di formazione e aggiornamento per gli osservatori volontari: disposizione da considerare, peraltro, anch’essa illegittima, non spettando al regolamento statale prevedere e disciplinare l’attività regionale di formazione. Anche la Regione Emilia-Romagna ravvisa, d’altro canto, nella disposizione transitoria dell’art. 9 – concernente le associazioni che già svolgevano attività di volontariato «comunque riconducibili» alle previsioni dell’art. 3, comma 40, della legge n. 94 del 2009 – una palese interferenza con la disciplina regionale già in vigore, dettata, nella specie, dalla citata legge n. 24 del 2003. La ricorrente assume, inoltre, che talune disposizioni del decreto, tra cui quelle da ultimo indicate, andrebbero oltre la stessa previsione dell’art. 3, comma 43, della legge n. 94 del 2009, secondo la quale il Ministro dell’interno era chiamato solo a determinare gli ambiti operativi delle associazioni di osservatori volontari, i requisiti per la loro iscrizione negli appositi elenchi e le modalità di tenuta di questi. Per tale parte, l’atto impugnato sarebbe dunque illegittimo in via autonoma, e non già come conseguenza dell’incostituzionalità delle norme legislative attuate. In via subordinata, e per l’ipotesi in cui si ritenesse sussistente una esigenza di disciplina unitaria delle attività di volontariato in relazione alle materie «ordine pubblico e sicurezza» e «polizia amministrativa locale», la Regione Emilia-Romagna lamenta che, in violazione del principio di leale collaborazione, il decreto impugnato sia stato emanato senza la previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni, ovvero, in via di ulteriore subordine, senza avere sentito tale Conferenza (o la Conferenza unificata), rimarcando come la previsione di «forme di coordinamento» con le Regioni nella materia «ordine pubblico e sicurezza» risulti doverosa anche alla luce dello specifico disposto dell’art. 118, terzo comma, Cost. Alla luce di tali considerazioni, la ricorrente chiede, quindi, che la Corte dichiari che non spettava allo Stato adottare, a mezzo del Ministro dell’interno, l’atto impugnato e, conseguentemente, lo annulli. 3. – Si è costituito, in entrambi i giudizi, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo il rigetto dei ricorsi. Ad avviso della difesa dello Stato, l’attività degli osservatori volontari sarebbe, in realtà, integralmente riconducibile alla materia «ordine pubblico e sicurezza»: e ciò quantomeno alla luce del criterio della prevalenza, di cui la giurisprudenza costituzionale ha già fatto specifica applicazione in rapporto a situazioni di astratto concorso con la competenza regionale in materia di «polizia amministrativa locale». Quanto, infatti, al concetto di «sicurezza urbana», la relativa definizione, offerta dal decreto del Ministro dell’interno 5 agosto 2008, è già passata al vaglio della Corte costituzionale, che, con la sentenza n. 196 del 2009 – emessa a seguito di un conflitto di attribuzione proposto dalla Provincia autonoma di Bolzano – ha ritenuto che detto decreto concerna esclusivamente la tutela della sicurezza pubblica, intesa come attività di prevenzione e repressione dei reati. Neppure il riferimento alle «situazioni di disagio sociale» intaccherebbe le competenze regionali, e in particolare quella relativa ai «servizi sociali». Gli osservatori volontari non sarebbero, infatti, chiamati ad erogare tali servizi, ma soltanto a segnalare situazioni critiche riscontrate nel corso del loro operato. Parimenti infondate risulterebbero le censure di violazione del principio di leale collaborazione. La piena competenza statale in materia renderebbe, infatti, del tutto legittimi i meccanismi configurati dal legislatore per le predisposizione degli elenchi delle associazioni, la disciplina degli iscritti e il controllo sugli stessi. Né potrebbero invocarsi forme di coordinamento ulteriori rispetto a quelle insite nel previsto coinvolgimento, in forma consultiva, del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica, alle cui sedute possono essere chiamati a partecipare i responsabili degli enti locali. 4. – Nell’imminenza dell’udienza pubblica, entrambe le Regioni ricorrenti hanno depositato memorie illustrative, volte a contestare le tesi della difesa dello Stato. Le ricorrenti rilevano, in particolare, come la definizione della «sicurezza urbana» offerta dal decreto ministeriale del 2008 sia stata ritenuta conforme al dettato costituzionale dalla Corte sulla base di specifici argomenti esegetici, non riproponibili in rapporto al decreto oggi impugnato. Né – secondo la Regione Toscana – sarebbe comunque possibile una lettura delle disposizioni censurate che eviti la lesione delle competenze regionali, perché ciò significherebbe affidare a privati cittadini una funzione necessariamente pubblica (quale quella della prevenzione dei reati e del mantenimento dell’ordine pubblico). Quanto, poi, alle situazioni di «disagio sociale», anche l’attività di mera segnalazione rientrerebbe nella competenza regionale in materia di «politiche sociali», non essendo ipotizzabile che alle Regioni spetti solo il compito di intervenire ex post – quando, cioè, le situazioni di disagio sono già insorte – lasciando allo Stato la determinazione della disciplina applicabile all’attività di prevenzione. Né, d’altro canto, la competenza statale potrebbe essere affermata sulla base del criterio della prevalenza, giacché, a tacer d’altro, mancherebbe il relativo presupposto di applicabilità, rappresentato dall’identità di ratio delle disposizioni oggetto di censura. Del tutto inidoneo a soddisfare il principio di leale collaborazione sarebbe, infine, il previsto intervento del comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica (circoscritto, peraltro, alla formulazione di un parere circa il possesso, da parte delle associazioni, dei requisiti necessari ai fini dell’iscrizione nell’elenco), anche perché in tale organo possono essere coinvolti i responsabili degli enti locali, ma non anche quelli della Regione interessata. Considerato in diritto 1. – Le Regioni Toscana ed Emilia-Romagna hanno proposto conflitti di attribuzione nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri, in relazione al decreto del Ministro dell’interno 8 agosto 2009, recante disposizioni attuative dei commi da 40 a 44 dell’articolo 3 della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), i quali prevedono che i sindaci possano avvalersi, alle condizioni e con le modalità ivi stabilite, della collaborazione di associazioni di cittadini non armati al fine di segnalare alle Forze di polizia dello Stato o locali «eventi che possano arrecare danno alla sicurezza urbana ovvero situazioni di disagio sociale». Premesso di avere proposto questioni di legittimità in via principale nei confronti delle norme legislative attuate, le ricorrenti deducono che, per le medesime ragioni esposte in quella sede, anche la disciplina recata dal decreto attuativo risulterebbe lesiva delle attribuzioni regionali. Essa esorbiterebbe, infatti, dall’ambito della materia «ordine pubblico e sicurezza», di competenza esclusiva statale (art. 117, secondo comma, lettera h, Cost.): materia da intendere, per consolidata giurisprudenza costituzionale, in senso restrittivo, ossia come comprensiva dei soli interventi finalizzati alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico. Il concetto di «sicurezza urbana» abbraccerebbe, infatti, anche misure volte a contrastare il degrado delle città e a favorire l’ordinato sviluppo della convivenza civile, riconducibili alla materia «polizia amministrativa locale», di competenza regionale esclusiva, ai sensi dei commi secondo, lettera h), e quarto dell’art. 117 Cost.; mentre la formula «disagio sociale» comprenderebbe situazioni di emarginazione della più varia origine, da fronteggiare con interventi rientranti nella materia «politiche sociali», anch’essa di competenza regionale residuale. Sarebbe quindi violato anche il sesto comma dell’art. 117 Cost., avendo lo Stato esercitato una potestà regolamentare in materia non di propria competenza legislativa esclusiva: violazione particolarmente apprezzabile in rapporto alla norma transitoria dell’art. 9 del decreto, che impone alle associazioni di volontariato, già operanti in ambiti «comunque riconducibili» a quelli considerati, di uniformarsi – dopo un breve lasso di tempo – alle previsioni del decreto stesso, con conseguente interferenza su rapporti regolati da leggi regionali in vigore. Le ricorrenti censurano, per altro verso, che il decreto demandi al prefetto ogni competenza – segnatamente in rapporto alla tenuta dell’elenco delle associazioni, alla definizione del contenuto delle convenzioni stipulate con esse dai sindaci, alla revoca delle iscrizioni e alla revisione degli elenchi – senza contemplare alcuna forma di coinvolgimento delle Regioni, fatta eccezione per quella, del tutto marginale, prefigurata all’art. 8, attinente all’organizzazione di corsi di formazione e aggiornamento dei volontari: donde – secondo la Regione Toscana – anche la violazione del principio di leale collaborazione. In via subordinata, la Regione Emilia-Romagna lamenta – sotto il profilo della violazione del medesimo principio – che il decreto sia stato emanato senza la previa intesa con la Conferenza Stato-Regioni o, in via di ulteriore subordine, senza avere sentito tale Conferenza (o la Conferenza unificata), rimarcando come la previsione di «forme di coordinamento» con le Regioni nella materia dell’ordine pubblico e sicurezza debba ritenersi doverosa anche alla luce dello specifico disposto dell’art. 118, terzo comma, Cost., che risulterebbe, dunque, esso pure violato. 2. – I ricorsi sollevano conflitti di attribuzione aventi ad oggetto il medesimo atto e basati su censure in larga parte analoghe, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere definiti con unica decisione. 3. – In via preliminare, va rilevato che, successivamente alla proposizione dei ricorsi, il decreto ministeriale impugnato è stato oggetto di modifica ad opera del decreto del Ministro dell’interno 4 febbraio 2010, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, serie generale, n. 30 del 6 febbraio 2010. Si è trattato, peraltro, di modifiche marginali (soppressione del divieto, per gli osservatori volontari, di avvalersi di mezzi motorizzati; proroga del termine entro il quale le associazioni già operanti possono continuare l’attività in difetto di iscrizione nell’elenco), manifestamente prive di incidenza sul thema decidendum. 4. – Nel merito, i ricorsi sono parzialmente fondati, secondo quanto di seguito specificato. 4.1. – Nelle more del giudizio, questa Corte si è pronunciata, con la sentenza n. 226 del 2010, sulle questioni di legittimità costituzionale proposte dalle ricorrenti, aventi ad oggetto le norme legislative cui si è proposto di dare attuazione il decreto ministeriale impugnato (art. 3, commi 40, 41, 42 e 43, della legge n. 94 del 2009). Nell’occasione, la Corte ha preliminarmente rimarcato come la normativa concernente gli osservatori volontari venisse vagliata nella sola prospettiva della verifica della denunciata invasione delle competenze regionali, avuto riguardo, in specie, alla spettanza del potere di stabilire le condizioni alle quali i Comuni possono avvalersi della collaborazione di associazioni di privati per il controllo del territorio; mentre restava affatto estraneo allo scrutinio – e dunque impregiudicato, ai sensi dell’art. 18, primo comma, Cost. – il diritto di associazione dei cittadini ai fini dello svolgimento dell’attività di segnalazione descritta dalle disposizioni censurate. Questo rilievo vale evidentemente anche con riferimento al giudizio odierno. Ciò premesso, si è osservato, nella citata sentenza n. 226 del 2010, come il problema nodale posto dai quesiti di costituzionalità attenesse alla valenza delle formule «sicurezza urbana» e «situazioni di disagio sociale», impiegate nel comma 40 dell’art. 3 per identificare i compiti di segnalazione degli osservatori volontari, e segnatamente alla loro riconducibilità o meno alla materia, di competenza statale esclusiva, «ordine pubblico e sicurezza» (all’art. 117, secondo comma, lettera h, Cost.): materia che – in contrapposizione alla «polizia amministrativa locale», da essa espressamente esclusa – va intesa restrittivamente, ossia come relativa alle sole misure inerenti alla prevenzione dei reati e alla tutela dei primari interessi pubblici sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza della comunità nazionale (ex plurimis, sentenze n. 129 del 2009, n. 237 e 222 del 2006, n. 383 e n. 95 del 2005, n. 428 del 204). All’interrogativo si è data una risposta differenziata. Quanto al concetto di «sicurezza urbana», il dettato della norma impugnata è stato ritenuto non in contrasto con il riparto costituzionale delle competenze. Si è reputata difatti valevole, al riguardo, la conclusione già raggiunta in rapporto al decreto del Ministro dell’interno 5 agosto 2008, recante la definizione del suddetto concetto agli effetti del potere di ordinanza dei sindaci di cui all’art. 54, comma 4, del d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali): e, cioè, che esso ha ad oggetto esclusivamente la tutela della sicurezza pubblica, intesa come attività di prevenzione e repressione dei reati (sentenza n. 196 del 2009). La titolazione della legge n. 94 del 2009 (che richiama anch’essa la «sicurezza pubblica»); il collegamento sistematico tra la norma impugnata e il citato art. 54, comma 4, del d.lgs. n. 267 del 2000; i richiami a tale articolo e al decret o ministeriale del 2008 contenuti del decreto attuativo oggi impugnato; la complessiva disciplina dettata dai commi 40-43 dell’art. 3 della legge n. 94 del 2009 (coerente con una lettura del concetto di «sicurezza pubblica» evocativa dei soli interventi di prevenzione e repressione delle attività criminose) sono tutti elementi che convergono nella direzione dianzi indicata. Si è negata, inoltre, validità alla tesi della ricorrente Regione Toscana – oggi riproposta – secondo cui detta conclusione comporterebbe un inammissibile affidamento a privati di una funzione pubblica, quale appunto quella di prevenzione dei reati. A tale tesi va, infatti, obiettato che i volontari svolgono attività di mera osservazione e segnalazione e che qualsiasi privato cittadino può denunciare i reati, perseguibili d’ufficio, di cui venga a conoscenza (art. 333 del codice di procedura penale) e finanche procedere all’arresto in flagranza (art. 383 cod. proc. pen.); mentre lo stesso art. 24 della legge 1° aprile 1981, n. 181 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza»), nel descrivere i compiti istituzionali della Polizia di Stato, prevede che essa debba sollecitare la collaborazione dei cittadini. Il riferimento alternativo al «disagio sociale» non è stato, per converso, reputato suscettibile di una lettura costituzionalmente conforme, in base alla quale detta formula evocherebbe le sole situazioni implicanti un concreto pericolo di commissione di fatti penalmente illeciti: trattandosi di lettura che – in contrasto con l’impiego da parte del legislatore della disgiuntiva «ovvero» – ricondurrebbe interamente la nozione considerata nel preliminare richiamo agli eventi pericolosi per la sicurezza urbana, rendendola pleonastica. Nella sua genericità, la formula «disagio sociale» si presta dunque ad abbracciare un vasto ambito di ipotesi di emarginazione o di difficoltà di inserimento dell’individuo nel tessuto sociale, derivanti dalle più varie cause (condizioni economiche, di salute, età, rapporti familiari e così via dicendo): situazioni che reclamano interventi ispirati a finalità di politica so ciale, riconducibili alla materia dei «servizi sociali», di competenza legislativa regionale residuale. Né a questo fine rileva che gli osservatori si limitino a mere segnalazioni, senza erogare servizi. Il monitoraggio delle «situazioni critiche» rappresenta, infatti, la necessaria premessa conoscitiva degli interventi intesi alla rimozione e al superamento del «disagio sociale»: onde la determinazione delle condizioni e delle modalità con le quali i comuni possono avvalersi, per tale attività, dell’ausilio di privati volontari rientra anch’essa nelle competenze del legislatore regionale. Da ultimo, si è negato che la competenza statale possa essere affermata sulla base del criterio della prevalenza, mancando il presupposto di applicabilità di tale criterio, rappresentato dall’esistenza di una disciplina che, collocandosi alla confluenza di un insieme di materie, sia espressione di un’esigenza di regolamentazione unitaria. Il riferimento alle «situazioni di disagio sociale» si presenta, infatti, come un elemento «spurio ed eccentrico rispetto alla ratio ispiratrice delle norme impugnate», che finisce «per rendere incongrua la stessa disciplina da esse dettata» (sentenza n. 226 del 2010). Il comma 40 dell’art. 3 della legge n. 94 del 2009 è stato dichiarato, di conseguenza, costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 117, quarto comma, Cost., limitatamente alle parole «ovvero situazioni di disagio sociale». Derivando la lesione del riparto costituzionale delle competenze esclusivamente dalla eccessiva ampiezza della previsione del comma 40, sono state dichiarate non fondate le restanti questioni, concernenti i commi 41, 42 e 43, che, rispettivamente, prevedono l’iscrizione delle associazioni di volontari in apposito elenco tenuto dal prefetto, stabiliscono criteri di scelta tra le stesse e demandano al Ministro dell’interno il compito di determinare, con decreto da adottare entro sessanta giorni dall’entrata in vigore della legge, «gli ambiti operativi delle disposizioni di cui ai commi 40 e 41, i requisiti per l’iscrizione nell’elenco e […] le modalità di tenuta dei relativi elenchi» (disposizione, quest’ultima, in base alla quale è stato emanato l’atto qui impugnato). 4.2. – La decisione sugli odierni ricorsi non può evidentemente che orientarsi nella medesima direzione, consistendo le censure di fondo delle Regioni ricorrenti (così come le difese dell’Avvocatura generale dello Stato) in una mera replica delle argomentazioni già svolte in sede di impugnazione in via principale delle norme legislative attuate. Premesso che l’atto impugnato richiama, quanto al concetto di «sicurezza urbana», la definizione offerta dal d.m. 5 agosto 2008 (art. 1, comma 2), mentre non fornisce alcuna precisazione in ordine alla valenza del concetto alternativo di «disagio sociale», si deve concludere che – per le ragioni già indicate nella citata sentenza n. 226 del 2010 e dianzi ricordate – la tesi delle ricorrenti non è fondata in rapporto alla prima delle due formule, mentre lo è rispetto alla seconda, in quanto comprensiva di interventi riconducibili alla materia «servizi sociali», di competenza legislativa regionale residuale (art. 117, quarto comma, Cost.). Ne deriva che, per la parte in cui disciplina l’attività di segnalazione di «situazioni di disagio sociale», l’atto impugnato viola anche il sesto comma dell’art. 117 Cost., che circoscrive la potestà regolamentare dello Stato alle sole materie di sua competenza legislativa esclusiva. Il presupposto, non contestato dalla difesa dello Stato, da cui muovono le ricorrenti – e, cioè, che l’atto impugnato, pur non recando formalmente tale denominazione, abbia natura di regolamento – corrisponde, infatti, ai contenuti sostanziali dell’atto, il quale detta norme intese a disciplinare, in via generale e astratta, i requisiti delle associazioni e degli osservatori volontari ad esse appartenenti, il loro ambito di operatività e i procedimenti amministrativi connessi, vincolando con ciò i comportamenti dei diversi soggetti, pubblici e privati, coinvolti nell’attività in questione (lo stesso ar t. 9 del decreto reca, del resto, la rubrica «norme transitorie»). Eventuali profili di illegittimità dell’atto conseguenti a tale qualificazione, legati segnatamente alla mancata osservanza della procedura di cui all’art. 17, comma 4, della legge 23 agosto 1988, n. 400 (Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri), esulano dal tema del presente giudizio. Al fine di eliminare la rilevata lesione delle attribuzioni regionali è sufficiente, peraltro, rimuovere i riferimenti alle «situazioni di disagio sociale» che compaiono nei commi 1 e 2 dell’art. 1 e nel comma 1 dell’art. 2 del decreto impugnato, con riguardo, rispettivamente, all’elenco delle associazioni di osservatori volontari, agli scopi e ai compiti di queste (l’ulteriore riferimento che figura nel quarto capoverso del preambolo ha carattere meramente descrittivo dei contenuti delle norme primarie attuate). Anche in questo caso, va esclusa la necessità di interventi sulle restanti previsioni del decreto (ivi compresa la norma transitoria di cui all’art. 9, sulla quale in modo particolare si appuntano le censure delle ricorrenti). Una volta circoscritta l’attività degli osservatori volontari alla segnalazione degli eventi pericolosi per la «sicurezza urbana» – e, dunque, in un ambito riconducibile alla prevenzione e repressione dei reati – dette previsioni perdono, infatti, automaticamente ogni carattere invasivo delle competenze regionali. Il discorso vale anche in rapporto alla lesione del «principio di legalità», denunciata dalla Regione Emilia-Romagna sull’assunto che il decreto ministeriale impugnato, in alcune sue parti, avrebbe travalicato l’ambito di intervento assegnatogli dall’art. 3, comma 43, della legge n. 94 del 2009. Tale ipotizzato profilo di illegittimità dell’atto resta, infatti, irrilevante in questa sede, qualora non ridondi in una lesione delle attribuzioni costituzionali della Regione. Con riguardo, poi, alle censure formulate in via subordinata dalla medesima Regione Emilia-Romagna, va escluso che l’atto impugnato sia tenuto comunque a prevedere forme di coordinamento con le Regioni, anche qualora l’attività degli osservatori volontari rimanga ristretta nell’ambito dell’«ordine pubblico e sicurezza». Come già rilevato da questa Corte, infatti, l’art. 118, terzo comma, Cost., nel prevedere una riserva di legge statale ai fini della disciplina di forme di coordinamento fra Stato e Regioni nelle materie di cui alle lettere b) e h) del secondo comma dell’art. 117 Cost. (immigrazione, ordine pubblico e sicurezza), non impegna indefettibilmente lo Stato a prevedere un simile coordinamento ogni qualvolta rechi disposizioni riferibili alle suddette materie (sentenza n. 226 del 2010). Neppure, da ultimo, richiede una soluzione differenziata la disposizione dell’art. 8 del decreto, attinente all’organizzazione dei corsi di formazione e di aggiornamento, avuto riguardo alla censura della Regione Emilia-Romagna, secondo la quale il regolamento statale non potrebbe comunque prevedere e disciplinare l’attività regionale di formazione. Al riguardo, è sufficiente considerare che l’organizzazione dei suddetti corsi è configurata dalla norma come una mera facoltà delle Regioni e degli enti locali che vi abbiano interesse («Le regioni e gli enti locali interessati possono organizzare corsi di formazione e aggiornamento …»), circostanza che esclude in ogni caso l’attitudine lesiva della previsione. 5. – Va, dunque, dichiarato che non spettava allo Stato e, per esso, al Ministro dell’interno adottare il decreto impugnato, limitatamente alla parte in cui disciplina l’attività di segnalazione di situazioni di disagio sociale. Il medesimo decreto deve essere conseguentemente annullato in tale parte, secondo quanto in precedenza specificato. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara che non spettava allo Stato e, per esso, al Ministro dell’interno, adottare il decreto 8 agosto 2009, recante «Determinazione degli ambiti operativi delle associazioni di osservatori volontari, requisiti per l’iscrizione nell’elenco prefettizio e modalità di tenuta dei relativi elenchi, di cui ai commi da 40 a 44 dell’articolo 3 della legge 15 luglio 2009, n. 94», nella parte in cui disciplina l’attività di segnalazione di situazioni di disagio sociale; annulla, per l’effetto, l’art. 1, comma 1, limitatamente alle parole «ovvero situazioni di disagio sociale», l’art. 1, comma 2, limitatamente alle parole «ovvero del disagio sociale,» e l’art. 2, comma 1, limitatamente alle parole «, ovvero situazioni di disagio sociale», del citato decreto del Ministro dell’interno 8 agosto 2009. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il il 7 luglio 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Giuseppe FRIGO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ORDINANZA N. 275 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 2, comma 1, lettera c), 11, 12, 13, 14, comma 1, e 16 della legge della Regione Marche 26 maggio 2009, n. 13 (Disposizioni a sostegno dei diritti dell’integrazione dei cittadini stranieri immigrati), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 30 luglio/4 agosto 2009, depositato in cancelleria il 6 agosto 2009 ed iscritto al n. 51 del registro ricorsi 2009. Visto l’atto di costituzione della Regione Marche; udito nell’udienza pubblica dell’8 giugno 2010 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro; uditi l’avvocato dello Stato Sergio Fiorentino per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Stefano Grassi per la Regione Marche. Ritenuto che con ricorso, notificato il 30 luglio/4 agosto 2009, depositato il successivo 6 agosto, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera c), e delle disposizioni ad esso collegate, e dell’art. 14, comma 1, della legge della Regione Marche 26 maggio 2009, n. 13 (Disposizioni a sostegno dei diritti dell’integrazione dei cittadini stranieri immigrati), in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), della Costituzione; che il ricorrente sostiene che l’art. 2, comma 1, lettera c), della legge della Regione Marche n. 13 del 2009, nella parte in cui individua tra i propri destinatari anche i «cittadini stranieri immigrati in attesa del procedimento di regolarizzazione» e le disposizioni ad esso collegate (fra le quali sono indicati, ad esempio, gli artt. 11, 12, 13, 14, comma 1, e 16 della medesima legge regionale) violerebbero l’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost. in quanto, disciplinando ed agevolando il soggiorno nel territorio nazionale degli stranieri non ancora regolarizzati, inciderebbero sulla disciplina dell’ingresso e del soggiorno degli immigrati, riservata allo Stato, ponendosi peraltro in contrasto con i principi fondamentali stabiliti agli artt. 4, 5, 10, 11, 13 e 14 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello stranier o); che anche l’art. 14, comma 1, della citata legge regionale n. 13 del 2009, sarebbe lesivo dell’art. 117, secondo comma, lettere a) e b), Cost., in quanto, stabilendo che «la Regione, nell’ambito delle proprie competenze, ricorre ad ogni strumento riconosciutole dall’ordinamento ed esercita ogni facoltà e potere riservatole dalla Costituzione e dalla legge al fine di evitare la realizzazione nel territorio regionale di centri di identificazione ed espulsione o, comunque, di centri di detenzione per migranti, nei quali lo stato di reclusione e la limitazione delle libertà personali siano disposte al di fuori del medesimo quadro di garanzie previsto a tutela dei cittadini italiani», interferirebbe con le attività di controllo dell’ingresso e del soggiorno degli stranieri sul territorio statale, che la Costituzione assegna in via esclusiva alla competenza statale; che nel giudizio si è costituita la Regione Marche, chiedendo che la Corte dichiari inammissibili e comunque non fondate le richiamate questioni di legittimità costituzionale; che, con atto depositato il 18 maggio 2010, l’Avvocatura generale dello Stato, per conto del Presidente del Consiglio dei ministri, ha dichiarato di rinunciare al presente ricorso, in quanto, come indicato nella delibera del Consiglio dei ministri approvata nella riunione del 4 febbraio 2010, la Regione Marche, con legge 30 novembre 2009, n. 28 (Modifiche alla legge regionale 26 maggio 2009, n.13 «Disposizioni a sostegno dei diritti dell’integrazione dei cittadini stranieri immigrati»), ha abrogato le norme impugnate, facendo venir meno le ragioni del ricorso; che tale rinuncia è stata formalmente accettata dalla Regione Marche, con atto depositato presso la cancelleria di questa Corte in data 25 maggio 2010. Considerato che, ai sensi dell’art. 23 delle norme integrative per i giudizi dinanzi alla Corte costituzionale, la rinuncia al ricorso, seguita dall’accettazione della controparte, comporta l’estinzione del processo. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara estinto il processo. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Giuseppe TESAURO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ORDINANZA N. 276 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 107, 108, 143, 143-bis e 156-bis del codice civile, promosso dalla Corte d’appello di Firenze, nel procedimento vertente tra B. E. ed altro ed il Sindaco del Comune di Firenze, con ordinanza del 3 dicembre 2009, iscritta al n. 110 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell’anno 2010. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 23 giugno 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo. Ritenuto che, con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di appello di Firenze ha sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3 e 29 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale degli articoli 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, nella parte in cui non consentono il matrimonio tra persone del medesimo sesso; che, come la Corte rimettente riferisce, l’ufficiale di stato civile di Firenze ha respinto la richiesta di B. E. e di R. M., diretta ad ottenere la pubblicazione di matrimonio, «ritenendo l’istituto inaccessibile alle persone dello stesso sesso»; che il Tribunale di Firenze, al quale gli interessati hanno proposto tempestivo ricorso, ha confermato il diniego, «considerando la decisione dell’Ufficiale di stato civile coerente alla legislazione vigente e all’assetto costituzionale della Repubblica»; che i richiedenti hanno proposto reclamo alla Corte di appello di Firenze, osservando quanto segue: a) non è reperibile nell’ordinamento alcuna esplicita definizione del matrimonio, in effetti mutuata per via esegetica dalla realtà sociale; b) non vi è una disposizione normativa diretta a vietare in modo espresso il matrimonio tra persone omosessuali; c) l’evoluzione sociale rende pienamente accettabile l’unione coniugale tra persone dello stesso sesso; d) la possibilità di contrarre matrimonio con la persona prescelta esprime un diritto inalienabile dell’essere umano; e) nessuna discriminazione di tipo sessuale può comprimere tale diritto; f) l’autonomia privata non è in grado di sopperire alla disciplina pubblicistica del matrimonio, sia sotto il profilo delle garanzie, sia sotto il profilo dei vincoli; g) il divieto di matrimonio omosessuale non soltanto è privo di valida base normativa, ma c omprime un diritto fondamentale della persona, lede il principio di uguaglianza e comporta una discriminazione basata sull’orientamento sessuale; che, pertanto, i reclamanti hanno chiesto, in via principale, la riforma del provvedimento impugnato, con l’ordine di procedere alla pubblicazione del matrimonio sulla base dell’interpretazione evolutiva e costituzionalmente orientata della legge esistente, o comunque, in via subordinata, di sollevare questione di legittimità costituzionale degli artt. 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis cod. civ., per contrasto con gli artt. 2, 3, 11, 13, 29 e 117 Cost.; che il Procuratore generale della Repubblica ha espresso parere contrario all’accoglimento del reclamo; che, ad avviso della Corte rimettente, la domanda principale non può essere accolta, in quanto l’art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale «impone d’interpretare le norme senza stravolgere il significato delle parole attraverso le quali si manifesta l’intenzione del legislatore e non v’è dubbio che nella lingua italiana per matrimonio s’intenda il “rapporto di convivenza dell’uomo e della donna in accordo con la prassi civile ed eventualmente religiosa, diretta a garantire la sussistenza morale, sociale e giuridica della famiglia” (dizionario Devoto-Oli)»; che, del resto, il Tribunale ha posto in evidenza i plurimi riferimenti normativi che, confermando l’analisi etimologica, portano ad escludere la volontà del legislatore di alludere con quel termine a qualcosa di diverso, ed ha ricordato che non spetta al giudice dare veste istituzionale, o comunque rilevanza giuridica, ai mutamenti intervenuti nel costume e nella sensibilità sociale, al di là di quanto rientra nel ragionevole esercizio della funzione ermeneutica; che, invece, secondo il giudice a quo, si deve dubitare della legittimità costituzionale del divieto di matrimonio omosessuale, in base all’orientamento seguìto dal Tribunale di Venezia (ordinanza 3 aprile 2009) e dalla Corte di appello di Trento (ordinanza 9 luglio 2009) che, in casi del tutto analoghi, svolgendo argomenti pregevoli e di ampio respiro, hanno rimesso gli atti alla Corte costituzionale per lo scrutinio di legittimità del menzionato divieto; che, «rinviando in linea di massima alle corpose motivazioni dei giudici già remittenti», la Corte territoriale considera arduo negare al diritto di sposarsi – non a caso divenuto uno dei cavalli di battaglia delle militanze omosessuali in tutto il mondo – la dignità di diritto fondamentale della persona, richiamando al riguardo l’art. 2 Cost., nel cui ambito l’unione coniugale va ricondotta, come sodalizio in cui si esprime la personalità dell’individuo; che l’istituto de quo esprimerebbe uno dei profili essenziali in cui si manifesta la dignità umana, come «riconosciuto dagli artt. 12 e 16 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 10 dicembre 1948, nonché dagli artt. 8 e 12 della Convenzione per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali del 20 marzo 1952 e, infine, dagli artt. 7 e 9 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea del 7 dicembre 2000, sicché ogni interpretazione riduttiva della prospettive di tutela accennata sembra del tutto insostenibile»; che l’art. 3 Cost. impedisce che l’inclinazione sessuale possa costituire motivo di discriminazione tra i cittadini, onde, secondo il rimettente, bisogna ritenere garantita dall’ordinamento la possibilità di scegliere un coniuge dello stesso sesso, allo stesso modo in cui il principio di uguaglianza assicura la libertà di scegliere un coniuge di una certa razza, religione o condizione personale; che «il progresso della sensibilità comune ha ormai felicemente emancipato l’omosessualità dal ghetto di emarginazione, se non di aperta repressione, in cui ideologie autoritarie del passato l’avevano confinata, facendo comprendere e rispettare alla generalità dei consociati “un modo d’essere” (per usare le parole spese da Corte Cost. n. 165/1985 per i transessuali) che risponde a moti insindacabili dell’animo umano, di cui la normativa di un ordinamento civile non può che prendere atto e consentire l’affermazione, evitando anzi ingerenze e sgombrando il campo da ogni ostacolo al dispiegarsi del diritto di autodeterminazione di ciascuno»; che, inoltre, la trasformazione dei costumi ha portato, secondo il giudice a quo, al superamento del monopolio detenuto dal modello della famiglia tradizionale cattolica nel dettare lo stile dei rapporti di convivenza ed offre esempi sempre più frequenti di legami alternativi, che aspirano legittimamente ad ottenere dignità e riconoscimento istituzionale; che l’esclusione degli omosessuali dalla possibilità di contrarre tra loro il vincolo coniugale non può fondatamente discendere, secondo il rimettente, dal rilievo secondo cui l’art. 29 Cost. riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio, «sia perché la tutela della famiglia supposta “naturale” potrebbe tranquillamente estendersi ad una famiglia “meno naturale” o “diversamente naturale” senza per questo rinnegare se stessa, sia perché, equiparando aprioristicamente la “famiglia naturale” a quella composta da uomo e donna, si cade in una petizione di principio che il giudice delle leggi potrebbe a buon diritto scardinare, riconoscendo che nella società odierna il crisma della “naturalità” può essere tranquillamente riconosciuto anche alla convivenza omosessuale»; che, infatti, volendo definire un concetto di unione coniugale adatto ai tempi, il dato di natura non sarebbe da considerare immutabile, ma andrebbe filtrato e desunto dagli esiti concreti dell’evoluzione sociale, come sarebbe desumibile dalle esperienze storiche nelle varie regioni del mondo; che, paradossalmente, il vero limite idoneo a frenare l’allargamento dell’istituto coniugale alle coppie omosessuali starebbe nella considerazione per cui il “diritto” al matrimonio «non reca soltanto benefici, ma trascina una nutrita serie di controindicazioni, ammantando lo sposo di una veste intessuta di connotazioni largamente coercitive», in quanto comporta «pesanti limitazioni nella sfera delle libertà individuali, quali l’obbligo di coabitazione, l’obbligo di assistenza morale e materiale, l’obbligo di fedeltà sessuale, che sarebbero inconcepibili senza sottendere il perseguimento di una finalità superiore»; che questa riflessione smentisce apertamente, secondo il rimettente, la possibilità per l’autonomia privata di supplire in modo adeguato alla disciplina matrimoniale, all’evidenza pervasa da interessi pubblicistici, sicché nessun contratto potrebbe obbligare alla coabitazione o alla fedeltà sessuale, ma soltanto il matrimonio potrebbe assicurare agli omosessuali il conseguimento di tale risultato, peraltro non privo di costi che nella coppia eterosessuale (almeno ab origine) trovano corrispettivo nella finalità procreativa e, quindi, si collegano «alla necessità di saldare un nucleo stabile iperprotettivo a fondamento della famiglia»; che, in quest’ottica, «il divieto del matrimonio tra omosessuali perderebbe così ogni sapore discriminatorio per assumere una funzione addirittura di salvaguardia, nei confronti di chi, non potendo procreare, verrebbe messo al riparo da impegni che l’ordinamento considera altrimenti intollerabili»; che, tuttavia, la finalità procreativa, continua ancora il giudice a quo, svolge ormai un ruolo soltanto tendenziale nel giustificare l’instaurazione del matrimonio, istituto sicuramente accessibile alle coppie eterosessuali sterili, «nel perseguimento di interessi solidaristici e morali che sarebbe palesemente incongruo precludere alle coppie omosessuali», avuto riguardo anche alle nuove tecniche di procreazione; che, pertanto, «l’evocazione dell’originaria finalità procreativa alla radice dell’istituto matrimoniale si rivela quanto meno azzardata allo scopo di rendere accettabile sul piano della legittimità costituzionale la “protezione” degli omosessuali dalla “schiavitù” coniugale, sicché il discorso non riesce a dissipare soddisfacentemente i dubbi in precedenza avanzati sulla fisionomia discriminatoria dell’esclusione»; che il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto in giudizio con atto depositato l’11 maggio 2010, sostenendo che la questione sarebbe inammissibile e, comunque, infondata perché con conterrebbe alcun elemento di sostanziale novità o diversità rispetto alle questioni già risolte da questa Corte con la sentenza n. 138 del 2010. Considerato che la Corte di appello di Firenze, con l’ordinanza indicata in epigrafe, dubita, in riferimento agli articoli 2, 3 e 29 della Costituzione, della legittimità costituzionale degli articoli 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, «nella parte in cui non consentono il matrimonio tra persone del medesimo sesso»; che questa Corte, con la sentenza n. 138 del 2010, emessa a seguito delle ordinanze del Tribunale di Venezia e della Corte d’appello di Trento menzionate dall’attuale rimettente, ha già esaminato la questione di legittimità costituzionale delle norme in questa sede censurate, in riferimento ai parametri costituzionali qui richiamati, nonché all’art. 117, primo comma, Cost. (che non può ritenersi evocato dalla Corte fiorentina mediante la generica relatio ai citati provvedimenti del Tribunale di Venezia e della Corte di appello di Trento); che, in particolare, con la sentenza n. 138 del 2010 la questione sollevata in riferimento all’art. 2 Cost. è stata dichiarata inammissibile, perché diretta ad ottenere una pronunzia additiva non costituzionalmente obbligata; che con la medesima sentenza la questione, sollevata con riferimento ai parametri individuati negli artt. 3 e 29 Cost., è stata dichiarata non fondata, sia perché l’art. 29 Cost. si riferisce alla nozione di matrimonio definita dal codice civile come unione tra persone di sesso diverso, e questo significato del precetto costituzionale non può essere superato per via ermeneutica, sia perché (in ordine all’art. 3 Cost.) le unioni omosessuali non possono essere ritenute omogenee al matrimonio; che non risultano qui allegati profili diversi o ulteriori, idonei a superare gli argomenti addotti nella precedente pronuncia; che, pertanto, la questione di legittimità costituzionale, sollevata con riferimento all’art. 2 Cost., deve essere dichiarata manifestamente inammissibile, e la questione sollevata con riferimento agli artt. 3 e 29 Cost. deve essere dichiarata manifestamente infondata (ex plurimis: ordinanze n. 42, n. 34 e n. 16 del 2009). Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE a) dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli articoli 107, 108, 143, 143-bis, 156-bis del codice civile, sollevata, in riferimento all’articolo 2 della Costituzione, dalla Corte di appello di Firenze con l’ordinanza indicata in epigrafe; b) dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli articoli sopra indicati del codice civile, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 29 della Costituzione, dalla Corte di appello di Firenze con la medesima ordinanza. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Alessandro CRISCUOLO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ORDINANZA N. 277 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 231, 232 e 233, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), promosso dalla Corte dei conti – terza sezione centrale d’appello, nei procedimenti riuniti vertenti tra il Procuratore regionale presso la sezione giurisdizionale per la Regione Calabria e G.S. ed altro, con ordinanza del 24 marzo 2009, iscritta al n. 182 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 26, prima serie speciale, dell’anno 2009. Visti l’atto di costituzione di G.S. ed altro nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 6 luglio 2010 il Giudice relatore Paolo Maddalena; uditi l’avvocato Antonino Murmura per G.S. ed altro e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto che la Corte dei conti, sezione terza centrale d’appello, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 231, 232 e 233, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), nella parte in cui non prevede l’applicazione dell’istituto della definizione agevolata anche a coloro la cui sentenza di assoluzione in primo grado sia stata riformata in appello, a seguito dell’accoglimento del gravame interposto dal pubblico ministero; che, in punto di descrizione della fattispecie, il giudice a quo riferisce che la sezione giurisdizionale per la Regione Calabria della Corte dei conti, con sentenza in data 14 maggio 2005, ha mandato assolti V.R., assessore ai lavori pubblici del Comune di San Calogero, ed il responsabile dell’ufficio tecnico comunale, S.G., essendo stata, nei loro confronti, esclusa la violazione di obblighi di servizio quanto alla vigilanza sulla esecuzione dei singoli adempimenti connessi a una procedura acquisitiva per pubblica utilità; rileva ancora che, avverso tale pronuncia, il pubblico ministero ha proposto appello, chiedendo la condanna dei convenuti assolti in primo grado, mentre il R. ed il G. hanno chiesto la conferma della pronuncia assolutoria; che le norme denunciate prevedono, con riferimento alle sentenze di primo grado pronunciate nei giudizi di responsabilità dinanzi alla Corte dei conti per fatti commessi antecedentemente alla data di entrata in vigore della legge, che i soggetti nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna possono chiedere alla competente sezione di appello, in sede d’impugnazione, che il procedimento venga definito mediante il pagamento di una somma non inferiore al 10 per cento e non superiore al 20 per certo del danno quantificato nella sentenza; che la sezione di appello, con decreto in camera di consiglio, sentito il procuratore competente, delibera in merito alla richiesta e, in caso di accoglimento, determina la somma dovuta in misura non superiore al 30 per cento del danno quantificato nella sentenza di primo grado, stabilendo il termine per il versamento; che il giudizio di appello s’intende definito a decorrere dalla data di deposito della ricevuta di versamento presso la segreteria della sezione di appello; che, quanto alla rilevanza del dubbio di costituzionalità, il giudice a quo ne motiva la sussistenza, affermando che i convenuti «erano stati assolti in primo grado ed ora l’appello principale della parte pubblica ne chiede una condanna che verrebbe eventualmente pronunciata per la prima volta in questo secondo grado del giudizio»; che, in punto di non manifesta infondatezza della questione, la Corte dei conti osserva che le disposizioni denunciate si propongono di “far cassa”, vale a dire di far conseguire alle pubbliche amministrazioni con immediatezza i proventi derivanti dalle sentenze contabili di condanna pronunciate a loro favore, cui si aggiunge l’esigenza di porre sia pur parziale rimedio all’asserita esigua percentuale di realizzazioni di crediti erariali derivanti da tali sentenze: come ricorda la sentenza n. 242 del 2008 della Corte costituzionale, «la ratio delle norme in esame è soltanto quella di ottenere un’accelerazione del processo, nonché un rapido incameramento da parte dell’Erario almeno delle somme di minore entità e non quello di configurare una ipotesi di condono»; che, secondo il giudice rimettente, rimane «difficilmente comprensibile come un soggetto la cui responsabilità sia apparsa con minore evidenza non possa giovarsi di una normativa di favore, ma ciò possa invece fare un soggetto ritenuto colpevole sin dal primo grado del giudizio»: infatti «in quest’ultimo caso il pubblico ministero contabile, avendo realizzato la propria pretesa, non potrà proporre appello, ma nel primo [caso], non avendo conseguito successo, potrà insistere nella sua domanda» e, «se dovesse conseguire il risarcimento in extremis», lo otterrebbe «definitivamente ed incondizionatamente, a differenza di quanto sarebbe avvenuto in primo grado, dove il risarcimento immediatamente conseguito sarebbe stato esposto al concreto rischio di una diminuzione»; che vi sarebbe una violazione del principio di eguaglianza e di parità processuale delle parti, giacché, a parità di condizioni, un soggetto condannato in primo grado potrebbe avvalersi del beneficio, mentre un altro si vedrebbe sottratta tale facoltà soltanto perché la pretesa della parte pubblica ha trovato soddisfazione nel secondo grado del giudizio; che sarebbe violato anche il principio di ragionevolezza, poiché l’esigenza di un rapido incameramento da parte dell’Erario permarrebbe anche in caso di condanna solo nel grado di appello, perché anche in tal caso l’acquisizione nel processo e prima della sua definizione di una parte delle somme porrebbe rimedio alle lungaggini ad ai rischi connessi all’esecuzione delle sentenze contabili, consentendo una pronta e sicura, pur se parziale, riscossione; che, secondo la Corte dei conti, non potrebbe negarsi alla parte privata la possibilità di richiedere di avvalersi della procedura in esame perché la pronuncia di condanna è intervenuta solo in appello: le norme impugnate violerebbero pertanto l’art. 24 Cost., perché il soccombente solo in secondo grado sarebbe espropriato dell’accesso alla procedura agevolata; che nel giudizio dinanzi alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità e, comunque, per la non fondatezza della questione; che la difesa erariale ricorda che, secondo la giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 183 e n. 184 del 2007; ordinanza n. 392 del 2007), le norme di cui all’art. 1, commi 231, 232 e 233, della legge n. 266 del 2005 non comportano alcuna deroga al sistema della responsabilità amministrativa, ma hanno una finalità di accelerazione dei relativi giudizi e di garanzia dell’incameramento certo e immediato della quota di risarcimento dovuto, si muovono all’interno della discrezionalità decisionale spettante al giudice contabile e non producono alcun ingiustificato ed automatico meccanismo premiale, in quanto l’operatività di esse presuppone una valutazione di merito del giudice contabile sul fatto che l’esigenza di giustizia possa ritenersi soddisfatta a mezzo della procedura accelerata, sicché alla definizione in appello non può accedersi in presenza di dolo del condannato o di particolare gravità della condotta; inoltre, la riduzione fino al trenta per cento della condanna di primo grado non è automatica, ma scaturisce unicamente da un esame della Corte dei conti in sede camerale, condotto in base al normale potere del giudice contabile di determinare equitativamente quanta parte del danno accertato debba essere addossato al convenuto (sentenza n. 242 del 2008); che, secondo l’Avvocatura, non saremmo in presenza di situazioni uguali trattate in modo diverso o di situazioni omogenee o assimilabili fra loro, ma di situazioni differenti che giustificano una distinta disciplina: in un caso (condanna in primo grado) c’è una determinazione del debito risarcitorio da parte del giudice contabile, sicché, muovendosi all’interno del perimetro della sua discrezionalità decisionale, il giudice d’appello potrà valutare se accogliere l’istanza di definizione agevolata, consentendo di soddisfare sia l’esigenza di giustizia, di accelerare i tempi di definizione del giudizio e di garantire il soddisfacimento del credito erariale con l’incameramento certo e immediato della percentuale ritenuta congrua del giudice d’appello stesso; nell’altro caso (assoluzione in primo grado) manca l’elemento fondamentale e imprescindibile della determinazione del debito ri sarcitorio da parte del giudice di primo grado e non si realizza neanche l’altro indefettibile presupposto dell’accelerazione del grado di giudizio d’appello e dell’effetto deflattivo del contenzioso, che dovrebbe, invece, svolgersi compiutamente proprio per quantificare l’intero danno subito dall’Amministrazione; che, ad avviso della difesa erariale, le disposizioni impugnate sono coerenti, non contraddittorie e non contrarie al principio di ragionevolezza: il giudice rimettente finirebbe per chiedere alla Corte costituzionale di “scrivere” una nuova e diversa norma, che dovrebbe avere anche presupposti diversi sotto il profilo sia qualitativo che quantitativo, e di compiere valutazioni di opportunità riservate alla competenza esclusiva del legislatore; che nel giudizio dinanzi alla Corte si sono costituiti S.G. e V.R., i quali hanno concluso per la declaratoria di illegittimità costituzionale dei commi 231, 232 e 233 dell’art. 1 della legge n. 266 del 2005, instando, in subordine, per «la possibilità di una decisione additiva che consenta, su esplicita istanza dell’interessato successiva alla pronuncia di accoglimento totale o parziale dell’appello», «di ottenere il beneficio previsto»; che, secondo la difesa delle parti private, la limitazione al solo condannato in prima sede del beneficio riduttivo della sanzione violerebbe lo spirito della Costituzione, poiché non solo derogherebbe alla norma generale della parità tra le parti nel processo, ma vulnererebbe canoni di logica, di senso comune e di ragionevolezza in ordine alla parità di trattamento rispetto alla giurisdizione: le norme denunciate, quindi, introdurrebbero una “pesante arbitrarietà”, realizzando un regime differenziato, e senza un interesse apprezzabile determinerebbero una discriminazione nei confronti dell’assolto in primo grado. Considerato che la questione di legittimità costituzionale investe l’art. 1, commi 231, 232 e 233, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), il quale stabilisce, con riferimento alle sentenze di primo grado pronunciate nei giudizi di responsabilità dinanzi alla Corte dei conti per fatti commessi antecedentemente alla data di entrata in vigore della legge, che i soggetti nei cui confronti sia stata pronunciata sentenza di condanna possono chiedere alla competente sezione di appello, in sede d’impugnazione, che il procedimento venga definito mediante il pagamento di una somma non inferiore al 10 per cento e non superiore al 20 per certo del danno quantificato nella sentenza (comma 231); che la sezione di appello, con decreto in camera di consiglio, sentito il procuratore competente, delibera in merito alla richiesta e, in caso di acc oglimento, determina la somma dovuta in misura non superiore al 30 per cento del danno quantificato nella sentenza di primo grado, stabilendo il termine per il versamento (comma 232); che il giudizio di appello s’intende definito a decorrere dalla data di deposito della ricevuta di versamento presso la segreteria della sezione di appello (comma 233); che la disposizione è impugnata nella parte in cui non prevede l’applicazione dell’istituto della definizione agevolata a coloro la cui sentenza di assoluzione in primo grado sia stata riformata in appello, a seguito dell’accoglimento del gravame interposto dal pubblico ministero; che, ad avviso della Corte dei conti, sarebbero violati gli artt. 3 e 97 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, risultando privo di logica e di giustificazione che un soggetto la cui responsabilità sia apparsa con minore evidenza non possa giovarsi di una normativa di favore, ma ciò possa invece fare un soggetto ritenuto colpevole sin dal primo grado del giudizio; tanto più che l’esigenza di un rapido incameramento da parte dell’Erario almeno delle somme di minore entità permarrebbe anche in relazione alle somme dedotte in condanna solo nel grado di appello, giacché anche in tal caso l’acquisizione nel processo e prima della sua definizione di una parte delle somme predette porrebbe rimedio alle lungaggini ad ai rischi connessi all’esecuzione delle sentenze contabili, consentendo un pronta e sicura, pur se parziale, riscossione; che, inoltre, ad avviso del rimettente, la mancata applicazione della definizione agevolata ai condannati in appello contrasterebbe con gli artt. 3 e 111 Cost., sotto il profilo del principio di eguaglianza e di parità processuale delle parti, giacché un soggetto condannato in primo grado potrebbe avvalersi del beneficio, mentre un altro si vedrebbe sottratta tale facoltà perché la pretesa della parte pubblica ha trovato soddisfazione solo nel secondo grado del giudizio; che, infine, sarebbe violato l’art. 24 Cost., perché il soccombente solo in secondo grado sarebbe espropriato dell’accesso alla procedura agevolata; che il petitum avanzato dal giudice rimettente riguarda la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata nella parte in cui non consente l’accesso all’istituto della definizione agevolata anche a coloro la cui sentenza di assoluzione in primo grado sia stata riformata in appello, a seguito dell’accoglimento dell’impugnazione proposta dal pubblico ministero; che si tratta di questione che, avuto riguardo al procedimento principale, si presenta come astratta e prematura; che il giudice del gravame non ha valutato se l’impugnazione appaia, almeno prima facie, non infondata; che, difettando il presupposto prefigurato dal petitum (accertamento in appello della responsabilità dei convenuti, destinatari di una pronuncia di assoluzione in primo grado), manca la rilevanza attuale della questione per la definizione del giudizio a quo (cfr. sentenza n. 317 del 2009; ordinanze n. 77, n. 39 e n. 3 del 2009); che, pertanto, la questione va dichiarata manifestamente inammissibile. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 231, 232 e 233, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2006), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24, 97 e 111 della Costituzione, dalla Corte dei conti, terza sezione centrale d’appello, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Paolo MADDALENA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA SENTENZA N. 278 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale degli articoli 3, comma 9, 25, commi 1 e 2, lettere a), f), g), h), l) e q), 26, comma 1, e 27, commi 14, 24, lettere c) e d), 27, 28, 31 e 34, della legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia), promossi dalle Regioni Toscana, Umbria, Liguria, Puglia, Basilicata, Piemonte, Lazio, Calabria, Marche, Emilia-Romagna e Molise con ricorsi notificati il 29, il 28, il 29, il 30, il 29 settembre e il 12 ottobre 2009, depositati in cancelleria il 2, il 5, il 6, il 7 e il 16 ottobre 2009 e rispettivamente iscritti ai nn. 69, 70, 71, 72, 73, 75, 76, 77, 82, 83 e 91 del registro ricorsi 2009. Visti gli atti di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri nonché gli atti di intervento dell’Associazione Italiana per il World Wide Fund for Nature Onlus Ong (WWF), del Codacons, Coordinamento delle associazioni e dei comitati di tutela dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori, dell’Enel s.p.a. e di Terna – Rete Elettrica Nazionale s.p.a.; udito nell’udienza pubblica del 22 giugno 2010 il Giudice relatore Ugo De Siervo; uditi gli avvocati Lucia Bora per la Regione Toscana, Giandomenico Falcon e Luigi Manzi per le Regioni Umbria e Liguria, Maria Liberti per la Regione Puglia, Roberto Cavallo Perin per la Regione Piemonte, Claudio Chiola per la Regione Lazio, Stefano Grassi per la Regione Marche, Luigi Manzi per la Regione Calabria, Giandomenico Falcon e Rosaria Russo Valentini per la Regione Emilia-Romagna, Stefano Scarano per la Regione Molise, Beniamino Caravita di Toritto e Carlo Malinconico per l’Enel s.p.a, Alessandro Giadrossi per l’Associazione Italiana per il World Wide Fund for Nature Onlus Ong e l’avvocato dello Stato Antonio Palatiello per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. – Con ricorso notificato il 29 settembre 2009 e depositato il successivo 2 ottobre (iscritto al r.r. n. 69 del 2009), la Regione Toscana ha promosso, in riferimento agli artt. 117, 118 e 120 della Costituzione, e al principio di leale collaborazione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 9, e 25, comma 2, lettere a), f), g), e h), della legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 176 del 31 luglio 2009. 1.1. – Premette la ricorrente che ai sensi dell’impugnato art. 3, comma 9, «al fine di garantire migliori condizioni di competitività sul mercato internazionale e dell’offerta di servizi turistici, nelle strutture turistico-ricettive all’aperto, le installazioni e i rimessaggi dei mezzi mobili di pernottamento, anche se collocati permanentemente, per l’esercizio dell’attività, entro il perimetro delle strutture turistico-ricettive regolarmente autorizzate, purché ottemperino alle specifiche condizioni strutturali e di mobilità stabilite dagli ordinamenti regionali, non costituiscono in alcun caso attività rilevanti ai fini urbanistici, edilizi e paesaggistici». Sostiene il ricorrente che la denunciata previsione violerebbe la potestà legislativa concorrente delle Regioni in materia di «governo del territorio», di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. La disposizione de qua inciderebbe sulle competenze regionali, giacché stabilisce che i suddetti mezzi mobili, pur dovendo rispettare le condizioni strutturali e di mobilità stabilite dall’ordinamento regionale, non costituiscono, a priori, attività rilevante dal punto di vista urbanistico, edilizio e paesaggistico e, dunque, possono essere realizzate liberamente, senza alcuna forma preventiva di verifica. Secondo la difesa regionale, detta verifica, seppure in forma accelerata e semplificata, permetterebbe di garantire il rispetto di quelle condizioni strutturali e di mobilità che, in astratto, si dichiarano da rispettare. La possibilità, per i mezzi mobili di pernottamento, di essere collocati permanentemente, senza che ciò costituisca attività rilevante ai fini urbanistici, edilizi e paesaggistici, vanificherebbe la previsione di cui all’art. 78, comma 1, lettera b), della legge della Regione Toscana 3 gennaio 2005, n. 1 (Norme per il governo del territorio), in forza della quale è considerata trasformazione urbanistica ed edilizia, e come tale soggetta a permesso di costruire, «l’installazione di manufatti, anche prefabbricati e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee, quali esplicitamente risultino in base alle vigenti disposizioni». L’evocata disposizione regionale – prosegue la ricorrente – trova corrispondenza nell’art. 3, comma 1, lettera e), del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia – Testo A), che qualifica tali interventi come nuova costruzione. Secondo la vigente normativa regionale, dunque, i mezzi mobili messi a disposizione del gestore del campeggio rientrano nell’ordinaria gestione del campeggio stesso e non richiedono uno specifico titolo abilitativo, purché siano destinati ad assolvere ad una funzione temporanea e come tale individuabile, essendo stabilito un termine per la loro rimozione: termine che deve risultare o nel titolo abilitativo che consente gli interventi o nel provvedimento che autorizza l’esercizio del campeggio. Per la ricorrente, l’impugnata disposizione escluderebbe la configurazione di un simile termine, consentendo così una trasformazione del territorio incontrollata, anche dal punto di vista paesaggistico, e al di fuori da ogni forma di pianificazione. 1.2. – Le denunciate disposizioni di cui all’art. 25, comma 2, lettere a), f), g), e h), enunciano i principi ed i criteri direttivi per l’esercizio della delega legislativa da parte del Governo per la disciplina della localizzazione di impianti di produzione di energia nucleare, di impianti di fabbricazione del combustibile nucleare, di sistemi di stoccaggio del combustibile irraggiato e dei rifiuti radioattivi. Più precisamente, in sede di esercizio della delega legislativa: - dovrà essere prevista la possibilità di dichiarare i siti aree di interesse strategico nazionale, soggette a speciali forme di vigilanza e di protezione (lettera a); - dovranno essere determinate le modalità di esercizio del potere sostitutivo del Governo in caso di mancato raggiungimento delle necessarie intese con i diversi enti locali coinvolti, secondo quanto previsto dall’art. 120 Cost. (lettera f); - dovrà essere previsto che la costruzione e l’esercizio di impianti per la produzione di energia elettrica nucleare e di impianti per la messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi o per lo smantellamento di impianti nucleari a fine vita e tutte le opere connesse siano soggetti ad autorizzazione unica rilasciata dal Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’ambiente e con il Ministro delle infrastrutture e trasporti, d’intesa con la Conferenza unificata (lettera g); - dovrà essere previsto che l’autorizzazione unica sia rilasciata a seguito di un procedimento unico al quale partecipano le amministrazioni interessate e che tale provvedimento sostituisce ogni atto necessario per la realizzazione delle opere, ad eccezione della VIA e della VAS (lettera h). 1.2.1. – Per la ricorrente la disposizione di cui alla lettera a) violerebbe gli artt. 117 e 118 Cost., anche in relazione al principio di leale collaborazione. La dichiarazione di siti di interesse strategico nazionale, soggetti a speciali forme di vigilanza e di protezione, è finalizzata alla individuazione delle possibili aree in cui localizzare gli impianti di produzione di energia elettrica nucleare. Per la Regione Toscana, l’impugnata disposizione appare «molto estesa», omettendo la previsione di criteri e limiti della suddetta dichiarazione, senza alcuna previsione di una intesa o analoga forma di raccordo con le Regioni territorialmente interessate. Questa individuazione interferisce con materie di competenza concorrente e residuale delle Regioni: trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, governo del territorio, tutela della salute, valorizzazione dei beni culturali ed ambientali, turismo. Al riguardo, la difesa regionale ricorda che la «chiamata in sussidiarietà» di funzioni amministrative impone la previsione di una intesa con le Regioni interessate, a salvaguardia delle loro attribuzioni costituzionalmente previste (sono richiamate le sentenze n. 383 del 2005, n. 6 del 2004 e n. 303 del 2003). 1.2.2. – Secondo la Regione ricorrente, la disposizione di cui alla lettera f) non dovrebbe essere ritenuta applicabile nei confronti delle Regioni in quanto non rientranti tra gli «enti locali». Ove, tuttavia, si pervenisse ad una diversa interpretazione, ne deriverebbe la violazione degli artt. 117, 118 e 120 Cost., dal momento che l’intesa, a fronte del mancato raggiungimento della quale il Governo sarebbe legittimato ad esercitare il potere sostitutivo, non sarebbe «sostituibile» in quanto «tipica manifestazione del consenso regionale ad un atto» e, dunque, espressione di autonomia. La censurata disciplina avrebbe così illegittimamente consentito allo Stato di assumere una decisione unilaterale. Con la sentenza n. 6 del 2004 – insiste la difesa regionale – questa Corte ha qualificato l’intesa in parola come una intesa forte, «nel senso che il suo mancato raggiungimento costituisce ostacolo insuperabile alla conclusione del procedimento», stante l’impatto che una struttura produttiva come l’impianto energetico ha su molteplici funzioni regionali. Peraltro, l’attivazione di tale potere sostitutivo parrebbe ammessa indifferentemente sia in caso di inerzia, sia nell’ipotesi in cui l’intesa non sia raggiunta perché è stato espresso un articolato dissenso. Per la ricorrente, il legislatore statale è chiamato a procedimentalizzare l’intesa, per assicurarne il carattere «forte»: la legge dovrebbe, cioè, disciplinare un procedimento teso a favorire l’avvicinamento delle parti su una posizione consensuale. Diversamente, l’intesa verrebbe declassata in un parere non vincolante. Nel caso di specie, il legislatore statale non avrebbe previsto criteri direttivi volti ad assicurare la disciplina del procedimento dell’intesa sì da garantirne il carattere «forte», necessario per il rispetto delle competenze costituzionali di tutti gli enti di governo coinvolti. La violazione dell’art. 120 Cost. discenderebbe, secondo la ricorrente, dalla circostanza che detta previsione non potrebbe essere applicata ad ipotesi, come quella prevista dalla disciplina impugnata, nelle quali l’ordinamento costituzionale impone il conseguimento di una necessaria intesa fra organi statali e organi regionali per l’esercizio concreto di una funzione amministrativa attratta in sussidiarietà al livello statale in materie di competenza legislativa regionale e nella perdurante assenza di adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni nell’ambito dei procedimenti legislativi dello Stato. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, tali intese costituiscono condizione minima e imprescindibile per la legittimità costituzionale della disciplina legislativa statale che effettui la «chiamata in sussidiarietà» di una funzione amministrativa in materie affidate alla legislazione regionale. L’e sigenza che il conseguimento di queste intese sia non solo ricercato in termini effettivamente ispirati alla reciproca leale collaborazione, ma anche agevolato per evitare situazioni di stallo, potrà certamente favorire l’opportuna individuazione, sul piano legislativo, di procedure parzialmente innovative volte a favorire l’adozione dell’atto finale nei casi in cui siano insorte difficoltà a conseguire l’intesa. Siffatte procedure – conclude la difesa regionale – non potranno prescindere dalla permanente garanzia della posizione paritaria delle parti coinvolte. 1.2.3. – Anche le disposizioni di cui alle lettere g) e h) sono per la ricorrente illegittime, per contrasto con gli artt. 117 e 118 Cost., e al principio di leale collaborazione, in quanto non assicurerebbero un ruolo più incisivo alla Regione, pur versandosi in ambiti materiali di competenza regionale, a fronte di una «chiamata in sussidiarietà» ad opera del legislatore statale. L’intesa con la Conferenza unificata non parrebbe sufficiente ai predetti fini. Benché la sentenza n. 383 del 2005 riconosca la Conferenza unificata come organo adeguatamente rappresentativo delle Regioni e degli enti locali, tutti incisi dalle diverse politiche del settore energetico, per la difesa regionale diversa sarebbe, invece, «l’intesa necessaria, a valle, al momento dell’esercizio della funzione amministrativa che lo Stato si è trattenuto. In tal caso solo l’intesa con la Regione direttamente interessata può garantire il rispetto delle attribuzioni regionali». In altri termini, l’intesa con la Conferenza unificata può costituire lo strumento sufficiente a fronte di norme legislative e di disposizioni generali, indirizzi, criteri e linee guida perché tutte queste hanno ad oggetto misure generali rivolte all’intero sistema delle autonomie. Al contrario, a fronte dello specifico atto autorizza torio, appare costituzionalmente indispensabile l’intesa con la Regione interessata. 1.3. – Con atto depositato il 9 novembre 2009 si è costituito nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato. 1.3.1. – Per il resistente, le doglianze aventi per oggetto l’art. 3, comma 9, della legge n. 99 del 2009, non terrebbero conto né dell’iter amministrativo pregresso all’esercizio delle attività turistiche ivi contemplate, né del contesto normativo generale in cui la contestata disposizione si colloca. Quanto alla denunciata lesione delle attribuzioni regionali nella materia concorrente del «governo del territorio», la difesa erariale sottolinea che il contestato intervento normativo è stato determinato dalla necessità di comporre un dissidio giurisprudenziale relativo all’interpretazione dell’art. 3 (L) del d.P.R. n. 380 del 2001, a mente del quale l’installazione di strutture mobili, ai fini urbanistici ed edilizi, necessita del permesso di costruire. In passato, infatti, era invalsa una interpretazione giurisprudenziale che richiedeva un apposito permesso di costruire per l’installazione di mezzi di pernottamento mobili nei campeggi. In questa prospettiva – puntualizza la difesa dello Stato – l’impugnata disposizione opera quale specificazione ulteriore del succitato art. 3 (L), comma 1, lettera e.5), quale espressione di un principio fondamentale in forza del quale l’installazione ed il rimessaggio di mezzi mobili di pernottamento non costituisce attività rilevante ai fini urbanistici, edilizi e paesaggistici ove realizzati all’interno di strutture ricettive all’aria aperta regolarmente autorizzate. Invero, detta disposizione legislativa statale annovera tra gli interventi di nuova costruzione «l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee». Mediante i titoli legittimanti l’apertura e l’utilizzo delle predette strutture è stato espressamente autorizzato quel tipo di «utilizzazione e trasformazione edilizio-urbanistica del territorio» che ha proprio nelle suddette installazioni la sua peculiare connotazione. Ne consegue l’illegittimità delle installazioni per le quali non siano stati ottenuti preventivamente analoghi titoli edilizi. Al riguardo, la parte resistente precisa che i manufatti installabili nelle strutture ricettive all’aria aperta sono soltanto quelle «universalmente note come attrezzature tipiche del campeggio». D’altro canto – prosegue l’Avvocatura dello Stato – la contestata disposizione non autorizza sic et simpliciter l’installazione in oggetto, giacché ne subordina la legittimità alla conformità alle pertinenti leggi regionali, in relazione ai limiti oggettivi ed alle caratteristiche dei mezzi di pernottamento, affinché possano essere qualificati come mezzi «mobili». La previsione di una eventuale collocazione «permanente» di tali mezzi, prevista dall’art. 3, comma 9, non lede le rivendicate attribuzioni regionali, in quanto tale enunciato va letto, in chiave funzionale, alla luce di quanto disposto dal periodo successivo, che fa esplicito riferimento allo svolgimento dell’attività turistica. Sicché, una volta cessata la relativa attività economica, verrà contestualmente meno la legittima installazione delle strutture mobili. In definitiva, il concetto di «permanenza» va inteso nel senso di consentire al gestore del campeggio di eseguire, durante il periodo di chiusura dell’attività, la manutenzione ed il rimessaggio delle strutture mobili senza necessità di una rimozione dalla loro ubicazione funzionale. Quanto, invece, alla asserita violazione della potestà legislativa residuale in materia di «turismo», il resistente obietta, innanzitutto, che la censurata disposizione «è dettata in materia di “governo del territorio” e il riferimento al turismo riguarda la finalità della disposizione» stessa. In secondo luogo – continua la difesa dello Stato – la legge n. 99 del 2009 si è prefissa l’obiettivo di dirimere «un conflitto trasversale tra competenze statali, regionali ed interpretazioni giurisprudenziali che ponevano gli imprenditori di settore in una condizione di costante incertezza giuridica». In questo quadro, per l’Avvocatura dello Stato la disposizione de qua rappresenta la «legittima manifestazione delle competenze dello Stato, unico titolare di un’azione di sviluppo del turismo in Italia». 1.3.2. – Prima di passare in rassegna le doglianze relative all’art. 25, comma 2, la parte resistente sviluppa una serie di considerazioni in ordine alla «natura strategica della scelta del Governo di introdurre l’energia nucleare tra le fonti di approvvigionamento dell’energia». Il ritorno al nucleare – spiega la difesa dello Stato – è volto a fronteggiare il cambiamento climatico e a garantire la sicurezza dell’approvvigionamento di energia e la competitività del sistema produttivo. L’energia nucleare, come attestato da iniziative assunte in ambito comunitario, costituisce l’unica fonte idonea a fornire elettricità su vasta scala consentendo, nel contempo, il rispetto delle limitazioni poste alle emissioni di gas ad effetto serra. Inoltre, la maggiore esposizione degli Stati alle instabilità ed ai rischi geopolitici dei mercati internazionali produce incognite, soprattutto sul piano della continuità delle forniture, tali da imporre il ricorso all’energia nucleare. L’utilità di tale fonte è, poi, avvertibile sul piano della competitività dei sistemi produttivi, minacciata da continui aumenti di prezzi dell’energia prodotta da fonti convenzionali. Si è, dunque, in presenza di profili problematici «che travalicano in modo consistente i meri interessi territoriali e locali». Sul piano strettamente giuridico – prosegue l’Avvocatura dello Stato – «le assolute peculiarità e le potenzialità tipiche dell’energia nucleare, tutte espressive di interessi unitari e infrazionabili», chiamano in causa attribuzioni esclusive dello Stato, che assumono sicura prevalenza rispetto alla materia concorrente della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» (è citata la sentenza n. 88 del 2009): - assumono rilevanza le implicazioni connesse con la produzione dell’energia nucleare in termini di «ordine pubblico e di sicurezza», ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. (è citata la sentenza n. 18 del 2009); - le disposizioni dirette a presidiare la c.d. «sicurezza nucleare» appaiono ascrivibili alla materia «sicurezza dello Stato» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera d), Cost.; - la matrice sovranazionale di molte delle prescrizioni implementate nell’ordinamento italiano giustifica l’attivazione della competenza esclusiva del legislatore statale in materia di «politica estera e rapporti internazionali dello Stato; rapporti dello Stato con l’Unione europea», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost.; - l’impatto ecologico dello sfruttamento del nucleare sollecita l’intervento del legislatore statale nella materia della «tutela dell’ambiente» ex art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. D’altro canto – insiste la parte resistente – l’incidenza degli interessi nazionali e internazionali in gioco, le correlate esigenze di celerità nell’attuazione delle scelte strategiche legate al nucleare, le peculiarità di questa fonte energetica, impongono di considerare sotto luce diversa i princìpi inerenti all’applicazione del principio di sussidiarietà di cui all’art. 118, primo comma, Cost., nonché lo stesso potere sostitutivo (sono richiamate le sentenze n. 249 del 2009; n. 383 e n. 62 del 2005; n. 6 del 2004 e n. 303 del 2003). 1.3.3. – Ciò premesso, la difesa dello Stato reputa comunque, inammissibili, «per difetto di interesse della ricorrente», le doglianze prospettate avverso i princìpi e criteri direttivi della delega legislativa anzitutto «in quanto non immediatamente lesivi di alcuna prerogativa regionale». Le previsioni di cui all’art. 25, comma 2, lettere f), g) e h), non sono, infatti, tali da precludere alcuna delle possibili opzioni quanto alle forme di coinvolgimento delle Regioni. Quanto, in particolare, alla impugnazione della citata lettera f), la ricorrente avrebbe prospettato in modo perplesso le questioni sottoposte al vaglio di questa Corte. Altrettanto inammissibile sarebbe la questione avente per oggetto l’art. 25, comma 2, lettera a), giacché, in difetto di attuazione della delega, «non è possibile determinare se ed in che modo la Regione verrebbe coinvolta in tale attività». La stessa questione sarebbe, comunque, destituita di fondamento in quanto nella giurisprudenza costituzionale non si rinvengono pronunce che impongano di acquisire l’intesa con la singola Regione interessata, piuttosto che con la Conferenza unificata, in relazione alla determinazione delle aree di interesse strategico nazionale. Invero, nella sentenza n. 249 del 2009 si sottolinea trattarsi di impianti di preminente interesse nazionale, tali da comportare un accentramento della funzione amministrativa in vista del conseguimento di obiettivi strategici unitari. 2. – Con ricorso notificato il 29 settembre 2009 e depositato il successivo 5 ottobre (iscritto al r.r. n. 70 del 2009), la Regione Umbria ha promosso, in riferimento agli artt. 117, commi secondo, terzo, quarto e sesto, 118, comma primo, e 120 Cost. nonché al principio di leale collaborazione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 25, comma 2, lettere a), f), e g), 26, comma 1, e 27, comma 27, della legge n. 99 del 2009. 2.1. – Oltre alle disposizioni di cui all’art. 25, comma 2, lettere a), f) e g), dapprima riportate, viene, innanzitutto, in rilievo la previsione di cui all’art. 26, comma 1, della legge in parola, a mente del quale «con delibera del CIPE, da adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge e previo parere della Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, sentito il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentite le Commissioni parlamentari competenti, sono definite le tipologie degli impianti per la produzione di energia elettrica nucleare che possono essere realizzati nel territorio nazionale». È, inoltre, previsto che la Conferenza unificata si esprima «entro sessanta giorni dalla richiesta, trascorsi i quali il parere si intende acquisito». Oggetto di doglianza è, poi, il comma 27 dell’art. 27, il quale stabilisce l’applicazione delle «disposizioni di cui all’art. 5-bis del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33», agli «impianti di produzione di energia elettrica alimentati con carbon fossile di nuova generazione, se allocati in impianti industriali dismessi, nonché agli impianti di produzione di energia elettrica a carbon fossile, qualora sia stato richiesto un aumento della capacità produttiva». 2.2. – Quanto alla disposizione di cui all’art. 25, comma 2, lettera g), la ricorrente sostiene trattarsi di previsione incostituzionale nella parte in cui non pone il principio secondo il quale la localizzazione dell’impianto richiede, altresì, l’intesa della Regione nel cui ambito esso deve essere realizzato. Per la difesa regionale il coinvolgimento della Conferenza non può essere ritenuto equivalente o sostitutivo di quello della Regione interessata: invero, la necessità del consenso di questa in relazione alla localizzazione di grandi opere, la cui realizzazione imprima al territorio una caratterizzazione tanto forte da incidere sulla sua complessiva destinazione e su tutti gli interessi che in esso insistono, è implicita nel sistema di applicazione del principio di sussidiarietà sin dalla sentenza n. 303 del 2003. Questo principio – prosegue la ricorrente – è stato ribadito proprio in relazione alla materia concorrente della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia elettrica» dalla sentenza n. 6 del 2004: deve trattarsi di una intesa forte, «nel senso che il suo mancato raggiungimento costituisce ostacolo insuperabile alla conclusione del procedimento». La successiva sentenza n. 62 del 2005, relativa allo stoccaggio dei rifiuti nucleari, ribadisce che, quando gli interventi necessari realizzati dallo Stato in vista di interessi unitari di tutela ambientale «concernono l’uso del territorio, e in particolare la realizzazione di opere e di insediamenti atti a condizionare in modo rilevante lo stato e lo sviluppo di singole aree, l’intreccio, da un lato, con la competenza regionale concorrente in materia di governo del territorio, oltre che con altre competenze regionali, dall’altro lato con gli interessi delle popolazioni insediate nei rispettivi territori, impone che siano adottate modalità di attuazione degli interventi medesimi che coinvolgano, attraverso opportune forme di collaborazione, le Regioni sul cui territorio gli interventi sono destinati a realizzarsi». Nella stessa pronuncia, tuttavia, questa Corte ha precisato che allorché, «una volta individuato il sito, si debba pro vvedere alla sua “validazione”, alla specifica localizzazione e alla realizzazione dell’impianto, l’interesse territoriale da prendere in considerazione e a cui deve essere offerta, sul piano costituzionale, adeguata tutela, è quello della Regione nel cui territorio l’opera è destinata ad essere ubicata», e che «non basterebbe più, a questo livello, il semplice coinvolgimento della Conferenza unificata, il cui intervento non può sostituire quello, costituzionalmente necessario, della singola Regione interessata». Ancora, il principio della necessaria intesa con la Regione interessata viene ulteriormente evocato con la sentenza n. 383 del 2005, in relazione alla individuazione delle infrastrutture e degli insediamenti strategici, ove pure si afferma la necessità «che anche tale individuazione sia effettuata d’intesa con le Regioni e le Province autonome interessate». Ad avviso della ricorrente, la denunciata illegittimità non viene meno per il fatto che la successiva lettera h) dello stesso art. 25, comma 2, prevede che «l’autorizzazione unica sia rilasciata a seguito di un procedimento unico al quale partecipano le amministrazioni interessate, svolto nel rispetto dei principi di semplificazione e con le modalità di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241». A parte la genericità dell’espressione «amministrazioni interessate», e pur dando per scontato che tra esse vadano incluse le Regioni, l’istituto dell’intesa implica uno specifico rapporto bilaterale tra lo Stato e la Regione interessata, costituito da una altrettanto specifica trattativa tra due parti, ed assistito da un dovere particolare di attenzione e di reciproca collaborazione. Per la difesa regionale, questo rapporto speciale non può essere diluito e confuso in una generica partecipazione al procedimento quale «amministr azione interessata», rivelandosi così insufficiente il principio espresso dalla richiamata lettera h). Del resto – insiste la ricorrente – la rimarcata specificità sarebbe dimostrata, all’interno della stessa legge qui in esame, dal nuovo testo dell’art. 1-sexies, comma 4-bis, del decreto-legge 29 agosto 2003, n. 239 (Disposizioni urgenti per la sicurezza e lo sviluppo del sistema elettrico nazionale e per il recupero di potenza di energia elettrica), convertito, con modificazioni, dalla legge 27 ottobre 2003, n. 290, introdotto ora dall’art. 27, comma 24, della legge n. 99 del 2009. Il comma 4-bis, nel suo testo originario, fu dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla sentenza n. 383 del 2005. Sicché, il nuovo testo dispone che «in caso di mancata definizione dell’intesa con la Regione o le Regioni interessate per il rilascio dell’autorizzazione, entro i novanta giorni successivi al termine di cui al comma 3, si provvede al rilascio della stessa previa intesa da concludere in un apposito comitato interistituzionale, i cui componenti sono designati, in modo da assicurare una composizione paritaria, rispettivamente dai Ministeri dello sviluppo economico, dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e delle infrastrutture e dei trasporti e dalla Regione o dalle Regioni interessate. Ove non si pervenga ancora alla definizione dell’intesa, entro i sessanta giorni successivi al termine di cui al primo periodo, si provvede all’autorizzazione con decreto del Presidente della Repubblica, previa d eliberazione del Consiglio dei ministri, integrato con la partecipazione del Presidente della Regione o delle Regioni interessate, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti». Si evince che è la stessa legge statale, in esecuzione della statuizione resa da questa Corte, ad indicare la via idonea a preservare i caratteri specifici dell’intesa e la sua peculiare rilevanza anche laddove alla Regione interessata non possa spettare la parola definitiva. 2.3. – Per quanto attiene all’impugnato art. 25, comma 2, lettera a), la ricorrente non contesta la necessità che i siti delle centrali nucleari siano soggetti a speciali forme di vigilanza e protezione. Essa, invece, lamenta il mancato coinvolgimento sia nella esatta individuazione dell’area da qualificare come «di interesse strategico nazionale», sia nella stessa individuazione delle forme di vigilanza e protezione. Il diretto coinvolgimento della Regione appare ascrivibile alla circostanza che la qualifica in questione conferisce ad aree non necessariamente coincidenti con quella della centrale nucleare strettamente intesa «uno status territoriale speciale, comportante uno specifico regime dell’attività urbanistica ed edilizia, intrecciandosi così con la materia del governo del territorio e con tutti gli interessi inerenti a tale vastissima materia». D’altronde, la qualificazione di aree come di interesse strategico nazionale ha nella legislazione un precedente specifico nell’art. 2, comma 4 del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 90 (Misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti nella Regione Campania e ulteriori disposizioni di protezione civile), convertito, con modificazioni, dalla legge 14 luglio 2008, n. 123, e modificato dall’art. 2-bis della legge 30 dicembre 2008, n. 210 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 6 novembre 2008, n. 172, recante misure straordinarie per fronteggiare l’emergenza nel settore dello smaltimento dei rifiuti nella Regione Campania, nonché misure urgenti di tutela ambientale), secondo il quale «i siti, le aree, le sedi degli uffici e gli impianti comunque connessi all’attività di gestione dei rifiuti costituiscono aree di interesse strategico nazionale, per le quali il Sottosegretario di Stato provvede ad individuare le occorrenti misure, anche di carattere straordinario, di salvaguardia e di tutela per assicurare l’assoluta protezione e l’efficace gestione». Dal quadro normativo così delineato si evincerebbe – a detta della difesa regionale – il «vincolo costituzionale nella stessa legge di delega che all’individuazione dell’area e delle relative misure di protezione debba procedersi d’intesa con la Regione o le Regioni direttamente interessate». Quanto all’art. 25, comma 2, lettera f), la ricorrente lamenta che tale disposizione consentirebbe l’esercizio del potere sostitutivo nei confronti della Regione, ed aggiunge che «la norma non prevede alcun coinvolgimento delle Regioni né nelle intese né nell’esercizio del potere sostitutivo». 2.4. – La previsione, di cui all’art. 26, comma 1, del potere del CIPE di deliberare «le tipologie degli impianti di produzione elettrica nucleare che possono essere realizzati nel territorio nazionale», è, secondo la ricorrente, destinata ad incidere sui livelli di sicurezza e sull’impatto complessivo sul territorio e su tutti gli interessi che su di esso insistono, in larghissima misura affidati alla competenza regionale. Trattandosi di una competenza normativa di rango secondario e versandosi in una materia – la «produzione dell’energia» – di competenza concorrente, alla luce dell’art. 117, sesto comma, Cost., detta previsione dovrebbe rivelarsi illegittima. Ove, nondimeno, si acceda al modello della «chiamata in sussidiarietà», comunque risulterebbero pur sempre costituzionalmente indefettibili i più volte ribaditi correttivi in termini di partecipazione delle Regioni attraverso le necessarie intese: l’intesa con la Conferenza Stato-Regioni o unificata in quanto il CIPE definisca «in astratto» le tipologie ammissibili su tutto il territorio nazionale; l’intesa con la singola Regione interessata, in quanto il CIPE deliberi la tipologia di un singolo determinato impianto, da collocare in una Regione determinata. 2.5. – Il denunciato comma 27 dell’art. 27 prevede l’applicazione, «agli impianti di produzione di energia elettrica alimentati con carbon fossile di nuova generazione, se allocati in impianti industriali dismessi, nonché agli impianti di produzione di energia elettrica a carbon fossile, qualora sia stato richiesto un aumento della capacità produttiva», dell’art. 5-bis del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5 (Misure urgenti a sostegno dei settori industriali in crisi, nonché disposizioni in materia di produzione lattiera e rateizzazione del debito nel settore lattiero-caseario), convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33. Dal canto suo, il richiamato art. 5-bis, rubricato «Riconversione di impianti di produzione di energia elettrica», dispone: «per la riconversione degli impianti di produzione di energia elettrica alimentati ad olio combustibile in esercizio alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, al fine di consentirne l’alimentazione a carbone o altro combustibile solido, si procede in deroga alle vigenti disposizioni di legge nazionali e regionali che prevedono limiti di localizzazione territoriale, purché la riconversione assicuri l’abbattimento delle loro emissioni di almeno il 50 per cento rispetto ai limiti previsti per i grandi impianti di combustione di cui alle sezioni 1, 4 e 5 della parte II dell’allegato II alla parte V del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152». Esso prevede, altresì, che tale disposizione «si applica anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto». Secondo la ricorrente, il risultato della nuova disposizione, comprensiva della parte che essa «riprende» dalla precedente, è che alle centrali a carbon fossile non vi sarebbero più limiti di localizzazione: né per quelli di «nuova generazione» (se allocati in impianti industriali dismessi), né per quelli esistenti (anche di vecchia generazione), per i quali sia stato richiesto un aumento di potenza, alla sola condizione dell’abbattimento delle emissioni del 50 per cento rispetto ai limiti previsti per i grandi impianti. Sicché lo sganciamento della localizzazione o dell’espansione di impianti in ogni modo altamente inquinanti, come le centrali a carbone, da ogni vincolo di localizzazione violerebbe la potestà legislativa regionale nelle materie del «governo del territorio» e della «tutela della salute», oltre che quella in materia di produzione dell’energia. La denunciata disposizione non detterebbe alcun principio fondamentale, trattandosi al contrario di una norma derogatoria al normale assetto dei principi di governo del territorio e di tutela della salute, come si evince dalla sua stessa formulazione. La compromissione delle potestà legislativa ed amministrativa regionale nelle indicate materie – insiste la difesa regionale – sarebbe ancora più grave ove la disposizione impugnata dovesse intendersi nel senso che la Regione, in sede di rilascio dell’intesa prevista dall’art. 1, comma 2, del decreto-legge 7 febbraio 2002, n. 7 (Misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2002, n. 55, non possa far valere, a giustificazione del proprio diniego, ragioni attinenti «alla tutela di un corretto assetto territoriale, a protezione degli interessi ad una ordinata convivenza delle persone in un ambiente salubre e preservato». In tal modo, la prevista intesa, pur formalmente richiesta, finirebbe per perdere oggetto e consistenza, dal momento che attraverso di essa la Regione non potrebbe far valere gli interessi che è chiamata dalla Costituzione a tutelare. Invero, questa Corte, nel sindacare la costituzionalità del succitato art. 1, comma 2, ha ritenuto la predetta intesa come una intesa in senso “forte” (sentenza n. 6 del 2004). 2.6. – Con atto depositato il 9 novembre 2009 si è costituito nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato. 2.6.1. – In via preliminare, l’Avvocatura espone le principali ragioni sottese alla scelta del legislatore statale di reintrodurre l’energia nucleare tra le fonti di approvvigionamento dell’energia (v. supra, par. 1.3.2.). 2.6.2. – Quanto alla impugnazione delle disposizioni di cui all’art. 25, comma 2, lettere a), f) e g), della legge n. 99 del 2009, la difesa erariale sviluppa le medesime argomentazioni addotte nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato con il ricorso della Regione Toscana (v. supra, par. 1.3.3.). 2.6.3. – A detta della difesa dello Stato, la questione vertente sull’art. 26, comma 1, sarebbe, innanzitutto, inammissibile in quanto formulata in modo ipotetico, con riferimento cioè a due possibili opzioni interpretative tra loro incompatibili. Nel merito, la questione non sarebbe fondata dal momento che, una volta riconosciuta la natura amministrativa (e non normativa) della delibera CIPE, il parere della Conferenza unificata – anziché l’intesa – si giustifica proprio in relazione alla dimensione unitaria e infrazionabile dei prevalenti interessi incisi da siffatti interventi. 2.6.4. – Per la difesa dello Stato, sarebbe inammissibile la questione di costituzionalità promossa nei confronti dell’art. 27, comma 27, della legge in oggetto, in quanto formulata in modo ipotetico in ordine alla asserita preclusione per la Regione di addurre, quale motivazione del proprio diniego, ragioni attinenti alla tutela del corretto assetto territoriale. Nel merito, la questione non sarebbe fondata, essendo la disposizione de qua espressione della potestà esclusiva del legislatore statale in materia di «tutela dell’ambiente», a fronte di esigenze di carattere unitario. 3. – Con ricorso notificato il 29 settembre 2009 e depositato il successivo 5 ottobre (iscritto al r.r. n. 71 del 2009), la Regione Liguria ha promosso, in riferimento agli artt. 117, commi secondo, terzo e quarto, e 118, comma primo, Cost. e al principio di leale collaborazione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 25, comma 2, lettere a) e g), e 27, comma 27, della legge n. 99 del 2009. 3.1. – Per quanto concerne l’impugnazione dell’art. 25, comma 2, lettere a) e g), la difesa regionale svolge argomentazioni coincidenti con quelle prospettate nel ricorso presentato dalla Regione Umbria (v. supra, par. 2.2 e 2.3). 3.2. – Quanto alla doglianza relativa all’art. 27, comma 27, richiamate le medesime ragioni addotte nel ricorso della Regione Umbria (v. supra, par. 2.5), la difesa della ricorrente sottolinea come la Regione Liguria sia intervenuta con la legge regionale 29 maggio 2007, n. 22 (Norme in materia di energia). Questa legge prevede, tra l’altro, la competenza della Regione a stabilire criteri per la localizzazione degli impianti (art. 2), stabilisce il sistema della programmazione e pianificazione regionale in materia di energia (art. 3), prevedendo la stipulazione di accordi con i gestori degli impianti di produzione di energia elettrica per finalità di raggiungimento di livelli minimi di efficienza energetica (art. 6). Nella stessa Regione – prosegue la difesa regionale – è vigente il Piano Energetico Ambientale Regionale (PEAR), approvato con delibera del Consiglio regionale 2 dicembre 2003, n. 43 (Piano Energetico Ambientale della Regione Liguria), e aggiornato nel 2009. A sua volta il Piano di risanamento della qualità dell’aria, redatto sulla base di standard sanitari statali, è stato approvato con delibera del Consiglio regionale 21 febbraio 2006, n. 4 (Piano regionale di risanamento e tutela della qualità dell’aria e per la riduzione dei gas serra). Con questi piani la Regione Liguria ha, tra l’altro, individuato le aree ove non possono trovare collocazione impianti di produzione dell’energia elettrica. In particolare, il Piano Aria individua le aree urbane con fonti miste ove, in caso di superamento del limite di accettabilità della qualità dell’aria, non possono essere ubicati nuovi impianti. 3.3. – Con atto depositato il 9 novembre 2009 si è costituito nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato. 3.3.1. – In via preliminare, l’Avvocatura espone le principali ragioni sottese alla scelta del legislatore statale di reintrodurre l’energia nucleare tra le fonti di approvvigionamento dell’energia (v. supra, par. 1.3.2.). 3.3.2. – Quanto alla impugnazione delle disposizioni di cui all’art. 25, comma 2, lettere a), e g), della legge n. 99 del 2009, la difesa dello Stato sviluppa le medesime argomentazioni addotte nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato con il ricorso della Regione Toscana (v. supra, par. 1.3.3.). 3.3.3. – Per la difesa dello Stato, sarebbe inammissibile la questione di costituzionalità promossa nei confronti dell’art. 27, comma 27, della legge in oggetto, alla luce delle stesse argomentazioni sviluppate nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato con il ricorso della Regione Umbria (v. supra, par. 2.6.4.). 4. – Con ricorso notificato il 28 settembre 2009 e depositato il successivo 5 ottobre (iscritto al r.r. n. 72 del 2009), la Regione Puglia ha promosso, in riferimento agli artt. 117, 118 e 120 Cost., e al principio di leale collaborazione questione di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, lettera g), della legge n. 99 del 2009. 4.1. – La ricorrente si duole della violazione degli artt. 117, 118 e 120 Cost., «in ordine ai poteri concorrenti delle Regioni in materia di ambiente e governo del territorio nonché al rispetto del principio di leale collaborazione e di sussidiarietà». L’impugnata disposizione consentirebbe al Governo «di poter procedere alla costruzione e all’esercizio degli impianti previa sola intesa con la Conferenza unificata, a cui partecipano bensì le Regioni e gli enti locali ma con un parere non vincolante. Per la localizzazione degli impianti, poi, è escluso ogni tipo di coinvolgimento della Regione, la cui competenza rimarrebbe esclusivamente in capo al Governo». A suffragio di tale doglianza, la ricorrente sostiene che, nelle materie di competenza concorrente, le Regioni «non possono essere esautorate dalla correlata funzione amministrativa». La consacrazione, nel testo costituzionale, del principio di sussidiarietà e, poi, l’adozione del codice dell’ambiente con il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), dovrebbero consentire alle Regioni «di esercitare le proprie funzioni normative ed amministrative non già solo in ragione della massima vicinitas tra bene protetto e livello territoriale ma in vista del perseguimento del maggiore grado di protezione della salute e quindi dell’ambiente e del territorio». Dal canto suo, il principio di leale collaborazione impone che l’individuazione del livello di governo presso il quale allocare la funzione decisoria, sia normativa che amministrativa, non possa essere in alcun modo disancorata dall’esistenza di competenze necessariamente intersecate, tali da esigere assetti procedimentali volti a favorire il raggiungimento di intese (sono richiamate, al riguardo, le sentenze n. 284 del 2004 e n. 308 del 2003). Al contrario, l’impugnata disposizione non sembra «tenere nel dovuto conto il ruolo delle Regioni, limitandosi a prevedere da parte di queste la possibilità di espressione di un semplice parere in sede di Conferenza unificata e non una precisa intesa con la Regione interessata per la “costruzione” e “l’esercizio” di impianti per la produzione di energia nucleare». Sicché, «l’eventuale parere contrario delle Regioni ad accogliere un impianto per la produzione di energia nucleare si appaleserebbe come un semplice parere non vincolante». Al contrario, il rispetto delle competenze definite dal nuovo Titolo V, Parte II, della Costituzione, dovrebbe subordinare l’autorizzazione alla realizzazione di impianti per la produzione di energia nucleare alla «intesa forte» con le Regioni interessate. In definitiva, alla luce della giurisprudenza costituzionale relativa alla delimitazione della competenza in tema di «tutela dell’ambiente» (sono citate le sentenze n. 248 del 2009 e n. 407 del 2002), per la ricorrente l’impugnata disposizione lederebbe il ruolo della Regione e le competenze in materia di tutela del territorio, dell’ambiente e dell’autonomia degli enti locali nelle parte in cui: a) disciplina la costruzione di impianti per la produzione di energia nucleare, senza prevedere una intesa specifica e vincolante fra lo Stato e la Regione interessata ma semplicemente un parere in sede di Conferenza unificata sulla base di un’autorizzazione unica rilasciata dal Ministero dello sviluppo economico, di concerto con quelli dell’ambiente e delle infrastrutture; b) non prevede alcuna partecipazione delle Regioni in ordine alla localizzazione di detti impianti. 4.2. – Con atto depositato il 9 novembre 2009 si è costituito nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato. 4.2.1. – In via preliminare, l’Avvocatura espone le principali ragioni sottese alla scelta del legislatore statale di reintrodurre l’energia nucleare tra le fonti di approvvigionamento dell’energia (v. supra, par. 1.3.2.). 4.2.2. – Quanto alla impugnazione della disposizione di cui all’art. 25, comma 2, lettera g), della legge n. 99 del 2009, la difesa dello Stato sviluppa le medesime argomentazioni addotte nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato con il ricorso della Regione Toscana (v. supra, par. 1.3.3.). 5. – Con ricorso notificato il 29 settembre 2009 e depositato il successivo 6 ottobre (iscritto al r.r. n. 73 del 2009), la Regione Basilicata ha promosso, in riferimento agli artt. 117 e 118 Cost., questioni di legittimità costituzionale degli artt. 25, commi 1 e 2, lettera g), e 26, comma 1, della legge n. 99 del 2009. 5.1. – Secondo la ricorrente, il denunciato art. 25, comma 1, violerebbe gli artt. 117 e 118 Cost., nonché il principio di leale collaborazione. Ai sensi della contestata previsione, «il Governo è delegato ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge, nel rispetto delle norme in tema di valutazione di impatto ambientale e di pubblicità delle relative procedure, uno o più decreti legislativi di riassetto normativo recanti la disciplina della localizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare, di impianti di fabbricazione del combustibile nucleare, dei sistemi di stoccaggio del combustibile irraggiato e dei rifiuti radioattivi, nonché dei sistemi per il deposito definitivo dei materiali e rifiuti radioattivi e per la definizione delle misure compensative da corrispondere e da realizzare in favore delle popolazioni interessate. I decreti sono adottati, secondo le modalità e i principi direttivi di cui all’art. 20 della legge 15 marzo 1997, n. 59, e successive modificazioni, nonché nel risp etto dei principi e criteri direttivi di cui al comma 2 del presente articolo, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, previa acquisizione del parere della Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, e successivamente delle Commissioni parlamentari competenti per materia e per le conseguenze di carattere finanziario». La scelta dei siti in cui allocare impianti di produzione di energia e combustibile nucleare e di deposito dei materiali e rifiuti radioattivi costituisce un’attività complessa, dovendosi considerare le qualità fisiche e geologiche del territorio e i vincoli normativi esistenti in punto di tutela idrogeologica, sui beni di interesse pubblico e sulle aree naturali protette. Ebbene, per la difesa regionale, «tale composita attività non può prescindere da una metodologia partecipativa utile a mettere in grado le Regioni di rappresentare le specificità, anche sociali, del proprio territorio». Al contrario, la disposizione oggetto di censura non contempla alcuna forma di reale coinvolgimento delle Regioni sulla localizzazione degli impianti. La materia interessata dalla disposizione de qua è quella, concorrente, della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia». Il dettato costituzionale rispecchia la consapevolezza che gli interessi pubblici delle comunità locali si appalesano «meglio tutelati, anche a livello nazionale, da norme di emanazione regionale in un campo, quello energetico, la cui disciplina investe trasversalmente anche altri settori (governo del territorio, urbanistica, tutela della salute, ambiente) rimessi alla competenza regionale» (sentenza n. 383 del 2005). Nelle materie di legislazione concorrente, l’adìta Corte ha da tempo auspicato che la disciplina statale, perché non incida significativamente sull’ambito dei poteri regionali, deve risultare limitata a quanto strettamente indispensabile e deve essere adottata a seguito di procedure che assicurino la partecipazione dei livelli coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione o deve comunque prevedere adeguati meccanismi di cooperazione per l’esercizio concreto delle funzioni amministrative allocate agli organi centrali. Il parere previsto dall’impugnata norma non parrebbe, a detta della ricorrente, soddisfare tale condizione, «trattandosi di un’espressione consultiva, oltretutto non vincolante, insufficiente a mettere al riparo da lesioni alle prerogative dell’ente territoriale». 5.2. – Anche il contestato art. 25, comma 2, lettera g), violerebbe, secondo la Regione Basilicata, gli artt. 117 e 118 Cost., nonché il principio di leale collaborazione. A detta della difesa regionale, il legislatore statale parrebbe essersi preoccupato di innalzare – dopo aver ritenuto sufficiente un parere della Conferenza unificata nell’ambito del procedimento di adozione dei decreti delegati – il livello di partecipazione della Regione attraverso la previsione di un’intesa con la Conferenza unificata. Come statuito da questa Corte nella sentenza n. 62 del 2005, non basterebbe più, a questo livello, il semplice coinvolgimento della Conferenza unificata, il cui intervento non può sostituire quello, costituzionalmente rilevante, della singola Regione interessata (v. sentenze n. 6 del 2004, n. 303 del 2003, n. 242 del 1997 e n. 338 del 1994). Appare, dunque, costituzionalmente necessario che siano previste forme di partecipazione al procedimento della Regione interessata, fermo restando che, in caso di dissenso irrimediabile possono essere previsti meccanismi di deliberazione definitiva da parte di organi statali, con adeguate garanzie procedimentali. 5.3. – Gli stessi profili di incostituzionalità sono prospettati, nel ricorso, avverso l’art. 26, comma 1, della legge in oggetto. La legittima pretesa della Regione a «codecidere» le scelte in ordine ad impianti, che hanno notoriamente un pesante impatto sull’ambiente, sul paesaggio, sulla salute dei cittadini, sul governo del territorio, si rivelerebbe ulteriormente mortificata dalla norma, che si limita a prevedere la «espressione di un parere da parte di un organismo che, nell’esprimersi può non dare voce agli interessi di singole Regioni, ognuna portatrice di proprie specificità». Inoltre – conclude la difesa regionale – la marginalità del coinvolgimento emerge dalla previsione secondo cui, qualora il parere non venga dato nei termini fissati, esso s’intende acquisito positivamente. 5.4. – Con atto depositato il 9 novembre 2009, si è costituito nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato. 5.4.1. – In via preliminare, l’Avvocatura espone le principali ragioni sottese alla scelta del legislatore statale di reintrodurre l’energia nucleare tra le fonti di approvvigionamento dell’energia (v. supra, par. 1.3.2.). 5.4.2. – Quanto alla impugnazione delle disposizioni di cui all’art. 25, commi 1 e 2, lettera g), della legge n. 99 del 2009, la difesa dello Stato sviluppa le medesime argomentazioni addotte nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato con il ricorso della Regione Toscana (v. supra, par. 1.3.3.). 5.4.3. – In ordine alla doglianza relativa all’art. 26, comma 1, il resistente prospetta i medesimi rilievi già formulati nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato con il ricorso della Regione Umbria (v. supra, par. 2.6.3). 6. – Con ricorso notificato il 29 settembre 2009 e depositato il successivo 7 ottobre (iscritto al r.r. n. 75 del 2009), la Regione Piemonte ha promosso, in riferimento agli artt. 3, 117, 118 e 120 Cost., e al principio di leale collaborazione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 25, comma 2, lettera g), 26, comma 1, e 27, comma 27, della legge n. 99 del 2009. 6.1. – Il denunciato art. 25, comma 2, lettera g), violerebbe, innanzitutto, gli artt. 117, 118 e 120 Cost. Sottolinea la ricorrente che la legge in parola definisce «attività di preminente interesse statale» la costruzione e l’esercizio degli impianti per la produzione di energia elettrica nucleare, per la messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi o per lo smantellamento di impianti nucleari a fine vita ed opere connesse. Essa assoggetta tali attività ad autorizzazione unica, su istanza del soggetto richiedente, previa intesa con la Conferenza unificata. Risulta, dunque, accentrata al procedimento di «autorizzazione unica» ogni decisione sulla localizzazione e realizzazione di tali impianti ed opere. L’autorizzazione è unica – prosegue la difesa regionale – giacché è rilasciata anzitutto a seguito di un «unico procedimento» e si prevede sostituisca «ogni provvedimento amministrativo, autorizzazione, concessione, licenza, nulla osta, atto di assenso e atto amministrativo, comunque denominati, ad eccezione delle procedure di valutazione di impatto ambientale (VIA) e di valutazione ambientale strategica (VAS) cui si deve obbligatoriamente ottemperare, previsti dalle norme vigenti, costituendo titolo a costruire ed esercire le infrastrutture in conformità del progetto approvato». Sicché, l’«autorizzazione unica» vale atto di localizzazione, realizzazione ed esercizio degli impianti di produzione di energia nucleare e di messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi con opere connesse. Ebbene, trattandosi di previsioni «molto specifiche e puntuali», per la ricorrente il Governo delegato non potrà che riprodurle nel decreto legislativo. Ove si riconduca la normativa in oggetto ad ambiti materiali di natura concorrente, quali la «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» o il «governo del territorio», si potrebbe persino pervenire a negare una competenza esclusiva amministrativa statale al rilascio dell’autorizzazione per gli impianti di produzione, trasporto e distribuzione dell’energia, «poiché nella disciplina oggetto d’impugnazione manca la previsione di una competenza della Regione interessata dalla localizzazione, anche nella forma più attenuata di un’intesa dello Stato con quest’ultima». Ove, invece, si ascriva la disciplina in parola alla materia, di competenza esclusiva dello Stato, della «tutela dell’ambiente», la Regione Piemonte ricorda che «quando gli interventi individuati come necessari e realizzati dallo Stato, in vista di interessi unitari di tutela ambientale, concernono l’uso del territorio, e in particolare la realizzazione di opere e di insediamenti atti a condizionare in modo rilevante lo stato e lo sviluppo di singole aree, l’intreccio da un lato con la competenza regionale concorrente in materia di governo del territorio, oltre che con altre competenze regionali, dall’altro lato con gli interessi delle popolazioni insediate nei rispettivi territori, impone che siano adottate modalità di attuazione degli interventi medesimi che coinvolgano, attraverso opportune forme di collaborazione, le Regioni sul cui territorio gli interventi sono destinati a realizzarsi», fermo restando che «il livello e gli s trumenti di tale collaborazione possono naturalmente essere diversi in relazione al tipo di interessi coinvolti e alla natura e all’intensità delle esigenze unitarie che devono essere soddisfatte» (sentenza n. 62 del 2005). Per la difesa della ricorrente, dunque, la specifica localizzazione dell’impianto e la sua realizzazione concorrono ad individuare necessariamente l’interesse territoriale da prendere in considerazione di cui deve essere offerta un’adeguata tutela costituzionale: trattasi dell’interesse della Regione nel cui territorio l’opera è destinata ad essere ubicata. Al riguardo, questa Corte ha reputato insufficiente il «coinvolgimento della Conferenza unificata» in quanto inidoneo a surrogare «quello, costituzionalmente necessario, della singola Regione interessata» (sentenza n. 62 del 2005; si vedano anche le sentenze n. 6 del 2004 e n. 303 del 2003). La previa intesa con la Conferenza unificata non sarebbe, perciò, una adeguata forma di coinvolgimento della Regione destinataria dell’insediamento degli impianti ed opere d’interesse nazionale e delle Regioni ad essa limitrofe, dovendosi invece prevedere la forma costituzionalmente necessaria dell’intesa forte tra lo Stato e tutte le Regioni interessate (sentenza n. 383 del 2005). Per la ricorrente, la violazione degli evocati parametri costituzionali parrebbe confermata dalla disciplina generale sul funzionamento della Conferenza unificata, ove il dissenso della singola Regione può essere successivamente superato dall’assenso di tutti i membri ivi compreso il Presidente della Regione dissenziente, oppure con deliberazione unilaterale e definitiva del Consiglio dei ministri. Lo stesso art. 25, comma 2, lettera g), sarebbe incostituzionale, a detta della ricorrente, anche per violazione dell’art. 3 Cost., trattandosi di previsione asseritamente irragionevole. Invero, l’intervento unilaterale del Governo è destinato a realizzarsi non solo in caso di paralisi procedimentale della Conferenza unificata imputabile ad inerzia della Regione interessata, ma anche in presenza di qualsiasi dissenso, anche pienamente motivato, di quest’ultima che impedisce il raggiungimento dell’intesa in Conferenza unificata. 6.2. – Per quanto concerne l’impugnazione dell’art. 26, comma 1, per la ricorrente esso violerebbe gli artt. 3, 117, 118 e 120 Cost., con particolare riferimento al principio di leale collaborazione, in quanto consente allo Stato di affermare senz’altro la propria volontà anche provocando la paralisi procedimentale della Conferenza unificata per inerzia o per dissenso – neppure motivato – del Governo stesso, che in tal modo potrebbe impedire alla Conferenza unificata d’esprimere il parere «entro sessanta giorni». Come si evincerebbe dall’art. 9, comma 4, del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (Definizione e ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse comune delle Regioni, delle province e dei comuni, con la Conferenza Stato – città ed autonomie locali), si rivela necessario «l’assenso del Governo per l’adozione delle deliberazioni di competenza della Conferenza unificata». Al contrario, «l’assenso delle Regioni, delle province, dei comuni e delle comunità montane è assunto con il consenso distinto dei membri dei due gruppi delle autonomie che compongono, rispettivamente, la Conferenza Stato-Regioni e la Conferenza Stato – città ed autonomie locali», con «assenso» che «è espresso di regola all’unanimità dei membri dei due predetti gruppi» e, «ove questa non sia raggiunta», «è espresso dalla maggioranza dei rappresentanti di ciascuno dei due gruppi». Orbene, ad avviso della Regione Piemonte, per le decisioni in ordine ad una questione determinante come la definizione delle tipologie d’impianti per la produzione di energia elettrica nucleare sull’intero territorio nazionale, il rinvio operato dalla disciplina speciale qui impugnata alle indicate norme sulla Conferenza unificata ha avuto luogo «in definitiva in spregio della stessa dignità istituzionale delle Regioni a differenza di quanto risulta previsto per l’intesa in Conferenza unificata ove il mancato raggiungimento della stessa può essere superato dallo Stato soltanto con una motivata deliberazione del Consiglio dei ministri». La denunciata disposizione sarebbe, inoltre, incostituzionale, per violazione dei suddetti parametri, anche in combinato disposto con l’art. 25, comma 2, lettera g), relativo alla localizzazione, nella parte in cui non si prevede che l’intesa deve già contenere l’individuazione del tipo d’impianto da localizzare in quel territorio, scelto tra quelli indicati dalla deliberazione del CIPE. 6.3. – L’art. 27, comma 27, sarebbe per la ricorrente in contrasto con gli artt. 117, 118 e 120 Cost., in quanto lesivo delle competenze legislative regionali. Esso, infatti, parrebbe disciplinare, con una norma di dettaglio, materie di competenza concorrente, in particolare la «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», nonché il «governo del territorio». La stessa genericità di formulazione e vastità d’applicazione (tutti i «limiti di localizzazione territoriale» previsti a qualsiasi fine nelle legislazioni regionali) non solo vanificherebbe ogni vigente previsione di legge regionale, ma verrebbe a costituire un vincolo puntuale che va ben oltre la fissazione di «principi fondamentali», superando d’un tratto ed impedendo perciò qualsiasi disciplina di dettaglio del legislatore regionale cui è precluso ogni spazio di normazione sulla localizzazione degli impianti indicati. 6.4. – Con atto depositato il 9 novembre 2009 si è costituito nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato. 6.4.1. – In via preliminare, l’Avvocatura espone le principali ragioni sottese alla scelta del legislatore statale di reintrodurre l’energia nucleare tra le fonti di approvvigionamento dell’energia (v. supra, par. 1.3.2.). 6.4.2. – Quanto alla impugnazione delle disposizioni di cui all’art. 25, comma 2, lettera g), della legge n. 99 del 2009, la difesa dello Stato sviluppa le medesime argomentazioni addotte nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato con il ricorso della Regione Toscana (v. supra, par. 1.3.3.). Il resistente ritiene, inoltre, solo genericamente motivata la questione di costituzionalità promossa avverso l’intero testo dell’art. 25. 6.4.3. – In ordine alla doglianza relativa all’art. 26, comma 1, il resistente prospetta i medesimi rilievi già formulati nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato con il ricorso della Regione Umbria (v. supra, par. 2.6.3.). 6.4.4. – Per la difesa dello Stato, sarebbe inammissibile la questione di costituzionalità promossa avverso l’art. 27, comma 27, della legge in oggetto, alla luce di argomentazioni non dissimili da quella sviluppate nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato con il ricorso della Regione Umbria (v. supra, par. 2.6.4.). 7. – Con ricorso notificato il 30 settembre 2009 e depositato il successivo 7 ottobre (iscritto al r.r. n. 76 del 2009), la Regione Lazio ha promosso, in riferimento agli artt. 76, 97, 117, terzo e quarto comma, 118 e 120 Cost., questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 9, 25, commi 1 e 2, lettere f), g), l) e q), 26, comma 1, nonché 27, commi 14, 24, lettere c) e d), 28, 31 e 34, della legge n. 99 del 2009. 7.1. – Secondo la ricorrente, la previsione di cui al denunciato art. 3, comma 9, ove ascrivibile alla materia concorrente del «governo del territorio», si rivelerebbe illegittima, trattandosi di disciplina puntuale ed analitica, così precludendo al legislatore regionale la possibilità di assumere qualunque determinazione al riguardo. Ove, invece, ricondotta alla materia del «turismo» (v. sentenza n. 94 del 2008), alla difesa regionale «appare evidente l’invasione da parte del legislatore statale della competenza regionale residuale» in tale materia. 7.2. – Quanto all’art. 25, comma 1, oggetto di impugnazione, la Regione Lazio contesta, in via preliminare, il ricorso alla delega legislativa, la quale, trattandosi di una materia concorrente, si rivelerebbe «costituzionalmente insostenibile»: invero, «se la legge di delega contiene i principi della futura disciplina, la formazione integrativa è affidata al decreto legislativo, cioè ad un atto del Governo e non già della Regione». Né varrebbe a «mitigare lo strappo all’art. 117 Cost.» la previsione di una intesa con le Regioni sul decreto legislativo delegato. L’intesa presuppone una piena compartecipazione decisionale da parte dello Stato, anche sulla normazione di dettaglio, quale è quella che costituisce il contenuto tipico dei decreti legislativi. Inoltre, il modulo della delega legislativa non è utilizzabile nell’ambito di competenze legislative concorrenti dal momento che il decreto delegato ha un ambito di efficacia nazionale in relazione al quale anche la eventuale compartecipazione di tutte le Regioni o di organi collegiali che possono ritenersi rappresentativi degli interessi di queste ultime, non riuscirebbe mai a rispettare la competenza legislativa che la Costituzione riconosce a ciascuna singola Regione. In tale prospettiva, la previsione, oltretutto, di un mero «parere» della Conferenza unificata, all’atto dell’adozione dei de creti delegati, appare per la ricorrente del tutto inadeguata. Sempre in termini generali, a detta della difesa regionale, pur procedendo ad una scomposizione dell’oggetto della delega in più ambiti materiali – in relazione ai quali sussistono diversi titoli di legittimazione (tutela dell’ambiente, governo del territorio) – nondimeno si imporrebbero forme di necessaria collaborazione paritaria con le Regioni (è richiamata la sentenza n. 62 del 2005). Inoltre, se in presenza di una disciplina di carattere generale la compartecipazione regionale può ritenersi adeguatamente realizzata attraverso l’intesa con la Conferenza unificata, in presenza di una specifica localizzazione dell’impianto, l’unica partecipazione ammissibile è quella della Regione sul cui territorio è previsto l’insediamento dell’opera. In entrambi i casi, pertanto, il coinvolgimento regionale non potrebbe essere limitato al «parere», dovendosi invece esprimere attraverso una compartecipazione paritaria e, quindi, attraverso un’intesa. 7.3. – Per quanto riguarda l’impugnazione dell’art. 25, comma 2, lettera f), per la Regione Lazio la previsione di un ricorso «automatico» al potere sostitutivo da parte del Governo, in caso di mancato raggiungimento dell’intesa, svilirebbe il ricorso allo strumento consensuale, in materie a carattere concorrente (tutela della salute; protezione civile; governo del territorio; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia): se da un lato si riconosce la necessità delle intese, dall’altro si priva tale riconoscimento di qualsiasi significato sostanziale, nel momento in cui si consente al Governo di superare qualunque manifestazione di dissenso regionale, per quanto obiettivamente giustificata, motivata e ragionevole possa essere. Mentre apparirebbe legittima la previsione di meccanismi procedimentali volti a superare la situazione di mancato conseguimento dell’intesa, tanto non può dirsi a proposito dell’introduzione, generalizzata ed indifferenziata, del ricorso all’esercizio di poteri sostitutivi da parte dello Stato, per di più in evidente assenza delle ipotesi legittimanti di cui all’art. 120 Cost.: ciò equivarrebbe, infatti, a negare quella parità di posizione tra livello statale e regionale, che invece deve costituire il criterio di riferimento nei casi di «chiamata in sussidiarietà» (v. sentenza n. 383 del 2005). 7.4. – Anche la previsione di cui all’art. 25, comma 2, lettera g), appare alla ricorrente illegittima, dal momento che non prevede una intesa con la singola Regione interessata dall’insediamento degli impianti in questione. 7.5. – Per la difesa regionale, sarebbero «del tutto estromesse le Regioni nella definizione dei controlli di sicurezza e di radioprotezione», di cui al denunciato art. 25, comma 2, lettera l), così come una analoga estromissione riguarderebbe la campagna d’informazione alla popolazione italiana sull’energia nucleare, prevista dall’impugnato art. 25, comma 2, lettera q). 7.6. – Nel ricorso si contesta, ancora, che il «parere» della Conferenza unificata sulle delibere CIPE relative alle tipologie degli impianti per la produzione dell’energia elettrica nucleare che possono essere realizzati sul territorio nazionale, previsto dal censurato art. 26, comma 1, sarebbe del tutto inadeguato a soddisfare l’esigenza compartecipativa delle Regioni a garanzia della competenza delle medesime in materia di governo del territorio e tutela della salute. 7.7. – L’impugnato art. 27 della legge in oggetto reca una serie di misure per la sicurezza e il potenziamento del settore energetico. Secondo la ricorrente, detta disciplina risulta riconducibile alla materia concorrente della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia». Anche ad ammettere la «chiamata in sussidiarietà», per la difesa regionale il «contrappeso costituzionale è dato dall’obbligo di prevedere un’intesa in senso forte fra gli organi statali e il sistema delle autonomie territoriali rappresentato dalla Conferenza unificata […], o con le singole Regioni qualora direttamente interessate dal provvedimento». 7.7.1. – Nello specifico, la previsione di cui al comma 14 dell’art. 27 – sostitutiva dell’art. 2, comma 41, ultimo periodo, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge finanziaria 2008) – sarebbe illegittima in quanto contempla soltanto il parere della Conferenza unificata sui criteri per l’erogazione del Fondo di sviluppo delle isole minori. La disposizione immediatamente successiva, secondo cui gli interventi ammessi al relativo finanziamento vengono adottati previa intesa con gli enti locali interessati, risulterebbe invece viziata in quanto estrometterebbe del tutto la Regione. 7.7.2. – Il denunciato comma 24, lettera c), dello stesso art. 27, sostituisce il comma 4-bis del decreto-legge n. 239 del 2003, e disciplina il procedimento da seguire in caso di mancata definizione dell’intesa con la Regione. Per la ricorrente, la previsione di un Comitato interistituzionale in composizione paritaria risponde al paradigma dell’intesa, mentre se ne discosta la soluzione adottata in caso di fallimento nel raggiungimento dell’intesa medesima. Tale soluzione è rappresentata da un decreto del Presidente della Repubblica, previa delibera del Consiglio dei ministri, integrato con la partecipazione del Presidente della Regione. La partecipazione regionale risulterebbe, così, meramente simbolica, con conseguente assorbimento dell’intero potere decisionale nelle mani dello Stato, né varrebbe ricondurre tale procedura ad una sorta di meccanismo sostitutivo previsto dall’art. 120 Cost.: tale richiamo appare improponibile in area di competenza «concorrente» (sentenza n. 383 del 2005). 7.7.3. – L’impugnato comma 24, lettera d), dell’art. 27 in questione inserisce l’art. 4-quaterdecies nel decreto-legge n. 239 del 2003, articolo con il quale si prevede che le varianti di rilievo localizzativo interessanti il tracciato degli elettrodotti vengano approvate dal Ministero dello sviluppo economico di concerto con il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti e con il Ministero dell’ambiente e con il consenso del Presidente delle Regioni interessate. La compartecipazione della Regione non può ritenersi adeguatamente realizzata attraverso l’intervento del solo Presidente della Regione e, comunque, non spetta allo Stato l’identificazione dell’organo regionale cui affidare il potere decisionale. 7.7.4. – Il contestato comma 28 dell’art. 27 utilizza il meccanismo della delega legislativa per la disciplina della ricerca e coltivazione delle risorse geotermiche pur prevedendo l’intesa con la Conferenza Stato-Regioni in sede di adozione dei decreti legislativi delegati. Al riguardo sono richiamate le medesime argomentazioni addotte in relazione all’art. 25 (v. supra, par. 7.2.). 7.7.5. – La previsione, di cui al censurato comma 31 dell’art. 27, del modulo della conferenza di servizi per le autorizzazioni alla costruzione e all’esercizio di terminali di rigassificazione di gas naturale liquefatto mal si concilierebbe con il principio dell’intesa con la Regione interessata, giacché mentre nella conferenza la decisione viene adottata a maggioranza delle amministrazioni che vi partecipano, nell’intesa la partecipazione delle parti è necessariamente paritaria. Il successivo punto 2 dello stesso comma 31 risulterebbe, invece, «incomprensibile» allorché prevede che per il rilascio dell’autorizzazione ai fini della conformità urbanistica dell’opera è fatto obbligo di richiedere il parere motivato degli enti locali, dopo aver affermato, nel periodo che precede, che l’intesa con la Regione costituisce «variazione» degli strumenti urbanistici vigenti. Secondo la difesa regionale, la disposizione risulta contraddittoria e, quindi, inidonea a fornire all’amministrazione chiamata ad attuarla un razionale parametro di legalità, con conseguente violazione del richiamato art. 97 Cost., anche sotto il profilo del buon andamento della pubblica amministrazione. 7.7.6. – L’impugnato comma 34 dell’art. 27 dispone la sostituzione dei commi da 77 a 82 dell’art. 1 della legge 23 agosto 2004, n. 239 (Riordino del settore energetico, nonché delega al Governo per il riassetto delle disposizioni vigenti in materia di energia). La nuova disciplina del comma 78 risulterebbe illegittima giacché, quanto all’autorizzazione alla perforazione del pozzo esplorativo, alla costruzione degli impianti e delle opere necessarie, delle opere connesse e delle infrastrutture indispensabili all’attività di perforazione, prevede una conferenza di servizi nella quale il ruolo assegnato alla Regione è soltanto quello di parteciparvi, accanto agli enti locali. La mera partecipazione alla conferenza non pare alla difesa regionale soddisfare l’obbligo dell’intesa nella disciplina di atti che rientrano in materie di competenza concorrente. 7.8. – Con atto depositato il 9 novembre 2009 si è costituito nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato. 7.8.1. – In ordine alla questione di legittimità costituzionale avente per oggetto l’art. 3, comma 9, della legge n. 99 del 2009, il resistente espone gli stessi motivi di inammissibilità e di infondatezza già addotti nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato con il ricorso della Regione Toscana (v. supra, par. 1.3.1.). 7.8.2. – Relativamente alle censure mosse avverso le disposizioni dettate dalla legge n. 99 del 2009 in materia di energia, l’Avvocatura espone le principali ragioni sottese alla scelta del legislatore statale di reintrodurre l’energia nucleare tra le fonti di approvvigionamento dell’energia (v. supra, par. 1.3.2.). 7.8.3. – Quanto alla impugnazione delle disposizioni di cui all’art. 25, commi 1 e 2, lettere f) e g), della legge n. 99 del 2009, la difesa dello Stato sviluppa le medesime argomentazioni addotte nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato con il ricorso della Regione Toscana (v. supra, par. 1.3.3.). 7.8.4. – Per la difesa dello Stato, le questioni di costituzionalità relative all’art. 25, comma 2, lettere l) e q), sarebbero inammissibili in quanto «generiche e prive di concreto riferimento alle norme costituzionali violate». 7.8.5. – In ordine alla doglianza relativa all’art. 26, comma 1, il resistente prospetta i medesimi rilievi già formulati nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato con il ricorso della Regione Umbria (v. supra, par. 2.6.3.). 7.8.6. – Infine, sulla impugnazione delle suindicate previsioni contenute nell’art. 27, il resistente si riserva di ulteriormente argomentare in ordine alla loro inammissibilità e non fondatezza. 8. – Con ricorso notificato il 29 settembre 2009 e depositato il successivo 7 ottobre (iscritto al r.r. n. 77 del 2009), la Regione Calabria ha promosso, in riferimento agli artt. 3, 97, 117, commi terzo e quarto, 118 e 120 Cost., e al principio di leale collaborazione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, lettere g) e h), della legge n. 99 del 2009. 8.1. – L’art. 25, comma 2, lettera h), è dalla Regione Calabria impugnato nella parte in cui non prevede, nel procedimento unico ivi previsto, la necessità di una intesa «forte» con la Regione direttamente interessata, con conseguente violazione degli artt. 117, terzo comma, 118 e 120 Cost., del principio di leale collaborazione, nonché degli artt. 3 e 97 Cost., ed in particolare del generale canone di ragionevolezza delle leggi. L’impugnata disposizione – sostiene la difesa regionale – è destinata ad incidere su numerose materie in relazione alle quali la Regione ricorrente è titolare del potere di legislazione concorrente o residuale (governo del territorio; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; turismo): ne deriverebbe l’ineludibile necessità per lo Stato di raggiungere una intesa con la singola Regione direttamente interessata alla localizzazione dell’opera, nel corso del procedimento di rilascio dell’autorizzazione. A sostegno della doglianza, la ricorrente evoca l’art. 1 del decreto-legge n. 7 del 2002, «norma dalla quale, con tutta evidenza, è stata ripresa la disposizione impugnata»: in un settore energetico sicuramente meno rischioso per la salute dei cittadini e per l’ambiente, il predetto art. 1, comma 2, prevede che l’autorizzazione unica venga rilasciata a seguito di un procedimento unico, al quale partecipano le amministrazioni statali e locali interessate, e «d’intesa con la Regione interessata». Sulla predetta previsione – ricorda la ricorrente – è intervenuta questa Corte con la sentenza n. 6 del 2004, ove si rimarca che l’intesa quivi prevista «va considerata come un’intesa “forte”». Ancora, la difesa regionale richiama, a proposito del livello di coinvolgimento delle amministrazioni periferiche ritenuto indispensabile a livello comunitario, la Risoluzione adottata dal Comitato delle Regioni su «La sicurezza nucleare e la democrazia locale e regionale» (98/C 251/06). Detto Comitato ritiene essenziale che «la decisione relativa al sito degli impianti nucleari ed alla gestione dei rifiuti nucleari da parte dei responsabili dei depositi dovrebbe coinvolgere i cittadini del luogo e tutti gli altri interessati. Spetta all’ente locale o regionale decidere in ultima istanza se l’impianto debba o no essere accettato. Questa decisione deve basarsi sulla migliore informazione disponibile. Gli impianti di produzione di energia e di gestione dei rifiuti devono essere sottoposti a una valutazione d’impatto ambientale che, se correttamente utilizzata, offre la possibilità di informare il pubblico, far aumentare la partecipazione e considerare le alternative». 8.2. – Gli stessi parametri costituzionali sono stati evocati in relazione all’impugnazione dell’art. 25, comma 2, lettera g). Innanzitutto, per la Regione Calabria la disposizione de qua non si limiterebbe ad enunciare princìpi fondamentali diretti ad orientare il legislatore regionale nell’esercizio delle proprie attribuzioni, ma porrebbe norme di dettaglio rivolte a delineare la delega concessa al Governo ed intrinsecamente non suscettibili di essere sostituite dalle Regioni: «scelta peraltro non contemperata da una corretta applicazione dei principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza nella allocazione delle funzioni amministrative». Inoltre, nella parte in cui ritiene sufficiente (ai fini del rilascio dell’autorizzazione) l’intesa con la Conferenza unificata, anziché con le Regioni interessate, l’impugnata disposizione confliggerebbe con la necessaria previsione di idonee forme di intesa e collaborazione tra il livello statale ed i livelli regionali. Come statuito da questa Corte, l’accentramento delle funzioni amministrative, ove ritenuto legittimo, deve trovare un riequilibrio nel «necessario coinvolgimento delle Regioni di volta in volta interessate» (sentenza n. 6 del 2004). 8.3. – Con atto depositato il 9 novembre 2009 si è costituito nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato. 8.3.1. – In via preliminare, l’Avvocatura espone le principali ragioni sottese alla scelta del legislatore statale di reintrodurre l’energia nucleare tra le fonti di approvvigionamento dell’energia (v. supra, par. 1.3.2.). 8.3.2. – Quanto alla impugnazione delle disposizioni di cui all’art. 25, comma 2, lettere g) e h), della legge n. 99 del 2009, la difesa dello Stato sviluppa le medesime argomentazioni addotte nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato con il ricorso della Regione Toscana (v. supra, par. 1.3.3.). A ciò il resistente aggiunge che il menzionato parere del Comitato delle Regioni «non ha alcun valore cogente, né alcuna rilevanza costituzionale nell’ordinamento nazionale». 9. – Con ricorso notificato il 29 settembre 2009 e depositato il successivo 7 ottobre (iscritto al r.r. n. 82 del 2009), la Regione Marche ha promosso, in riferimento agli artt. 3, 117, commi terzo e sesto, 118 e 120, secondo comma, Cost., e al principio di leale collaborazione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 25, comma 2, lettere a), f), g), h), e 26, comma 1, della legge n. 99 del 2009. 9.1. – Quanto alle denunciate disposizioni di cui all’art. 25, la difesa regionale premette che si tratta di norme ascrivibili ad ambiti di competenza legislativa concorrente di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., quali la «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» ed il «governo del territorio». Tale incidenza è – secondo la ricorrente – ancor più evidente se si considera l’ulteriore estensione degli oggetti affidati al legislatore delegato, ad opera dell’ultimo periodo del comma 1, secondo il quale «con i medesimi decreti sono altresì stabiliti le procedure autorizzative e i requisiti soggettivi per lo svolgimento delle attività di costruzione, di esercizio e di disattivazione degli impianti di cui al primo periodo». Per la Regione Marche, la delega assume la finalità di riformare e non semplicemente di riordinare l’ordinamento esistente: ad essa, pertanto, non può che essere riconosciuta natura «innovativa». Invero, da un lato, vi è l’attribuzione esplicita al Governo del compito di procedere al «riassetto normativo», espressione pacificamente intesa, a tutti i livelli, come riferita ad interventi di «modifica sostanziale» delle discipline vigenti in un determinato settore; dall’altro lato, vi è l’indicazione, quali vincoli di contenuto imposti al legislatore delegato, di principi e criteri direttivi atti ad orientare una vera e propria opera di riforma delle normative esistenti e non una semplice loro ricognizione e semplificazione formale. 9.2. – A detta della ricorrente, l’art. 25, comma 2, lettera a), sarebbe incostituzionale per violazione degli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost., nonché del principio di leale collaborazione. Prevedendo l’attribuzione in capo ad organi dello Stato di una funzione amministrativa nella materia di potestà legislativa concorrente della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», e consistendo la suddetta funzione amministrativa nella dichiarazione dei siti quali «aree di interesse strategico nazionale, soggette a speciali forme di vigilanza e di protezione», nella materia concorrente del «governo del territorio», la denunciata disposizione avrebbe configurato una «chiamata in sussidiarietà» senza prevedere che la suddetta funzione amministrativa sia esercitata attraverso un meccanismo di codecisione paritaria, ossia mediante l’intesa forte, con le Regioni territorialmente interessate (sono richiamate, in particolare, le sentenze n. 383 del 2005 e n. 303 del 2003). A detta della ricorrente, l’impugnata disposizione sarebbe incostituzionale anche in relazione a quei siti che risultassero riconducibili ad altri ambiti oggettivi della delega legislativa in questione: in particolare, i «sistemi di stoccaggio del combustibile irraggiato e dei rifiuti radioattivi», nonché i «sistemi per il deposito definitivo dei materiali e rifiuti radioattivi» cui fa riferimento il comma 1 dell’art. 25. Invero – ammette la difesa regionale – in relazione a tali tipologie di siti, si potrebbe ritenere che l’ambito di potestà legislativa che fornisce il titolo di intervento al legislatore statale sia costituito dalla materia di legislazione esclusiva della «tutela dell’ambiente e dell’ecosistema». Sennonché – sostiene la ricorrente – anche in tali ipotesi, la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto necessaria la previsione di idonee forme di partecipazione al procedimento delle Regioni interessate (sentenza n. 62 del 2005). Anche per questa parte, dunque, la norma impugnata violerebbe le attribuzioni costituzionali che gli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost., riconoscono alle Regioni, nonché il principio di leale collaborazione, laddove non prevede che la funzione amministrativa allocata in capo ad organi dello Stato debba essere esercitata mediante adeguate forme di partecipazione al procedimento delle autonomie regionali. 9.3. – Nel ricorso si sostiene che l’art. 25, comma 2, lettera f), della legge in oggetto, vìola gli artt. 3, 117, terzo comma, 118 e 120, secondo comma, Cost., nonché il principio di leale collaborazione. La disposizione censurata sarebbe, cioè, incostituzionale nella parte in cui, trattandosi di «chiamata in sussidiarietà» di funzioni amministrative presso organi statali in materie di competenza legislativa concorrente, non contemplerebbe la necessaria intesa “forte” (sentenza n. 383 del 2005). Per la difesa regionale, la contestata disposizione violerebbe anche il disposto dell’art. 120, secondo comma, Cost., dal momento che contempla una ipotesi di potere sostitutivo straordinario del Governo del tutto al di fuori dei presupposti costituzionali ivi espressamente individuati, per i quali è sempre necessario il previo verificarsi di un inadempimento dell’ente sostituito rispetto ad una attività imposta ad esso come obbligatoria; e tale non può certo ritenersi, per definizione, l’intesa che una Regione sia chiamata a raggiungere per l’esercizio di una funzione amministrativa posta in capo ad organi dello Stato. Anche in forza di tale ultimo rilievo, sarebbe per la ricorrente manifesta l’irragionevolezza intrinseca della disposizione in questione, dal momento che il legislatore statale pretende di configurare la possibilità per il Governo di «sostituirsi» ad un atto di intesa con sé medesimo, atto che invece, per sua natura, non può che essere il frutto del libero incontro tra l’indirizzo politico statale e l’autonomia politica della Regione. 9.4. – Per la Regione Marche, l’art. 25, comma 2, lettera g), della legge indicata, nella parte in cui si limita ad imporre l’intesa con la Conferenza unificata e non, invece, l’intesa con ciascuna delle Regioni interessate, violerebbe gli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost., nonché il principio di leale collaborazione, «dal momento che è del tutto evidente che l’autorizzazione unica attiene alla costruzione e alla messa in esercizio di singoli impianti territorialmente localizzati, così da incidere non già sugli interessi pertinenti all’intero sistema degli enti territoriali, bensì su quelli specificamente tutelati da singole Regioni». Secondo quanto costantemente affermato dalla giurisprudenza costituzionale, è indispensabile la previsione dell’intesa con le Regioni direttamente interessate, in posizione di codecisione paritaria, non risultando sufficiente il coinvolgimento dell’organo espressivo della posizione dell’intero sistema delle autonomie territoriali (sono citate le sentenze n. 383 e n. 62 del 2005). 9.5. – Alla stregua di argomentazioni dall’analogo tenore, è censurato, in riferimento agli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost., nonché al principio di leale collaborazione, l’art. 25, comma 2, lettera h), nella parte in cui prevede, anziché l’intesa forte con ciascuna delle Regioni direttamente interessate, la semplice «partecipazione» della Regione al procedimento unico di rilascio dell’autorizzazione. Gli ambiti oggettivi di riferimento della disciplina in esame – sottolinea la difesa regionale – sono sempre le materie di potestà legislativa concorrente della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» e del «governo del territorio». Il riferimento ad una «mera partecipazione» non altrimenti qualificata delle amministrazioni interessate, tra le quali è senz’altro da ricomprendere anche la Regione, determinerebbe un evidente contrasto con i parametri costituzionali indicati, così come interpretati dalla giurisprudenza costituzionale sulla «chiamata in sussidiarietà» di funzioni amministrative presso organi statali in materie di competenza legislativa concorrente. 9.6. – La ricorrente si duole della illegittimità dell’art. 26, comma 1, per violazione dell’art. 117, terzo e sesto comma, ovvero, in via subordinata, degli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost., nonché del principio di leale collaborazione. Posto che la disposizione in oggetto appare riconducibile alla materia concorrente della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., si delineano – a detta della difesa regionale – due ipotesi alternative. Se si ritiene, come sembrerebbe più plausibile in forza del dato testuale, che la funzione affidata al CIPE abbia natura propriamente normativa, in forza del suo carattere di regolazione generale e astratta, ne discenderebbe la violazione della regola di riparto della potestà regolamentare di cui all’art. 117, sesto comma, Cost. Né – insiste la stessa difesa – in una simile ipotesi potrebbe essere legittimamente invocabile il titolo della «chiamata in sussidiarietà» della predetta potestà. Sin dalla sentenza n. 303 del 2003, questa Corte ha radicalmente escluso che in forza dell’art. 118 Cost. possano essere consentite deroghe al riparto costituzionale del potere regolamentare: «in un riparto così rigidamente strutturato, alla fonte secondaria statale è inibita in radice la possibilità di vincolare l’esercizio della potestà legislativa regionale o di incidere su disposizioni regionali preesistenti (sentenza n. 22 del 2003); e neppure i principi di sussidiarietà e adeguatezza possono conferire ai regolamenti statali una capacità che è estranea al loro valore, quella cioè di modificare gli ordinamenti regionali a livello primario». Se, dunque, alla legge statale è consentita l’organizzazione e la disciplina delle funzioni amministrative assunte in sussidiarietà, la legge stessa non può spogliarsi della funzione regolativa affidandola a fonti subordinate, neppure predeterminando i principi che orientino l’esercizio della potestà regolamentare, circoscrivendone la discrezionalità. Ove, al contrario, si dovesse escludere la natura normativa della funzione in questione, risulterebbe riproponibile il fenomeno della «chiamata in sussidiarietà», con la necessità, però, di prevedere un meccanismo di codecisione paritaria, nella forma dell’intesa forte con il sistema complessivo delle autonomie territoriali. Da questo punto di vista, risulterebbe del tutto inadeguata la previsione della norma censurata che contempla lo strumento del semplice parere della Conferenza, ulteriormente indebolito dalla esplicita previsione della possibilità di prescinderne decorso l’esiguo termine di sessanta giorni dalla richiesta, e non invece una intesa forte (è ancora una volta richiamata la sentenza n. 383 del 2005). 9.7. – Con atto depositato il 9 novembre 2009 si è costituito nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato. 9.7.1. – In via preliminare, l’Avvocatura espone le principali ragioni sottese alla scelta del legislatore statale di reintrodurre l’energia nucleare tra le fonti di approvvigionamento dell’energia (v. supra, par. 1.3.2.). 9.7.2. – Quanto alla impugnazione delle disposizioni di cui all’art. 25, comma 2, lettere a), f) g) e h), della legge n. 99 del 2009, la difesa dello Stato sviluppa le medesime argomentazioni addotte nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato con il ricorso della Regione Toscana (v. supra, par. 1.3.3.). 9.7.3. – In ordine alla doglianza relativa all’art. 26, comma 1, il resistente prospetta i medesimi rilievi già formulati nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato con il ricorso della Regione Umbria (v. supra, par. 2.6.3.). 10. – Con ricorso notificato il 29 settembre 2009 e depositato il successivo 7 ottobre (iscritto al r.r. n. 83 del 2009), la Regione Emilia-Romagna ha promosso, in riferimento agli artt. 117, commi secondo, terzo, quarto e sesto, 118 e 120, comma secondo, Cost. e al principio di leale collaborazione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 25, comma 2, lettere a), f), g), e h), e 26, comma 1, della legge n. 99 del 2009. 10.1. – In via preliminare, la difesa regionale riconduce la disciplina in contestazione agli ambiti materiali – entrambi di natura concorrente – della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» e del «governo del territorio», senza trascurare l’incidenza della stessa sul piano della «tutela della salute». Quanto al primo ambito materiale, la Regione Emilia-Romagna ha adottato la legge 23 dicembre 2004, n. 26 (Disciplina della programmazione energetica territoriale ed altre disposizioni in materia di energia), che inquadra gli interventi di competenza della Regione e degli enti locali all’interno di una programmazione energetica territoriale, articolata nei livelli regionale, provinciale, comunale. Il primo Piano Energetico Regionale (PER) è stato approvato dal Consiglio regionale in data 14 novembre 2007. Detto Piano traccia lo scenario evolutivo del sistema energetico regionale e definisce gli obiettivi di sviluppo sostenibile a partire dalle azioni che la Regione ha sviluppato negli ultimi anni, soprattutto sul fronte della riqualificazione del sistema elettrico. Per quanto riguarda la materia del «governo del territorio», la Regione Emilia-Romagna, con legge 24 marzo 2000, n. 20 (Disciplina generale sulla tutela e l’uso del territorio), ha perseguito il fine di realizzare un efficace ed efficiente sistema di programmazione e pianificazione territoriale che operi per il risparmio delle risorse territoriali, ambientali ed energetiche, per il benessere economico, sociale e civile della popolazione regionale, senza pregiudizio per la qualità della vita delle future generazioni. 10.2. – Il coinvolgimento della Conferenza unificata nella procedura di emanazione dei decreti legislativi, di cui all’art. 25, comma 1, in quanto limitato ad un parere, è dalla difesa regionale ritenuta una modalità che non rappresenta adeguatamente le istanze di partecipazione delle Regioni alle scelte generali. Nondimeno, la Regione Emilia-Romagna non intende censurare questa disposizione, atteso che «lo specifico ruolo regionale dovrà [...] necessariamente essere salvaguardato nella fase successiva della gestione attuativa ed esecutiva». Tale specifico ruolo dovrebbe essere salvaguardato con riferimento sia alle Regioni nel loro insieme, sia alle Regioni direttamente interessate dagli insediamenti delle centrali nucleari. Ed è nell’intento di salvaguardare tale ruolo che la Regione Emilia-Romagna impugna l’art. 25, comma 2, con riferimento alle previsioni di cui alle lettere a), f), g) e h). La possibilità, di cui all’art. 25, comma 2, lettera a), di dichiarare i siti aree di interesse strategico nazionale, soggette a speciali forme di vigilanza e di protezione, non è subordinata ad alcuna partecipazione della Regione interessata, né della Conferenza unificata. Altrettanto illegittima appare la previsione di cui alla successiva lettera f), in relazione alla disciplina del potere sostitutivo del Governo da esercitare in caso di mancato raggiungimento delle necessarie intese con i diversi enti locali coinvolti. Inoltre, né la lettera g) né la lettera h) prevedono che sulla autorizzazione unica, per i profili attinenti alla localizzazione e alle caratteristiche dell’impianto, sia richiesta l’intesa della Regione interessata, come sarebbe costituzionalmente necessario. Secondo la difesa regionale, il ruolo assegnato alle Regioni è insufficientemente tutelato sia per quanto riguarda il loro insieme, sia – ed ancor più – per quanto riguarda le Regioni direttamente interessate, il cui consenso non viene mai richiesto. Dal canto suo, la Conferenza unificata può esprimere solo pareri non vincolanti relativamente alle scelte strategiche e di alta amministrazione, mentre l’intesa è prevista solo in sede di procedimento di autorizzazione unica, quando ormai la localizzazione dell’impianto è già stata decisa. 10.2.1. – Nello specifico, la ricorrente censura il carattere ambiguo dell’impugnato art. 25, comma 2, lettera f), non essendo dato comprendere se nell’espressione «i diversi enti locali» il legislatore delegante intendesse includere anche le Regioni, o soltanto le Province ed i Comuni. Ove s’intendesse che le Regioni rientrino tra gli «enti locali» in relazione ai quali debbono essere previsti poteri sostitutivi per l’ipotesi della mancata intesa, la disposizione apparirebbe incostituzionale per violazione degli articoli 118 e 120 Cost., nonché del principio di leale collaborazione. Versandosi in una ipotesi di «chiamata in sussidiarietà», secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale, l’intesa dovrebbe essere “forte”. Prevedere l’intesa e, nel contempo, prevedere l’esercizio del potere sostitutivo statale per il caso di mancato raggiungimento dell’intesa equivarrebbe a «degradare» sin dall’inizio il carattere “forte” dell’intesa e ad attribuire una posizione di debolezza all’ente territoriale (sono citate le sentenze n. 383 del 2005 e n. 6 del 2004). Peraltro – prosegue la difesa regionale – l’impugnata disposizione non condiziona il potere sostitutivo ad una inerzia della Regione, bensì ad ogni caso di dissenso, anche pienamente motivato, con conseguente declassamento dei rapporti fra Regioni e Stato dal livello delle intese in senso forte a quello delle intese in senso debole. Ne deriverebbe anche un ridimensionamento della motivazione statale a ricercare effettivamente l’intesa. A sostegno di tale lettura, la ricorrente richiama l’art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3), secondo cui il potere sostitutivo è esercitabile se la Regione non adotta «provvedimenti dovuti o necessari». E questo non è certo il caso dell’intesa, che è per definizione un atto che può essere dato o meno, a seconda delle valutazioni discrezionali dell’ente coinvolto. Sempre nell’ipotesi che intenda riferirsi anche alle Regioni, la contestata disposizione risulterebbe illegittima anche per violazione dell’art. 120, secondo comma, Cost., in quanto parrebbe prevedere una ipotesi di potere sostitutivo statale al di fuori dei presupposti costituzionali. Infatti, il mancato raggiungimento dell’intesa nella materia oggetto dell’art. 25 non concreta alcuna delle situazioni indicate tassativamente dalla evocata previsione costituzionale: la mancata realizzazione di una centrale nucleare non implica una violazione di norme internazionali o comunitarie, né un pericolo grave per l’incolumità pubblica, né pregiudica l’unità giuridica o economica o i livelli essenziali delle prestazioni. Ad ogni modo, per la ricorrente parimente incostituzionale sarebbe la disposizione in oggetto anche nell’ipotesi in cui in essa non risultassero incluse le Regioni. In primo luogo, appare illegittimo, per violazione degli artt. 117 e 118 Cost., nonché del principio di leale collaborazione, che la norma impugnata contempli intese con gli enti locali che non coinvolgano anche le Regioni, vale a dire con gli enti titolari della competenza legislativa e del potere di allocare le funzioni amministrative nelle materie dell’energia e del governo del territorio. Inoltre, l’art. 25, comma 2, lettera f), non prevede un coinvolgimento della singola Regione interessata nella procedura sostitutiva dell’ente locale: coinvolgimento necessario in virtù delle competenze regionali appena indicate e del principio di leale collaborazione. Per entrambe le questioni, infatti, è impossibile immaginare nella materia delle centrali nucleari una «necessaria intesa» con un ente locale, il cui mancato raggiungimento richieda addirittura l’uso di un potere sostitutivo, nella quale non siano coinvolti gli interessi della comunità regionale, al di là di quelli meramente locali. 10.2.2. – Quanto alle censurate previsioni di cui alle lettere g) e h) dell’art. 25, comma 2, per la ricorrente la denunciata illegittimità discenderebbe dalla mancata previsione del principio e criterio direttivo secondo cui la localizzazione dell’impianto richiede, altresì, l’intesa della Regione nel cui ambito esso deve essere realizzato. Il coinvolgimento della Conferenza unificata non può essere ritenuto equivalente o sostitutivo di quello della Regione interessata, essendo diversi il tipo e l’ambito degli interessi che nelle due sedi sono esaminati. La necessità del consenso della Regione in relazione alla localizzazione di grandi opere, la cui realizzazione imprima al territorio una caratterizzazione tanto forte da incidere sulla sua complessiva destinazione e su tutti gli interessi che in esso insistono, sarebbe implicita nel sistema di applicazione del principio di sussidiarietà sin dalla sentenza n. 303 del 2003, nella quale espressamente si afferma che «per giudicare se una legge statale che occupi questo spazio sia invasiva delle attribuzioni regionali o non costituisca invece applicazione dei principi di sussidiarietà e adeguatezza diviene elemento valutativo essenziale la previsione di un’intesa fra lo Stato e le Regioni interessate, alla quale sia su bordinata l’operatività della disciplina». Principio, in seguito, ribadito proprio in relazione alla materia della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia elettrica» dalla già ricordata sentenza n. 6 del 2004. Ed in questa occasione la Corte ha sottolineato che si deve trattare di un’intesa “forte”, nel senso più volte chiarito (sono richiamate anche le sentenze n. 383 e n. 62 del 2005). Ad avviso della ricorrente, la denunciata illegittimità non viene meno per il fatto che la successiva lettera h) prevede che «l’autorizzazione unica sia rilasciata a seguito di un procedimento unico al quale partecipano le amministrazioni interessate». A parte la genericità dell’espressione «amministrazioni interessate», e pur dando per scontato che tra esse vadano incluse le Regioni, l’istituto dell’intesa implica uno specifico rapporto bilaterale tra lo Stato e la Regione interessata, costituito da una altrettanto specifica trattativa tra due parti, ed assistito da un dovere particolare di attenzione e di reciproca collaborazione. Tale rapporto speciale non può essere diluito e confuso in una generica partecipazione al procedimento quale «amministrazione interessata». La necessità del rapporto specifico di intesa, quanto alla localizzazione delle centrali, appare asseverata, all’interno della stessa legge qui scrutinata, dal nuovo testo dell’art. 1-sexies, comma 4-bis, del decreto-legge n. 239 del 2003, introdotto dall’art. 27, comma 24, lettera c), della stessa legge n. 99 del 2009 (al riguardo, sono formulati gli stessi rilievi di cui supra, par. 2.2.). 10.2.3. – Per quanto concerne la doglianza relativa all’art. 25, comma 2, lettera a), la ricorrente non contesta la necessità che i siti delle centrali nucleari siano soggetti a speciali forme di vigilanza e protezione. Essa ritiene di dovere essere coinvolta sia nella esatta individuazione dell’area da qualificare come «di interesse strategico nazionale», sia nella stessa individuazione delle forme di vigilanza e protezione. Ciò nella consapevolezza che non si tratti semplicemente di un problema di ordine pubblico, ma che la qualifica in questione conferisca ad aree non necessariamente coincidenti con quella della centrale nucleare strettamente intesa uno status territoriale speciale, comportante uno specifico regime dell’attività urbanistica ed edilizia, intrecciandosi così con la materia del governo del territorio e con tutti gli interessi inerenti a tale vastissima materia. Anche alla luce di quanto previsto dall’art. 2, comma 4, del decreto-legge n. 90 del 2008, sulla qualificazione di aree come di interesse strategico nazionale, la Regione Emilia-Romagna sostiene che debba essere stabilito come vincolo costituzionale nella stessa legge di delega che all’individuazione dell’area e delle relative misure di protezione debba procedersi d’intesa con la Regione o le Regioni direttamente interessate, per le medesime ragioni per le quali l’intesa risulta necessaria in relazione alla stessa localizzazione della centrale. 10.2.4. – Infine, quanto alla censurata disposizione di cui all’art. 26, comma 1, sarebbe evidente, ad avviso della ricorrente, la violazione dell’art. 117, sesto comma, Cost., sulla allocazione della potestà regolamentare, atteso che la materia incisa dalla impugnata previsione è quella, concorrente, della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» (anche in relazione a questo profilo è invocata, quale precedente, la sentenza n. 303 del 2003). Anche qualora, in subordine, si ritenesse che l’esercizio di tale competenza da parte del CIPE corrisponda alle esigenze del principio di sussidiarietà, l’art. 26, comma 1, rimarrebbe comunque illegittimo per violazione del principio di leale collaborazione e del dovere di prevedere forme di coordinamento tra Stato e Regioni. Dato l’intreccio tra esigenze unitarie ed interessi territoriali, appare ragionevole prevedere che lo Stato, d’intesa con la Conferenza unificata, individui le caratteristiche obbligatorie e i requisiti minimi che gli impianti nucleari e di stoccaggio e smaltimento debbano avere, ovunque essi siano localizzati nel territorio nazionale. Sennonché, una volta individuate tali caratteristiche, non può che spettare alle Regioni un ruolo determinante nell’esercizio della competenza amministrativa di scelta tra le varie tipologie di impianti a norma e rientranti nelle caratteristiche obbligatorie ammesse dallo Stato per tutto il territorio nazionale, che «il mercato» propone, di quelle che appaiano le più idonee e confacenti, in base ai requisiti specifici di conformazione, utilizzazione, ambientamento, vigilanza, professionalità richiesti per la gestione di costi sia di acquisto che di manutenzione, ai fini della specifica loc alizzazione regionale nella quale tali impianti debbono inserirsi. Al contrario – obietta la difesa regionale – l’impugnata disposizione ha demandato ogni competenza di scelta degli impianti ad un organo amministrativo dello Stato. Quando l’attività amministrativa «impatta nel cuore di materie di competenza concorrente che strettamente ed inscindibilmente si intrecciano, una concezione “dinamica” della sussidiarietà richiede un procedimento e strumenti idonei a garantire la leale collaborazione tra Stato e Regioni. E più i poteri sono intrecciati, più devono essere adottate procedure idonee a garantire la leale collaborazione». Ne conseguirebbe, dunque, l’illegittimità costituzionale dell’art. 26, comma 1, che richiede il solo «previo parere della Conferenza unificata», anziché l’intesa. Quando poi si tratti della determinazione della tipologia dello specifico impianto in uno specifico luogo, l’esigenza di leale collaborazione e dei relativi meccanismi istituzionali corrisponde al dovere di istituire un meccanismo di codecisione al quale partecipi la Regione direttamente, mediante lo strumento dell’intesa di tipo “forte”. 10.3. – Con atto depositato il 9 novembre 2009 si è costituito nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato. 10.3.1. – In via preliminare, l’Avvocatura espone le principali ragioni sottese alla scelta del legislatore statale di reintrodurre l’energia nucleare tra le fonti di approvvigionamento dell’energia (v. supra, par. 1.3.2.). 10.3.2. – Quanto alla impugnazione delle disposizioni di cui all’art. 25, comma 2, lettere a), f) g) e h), della legge n. 99 del 2009, la difesa dello Stato sviluppa le medesime argomentazioni addotte nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato con il ricorso della Regione Toscana (v. supra, par. 1.3.3.). A detta della parte resistente, parrebbe ulteriormente inammissibile la questione di legittimità costituzionale relativa alla lettera f), nella parte in cui mira a tutelare le attribuzioni degli enti locali, «il che non è consentito dalla previsione di cui all’art. 127 Cost.». 10.3.3. – In ordine alla doglianza relativa all’art. 26, comma 1, il resistente prospetta i medesimi rilievi già formulati nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato con il ricorso della Regione Umbria (v. supra, par. 2.6.3.). 11. – Con ricorso notificato il 12 ottobre 2009 e depositato il successivo giorno 16 dello stesso mese (iscritto al r.r. n. 91 del 2009), la Regione Molise ha promosso, in riferimento agli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost. e al principio di leale collaborazione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 25, comma 2, lettera g), e 26, comma 1, della legge n. 99 del 2009. 11.1. – Il denunciato art. 25, comma 2, lettera g), prevede la acquisizione del solo mero parere della Conferenza unificata, «ma non sono previsti accordi vincolanti tra Governo e territorio». Gli enti locali sono chiamati a pronunciarsi al termine di un procedimento al quale partecipano le amministrazioni interessate. Il Governo può, inoltre, sostituirsi a Regione ed enti locali in caso di loro disaccordo sulla localizzazione scelta per gli impianti. Similmente, il contestato art. 26, comma 1, prevede che la definizione della tipologia degli impianti per la produzione di energia elettrica nucleare abbia luogo previo mero parere della Conferenza unificata. Le due denunciate disposizioni violerebbero tanto l’art. 117, terzo comma, Cost., avendo le Regioni potestà legislativa concorrente in materia di «governo del territorio» e di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», quanto l’art. 118 Cost., in relazione al principio di leale collaborazione. Secondo la ricorrente, le Regioni vengono escluse dall’iter decisionale relativo alla localizzazione degli impianti, sia nell’elaborazione dei decreti attuativi della delega, sia nei procedimenti autorizzativi immediatamente efficaci, laddove, in ossequio alla costante giurisprudenza costituzionale, si rivelerebbe necessaria una intesa con le Regioni interessate (sono richiamate, al riguardo, le sentenze n. 383 e n. 62 del 2005). Peraltro, proprio in relazione alla legge della Regione Molise 27 maggio 2005, n. 22 (Disciplina regionale in materia di rifiuti radioattivi), pur ribadendo la competenza statale esclusiva sulla tutela dell’ambiente, questa Corte ha stabilito che, individuato il sito in cui collocare il deposito nazionale dei rifiuti radioattivi, al momento della sua «validazione», della localizzazione e realizzazione del deposito, si deve dare adeguata tutela costituzionale all’interesse territoriale della Regione nel cui territorio l’opera è destinata ad essere ubicata, il che rende insufficiente il mero parere della Conferenza unificata (sentenza n. 247 del 2006). 11.2. – Con atto depositato il 16 novembre 2009 si è costituito nel presente giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato. 11.2.1. – In via preliminare, l’Avvocatura eccepisce la tardività del ricorso, essendo stato consegnato all’ufficiale giudiziario per la notifica in una data – il 9 ottobre 2009 – ben distante dalla scadenza del prescritto termine di sessanta giorni alla pubblicazione della legge n. 99 del 2009. 11.2.2. – La difesa dello Stato espone, poi, le principali ragioni sottese alla scelta del legislatore statale di reintrodurre l’energia nucleare tra le fonti di approvvigionamento dell’energia (v. supra, par. 1.3.2.). 11.2.3. – Quanto alla impugnazione delle disposizioni di cui all’art. 25, comma 2, lettera g), della legge n. 99 del 2009, la difesa dello Stato sviluppa le medesime argomentazioni addotte nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato con il ricorso della Regione Toscana (v. supra, par. 1.3.3.). 11.2.3. – In ordine alla doglianza relativa all’art. 26, comma 1, il resistente prospetta i medesimi rilievi già formulati nell’atto di costituzione nel giudizio instaurato con il ricorso della Regione Umbria (v. supra, par. 2.6.3.). 12. – In tutti i giudizi ha spiegato intervento l’Enel s.p.a., con atti di identico contenuto, depositati il 24 novembre 2009. 12.1. – La difesa dell’Enel s.p.a. sostiene, innanzitutto, l’ammissibilità del proprio intervento, in quanto «soggetto portatore di interessi generali e di natura pubblicistica». A tal fine, la difesa della società interveniente allega non solo precedenti giurisprudenziali (sentenze n. 344 del 2005 e n. 353 del 2001), bensì anche elementi di sistema tratti dalla riforma costituzionale del titolo V, Parte seconda, della Costituzione. La valorizzazione dei princìpi di pluralismo, autonomia e sussidiarietà, avrebbe reso il giudizio di legittimità costituzionale in via principale «la sede privilegiata dell’incontro tra le istanze di soggetti che, a vario titolo, si fanno portatori di interessi pubblici». Nel presente giudizio è coinvolto un ambito materiale – quale quello della energia nucleare – «che pone questioni ben più articolate e complesse di quelle volte all’astratta soluzione delle incertezze definitorie in ordine ai confini tra competenze legislative regionali e statali». D’altro canto, l’esercizio della funzione legislativa in un senso difforme da quello delineato dalla legge n. 99 del 2009 «comprometterebbe, in via irreversibile e definitiva, la possibilità di Enel s.p.a. di svolgere regolarmente le funzioni ad essa assegnate dal quadro normativo nazionale e comunitario di riferimento». Secondo questa linea difensiva, l’Enel s.p.a. sarebbe portatrice di interessi che trascendono la sfera meramente privata per assurgere ad una «dimensione spiccatamente pubblicistica». Detta società, nonostante l’intervenuta privatizzazione, continua ad essere affidataria della cura di rilevanti interessi pubblici, senza trascurare quanto previsto dall’art. 13 del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79 (Attuazione della direttiva 96/92/CE recante norme comuni per il mercato interno dell’energia elettrica), a mente del quale Enel s.p.a. «assume le funzioni di indirizzo strategico e coordinamento dell’assetto industriale e delle attività esercitate dalle società da esse controllate». Quanto, infine, alla possibilità di esperire altre azioni di tutela, la difesa di Enel s.p.a. obietta che, «trattandosi di intervento ad opponendum», l’eventuale accoglimento delle questioni «sarebbe preclusivo di qualsiasi forma di tutela successiva, traducendosi in una grave lesione del diritto di difesa dell’interveniente (art. 24 Cost.), che non avrebbe più luoghi e spazi giudiziari in cui far valere le proprie ragioni». 12.2. – Nel merito, osserva la difesa della interveniente che, soprattutto alla luce della direttiva 25 giugno 2009, n. 2009/71/Euratom (Direttiva del Consiglio che istituisce un quadro comunitario per la sicurezza nucleare degli impianti nucleari), il diritto comunitario considera preminente il tema della sicurezza delle centrali nucleari, in relazione alle implicazioni associate alla sicurezza delle imprese e, ancor di più, al benessere delle comunità. Da ciò scaturiscono doveri inderogabili, posti a carico degli Stati membri, a cominciare dalla individuazione delle zone più idonee alla localizzazione degli impianti sino ad arrivare alla distribuzione dell’energia ed allo stoccaggio delle scorie radioattive: «si tratta, con tutta evidenza, di operazioni che devono essere coordinate, gestite e poste in essere alla luce di un programma unitario che solo lo Stato può e deve adottare». In questo quadro si colloca l’«opzione nucleare» nelle «equilibrate forme» di cui alla legge in oggetto. 12.3. – Passando in rassegna le singole censure, la interveniente ritiene non fondate le impugnazioni basate sulla asserita violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., giacché le denunciate previsioni appaiono, in prevalenza, espressione della potestà legislativa esclusiva dello Stato. In via preliminare, la difesa dell’Enel s.p.a. contesta l’inquadramento, accolto nei ricorsi, nella materia concorrente della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia». In più occasioni questa Corte ha fatto applicazione del criterio di prevalenza allorché sia riscontrabile un intreccio di molteplici ambiti oggettivi di intervento. Nel caso di specie, trattandosi della scelta di valorizzare l’opzione dell’approvvigionamento energetico attraverso il ricorso alla fonte nucleare, rilevano settori di competenza esclusiva dello Stato: la «tutela dell’ambiente» (v. sentenze n. 282 e n. 166 del 2009; n. 247 e n. 103 del 2006 e n. 62 del 2005); la «tutela della concorrenza» (v. sentenze n. 88 del 2009 e n. 1 del 2008); la «sicurezza e l’ordine pubblico» (v. sentenza n. 18 del 2009); i rapporti internazionali dello Stato. Stando così le cose, «sarà il legislatore delegato a graduare, nell’ambito della legislazione delegata, quanto spazio dare alla prevalenza o alla leale collaborazione», nel rispetto di quanto statuito da questa Corte. 12.4. – Quanto al contestato ricorso allo strumento della delega legislativa, ricorda innanzitutto la interveniente che, secondo questa Corte, nei giudizi in via principale le Regioni possono evocare parametri diversi da quelli relativi al riparto di attribuzioni solo allorché la denunciata violazione ridondi in una lesione delle stesse competenze regionali. Nel caso in esame, una eventuale lesione potrebbe discendere solo dall’adozione di decreti legislativi recanti norme di dettaglio in ambiti di competenza concorrente. In secondo luogo, questa Corte ha più volte affermato che il confine tra i princìpi e criteri direttivi (nel caso della delega legislativa) ed i princìpi fondamentali (nel caso della potestà legislativa concorrente) «non può essere stabilito una volta per tutte» (sentenza n. 50 del 2005; è citata anche la sentenza n. 359 del 1993). Pertanto, ben può il Parlamento ricorrere alla delega legislativa pur in ambiti di competenza concorrente. 12.5. – Per ciò che riguarda le altre doglianze, la difesa della società interveniente ripercorre le tappe giurisprudenziali che hanno condotto alla edificazione del modello della «chiamata in sussidiarietà» (v. sentenze n. 76 del 2009 e n. 303 del 2003). In questo quadro s’inserisce il potere statale di sostituzione, concepito allo scopo di scongiurare il sacrificio di interessi essenziali dell’ordinamento costituzionale, che, secondo questa Corte, «fa sistema con le norme costituzionali di allocazione delle competenze» (sentenza n. 236 del 2004; è citata altresì la sentenza n. 371 del 2008). 12.6. – Quand’anche questa Corte dovesse ascrivere la normativa in oggetto, anche solo in parte, alla materia concorrente della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», per la interveniente resterebbero, comunque, primariamente rilevanti esigenze di carattere unitario tali da giustificare l’allocazione delle funzioni amministrative presso le autorità statali. Dalla giurisprudenza costituzionale si evince che è allo Stato che «naturalmente non sfugge la valutazione complessiva del fabbisogno nazionale di energia» (sentenza n. 383 del 2005; vedi anche sentenza n. 6 del 2004). Questa Corte ha, peraltro, escluso la possibilità di autonome previsioni legislative regionali volte a definire criteri tecnici in materia energetica (sentenze n. 103 del 2006, n. 336 del 2005 e n. 7 del 2004). Similmente, in materia di emissioni elettromagnetiche, è stata riconosciuta la legittimità della fissazione, in ambito nazionale, di valori-soglia non derogabili dalle Regioni (sentenza n. 307 del 2003), così come si è precisato che i criteri localizzativi e gli standard urbanistici fissati a livello locale debbono rispettare «le esigenze della pianificazione nazionale degli impianti» (ancora sentenza n. 307 del 2003). La tendenza, frequente in sede locale, ad ostacolare interventi non graditi «non può tradursi in un impedimento insormontabile alla realizzazione degli impianti necessari per una corretta gestione del territorio e degli insediamenti al servizio di interessi di rilievo ultraregionale» (sentenza n. 62 del 2005). 12.7. – Infine, per la interveniente sarebbero inammissibili, per carenza di lesione attuale, oltre che non fondate, le censure relative al procedimento contemplato dalle impugnate disposizioni, sotto il profilo della lamentata inosservanza del principio di leale collaborazione, atteso che dalla delega «non si ricava ancora una scansione procedimentale definita, univoca e definitivamente scolpita». 13. – Nei giudizi promossi dalle Regioni Umbria, Liguria, Puglia, Basilicata e Piemonte (r.r. n. 70, n. 71, n. 72, n. 73 e n. 75 del 2009), ha depositato, in data 24 novembre 2009, atti di intervento, di identico contenuto, il Codacons – Coordinamento delle associazioni e dei comitati di tutela dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori. 13.1. – Sostiene l’interveniente che la propria legittimazione «ad intervenire nel presente giudizio di legittimità costituzionale è dovuta al suo costante impegno in materia di tutela dell’ambiente e della salute dei cittadini, come testimoniato dalle numerose iniziative promosse negli anni». Esso è legittimato ad agire in giudizio e ad intervenire in caso di pregiudizio di interessi collettivi. 13.2. – In merito alle specifiche impugnazioni, l’interveniente denuncia la violazione delle attribuzioni regionali in un ambito materiale, quale quello concorrente della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», in cui è precluso al legislatore statale emanare norme di dettaglio. Le scelte relative alla localizzazione degli impianti in oggetto investono una pluralità di interessi tale da esigere una attiva collaborazione tra Stato e Regioni. Al contrario, le contestate disposizioni non configurano adeguate forme di coinvolgimento delle istanze territoriali, contrariamente a quanto più volte richiesto da questa Corte (sentenze n. 62 del 2005; n. 6 del 2004; n. 303 del 2003). In particolare, l’intervento della Conferenza unificata non sarebbe sufficiente, posto che la realizzazione di una grande opera, quale è una centrale nucleare, incide fortemente sul territorio di una specifica Regione. Soltanto la previsione di una intesa in senso forte consentirebbe di sanare la ravvisata incostituzionalità. Il denunciato art. 27, comma 27, precluderebbe – a detta dell’interveniente – una normazione di dettaglio in ambito regionale e impedirebbe alla stessa Regione di far valere, a sostegno del proprio rifiuto di stipulare l’intesa ivi prevista, ragioni attinenti alla tutela del territorio e della salute dei cittadini. 14. – Nei giudizi instaurati con i ricorsi delle Regioni Toscana, Umbria, Basilicata, Calabria ed Emilia-Romagna, ha spiegato intervento l’Associazione italiana per il World Wide Fund for Nature Onlus Ong (di seguito: WWF Italia), con atti depositati il 24 novembre (r.r. n. 69, n. 70 e n. 73 del 2009), il 30 novembre (r.r. n. 77 del 2009), ed il 3 dicembre 2009 (r.r. n. 83 del 2009). 14.1. – Quanto alla propria legittimazione ad intervenire, la difesa di WWF Italia sostiene che l’interesse alla tutela dell’ambiente, ancorché formalmente estraneo rispetto ai giudizi, «inerisce immediatamente al rapporto sostanziale», in quanto la decisione di questa Corte «eserciterebbe un’influenza diretta con effetti rilevanti sulla posizione soggettiva dell’Associazione». 14.2. – In merito alla impugnazione dell’art. 3, comma 9, della legge n. 99 del 2009, la difesa della interveniente denuncia la violazione delle competenze regionali nella materia concorrente del «governo del territorio», trattandosi di normativa di dettaglio, e nella materia residuale del «turismo», soggetta alla esclusiva disciplina del legislatore regionale. 14.3. – Relativamente alle doglianze prospettate avverso le disposizioni in materia di energia nucleare, la interveniente WWF Italia concorda con le ricorrenti nel contestare la mancata previsione di adeguate forme di coinvolgimento delle istituzioni regionali, informate al principio di leale collaborazione. La dichiarazione dei siti quali aree di interesse strategico nazionale, anticipando l’individuazione dei contesti territoriali entro i quali procedere alla installazione delle centrali nucleari, non può prescindere da una intesa in senso forte con la singola Regione interessata. Il ruolo della Conferenza unificata, poi, non dovrebbe considerarsi equivalente o sostitutivo del raccordo con la Regione nel cui territorio si dovrà procedere alle installazioni in oggetto. Sarebbe, altresì, illegittima la previsione di un potere sostitutivo da attivare in caso di mancato raggiungimento dell’intesa, dovendo quest’ultima concretizzarsi in una codeterminazione paritaria tra soggetti dotati di attribuzioni costituzionalmente rilevanti. Così pure non sarebbe immune dai lamentati vizi d’illegittimità la previsione di cui all’art. 27, comma 27, che svuoterebbe di significato l’intesa prevista dall’art. 1, comma 2, del decreto-legge n. 7 del 2002. 15. – Con atto di intervento depositato il 1° dicembre 2009, è intervenuta, nel giudizio promosso dalla Regione Lazio (con ricorso iscritto al r.r. n. 76 del 2009), la Terna – Rete Elettrica Nazionale s.p.a. 15.1. – La difesa di Terna s.p.a. ritiene infondate tutte le questioni prospettate dalla ricorrente, alla luce della giurisprudenza costituzionale che, in questi ambiti materiali di intervento, riconosce la legittimità di allocazioni di funzioni amministrative allo Stato, anche in settori di competenza regionale, sia pure nel rispetto del canone generale della ragionevolezza e del principio di leale collaborazione. In particolare, in merito alla impugnazione dell’art. 27, comma 24, lettera c), della legge in parola, quanto al potere sostitutivo azionabile dallo Stato in caso di mancato raggiungimento delle previste intese, la interveniente considera, innanzitutto, congrua la previsione di membri regionali nel comitato interistituzionale. La stessa interveniente, poi, reputa adeguata la presenza del Presidente della Regione interessata in seno al Consiglio dei ministri chiamato a deliberare l’autorizzazione quivi contemplata in caso di «stallo». Altrettanto non fondata sarebbe, infine, la censura avente per oggetto l’art. 27, comma 24, lettera d), giacché la necessità del consenso manifestato dal Presidente della Regione interessata garantirebbe una adeguata partecipazione di tale ente al procedimento di approvazione della variante. 16. – La Regione Puglia, in prossimità dell’udienza, ha depositato una memoria nella quale, innanzitutto, dà atto di avere impugnato avanti alla Corte il decreto legislativo 15 febbraio 2010, n. 31 (Disciplina della localizzazione, della realizzazione e dell’esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare, di impianti di fabbricazione del combustibile nucleare, dei sistemi di stoccaggio del combustibile irraggiato e dei rifiuti radioattivi, nonché misure compensative e campagne informative al pubblico, a norma dell’articolo 25 della legge 23 luglio 2009, n. 99) e segnatamente l’art. 4, l’art. 5, commi 1 e 2, l’art. 8, l’art. 11, commi da 5 a 10 e l’art. 13, commi 10 e 11, per violazione degli artt. 76, 117, 118 e 120 Cost. e dei principi di leale collaborazione e di sussidiarietà. La ricorrente, quindi, contesta l’ammissibilità dell’intervento di Enel s.p.a. in quanto non sarebbe portatrice di interessi generali, né di interessi diffusi, bensì di un interesse di impresa che non potrebbe trovare spazio nel giudizio. In ordine alla contestazione, svolta dall’Avvocatura dello Stato, circa il difetto di interesse al ricorso per mancanza di immediata lesività dello stesso, la Regione Puglia replica sostenendo che la legge delega conterrebbe principi e criteri direttivi tali da permettere al legislatore delegato di violare i principi di sussidiarietà e leale collaborazione, come di fatto è avvenuto. Infatti, l’art. 11, comma 6, del d.lgs. n. 31 del 2010 escluderebbe dalle decisioni le Regioni in quanto, in caso di mancato accordo con la Regione interessata, la decisione sarebbe rimessa all’autorità statale. La ricorrente contesta, poi, la fondatezza dell’eccezione di inammissibilità del ricorso, prospettata per genericità del medesimo, dal momento che da questo emergerebbe chiaramente come i motivi di impugnazione siano stati individuati nella mancanza della previa intesa con la Regione interessata ai fini della localizzazione degli impianti nucleari. Riguardo alle censure relative all’art. 25, comma 2, lettera g), la Regione osserva come il rispetto delle competenze regionali avrebbe dovuto comportare la necessità dell’intesa “forte” con le Regioni interessate ai fini del rilascio dell’autorizzazione alla realizzazione degli impianti, come affermato anche di recente da questa Corte nella sentenza n. 121 del 2010. Al contrario, la disposizione censurata – ritenendo sufficiente la decisione presa dalla Conferenza unificata – consentirebbe il superamento delle scelte delle Regioni e degli enti locali, in contrasto con le esigenze di flessibilità ispirate al principio di sussidiarietà e imposte dalla varietà e complessità degli obiettivi di tutela. L’incostituzionalità di un’intesa generica con la Conferenza sarebbe dimostrata dal fatto che essa non consentirebbe di tener conto di situazioni particolari delle singole Regioni. Ed infatti, proprio la Regione Puglia contribuirebbe al fabbisogno energetico italiano producendo una quantità di energia superiore al proprio fabbisogno ed avendo investito nella produzione di energia da fonti rinnovabili. Peraltro, conclude la ricorrente, la attinenza della disciplina censurata alla materia della tutela dell’ambiente, non escluderebbe la competenza regionale alla cura di interessi funzionalmente collegati con quelli ambientali, come ribadito anche di recente da questa Corte (sentenza n. 248 del 2009). 17. – La Regione Molise, nella memoria depositata in prossimità dell’udienza, dopo aver eccepito l’inammissibilità dell’intervento in giudizio dell’Enel s.p.a., si sofferma sull’eccezione di tardività del proprio ricorso formulata dall’Avvocatura dello Stato. Pur consapevole del consolidato orientamento della giurisprudenza costituzionale circa la non applicabilità della sospensione feriale dei termini nel giudizio avanti alla Corte, la ricorrente ritiene tuttavia che tale istituto potrebbe trovare ingresso anche in tale giudizio. Ciò in quanto, stante il tenore letterale della legge 14 luglio 1965, n. 818 (Sospensione dei termini processuali nel periodo feriale), esso avrebbe portata generale, mentre tassative sarebbero le ipotesi di non applicabilità, stabilite dalla legge 7 ottobre 1969, n. 742 (Sospensione dei termini processuali nel periodo feriale). In tal senso sarebbe anche il diritto vivente, quale risultante dalle decisioni di questa Corte che hanno dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge da ultimo citata nella parte in cui non prevede l’applicazione dell’istituto ad una serie di fattispecie, nonché dalle decisioni della Corte di cassazione. Peraltro, mancando una disposizione che disciplini la sospensione feriale dei termini nei giudizi costituzionali, la Regione chiede alla Corte di sollevare avanti a sé questione di legittimità costituzionale della legge n. 742 del 1969, nella parte in cui non prevede l’applicazione dell’istituto anche in tali giudizi. La ricorrente, quindi, ribadisce le censure prospettate nel ricorso contestando il mancato coinvolgimento delle Regioni interessate nell’iter decisionale relativo alla localizzazione degli impianti. 18. – Anche la Regione Calabria ha depositato una memoria nella quale, oltre a eccepire l’inammissibilità dell’intervento del WWF Italia e dell’Enel s.p.a. secondo il costante orientamento della giurisprudenza costituzionale, afferma che – a differenza di quanto sostenuto dall’Avvocatura dello Stato – la ricorrente non ha invocato quale parametro interposto il parere del Comitato delle Regioni, avendone solo richiamato il contenuto per dimostrare come anche a livello comunitario sia auspicato il coinvolgimento delle Regioni. Con riguardo all’eccepita carenza di interesse al ricorso, la Regione richiama la recente sentenza n. 156 del 2010, nella quale la Corte ha ritenuto che la doglianza circa la lesione della sfera di competenza della ricorrente presuppone la sola esistenza della legge oggetto di censura a prescindere dal fatto che essa abbia avuto concreta attuazione. Inoltre, i criteri contenuti nella legge delega sarebbero immediatamente lesivi delle prerogative regionali, atteso il loro carattere estremamente dettagliato. Ciò sarebbe chiaramente dimostrato dal fatto che il d.lgs. n. 31 del 2010 contiene la mera riproduzione dei principi impugnati. Quanto all’accentramento in capo allo Stato della competenza a rilasciare l’autorizzazione unica, la ricorrente, pur non contestando la spettanza al Governo della scelta di riavviare la produzione di energia nucleare, contesta il mancato adeguato coinvolgimento delle Regioni nel procedimento. Tale coinvolgimento, infatti, dovrebbe avvenire attraverso la previsione dell’intesa con la Regione interessata, la sola – anche alla luce della giurisprudenza costituzionale – idonea a costituire un adeguato contrappeso alla penetrante invasione delle competenze regionali che il procedimento per il rilascio dell’autorizzazione unica determina. 19. – A sua volta la Regione Marche ha depositato memoria, insistendo sulle conclusioni già formulate, e domandando altresì che siano dichiarati inammissibili gli interventi spiegati nel giudizio costituzionale. La ricorrente ribatte, in particolare, alle argomentazioni difensive svolte dall’Avvocatura dello Stato, osservando anzitutto che tutte le disposizioni censurate determinano una lesione attuale e concreta delle competenze regionali, poiché non lasciano al legislatore delegato alcuno spazio per attuare la delega in senso conforme a Costituzione. A riprova di ciò, secondo la Regione, si porrebbero le stesse disposizioni adottate con il d.lgs. n. 31 del 2010, con le quali si è «puntualmente occorso nelle violazioni di norme costituzionali denunciate» in sede di ricorso. Quanto alla procedura di localizzazione degli impianti, infatti, e all’esercizio del potere sostitutivo, gli artt. 11 e 13 del d.lgs. n. 31 del 2010, consentendo di superare il mancato raggiungimento dell’intesa, disegnano «una procedura che non pone sullo stesso piano lo Stato e la Regione, ma che, viceversa, consegna al primo una posizione preminente e tale, in definitiva, da poter imporre il proprio indirizzo politico alla seconda». Più radicalmente, non è neppure configurabile, a parere della ricorrente, la sostituzione della Regione, con riguardo ad attività che non siano vincolate nell’an. Parimenti da rigettare, secondo la Regione, è l’eccezione di inammissibilità delle censure basate su interpretazioni alternative delle disposizioni censurate, sia perché le doglianze sono poste tra loro «in rapporto di subordinazione», sia poiché nel giudizio principale è ammessa la proposizione di questioni basate su interpretazioni meramente possibili. Quanto all’individuazione delle materie cui ricondurre le norme impugnate, la ricorrente ribadisce il carattere prevalente della materia «produzione, trasporto e distribuzionale nazionale dell’energia», in ragione sia dei precedenti di questa Corte, sia della autoqualificazione dell’intervento normativo contestato, sia dell’oggetto su cui incide la delega, che concerne la procedura per realizzare impianti nucleari. La Regione Marche non nega che vengano coinvolti altresì profili connessi alla tutela dell’ambiente, ma esclude che essi possano mutare la qualificazione della materia, cui conducono gli elementi appena ricordati. Infine, con riguardo alla possibilità di dichiarare i siti aree di interesse strategico nazionale, il difetto di un adeguato coinvolgimento regionale nella relativa procedura tradirebbe una volontà legislativa tesa ad affermare una “minorità” dell’indirizzo politico regionale, rispetto a quello statale, che non è più consentita, dopo la riforma del Titolo V della Parte II della Costituzione. 20. – Con memoria depositata il 1° giugno 2010, la Regione Liguria ha formulato ulteriori rilievi in ordine alla asserita incostituzionalità delle impugnate disposizioni. Per quanto attiene alle eccezioni di inammissibilità promosse dall’Avvocatura dello Stato, per difetto di interesse della ricorrente, la difesa regionale replica osservando che le denunciate previsioni dell’art. 25, comma 2, lettere g) e h), della legge delega non sono affatto generiche, atteso che risultano volte a disciplinare la partecipazione regionale al procedimento di autorizzazione unica. Inoltre, il contestato art. 25, comma 2, lettera a), si appalesa già lesivo dal momento che non pone alcun vincolo al Governo quanto al tipo ed all’intensità del coinvolgimento regionale nella individuazione dell’area di interesse strategico nazionale e delle relative misure di protezione. Nel merito, la difesa regionale contesta l’inquadramento materiale ipotizzato dalla parte resistente, sostenendo che, in realtà, le impugnate disposizioni afferirebbero ad ambiti di competenza concorrente, a cominciare dall’energia. La rilevanza nazionale degli interessi in gioco è sì ragione che giustifica la chiamata in sussidiarietà, ma non può essere evocata «per disconoscere del tutto il riparto costituzionale delle competenze». Inoltre – prosegue la ricorrente – l’invocazione dell’urgenza ad intervenire non è tale da impedire l’attivazione delle procedure collaborative, come dimostrato innanzitutto dallo stesso ricorso allo strumento della delega legislativa. Semmai, sono proprio le peculiarità caratteristiche della fonte energetica in oggetto a sollecitare la necessaria previsione di un’intesa forte con la Regione interessata. L’eccezione di inammissibilità della questione relativa all’art. 27, comma 27, prospettata dal resistente, per il carattere ipotetico della relativa doglianza, sarebbe destituita di fondamento, avendo la difesa regionale «avanzato una prima censura “certa” e nient’affatto ipotetica», per poi ipotizzare «un significato ancora più lesivo delle competenze regionali». La confutazione, nel merito, della promossa questione in oggetto sarebbe, a detta della Regione ricorrente, basata su di un argomento apodittico. Seguono, infine, rilievi relativi all’intervento in giudizio dell’Enel s.p.a. 21. – Con memoria depositata il 1° giugno 2010, la Regione Umbria ha ulteriormente argomentato in merito alle prospettate doglianze. A tal fine, la difesa regionale ha addotto le medesime argomentazioni sviluppate nella memoria della Regione Liguria (v. supra, par. 20). Quanto, in particolare, alla questione di costituzionalità avente per oggetto l’art. 26, comma 1, l’eccezione di inammissibilità si baserebbe – a detta della difesa regionale – su di un erroneo presupposto quanto all’asserito carattere ipotetico del motivo di ricorso. La Regione ha proposto una censura principale ed una subordinata, in armonia con la giurisprudenza costituzionale che ammette una simile impostazione. Nel merito, la difesa regionale ribadisce la necessità di un adeguato coinvolgimento delle istituzioni regionali. 22. – Con memoria depositata il 1° giugno 2010, la Regione Emilia-Romagna insiste nell’invocare una declaratoria d’incostituzionalità delle impugnate disposizioni. Quanto alla censura dell’art. 25, comma 2, lettere a), g) e h), e dell’art. 26, comma 1, la difesa regionale espone le medesime argomentazioni svolte nelle memorie, rispettivamente, della Regione Liguria e della Regione Umbria (v. supra, parr. 20 e 21). In ordine alla impugnazione dell’art. 25, comma 2, lettera f), la ricorrente ribadisce di aver lamentato, innanzitutto, quanto alla previsione del potere di sostituzione, l’inclusione tra gli «enti locali» della Regione. Ove intesa diversamente, la denunciata disposizione sarebbe comunque incostituzionale per la mancata previsione di adeguate forme di coinvolgimento e di partecipazione delle autorità regionali. Inoltre, con altra memoria depositata il 1° giugno 2010, la Regione Emilia-Romagna lamenta l’illegittimità dell’intervento in giudizio dell’Enel s.p.a., provvedendo altresì a confutare, nel merito, le tesi da quest’ultima propugnate. 23. – Con memoria depositata il 1° giugno 2010, la Regione Lazio riafferma la fondatezza di tutte le questioni prospettate nel ricorso. In via preliminare, la difesa regionale sostiene la inammissibilità degli interventi di Terna s.p.a. e di Enel s.p.a. Quanto alla impugnazione dell’art. 3, comma 9, la ricorrente replica all’inquadramento materiale ipotizzato dall’Avvocatura dello Stato osservando che la contestata disposizione ricadrebbe nella materia residuale del turismo. Lo stesso art. 3, comma 9, peraltro, sarebbe comunque illegittimo a cagione della mancata previsione di una qualsiasi forma di coinvolgimento delle Regioni. In ordine alle questioni di costituzionalità aventi per oggetto gli artt. 25 e 26, la difesa regionale è ferma nel ricondurre il contestato intervento normativo alla materia concorrente della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale di energia», risultando destituiti di fondamento i tentativi di diversa collocazione operati dalla controparte. Ove si ammetta una chiamata in sussidiarietà anche in questo ambito, sarebbe comunque necessaria la previsione di una intesa forte con le Regioni interessate. È ribadita, poi, l’illegittimità del ricorso alla delega legislativa, atteso che il conseguente decreto legislativo «per sua natura» è legittimato a porre norme di dettaglio spettanti, al contrario, al legislatore regionale. Infine, la ricorrente ribadisce quanto già sostenuto in merito alle questioni relative alle impugnate disposizioni di cui all’art. 27. 24. – L’Avvocatura generale dello Stato ha depositato un’unica memoria in tutti i ricorsi in oggetto, insistendo sulle conclusioni già rassegnate. L’Avvocatura, dopo aver ribadito quanto osservato nel proprio atto di costituzione, aggiunge che «la chiave di lettura del riparto di competenze di cui al Titolo V non può prescindere dalla essenziale considerazione […] della unità ed indivisibilità della Repubblica». In questa prospettiva, «la considerazione degli interessi coinvolti nella scelta nucleare porta con ogni ragionevole certezza ad affermare l’assoluta prevalenza della dimensione generale ed unitaria e della necessità conseguente di una disciplina comune e uniforme». Per tale ragione, prosegue l’Avvocatura, va affermata l’inerenza delle norme impugnate a titoli di competenza esclusiva statale. Quand’anche si vertesse in materia oggetto di potestà concorrente, «nella Costituzione non è accordato certamente alle Regioni un diritto di veto in ordine alle scelte statali». Non sarebbe, quindi, possibile ricorrere all’intesa forte con ciascuna Regione interessata nel campo dell’energia nucleare, poiché «non si ha a che fare con gli interessi di una sola Regione», e si è dovuto, per tale motivo, anche introdurre «un sistema di superamento del mancato raggiungimento delle necessarie intese». Con riguardo alle censure relative all’art. 27, comma 27, della legge impugnata, la resistente esclude che, in via interpretativa, tale disposizione possa vanificare le forme di partecipazione della Regione alle intese previste dalla vigente legislazione, in tema di insediamento di impianti energetici. Altresì infondate sarebbero le doglianze mosse dalla sola Regione Lazio, avverso gli impugnati commi del medesimo art. 27. Infine, l’art. 3, comma 9, della legge impugnata costituisce, secondo l’Avvocatura, una norma di principio, rispettosa delle competenze regionali. 25. – Con quattro memorie, tutte depositate il 31 maggio 2010, il Codacons, Coordinamento delle associazioni e dei comitati di tutela dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori, ha reiterato la propria istanza a vedersi riconoscere la legittimazione ad intervenire nei presenti giudizi. A tal fine, è invocato l’art. 4 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, là dove si fa riferimento alla possibilità di intervento di «altri soggetti». Se è pur vero che secondo la giurisprudenza di questa Corte sono legittimati a costituirsi solo i soggetti titolari della potestà legislativa, sarebbe altrettanto vero che al Codacons «non si può non riconoscere […] un ruolo importante nell’iter legislativo in tema di tutela dell’ambiente, in quanto associazione che rappresentando l’interesse dei cittadini a tale bene-vita deve quanto meno esser informata e sent ita nelle scelte legislative». Nel merito, sono riproposte argomentazioni non dissimili da quelle già sviluppate negli atti di intervento. 26. – Con undici memorie depositate il 1° giugno 2010, la interveniente Enel s.p.a. ha ulteriormente argomentato in ordine alle questioni promosse da tutte le ricorrenti. In via preliminare, la difesa di Enel s.p.a. ribadisce: l’ammissibilità del proprio intervento; la prevalente competenza esclusiva del legislatore statale nelle materie oggetto delle impugnate disposizioni; il legittimo ricorso alla delega legislativa; la piena legittimità delle previsioni concernenti il potere sostitutivo. La interveniente conferma la propria posizione in ordine alla denunciata inammissibilità delle doglianze relative al procedimento, per totale carenza di lesione attuale. E ciò alla luce del sopravvenuto decreto legislativo n. 31 del 2010: in considerazione delle modalità con le quali tale atto normativo è stato adottato, si avrebbe conferma del fatto che la «ipotetica temuta modalità di attuazione» della delega «non si è rivelata reale». In relazione, poi, alle specifiche censure prospettate, talvolta in modo diversificato, dalle ricorrenti, la difesa della interveniente ripropone le argomentazioni sviluppate negli atti di costituzione. 27. – Con atto depositato il 1° giugno 2010, l’Associazione Italiana per il World Wide Fund for Nature Onlus Ong (WWF), ha presentato istanza di rinvio della trattazione del ricorso iscritto al r.r. n. 83 del 2009, al fine di riunirlo a quelli, non fissati, promossi avverso il d.lgs. n. 31 del 2010 dalle Regioni Toscana, Emilia-Romagna e Puglia, con i ricorsi iscritti, rispettivamente, ai nn. 75, 76 e 78 del 2010. 28. – La Regione Piemonte, con atto depositato il 15 giugno 2010, ha dichiarato di rinunciare alle questioni di legittimità costituzionale aventi per oggetto l’art. 25, comma 2, e 26, comma 1, della legge n. 99 del 2009, avendo il d.lgs. n. 31 del 2010 «introdotto disposizioni ritenute di effettiva apertura sul fronte del coinvolgimento degli enti territoriali interessati». 29. – Con atto depositato il 17 giugno 2010, l’Avvocatura generale dello Stato ha presentato istanza di rinvio della trattazione, fissata per l’udienza pubblica del 22 giugno 2010, al fine di riunire i ricorsi presentati avverso la legge n. 99 del 2009, ai ricorsi presentati dalle Regioni Toscana, Emilia-Romagna e Puglia avverso il d.lgs. n. 31 del 2010. Considerato in diritto 1. – Le Regioni Toscana, Umbria, Liguria, Puglia, Basilicata, Piemonte, Lazio, Calabria, Marche, Emilia-Romagna e Molise, con distinti ricorsi, hanno promosso questioni di legittimità costituzionale avverso numerose disposizioni della legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia). In particolare, le Regioni Lazio e Toscana hanno censurato l’art. 3, comma 9, per violazione dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, e la sola Regione Lazio anche dell’art. 117, quarto comma, Cost. Tutte le ricorrenti hanno impugnato disposizioni dell’art. 25, recante «Delega al Governo in materia nucleare», ed in particolare: - l’art. 25, comma 1, per violazione degli artt. 76 e 117, terzo comma, Cost. (Regione Lazio), nonché degli artt. 117 e 118 Cost. (Regioni Lazio e Basilicata), e del principio di leale collaborazione (Regione Basilicata); - l’art. 25, comma 2, lettera a), per violazione dell’art. 117, terzo comma, e dell’art. 118 Cost., anche in relazione al principio della leale collaborazione (Regioni Marche, Toscana, Emilia-Romagna, Umbria e Liguria), e dell’art. 117, quarto comma, Cost. (Regioni Toscana, Emilia-Romagna, Umbria e Liguria); - l’art. 25, comma 2, lettera f), per contrasto con gli artt. 117, commi terzo (Regioni Toscana, Lazio, Emilia-Romagna, Umbria e Marche) e quarto (Regioni Toscana, Emilia-Romagna e Umbria), 118 e 120 Cost. (Regioni Toscana, Lazio, Emilia-Romagna, Umbria e Marche), con il principio di leale collaborazione (tutte le ricorrenti, salvo la Regione Lazio), nonché con l’art. 3 Cost. (Regione Marche); - l’art. 25, comma 2, lettera g), (disposizione impugnata da tutte le ricorrenti) e lettera h), (disposizione impugnata dalle Regioni Emilia-Romagna, Marche, Toscana e Calabria), per violazione dell’art. 117, commi secondo (parametro evocato dalle Regioni Puglia, Umbria, Emilia-Romagna e Liguria), terzo e quarto (Regioni Toscana, Emilia-Romagna, Umbria e Liguria), dell’art. 118 Cost., anche in relazione al principio di leale collaborazione (tutte le ricorrenti), dell’art. 3 Cost. (Regioni Piemonte e Calabria), dell’art. 97 Cost. (Regione Calabria) e dell’art. 120 Cost. (Regioni Puglia, Piemonte, Calabria); - l’art. 25, comma 2, lettere l) e q), per contrasto con gli artt. 117 e 118 Cost. (Regione Lazio). È impugnato, altresì, l’art. 26, comma 1, della legge n. 99 del 2009 per violazione dell’art. 117, sesto comma, Cost. (Regioni Emilia-Romagna, Umbria e Marche), degli artt. 117, terzo comma, 118 Cost. e del principio di leale collaborazione (Regioni Lazio, Basilicata, Umbria, Emilia-Romagna, Piemonte, Marche e Molise), nonché degli artt. 3 e 120 Cost. (Regione Piemonte). La Regione Lazio ha impugnato, inoltre, taluni commi dell’art. 27, ed in particolare: - il comma 14 e il comma 24, lettere c) e d), per contrasto con gli artt. 117 e 118 Cost.; - il comma 28 per violazione degli artt. 76 e 117, terzo comma, Cost.; - il comma 31 per lesione degli artt. 117 e 118 Cost.; - il comma 31, punto 2, in quanto violerebbe l’art. 97 Cost. e il principio del buon andamento della pubblica amministrazione; - il comma 34, per contrasto con gli artt. 117 e 118 Cost. Infine, è impugnato l’art. 27, comma 27, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. (Regioni Umbria, Liguria e Piemonte), e degli artt. 118 e 120 Cost. (Regione Piemonte). 1.2. – Considerato che i ricorsi sono diretti in larga parte contro le medesime norme e pongono questioni analoghe, i giudizi possono essere riuniti per essere decisi con unica sentenza. 2. – Nei presenti giudizi, sopra specificati, sono intervenuti l’Associazione italiana per il World Wide Fund for Nature Onlus Ong (WWF), (r.r. n. 69, 70, 73, 77 e 83 del 2009), il Codacons Coordinamento delle associazioni e dei comitati di tutela dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori (r.r. n. 70, 71, 72, 73 e 75 del 2009), l’ Enel s.p.a. (r.r. n. 69, 70, 71, 72, 73, 75, 76, 77, 82, 83 e 91), Terna – Rete Elettrica Nazionale s.p.a. (r.r. n. 76 del 2009). Per costante giurisprudenza di questa Corte, il giudizio di costituzionalità delle leggi in via d’azione si svolge esclusivamente tra soggetti titolari di potestà legislativa, fermi restando, per i soggetti privi di tale potestà, i mezzi di tutela delle rispettive posizioni soggettive, anche costituzionali, di fronte ad altre istanze giurisdizionali ed eventualmente anche di fronte a questa Corte in via incidentale (ex plurimis, sentenze n. 250 e n. 225 del 2009). Dal canto suo, l’art. 4, comma 3, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, evocato dal Codacons e dall’Enel s.p.a., non autorizza a trarre diverse conclusioni, poiché tiene ferma la competenza di questa Corte a decidere sulla ammissibilità di «eventuali interventi di altri soggetti». Ad ogni modo, pur a prescindere da tale preliminare ed assorbente profilo, le norme impugnate, di carattere generale ed astratto, non hanno per oggetto, in modo immediato e diretto, una posizione giuridica differenziata delle parti intervenienti, che possa venire irrimediabilmente pregiudicata dall’esito dei presenti giudizi. Per questi motivi, tutti gli interventi sono inammissibili. 3. – Il ricorso della Regione Molise (iscritto al r.r. n. 91 del 2009) è inammissibile in quanto notificato oltre il termine previsto dall’art. 32, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), termine stabilito a pena di decadenza, senza che operi l'istituto della sospensione feriale (ex plurimis: sentenza n. 318 del 2009 e ordinanza n. 42 del 2004). La denunciata legge, infatti, è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale del 31 luglio 2009, mentre il ricorso risulta consegnato all’ufficiale giudiziario per la notifica solo il 9 ottobre 2009. La Regione Molise, nella memoria depositata in prossimità dell’udienza, ha peraltro chiesto a questa Corte di sollevare, d’ufficio, avanti a sé questione di legittimità costituzionale della legge 7 ottobre 1969, n. 742 (Sospensione dei termini processuali nel periodo feriale), nella parte in cui non prevede l’applicazione dell’istituto della sospensione feriale dei termini anche al processo costituzionale. Al riguardo questa Corte, fin dalla sentenza n. 15 del 1967, ha escluso l’applicabilità dell’istituto in parola ai giudizi di costituzionalità. Questo orientamento è stato ribadito anche successivamente all’emanazione della legge n. 742 del 1969 «poiché la formulazione letterale dell’art. 1 – molto più precisa di quella adottata nel corrispondente articolo della legge n. 818 del 1965 – non lascia ombra di dubbio che il legislatore abbia inteso escludere i giudizi di costituzionalità dall’ambito di applicazione della normativa sulla sospensione dei termini. Si specifica invero nel citato articolo che la sospensione si riferisce al “decorso dei termini processuali relativi alle giurisdizioni ordinarie ed a quelle amministrative”» (sentenza n. 30 del 1973). La giurisprudenza costituzionale successiva ha costantemente confermato tale interpretazione (sentenze n. 233 del 1993 e n. 215 del 1986, ordinanza n. 126 del 1997), motivandola con specifico riguardo alle peculiari esigenze di rapidità e certezza cui il processo costituzionale deve rispondere, alla luce delle quali va superato il dubbio di costituzionalità avanzato dalla ricorrente (sentenza n. 30 del 1973). 4. – Deve darsi atto che la Regione Piemonte, con atto notificato a tutte le parti il 14 giugno 2010, ha rinunciato al ricorso limitatamente all’impugnazione concernente l’art. 25, comma 2, lettera g), e l’art. 26 comma 1, della legge n. 99 del 2009. La rinuncia è stata accettata dal Presidente del Consiglio dei ministri, di tal che il relativo processo, per tali parti, va dichiarato estinto. 5. – Preliminarmente, devono essere dichiarate inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, lettere g) e h), promosse in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. dalla Regione Calabria, nonché la questione di costituzionalità dell’art. 25, comma 2, lettera f), promossa dalla Regione Marche in riferimento all’art. 3 Cost. Trattasi, invero, di doglianze basate su parametri estranei al riparto delle competenze, rispetto alle quali le ricorrenti non hanno dimostrato la incidenza sulle attribuzioni regionali (tra le più recenti, sentenze n. 52 del 2010 e n. 233 del 2009). 6. – Ugualmente inammissibili sono le questioni di costituzionalità dell’art. 25, comma 2, lettera g), promosse dalle Regioni Umbria, Liguria, Puglia ed Emilia-Romagna, e dell’art. 25, comma 2, lettera h), promossa dalla sola Emilia-Romagna, poiché le ricorrenti, indicando – quale parametro asseritamente violato – l’art. 117, secondo comma, Cost., hanno evocato una disposizione attributiva di una competenza esclusiva statale (sentenza n. 116 del 2006). 7. – Inammissibili sono, inoltre, le questioni di legittimità costituzionale, promosse dalla Regione Calabria, aventi ad oggetto l’art. 25, comma 2, lettere g) e h), e dalla Regione Puglia, aventi ad oggetto l’art. 25, comma 2, lettera g), nonché la questione promossa dalla Regione Piemonte, in riferimento all’art. 27, comma 27, in quanto basate su parametri – l’art. 120 Cost. e, quanto al solo Piemonte, anche l’art. 118 Cost. – senza alcuna motivazione che ne chiarisca la pertinenza. 8. – Inammissibili devono essere, altresì, dichiarate le questioni di legittimità costituzionale promosse dalla Regione Lazio, aventi per oggetto l’art. 27, commi 14, 24, lettere c) e d), 28, 31 e 34 della legge n. 99 del 2009, in riferimento agli artt. 76, 97, 117 e 118 Cost. Questa Corte ha più volte statuito che, a pena d’inammissibilità, deve sussistere una piena corrispondenza tra le disposizioni impugnate dal ricorso e le disposizioni individuate dalla delibera con cui la Giunta (nell’ipotesi di iniziativa regionale) ne ha autorizzato la proposizione (sentenza n. 533 del 2002). Inoltre, si è precisato che anche nelle delibere dell’organo politico che, pur non censurando un’intera legge, ne selezionano una parte cospicua, l’indicazione delle disposizioni oggetto di censura deve avere un «necessario grado di determinatezza», in difetto del quale la individuazione delle previsioni da impugnare, tra le molte che compongono una disciplina formalmente unica, verrebbe rimessa alla difesa tecnica, che è priva di tale prerogativa (sentenza n. 250 del 2009). La delibera della Giunta della Regione Lazio ha indicato l’art. 27, complessivamente considerato, quale oggetto di impugnazione, di tal chè la cernita delle specifiche previsioni da sottoporre al sindacato di questa Corte è stata posta in essere dalla difesa tecnica, senza alcuna previa direttiva, anche solo di massima, dell’organo politico. Infatti, l’art. 27 della legge n. 99 del 2009 consta di 47 commi, relativi a fattispecie che risultano estremamente diversificate tra loro quanto ad oggetto di disciplina. La mera presenza delle disposizioni censurate in un unico articolo della legge, genericamente intitolato «Misure per la sicurezza e il potenziamento del settore energetico», non è di per sé sufficiente a produrre il «necessario grado di determinatezza» dell’oggetto del giudizio di costituzionalità. Alla luce della richiamata giurisprudenza di questa Corte, l’evidente assenza di omogeneità tra le disposizioni di cui si compone l’art. 27 determina la inammissibilità delle corrispondenti questioni di costituzionalità. Opposta, invece, la conclusione per quanto concerne le censure aventi ad oggetto l’art. 25, anch’esso indicato nella delibera della Giunta del Lazio senza ulteriori specificazioni, dal momento che le varie disposizioni in cui si articola tale norma presentano un contenuto sostanzialmente omogeneo, attenendo tutte alla disciplina della “materia nucleare”. 9. – Inammissibili sono le questioni aventi ad oggetto il comma 2, lettere l) e q), dell’art. 25. Le censure mosse avverso tali disposizioni dalla sola Regione Lazio sono, infatti, del tutto generiche, in quanto non sorrette da alcuna argomentazione volta a chiarire le competenze regionali asseritamente lese. 10. – L’art. 25, comma 1, della legge impugnata è censurato dalla Regione Lazio, in riferimento agli artt. 76 e 117, terzo comma, Cost., poiché non sarebbe consentito conferire delega legislativa in una materia oggetto di potestà legislativa concorrente, dal momento che le norme statali non possono assumere quel carattere dettagliato, che, a parere della ricorrente, avrebbero invece necessariamente le norme delegate, in riferimento ai princìpi e ai criteri direttivi adottati ai sensi dell’art. 76 Cost. La questione non è fondata, come questa Corte ha già più volte affermato (sentenze n. 50 del 2005, n. 280 del 2004 e n. 359 del 1993), poiché la ricorrente erroneamente confonde il grado di determinatezza proprio dei princìpi e dei criteri direttivi della delega con quello, qualitativamente distinto e perciò non necessariamente coincidente, dei princìpi fondamentali di materia concorrente. Ciò consente, in linea di principio, l’impiego della delega legislativa anche nelle materie a potestà legislativa ripartita, come – d’altra parte – confermato dalla sua utilizzazione tutt’altro che infrequente anche in passato. Le Regioni Lazio e Basilicata impugnano il medesimo art. 25, comma 1, in relazione agli artt. 117 e 118 Cost., e, quanto alla sola Basilicata, al principio di leale collaborazione, nella parte in cui vi si prevede, ai fini dell’esercizio della delega, l’acquisizione del mero parere della Conferenza unificata di cui all’art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281 (Definizione ed ampliamento delle attribuzioni della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le province autonome di Trento e Bolzano ed unificazione, per le materie ed i compiti di interesse comune delle Regioni, delle province e dei comuni, con la Conferenza Stato - città ed autonomie locali), posto che si tratterebbe di forma inadeguata di coinvolgimento del sistema regionale. La questione non è fondata, poiché, come ripetutamente affermato da questa Corte, «le procedure di cooperazione o di concertazione possono rilevare ai fini dello scrutinio di legittimità di atti legislativi, solo in quanto l’osservanza delle stesse sia imposta, direttamente o indirettamente, dalla Costituzione», il che nella specie non si verifica (sentenza n. 437 del 2001; da ultimo, sentenza n. 225 del 2009). 11. – Appare opportuno affrontare, in primo luogo, le censure attinenti alla “materia nucleare”, ovvero all’art. 25, comma 2, lettere a), f), g) e h) e all’art. 26, comma 1, della legge impugnata. L’art. 25 reca, in particolare, delega al Governo, ai fini dell’adozione di «uno o più decreti legislativi di riassetto normativo recanti la disciplina della localizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare, di impianti di fabbricazione del combustibile nucleare, dei sistemi di stoccaggio del combustibile irraggiato e dei rifiuti radioattivi, nonché dei sistemi per il deposito definitivo dei materiali e rifiuti radioattivi e per la definizione delle misure compensative da corrispondere e da realizzare in favore delle popolazioni interessate». Questa delega è stata esercitata con il decreto legislativo 15 febbraio 2010, n. 31 (Disciplina della localizzazione, della realizzazione e dell’esercizio nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia elettrica nucleare, di impianti di fabbricazione del combustibile nucleare, dei sistemi di stoccaggio del combustibile irraggiato e dei rifiuti radioattivi, nonché misure compensative e campagne informative al pubblico, a norma dell’articolo 25 della legge 23 luglio 2009, n. 99), numerose disposizioni del quale sono state oggetto di separati ricorsi, innanzi a questa Corte, da parte delle Regioni Emilia-Romagna, Toscana e Puglia. L’oggetto dell’attuale giudizio di legittimità costituzionale resta peraltro circoscritto alle sole disposizioni recate dalla legge n. 99 del 2009, giacché nel caso di specie la sopravvenuta normativa delegata non sarebbe, neppure in linea teorica, idonea a superare un eventuale vizio di costituzionalità che dovesse inficiare le norme di delega: se queste ultime consentono di attuare la delega in senso conforme a Costituzione, con ogni evidenza il vizio non sussiste, poiché ogni dubbio in proposito può e deve essere superato attraverso un’interpretazione costituzionalmente orientata della legge di delega; se, viceversa, la delega non rende in alcun modo praticabile una soluzione normativa costituzionalmente legittima, anche l’eventuale esercizio di essa in forma compatibile con il dettato costituzionale sarebbe contrario all’art. 76 Cost. e certamente non farebbe venir meno l’originario vizio in cui fosse incorso il delegante. È per tale ragione ben possibile procedere alla decisione dei ricorsi proposti avverso la legge di delega, senza disporre che essi siano riuniti alle successive impugnative dirette contro il decreto delegato, come invece richiesto dall’Avvocatura dello Stato nell’immediata vigilia dell’udienza pubblica. 11.1. – Tali considerazioni tornano altresì utili, ai fini di vagliare la preliminare eccezione di inammissibilità formulata dall’Avvocatura dello Stato, con riguardo alle censure relative alle norme di delega che sono state impugnate: a parere dell’Avvocatura, tali disposizioni non sarebbero «immediatamente lesive di alcuna prerogativa regionale», poiché eventuali lacune, in sé pregiudizievoli della posizione costituzionale delle Regioni, ben potrebbero venire colmate in sede di esercizio della delega. Questa Corte, fin dalla sentenza n. 224 del 1990, ha affermato che, in linea di princìpio, la legge di delega, in quanto atto avente forza di legge, soggiace, ai sensi dell’art. 134 Cost., al controllo di costituzionalità in via principale, di cui, in particolare, può divenire oggetto, quando sia idonea a «concretare una lesione attuale dell’autonomia regionale» (sentenze n. 503 del 2000 e n. 359 del 1993). L’attenzione della Corte deve perciò cadere, in tali casi, non già sulla natura dell’atto impugnato, di per sé inequivocabilmente capace di integrare l’ordinamento giuridico con norme primarie, ma sulla ricorrenza dell’interesse regionale ad impugnarlo: di tale interesse andrà esclusa la sussistenza, in particolare, ogni volta che il legislatore delegante abbia determinato princìpi e criteri direttivi tali da consentire al Governo l’esercizio della funzione legislativa in modo conforme a Costituzione. Va, inoltre, aggiunto che anche la legge di delega soggiace al fondamentale canone dell’interpretazione costituzionalmente conforme (sentenza n. 292 del 2000), la cui osservanza si impone allo stesso Governo, sicché a radicare l’interesse regionale al ricorso non sarà sufficiente che essa si presti ad una lettura lesiva dell’autonomia regionale, ma occorrerà che tale lettura sia l’unica possibile, pur impegnando ogni strumento interpretativo utile. A maggior ragione, non determinano illegittimità costituzionale della delega eventuali omissioni, da parte del legislatore delegante, nella configurazione dei princìpi e dei criteri direttivi, pur in sé suscettibili di evolvere in un vulnus costituzionale, ove le carenze di idonei riferimenti ai princìpi costituzionali non siano colmate dalla successiva attività di “coerente sviluppo e, se del caso, di completamento” (ex plurimis, sentenza n. 98 del 2008) che compete al Governo, ai sensi dell’art. 76 Cost.: infatti, questa Corte ha già ritenuto «indubitabile che il legislatore delegato, anche nel silenzio della legge di delega, sia tenuto comunque alla osservanza dei precetti costituzionali, indipendentemente, dunque, da ogni richiamo che di essi faccia la norma delegante» (sentenza n. 401 del 2007, punto 5.3 del Considerato in diritto). Ne segue che l’eccezione di inammissibilità proposta dall’Avvocatura dello Stato non può venire ora decisa in via generale, ma richiede, invece, l’esame del contenuto di ciascuna disposizione della legge di delega impugnata, al fine di determinare se essa abbia, oppure no, realizzato una lesione attuale e diretta delle competenze regionali, secondo i criteri di verifica appena enunciati. 12. – Nei giudizi in via di azione promossi dalle Regioni l’oggetto del contendere verte sulla individuazione del titolo di competenza cui ascrivere le disposizioni legislative statali censurate, nei limiti dei motivi di ricorso. A tale scopo, è necessario avere riguardo al «nucleo essenziale» delle norme (da ultimo, sentenze n. 52 del 2010 e n. 339 del 2009) da cui si muove per identificare il fascio di interessi che viene inciso dall’intervento legislativo. Questa Corte ha avuto occasione di chiarire che nel nuovo titolo V della Parte seconda della Costituzione non sussiste più «l’equazione elementare interesse nazionale - competenza statale» e che quindi di per sé «l’interesse nazionale non costituisce più un limite, né di legittimità né di merito, alla competenza legislativa regionale» (sentenza n. 303 del 2003, punto 2.2 del Considerato in diritto). Ne segue che il riconoscimento del prima to di questi interessi si può affermare solo per mezzo dell’esercizio degli specifici poteri legislativi statali, che siano assegnati dalle norme costituzionali attributive di competenze, di tipo sia concorrente, sia esclusivo, secondo il significato che esse hanno nel comune linguaggio legislativo e nel vigente ordinamento giuridico. È, peraltro, noto che la complessità dei fenomeni sociali su cui i legislatori intervengono si esprime, di regola, in una fitta trama di relazioni, nella quale ben difficilmente sarà possibile isolare un singolo interesse: è, piuttosto, la regola opposta che si ha modo di rinvenire nella concreta dinamica normativa, ovvero la confluenza nelle leggi o nelle loro singole disposizioni di interessi distinti, che ben possono ripartirsi diversamente lungo l’asse delle competenze normative di Stato e Regioni. In tali casi, questa Corte non si può esimere dal valutare, anzitutto, se una materia si imponga alle altre con carattere di prevalenza (sentenze n. 50 del 2005 e n. 370 del 2003), ove si tenga presente che, per mezzo di una simile espressione, si riassume sinteticamente il proprium del giudizio, ovvero l’individuazione della competenza di cui la disposizione è manifestazione. Quando non sia possibile concludere nel senso appena indicato, si verifica un’ipotesi di «concorrenza di competenze» (sentenza n. 50 del 2005), la quale esige di adottare il «canone della leale collaborazione, che impone alla legge statale di predisporre adeguati strumenti di coinvolgimento delle Regioni, a salvaguardia delle loro competenze» (sentenze n. 88 del 2009 e n. 219 del 2005). Su di un livello distinto da quest’ultimo, invece, si colloca lo strumento della chiamata in sussidiarietà, cui lo Stato può ricorrere al fine di allocare e disciplinare una funzione amministrativa (sentenza n. 303 del 2003) pur quando la materia, secondo un criterio di prevalenza, appartenga alla competenza regionale concorrente, ovvero residuale: questa Corte ha affermato a tal proposito che «perché nelle materie di cui all’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., una legge statale possa legittimamente attribuire funzioni amministrative a livello centrale ed al tempo stesso regolarne l’esercizio, è necessario che essa innanzi tutto rispetti i princìpi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza nella allocazione delle funzioni amministrative, rispondendo ad esigenze di esercizio unitario di tali funzioni. È necessario, inoltre, che tale legge detti una disciplina logicamente pertinente, dunque idonea alla regolazione delle suddette funzioni, e che risulti limitata a quanto strettamente indispensabile a tale fine. Da ultimo, essa deve risultare adottata a seguito di procedure che assicurino la partecipazione dei livelli di governo coinvolti attraverso strumenti di leale collaborazione o, comunque, deve prevedere adeguati meccanismi di cooperazione per l’esercizio concreto delle funzioni amministrative allocate in capo agli organi centrali. Quindi, con riferimento a quest’ultimo profilo, nella perdurante assenza di una trasformazione delle istituzioni parlamentari e, più in generale, dei procedimenti legislativi – anche solo nei limiti di quanto previsto dall’art. 11 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) – la legislazione statale di questo tipo può aspirare a superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertati ve e di coordinamento orizzontale, ovverosia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà» (sentenza n. 6 del 2004 punto 7 del Considerato in diritto). Applicando tali princìpi al caso di specie, appare anzitutto evidente che le disposizioni impugnate incidono essenzialmente sugli interessi relativi alla materia concorrente della produzione dell’energia, poiché esprimono la scelta del legislatore statale di rilanciare l’importante forma di approvvigionamento energetico costituita dalla utilizzazione dell’energia nucleare e quindi di adottare nuovi princìpi fondamentali, adeguati alle evidenti specificità di questo settore. Non merita, invece, accoglimento, il rilievo, ampiamente svolto dall’Avvocatura dello Stato, secondo cui le peculiarità proprie della fonte nucleare, anche con riguardo ai profili del «cambiamento climatico, della sicurezza dell’approvvigionamento e della competitività del sistema produttivo», imporrebbero di riconoscere in materia la confluenza di una serie di competenze legislative esclusive dello Stato, con la conseguente sottr azione della disciplina del settore alla materia della produzione dell’energia: infatti, una scelta del genere non solo non trova riscontro nell’art. 117, terzo comma, Cost., che non reca affatto tale distinzione, ma viene anche smentita dal significato assunto dall’espressione “energia” nell’ambito della stessa legislazione ordinaria. Fin dall’art. 1 della legge 6 dicembre 1962, n. 1643 (Istituzione dell’Ente nazionale per la energia elettrica e trasferimento ad esso delle imprese esercenti le industrie elettriche), infatti, il legislatore ha disciplinato le attività di produzione, importazione ed esportazione, trasporto, trasformazione, distribuzione e vendita dell’energia elettrica «da qualsiasi fonte prodotta», in tal modo evidenziando che l’origine nucleare non valeva a mutarne il comune genus energetico. Si è, certamente, fatto ricorso ad una disciplina speciale che rispondesse alle particolari esigenze di protezione dell’ambiente e della salute implicate dalla scelta nucleare, segnatamente dapprima con la legge 31 dicembre 1962, n. 1860 (Impiego pacifico dell’energia nucleare) e poi con la legge 2 agosto 1975, n. 393 (Norme sulla localizzazione delle centrali elettronucleari e sulla produzione e sull’impiego di energia elettrica), m a sempre partendo dal presupposto, reso evidente dal titolo stesso degli interventi normativi appena citati, di legiferare in materia di “energia”. Più recentemente, l’art. 28 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle Regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59) ha stabilito che «le funzioni amministrative relative alla materia “energia” concernono le attività di ricerca, produzione, trasporto e distribuzione di qualunque forma di energia», mentre, sul piano dell’organizzazione amministrativa, il decreto legislativo 3 settembre 2003, n. 257 (Riordino della disciplina dell’Ente per le nuove tecnologie, l’energia e l’ambiente – Enea, a norma dell’articolo 1 della L. 6 luglio 2002, n. 137) ha attribuito all’ormai soppresso Enea, Ente per le nuove tecnologie, l’energia e l’ ;ambiente, compiti attinenti allo stesso settore nucleare, in quanto n ormativamente riconducibile al campo delle politiche energetiche. Un tale assetto normativo ha consentito, infine, a questa Corte di affermare che «l’espressione utilizzata nel terzo comma dell’art. 117 Cost. deve ritenersi corrispondente alla nozione di “settore energetico” di cui alla legge n. 239 del 2004, così come alla nozione di “politica energetica nazionale” utilizzata dal legislatore statale nell’art. 29 del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, che era esplicitamente comprensiva di “qualunque forma di energia”» (sentenza n. 383 del 2005, punto 13 del Considerato in diritto). Da ultimo, si è ribadita tale conclusione con riferimento all’art. 7 del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 (Disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria), convertito con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133 che, nel definire la strategia energetica nazionale, vi ha significativamente incluso la «realizzazione nel territorio nazionale di impianti di produzione di energia nucleare»: anche in tal caso, questa Corte ha ascritto la disposizione al “settore energetico”, vale a dire alla competenza concorrente in materia di energia (sentenza n. 339 del 2009). Né, infine, può omettersi che il comma 1 dell’art. 25 della legge n. 99 del 2009 si riferisce ad «impianti di produzione di energia elettrica nucleare» e che nel titolo del d.lgs. n. 31 del 2010, il legislatore delegato si esprime analogamente. Non vi è dubbio, nel contempo, che, in linea generale, un organico intervento normativo di disciplina del processo di produzione dell’“energia elettrica nucleare” solleciti, unitamente a quelli energetici, ulteriori interessi, in parte imputabili a titoli di competenza concorrente ed, in parte significativa, anche a titoli di competenza esclusiva dello Stato. Quanto al primo profilo è infatti consolidata giurisprudenza costituzionale che «tutto ciò che attiene all’uso del territorio e alla localizzazione di impianti o attività» costituisca «governo del territorio», ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost. (sentenza n. 307 del 2003), mentre va rammentato che la «tutela della salute» è materia che può ricomprendere norme idonee a preservare con carattere di uniformità un bene «che per sua natura non si presterebbe a essere protetto diversamente alla stregua di valutazioni differenziate» (sentenza n. 361 del 2003; in seguito, sentenza n. 63 del 2006). Quanto al secondo profilo, emerge con particolare evidenza la competenza relativa alla tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., notoriamente soggetti al rischio di gravi alterazioni, al pari dell’integrità fisica dei consociati, ove si verifichino incidenti agli impianti, anche in ragione di errori nell’attività di pianificazione, installazione e gestione delle centrali nucleari. La rilevanza dell’interesse ambientale (così come dell’interesse relativo alla tutela della salute) è, del resto, agevolmente ricavabile, alla luce della normativa comunitaria ed internazionale concernente l’energia nucleare: si tratta, per ricordare i soli atti normativi più significativi, del Trattato 25 marzo 1957 (Trattato che istituisce la Comunità europea dell’energia atomica-Euratom), della direttiva 25 giugno 2009, n. 2009/71/Euratom (Di rettiva del Consiglio che istituisce un quadro comunitario per la sicurezza nucleare degli impianti nucleari), della legge 19 gennaio 1998, n. 10 (Ratifica ed esecuzione della convenzione sulla sicurezza nucleare, fatta a Vienna il 20 settembre 1994). Va subito chiarito che, contrariamente a quanto ritenuto dall’Avvocatura dello Stato, tale normativa non pregiudica la discrezionalità dello Stato italiano nello «stabilire il proprio mix energetico in base alle politiche nazionali in materia» (punto 9 del Considerando della direttiva n. 2009/71/Euratom). Essa invece, per quanto qui interessa, impone, solo una volta che il legislatore nazionale abbia optato per l’energia atomica, nella misura ritenuta opportuna, misure e standard di garanzia «per la protezione della popolazione e dell’ambiente contro i rischi di contaminazione» (punto 5 dell’appena citato Considerando). Nello stesso senso, l’art. 17 della Convenzione sulla sicurezza nucleare di Vienna, resa esecutiva con la già menzionata legge n. 10 del 1998, ed alla quale ha aderito la stessa Comunità europea dell’energia atomica, esige, in punto di localizzazione degli impianti, la valutazione del «probabi le impatto che un impianto nucleare previsto potrebbe avere dal punto di vista della sicurezza degli individui, sulla società e sull’ambiente» e perciò, secondo quanto ritenuto dalla Corte di giustizia nella sentenza relativa alla causa 29/1999 del 10 dicembre 2002, «comprende necessariamente la presa in considerazione di fattori relativi alla radioprotezione, come le caratteristiche demografiche del sito». Va detto, tuttavia, che le ricorrenti non hanno censurato l’art. 25, comma 2, lettera b), della legge impugnata, al quale è affidata la delega in punto di «definizione di elevati livelli di sicurezza dei siti, che soddisfino le esigenze di tutela della salute della popolazione e dell’ambiente», sicché è con precipuo riferimento a siffatta disposizione, estranea all’oggetto del contendere, che il legislatore delegato avrà titolo per introdurre gli adeguati livelli di garanzia, anche con riferimento alle scelte di localizzazione ed ai criteri di insediamento degli impianti. Sulla base di tali rilievi, si può concludere che l’art. 25, comma 2, lettere g) e h), nella parte in cui disciplina la costruzione e l’esercizio di impianti per la produzione di energia elettrica nucleare; l’art. 25, comma 2, lettera f), nella parte in cui appronta garanzie di tipo sostitutivo, per superare il mancato raggiungimento delle necessarie intese con gli enti locali coinvolti nel procedimento di autorizzazione unica; ed infine l’art. 26, comma 1, nella parte in cui reca criteri per la definizione delle tipologie degli impianti di produzione, siano disposizioni attribuibili, con carattere di prevalenza, alla materia della produzione dell’energia, di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., giacché con esse il legislatore ha concretizzato normativamente l’intento non solo di riavviare l’approvvigionamento energetico da fonte nucleare, ma al contempo di favorirne un rapido sviluppo, attraverso le tappe che conducono alla autorizzazione unica, da rilasciare su istanza del soggetto richiedente. Diversamente si deve ritenere, con riferimento all’art. 25, comma 2, lettere g) e h), nella parte in cui disciplina la costruzione e l’esercizio di impianti per la messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi e per lo smantellamento di impianti nucleari a fine vita: in tale settore, cessata la preponderanza degli interessi connessi alla produzione dell’energia, si pone la necessità, dai primi distinta, di assicurare un idoneo trattamento delle scorie radioattive. Questa Corte ha già affermato, in tal caso, che «la competenza statale in tema di tutela dell’ambiente, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., è tale da offrire piena legittimazione ad un intervento legislativo volto a realizzare un impianto necessario per lo smaltimento dei rifiuti radioattivi» (sentenza n. 62 del 2005, punto 15 del Considerato in diritto; nello stesso senso, sentenza n. 247 del 2006), purché, nel rispetto della converg ente competenza concorrente in tema di governo del territorio, «siano adottate modalità di attuazione degli interventi medesimi che coinvolgano, attraverso opportune forme di collaborazione, le Regioni sul cui territorio gli interventi sono destinati a realizzarsi» (sentenza n. 62 del 2005, punto 16 del Considerato in diritto). Anche l’art. 25, comma 2, lettera a), recante la previsione della possibilità di dichiarare i siti aree di interesse strategico nazionale, soggette a speciali forme di vigilanza e di protezione, eccede i limiti della materia energetica, per ricadere piuttosto nella sfera di competenza esclusiva statale in tema di tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., poiché, come si preciserà a breve, viene in tal caso in gioco la necessità di prevenire la commissione di reati, dagli effetti potenzialmente esiziali, in prossimità dell’area ove si produce l’energia elettrica nucleare o dove le scorie radioattive sono conservate. Ciò detto, la riconduzione delle disposizioni impugnate ai predetti ambiti di competenza consente di escludere che abbiano rilievo in causa sia la potestà legislativa residuale regionale, genericamente invocata dalle Regioni Emilia-Romagna, Umbria e Liguria, e richiamata con riferimento al turismo dalle Regioni Toscana e Calabria, sia la potestà concorrente relativa alla protezione civile (Regione Lazio) e alla valorizzazione dei beni culturali e ambientali (Regioni Toscana e Calabria). Parimenti prive di rilievo sono le competenze esclusive statali indicate dall’Avvocatura dello Stato, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere a) e d), Cost. Come si è innanzi rimarcato, il diritto comunitario e le convenzioni internazionali, cui l’Italia ha aderito, prescrivono, con riferimento alla fonte energetica nucleare e, per quanto qui interessa, talune condizioni minime di sicurezza, volte a proteggere la salute e l’ambiente, ma non interferiscono con l’assetto delle competenze costituzionali di Stato e Regioni, in ordine alle procedure specificamente disciplinate dalle norme impugnate (sentenze n. 398 del 2006, n. 336 del 2005 e n. 126 del 1996). Tanto meno se ne può ricavare, come parrebbe ritenere l’Avvocatura dello Stato, un obbligo di contenuto concernente l’an ed il quando del programma nazionale di produzione dell’energia atomica, posto che assume, semmai, rilievo, in tale pr ospettiva, il quomodo di un siffatto programma. Né si vede quale rapporto possa esservi tra la “sicurezza dello Stato”, ovvero l’area normativa che protegge sovranità, integrità ed indipendenza della Repubblica, e le procedure di installazione di impianti nucleari aventi finalità di approvvigionamento energetico. Una volta inquadrate le disposizioni impugnate negli ambiti di competenza sopra indicati, diviene possibile procedere allo scrutinio delle specifiche censure mosse dalle ricorrenti. 13. – L’art. 25, comma 2, lettere g) e h), della legge impugnata reca i seguenti princìpi e criteri direttivi: «g) previsione che la costruzione e l’esercizio di impianti per la produzione di energia elettrica nucleare e di impianti per la messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi o per lo smantellamento di impianti nucleari a fine vita e tutte le opere connesse siano considerati attività di preminente interesse statale e, come tali, soggette ad autorizzazione unica rilasciata, su istanza del soggetto richiedente e previa intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, con decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare e con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti»; «h) previsione che l’autorizzazione unica sia rilasciata a seguito di un procedimento unico al quale partecipano le amministrazioni interessate, svolto nel rispetto dei princìpi di semplificazione e con le modalità di cui alla legge 7 agosto 1990, n. 241; l’autorizzazione deve comprendere la dichiarazione di pubblica utilità, indifferibilità e urgenza delle opere, l’eventuale dichiarazione di inamovibilità e l’apposizione del vincolo preordinato all’esproprio dei beni in essa compresi; l’autorizzazione unica sostituisce ogni provvedimento amministrativo, autorizzazione, concessione, licenza, nulla osta, atto di assenso e atto amministrativo, comunque denominati, ad eccezione delle procedure di valutazione di impatto ambientale (VIA) e di valutazione ambientale strategica (VAS) cui si deve obbligatoriamente ottemperare, previsti dalle norme vigenti, costituendo titolo a costruire ed esercire le infra strutture in conformità del progetto approvato». La lettera g) è impugnata da tutte le ricorrenti, mentre la lettera h) è censurata dalle sole Regioni Emilia-Romagna, Marche, Toscana e Calabria. La censura svolta da tutte le ricorrenti, in relazione agli artt. 117, terzo comma, Cost. (energia, governo del territorio), 118 Cost. ed al principio di leale collaborazione consiste nel denunciare l’accentramento in capo allo Stato della funzione amministrativa relativa al rilascio della autorizzazione unica per mezzo di chiamata in sussidiarietà, in assenza della cosiddetta intesa forte con ciascuna Regione interessata. Non sarebbe sufficiente, infatti, né la prevista intesa con la Conferenza unificata, il cui intervento non potrebbe avere carattere surrogatorio rispetto a quello della singola Regione, né la partecipazione dell’amministrazione regionale al procedimento unico previsto dalla lettera h), posto che esso non attribuisce alla Regione la posizione differenziata che le spetterebbe in ordine alla scelta sulla localizzazione dell’impianto nell’ambito del proprio territorio. La Corte dovrebbe pertanto dichiarare l’illegittimità costituzionale del combinato disposto delle lettere g) e h), nella parte in cui non vi si prevede l’intesa forte con la Regione interessata. Non viene, pertanto, posta in discussione né la scelta operata dal legislatore nazionale di rilancio della fonte nucleare, la quale esprime con ogni evidenza un princìpio fondamentale della produzione dell’energia, né la sussistenza delle condizioni che legittimano la chiamata in sussidiarietà, ma si contesta il difetto di un idoneo coinvolgimento regionale, conseguente a tale attrazione di competenza. L’eccezione di inammissibilità formulata dall’Avvocatura dello Stato, con riguardo al carattere prematuro dell’impugnativa regionale, è fondata. Le ricorrenti muovono dalla erronea premessa, secondo cui le disposizioni impugnate, nel prevedere espressamente una duplice forma di partecipazione del sistema regionale all’esercizio della funzione amministrativa chiamata in sussidiarietà, con ciò imporrebbero di escluderne una terza ritenuta costituzionalmente necessaria, ovvero l’intesa con la Regione interessata, ai fini della localizzazione, nel dettaglio, del sito nucleare. Tuttavia, il silenzio del legislatore delegante in proposito non ha, né può avere alla luce della doverosa interpretazione costituzionalmente conforme della delega, il significato impediente paventato dalle ricorrenti. È oramai princìpio acquisito nel rapporto tra legislazione statale e legislazione regionale che quest’ultima possa venire spogliata della propria capacità di disciplinare la funzione amministrativa attratta in sussidiarietà, a condizione che ciò si accompagni alla previsione di un’intesa in sede di esercizio della funzione, con cui poter recuperare un’adeguata autonomia, che l’ordinamento riserva non già al sistema regionale complessivamente inteso, quanto piuttosto alla specifica Regione che sia stata privata di un proprio potere (sentenze n. 383 e n. 62 del 2005, n. 6 del 2004 e n. 303 del 2003). Ciò ovviamente a prescindere dalla necessità di una puntuale disciplina legislativa delle modalità di esercizio dell’intesa e delle eventuali procedure per ulteriormente ricercarla in caso di diniego o comunque per supplire alla sua carenza, come anche questa Corte ha auspicato (sentenza n. 383 del 2005, n. 20 del Considerato in diritto). Quindi, in queste situazioni il coinvolgimento delle Regioni interessate si impone con forza immediata e diretta al legislatore delegato, ove intenda esercitare la funzione legislativa. Certamente, il legislatore è poi libero, e talvolta anche obbligato costituzionalmente, nell’attività di ulteriore rafforzamento delle istanze partecipative del sistema regionale e degli enti locali, per la quale, quando l’interesse in gioco non sia accentrato esclusivamente in capo alla singola Regione, ben si presta l’intervento della Conferenza Stato-Regioni e della Conferenza Stato - città ed autonomie locali. È per l’appunto in tale ultima direzione che devono leggersi sia la previsione recata dalla lettera g) impugnata, con riguardo all’intesa in sede di Conferenza unificata, sia la prevista partecipazione delle amministrazioni interessate, tra cui senza dubbio quella regionale, al procedimento unico di cui alla lettera h ). Ma, una volta chiarito in tal modo lo scopo perseguito dal legislatore delegante, in nessun caso esso si rivela incompatibile con la doverosa integrazione della delega, in punto di partecipazione della Regione interessata, per mezzo dell’intesa. Pertanto, le questioni relative all’art. 25, comma 2, lettere g) e h), sono inammissibili. 14. – L’art. 25, comma 2, lettera f), della legge impugnata reca il seguente principio e criterio direttivo: «determinazione delle modalità di esercizio del potere sostitutivo del Governo in caso di mancato raggiungimento delle necessarie intese con i diversi enti locali coinvolti, secondo quanto previsto dall'articolo 120 della Costituzione». Tale disposizione è impugnata dalle Regioni Emilia-Romagna, Umbria, Marche, Toscana e Lazio. Le ricorrenti sviluppano analoghe censure: ove la disposizione si ritenga applicabile alle intese raggiunte con la Regione, sarebbe lesiva degli artt. 117, 118 e 120 Cost. e del principio di leale collaborazione (solo la Regione Lazio non richiama quest’ultimo parametro) la previsione di un potere sostitutivo del Governo atto a superare il mancato raggiungimento dell’intesa, non solo quando la Regione resti inerte, ma anche quando abbia espresso un motivato dissenso. Né l’adesione all’intesa potrebbe considerarsi atto «dovuto o necessario» ai sensi dell’art. 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131 (Disposizioni per l’adeguamento dell’ordinamento della Repubblica alla legge cost. 18 ottobre 2001, n. 3), che disciplina in termini generali l’esercizio del potere di cui all’art. 120, secondo comma, Cost. Tale ultima disposizione sarebbe altresì violata, poiché la legge di delega introdurrebbe unR 17;ipotesi di potere sostitutivo ad essa non conforme. Le sole Regioni Emilia-Romagna ed Umbria aggiungono che, se anche riferita ai soli enti locali, la norma sarebbe comunque lesiva delle prerogative regionali, poiché consentirebbe l’esercizio del potere sostitutivo allo Stato, senza alcun coinvolgimento della Regione interessata, e per di più configurerebbe ipotesi di intese tra Stato ed enti locali, cui la Regione resterebbe estranea. 14.1. – L’Avvocatura dello Stato avanza tre eccezioni di inammissibilità, che non sono fondate. Anzitutto, si contesta che le ricorrenti prospettino una questione astratta, giacché non sciolgono il dubbio interpretativo se la norma si applichi anche alle intese con la Regione, o alle sole intese con gli enti locali propriamente detti: tuttavia, è noto che nel giudizio principale possono porsi questioni cautelative ed ipotetiche, purché non implausibili (da ultimo, ordinanza n. 342 del 2009). Nel caso di specie, i dubbi interpretativi delle ricorrenti non vanno oltre i margini della plausibilità, poiché la sola intesa che la legge di delega espressamente prevede si raggiunge in sede di Conferenza unificata, ed attinge in tal modo il sistema regionale. In secondo luogo, si eccepisce che le Regioni non potrebbero attivarsi, per difendere l’autonomia degli enti locali. Ora, a prescindere dal fatto che questa Corte ha affermato l’opposto, «in particolare in materia urbanistica e in tema di finanza regionale e locale» (sentenza n. 196 del 2004, punto 14 del Considerato in diritto; in seguito, sentenza n. 120 del 2008), la sintesi appena compiuta delle doglianze delle ricorrenti rende palese che esse si sono mosse a tutela non già dell’ente locale sostituito, ma esclusivamente delle proprie prerogative costituzionali. Infine, viene riproposta l’eccezione di inammissibilità, concernente il carattere prematuro ed ipotetico delle doglianze. Essa, in tal caso, va disattesa, poiché, ove si ammettesse che la norma impugnata si applichi alle intese con le Regioni, la delega sarebbe già del tutto univoca circa l’introduzione di un potere sostitutivo ai sensi dell’art. 120 Cost., in caso di mancato raggiungimento dell’intesa, ciò che appunto costituisce l’oggetto della questione posta a questa Corte. 14.2. – Nel merito, la prima censura non è fondata, poiché si basa sull’erroneo presupposto interpretativo, per il quale la disposizione impugnata si applicherebbe alle intese con le Regioni: infatti, nel vigente assetto istituzionale della Repubblica, la Regione gode di una particolare posizione di autonomia, costituzionalmente protetta, che la distingue dagli enti locali (art. 114 Cost.), sicché si deve escludere che il legislatore delegato abbia potuto includere le Regioni nella espressione censurata (sentenza n. 20 del 2010). 14.3. – Quanto, poi, alla separata censura, mossa dalle sole Regioni Emilia-Romagna e Umbria, secondo cui illegittimamente la Regione sarebbe esclusa dall’esercizio del potere sostitutivo riferito ai soli enti locali che insistono sul territorio regionale, essa è inammissibile dal momento che – analogamente a quanto prima rilevato a proposito delle censure relative alle lettere g) ed h) dell’art. 25 – la sommarietà della delega legislativa sul punto non ha, né può avere, alla luce della doverosa interpretazione costituzionalmente conforme della delega, il significato di precludere l’introduzione di forme partecipative della Regione nell’esercizio del potere sostitutivo da parte del Governo, fermo restando, altresì, che l’eventuale raggiungimento di un’intesa tra Stato ed enti locali, cui la Regione non abbia preso parte, in nessun modo potrebbe surrogarsi alle intese costituzionalm ente dovute tra Stato e Regioni, così da ledere le prerogative di queste ultime. 14.4. – Pertanto, le questioni relative all’art. 25, comma 2, lettera f), nel primo caso non sono fondate e nel secondo sono inammissibili. 15. – L’art. 25, comma 2, lettera a), della legge impugnata reca il seguente princìpio e criterio direttivo: «previsione della possibilità di dichiarare i siti aree di interesse strategico nazionale, soggette a speciali forme di vigilanza e protezione». Tale disposizione è impugnata dalle Regioni Toscana, Marche, Emilia-Romagna, Umbria e Liguria. L’eccezione di inammissibilità delle censure, riproposta dall’Avvocatura dello Stato in ragione del preteso carattere ipotetico di esse, a prescindere dalla sua fondatezza, merita in tal caso di essere superata dall’assorbente rilievo relativo alla evidente infondatezza, per tale parte, dei ricorsi. Va detto che le ricorrenti non condividono la medesima premessa interpretativa, in relazione alla disposizione impugnata. Infatti, le Regioni Toscana e Marche sostengono che essa costituirebbe il fondamento normativo della potestà statale di localizzare gli impianti nucleari, e si porrebbe perciò in contrasto con gli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost., nonché con il principio di leale collaborazione, disponendo una chiamata in sussidiarietà, in difetto di intesa con la Regione interessata. Tale interpretazione dell’art. 25, comma 2, lettera a), della legge delega non ha fondamento. Appare infatti chiaro, fin dal contenuto letterale della norma, che il legislatore delegato non ha inteso qui disciplinare la fase di individuazione del sito, della quale si è invece occupato formulando le lettere g) e h) della medesima disposizione, ma la sola eventualità che, a sito prescelto, esso possa acquisire il particolare status di area soggetta a vigilanza e protezione. Le Regioni Emilia-Romagna, Umbria e Liguria, pur non condividendo l’interpretazione cui sono pervenute le altre ricorrenti, stimano, tuttavia, che la norma impugnata si presterebbe a giustificare misure protettive eccedenti l’ambito della competenza statale in materia di ordine pubblico e sicurezza, per sconfinare sul terreno del governo del territorio. Ciò comporterebbe la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in ragione della mancata previsione che tali misure siano adottate, previa intesa con le Regioni o la Regione interessata, e che l’intesa si estenda fino alla selezione dell’area. Questa Corte ritiene privo di fondamento anche tale ultimo presupposto interpretativo. Come si è già anticipato, non vi è dubbio che l’art. 117, secondo, comma, lettera h), Cost. giustifichi una disciplina statale finalizzata alla prevenzione dei reati e al mantenimento dell’ordine pubblico (sentenze n. 383 del 2005 e n. 6 del 2004), con particolare riferimento ai siti ove viene trattata l’energia nucleare, ovvero dove sono depositati i rifiuti radioattivi, attesi i gravi rischi che notoriamente conseguono ad un indebito trattamento di tali fonti e di tali materiali. In un simile contesto, la disposizione impugnata rimette allo svolgimento normativo di spettanza del legislatore delegato la più puntuale determinazione del contenuto delle misure necessarie, le quali assumeranno forme corrispondenti alla ragione giustificatrice che si è appena evidenziata. Ove, invece, tali misure venissero a compromettere una sfera di competenza assegnata alle Regioni, non mancheranno a quest’ultime gli strumenti giurisdizionali per far valere le proprie prerogative, se del caso anche innanzi a questa Corte. Quanto, poi, alla selezione dell’area di interesse strategico nazionale, una volta chiarito l’ambito applicativo della norma di delega, ed anche ammesso in via meramente ipotetica che essa sia più ampia della porzione di territorio ove l’impianto è collocato, deve ritenersi che la Regione non abbia titolo per concorrere all’esercizio di una funzione corrispondente ad un ambito di potestà esclusiva statale, che, nel rispetto dell’art. 118 Cost., sia stata allocata dalla legge nazionale presso organi centrali (sentenze n. 15 del 2010 e n. 88 del 2009). Le questioni relative all’art. 25, comma 2, lettera a), della legge impugnata sono, per tali ragioni, non fondate. 16. – L’art. 26, comma 1, della legge impugnata stabilisce che «con delibera del CIPE, da adottare entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge e previo parere della Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, su proposta del Ministro dello sviluppo economico, sentito il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, sentite le Commissioni parlamentari competenti, sono definite le tipologie degli impianti per la produzione di energia elettrica nucleare che possono essere realizzati nel territorio nazionale. La Conferenza unificata si esprime entro sessanta giorni dalla richiesta, trascorsi i quali il parere si intende acquisito». Tale disposizione è censurata dalle Regioni Marche, Basilicata, Lazio, Emilia-Romagna e Umbria. Le Regioni ritengono che la norma attenga a materia oggetto di potestà legislativa ripartita, e, nello specifico, alla produzione dell’energia, secondo Emilia-Romagna, Umbria, Marche; al governo del territorio, secondo Emilia-Romagna, Lazio, Basilicata; alla tutela della salute, secondo Lazio e Basilicata: pertanto, ove essa prevedesse una potestà di tipo regolamentare, sarebbe violato l’art. 117, sesto comma, Cost., che riserva alle Regioni la potestà regolamentare in tali materie, come denunciano le Regioni Emilia-Romagna, Umbria, Marche. Se invece si trattasse di una funzione amministrativa chiamata in sussidiarietà, la norma sarebbe illegittima, con riferimento agli artt. 117, terzo comma, e 118 Cost., ed al principio di leale collaborazione, nella parte in cui prevede il parere, anziché l’intesa, con la Conferenza unificata, come paventato dalle Regioni Emilia-Romagna, Umbria, Marche, Lazio e Basilicata, e nella parte in cui non prevede, altresì, l’intesa con ciascuna Regione interessata con riguardo alla scelta della «tipologia dello specifico impianto in uno specifico luogo», come aggiungono Emilia-Romagna ed Umbria. In via preliminare, va dichiarata non fondata l’eccezione di inammissibilità dell’Avvocatura dello Stato, relativa alla circostanza per cui talune ricorrenti prospettano due interpretazioni alternative della norma impugnata, stante la già rammentata ammissibilità di questioni interpretative, purché non prive di plausibilità, nel giudizio principale: nel nostro caso, il dubbio concernente la natura del potere attribuito al CIPE, che il legislatore delegante non risolve espressamente, rientra entro i limiti di tolleranza appena enunciati. Esso, peraltro, va sciolto nel senso di escludere che la norma impugnata abbia conferito al CIPE una potestà regolamentare. Attesa la ripartizione operata dall’art. 117 Cost. di tale potestà tra Stato e Regioni, secondo un criterio obiettivo di corrispondenza delle norme prodotte alle materie ivi indicate, non possono essere requisiti di carattere formale, quali il nomen iuris e la difformità procedimentale rispetto ai modelli di regolamento disciplinati in via generale dall’ordinamento, a determinare di per sè l’esclusione dell’atto dalla tipologia regolamentare, giacché, in tal caso, sarebbe agevole eludere la suddivisione costituzionale delle competenze, introducendo nel tessuto ordinamentale norme secondarie, surrettiziamente rivestite di altra forma, laddove ciò non sarebbe consentito. Nel caso di specie, tuttavia, la potestà affidata al CIPE non comporta la produzione di norme generali ed astrat te, con cui si disciplinino i rapporti giuridici, conformi alla previsione normativa, che possano sorgere nel corso del tempo. Essa, invece, esprime una scelta di carattere essenzialmente tecnico, con cui l’amministrazione persegue la cura degli interessi pubblici a essa affidati dalla legge, individuando le tipologie di impianti idonee, in concreto e con un atto, la cui sfera di efficacia si esaurisce e si consuma entro i limiti, obiettivi e temporali, della scelta stessa. Si è pertanto in presenza dell’esercizio di una funzione amministrativa, rispetto al quale non è conferente l’art. 117, sesto comma, Cost. Viene invece in rilievo, come anticipato, l’art. 117, terzo comma, Cost., con riferimento alla competenza concorrente in materia di energia: la legge delega, in ragione di un interesse all’esercizio unitario della funzione che nessuna delle ricorrenti ha reso oggetto di censura, ne ha disposto la attrazione in sussidiarietà, limitandosi, tuttavia, a prevedere il parere della Conferenza unificata, anziché l’intesa. Il primo profilo da porre in evidenza, a tal proposito, concerne l’estraneità del contenuto precettivo della norma rispetto alla fase di realizzazione del singolo impianto, che trova la propria disciplina, invece, nelle lettere g) e h) dell’art. 25, comma 2, della legge impugnata. Sarà dunque in quest’ultima sede che dovranno trovare soddisfazione le esigenze partecipative di ciascuna Regione interessata, secondo quanto già precisato. Le Regioni Emilia-Romagna ed Umbria, in altri termini, attribuiscono alla disposizione impugnata un’applicazione più ampia di quanto essa non abbia. L’art. 26, comma 1, infatti, disciplina la sola fase preliminare di selezione, in linea astratta, delle tipologie di impianti realizzabili dai soggetti richiedenti, mentre tace con riguardo alla scelta dello specifico impianto da realizzare in concreto, sia pure sulla base della delibera del CIPE. Quest’ultima opzione rientra a tutti gli effetti, come si è detto, nell’ambito del procedimento di autorizzazione unica retto dall’art. 25, comma 2, lettera g) e h), in relazione alla «istanza del soggetto richiedente», e per tale via si offre alla codeterminazione dell’atto da parte della Regione interessata, una volta che il legislatore delegato abbia provveduto ad introdurre la relativa intesa. Ciò detto, resta da ponderare l’adeguatezza dello strumento partecipativo prescelto dalla legge delega, ovvero del parere, anziché dell’intesa con la Conferenza unificata. In linea di principio, è affermazione di questa Corte che la chiamata in sussidiarietà possa «superare il vaglio di legittimità costituzionale solo in presenza di una disciplina che prefiguri un iter in cui assumano il dovuto risalto le attività concertative e di coordinamento orizzontale, ovverossia le intese, che devono essere condotte in base al principio di lealtà» (sentenza n. 303 del 2003, punto 2.2 del Considerato in diritto). Tale principio è destinato ad operare senza eccezione alcuna laddove l’attrazione in sussidiarietà della funzione, accompagnandosi all’attribuzione alla legge nazionale della potestà di disciplinare fattispecie altrimenti di competenza regionale, implica un’alterazione dell’ordinario rapporto tra processo di integrazione politica affidato allo Stato e processo di integrazione politica proprio del sistema regionale, con l’effetto che il nucleo fondante di una decisione espressiva di discrezionalità legislativa si trova collocato interamente entro la prima sfera, e viene sottratto alla seconda. In presenza di un tale effetto, ed al fine di assicurare l’emersione degli interessi intestati dalla Costituzione all’autonomia regionale, la legge statale deve garantire la riespansione delle capacità decisionali della Regione interessata, per mezzo di una paritaria codeterminazione dell’atto, non superabile per mezzo di una iniziativa unilaterale di una delle parti (sentenza n. 383 del 2005). Altro discorso va invece svolto con riguardo al caso, che ricorre con riferimento alla disposizione impugnata, in cui la legge statale, in materia di competenza concorrente, attribuisce la funzione amministrativa, di cui va assicurato l’esercizio unitario ai sensi dell’art. 118 Cost., ad un organo centrale, laddove essa sia caratterizzata da una natura eminentemente tecnica, che esige, in quanto tale, scelte improntate all’osservanza di standard e metodologie desunte dalle scienze. Per tale evenienza, questa Corte ha già affermato che «il coinvolgimento della Conferenza Stato-Regioni può limitarsi all’espressione di un parere obbligatorio» (sentenza n. 285 del 2005, punto 9 del Considerato in diritto). L’art. 26, comma 1, risponde appunto alla necessità che la selezione delle tipologie ammissibili di impianti nucleari sia governata secondo criteri tecnici di efficacia e sicurezza, affinché la successiva individuazione della struttura compatibile con simile preliminare scrematura sia svolta (nel corso della fase di concreta allocazione di essa, cui dovrà partecipare ciascuna Regione interessata), sulla base di tale comune, e necessaria garanzia. Tale disposizione, così interpretata, si sottrae per tali motivi alle censure mosse, sicché le questioni relative all’art. 26, comma 1, della legge impugnata vanno dichiarate non fondate. 17. – Esaurita la trattazione delle censure concernenti il settore dell’energia nucleare, possono esaminarsi le doglianze relative all’art. 27, comma 27, della legge impugnata. Tale disposizione stabilisce che «agli impianti di produzione di energia elettrica alimentati con carbon fossile di nuova generazione, se allocati in impianti industriali dismessi, nonché agli impianti di produzione di energia elettrica a carbon fossile, qualora sia stato richiesto un aumento della capacità produttiva, si applicano, alle condizioni ivi previste, le disposizioni di cui all’articolo 5-bis del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5, convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33». A propria volta, l’art. 5-bis del decreto-legge 10 febbraio 2009, n. 5 (Misure urgenti a sostegno dei settori industriali in crisi, nonché disposizioni in materia di produzione lattiera e rateizzazione del debito nel settore lattiero-ca seario), convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2009, n. 33, a suo tempo non impugnato in via principale, prevede che «per la riconversione degli impianti di produzione di energia elettrica alimentati ad olio combustibile in esercizio alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, al fine di consentirne l’alimentazione a carbone o altro combustibile solido, si procede in deroga alle vigenti disposizioni di legge nazionali e regionali che prevedono limiti di localizzazione territoriale, purché la riconversione assicuri l’abbattimento delle loro emissioni di almeno il 50 per cento rispetto ai limiti previsti per i grandi impianti di combustione di cui alle sezioni 1, 4 e 5 della parte II dell’allegato II alla parte V del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152. La presente disposizione si applica anche ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto». Le Regioni Piemonte, Umbria e Liguria ritengono che la disposizione impugnata leda l’art. 117, terzo comma, Cost., con riferimento alle materie dell’energia, del governo del territorio e, quanto alle sole Umbria e Liguria, della tutela della salute. Essa, infatti, costituirebbe norma dettagliata, tale da impedire qualsivoglia sviluppo ulteriore da parte del legislatore regionale. Le Regioni Umbria e Liguria aggiungono che, derogando ad ogni limite di localizzazione, si produrrebbe l’effetto di vanificare il procedimento di intesa previsto dall’art. 1, comma 2, del decreto-legge 7 febbraio 2002, n. 7 (Misure urgenti per garantire la sicurezza del sistema elettrico nazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 9 aprile 2002, n. 55, al fine della costruzione e dell’esercizio degli impianti energetici indicati dal comma 1 della medesima disposizione, poiché la Regione non avrebbe più titolo per farvi valere «quei valori di ordine territoriale, di tutela della salute, ambientali, turistici, ecc.», ai quali è preordinata la legislazione. Si tratta di una censura niente affatto «ipotetica», come invece ritiene l’Avvocatura dello Stato, giacché paventa in modo univoco la spoliazione del potere regionale di interloquire in sede di intesa con l’Amministrazione statale, in ragione della deroga alla normativa urbanistica regionale. 17.1. – La questione non è fondata, per le considerazioni che seguono. La disposizione impugnata, al fine di contenere, per quanto possibile, l’emissione nell’ambiente di sostanze inquinanti, appresta una disciplina di favore con riguardo all’insediamento sul territorio degli impianti di produzione di energia elettrica alimentati con carbon fossile, prevedendo che, alla condizione di limitare, nella misura indicata dall’art. 5-bis del decreto-legge n. 5 del 2009, il pregiudizio ambientale connesso a tale fonte di energia, vi si possa procedere «in deroga alle vigenti disposizioni di legge nazionali e regionali che prevedono limiti di localizzazione territoriale». Sul piano delle competenze, la finalità di contenimento del pregiudizio ambientale, comunque correlato agli impianti da carbon fossile, si innesta su una previsione diretta ad incidere su interessi attribuibili alle materie concorrenti della produzione di energia e del governo del territorio: si è, infatti, compiuta una scelta di promozione di una particolare fonte energetica, per mezzo di uno strumento, la deroga ai limiti legislativi di localizzazione, che chiaramente fa leva sull’assetto urbanistico del territorio. A concludere per la natura dettagliata della norma, tuttavia, non aiuta il carattere derogatorio che essa riveste, poiché, in linea generale, è ben possibile attribuire alla potestà legislativa statale in materia concorrente l’introduzione di un regime di esenzione, rispetto all’osservanza dei princìpi a partire dai quali si origina la normativa di dettaglio: la deroga al principio, in altri termini, può esprimere una scelta di sistema, a sua volta ascrivibile a principio fondamentale della materia. Nel caso di specie, viene in rilievo la deroga relativa ai limiti di localizzazione territoriale vigenti nella sola legislazione regionale, giacché non vi è un interesse delle ricorrenti a contestare la scelta del legislatore statale di superare, altresì, i medesimi limiti, se evincibili dalla legislazione nazionale. Su questo piano, si trovano a dover essere conciliate, sulla base delle disposizioni costituzionali relative alla competenza legislativa, da un lato l’esigenza di conferire attuazione alla decisione, propria del legislatore statale, di promuovere un’opzione energetica, aprendo ad essa, quale principio fondamentale della materia, l’intero territorio; dall’altro, le prerogative, proprie dell’ autonomia regionale, di governare lo sviluppo urbanistico. Le une e le altre godono di pari dignità costituzionale, cosicché la compressione di un interesse a vantaggio di un altro andrà apprezzata su di un piano di necessaria proporzionalità, nel senso che il legislatore statale potrà espandere la propria normativa non oltre il punto in cui essa si renda strettamente servente rispetto alla finalità perseguita, preservando, oltre tale linea, la potestà regionale di sviluppare con la propria legislazione i princìpi fondamentali in tal modo tracciati. È necessario, in altri termini, che le competenze in gioco non assumano «carattere di esclusività, dovendo armonizzarsi e coordinarsi con la disciplina posta a tutela di tali interessi differenziati» (sentenza n. 383 del 2005, punto 12 del Considerato in diritto). In tale prospettiva, non è certamente nuovo il problema che viene oggi posto a questa Corte, la quale si è trovata in più occasioni a valutare il rapporto tra fonte statale e fonte regionale, in punto di equilibrio tra l’obiettivo di sviluppo di una rete di impianti perseguito dalla prima e l’aspirazione della seconda a imporre, in proposito, criteri di localizzazione. Fin dalla sentenza n. 307 del 2003, si è posto in luce che, «quanto alle discipline localizzative e territoriali, è logico che riprenda pieno vigore l’autonoma capacità delle Regioni e degli enti locali di regolare l’uso del proprio territorio, purché, ovviamente, criteri localizzativi e standard urbanistici rispettino le esigenze della pianificazione nazionale degli impianti e non siano, nel merito, tali da impedire od ostacolare ingiustificatamente l’insediamento degli stessi», mentre la sentenza n. 331 del 2003 ha aggiunto, pur con riferimento alle disposizioni recate dalla legge cornice in tema di protezione dalla esposizione a campi elettromagnetici, che la legge regionale, mentre non può introdurre «limitazioni alla localizzazione», ben può somministrare «criteri di localizzazione», quand’anche formulati «in negativo», ovvero per mezzo della delimitazione di aree ben identificate, ove emergano intere ssi particolarmente pregnanti affidati alle cure del legislatore regionale, e purché ciò non determini l’impossibilità di una localizzazione alternativa. È in questo stesso senso che si sono espresse sia la sentenza n. 103 del 2006, sia la sentenza n. 303 del 2007. Infine, la stessa localizzazione degli impianti di trattamento dei rifiuti, una volta assicurata l’osservanza delle «soglie inderogabili di protezione ambientale» proprie della legislazione statale, è stata ascritta alla competenza legislativa regionale (sentenza n. 314 del 2009). Il cuore delle argomentazioni della giurisprudenza costituzionale sul punto controverso va, perciò, individuato nel principio per il quale, in linea generale, è precluso alla legge regionale ostacolare gli obiettivi di insediamento sottesi ad interessi ascrivibili alla sfera di competenza legislativa statale, mentre, nello stesso tempo, lo Stato è tenuto a preservare uno spazio alle scelte normative di pertinenza regionale, che può essere negato solo nel caso in cui esse generino l’impossibilità, o comunque l’estrema ed oggettiva difficoltà, a conseguire il predetto obiettivo, caso in cui la norma statale si atteggia, nelle materie concorrenti, a principio fondamentale, proprio per la parte in cui detta le condizioni ed i requisiti necessari allo scopo. La disposizione impugnata può e deve essere interpretata restrittivamente, in senso conforme a tale principio. Con essa il legislatore statale, anziché indicare criteri di localizzazione favorevoli alla realizzazione degli impianti in questione, si è spinto fino all’adozione di una generale clausola derogatoria della legislazione regionale, per quanto in un settore ove non emerge la necessità di costruire una rete di impianti collegati gli uni agli altri, e dunque in assenza di un imperativo di carattere tecnico che imponesse un’incondizionata subordinazione dell’interesse urbanistico ad esigenze di funzionalità della rete. Tale tecnica legislativa, proprio in ragione per un verso dell’ampiezza e per altro verso della indeterminatezza dell’intervento operato (con esso, infatti, si deroga indiscriminatamente all’intera legislazione regionale indicata), necessita di venire ricondotta a proporzionalità in via interpretativa, ciò che la formulazione letterale della norma consente. Va osservato, infatti, che la disposizione impugnata ha per oggetto le leggi regionali «che prevedono limiti di localizzazione territoriale». Questa Corte ritiene che tale espressione linguistica sia stata impiegata dal legislatore esattamente nell’accezione che, sia pure con riferimento ad un caso peculiare, già si è visto ricorrere nella sentenza n. 331 del 2003, per distinguerla dall’ipotesi dei consentiti «criteri di localizzazione», ovvero per il caso in cui la legge regionale determini, qui con specifico riguardo agli impianti di produzione di energia elettrica, un divieto di localizzazione tale da determinare l’impossibilità dell’insediamento e non permetta, nel contempo, una localizzazione alternativa. Non vengono coinvolte dalla deroga, pertanto, né la generale normativa regionale di carattere urbanistico, che non abbia ad oggetto gli impianti in questione, o che comunque non si prefigga di impedirne la realizzazione, né tantomeno le discipline regionali attinenti alle materie di competenza legislativa residuale o concorrente, che siano estranee al governo del territorio. Così interpretato, l’art. 27, comma 27, della legge impugnata si sottrae a censura, anche con riferimento al contenuto dell’intesa prevista dall’art. 1, comma 2, del decreto-legge n. 7 del 2002: va da sé, infatti, che in questa sede la Regione non potrà opporre allo Stato le sole ragioni impeditive desumibili dalla normativa oggetto di deroga, mentre le sarà consentito far valere, sotto ogni altro aspetto, le proprie prerogative. 18. – La Regione Toscana e la Regione Lazio hanno impugnato l’art. 3, comma 9, della legge n. 99 del 2009, il quale stabilisce che «al fine di garantire migliori condizioni di competitività sul mercato internazionale e dell’offerta di servizi turistici, nelle strutture turistico-ricettive all’aperto, le installazioni e i rimessaggi dei mezzi mobili di pernottamento, anche se collocati permanentemente, per l’esercizio dell’attività, entro il perimetro delle strutture turistico-ricettive regolarmente autorizzate, purché ottemperino alle specifiche condizioni strutturali e di mobilità stabilite dagli ordinamenti regionali, non costituiscono in alcun caso attività rilevanti ai fini urbanistici, edilizi e paesaggistici». La Regione Toscana lamenta che tale disposizione sia in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost. in quanto inciderebbe illegittimamente sulle competenze regionali in materia di governo del territorio, escludendo a priori che i mezzi mobili di pernottamento costituiscano attività rilevante dal punto di vista urbanistico, edilizio e paesaggistico, e consentendone dunque la libera realizzazione. Inoltre, riconoscendo la possibilità che i mezzi in questione siano collocati permanentemente senza la necessità di alcun titolo abilitativo, ad avviso della ricorrente la disposizione impugnata vanificherebbe l’art. 78 della legge della Regione Toscana 3 gennaio 2005, n. 1 (Norme per il governo del territorio), che, con disposizione del tutto analoga a quella statale contenuta nell’art. 3 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia. – Testo A), assoggetta a permesso di costruire le strutture mobili (quali prefabbricati, roulottes, campers, ecc.) che siano utilizzate come abitazioni, depositi, ambienti di lavoro e che non siano destinate a soddisfare esigenze meramente temporanee. Anche la Regione Lazio lamenta la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. dal momento che l’art. 3, comma 9, trascenderebbe l’ambito di intervento della fonte statale in materia di governo del territorio, circoscritto alla fissazione dei princìpi fondamentali. La disposizione impugnata detterebbe, infatti, una disciplina analitica e puntuale, precludendo al legislatore regionale la possibilità di operare differenti valutazioni in ordine alla rilevanza ai fini urbanistici ed edilizi degli interventi in questione. Ad avviso della Regione Lazio sarebbe, altresì, violato l’art. 117, quarto comma, Cost. Infatti, poiché l’art. 3, comma 9, della legge n. 99 del 2009 si propone l’obiettivo di migliorare l’offerta dei servizi turistici, esso inciderebbe nella materia del turismo riservata alla competenza residuale delle Regioni. 18.1. – Preliminarmente si osserva che, in quanto dettata per la suddetta finalità di miglioramento dell’offerta turistica ed in quanto concernente talune strutture turistico- ricettive, la norma in esame certamente interseca la materia del turismo. Tuttavia, poiché l’oggetto principale, il suo «nucleo essenziale» – secondo il consolidato criterio elaborato dalla giurisprudenza costituzionale (tra le più recenti, si vedano le sentenze n. 52 del 2010 e n. 339 del 2009) – è costituito dalla disciplina urbanistico-edilizia relativa alla installazione di mezzi mobili di pernottamento, essa deve essere ricondotta alla materia del governo del territorio di cui al terzo comma dell’art. 117 Cost. 18.2. – Ciò posto, la questione prospettata in relazione a tale ultimo parametro è fondata. La realizzazione di strutture mobili è espressamente disciplinata dal legislatore statale, che, all’art. 3 (L) del d.P.R. n. 380 del 2001, qualificando come «interventi di nuova costruzione» gli interventi di trasformazione edilizia e urbanistica del territorio, specifica, al punto e.5), che comunque devono considerarsi tali «l’installazione di manufatti leggeri, anche prefabbricati, e di strutture di qualsiasi genere, quali roulottes, campers, case mobili, imbarcazioni, che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili, e che non siano diretti a soddisfare esigenze meramente temporanee». La realizzazione di tali interventi è subordinata al conseguimento di specifico titolo abilitativo costituito dal permesso di costruire (salve le ipotesi in cui è prevista la denuncia inizio attività; confronta artt. 10 e 22). In sostanza, la normativa statale sancisce il principio per cui ogni trasformazione permanente del territorio necessita di titolo abilitativo e ciò anche ove si tratti di strutture mobili allorché esse non abbiano carattere precario. Il discrimine tra necessità o meno di titolo abilitativo è data dal duplice elemento: precarietà oggettiva dell’intervento, in base alle tipologie dei materiali utilizzati, e precarietà funzionale, in quanto caratterizzata dalla temporaneità dello stesso. Tale principio è stato ribadito da molti legislatori regionali (in particolare si vedano, in tal senso, la legge della Regione Toscana 3 gennaio 2005, n. 1, recante «Norme per il governo del territorio», art. 78 e la legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 recante «Legge per il governo del territorio», art. 27, comma 1, lettera e5). Il comma 9 dell’art. 3 in questione detta una disciplina concernente un ambito specifico, in quanto si riferisce esclusivamente alle «strutture turistico-ricettive all’aperto» (campeggi, villaggi turistici – secondo la individuazione fatta dalle varie leggi regionali). Inoltre, tale disposizione ha ad oggetto unicamente la installazione di mezzi mobili di pernottamento e dei relativi rimessaggi (il riferimento è a campers, roulottes, case mobili, ecc.). In queste ipotesi la disposizione impugnata esclude la rilevanza di tali attività a fini urbanistici ed edilizi (oltre che paesaggistici), e, conseguentemente, la necessità di conseguire apposito titolo abilitativo per la loro realizzazione, sulla base del mero dato oggettivo, cioè della precarietà del manufatto, dovendo trattarsi di «mezzi mobili» secondo quanto stabilito dagli ordinamenti regionali. Tale elemento strutturale è considerato a priori di per sé sufficiente, ed anzi è espressamente esclusa la rilevanza del dato temporale e funzionale dell’opera, in quanto si prevede esplicitamente che possa trattarsi anche di opere permanenti, sia pure connesse all’esercizio dell’attività turistico-ricettiva. Risulta pertanto evidente che l’intervento del legislatore statale presenta carattere di norma di dettaglio, in quanto ha ad oggetto una disciplina limitata a specifiche tipologie di interventi edilizi realizzati in contesti ben definiti e circoscritti. Se, come più volte chiarito da questa Corte, alla normativa di principio spetta di prescrivere criteri e obiettivi, mentre alla normativa di dettaglio è riservata l’individuazione degli strumenti concreti da utilizzare per raggiungere tali obiettivi (ex plurimis: sentenze n. 16 del 2010, n. 340 del 2009 e n. 401 del 2007), l’art. 3, comma 9, introduce una disciplina che si risolve in una normativa dettagliata e specifica che non lascia alcuno spazio al legislatore regionale. Essa, pertanto, oltrepassa i confini delle competenze che, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost. spettano al legislatore statale in materia di governo del territorio. In conclusione, l’art. 3, comma 9, della legge n. 99 del 2009 deve essere dichiarato illegittimo per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara inammissibili gli interventi dell’Associazione italiana per il World Wide Fund for Nature Onlus Ong (WWF), del Codacons, Coordinamento delle associazioni e dei comitati di tutela dell’ambiente e dei diritti degli utenti e dei consumatori, dell’ Enel s.p.a. e della Terna – Rete Elettrica Nazionale s.p.a.; dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 3, comma 9, della legge 23 luglio 2009, n. 99 (Disposizioni per lo sviluppo e l’internazionalizzazione delle imprese, nonché in materia di energia); dichiara inammissibile il ricorso indicato in epigrafe proposto dalla Regione Molise avverso gli artt. 25, comma 2, lettera g), e 26, comma 1, della legge n. 99 del 2009, in riferimento agli artt. 117, terzo comma e 118 della Costituzione e al principio di leale collaborazione; dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, lettera f), della legge n. 99 del 2009, promossa dalla Regione Marche in riferimento all’art. 3 della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe; dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, lettere g) e h), della legge n. 99 del 2009, promosse, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, dalla Regione Calabria, con il ricorso indicato in epigrafe; dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionalità dell’art. 25, comma 2, lettera g), della legge n. 99 del 2009, promosse dalle Regioni Umbria, Liguria, Emilia-Romagna e Puglia in riferimento all’art. 117, secondo comma, della Costituzione, con i ricorsi indicati in epigrafe; dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, lettera g), della legge n. 99 del 2009, promosse, in riferimento all’art. 120 della Costituzione, dalle Regioni Puglia e Calabria, con i ricorsi indicati in epigrafe; dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, lettera h), della legge n. 99 del 2009, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, della Costituzione, dalla Regione Emilia-Romagna, con il ricorso indicato in epigrafe; dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, lettera h), della legge n. 99 del 2009 promossa, in riferimento all’art. 120 della Costituzione, dalla Regione Calabria, con il ricorso indicato in epigrafe; dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, lettera g), della legge n. 99 del 2009, promosse dalle Regioni Lazio, Toscana, Umbria, Liguria, Emilia-Romagna, Marche, Puglia, Basilicata, Calabria, in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 della Costituzione e al principio di leale collaborazione, con i ricorsi indicati in epigrafe; dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, lettera h), della legge n. 99 del 2009, promosse dalle Regioni Toscana, Emilia-Romagna, Marche, Calabria, in riferimento agli artt. 117, terzo e quarto comma, e 118 della Costituzione e al principio di leale collaborazione, con i ricorsi indicati in epigrafe; dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, lettere l) e q), della legge n. 99 del 2009, promosse, in riferimento agli artt. 117 e 118 della Costituzione, dalla Regione Lazio, con il ricorso indicato in epigrafe; dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 27, comma 27, della legge n. 99 del 2009, promosse, in riferimento agli artt. 118 e 120 della Costituzione, dalla Regione Piemonte, con il ricorso indicato in epigrafe; dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 27, commi 14, 24, lettere c) e d), 28, 31 e 34 della legge n. 99 del 2009, promosse, in riferimento agli artt. 76, 97, 117 e 118 della Costituzione, dalla Regione Lazio, con il ricorso indicato in epigrafe; dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 1, della legge n. 99 del 2009, promosse dalle Regioni Lazio e Basilicata, in riferimento agli artt. 117 e 118 della Costituzione, e al principio di leale collaborazione quanto alla sola Regione Basilicata, con i ricorsi indicati in epigrafe; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 1, della legge n. 99 del 2009, promossa dalla Regione Lazio, in riferimento agli artt. 76 e 117, terzo comma, della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe; dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, lettera a), della legge n. 99 del 2009, promosse dalle Regioni Emilia-Romagna, Umbria, Liguria, Marche, Toscana, in riferimento agli artt. 117 e 118 della Costituzione e al principio di leale collaborazione, con i ricorsi indicati in epigrafe; dichiara inammissibili nella parte di cui al punto 14.3 del Considerato in diritto, e non fondate, nella parte di cui al punto 14.2 del Considerato in diritto, le questioni di legittimità costituzionalità dell’art. 25, comma 2, lettera f), della legge n. 99 del 2009, promosse dalle Regioni Umbria e Emilia-Romagna, in riferimento agli artt. 117, 118 e 120 della Costituzione, e al principio di leale collaborazione, con i ricorsi indicati in epigrafe; dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, lettera f), della legge n. 99 del 2009, promosse dalle Regioni Lazio, Toscana e Marche, in riferimento agli artt. 117, 118, 120 della Costituzione, e al principio di leale collaborazione, con i ricorsi indicati in epigrafe; dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 1, della legge n. 99 del 2009, promosse dalle Regioni Lazio, Umbria, Emilia-Romagna, Marche e Basilicata, in riferimento agli artt. 117, terzo e sesto comma, e 118 della Costituzione e al principio di leale collaborazione, con i ricorsi indicati in epigrafe; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 27, comma 27, della legge n. 99 del 2009 promossa dalle Regioni Umbria, Liguria e Piemonte, in riferimento all’art. 117, terzo comma, della Costituzione, con i ricorsi indicati in epigrafe; dichiara estinto il giudizio promosso dalla Regione Piemonte, con il ricorso indicato in epigrafe, limitatamente alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 25, comma 2, lettera g), e dell’art. 26, comma 1, della legge n. 99 del 2009, promosse in riferimento agli artt. 3, 117, terzo comma e 120 della Costituzione. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Ugo DE SIERVO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 22 luglio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA |