Deposito del 04/06/2010 (dalla 193 alla 197) |
S.193/2010 del 26/05/2010 Udienza Pubblica del 27/04/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore MADDALENA Norme impugnate: Artt. 5, c. 1°, lett. c), 7, c. 2°, lett. a), n. 3 e n. 4, e lett. d), n. 1, 8, c. 4°, 26 c. 1°, 27, c. 3°, e allegato B della legge della Regione Piemonte 29/06/2009, n. 19. Oggetto: Ambiente - Norme della Regione Piemonte - Testo unico sulla tutela delle aree naturali e della biodiversità - Zone naturali di salvaguardia - Ammissibilità della attività venatoria - Contrasto con la normativa nazionale di cui alla "Legge quadro sulle aree protette"; Beni culturali - Norme della Regione Piemonte - Test o unico sulla tutela delle aree naturali e della biodiversità - Finalità generali da perseguirsi da parte dei soggetti gestori delle aree - Previsione della finalità della tutela del patrimonio storico-culturale e architettonico - Contrasto con il codice dei beni culturali e del paesaggio; Finalità generali da perseguirsi da parte dei soggetti gestori delle aree - Previsione della finalità di garantire il recupero dei valori paesaggistico-ambientali - Contrasto con il codice dei beni culturali e del paesaggio; Previsione della finalità di tutela, gestione, valorizzazione del patrimonio archeologico - Contrasto con il codice dei beni culturali e del paesaggio; Paesaggio - Norme della Regione Piemonte - Testo unico sulla tutela delle aree naturali e della biodiversità - Aree naturali protette classificate parco naturale o zona naturale di salvaguardia - Previsione del piano di area con valore di piano territoriale r egionale sovraordinato a tutti i piani territoriali o urbanistici di q ualsiasi livello - Previsione del piano naturalistico avente valore di piano gestionale dell'area protetta, e vincolante ad ogni livello - Contrasto con il principio di cui al codice dei beni culturali e del paesaggio, della prevalenza del piano paesaggistico; Ambiente - Norme della Regione Piemonte - Testo unico sulla tutela delle aree naturali e della biodiversità - Conservazione e tutela degli habitat naturali e seminaturali - Rete ecologica europea "Rete Natura 2000" - Procedimento di valutazione di incidenza degli interventi - Previsione di misure di mitigazione in caso di incidenza negativa - Contrasto con la normativa statale che, in caso di valutazione di incidenza negativa, pone l'obbligo di adottare misure di compensazione e non di sola mitigazione. Dispositivo: illegittimità costituzionale - illegittimità costituzionale parziale - non fondatezza Atti decisi: ric. 57/2009 |
S.194/2010 del 26/05/2010 Udienza Pubblica del 11/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore FINOCCHIARO Norme impugnate: Art. 3, c. 1°, della legge della Regione Molise 27/08/2009, n. 22. Oggetto: Energia - Norme della Regione Molise - Disciplina degli insediamenti degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili - Impianti con capacità di generazione non superiore a 1 Mw elettrico - Autorizzazione dai Comuni competenti per territorio secondo le procedure semplificate stabilite dalle "linee guida" regionali - Contrasto con il riparto di funzioni autorizzative previsto dalla normativa nazionale che attribuisce la competenza alle Regioni e alle province delegate per gli impi anti di grandi dimensioni e assoggetta alla sola DIA, di competenza de i Comuni, gli impianti di piccole dimensioni - Lamentata fissazione di soglia di potenza diversa da quella prevista dalle norme statali. Dispositivo: illegittimità costituzionale Atti decisi: ric. 93/2009 |
S.195/2010 del 26/05/2010 Udienza Pubblica del 11/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore CASSESE Norme impugnate: Legge della Regione Lazio 16/04/2009, n. 14. Oggetto: Impiego pubblico - Norme della Regione Lazio - Sanatoria degli inquadramenti del personale, dirigenziale e non dirigenziale, effettuati ai sensi dell' art. 22, comma 8, della abrogata legge regionale n. 25 del 1996, e all'esito del procedimento c.d. di perequazione del personale di cui al Regolamento n. 2 del 2001 dichiarato illegittimo dal T.A.R. Lazio - Lamentata carenza precettiva del predetto comma 8 dell'art. 22, che non individua alcun criterio in base al quale realizzare i diversi inquadramenti del personale in servizio, nonché irragionevolezza della scelta di far salvi i risultati di un provvedimento annullato. Dispositivo: illegittimità costituzionale Atti decisi: ric. 44/2009 |
S.196/2010 del 26/05/2010 Camera di Consiglio del 12/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore QUARANTA Norme impugnate: Artt. 200 e 236 del codice penale; artt. 186, c. 2°, lett. c), e 187, c. 1°, ultimo period o, del codice della strada (d.lgs. 30.4.1992, n. 285), come modificati dall'art. 4, c. 1°, lett. b), del decreto legge 23/05/2008, n. 92, convertito, con modificazioni, in legge 24/07/2008, n. 125. Oggetto: Circolazione stradale - Reato di guida sotto l'influenza dell'alcool e reato di guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti - Modifiche normative recate dal decreto-legge n. 92 del 1998 - Previsione del sequestro preventivo e, in caso di sentenza di condanna ovvero di applicazione di pena su richiesta delle parti, della confisca obbligatoria del veicolo, non appartenente a terzo estraneo, con il quale è stato commesso il reato - Applicazione anche ai reati commessi in epoca anteriore all'entrata in vigore del decreto-legge n. 92 del 2008. Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale - inammissibilità Atti decisi: ord. 323/2009 |
S.197/2010 del 26/05/2010 Udienza Pubblica del 13/04/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore CRISCUOLO Norme impugnate: Art. 99, c. 2°, del decreto del Presidente della Repubblica 29/12/1973, n. 1092. Oggetto: Previdenza - Pensioni dei pubblici dipendenti - Soggetto titolare di più pensioni - Divieto di cumulo secondo il "diritto vivente" dell'indennità integrativa speciale sui diversi trattamenti prima della legge n. 724/1994 - Riproposizione di questione già oggetto della ordinanza della Corte n. 119/2008 di restituzione atti per 'ius superveniens'. Previdenza ed assistenza sociale - Pensioni dei pubblici dipendenti - Soggetto titolare di più pensioni - Divieto di cumulo secondo il "diritto vivente" dell'indennità ; integrativa speciale sui diversi trattamenti prima della entrata in vigore della legge n. 296/2006, con riferimento al titolare di due pensioni decorrenti entrambe da data anteriore all'1/1/1995. Dispositivo: non fondatezza - inammissibilità Atti decisi: ord. 193 e 287/2009 |
SENTENZA N. 193 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 1, lettera c), 7, comma 2, lettera a), n. 3 e n. 4, e lettera d), n. 1, 8, comma 4, 26, comma 1, 27, comma 3, e dell’allegato B della legge della Regione Piemonte 29 giugno 2009, n. 19 (Testo unico sulla tutela delle aree naturali e della biodiversità), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 28 agosto – 1° settembre 2009, depositato in cancelleria il 4 settembre 2009 ed iscritto al n. 57 del registro ricorsi 2009. Visto l’atto di costituzione della Regione Piemonte; udito nell’udienza pubblica del 27 aprile 2010 il Giudice relatore Paolo Maddalena; uditi l’avvocato dello Stato Massimo Salvatorelli per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Giovanna Scollo per la Regione Piemonte. Ritenuto in fatto 1. - Con ricorso notificato il 28 agosto 2009 e depositato il successivo 4 settembre, il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto, in via principale, questione di legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 1, lettera c), 7, comma 2, lettera a), n. 3 e n. 4, e lettera d), n. 1, 8, comma 4, 26, comma 1, 27, comma 3, e dell’allegato B della legge della Regione Piemonte 29 giugno, 2009, n. 19 (Testo unico sulla tutela delle aree naturali e della biodiversità). 2. - L’art. 5 della legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009 individua quattro categorie di aree protette a gestione regionale, provinciale e locale: parchi naturali, riserve naturali, zone naturali di salvaguardia e riserve speciali. Il comma 1, lettera c), del medesimo art. 5 specifica che nelle zone naturali di salvaguardia il regime d’uso e di tutela non condiziona l’attività venatoria e che esse sono caratterizzate da elementi di interesse ambientale o costituenti graduale raccordo tra il regime d’uso e di tutela delle altre tipologie di aree facenti parte della rete ecologica regionale ed i territori circostanti. Il successivo art. 8, comma 4, dispone che nelle predette zone naturali di salvaguardia si applicano i divieti nelle aree protette classificate come parco naturale o riserva naturale, ad eccezione dei divieti di attività venatoria, di introduzione ed utilizzo di armi o mezzi di cattura, di sorvolo a bassa quota di velivoli. Il Presidente del Consiglio dei ministri, rilevato che dal combinato disposto di tali due ultime disposizioni emerge che l’attività venatoria è consentita nelle zone naturali di salvaguardia, lamenta la violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, in relazione all’art. 22, comma 6, della legge 6 dicembre 1991, n. 394 (Legge quadro sulle aree protette), il quale prevede, invece, che nei parchi naturali regionali e nelle riserve naturali regionali l’attività venatoria è vietata salvo eventuali prelievi faunistici ed abbattimenti selettivi necessari per ricomporre squilibri ecologici. 2.1. - L’art. 7, comma 2, della legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009 individua le finalità perseguite dai soggetti gestori delle aree protette, prevedendo, in particolare: – che i soggetti gestori dei parchi naturali perseguono, tra gli altri fini, quello di tutelare e valorizzare il patrimonio storico-culturale e architettonico (art. 7, comma 2, lettera a), n. 3) e quello di garantire, attraverso un processo di pianificazione di area, l’equilibrio urbanistico-territoriale ed il recupero dei valori paesaggistico-ambientali (art. 7, comma 2, lettera a), n. 4); – che i soggetti gestori delle riserve speciali perseguono, tra gli altri fini, quello di tutelare, gestire e valorizzare il patrimonio archeologico, storico, artistico o culturale oggetto di protezione (art. 7, comma 2, lettera d), n. 1). Il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene che la finalità di tutelare il patrimonio storico-culturale e architettonico attribuita al soggetto gestore del parco naturale dall’art. 7, comma 2, lettera a), n. 3, della legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009 sarebbe in contrasto con gli artt. 4 e 5 (soprattutto commi 6 e 7) e con l’intera parte II del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137), che attribuisce allo Stato le funzioni di tutela in materia di patrimonio culturale, e ritiene, conseguentemente, che sarebbero violati gli artt. 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma, e 118 Cost., dato che la richiamata disciplina del Codice dei beni culturali costituirebbe una «norma interposta» in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. ed esprimerebbe un «principio fondamentale» ai sensi dell’ art. 117, terzo comma, Cost. Il ricorrente sostiene, poi, che la finalità di garantire il recupero dei valori paesaggistico-ambientali attribuita al soggetto gestore del parco naturale dall’art. 7, comma 2, lettera a), n. 4, della medesima legge regionale sarebbe in contrasto con l’intera parte III del d.lgs. n. 42 del 2004 ed, in specie, con l’art. 133, che assegnerebbe la funzione di recupero dei valori paesaggistici alla pianificazione congiunta Stato-Regione, e ritiene, conseguentemente, che sarebbero violati gli artt. 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma, e 118 Cost., dato che la richiamata disciplina del Codice dei beni culturali costituirebbe una «norma interposta» in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. ed esprimerebbe un «principio fondamentale» ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost. Il ricorrente assume, infine, che anche la finalità di tutela, gestione, valorizzazione del patrimonio archeologico attribuita al soggetto gestore della zona speciale dall’art. 7, comma 2, lettera d), n. 1, della medesima legge regionale sarebbe in contrasto con gli artt. 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma, e 118 Cost., dato che queste competenze sarebbero riservate alle Amministrazioni dello Stato e dato che non sarebbe ancora intervenuta nessuna legge statale a prevedere in materia forme di intesa e coordinamento tra Stato e Regioni ai sensi dell’art. 118, terzo comma, Cost. 2.2. - L’art. 26 della legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009 prevede che per le aree naturali protette classificate parco naturale o zona naturale di salvaguardia è redatto un piano di area che ha valore di piano territoriale regionale e sostituisce le norme difformi dei piani territoriali o urbanistici di qualsiasi livello. Il successivo art. 27 della medesima legge prevede che i piani naturalistici hanno valore di piano di gestione dell’area protetta e che le norme in esse contenute sono vincolanti ad ogni livello. Il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene che queste due ultime disposizioni sarebbero in contrasto con l’art. 145 del d.lgs. n. 42 del 2004 – che stabilisce il principio della prevalenza del piano paesaggistico sulle disposizioni contenute negli atti di pianificazione ad incidenza territoriale previsti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette – e, conseguentemente, che violerebbero gli artt. 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma, Cost., dato che la richiamata disciplina del Codice dei beni culturali, costituirebbe una «norma interposta» in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., ed esprimerebbe un «principio fondamentale» ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost. Per la difesa erariale le disposizioni impugnate sarebbero analoghe a quella dell’art. 12, comma 2, della legge della Regione Piemonte 19 febbraio 2007, n. 3, giudicata costituzionalmente illegittima dalla sentenza n. 180 del 2008 di questa Corte, in quanto alterava l’ordine di prevalenza che la normativa statale ha fissato tra gli strumenti di pianificazione paesaggistica. 2.3. - L’allegato B della legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009 specifica le fasi della valutazione di incidenza, prevista dall’art. 5 del decreto del Presidente della Repubblica 8 agosto 1997, n. 357 (Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche), dei progetti o dei piani su siti rientranti nella rete ecologica europea Natura 2000. Secondo l’impugnato allegato B, tale valutazione si articola su quattro livelli (I livello: screening; II livello: valutazione appropriata; III livello: valutazione delle soluzioni alternative; IV livello: valutazione in caso di assenza di soluzioni alternative in cui permane l’incidenza negativa). In particolare, al II livello (valutazione appropriata) si prescrive la «[c]onsiderazione dell’incidenza del progetto o piano sull’integrità del sito Natura 2000, singolarmente o congiuntamente ad altri piani o progetti, tenendo conto della struttura e funzione del sito, nonché dei suoi obiettivi di conservazione» e «[i]n caso di incidenza negativa, si aggiunge anche la determinazione delle possibilità di mitigazione». Il Presidente del Consiglio dei ministri sostiene che l’ultima parte di questa disposizione sarebbe in contrasto con l’art. 5 del d.P.R. n. 357 del 1997, per il quale, qualora nonostante le conclusioni negative della valutazione di incidenza sul sito ed in mancanza di soluzioni alternative possibili, il piano o l’intervento debba essere realizzato per motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, inclusi motivi di natura sociale ed economica, le amministrazioni competenti adottano ogni misura compensativa necessaria. Conseguentemente sarebbe violato l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. Per la difesa erariale, in caso di conclusione negativa della valutazione di incidenza sussisterebbe, infatti, l’obbligo di adottare misure di compensazione e non mere misure di mitigazione, quali quelle previste dalla disciplina regionale, le quali sarebbero, invece, previste in caso di conclusione positiva della valutazione di incidenza. 3.( La Regione Piemonte si è costituita con una memoria nella quale sostiene l’infondatezza del ricorso. 3.1. - Per quanto attiene alla censura degli artt. 5, comma 1, lettera c), e 8, comma 4, della legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009, la difesa regionale sostiene l’infondatezza della questione, rilevando che la disciplina nazionale invocata dal ricorrente (art. 22, comma 6, legge n. 394 del 1991) vieta (esattamente come la stessa legge regionale n. 19 del 2009) l’attività venatoria nei parchi naturali e nelle riserve naturali regionali, ma non la vieta affatto nelle zone naturali di salvaguardia. Zone, queste ultime, sconosciute alla disciplina nazionale, non riconducibili né ai parchi né alle riserve naturali regionali ed introdotte dal legislatore regionale, quali aree di graduale raccordo tra la rete ecologica regionale e le aree circostanti. 3.2. - Per quanto attiene alla censura degli artt. 7, comma 2, lettera a), n. 3 e n. 4, e 7, comma 2, e lettera d), n. 1, della legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009 la difesa regionale sostiene che «la condivisione ed il rispetto di finalità di tutela, definite in primis dalla legge statale», non potrebbe in alcun modo essere intesa «come forma di prevaricazione delle competenze dello Stato». In riferimento ai mancati accordi lamentati dal ricorrente per la tutela, gestione e valorizzazione del patrimonio archeologico, storico o culturale, la difesa regionale rileva, poi, che l’art. 5 della legge n. 394 del 1991 prevede quale principio fondamentale la partecipazione degli enti locali nell’istituzione e nella gestione delle aree protette ed un utilizzo del territorio compatibile con la speciale destinazione dell’area e che l’art. 5 del d.lgs. n. 42 del 2004 prevede la cooperazione delle Regioni e degli enti locali in materia di tutela del patrimonio culturale, nonché il concorso delle Regioni nel sostenere la conservazione del patrimonio culturale e nel favorirne la pubblica fruizione e valorizzazione. La difesa regionale osserva, inoltre, che sette dei nove siti individuati quali riserve speciali sarebbero “Sacri Monti”, disciplinati dalla legge 20 febbraio 2006, n. 77 (Misure speciali di tutela e fruizione dei siti italiani di interesse culturale, paesaggistico, ambientale, inseriti nella lista del patrimonio mondiale, posti sotto la tutela dell’UNESCO), in ordine ai quali, sin dal 2003, lo Stato avrebbe riconosciuto un ruolo alla Regione, mentre negli altri due siti classificati riserve speciali (La Bessa e la Benevagienna) insisterebbero da decenni vincoli di tutela ministeriale per rilevanti reperti archeologici di epoca romana. Conseguentemente, qualsiasi intervento regionale di conservazione in queste aree sarebbe preventivamente sottoposto al giudizio ed alla autorizzazione degli organismi statali preposti alla tutela. La legge regionale, pertanto, non prefigurerebbe una autonoma competenza regionale finalizzata alla tutela dei beni storico-culturali, ma al contrario traccerebbe il percorso per garantire una concomitante azione di salvaguardia e valorizzazione degli stessi. 3.3. - Per quanto attiene alla censura degli artt. 26 e 27 della legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009, la difesa regionale sostiene che il ricorso si fonderebbe su di una erronea interpretazione delle disposizioni censurate. La sovraordinazione del piano d’area dei parchi naturali e delle zone naturali di salvaguardia, avente valore di piano territoriale regionale, su tutte le norme difformi dei piani territoriali ed urbanistici (art. 26) e la vincolatività ad ogni livello del piano naturalistico, avente valore di piano gestionale dell’area protetta, non negherebbero affatto la prevalenza del piano paesaggistico su ogni atto di pianificazione ad incidenza territoriale diciplinato dalla normative di settore prevista dall’art. 145 del d.lgs. n. 42 del 2004, ma andrebbero, piuttosto, intese nel senso della prevalenza di detti piani (soltanto) sugli altri strumenti di pianificazione locale riconducibili alla materia regionale del gov erno del territorio. Non vi sarebbe, poi, alcuna analogia tra le disposizioni attualmente impugnate e quella oggetto della sentenza n. 180 del 2008 di questa Corte, atteso che le attuali disposizioni non confondono (come invece faceva l’art. 12, comma 2, della legge della Regione Piemonte n. 3 del 2007) la pianificazione territoriale e quella paesaggistica, ma le tengono rigorosamente separate, pur nell’impronta unitaria della pianificazione paesaggistica affermata dalla predetta sentenza n. 180 del 2008. A dimostrazione di questa sua tesi, la Regione Piemonte richiama il piano paesaggistico regionale (d’ora in poi: Ppr) approvato il 4 agosto 2009, il quale, dopo avere riconosciuto (art. 2) i contenuti dei piani d’area, dei piani paesaggistici o territoriali a valenza paesaggistica regionali e provinciali preesistenti, prevede (art. 2, comma 5) che questi devono essere sottoposti a verifica congiunta con il Ministero entro dodici mesi dalla approvazione del Ppr al fine di un loro adeguamento o di riconoscerne la natura attuativa delle previsioni del Ppr, e prevede (art. 46) che i soggetti gestori delle aree naturali protette devono conformare o adeguare i propri strumenti di pianificazione territoriale alle norme del Ppr entro 24 mesi dalla sua approvazione. 3.4. - Anche per quanto attiene alla censura dell’allegato B della legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009, la difesa regionale sostiene che il ricorso si fonderebbe su di una erronea interpretazione delle disposizioni censurate ed, in particolare, su di una confusione in ordine ai diversi momenti del procedimento in cui intervengono la valutazione delle misure di mitigazione e quella delle misure di compensazione, nonché in ordine alle differenti funzioni di tali due tipologie di misure. La difesa regionale specifica, al riguardo, che la disciplina contestata (nonché la terminologia utilizzata) sarebbe meramente recettiva di quella presente nella pubblicazione «Valutazione di piani e progetti aventi un incidenza significativa sui siti della rete Natura 2000. Guida metodologica alle disposizioni dell’articolo 6, paragrafi 3 e 4 della direttiva Habitat 92/43/CEE», redatta dalla Oxford Brookers University per conto della Commissione europea. In tale guida, disponibile anche sul sito internet del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, nella II fase («valutazione appropriata»), si evidenzia che, una volta individuati gli effetti negativi del piano o progetto e chiarito quale sia l’incidenza sugli obiettivi di conservazione del sito, è possibile individuare in modo mirato le necessarie misure di mitigazione/attenuazione. Tali misure, specifica la difesa regionale, sempre richiamando tale pubblicazione, sarebbero concettualmente diverse dalle misure di compensazione che sono previste ed intervengono nella IV fase («valutazione in caso di assenza di soluzioni alternative in cui permane l’incidenza negativa»), in quanto: a) le misure di mitigazione tendono alla riduzione degli effetti negativi degli interventi (e, in questo senso, se ben realizzate riducono o prevengono la stessa necessità di misure di compensazione); b) le misure di compensazione sono volte a garantire, nei casi in cui l’intervento è imprescindibile ed inevitabile, la continuità del contributo funzionale di un sito alla conservazione in uno stato soddisfacente di uno o più habitat o specie nella regione biogeografia interessata. Il ricorso statale sarebbe, pertanto, infondato, laddove invoca la violazione dell’art. 5 del d.P.R. n. 357 del 1997, posto che anche l’impugnato allegato B, esattamente come la norma statale asseritamente violata, prevede (nella IV fase della valutazione) l’adozione di misure di compensazione ed atteso che la previsione (nella II fase della valutazione) di misure di mitigazione si aggiunge e non si sostituisce alla adozione (nella IV fase della valutazione) delle obbligatorie misure di compensazione. Considerato in diritto 1. - Il Presidente del Consiglio dei ministri ha proposto, in via principale, questione di legittimità costituzionale degli artt. 5, comma 1, lettera c), 7, comma 2, lettera a), n. 3 e n. 4, e lettera d), n. 1, 8, comma 4, 26, comma 1, 27, comma 3, e dell’allegato B della legge della Regione Piemonte 29 giugno 2009, n. 19 (Testo unico sulla tutela delle aree naturali e della biodiversità). 2. - Al fine della soluzione delle questioni proposte, occorre premettere che la istituzione di aree protette statali o regionali mira a “tutelare” ed a “valorizzare” quei territori che presentano valori culturali, paesaggistici ed ambientali, meritevoli di salvaguardia e di protezione. E non è dubbio, di conseguenza, che, una volta che la legge quadro sulle aree protette n. 394 del 1991 ha previsto l’esistenza di aree protette regionali, distinguendole da quelle statali sulla base del criterio della dimensione dell’interesse tutelato, e ne ha affidato alle Regioni la gestione, queste ultime devono esercitare competenze amministrative inerenti, sia alla “tutela”, sia alla “valorizzazione” di tali ecosistemi. La modifica del Titolo V della Parte seconda della Costituzione, introducendo, all’art. 117, secondo comma, lettera s), la competenza esclusiva dello Stato in materia di “tutela” dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali (sentenza n. 272 del 2009), ha mutato il quadro di riferimento in cui si inseriva la legge n. 394 del 1991, prevedendo che le competenze legislative in materia di “tutela” spettano esclusivamente allo Stato, mentre le Regioni possono esercitare soltanto funzioni amministrative di “tutela” se ed in quanto ad esse conferite dallo Stato, in attuazione del principio di sussidiarietà, di cui all’art. 118, primo comma, Cost. Nel mutato contesto dell’ordinamento, la legge quadro n. 394 del 1991 deve essere interpretata come una legge di conferimento alle Regioni di funzioni amministrative di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, da esercitare secondo il principio di cooperazione tra Stato e Regioni, come, d’altronde, precisa l’art. 1, comma 5, della legge medesima, il quale statuisce che «nella tutela e nella gestione delle aree naturali protette, lo Stato, le Regioni e gli enti locali attuano forme di cooperazione e di intesa, ai sensi dell’art. 81 del d.P.R. 24 luglio 1977, n. 616, e dell’art. 27 della legge 8 giugno 1990, n. 142». E’, dunque, attribuito alle Regioni l’esercizio delle funzioni amministrative indispensabili per il perseguimento dei fini propri delle aree protette: la funzione di tutela e quella di valorizzazione. Dette funzioni amministrative, che sono tra loro nettamente distinte, devono peraltro essere esercitate in modo che siano comunque soddisfatte le esigenze della tutela, come si desume dagli artt. 3 e 6 del d.lgs. 42 del 2004, nonché dall’art. 131 dello stesso decreto. In questo quadro, pertanto, le Regioni, se da un lato non possono invadere le competenze legislative esclusive dello Stato in materia di tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali, dall’altro sono tenute a rispettare la disciplina dettata dalle leggi statali, le quali, per quanto riguarda la “tutela”, prevedono il conferimento alle Regioni di precise funzioni amministrative, imponendo per il loro esercizio il rispetto del principio di cooperazione tra Stato e Regioni, e, per quanto riguarda le funzioni di “valorizzazione”, dettano i principi fondamentali che le Regioni stesse sono tenute ad osservare. 3. - La prima questione posta dal ricorrente concerne l’esercizio dell’attività venatoria in quelle zone che la legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009 definisce «zone naturali di salvaguardia». La questione riguarda l’art. 5, comma 1, lettera c), e l’art. 8, comma 4, che consentono l’attività venatoria nelle zone naturali di salvaguardia e che sono congiuntamente impugnati dal Presidente del Consiglio dei ministri per contrasto con l’art. 22 della legge n. 394 del 1991, che vieta l’attività venatoria nei parchi naturali e nelle riserve naturali regionali, e, di conseguenza, per violazione dell’art. 117, comma secondo, lettera s), Cost. La questione è fondata. L’art. 5, comma 1, della legge regionale n. 19 del 2009, nell’introdurre le cosiddette «zone naturali di salvaguardia», le classifica espressamente tra le aree protette. Si tratta, peraltro, di una tipologia di area protetta non prevista dalla disciplina statale (cui spetta, ai sensi dell’art. 3, comma 4, della legge quadro n. 394 del 1991, la “classificazione”, e quindi la “denominazione”, delle aree protette) e di cui non sarebbe stata, quindi, consentita l’introduzione da parte del legislatore regionale (posto che la deliberazione 2 dicembre 1996, tuttora vigente, del Comitato per le aree naturali protette, ora sostituito dalla Conferenza permanente per i rapporti Stato-Regioni, non ha previsto, e quindi non ha consentito, la tipologia di area protetta introdotta dal legislatore regionale). Prescindendo, tuttavia, da tale profilo, deve in ogni caso ritenersi che il divieto di attività venatoria, previsto dall’art. 22, comma 6, della legge quadro n. 394 del 1991 per i parchi e le riserve naturali regionali (ovvero per le aree protette regionali previste e consentite dalla legis lazione statale) si applichi anche alle zone naturali di salvaguardia, dato che il fine di protezione della fauna è connaturato alla funzione propria di qualsiasi area protetta. Il divieto di caccia, infatti, è una delle finalità più rilevanti che giustificano l’istituzione di un’area protetta, poiché oggetto della caccia è la fauna selvatica, bene ambientale di notevole rilievo, la cui tutela rientra nella materia “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”, affidata alla competenza legislativa esclusiva dello Strato, che deve provvedervi assicurando un livello di tutela, non “minimo”, ma «adeguato e non riducibile», come ha puntualizzato la più recente giurisprudenza di questa Corte, restando salva la potestà della Regione di prescrivere, purché nell’esercizio di proprie autonome competenze legislative, livelli di tutela più elevati (sentenza n. 61 del 2009). Il divieto di esercizio dell’attività venatoria nelle aree protette, affermato dalla legge n. 394 del 1991, è stato, d’altronde, ribadito pure dalla legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme sulla protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), la quale, nel prevedere che «la fauna selvatica è patrimonio indisponibile dello Stato» (art. 1, comma 1) e che «l’esercizio dell’attività venatoria è consentito purché non contrasti con l’esigenza di conservazione della fauna selvatica» (art. 1, comma 2), annovera, tra le materie riservate allo Stato (e non delegate, oggi si direbbe non conferite, alle Regioni), «l’individuazione delle specie cacciabili e dei periodi di attività venatoria» (art. 18), nonché la previsione di una serie di divieti (art. 21), tra i quali il divieto dell’esercizio dell’attività venatoria «nei parchi nazionali, nei parchi natura li regionali, nelle riserve naturali». 3.1. - La seconda questione concerne la legittimità costituzionale dell’affidamento ai gestori dei parchi naturali regionali del compito di tutelare il patrimonio storico-culturale ed architettonico, nonché dell’affidamento ai gestori delle aree protette denominate «riserve speciali» del compito di tutelare il patrimonio archeologico, storico, artistico e culturale. Dette norme, che il ricorrente considera in contrasto con gli artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 42 del 2004, e, quindi, con gli artt. 117 e 118 Cost., si rinvengono, rispettivamente, nell’art. 7, comma 2, lettera a), n. 3, e comma 2, lettera d), n. 1, della legge regionale di cui si tratta. Le questioni sono fondate nei limiti di seguito precisati. Infatti, le impugnate disposizioni, con le quali la Regione Piemonte dispone autonomamente, al di fuori di ogni forma di cooperazione con lo Stato, l’assegnazione di compiti di tutela, valorizzazione e gestione del patrimonio culturale ai gestori dei parchi naturali regionali e delle riserve speciali, sono chiaramente in contrasto con gli artt. 4 e 5 del d.lgs. n. 42 del 2004, che impongono detta cooperazione quale presupposto per l’esercizio da parte delle Regioni di funzioni amministrative di tutela, nella parte in cui si riferiscono (non solo alla gestione o alla valorizzazione, ma anche) alla tutela del patrimonio storico-culturale ed architettonico o di quello archeologico, storico, artistico e culturale. Pertanto, alla luce delle considerazioni sopra svolte (sub 3), va dichiarata l’illegittimità costituzionale del suddetto art. 7, comma 2, lettera a), n. 3, limitatamente alle parole «tutelare e», nonché dell’art. 7, com ma 2, lett. d), n. 1, limitatamente alla parola «tutelare». 3.2. - Ulteriore questione posta dal ricorrente riguarda la violazione degli artt. 117, secondo comma, lettera s), e terzo comma, e 118 Cost., in relazione alla parte III del d.lgs. n. 42 del 2004 ed, in particolare, all’art. 133, da parte dell’art. 7, comma 2, lettera a), n. 4, della legge regionale piemontese, secondo il quale è compito dei gestori dei parchi naturali regionali «garantire, attraverso un processo di pianificazione di area, l’equilibrio urbanistico-territoriale ed il recupero dei valori paesaggistico-ambientale». Anche tale questione è fondata. Il citato art. 133 del d.lgs. n. 42 del 2004 ribadisce il principio di cooperazione tra le amministrazioni pubbliche per «la definizione di indirizzi e criteri riguardanti le attività di tutela, pianificazione, recupero, riqualificazione e valorizzazione del paesaggio». La Regione, invece, ha legiferato autonomamente. Per le stesse ragioni sopra indicate deve, pertanto, dichiararsi l’illegittimità costituzionale anche di detta disposizione. 3. 3. - La quarta questione posta dal ricorrente riguarda congiuntamente gli art. 26 e 27 della legge regionale del Piemonte, per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lett. s), e terzo comma, Cost., in relazione all’art. 145 del d.lgs. n. 42 del 2004. L’art. 26 di detta legge prevede che per le aree naturali protette classificate parco naturale o zone naturali di salvaguardia è redatto un piano di area, che ha valore di piano territoriale regionale e sostituisce le norme difformi dei piani territoriali o urbanistici di qualsiasi livello, mentre l’art. 27 della medesima legge regionale prevede che i piani naturalistici hanno valore di piani di gestione dell’area protetta e le norme in essa prevedute sono vincolanti ad ogni livello. La questione è fondata. Le disposizioni censurate contrastano, infatti, con l’art. 145 del d.lgs. n. 42 del 2004, il quale pone il principio della prevalenza del piano paesaggistico sugli atti di pianificazione ad incidenza territoriale posti dalle normative di settore, ivi compresi quelli degli enti gestori delle aree naturali protette. Per le ragioni già chiarite dalla giurisprudenza di questa Corte (cfr. sentenze n. 180 e n. 437 del 2008) deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale anche di queste disposizioni. 3.4. - L’ultima questione proposta riguarda l’allegato B della legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009. Secondo il ricorrente, detto allegato, articolato in quattro livelli di valutazione di incidenza di un progetto o piano sulle circostanti aree protette, prevede, al secondo livello, che «in caso di incidenza negativa, si aggiunge anche la determinazione delle possibilità di mitigazione», là dove, trattandosi di incidenza negativa, avrebbe dovuto prevedere, ai sensi dell’art. 5, comma 9, del d.P.R. 8 settembre 1997, n. 357 (Regolamento recante attuazione della direttiva 92/43/CEE relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali, nonché della flora e della fauna selvatiche), misure di compensazione e non di mitigazione. La questione non è fondata. Infatti, la legge regionale si è limitata ad includere nell’allegato B le linee guida redatte per conto della Commissione europea, le quali prevedono quattro livelli di valutazione di incidenza, secondo l’intensità dell’incidenza stessa, e prescrivono, per il secondo livello, l’adozione, in ogni caso, di misure di mitigazione, dirette a minimizzare l’impatto ambientale negativo dell’intervento, piano o programma, e prevedono per il quarto livello, relativo a interventi e programmi di incidenza fortemente negativa, ma necessitati da motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, l’imposizione anche di misure di compensazione, che possano garantire l’equilibrio della conservazione degli habitat naturali nell’ambito dell’intera regione biogeografica interessata. In altri termini, le misure di mitigazione previste dall’allegato B non sono sostitutive di quelle di conservazione, e la l oro previsione, imposta dal diritto comunitario, è coerente con le prescrizioni di cui all’art. 5 del d.P.R. n. 357 del 1997, di attuazione della direttiva 92/43/CEE. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale degli artt. 5, comma 1, lettera c); 7, comma 2, lettera a), n. 4; 8, comma 4; 26, comma 1, e 27, comma 3, della legge della Regione Piemonte 29 giugno, 2009, n. 19 (Testo unico sulla tutela delle aree naturali e della biodiversità); dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 2, lettera a), n. 3, della legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009, limitatamente alle parole «tutelare e», e dell’art. 7, comma 2, lettera d), n. 1, della stessa legge, limitatamente alla parola «tutelare»; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’Allegato B della stessa legge della Regione Piemonte n. 19 del 2009, sollevata, in relazione all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 maggio 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Paolo MADDALENA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 giugno 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA SENTENZA N. 194 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge della Regione Molise 7 agosto 2009, n. 22 (Nuova disciplina degli insediamenti degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili nel territorio della Regione Molise), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 13-16 ottobre 2009, depositato in cancelleria il 20 ottobre 2009 ed iscritto al n. 93 del registro ricorsi 2009. Udito nell’udienza pubblica dell’11 maggio 2010 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro; udito l’avvocato dello Stato Enrico Arena per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. – Con ricorso notificato alla Regione Molise il 13 ottobre 2009, e depositato presso la cancelleria della Corte costituzionale il 20 luglio 2009, il Presidente del Consiglio dei ministri ha chiesto a questa Corte di dichiarare l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge della Regione Molise 7 agosto 2009, n. 22 (Nuova disciplina degli insediamenti degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili nel territorio della Regione Molise), per violazione dell’art. 117, terzo comma, nonché degli artt. 3 e 97 Cost. Il testo della norma impugnata dispone che «fermo restando quanto previsto all’articolo 12, comma 5, del decreto legislativo n. 387/2003, e successive modificazioni ed integrazioni, gli impianti per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili con capacità di generazione non superiore a 1 Mw elettrico sono autorizzati dai Comuni competenti per territorio secondo le procedure semplificate stabilite dalle “linee guida” regionali». Secondo il ricorrente, la disposizione impugnata configurerebbe un riparto di funzioni autorizzative diverso da quello stabilito dall’art. 12 del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla produzione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità), che al comma 3 stabilisce testualmente che «la costruzione e l’esercizio degli impianti di produzione di energia elettrica alimentati da fonti rinnovabili (…) sono soggetti ad una autorizzazione unica, rilasciata dalla regione e dalle provincie delegate dalla regione» e al comma 5 prevede: «all’installazione degli impianti di fonte rinnovabile di cui all’articolo 2, comma 1, lettere b) e c) per i quali non è previsto il rilascio di alcuna autorizzazione, non si applicano le procedure di cui ai commi 3 e 4. Ai medesimi impianti, quando la capacità di g enerazione sia inferiore alle soglie individuate dalla tabella A allegata al presente decreto, con riferimento alla specifica fonte, si applica la disciplina della denuncia di inizio attività di cui agli articoli 22 e 23 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, e successive modificazioni. Con decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, d’intesa con la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, e successive modificazioni, possono essere individuate maggiori soglie di capacità di generazione e caratteristiche dei siti di installazione per i quali si procede con la medesima disciplina della denuncia di inizio attività». Ad avviso del ricorrente, la disciplina nazionale, dunque, affidando alle Regioni o alle Province delegate il rilascio dell’autorizzazione unica alla costruzione ed esercizio degli impianti alimentati da fonti rinnovabili e assoggettando alla sola denuncia di inizio attività (DIA) gli impianti stessi unicamente quando la loro capacità di generazione sia inferiore alle soglie individuate dalla tabella A del decreto legislativo medesimo, persegue, nel rispetto dell’articolo 118 Cost., lo scopo di assicurare l’esercizio unitario delle funzioni amministrative relative agli impianti di grandi dimensioni, riservando ai Comuni soltanto la competenza relativa agli impianti di più piccole dimensioni, per i quali tale esigenza non si pone e per i quali è sufficiente la presentazione della DIA. L’impugnata norma regionale, fissando una soglia di potenza diversa da quanto previsto dalla tabella A allegata al d.lgs. n. 387 del 2003, violerebbe l’assetto di competenze deciso conformemente all’art. 118 Cost. e si porrebbe in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione ai principi fondamentali in materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia. La deroga alle soglie di capacità di generazione e caratteristiche dei siti di installazione, per i quali è applicabile la disciplina della DIA, sarebbe invece introducibile solo con decreto interministeriale, d’intesa con la Conferenza unificata. Non sarebbe quindi legittima una norma regionale che, al di fuori del quadro tracciato dal legislatore nazionale, pone soglie di potenza diverse e/o maggiori, senza nemmeno distinguere tra le diverse tipologie di fonte rinnovabile. Non ha svolto attività difensiva in questa sede la Regione Molise. Considerato in diritto 1. – Con il ricorso in epigrafe, il Presidente del Consiglio dei ministri dubita della legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge della Regione Molise 7 agosto 2009, n. 22 (Nuova disciplina degli insediamenti degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili nel territorio della Regione Molise), per violazione dell’art. 117, terzo comma, nonché degli artt. 3 e 97 della Costituzione. La norma censurata, attribuendo ai Comuni la competenza autorizzativa degli impianti per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili con capacità di generazione non superiore a 1 Mw elettrico, secondo le procedure semplificate stabilite dalle “linee guida” regionali, porrebbe una disciplina contrastante con quella nazionale di settore, costituita dall’art. 12 del d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla produzione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità), che affida alle Regioni o alle Province delegate il rilascio dell’autorizzazione unica alla costruzione ed esercizio degli impianti alimentati da fonti rinnovabili e assoggetta alla sola denuncia di inizio attività (DIA) gli impianti stessi, unicamente quando la loro capacità di generazione sia inferiore alle soglie individuate dalla tab ella A, con possibilità di deroga alle soglie di capacità di generazione e caratteristiche dei siti di installazione per i quali è applicabile la disciplina della DIA, solo con decreto interministeriale, d’intesa con la Conferenza unificata. 2. – La questione, con riferimento alla violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., è fondata. 3. – L’art. 3, comma 1, della legge della Regione Molise n. 22 del 2009, dispone che «fermo restando quanto previsto all’articolo 12, comma 5, del decreto legislativo n. 387/2003, e successive modificazioni ed integrazioni, gli impianti per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili con capacità di generazione non superiore a 1 Mw elettrico sono autorizzati dai Comuni competenti per territorio secondo le procedure semplificate stabilite dalle “linee guida” regionali». La norma impugnata, pur richiamandosi alla disciplina statale, crea una competenza autorizzatoria, a favore dei Comuni, per tipi di impianti caratterizzati da determinate capacità di generazione, che in realtà risulta derogatoria rispetto all’assetto delineato dal d.lgs. n. 387 del 2003, che all’art. 12 assoggetta la costruzione ed esercizio degli impianti alimentati da fonti rinnovabili all’autorizzazione unica delle Regioni (o delle Province delegate), e ove la capacità di generazione degli stessi impianti sia inferiore alle soglie individuate dalla tabella A dello stesso d.lgs. n. 387 del 2003, ne subordina la costruzione e l’esercizio alla sola denuncia di inizio attività (DIA). Riguardo alla regolamentazione dei titoli abilitativi, in particolare alle ipotesi di applicabilità di procedure semplificate in alternativa all’autorizzazione unica, è riconoscibile l’esercizio della legislazione di principio dello Stato in materia di “produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia” (cui va ricondotta la disciplina degli insediamenti di impianti eolici e fotovoltaici: sentenze n. 282 del 2009, n. 364 del 2006), per esigenze di uniformità e di esercizio unitario di funzioni amministrative relative ai problemi energetici di livello nazionale (sentenza n. 383 del 2005), come più in generale nelle materie di competenza concorrente (sentenza n. 119 del 2010). L’autorizzazione unica regionale prevista dal d.lgs. n. 387 del 2003, solo limitatamente derogabile a favore di procedure semplificate, concreta, del resto, una procedura uniforme mirata a realizzare le esigenze di tempestività e contenimento dei termini per la conclusione dei procedimenti amministrativi inerenti alla costruzione ed esercizio degli impianti alimentati da fonti rinnovabili, che resterebbe vanificata ove ad essa si abbinasse o sostituisse una disciplina regionale, anche se concepita nell’ambito di una diversa materia (ordinanza n. 203 del 2006). Ulteriore profilo di illegittimità della norma regionale si rileva nell’aumento della soglia di potenza per la quale, innalzando la capacità, dai limiti ben più contenuti di cui alla tabella A allegata al d.lgs. n. 387 del 2003, a 1 Mw elettrico, la costruzione dell’impianto risulta subordinata a procedure semplificate, laddove maggiori soglie di capacità di generazione e caratteristiche dei siti di installazione, per i quali si proceda con diversa disciplina, possono essere individuate solo con decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, d’intesa con la Conferenza unificata, senza che la Regione possa provvedervi autonomamente (sentenze n. 119 e n. 124 del 2010). 4. – Gli ulteriori profili di censura – peraltro nemmeno argomentati nel ricorso –sono assorbiti. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, della legge della Regione Molise 7 agosto 2009, n. 22 (Nuova disciplina degli insediamenti degli impianti di produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili nel territorio della Regione Molise). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 maggio 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Alfio FINOCCHIARO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 giugno 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA SENTENZA N. 195 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Lazio 16 aprile 2009, n. 14 (Disposizioni in materia di personale), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 22 giugno 2009, depositato in cancelleria il 30 giugno 2009 ed iscritto al n. 44 del registro ricorsi 2009. Visto l’atto di costituzione della Regione Lazio; udito nell’udienza pubblica dell’11 maggio 2010 il Giudice relatore Sabino Cassese; uditi l’avvocato dello Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Massimo Luciani per la Regione Lazio. Ritenuto in fatto 1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato, in riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione, la legge della Regione Lazio 16 aprile 2009, n. 14 (Disposizioni in materia di personale), il cui art. 1, in particolare, dispone quanto segue: «1. In considerazione del processo di riorganizzazione delle strutture regionali, al fine di favorire la razionalizzazione degli organici, assicurare il buon andamento dell’amministrazione evitando interruzioni e disfunzioni nell’attività gestionale, è fatta salva la qualifica o categoria già attribuita al personale alla data di entrata in vigore della presente legge per effetto dell’applicazione dell’articolo 22, comma 8, della legge regionale 1° luglio 1996, n. 25 (Norme sulla dirigenza e sull’organizzazione regionale) e successive modifiche, purché lo stesso abbia svolto le funzioni o mansioni corrispondenti alla predetta qualifica o categoria, conferite con atto formale ed effettivamente esercitate per almeno un triennio. 2. Le disposizioni di cui al comma 1 si applicano al personale dei ruoli regionali in servizio alla data di entrata in vigore della presente legge. 3. È fatta salva la posizione economica acquisita dal personale, anche in stato di quiescenza, a seguito dell’espletamento delle funzioni o mansioni, correlate alla qualifica o categoria già rivestita, purché formalmente attribuite». Il Presidente del Consiglio dei ministri premette che scopo della legge censurata è il mantenimento degli obiettivi perequativi fissati dall’art. 22 della legge della Regione Lazio 1° luglio 1996, n. 25 (Norme sulla dirigenza e sull’organizzazione regionale), con la quale, ai fini della soluzione delle «sperequazioni determinatesi in sfavore del personale regionale non inquadrato ai sensi delle leggi fino ad allora intervenute in materia e richiamate dalla stessa norma», si rinviava ad un «successivo provvedimento legislativo». Il ricorrente inoltre riferisce che è successivamente stato approvato il regolamento della Giunta regionale 10 maggio 2001, n. 2 (Regolamento di attuazione dell’art. 22, comma 8, della legge regionale 1° luglio 1996, n. 25), che ha disciplinato puntualmente il procedimento relativo al nuovo inquadramento del personale interessato alla c.d. perequazione, la cui conclusione ha condotto all’attribuzione d i nuove qualifiche, dirigenziali e non dirigenziali, a circa 480 dipendenti regionali, risultati in possesso dei requisiti richiesti. Tale regolamento, tuttavia, è stato dichiarato illegittimo dal Tar Lazio, con sentenza depositata in data 11 aprile 2008, n. 3108, i cui effetti esecutivi sono stati confermati, in sede cautelare, dal Consiglio di Stato, con ordinanze n. 3925, n. 3926 e n. 3921 del 18 luglio 2008. Tutto ciò premesso, il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che la disciplina legislativa regionale censurata sia costituzionalmente illegittima sotto diversi profili. In primo luogo, essa violerebbe l’art. 3 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto sarebbe «manifestamente errato, perché privo di contenuto», il riferimento da essa effettuato alla disposizione di cui all’art. 22, comma 8, della legge regionale n. 25 del 1996, la quale «non individua alcun criterio in base al quale realizzare i diversi inquadramenti del personale in servizio», tanto che essa a sua volta rinvia ad un successivo provvedimento. In secondo luogo, la disciplina impugnata si porrebbe in contrasto, ad avviso del ricorrente, con «i principi di imparzialità e buon andamento di cui agli artt. 3 e 97 Cost.», perché, nel far salvi gli inquadramenti disposti all’esito del procedimento di perequazione previsto dal regolamento annullato dal Tar del Lazio insieme ai relativi atti applicativi, da un lato, avrebbe sostanzialmente eluso le statuizioni del giudice amministrativo e, dall’altro, avrebbe consentito l’accesso dei dipendenti a funzioni più elevate in deroga alla regola del pubblico concorso e in contrasto con la giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo la quale tale deroga è ammissibile solo «in presenza di peculiari ragioni giustificatrici» e comunque «non sono ragionevoli le norme che prevedano scivolamenti automatici verso posizioni superiori». 2. – Si è costituita in giudizio, con atto depositato in data 28 luglio 2009, la Regione Lazio, chiedendo che il ricorso sia dichiarato manifestamente inammissibile o, in subordine, che le censure in esso contenute siano dichiarate manifestamente infondate. La difesa regionale ritiene, in particolare, che la prima censura svolta dal Presidente del Consiglio dei ministri, relativa alla irragionevolezza asseritamente connessa alla mancata individuazione dei criteri per gli inquadramenti del personale in servizio, sia infondata dal momento che la legge impugnata «ha inteso dare fondamento legislativo alle previsioni di cui al regolamento regionale n. 2 del 2001», che «prevedeva proprio quei criteri di inquadramento la cui mancanza» viene lamentata dal ricorrente. Del resto – osserva ancora la Regione – la disciplina legislativa regionale censurata «non fa altro che mantenere fermi gli inquadramenti già disposti in forza della legge regionale n. 25 del 1996 e del regolamento regionale n. 2 del 2001, sicché non aveva alcun bisogno di stabilire criteri che, in realtà, erano già stati fissati in precedenza». Quanto alla censura relativa alla violazione degli artt. 3 e 97 Cost., per asserita elusione delle statuizioni del giudice amministrativo, la difesa regionale osserva che la pronuncia del Tar Lazio n. 3108 del 2008 ha annullato per vizio di incompetenza il regolamento regionale n. 2 del 2001, e i relativi atti applicativi, ciò in quanto la Regione Lazio aveva adottato un regolamento e non una legge regionale. Sicché la legge impugnata «lungi dal contrastare, porta esattamente ad effetto quanto stabilito dal Tar del Lazio, procedendo all’adozione di quell’atto legislativo del quale il giudice amministrativo aveva constatato (e censurato) la carenza». Inoltre, la difesa regionale ritiene che non sussista alcun divieto di adottare leggi che incidano sui procedimenti giurisdizionali in corso, purché non annullino gli effetti del giudicato, che nella fattispecie in esame non si è formato. Con riferimento, infine, alla censura relativa alla asserita violazione del principio del concorso pubblico, la difesa regionale considera sussistenti le condizioni richieste dalla giurisprudenza costituzionale affinché siano consentite deroghe alla regola del concorso pubblico: in primo luogo, l’area di validità della deroga sarebbe infatti «delimitata in modo molto preciso, essendo applicabile solo ed esclusivamente ad una categoria puntualmente indicata di dipendenti regionali»; in secondo luogo, la deroga sarebbe giustificata da «peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico», consistenti nell’esigenza di soddisfare le «finalità perequative già perseguite con il regolamento regionale n. 2 del 2001». 3. – In data 20 aprile 2010, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha depositato memoria con la quale ha ribadito quanto sostenuto nell’atto introduttivo del giudizio. La difesa erariale ha rilevato, in particolare, che anche il Consiglio di Stato, sezione V, con ordinanza depositata il 4 agosto 2010, ha sollevato questione di legittimità costituzionale della legge censurata, in ordine alla quale ha «diffusamente (e condivisibilmente) rappresenta[to] dubbi di legittimità costituzionale». 4. – In data 20 aprile 2010, la Regione Lazio ha depositato a sua volta memoria, confermando e sviluppando le argomentazioni esposte nell’atto di costituzione. La difesa regionale ritiene, preliminarmente, che il ricorso sia inammissibile, perché riferito ad una intera legge regionale le cui previsioni non sono tutte oggetto di argomentata censura, o, comunque, parzialmente inammissibile, dovendo essere scrutinato con esclusivo riguardo all’art. 1, comma 1, della legge impugnata. Nel merito, la difesa regionale ribadisce quanto affermato nell’atto di costituzione. Considerato in diritto 1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato la legge della Regione Lazio 16 aprile 2009, n. 14 (Disposizioni in materia di personale), la quale stabilisce, in particolare, che «è fatta salva la qualifica o categoria già attribuita al personale alla data di entrata in vigore della presente legge per effetto dell’applicazione dell’articolo 22, comma 8, della legge regionale 1° luglio 1996, n. 25 (Norme sulla dirigenza e sull’organizzazione regionale) e successive modifiche, purché lo stesso abbia svolto le funzioni o mansioni corrispondenti alla predetta qualifica o categoria, conferite con atto formale ed effettivamente esercitate per almeno un triennio». Ad avviso del ricorrente la disciplina impugnata si porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione. Essa, nel far salvi gli effetti di provvedimenti di reinquadramento di dipendenti regionali adottati in applicazione del regolamento della Giunta regionale 10 maggio 2001, n. 2 (Regolamento di attuazione dell’art. 22, comma 8, della legge regionale 1° luglio 1996, n. 25), a sua volta attuativo dell’art. 22 della legge della Regione Lazio n. 25 del 1996, da un lato, eluderebbe la pronuncia con cui il Tribunale amministrativo del Lazio ha annullato il predetto regolamento n. 2 del 2001 e, dall’altro lato, consentirebbe l’accesso dei dipendenti a funzioni più elevate in deroga alla regola del pubblico concorso. Tale normativa violerebbe poi l’art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza, in quanto sarebbe «manifestamente errato, perché privo di contenuto», il riferimento da essa effettuato alla disposizi one di cui all’art. 22, comma 8, della legge della Regione Lazio n. 25 del 1996. 2. – Deve essere preliminarmente disattesa l’eccezione di inammissibilità sollevata dalla Regione Lazio per avere il ricorrente impugnato una intera legge regionale. Per costante giurisprudenza costituzionale, sono infatti «ammissibili […] le impugnative contro intere leggi caratterizzate da normative omogenee e tutte coinvolte dalle censure» (fra le molte, sentenza n. 201 del 2008). Nel caso in esame, è palese che le norme contenute nella legge impugnata sono omogenee e tutte coinvolte dalle censure formulate nel ricorso. Il testo legislativo censurato si compone, infatti, di due articoli: il primo dispone la «perequazione» che è oggetto diretto delle censure argomentate nel ricorso (comma 1), ne circoscrive l’area dei destinatari (comma 2) e ne regola, infine, gli effetti sul piano della posizione economica del personale che vi è interessato (comma 3); il secondo si limita a regolare l’entrata in vigore dell a legge. 3. – Nel merito, la questione è fondata con riferimento al principio del concorso pubblico, di cui all’art. 97 Cost. La disciplina oggetto di censura concerne i meccanismi di inquadramento dei dipendenti regionali provenienti da altre amministrazioni. Con la legge della Regione Lazio 23 marzo 1988, n. 15 (Reinquadramento del personale già inquadrato alla Regione con L.R. 15 gennaio 1983, n. 2 e con L.R. 15 gennaio 1983, n. 3), alcune categorie di dipendenti regionali, già inquadrati in base alla corrispondenza fra le qualifiche rivestite nell’ente di provenienza e quelle proprie dell’ordinamento regionale, hanno ottenuto una revisione di tale inquadramento, sulla base di un criterio più favorevole, fondato sui titoli posseduti ad una certa data e, in particolare, sull’anzianità di servizio. Ciò ha prodotto una situazione di asserita «sperequazione» rispetto ai dipendenti che non hanno potuto beneficiare di tale più favorevole criterio di inquadramento, per rimediare alla quale è intervenuto, dapprima, l’art. 22, com ma 8, della legge della Regione Lazio n. 25 del 1996 (che però si è limitato a rinviare ad un «successivo provvedimento») e, in seguito, il regolamento n. 2 del 2001, che ha esteso anche al personale in precedenza escluso il diritto di ottenere la revisione del proprio inquadramento, secondo i più favorevoli criteri previsti dalla legge regionale n. 15 del 1988. Il successivo annullamento di tale regolamento, unitamente agli atti di reinquadramento in base ad esso adottati, da parte del Tribunale amministrativo regionale, ha indotto, infine, il legislatore regionale ad approvare la disciplina impugnata, volta a sanare la posizione dei dipendenti regionali «perequati». Tale disciplina, nel riconoscere ad un vasto numero di dipendenti regionali (ivi compresi molti dirigenti) l’accesso ad un livello superiore di inquadramento, acquisito in base ad un procedimento di «perequazione» esclusivamente ad essi riservato, rappresenta una deroga al principio del concorso pubblico. Secondo la giurisprudenza consolidata della Corte costituzionale, infatti, il concorso pubblico, quale «forma generale e ordinaria di reclutamento per le pubbliche amministrazioni», è necessario non soltanto nelle «ipotesi di assunzione di soggetti precedentemente estranei alle pubbliche amministrazioni, [ma anche…] nei casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio (ciò che comunque costituisce una “forma di reclutamento”)» (fra le molte, sentenza n. 293 del 2009). Questa Corte ha più volte affermato che la facoltà del legislatore di introdurre deroghe al principio del concorso pubblico deve essere «delimitata in modo rigoroso» (fra le più recenti, sentenze n. 100 e n. 9 del 2010). Simili deroghe possono infatti considerarsi legittime solo quando funzionali esse stesse alle esigenze di buon andamento dell’amministrazione e ove ricorrano «peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle» (sentenza n. 293 del 2009). Ebbene, nella fattispecie in esame, tali esigenze non ricorrono. Non può essere infatti condivisa la tesi della difesa regionale, secondo cui la deroga al concorso pubblico introdotta dalla disciplina impugnata sarebbe giustificata dalle finalità «perequative» che la ispirano. A prescindere dalla circostanza che la c.d. «perequazione», assicurata dalle disposizioni censurate, determinerebbe, a sua volta, una più grave disparità di trattamento fra i dipendenti che ne verrebbero a beneficiare e quelli che hanno avuto accesso alle medesime qualifiche in virtù del superamento di un concorso, va comunque rilevato che questa Corte ha avuto modo, in più occasioni, di chiarire quale sia la natura delle «peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico» che consentono al legislatore di derogare al principio costituzionale del concorso pubblico. Esse devono essere ricollegabili alle peculiarità delle «funzioni» che il personale da reclutare è chiamato a svolgere (sentenza n. 293 del 2009); devono riferirsi a specifiche necessità «funzionali» dell’amministrazione (sentenze n. 215 del 2009 e n. 363 del 2006); devono essere desumibili dalle «funzioni» svolte dal personale reclutato (sentenza n. 81 del 2006). Alla luce di tali affermazioni, è da escludere che ragioni giustificative della deroga al concorso pubblico possano essere ricollegate ad un particolare interesse degli stessi dipendenti beneficiari della deroga o, comunque, ad esigenze strumentali dell’amministrazione, connesse alla gestione del personale. Occorre, invece, che eventuali deroghe trovino un fondamento giustificativo nella peculiare natura delle funzioni dell’amministrazione, cioè dei compiti ad essa attribuiti per soddisfare gli interessi della collettività e per la cui realizzazione i dipendenti pubblici sono reclutati. La finalità di perequare trattamenti normativi e retributivi dei dipendenti in servizio risponde ad un interesse strumentale dell’amministrazione e prescinde dalla natura delle funzioni attribuite a tali dipendenti. Essa, pertanto, anche se ravvisabile nella disciplina censurata, non è comunque in grado di giustificare il mancato rispetto del principio del concorso pubblico. Restano assorbiti gli altri profili di censura. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Lazio 16 aprile 2009, n. 14 (Disposizioni in materia di personale). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 maggio 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Sabino CASSESE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 giugno 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA SENTENZA N. 196 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 200 e 236 del codice penale e degli articoli 186, comma 2, lettera c), e 187, comma 1, ultimo periodo, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come modificati, rispettivamente, dall’art. 4, commi 1, lettera b), e 2, lettera b), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125, promosso dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale ordinario di Lecce nel procedimento penale a carico di P.T. con ordinanza del 27 maggio 2009, iscritta al n. 323 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2010. Udito nella camera di consiglio del 12 maggio 2010 il Giudice relatore Alfonso Quaranta. Ritenuto in fatto 1.— Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale ordinario di Lecce ha sollevato – in riferimento agli articoli 3 e 117 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale degli articoli 200 e 236 del codice penale e degli articoli 186, comma 2, lettera c), e 187, comma 1, ultimo periodo, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come modificati, rispettivamente, dall’art. 4, commi 1, lettera b), e 2, lettera b), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125. 1.1.— Il remittente premette, in punto di fatto, di dover decidere in ordine alla richiesta di emissione di decreto penale di condanna, avanzata dal pubblico ministero in relazione al reato di guida in stato di ebbrezza – per un fatto commesso nel gennaio 2008 – ed alla contestuale richiesta di confisca del veicolo a carico dell’imputato, ai sensi del già citato art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada. Detta norma, infatti, nel testo novellato dall’art. 4 del decreto-legge n. 92 del 2008, convertito con modificazioni nella legge n. 125 del 2008, prevede che sia «sempre disposta la confisca del veicolo con il quale è stato commesso il reato ai sensi dell’articolo 240, secondo comma, del codice penale, salvo che il veicolo stesso appartenga a persona estranea al reato», in caso di condanna tanto per la fattispecie criminosa di guida in stato di ebbrezza in conseguenza dell’uso di bevande alcoliche, purché sia stato accertato a carico del conducente un valore corrispondente ad un tasso alcolemico superiore a 1,5 grammi per litro di sostanza ematica, quanto per la fattispecie criminosa (art. 187 del codice della strada) di guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti. La circostanza che nel vigente testo dell’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada sia espressamente richiamato l’art. 240, primo comma, cod. pen., non dovrebbe lasciare dubbi – secondo il remittente – che, «sotto l’aspetto formale, tale confisca debba essere qualificata come misura di sicurezza patrimoniale», per la quale, quindi, opera il principio – in forza del rinvio all’art. 200, primo comma, cod. pen. contenuto nell’art. 236 del medesimo codice – secondo cui «le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione». Ne consegue, pertanto, che la misura della confisca del veicolo appare destinata ad applicarsi pure «nei riguardi di coloro che, imputati del reato di guida sotto l’influenza dell’alcool (o di quello di guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti), risultino destinatari di una sentenza di condan na o di una sentenza di patteggiamento, anche se il reato venne commesso in epoca anteriore alla data di entrata in vigore del citato decreto-legge n. 92 del 2008». Sottolinea, inoltre, il giudice a quo che tale «soluzione ermeneutica» risulta «conforme al pacifico orientamento della giurisprudenza di legittimità». Essa, «con riferimento ad analoghe forme di confisca, ha sempre affermato» – diversamente da parte della dottrina, secondo cui la previsione dell’art. 200, primo comma, cod. pen. andrebbe riferita esclusivamente all’ipotesi in cui le modifiche legislative concernenti le misure di sicurezza riguardino le loro modalità di esecuzione – «che per tali misure, qualificabili come misure di sicurezza e non come pene accessorie o pene sui generis, non opera il principio di irretroattività», sancito dall’art. 25, secondo comma, Cost., norma concernente «esclusivamente la pena» (richiama, sul punto: Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza del 15 gennaio 2009, n. 8404; sezione terza penale, sentenza del 15 ottobre 2002, n. 40703; sezione prima penale, sentenza del 1 9 maggio 2000, n. 7045; sezione prima penale, sentenza del 19 maggio 1999, n. 3717; sezione seconda penale, sentenza del 3 ottobre 1996, n. 3655; sezione sesta penale, sentenza del 17 novembre 1995, n. 775). 1.2.— Tanto premesso, il giudice a quo ritiene che le norme censurate, «interpretate in conformità al “diritto vivente” di origine giurisprudenziale», siano in contrasto con l’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, secondo cui «non può essere inflitta una pena più grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato consumato». Il suddetto art. 7 – sottolinea il remittente – si pone come «norma interposta», ovvero come disposizione «subcostituzionale», che finisce «per integrare e dare contenuto» al dettato dell’art. 117, primo comma, Cost., sicché la sua violazione da parte di norma di legge ordinaria integra un contrasto con tale parametro costituzionale. Conclusione, questa, proposta «dalla Corte costituzionale con le sentenze nn. 348 e 349 del 2007», pronunce che hanno «definitivamente chiarito» – si nota ancora nell’ordinanza di rimessione – «che il giudice è tenuto a valutare la compatibilità costituzionale di ciascuna norma di legge ordinaria, anche nelle materie penalistiche, con le norme della Cedu», le quali, peraltro, rilevano non «in sé considerate», bensì «come prodotto della interpretazione datane dalla Corte di Strasburgo nelle sue sentenze». Orbene, «proprio con riferimento al principio fissato dall’art. 7 della Cedu, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha puntualizzato» – osserva sempre il remittente – che nell’individuazione del concetto di pena è necessario «andare al di là delle apparenze» per valutare «se una data misura costituisca pena ai sensi di tale norma», verificando se essa «sia stata imposta a seguito di una condanna per un reato», per poi attribuire rilievo ad altri elementi, come «la natura e lo scopo della misura in questione; la sua qualificazione nel diritto interno; le procedure correlate alla sua adozione ed esecuzione». Tali affermazioni, fatte dalla Corte di Strasburgo nella sentenza del 9 febbraio 2005, resa nella causa n. 307-A/1995, Welch contro Regno Unito (che, come rammenta il remittente, ha riconosciuto la violazione dell’art. 7 della Convenzione proprio «in un caso di applicazione retroattiva della confisca di beni di sposta nei riguardi di un trafficante di droga condannato a non ridotta pena detentiva»), sono state ulteriormente precisate dalla sua successiva giurisprudenza. Essa, infatti, ha specificato che la garanzia sancita dall’art. 7, in quanto «elemento essenziale della preminenza del diritto, occupa un posto fondamentale nel sistema di protezione della Convenzione, come dimostra il fatto che l’art. 15 non autorizza alcuna deroga», sicché la sua interpretazione ed applicazione deve avvenire «in modo da assicurare una protezione effettiva contro le azioni penali, le condanne e le sanzioni arbitrarie», giacché, se la norma de qua «vieta principalmente di estendere il campo di applicazione dei reati esistenti a fatti che, in precedenza, non costituivano reati, impone altresì di non applicare la legge penale in maniera estensiva a pregiudizio dell’imputato» (in tal senso, v. la sentenza del 20 gennaio 2009, resa nella causa 75909/2001, Fondi s.r.l. e d altri contro Italia). 1.3.— L’applicazione di tali principi, destinati ad integrare – prosegue il remittente – «il dettato normativo dell’art. 117 Cost.», dovrebbe comportare, «in un’ottica di definitivo superamento della precedente, diversa, soluzione privilegiata dalla Consulta con l’ordinanza n. 392 del 1987», l’illegittimità costituzionale delle norme censurate. In tale prospettiva, si sottolinea, in primo luogo, che «la confisca del veicolo», piuttosto che «soddisfare un bisogno di natura cautelare», realizzerebbe «una funzione sanzionatoria e meramente repressiva». Lo confermerebbe la duplice circostanza «che la misura è applicabile anche quando il veicolo dovesse risultare incidentato e temporaneamente inutilizzabile» (e, dunque, «privo di attuale pericolosità oggettiva») e che la sua applicazione «non impedisce in sé l’impiego di altri mezzi da parte dell’imputato, dunque un rischio di recidiva», sicché, «al di là della “etichetta” formale, la confisca in argomento si traduce in una sanzione patrimoniale di natura repressiva, dunque parificabile, ai fini sopra indicati, alla sanzione penale». In secondo luogo, si evidenzia che l’efficacia retroattiva «della nuova disciplina che ha introdotto tale forma di confisca comporterebbe un’applicazione estensiva della disposizione penale, sanzionando, in maniera pesantemente pregiudizievole, un soggetto che, all’epoca della commissione del relativo reato, poteva fare affidamento sull’esistenza di una disposizione penale che non prevedeva l’adottabilità di quel tipo di provvedimento ablatorio». Né, infine, andrebbe trascurata la circostanza – osserva il giudice a quo – che la confisca del veicolo «va disposta anche nei riguardi del conducente che abbia rifiutato di sottoporsi all’esame alcolemico del sangue», ciò che ne confermerebbe la natura di provvedimento repressivo. 1.4.— La correttezza di tali rilievi – secondo il remittente – sarebbe confermata dall’ordinanza n. 97 del 2009 della Corte costituzionale (erroneamente indicata, peraltro, come n. 92 del 2009) che ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto la confisca “per equivalente” di cui all’art. 322-ter cod. pen. e all’art. 1, comma 143, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008). La citata pronuncia, difatti, ha evidenziato che «la mancanza di pericolosità dei beni che sono oggetto della confisca per equivalente, unitamente all’assenza di un “rapporto di pertinenzialità” (inteso come nesso diretto, attuale e strumentale) tra il reato e detti beni, conferiscono all’indicata confisca una connotazione prevalentemente afflittiva, attribuendole, così, una natura “eminentemente sanzionatoria”, che impedisce l’applicabilità a tale misura patrimoniale del principio generale dell’art. 200 c.p.», pervenendo a tale conclusione in base al duplice rilievo che «il secondo comma dell’art. 25 Cost. vieta l’applicazione retroattiva di una sanzione penale, come deve qualificarsi la confisca per equivalente, e che la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto in contrasto con l’art. 7 della Convenzione l’applicazione di una sanzion e riconducibile proprio ad un’ipotesi di confisca per equivalente» (si tratta della già citata sentenza del 9 febbraio 2005, nella causa n. 307-A/1995, Welch contro Regno Unito). 1.5.— Su tali basi, quindi, il remittente ha sollevato la questione di legittimità costituzionale degli artt. 200 e 236 cod. pen. e degli artt. 186, comma 2, lettera c), e 187 del codice della strada. Dedotta, così, la violazione degli artt. 3 e 117 Cost., il remittente – non senza osservare che la questione è rilevante, essendo il decreto penale parificato, ad ogni effetto, alla sentenza di condanna, ed essendo stato accertato a carico dell’imputato il superamento del limite di 1,50 del tasso alcolemico fissato dall’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada – ha concluso per la declaratoria di illegittimità costituzionale delle norme censurate «nella parte in cui consentono il sequestro preventivo e, in caso di sentenza di condanna ovvero di applicazione della pena su richiesta delle parti, la confisca obbligatoria del veicolo, non appartenente a terzo estraneo, con il quale è stato commesso il reato di guida sotto l’influenza dell’alcool o il reato di guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti, anche quando tali reati siano stati commessi in epoca anteri ore all’entrata in vigore del suddetto decreto-legge». 2.— Non è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri. Considerato in diritto 1.— Il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale ordinario di Lecce ha sollevato – in riferimento agli articoli 3 e 117 della Costituzione – questione di legittimità costituzionale degli articoli 200 e 236 del codice penale e degli articoli 186, comma 2, lettera c), e 187, comma 1, ultimo periodo, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), articoli, questi ultimi, censurati dal remittente nel testo modificato, rispettivamente, dall’art. 4, commi 1, lettera b), e 2, lettera b), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125. 1.1.— In particolare, il giudice remittente – essendo stata richiesta dal pubblico ministero, nel giudizio principale, l’emissione di decreto penale di condanna, in relazione alla fattispecie di reato di guida in stato di ebbrezza di cui all’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada – rimarca il fatto di dover applicare all’imputato, retroattivamente, la misura della confisca del veicolo, non essendo questa prevista all’epoca del commesso reato. Difatti, in forza di quanto stabilito dall’art. 4, comma 1, lettera b), del decreto-legge n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 125 del 2008, in caso di condanna dell’imputato per la fattispecie criminosa oggetto del giudizio a quo (e per quella di cui all’art. 187 del codice della strada, norma, per tale motivo, anch’essa coinvolta dal remittente nell’incidente di costituzionalità), «è sempre disposta la confisca del veicolo con il quale è stato commesso il reato ai sensi dell’articolo 240, secondo comma, del codice penale, salvo che il veicolo stesso appartenga a persona estranea al reato». Orbene, proprio il riferimento all’articolo da ultimo citato avrebbe l’effetto di rendere operativa, nella specie, la previsione di cui all’art. 200, primo comma, cod. pen. (cui rinvia, quanto alle misure di sicurezza patrimoniali, l’art. 236, se condo comma, del medesimo codice), in base alla quale «le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione». 1.2.— Tanto premesso in fatto, il giudice a quo ritiene le norme suddette in contrasto con gli artt. 3 e 117, primo comma, Cost. Sarebbe, infatti, violato l’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 4 agosto 1955, n. 848), secondo cui «non può essere inflitta una pena più grave di quella che sarebbe stata applicata al tempo in cui il reato è stato consumato»; norma interpretata dalla Corte di Strasburgo come applicabile anche nei riguardi della misura della confisca (è richiamata la sentenza pronunciata dalla Grande Chambre il 9 febbraio 1995, nella causa n. 307-A/1995, Welch contro Regno Unito). In particolare, la confisca del veicolo adoperato per commettere i reati di cui agli artt. 186, comma 2, lettera c), e 187 del codice della strada, lungi dal «soddisfare un bisogno di natura cautelare», realizzerebbe – secondo il remittente – «una funzione sanzionatoria e meramente repressiva». Lo confermerebbero, per un verso, la circostanza che la misura de qua è destinata a ricevere applicazione «anche quando il veicolo dovesse risultare incidentato e temporaneamente inutilizzabile» (e, dunque, «privo di attuale pericolosità oggettiva») ed inoltre, per altro verso, la constatazione che la sua operatività «non impedisce in sé l’impiego di altri mezzi da parte dell’imputato, dunque un rischio di recidiva». Ne conseguirebbe, così, che, al di là della qualificazione formale, la confisca in argomento si tradurrebbe in una sanzione patrimoniale di natura repressiva, da parificare – in base alla citata sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – «alla sanzione penale» e, dunque, non suscettibile di efficacia retroattiva, se non in violazione del citato art. 7 della CEDU. Inoltre, la retroattività della misura in esame – sempre secondo il giudice a quo – sarebbe da ritenere costituzionalmente illegittima per il fatto di comportare «un’applicazione estensiva della disposizione penale, sanzionando, in maniera pesantemente pregiudizievole, un soggetto che, all’epoca della commissione del relativo reato, poteva fare affidamento sull’esistenza di una disposizione penale che non prevedeva l’adottabilità di quel tipo di provvedimento ablatorio». 2.— In via preliminare, dovendo questa Corte vagliare la conformità delle norme censurate all’art. 7 della CEDU, è necessario verificare se ricorrano le condizioni in presenza delle quali, secondo la giurisprudenza costituzionale (sentenze n. 348 e n. 349 del 2007), uno scrutinio siffatto può essere effettuato. Ed invero, in particolare la seconda di tali sentenze ha affermato che «questa Corte, qualora sia sollevata una questione di legittimità costituzionale di una norma nazionale rispetto all’art. 117, primo comma, Cost. per contrasto – insanabile in via interpretativa – con una o più norme della CEDU», deve preliminarmente accertare l’esistenza del contrasto «e, in caso affermativo, verificare se le stesse norme CEDU, nell’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo, garantiscono una tutela dei diritti fondamentali almeno equivalente al livello garantito dalla Costituzione italiana» (così la sentenza n. 349 del 2007). Più di recente, questa Corte – con una decisione intervenuta, tra l’altro, in materia di confisca di beni – ha ribadito che «in presenza di un apparente contrasto fra disposizioni legislative interne ed una disposizione della CEDU, anche quale interpretata dalla Corte di Strasburgo, può porsi un dubbio di costituzionalità, ai sensi del primo comma dell’art. 117 Cost., solo se non si possa anzitutto risolvere il problema in via interpretativa», giacché soltanto «ove l’adeguamento interpretativo, che appaia necessitato, risulti impossibile o l’eventuale diritto vivente che si formi in materia faccia sorgere dubbi sulla sua legittimità costituzionale, questa Corte potrà essere chiamata ad affrontare il problema della asserita incostituzionalità della disposizione di legge» (sentenza n. 239 del 2009). 2.2.— Nel caso in esame, tuttavia, deve escludersi che il contrasto denunciato potesse essere superato dal remittente in via interpretativa. 2.2.1.— Difatti, la pressoché unanime giurisprudenza di legittimità ha affermato che l’ipotesi di confisca obbligatoria prevista dall’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada (nel testo novellato dall’art. 4, comma 1, lettera b, del d.l. n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, nella legge n. 125 del 2008) si applica anche alle condotte poste in essere prima dell’entrata in vigore della novella (in tal senso, Corte di cassazione, sezione IV penale, sentenza 4 giugno 2009, n. 32932; sentenza 3 aprile 2009, n. 38179; sentenza 27 gennaio 2009, n. 9986). È rimasta, dunque, del tutto isolata la decisione della stessa Corte secondo cui il «richiamo all’art. 240, secondo comma, cod. pen.» (contenuto nel testo dell’art. 186, comma 2, lettera c, del codice della strada) avrebbe «solo l’intento di rimarcare l’obbligatorietà della confisca e non quello di affermare che il caso disciplinato rientri tra quelli che detta disposizione contempla», ciò che renderebbe, pertanto, «non estensibile» alla misura qui in esame «la regola dettata dall’art. 200 cod. pen.», vale a dire quella dell’applicazione retroattiva della misura di sicurezza (così sezione IV penale, sentenza 29 aprile 2009, n. 32916). In queste condizioni, pertanto, è preclusa a questa Corte la possibilità di una soluzione del tipo di quella che è stata proposta, di recente, con riferimento ad analoga questione di legittimità costituzionale avente ad oggetto – ancora in relazione all’art. 7 della CEDU – la cosiddetta “confisca per equivalente”, ex art. 322-ter del codice penale. È stata, infatti, proprio la constatazione di quanto «affermato dalla Corte di cassazione in numerose pronunce» ad aver permesso a questa Corte di riconoscere a tale ipotesi di confisca «una connotazione prevalentemente afflittiva, attribuendole, così, una natura “eminentemente sanzionatoria”, che impedisce l’applicabilità a tale misura patrimoniale del principio generale dell’art. 200 cod. pen.». Su tali basi questa Corte ha dichiarato la manifesta infondatezza, per erroneità del presupposto interpretativo, della questione allora sollevata (ordinanza n. 97 del 2009). 2.2.2.— Né è senza rilievo, nella medesima prospettiva, la diversa formulazione letterale dell’art. 322-ter cod. pen. rispetto all’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada. La prima di tali norme, infatti, si limita a stabilire che, nei casi di condanna o applicazione della pena su richiesta per uno dei delitti previsti dagli articoli da 314 a 320 cod. pen., anche se commessi dai soggetti indicati nell’articolo 322-bis, primo comma, cod. pen., «è sempre ordinata la confisca dei beni che ne costituiscono il profitto o il prezzo, salvo che appartengano a persona estranea al reato», senza, dunque, contenere alcun riferimento all’art. 240 cod. pen. Anche il dato testuale, pertanto, impone a questa Corte di affermare che il denunciato contrasto tra le disposizioni censurate e la norma sub-costituzionale invocata dal remittente, come parametro interposto, «sia effettivamente insanabile attraverso una interpretazione plausibile, anche sistematica, della norma interna rispetto alla norma convenzionale, nella lettura datane dalla Corte di Strasburgo» (sentenza n. 311 del 2009). 3.— L’esame nel merito della presente questione di legittimità costituzionale impone, tuttavia, una ulteriore precisazione preliminare, anche nella prospettiva di una più specifica delimitazione del thema decidendum ora sottoposto al vaglio di questa Corte. 3.1.— Occorre, infatti, muovere dalla constatazione che una pur risalente giurisprudenza costituzionale ha affermato che «la confisca può presentarsi, nelle leggi che la prevedono, con varia natura giuridica», giacché, se il suo contenuto consiste sempre nella «privazione di beni economici», essa «può essere disposta per diversi motivi e indirizzata a varia finalità, sì da assumere, volta per volta, natura e funzione o di pena, o di misura di sicurezza, ovvero anche di misura giuridica civile e amministrativa» (sentenza n. 29 del 1961). La necessità di tenere nettamente distinte le singole ipotesi di confisca è, del resto, anche conseguenza della differenza esistente – in campo penale – tra le nozioni di pena e di misura di sicurezza, i cui riflessi, oltretutto, si riverberano nella differente disciplina, fissata dai commi secondo e terzo dell’art. 25 Cost., del fenomeno della successione, nel tempo, delle norme relative ai due istituti. 3.1.1.— Difatti, con la sentenza n. 53 del 1968, questa Corte ha rilevato come «la inserzione della pena e della misura di sicurezza nell’ambito di una categoria unica» (quella generale di sanzione, intesa come «reazione dell’ordinamento alla inosservanza della norma») non abbia avuto come effetto di eliminare «quelli che sono i caratteri particolari dei due mezzi di tutela giuridica». «Nessuno sforzo di accostamento», prosegue la citata sentenza, «potrà infatti valere ad eliminare la differenza, essenziale e di natura, che nettamente si manifesta: la differenza cioè fra la reazione contro un fatto avvenuto, propria della pena, e l’attuazione, propria della misura di sicurezza, di mezzi rivolti ad impedire fatti di cui si teme il verificarsi nel futuro». Da tale premessa la citata sentenza ha fatto discendere «altre fondamentali note differenziali tra i due mezzi di tutela giuridica». Tra di esse, in particolare, rileva, ai fini che qui interessano, la scelta di individuare «la norma valida per la misura di sicurezza», diversamente da quanto previsto per la pena, in «quella del tempo della sua applicazione». È in questi termini, dunque, che viene spiegata la formulazione non omogenea dei commi secondo e terzo dell’art. 25 Cost., giacché «soltanto per la pena», l’uno «ribadisce il cosiddetto principio di stretta legalità, disponendo che “nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso”», mentre l’altro «lascia ferma nell’ordinamento la disposizione dell’art. 200 del Codice penale, in forza della quale “le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione”; cioè non da un imperativo giuridico anteriore al fatto punibile, ma da quelle disposizioni che via via l’ordinamento riconoscerà più idonee ad una efficace lotta contro il pericolo criminale» (citata sentenza n. 53 del 1968). 3.1.2.— A giustificare, pertanto, la ritenuta retroattività delle misure di sicurezza, con riguardo soprattutto a quelle di natura personale, è la finalità, loro propria, di assicurare una efficace lotta contro il pericolo criminale, finalità che potrebbe richiedere che il legislatore, sulla base di circostanze da esso discrezionalmente valutate, preveda che sia applicata una misura di sicurezza a persone che hanno commesso determinati fatti prima sanzionati con la sola pena (o con misure di sicurezza di minore gravità). In altri termini, tale retroattività risulta connaturata alla circostanza che le misure di sicurezza personali costituiscono strumenti preordinati a fronteggiare uno stato di accertata pericolosità; funzione che esse assolvono con i mezzi che dalle differenti scienze, chiamate specificamente a fornirli, potranno essere desunti. 3.1.3.— Nondimeno, la presa d’atto proprio delle peculiari caratteristiche e funzioni che, rispetto alle pene, presentano le misure di sicurezza ha portato la dottrina a sottolineare la necessità, a fronte di ogni reazione ad un fatto criminoso che il legislatore qualifichi in termini di misura di sicurezza, di un controllo in ordine alla sua corrispondenza non solo nominale, ma anche contenutistica, alla natura spiccatamente preventiva di detti strumenti. Ciò, al fine di impedire che risposte di segno repressivo, e quindi con i caratteri propri delle pene in senso stretto, si prestino ad essere qualificate come misure di sicurezza, con la conseguenza di eludere il principio di irretroattività valido per le pene. 3.1.4.— Una preoccupazione analoga – e cioè quella di evitare che singole scelte compiute da taluni degli Stati aderenti alla CEDU, nell’escludere che un determinato illecito ovvero una determinata sanzione o misura restrittiva appartengano all’ambito penale, possano determinare un surrettizio aggiramento delle garanzie individuali che gli artt. 6 e 7 riservano alla materia penale – è, del resto, alla base dell’indirizzo interpretativo che ha portato la Corte di Strasburgo all’elaborazione di propri criteri, in aggiunta a quello della qualificazione giuridico-formale attribuita nel diritto nazionale, al fine di stabilire la natura penale o meno di un illecito e della relativa sanzione. In particolare, la Corte europea ha attribuito alternativamente rilievo, a tal fine, o alla natura stessa dell’illecito – da determinare, a propria volta, sulla base di due sottocriteri, costituiti dall’ambito di applicazione della norma che lo preveda e dallo scopo della sanzione – ovvero alla gravità, o meglio al grado di severità, della sanzione irrogata. 3.1.5.— Dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, formatasi in particolare sull’interpretazione degli artt. 6 e 7 della CEDU, si ricava, pertanto, il principio secondo il quale tutte le misure di carattere punitivo-afflittivo devono essere soggette alla medesima disciplina della sanzione penale in senso stretto. Principio questo, del resto, desumibile dall’art. 25, secondo comma, Cost., il quale – data l’ampiezza della sua formulazione («Nessuno può essere punito…») – può essere interpretato nel senso che ogni intervento sanzionatorio, il quale non abbia prevalentemente la funzione di prevenzione criminale (e quindi non sia riconducibile – in senso stretto – a vere e proprie misure di sicurezza), è applicabile soltanto se la legge che lo prevede risulti già vigente al momento della commissione del fatto sanzionato. D’altronde, questa Corte non solo ha affermato che, per le misure sanzionatorie diverse dalle pene in senso stretto, sussiste «l’esigenza della prefissione ex lege di rigorosi criteri di esercizio del potere relativo all’applicazione (o alla non applicazione) di esse» (sentenza n. 447 del 1988), ma anche precisato come la necessità «che sia la legge a configurare, con sufficienza adeguata alla fattispecie, i fatti da punire» risulti pur sempre «ricavabile anche per le sanzioni amministrative dall’art. 25, secondo comma, della Costituzione» (sentenza n. 78 del 1967). A ciò è da aggiungere che anche la disciplina generale relativa agli illeciti amministrativi depenalizzati – recata dalla legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale) – ha stabilito che «Nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione» (art. 1, primo comma), dettando, così, una regola che si pone come principio generale di quello specifico sistema. 3.2.— Orbene, alla luce delle suindicate premesse, occorre verificare se l’ipotesi di confisca prevista dall’art. 186 del codice della strada – secondo la prospettiva indicata dal giudice remittente – costituisca una misura di carattere sanzionatorio e, dunque, se la sua applicazione retroattiva, ponendosi in contrasto con la descritta interpretazione che dell’art. 7 della CEDU ha fornito la Corte dei diritti dell’uomo, integri una violazione dell’art. 117, primo comma, Cost. 4.— Tale evenienza ricorre – nei limiti di seguito meglio precisati – nel caso di specie, donde la fondatezza, negli stessi limiti, della questione di legittimità costituzionale dell’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada. 4.1.— Preliminarmente deve essere chiarito che il riconoscimento della natura di misura sanzionatoria, propria della confisca in esame, comporta l’inammissibilità delle questioni che investono gli artt. 200 e 236 cod. pen. Una volta escluso, come si specificherà meglio nel prosieguo, che nel caso in esame venga in rilievo una misura di sicurezza, risulta irrilevante, nel giudizio a quo, la questione relativa alla compatibilità con l’art. 7 della CEDU delle norme suddette, giacché esse hanno la funzione di regolare l’applicazione delle misure di sicurezza in senso proprio e non di misure, in senso lato, sanzionatorie. 4.2.— Del pari inammissibile deve essere considerata la questione di costituzionalità relativa all’art. 187, comma 1, ultimo periodo, del codice della strada, pure sollevata dal remittente, trattandosi di una norma che – estendendo la previsione della confisca del veicolo, stabilita a carico del responsabile del reato di guida in stato di ebbrezza, anche all’autore del reato di guida in stato di alterazione psico-fisica per uso di sostanze stupefacenti – non viene in rilievo nel giudizio a quo. 5.— La natura essenzialmente sanzionatoria della confisca – prevista dall’art. 186 del codice della strada – deve essere affermata, innanzitutto, sulla base degli esatti rilievi formulati dal giudice remittente. 5.1.— Questi, difatti, sottolinea come la confisca che dovrebbe essere applicata nel giudizio a quo, al di là della sua qualificazione formale, presenti «una funzione sanzionatoria e meramente repressiva» e non invece preventiva. A tale conclusione il remittente perviene sulla base della duplice considerazione che tale «misura è applicabile anche quando il veicolo dovesse risultare incidentato e temporaneamente inutilizzabile» (e, dunque, «privo di attuale pericolosità oggettiva») e che la sua operatività «non impedisce in sé l’impiego di altri mezzi da parte dell’imputato, dunque un rischio di recidiva», sicché la misura della confisca si presenta non idonea a neutralizzare la situazione di pericolo per la cui prevenzione è stata concepita. 5.2.— D’altra parte, il carattere sanzionatorio, proprio di tale misura, risulta confermato da quanto ritenuto da questa Corte in relazione alla confisca di ciclomotori o motoveicoli, prevista dall’art. 213, comma 2-sexies, del codice della strada, allorché detti mezzi siano «utilizzati per commettere un reato». Questa Corte – nel ritenere «non irragionevole la scelta del legislatore di prevedere una più intensa risposta punitiva, allorché un reato sia commesso mediante l’uso di ciclomotori o motoveicoli» – ha qualificato come «sanzione accessoria» tale forma di confisca (sentenza n. 345 del 2007, in particolare il punto 5. del Considerato in diritto). Né, infine, vanno trascurate le peculiari circostanze con riferimento alle quali la citata sentenza è pervenuta a tale conclusione, essendosi questa Corte pronunciata relativamente ad un’ipotesi di confisca disposta proprio «nel caso contemplato dall’art. 186 del codice della strada», rispetto al quale si è riconosciuto «un rapporto di necessaria strumentalità tra l’impiego del veicolo e la consumazione del reato», giustificando, così, anche su queste basi, l’affermazione della natura sanzionatoria della confisca del mezzo (sentenza n. 345 del 2007, ancora al punto 5. del Considerato in diritto). 6.— In conclusione, da quanto sopra consegue che, per rendere compatibile con l’art. 7 della CEDU – e quindi con l’art. 117, primo comma, Cost. – il novellato testo dell’art. 186, comma 2, lettera c), del codice della strada, è sufficiente limitare la declaratoria di illegittimità costituzionale alle sole parole «ai sensi dell’articolo 240, secondo comma, del codice penale», dalle quali soltanto deriva l’applicazione retroattiva della misura in questione. Tale esito è, infatti, sufficiente a recidere il legame che – in contrasto con le indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza tanto di questa Corte, quanto di quella di Strasburgo – l’art. 4, comma 1, lettera b), del decreto-legge n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 125 del 2008, ha inteso stabilire tra detta ipotesi di confisca e la disciplina generale delle misure di sicurezza patrimoniali contenuta nel codice penale. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale, limitatamente alle parole «ai sensi dell’articolo 240, secondo comma, del codice penale», dell’articolo 186, comma 2, lettera c), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come modificato dell’art. 4, comma 1, lettera b), del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 24 luglio 2008, n. 125; dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale degli articoli 200 e 236 del codice penale e dell’articolo 187, comma 1, ultimo periodo, del medesimo decreto legislativo n. 285 del 1992, nel testo novellato dall’art. 4, comma 2, lettera b), del decreto-legge n. 92 del 2008, convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge n. 125 del 2008, sollevate – in riferimento agli articoli 3 e 117 della Costituzione – dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Lecce con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 maggio 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Alfonso QUARANTA , Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 giugno 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA SENTENZA N. 197 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 99, secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), promossi dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Toscana, con ordinanza del 3 aprile 2009 e dalla Corte dei conti, sez. giurisdizionale per la Regione Piemonte, con ordinanza del 13 maggio 2009, iscritte ai nn. 193 e 287 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 28 e 48, prima serie speciale, dell’anno 2009. Visti gli atti di costituzione di B. V. e dell’INPDAP (di cui uno fuori termine), nonché gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell’udienza pubblica del 13 aprile 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo; uditi gli avvocati Paolo Guerra per B. V., Dario Marinuzzi per l’INPDAP e l’avvocato dello Stato Giuseppe Nucaro per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.— La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Toscana, in composizione monocratica, con ordinanza del 3 aprile 2009 (r. o. n. 193 del 2009) ha sollevato, in riferimento agli articoli 3, 36 e 38 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 99, secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), come risultante dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 494 del 1993. Il giudice rimettente deve pronunciare in un giudizio nel quale la parte privata, titolare di due distinti trattamenti pensionistici, ha chiesto l’accertamento del diritto a riscuotere per intero l’indennità integrativa speciale su entrambe le pensioni, pure in presenza di quanto stabilito dal citato art. 99, secondo comma, secondo cui «Al titolare di più pensioni o assegni l’indennità integrativa speciale compete ad un solo titolo», nel testo risultante dopo la sentenza della Corte costituzionale n. 494 del 1993, che dichiarò l’illegittimità costituzionale del medesimo art. 99, secondo comma, nella parte in cui non prevedeva che, nei confronti del titolare di due pensioni, pur restando vietato il cumulo delle indennità integrative speciali, dovesse comunque farsi salvo l’importo corrispondente al trattamento minimo previsto per il Fondo pensioni lavoratori dipendenti. La Corte dei conti, dopo avere richiamato la propria ordinanza n. 58 del 2006, con la quale aveva rimesso gli atti alla Corte costituzionale per lo scrutinio dell’art. 99, secondo comma, del d.P.R. n. 1092 del 1973, nonché l’ordinanza n. 119 del 2008 con la quale la Corte costituzionale aveva restituito gli atti stessi al giudice rimettente per un nuovo esame della sollevata questione di legittimità costituzionale, alla luce dello jus superveniens costituito dall’articolo 1, commi 774 e 776, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), menziona la propria sentenza n. 350 del 2008. Con tale decisione la rimettente ha ritenuto che, a seguito del predetto jus superveniens e per interpretazione autentica del legislatore, desumibile dall’art. 1, comma 774, della legge n. 296 del 2006, rafforzata dall’abrogazione dell’articolo 15, comma 5, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), disposta dall’art. 1, comma 776, della medesima legge n. 296 del 2006, l’indennità integrativa speciale deve intendersi parte integrante del trattamento pensionistico, indipendentemente dalla decorrenza e, come tale, spetti in misura intera su ogni pensione a decorrere dal 1°gennaio 1995, così restando rimossa la prospettata illegittimità costituzionale. Il giudice rimettente prosegue osservando che, però, varie sentenze delle sezioni giurisdizionali d’appello della Corte dei conti hanno negato l’incidenza del ricordato jus superveniens sul quadro normativo concernente il cumulo della indennità integrativa speciale nel caso di più pensioni, riaffermando la persistenza del divieto di cui all’art. 99, secondo comma, d.P.R. n. 1092 del 1973 sui trattamenti pensionistici anteriori al 31 dicembre 1994; e che anche le sezioni riunite della stessa Corte dei conti, con sentenza n. 1/QM/09 in data 26 febbraio 2009, pronunziando sulla relativa questione di massima, hanno statuito che la legge n. 296 del 2006 non ha innovato in materia di cumulo dell’indennità integrativa speciale su più pensioni anteriori al 31 dicembre 1994, confermando in sostanza il principio di massima espresso nella precedente sentenza n. 2/QM/2006, con la quale tuttavia erano stati manifestati dubb i di costituzionalità sul citato art. 99, secondo comma, come integrato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 494 del 1993. Avuto riguardo alle memorie difensive, ed alla richiesta della parte privata diretta ad ottenere che la questione di legittimità costituzionale della suddetta norma sia nuovamente rimessa alla Corte costituzionale, il giudice rimettente ritiene che tale questione non sia manifestamente infondata, perché questa Corte, che non si è ancora pronunziata su di essa, aveva sottoposto ai remittenti la valutazione dello jus superveniens, in quanto evidentemente ritenuto idoneo a rimuovere i denunciati vizi di legittimità costituzionale. Questa interpretazione adeguatrice, però, non sarebbe stata recepita dalle ricordate decisioni della Corte dei conti, tra cui la citata sentenza delle sezioni riunite n. 1/2009/QM in data 26 febbraio 2009 (che ha effetto vincolante nel giudizio a quo), onde si deve ritenere sussistente un “diritto vivente” ormai consolidato in un’opzione interpretativa in contrasto con i precetti costituzional i, «secondo quanto ampiamente motivato da questo giudice con la citata ordinanza n. 58/06 del 30 marzo 2006, con la quale ha rimesso gli atti alla Corte costituzionale per lo scrutinio dell’art. 99, secondo comma, del d.P.R. n. 1092 del 1973». Tanto premesso, la Corte rimettente afferma che «la legge n. 724 del 1994 segna il discrimine temporale dell’evoluzione normativa dell’indennità integrativa speciale – com’è stato riconosciuto anche dalla più recente giurisprudenza costituzionale e, soprattutto, dall’ordinanza n. 89 del 2005 del Giudice delle leggi – poiché il legislatore ha trasformato quella che era una retribuzione (differita) accessoria in retribuzione primaria, con ciò evidenziando il suo chiaro intento di non riproporre il precedente divieto, pur temperato dalla tutela del minimo pensionistico». In tale nuova prospettiva andrebbe collocata la pronuncia d’illegittimità costituzionale della norma censurata (rispetto all’assetto normativo conosciuto dal giudice costituzionale nel 1993). Diversamente opinando, «si verserebbe nella macroscopica disparità di trattamento tra i percettori di plurimi trattamenti pensionistici ante legge n. 724 del 1994 (che godrebbero del mantenimento di più indennità integrative speciali, ma ancorate inevitabilmente al cosiddetto minimo INPS) e i percettori di plurime pensioni post legge n. 724 del 1994 (i quali a parità di condizioni e di trattamenti pensionistici, solo temporalmente differenziati quanto al momento della loro liquidazione, godrebbero di indennità integrative speciali senz’altro integrali)». 2. — Nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituito il ricorrente nella causa principale, signor B. V., con memoria pervenuta a mezzo servizio postale il 7 luglio 2009. La parte privata prende le mosse dal rilievo che oggetto di scrutinio è l’art. 99, secondo comma, del d.P.R. n. 1092 del 1973, recante il divieto di cumulo dell’indennità integrativa speciale su due pensioni pubbliche, norma che è ancora ritenuta in vigore nel testo modificato dalla sentenza “additiva” di questa Corte n. 494 del 1993 per le sole posizioni pensionistiche pubbliche anteriori al 31 dicembre 1994. E ciò, nonostante le sopravvenute disposizioni normative della legge n. 724 del 1994 (art. 15), della legge 8 agosto 1995, n. 335 (Riforma del sistema pensionistico obbligatorio e complementare), e della legge n. 296 del 2006 (art. 1, comma 776). Dopo aver rilevato che la questione non avrebbe trovato soluzione univoca davanti al giudice delle pensioni (sono menzionate varie decisioni della Corte dei conti), onde ne sarebbe derivata una grave e illegittima discriminazione tra i pensionati, la parte privata richiama la giurisprudenza della Corte costituzionale nella materia de qua, illustra la propria posizione pensionistica, sostiene l’ammissibilità della questione sollevata con l’ordinanza di rimessione e, nel merito, ne propugna la fondatezza. In particolare, la parte privata afferma che, dopo il 1° gennaio 1995, per effetto dell’art 15, comma 3, della legge n. 724 del 1994, «la pensione (diretta) spettante viene determinata sulla base degli elementi retributivi assoggettati a contribuzione, ivi compresa l’indennità integrativa speciale, ovvero l’indennità di contingenza, ovvero l’assegno per il costo della vita spettante». Con tale nuovo sistema di calcolo, confermato dalla legge n. 335 del 1995, fatte salve le precedenti posizioni pensionistiche più favorevoli, il legislatore, recependo quanto statuito da questa Corte sulla natura retributiva dell’indennità integrativa speciale, ha modificato, con decorrenza dal 1° gennaio 1995, il sistema di calcolo del trattamento pensionistico, facendo rientrare la detta indennità nella retribuzione pensionabile. Pertanto, ad avviso della parte privata, a seguito della liquidazione del trattamento pensionistico con il nuovo sistema di calcolo (art. 15, comma 3, della legge n. 724 del 1994), sarebbe implicitamente venuta meno l’ipotesi di divieto di cumulo dell’indennità integrativa speciale su più contestuali pensioni (art. 99, secondo comma, del T. U. n. 1092 del 1973), fondato sulla natura “accessoria” del detto emolumento. Ne deriverebbe che, dopo il 1° gennaio 1995, nei confronti del titolare di pensione pubblica (diretta o di reversibilità) da data anteriore al 31 dicembre 1994 con indennità integrativa speciale separata, divenuto titolare di altra pensione pubblica diretta dopo la predetta data, sarebbe ripristinata l’indennità integrativa speciale sulla prima pensione, essendo scomparsa detta indennità come assegno accessorio su quella successiva. Dal che il discrimine di identiche posizioni, rilevato dal giudice rimettente, «che non costituisce assolutamente l’effetto diacronico voluto dal legislatore nei diversi periodi». Richiamata la sentenza di questa Corte n. 516 del 2000, relativa ad una legge della Regione Siciliana che pure vietava il cumulo dell’indennità integrativa speciale su più trattamenti pensionistici, e posta in rilievo la differenza della statuizione in essa contenuta rispetto alle precedenti pronunzie, la parte privata ne trae la conseguenza che «la disposizione dell’art. 99, secondo comma, del T. U. 1092/73, nella ipotesi in cui dovesse essere stata soltanto “modificata” dalla sentenza 494/93 (additiva-manipolativa) e non annullata, non potrebbe comunque trovare attuale cittadinanza nell’ordinamento pensionistico, come si desume dagli interventi della Corte costituzionale del 1998 (ord. 438/98) e del 2000 (ord. 517/00 e sent. 516/2000)». Se, invece, detta disposizione è ritenuta vigente nel testo manipolato, essa «non può non essere nuovamente scrutinata e dichiarata incostituzionale, questa volta con identic a motivazione della sentenza 516/00, vale a dire per violazione degli artt. 3, 36 e 38 della Carta fondamentale». Infine, la parte privata richiama la precedente ordinanza di rimessione n. 58 del 2006 della Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Toscana, osserva che al riguardo non vi è stata pronuncia di merito a seguito dell’ordinanza di restituzione atti adottata da questa Corte (n. 119 del 2008) e conclude per la declaratoria d’illegittimità costituzionale della norma censurata. 3. — Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha spiegato intervento nel presente giudizio, osservando che sulla questione le sezioni riunite della Corte dei conti si sono chiaramente pronunciate con le sentenze n. 14/QM/03 dell’11 luglio 2003 e 2/QM/06 del 22 febbraio 2006. Con tali statuizioni il divieto di cumulo dell’indennità integrativa speciale è stato ritenuto operante. La difesa dello Stato osserva che, mentre la norma censurata stabilisce che al titolare di più pensioni o assegni la detta indennità compete ad un solo titolo, l’art. 99, quinto comma, del d.P.R. n. 1092 del 1973, del quale fu dichiarata l’illegittimità costituzionale con sentenza n. 566 del 1989, prevedeva la sospensione del versamento dell’indennità medesima nei confronti del titolare di pensione o di assegno, prestatore d’opera retribuita sotto qualsiasi forma. Nel caso deciso con la sentenza da ultimo citata, dunque, assumevano valore due elementi, uno dei quali, cioè la pensione, è noto e determinabile, mentre l’altro, ossia la retribuzione di un’opera prestata sotto qualsiasi forma, può avere il più diverso contenuto e, quindi, è da considerare incerto e aleatorio. Pertanto, l’illegittimità della norma era stata desunta dall’impossibilità d’indiv iduare un limite minimo dell’emolumento dell’attività lavorativa. Invece, nel caso di due pensioni entrambi gli emolumenti sono fissati per legge e, perciò, sono noti. Ad avviso dell’Avvocatura generale, questa è la ragione per cui il mantenimento di una sola indennità, stabilito dalla norma in esame, può essere sufficiente per assolvere alle finalità di cui all’art. 38 Cost., in quanto l’indennità stessa costituisce la componente sulla quale il legislatore ben può esercitare la propria discrezionalità, salvo il limite della manifesta irragionevolezza. Infine essa, ponendo in evidenza come il percorso argomentativo seguìto da questa Corte nella sentenza n. 494 del 1993 sia connesso a quello effettuato in precedenti sentenze (n. 307 del 1993 e n. 172 del 1991), ritiene non fondati i dubbi di legittimità costituzionale sollevati in ordine alla norma censurata. 4. — Nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituito anche l’Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (INPDAP), chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, in subordine, non fondata. Il detto ente, dopo aver riassunto gli aspetti salienti del processo promosso (dalla parte privata) davanti alla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Toscana, osserva che le sezioni riunite della stessa Corte dei conti sono state investite della questione di massima, relativa alla corretta interpretazione dell’art. 99, comma secondo, del d.P.R. n. 1092 del 1973, proprio a seguito di ordinanza pronunziata dall’attuale Giudice rimettente nel processo a quo. Richiamato il contenuto della pronuncia adottata dalle sezioni riunite, l’INPDAP prosegue osservando che essa ha efficacia vincolante nel giudizio a quo, sicché la sezione giurisdizionale per la Regione Toscana doveva applicare il principio di diritto nella medesima decisione enunciato. Da ciò deriverebbe che l’ordinanza, con la quale la detta sezione giurisdizionale ha nuovamente sollevato la questione di legittimità costituzionale, si dovrebbe ritenere inammissibile. Nel merito, l’Istituto sostiene la non fondatezza della questione. L’ente richiama i precedenti della Corte costituzionale (sentenze n. 376 del 1994, n. 494 del 1993 e n.172 del 1991, della cui natura additiva non si potrebbe dubitare) ed afferma che le pronunzie d’illegittimità costituzionale delle norme, relative al cosiddetto divieto di cumulo dell’indennità integrativa speciale su plurimi trattamenti pensionistici, sarebbero state limitate alla parte in cui le norme stesse «non hanno previsto la salvezza, sul secondo trattamento pensionistico, dell’importo corrispondente al c.d. “minimo INPS”». Ciò diversamente dalle statuizioni del giudice delle leggi, intervenute in merito alla distinta ipotesi di cumulo dell’indennità integrativa speciale in caso di godimento di retribuzione e di trattamento di quiescenza, alle quali andrebbe riconosciuta natura di sentenze di “mero annullamento”. Pertanto, la norma censurata non sarebbe stata affatto espunta dall’ordinamento, ma soltanto integrata dalla disciplina introdotta dalla Corte costituzionale, al fine di assicurarne la conformità ai princìpi costituzionali. L’Istituto aggiunge che tale interpretazione è stata condivisa in più decisioni delle sezioni riunite della Corte dei conti, le cui conclusioni, a suo avviso, trovano conferma nella recente evoluzione normativa introdotta con le disposizioni contenute nell’art. 1, commi 774 e 776, della legge n. 226 (recte: 296) del 2006. Infatti, il legislatore avrebbe inteso fornire una interpretazione definitiva circa le modalità di computo dell’indennità integrativa speciale, sia pure in relazione alle sole pensioni di reversibilità, con una disciplina destinata a spiegare efficacia anche nel caso in esame. Dopo aver posto l’accento sull’art. 15, comma 3, della legge n. 724 del 1994 e sull’art. 1, comma 41, della legge n. 335 del 1995, l’ente osserva che l’art. 1, comma 774, della legge n. 296 del 2006 ha disposto che l’estensione della disciplina dell’assicurazione generale obbligatoria alle pensioni di reversibilità del settore pubblico deve intendersi nel senso che l’indennità integrativa speciale, in godimento al dante causa e indipendentemente dalla decorrenza della pensione diretta, è attribuita, sui trattamenti di reversibilità liquidati successivamente all’entrata in vigore della legge n. 335 del 1995, nella sola misura percentuale prevista per il trattamento di reversibilità (cioè con la riduzione al 60 per cento). Con il successivo comma 776, per evidenti esigenze di ordine sistematico, è stata abrogata la disposizione introdotta dall’art. 15, comma 5, della legge n. 724 del 1994, che faceva salvo il computo della suddetta indennità in misura intera, per i trattamenti di reversibilità che (per quanto liquidati dopo l’entrata in vigore della legge n. 335 del 1995) fossero comunque relativi a trattamenti diretti liquidati prima del 31 dicembre 1994. Ad avviso dell’ente, con tale intervento il legislatore avrebbe inteso interpretare nel modo più restrittivo, per esigenze perequative nonché di contenimento della spesa previdenziale, le norme in tema di computo dell’indennità in questione sui trattamenti di reversibilità. Ciò si rifletterebbe anche in tema di calcolo della medesima indennità su plurimi trattamenti pensionistici, conducendo ad escludere il computo di essa in misura integrale su tali trattamenti. Invero, per i casi di concorso tra pensione diretta e di reversibilità, una diversa interpretazione dell’art. 99, secondo comma, del d.P.R. n. 1092 del 1973, nel senso di ritenere caducato il divieto di cumulo, si porrebbe in contrasto con le disposizioni dettate dalla legge finanziaria per il 2007, in quanto giungerebbe al risultato inaccettabile di consentire il computo integrale dell’indennità integrativa speciale sui trattamenti di reversibilità anche successivi al 1995. In sostanza, ad avviso dell’ente, se non è più consentito computare detta indennità in misura intera sul trattamento di reversibilità liquidato dopo il 1995, ed ovviamente cumulare più indennità in misura intera qualora uno dei trattamenti pensionistici sia di reversibilità, non si vede come si potrebbe giungere a tale risultato qualora essi siano entrambi diretti, cioè più favorevoli per il pensionato. Infine, l’INPDAP richiama la più recente giurisprudenza della Corte dei conti, favorevole alla tesi interpretativa propugnata dall’ente. 5. — La Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Piemonte, in composizione monocratica, con ordinanza del 13 maggio 2009 (r. o. n. 287 del 2009), ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 36 e 38 Cost., questione di legittimità costituzionale dell’art. 99, secondo comma, del d.P.R. n. 1092 del 1973. La Corte rimettente premette di essere chiamata a pronunciare in sette processi, promossi da soggetti tutti intestatari, a vario titolo, di due pensioni liquidate entro il 31 dicembre 1994. Tutti i ricorrenti chiedono che sia loro corrisposta l’indennità integrativa speciale, da calcolare in misura intera su entrambe le pensioni in godimento. Le Amministrazioni resistenti, però, sostengono che le domande non possono essere accolte, stante il divieto di cumulo di plurime indennità integrative su più pensioni, tuttora parzialmente previsto dall’art. 99, secondo comma, del d.P.R. n. 1092 del 1973. Il giudice a quo richiama il percorso giurisprudenziale sviluppatosi in materia, ponendo l’accento sulle sentenze della Corte costituzionale e sulle decisioni della Corte dei conti che hanno affrontato, sotto diversi profili, il tema del cumulo della suddetta indennità. Ad avviso del medesimo Giudice, nel diritto vivente sarebbe «venuta a delinearsi – almeno in apparenza – un’aporia dell’ordinamento pensionistico pubblico. La Corte costituzionale, in particolare, sembra aver risolto in maniera difforme due questioni tra loro apparentemente analoghe, come pare desumersi dal raffronto delle citate sentenze n. 494 del 1993 e n. 376 del 1994 (da un lato) con l’orientamento successivamente espresso nella sentenza n. 516 del 2000 (dall’altro lato). Le prime due sentenze, specificamente, paiono tenere distinte la fattispecie del cumulo di pensione e retribuzione (per la quale si pronuncia una declaratoria di illegittimi tà con effetto “ablatorio”) rispetto a quella del cumulo tra più pensioni (per la quale si ha invece una pronuncia con effetto “additivo” o “manipolativo”, introducendo nella norma il criterio-soglia del minimo INPS per adeguare il divieto di “cumulo” ai canoni di legittimità costituzionale); la terza sentenza, al contrario, sembra equiparare le due fattispecie (pensione più retribuzione versus plurime pensioni), ritenendole entrambe illegittime, senza dettare alcun criterio di adeguamento». La Corte rimettente, dopo aver formulato l’ipotesi che tale discrasia possa spiegarsi con le innovazioni legislative intervenute nel corso del tempo, richiama l’art. 1, commi 774 e 776, della legge n. 296 del 2006, nonché l’art. 15 della legge n. 724 del 1994, ed afferma che «in base al combinato disposto delle disposizioni appena richiamate, un problema di cumulo di i.i.s. non poteva e non può ulteriormente porsi per tutte quelle pensioni in cui la i.i.s. è stata effettivamente “conglobata” e, segnatamente: per le pensioni dirette liquidate dopo il 31 dicembre 1994 e per le pensioni di reversibilità ad esse riferite (legge n. 724 del 1994, art. 15, commi 3 e 4 citati); per le pensioni di reversibilità sorte con decorrenza pari o successiva al 17 agosto 1995 (legge n. 335 del 1995, art. 1, comma 41 citato, alla luce dell’interpretazione autentica recata dal citato comma 774), ancorché riferite a pensioni dirette ante 1995». Il problema restava aperto, invece, per le pensioni dirette liquidate entro il 31 dicembre 1994 e per le pensioni di reversibilità ad esse riferite, se sorte entro il 16 agosto 1995 (art. 15, comma 5, legge n. 724 del 1994), perché, dopo l’abrogazione di tale norma ad opera dell’art. 1, comma 776, della legge n. 296 del 2006, non era chiaro in giurisprudenza se per tali pensioni l’indennità integrativa si potesse ancora considerare “voce accessoria” ed autonoma rispetto alla pensione base. Il giudice a quo, poi, pone l’accento sull’ordinanza di questa Corte n. 119 del 2008 e rileva che, dopo la restituzione degli atti disposta con tale provvedimento, la giurisprudenza della Corte dei conti è pervenuta a soluzioni “variegate”, alcune ritenendo la sussistenza del divieto di cumulo, altre (come la Sezione d’appello per la Sicilia) affermando la caducazione di tale divieto, così riconoscendo il diritto al cumulo di più indennità senza limitazioni di sorta. La rimettente riferisce di aver prestato motivata adesione a quest’ultima soluzione ermeneutica, nella prospettiva di una interpretazione sistematica e costituzionalmente orientata che conduceva a ritenere non più vigente, almeno dal 17 agosto 1995, l’art. 99, secondo comma, del d.P.R. n. 1092 del 1973. Tuttavia, avuto riguardo alla rilevanza della questione ed ai contrasti insorti nella giurisprudenza, la questione medesima è stata nuovamente rimessa alle sezioni riunite della Corte dei conti che, con la sentenza n. 1/QM del 26 febbraio 2009, hanno tra l’altro affermato, dopo ampia disamina, il seguente principio di massima: «Per il periodo precedente all’entrata in vigore della legge 27.12.2006, n. 296, resta applicabile la disciplina della IIS con riferimento al titolare di due pensioni decorrenti entrambe da data anteriore al 1. 1. 1995». In questo quadro, il giudice a quo dà atto del “diritto vivente” «quale inequivocamente affermato da tre conformi successive pronunce delle Sezioni riunite (n. 14/QM/2003 cit.; n. 2/QM/2006 cit.; n. 1/QM/2009 cit.) nonché dall’attuale univoco orientamento delle tre Sezioni centrali d’appello della Corte dei conti (Sez. Prima, sent. 295 del 07.07.2008; Sez. Seconda, sent. 252 del 25.07.2008; Sez. Terza, sent. 238 del 22.8.2008, già citate; fa eccezione, ma in relazione ai soli ricorrenti residenti in Sicilia, App. Sicilia, sent. 100 del 6 marzo 2009». A suo avviso ne deriva, in primo luogo, che il (parziale) divieto di cumulo di più indennità integrative corrisposte su più pensioni è da ritenere tuttora vigente, in quanto lo jus superveniens, introdotto dalla legge finanziaria per il 2007, non avrebbe influito sull’applicazione o sull’interpretazione del citato art. 99, secondo comma, del d .P.R. n. 1092 del 1973 (come risultante dopo la sentenza di questa Corte n. 494 del 1993); in secondo luogo, che restano integre tutte le censure di legittimità costituzionale, a suo tempo sollevate, nei confronti di tale norma, per contrasto con gli artt. 3 e 36 Cost. (Sezione Abruzzo, ordinanza n. 14 del 10 marzo 2006); ovvero con gli artt. 3, 36 e 38 Cost. (Sezione Toscana, ordinanza n. 33 del 30 marzo 2006); o anche soltanto con l’art. 3 Cost. (Sezione terza appello, n. 153 del 16 maggio 2006). A tali ordinanze di rimessione, «i cui contenuti devono intendersi qui integralmente richiamati, in quanto condivisi da questo Giudice, viene ad aggiungersi, da ultimo, l’ordinanza Sez. Toscana, n. 49 del 3 aprile 2009, anch’essa sostanzialmente condivisa da questo Giudice e da intendersi qui recepita». Ciò posto, la Corte rimettente passa a motivare sulla rilevanza della questione, osservando che i giudizi nei quali è chiamata a pronunziare non possono essere decisi prescindendo dall’applicazione della norma censurata, perché concernenti fattispecie di cumulo di indennità integrative speciali relative a pensioni liquidate anteriormente al 1° gennaio 1995, con domanda di riconoscimento di ratei arretrati comunque ricadenti (tenuto conto del termine quinquennale di prescrizione) in data anteriore al 2007. Inoltre, nessuna interpretazione costituzionalmente orientata di detta norma è percorribile, in presenza del chiarissimo principio di diritto più volte affermato e ribadito dalle sezioni riunite della Corte dei conti, nonché dalle tre sezioni centrali d’appello, «le cui conformi pronunce sostanziano il “diritto vivente”». In ordine alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo – richiamate ancora una volta le considerazioni svolte nelle citate ordinanze di rimessione del 2006, nonché nell’ordinanza n. 49 del 2009 della sezione Toscana – osserva in via di sintesi che sono state poste in evidenza «le molteplici incongruenze derivanti dalla piena cumulabilità della indennità integrativa speciale per i pensionati che siano ancora lavoratori attivi (cumulo pensione-retribuzione) con cessazione del favorevole regime di cumulo all’atto del successivo pensionamento (divieto di cumulo pensione-pensione), ma solo per i pensionati ante 1995 (e per le relative pensioni di reversibilità, se maturate entro il 17 agosto 1995), così introducendo, tra l’altro, una forte ed irragionevole cesura sul piano temporale senza la contestuale previsione di alcun meccanismo di graduale adeguamento dal “vecchio” al “nuovo” sistema di computo della i.i.s., con particolare riguardo alla salvaguardia delle posizioni pregresse. Irragionevolmente distonico appare, poi, il “conglobamento” della i.i.s. nelle pensioni di reversibilità comunque sorte dopo il 17 agosto 1995, dal momento che quella stessa i.i.s., in capo al dante causa, è tuttora considerata voce “accessoria” di contingenza». Il giudice a quo, poi, «ritiene di dover rimarcare il profilo, invero singolare, dell’irragionevole disparità di trattamento venutasi a creare tra i pensionati della Regione Sicilia (interessati ad oggi dalla citata pronuncia “ablatoria” n. 516 del 2000: v. tabella O, lettera b, terzo comma, della legge della Regione Siciliana 29 ottobre 1985, n. 41) e il resto dei pensionati pubblici (interessati per contro dalla citata pronuncia “manipolativa” n. 494 del 1993: v. art. 99, secondo comma, t. u. 1092 del 1973)». La Corte rimettente prosegue affermando che, se nel 2000 il criterio del “minimo INPS” è stato ritenuto non più idoneo a rendere costituzionalmente legittima la citata norma della Regione siciliana (come dovrebbe desumersi dalla sentenza n. 516 del 2000) non sarebbe equo né ragionevole che quello stesso criterio sia parzialmente tenuto fermo dalla giurisprudenza contabile nel “diritto vivente”, facendo applicazione della norma qui censurata, tanto più che il criterio dell’integrazione al minimo INPS rappresenta un correttivo soltanto nominale, perché quasi tutte le pensioni dei dipendenti pubblici sono superiori ad esso. Sarebbe ravvisabile, quindi, una macroscopica violazione dei princìpi fondamentali di uguaglianza e ragionevolezza, sottesi all’art. 3 Cost., non essendo dato percepire le ragioni per le quali le due originarie (e nella sostanza equivalenti) norme, una dello Stato l’altra della Regione Sicilia, entrambe recanti il divieto di cumulo dell’indennità integrativa, siano poi divenute, per effetto di pronunce della Corte costituzionale (e non di scelte legislative, espressione di discrezionalità nella materia), norme del tutto diverse pure in assenza di apprezzabili differenze nelle fattispecie disciplinate. Andrebbe rilevato, infine, che, trattandosi di rendita vitalizia pubblica, corrisposta mensilmente agli interessati, l’irragionevole perdurante sperequazione «può finire, in concreto, per minare non soltanto l’effettività del canone di uguaglianza, ma anche il principio stesso di solidarietà sociale ed economica su cui si fonda la Repubblica (art. 2 Cost.)». 6. — Nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituito l’INPDAP che, svolgendo argomentazioni analoghe a quelle esposte con riferimento alla precedente ordinanza di rimessione (r.o. n. 193 del 2009), ha chiesto che la questione sia dichiarata inammissibile o, in subordine, non fondata. 7. — Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, a sua volta è intervenuto concludendo per la non fondatezza della questione, con argomenti analoghi a quelli esposti nel precedente giudizio. In prossimità dell’udienza di discussione la difesa dello Stato ha depositato memorie in entrambi i giudizi. Considerato in diritto 1. — Le sezioni giurisdizionali per la Regione Toscana e per la Regione Piemonte della Corte dei conti, in composizione monocratica, con le ordinanze indicate in epigrafe dubitano della legittimità costituzionale dell’articolo 99, secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), come risultante dopo la sentenza di questa Corte n. 494 del 1993, in riferimento agli articoli 2, 3, 36 e 38 della Costituzione. Le dette sezioni giurisdizionali sono state chiamate a giudicare su ricorsi proposti da diverse persone, ciascuna intestataria a vario titolo di due pensioni liquidate entro il 31 dicembre 1994. I ricorrenti chiedono che sia loro corrisposta su entrambe le pensioni in godimento l’indennità integrativa speciale in misura intera. Le amministrazioni resistenti, però, sostengono che le domande non possono essere accolte, stante il divieto di cumulo di plurime indennità integrative su più pensioni, tuttora parzialmente previsto dal citato art. 99, secondo comma, del d.P.R. n. 1092 del 1973, già oggetto della sentenza di questa Corte n. 494 del 1993, che dichiarò l’illegittimità costituzionale del medesimo art. 99, secondo comma, «nella parte in cui non prevede che, nei confronti del titolare di due pensioni, pur restando vietato il cumulo delle indennità integrative speciali, debba comunque farsi salvo l’im porto corrispondente al trattamento minimo di pensione previsto per il Fondo pensioni lavoratori dipendenti». Le rimettenti richiamano i precedenti della questione, gli orientamenti espressi sul tema de quo dalla Corte costituzionale e dalla Corte dei conti, le trasformazioni normative intervenute nel corso degli anni e rilevano che, pur dopo la pronunzia “ablatoria” di questa Corte, adottata con la sentenza n. 516 del 2000 (in ordine ad una norma della Regione siciliana avente contenuto analogo a quello della norma qui censurata), la giurisprudenza delle sezioni riunite e delle sezioni centrali d’appello (esclusa la sezione d’appello per la Sicilia) della stessa Corte dei conti è ormai ferma nel senso di ritenere tuttora vigente il (parziale) divieto di cumulo della indennità integrativa speciale su più pensioni, in guisa da integrare un vero e proprio “diritto vivente”. In relazione a tale principio, tuttavia, restano intatte le censure di illegittimità costituzionale a suo tempo sollevate, con le ordinanze della sezione Abruzzo, della sezione Toscana e della sezione terza d’appello della Corte dei conti, tutte emesse nel 2006, sulle quali non vi è stata pronunzia di questa Corte perché essa, a seguito della entrata in vigore della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007 –), e segnatamente dell’art. 1, commi 774 e 776, della medesima, dispose la restituzione degli atti ai giudici rimettenti con ordinanza n. 119 del 2008, avuto riguardo alle intervenute modifiche del quadro normativo, costituenti jus superveniens. Pertanto le sezioni giurisdizionali in epigrafe, nel riportarsi alle citate ordinanze di rimessione, «i cui contenuti devono intendersi qui integralmente richiamati», rinnovano (nei termini che saranno in prosieguo precisati) le censure mosse all’art. 99, secondo comma, del d.P.R. n. 1092 del 1973. 2. — I due giudizi di legittimità costituzionale, avendo ad oggetto la medesima questione, devono essere riuniti e decisi con unica pronunzia. 3. — Con riferimento alla questione proposta dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Toscana, l’Istituto nazionale di previdenza per i dipendenti dell’amministrazione pubblica (INPDAP) ha eccepito che essa sarebbe inammissibile, in quanto le sezioni riunite della Corte dei conti sono state investite della questione di massima relativa alla corretta interpretazione dell’art. 99, comma secondo, del d.P.R. n. 1092 del 1973 proprio a seguito di ordinanza di rimessione pronunciata dalla detta Sezione giurisdizionale nel giudizio a quo. Le sezioni riunite, con sentenza n. 1/QM/2009, hanno statuito che «In ragione dell’art. 99, secondo comma, del d.P.R. n. 1092 del 1973, vigente nel testo modificato dalla Corte costituzionale tuttora non sussiste, in caso di pensioni liquidate, come nella deferita questione, prima dell’1. 1. 1995, il diritto al cumulo della i.i.s. in misura intera su due trattamenti di pensione, dovendosi assicurare sul secondo trattamento solo il minimo INPS». L’Istituto prosegue rilevando che le stesse sezioni riunite si sono soffermate anche sull’efficacia del cosiddetto jus superveniens, di cui all’art. 1, commi 774 e seguenti, della legge n. 296 del 2006, affermando che tali disposizioni non hanno «modificato l’assetto normativo valevole per il periodo anteriore alla data di entrata in vigore della legge n. 724 del 1994, quale modellatosi con le varie sentenze della Corte costituzionale relative al divieto di cumulo». Pertanto, l’INPDAP conclude sostenendo che, poiché la suddetta sentenza ha efficacia vincolante nel giudizio a quo, la sezione giurisdizionale per la Toscana della Corte dei conti avrebbe dovuto applicare i princìpi sopra enunciati, senza poter sollevare la questione di legittimità costituzionale. 3. 1. — L’eccezione non è fondata. Questa Corte, con giurisprudenza costante, in relazione al giudizio di rinvio dopo sentenza di annullamento pronunciata dalla Corte di cassazione, ha affermato che la norma dichiarata applicabile nella interpretazione dalla medesima Corte fornita può formare oggetto di questione di legittimità costituzionale da parte del giudice del rinvio, perché quest’ultimo deve fare applicazione della norma nel significato attribuitole, onde non si è al cospetto di rapporti “esauriti”(ex plurimis: sentenze n. 305 del 2008, n. 349 e 78 del 2007, n. 58 del 1995 e n. 138 del 1993). Per quanto qui interessa, la situazione non è dissimile con riguardo alle sentenze pronunciate dalle sezioni riunite della Corte dei conti in questioni di massima concernenti un giudizio pendente davanti ad una sezione giurisdizionale territoriale, che ha rimesso la questione stessa all’esame delle dette sezioni riunite. Anche la sezione territoriale, infatti, deve fare applicazione della norma nel significato che le è stato attribuito con la pronuncia sulla questione di massima (sentenza n. 375 del 1996); e, del resto, l’articolo 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 (Norme sui giudizi di legittimità costituzionale e sulle garanzie d’indipendenza della Corte costituzionale), stabilisce che la relativa questione è rilevata d’ufficio o sollevata da una delle parti nel corso di un giudizio, senza distinguere tra i gradi o le fasi di questo (sentenza n. 138 del 1977). 4. — Entrambe le ordinanze di rimessione rinviano per relationem alle precedenti ordinanze del 2006, dichiarando di far proprie le motivazioni in esse contenute. Questa Corte, però, con giurisprudenza costante, ha dichiarato inammissibili le questioni così sollevate, dovendo il giudice a quo esporre compiutamente ed in forma autosufficiente le ragioni del proprio convincimento circa l’illegittimità costituzionale della norma censurata (ex plurimis: sentenze n. 64 del 2009, n. 72 del 2008, n. 103 del 2007; ordinanze n. 75 del 2007 e n. 33 del 2006). Ne deriva che i detti rinvii non possono trovare ingresso in questa sede, sicché il thema decidendum resta circoscritto alle censure esposte nelle ordinanze di rimessione indicate in epigrafe. 5. — Nel merito, si deve premettere che, ai sensi dell’art. 15, comma 3, della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), «con decorrenza dal 1°gennaio 1995, per i dipendenti delle amministrazioni pubbliche di cui all’art. 1 del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni e integrazioni, iscritti alle forme di previdenza esclusive dell’assicurazione generale obbligatoria, nonché per le altre categorie di dipendenti iscritti alle predette forme di previdenza, la pensione spettante viene determinata sulla base degli elementi retributivi assoggettati a contribuzione, ivi compresa l’indennità integrativa speciale, ovvero l’indennità di contingenza, ovvero l’assegno per il costo della vita spettante». Pertanto, a far tempo dalla data suddetta, il pagamento dell’indennità di contingenza è stato conglobato nel trattamento pensionistico, mentre il detto art. 15, comma 3, e le disposizioni successive di cui alla sentenza delle sezioni riunite della Corte dei conti n. 1 del 26 febbraio 2009, non hanno modificato – secondo l’orientamento della giurisprudenza menzionata nell’ordinanza di rimessione – il carattere accessorio delle indennità integrative speciali sulle pensioni liquidate in epoca anteriore al 1° gennaio 1995, con la conseguenza che, per i titolari di più pensioni tutte anteriori a tale data, permangono i limiti relativi al cumulo delle indennità stesse posti dall’art. 99, comma secondo, del d.P.R. n. 1092 del 1973, nel testo risultante dopo la sentenza di questa Corte n. 494 del 1993. Detta norma dispone che «Al titolare di più pensioni o assegni l’indennità integrativa speciale compete a un solo titolo». La sentenza da ultimo citata ne dichiarò l’illegittimità costituzionale «nella parte in cui non prevede che, nei confronti del titolare di due pensioni, pur restando vietato il cumulo delle indennità integrative speciali, debba comunque farsi salvo l’importo corrispondente al trattamento minimo previsto per il Fondo pensioni lavoratori dipendenti». La pronuncia prese le mosse dall’articolo 17 della legge 21 dicembre 1978, n. 843 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato), il quale disponeva, nel comma 1, che «L’indennità integrativa speciale non è cumulabile con la retribuzione percepita in costanza di rapporto di lavoro alle dipendenze di terzi. Deve comunque essere fatto salvo l’importo corrispondente al trattamento minimo di pensione previsto per il Fondo pensioni lavoratori dipendenti» (cosiddetto minimo INPS); pose l’accento, poi, sulla sentenza n. 172 del 1991, che aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale del detto art. 17 « nella parte in cui non prevede che anche nei confronti del titolare di due pensioni, pur restando vietato il cumulo delle indennità integrative speciali, debba comunque farsi salvo l’importo corrispondente al trattamento minimo di pensione previsto per il Fondo pensioni lavorato ri dipendenti»; menzionò, inoltre, la sentenza n. 307 del 1993, con la quale fu dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 16 della legge 20 ottobre 1982, n. 773 (Riforma della Cassa nazionale di previdenza ed assistenza a favore dei geometri), «nella parte in cui non prevede che anche nei confronti del titolare di due pensioni, di cui una a carico della Cassa nazionale di previdenza e assistenza dei geometri, pur restando vietato il cumulo delle indennità integrative speciali, debba comunque farsi salvo l’importo corrispondente al trattamento minimo di pensione previsto per il Fondo pensioni lavoratori dipendenti»; e, ritenendo che le rationes decidendi poste a fondamento delle sentenze da ultimo richiamate ricorressero anche con riguardo al disposto dell’art. 99, secondo comma, del d.P.R. n. 1092 del 1973, pervenne alla declaratoria d’illegittimità costituzionale di tale norma, nei sensi sopra indicati. Come si vede, tratto comune delle sentenze ora citate è il principio che nei confronti dei titolari di due pensioni il cumulo delle indennità integrative speciali resta vietato, sia pure con il correttivo nelle sentenze medesime stabilito, ossia con il riconoscimento del diritto alla riscossione della detta indennità anche sul secondo trattamento, ma limitatamente alla misura necessaria per l’integrazione all’importo corrispondente al trattamento minimo previsto per il Fondo pensioni lavoratori dipendenti. Il detto principio, che trova un ancoraggio normativo nell’art. 17, primo comma, della legge n. 843 del 1978, non si può ritenere espunto dall’ordinamento a seguito delle sentenze di questa Corte n. 204 del 1992 e n. 172 del 1991 (del resto, entrambe precedenti alla sentenza n. 494 del 1993). Non certo per effetto della prima, che anzi, nel dichiarare la (parziale) illegittimità della citata norma, fece leva proprio sulla necessità di far salvo il trattamento minimo di pensione previsto per il Fondo pensioni lavoratori dipendenti; e nemmeno per effetto della seconda che, senza far riferimento al menzionato trattamento minimo, pervenne alla declaratoria d’illegittimità costituzionale delle due norme censurate (tra cui l’art. 17, primo comma, della legge n. 843 del 1978), «nella parte in cui non determinano la misura della retribuzione, oltre la quale diventano operanti l’esclusione e il congelamento dell’ indennità integrativa speciale», così mostrando di condividere la tesi che un limite oltre il quale il divieto di cumulo diventava operante rientrava nella sfera della legittimità costituzionale. Lo stesso principio, peraltro, si trova ribadito anche nella sentenza n. 376 del 1994. Essa affermò che la regola per cui al titolare di più pensioni l’indennità integrativa speciale compete ad un solo titolo «è costituzionalmente legittima solo se e nella misura in cui sia fatto salvo l’importo di detta indennità eventualmente occorrente a non ridurre la prestazione pensionistica al di sotto del trattamento minimo INPS». Ed aggiunse, con riferimento all’ipotesi del pensionato che presti attività lavorativa retribuita, «che la sospensione o il congelamento dell’indennità integrativa speciale relativa alla pensione non è legittima ove sia operante qualunque sia l’ammontare della retribuzione percepita, spettando peraltro alla discrezionalità del legislatore – che non risulta essere stata in concreto esercitata – stabilire quale sia la soglia retributiva oltre la quale abbia vigore tale decurtazione» (punto 2 del Considerato in diritto, penultimo paragrafo). Infine, questa Corte, chiamata a giudicare su una norma della Regione Siciliana di contenuto simile a quello dell’art. 99, secondo comma, con sentenza n. 516 del 2000 ne dichiarò l’illegittimità costituzionale «nella parte in cui non determina la misura del trattamento complessivo oltre il quale diventi operante, per i titolari di pensioni ed assegni vitalizi, il divieto di cumulo della indennità di contingenza ed indennità similari». E’ agevole constatare che, se la sentenza non fa riferimento al trattamento minimo INPS, è vero del pari che nella declaratoria d’illegittimità costituzionale si fa espressa menzione della misura del trattamento complessivo oltre il quale il divieto di cumulo diventa operante. C’è di più: nella motivazione (punto 5 del Considerato in diritto) si chiarisce che «l’illegittimità costituzionale non deriva dal divieto di cumulo, di per sé non incostituzionale in relazione alla originaria funzione della indennità di contingenza (o similare) come elemento aggiuntivo (correlata a percentuale di stipendio o pensione) e separato dalla retribuzione o pensione, con finalità di adeguarla ad un livello minimo rispetto alle variazioni del costo della vita; ma si verifica in presenza di divieto di cumulo di indennità di contingenza (o similare) generalizzato, cioè senza che sia fissato un limite minimo o trattamento complessivo per le attività alle quali si riferisce, al di sotto del quale non debba operare il divieto stesso». In definitiva, come risulta dall’excursus fin qui compiuto, una lettura complessiva e coordinata della giurisprudenza di questa Corte fino ad oggi formatasi porta a concludere che il divieto di cumulo di più indennità integrative speciali su plurimi trattamenti pensionistici è stato considerato conforme al quadro costituzionale, con il correttivo individuato dalla giurisprudenza. 5. — Bisogna ora procedere all’esame delle questioni proposte dalle ordinanze di rimessione, nei limiti indicati nel precedente paragrafo 4. 5.1. — L’ordinanza della sezione giurisdizionale per la Regione Toscana della Corte dei conti, oltre ad un rinvio per relationem al provvedimento n. 58 del 2006 adottato nel 2006 (rinvio che, per quanto sopra detto, non può trovare ingresso in questa sede), afferma che, «poiché il legislatore ha trasformato quella che era una retribuzione (differita) accessoria in retribuzione primaria», così ponendo in evidenza il chiaro intento di non riproporre il precedente divieto, pur temperato dalla tutela del minimo pensionistico, era stata chiesta una pronuncia d’illegittimità costituzionale della norma censurata «sotto la nuova ottica (rispetto all’assetto normativo che ha conosciuto il giudice costituzionale del 1993), in quanto diversamente opinando, si verserebbe nella macroscopica diversità di trattamento tra i percettori di plurimi trattamenti pensionistici ante legge n. 724 del 1994 (che godrebbero del mantenime nto di più indennità integrative speciali, ma ancorate inevitabilmente al cosiddetto minimo INPS) e i percettori di plurime pensioni post legge n. 724 del 1994 (i quali a parità di condizioni e di trattamenti pensionistici, solo temporalmente differenziati quanto al momento della loro liquidazione, godrebbero di indennità integrative speciali senz’altro integrali)». La questione non è fondata. Premesso che si verte in tema di rapporti di durata, secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale non contrasta con il principio di eguaglianza un trattamento differenziato, applicato ad una determinata categoria di soggetti in momenti diversi nel tempo, perché proprio il fluire del tempo costituisce un elemento di diversificazione delle situazioni giuridiche (ex plurimis: sentenze n. 94 del 2009, punto 7.2 del Considerato in diritto; n. 341 del 2007; n. 342 del 2006; ordinanze n. 61 del 2010 e n. 170 del 2009). Inoltre, rientra nella discrezionalità del legislatore, nel rispetto del principio di ragionevolezza, modulare diversamente nel tempo la disciplina giuridica degli istituti e, nella specie, la diversa disciplina dell’indennità integrativa speciale tra pensioni precedenti e successive al 1° gennaio 1995 non può definirsi irragionevole, in quanto si colloca nella prospettiva di pervenire all’armonizzazione delle b asi contributive e pensionabili, previste dalle diverse gestioni obbligatorie dei settori pubblico e privato (art. 15, comma 3, della legge n. 724 del 1994). I parametri riferiti agli artt. 36 e 38 Cost., ancorché evocati nell’ordinanza di rimessione che ha dato luogo al presente giudizio di legittimità costituzionale, sono privi di motivazione. Pertanto, con riferimento ad essi la questione è inammissibile (ex plurimis: ordinanze nn. 181 e 35 del 2009; nn. 206 e 32 del 2008). 5.2. — Passando all’ordinanza della sezione giurisdizionale per la Regione Piemonte, si deve premettere che non spetta alla Corte costituzionale, bensì al giudice delle controversie in materia pensionistica, interpretare la normativa applicabile, anche nei suoi profili diacronici, provvedendo altresì a comporre, con gli strumenti predisposti dall’ordinamento, i contrasti giurisprudenziali e le situazioni d’incertezza che ne derivano. Il che, peraltro, è avvenuto, come si desume dalla stessa ordinanza di rimessione (in particolare, pag. 23), a seguito della sentenza delle sezioni riunite della Corte dei conti, n. 1/QM del 26 febbraio 2009 (che ha dato continuità, nella sostanza, a precedenti decisioni adottate nel 2003 e nel 2006), cui hanno prestato adesione tre sezioni centrali d’appello della stessa Corte dei conti. Questa Corte, dunque, deve procedere allo scrutinio di legittimità costituzionale della norma censurata, per come interpretata dal “diritto vivente” al riguardo formatosi, sulla base dei parametri evocati ed illustrati dalla Sezione rimettente, ferma restando l’inammissibilità del rinvio per relationem ad altre precedenti ordinanze. Orbene, la detta sezione così riassume, “in estrema sintesi”, le censure mosse. Andrebbero poste in rilievo le molteplici incongruenze derivanti dalla piena cumulabilità della indennità integrativa speciale per i pensionati che siano ancora lavoratori attivi (cumulo pensione-retribuzione), «con cessazione del favorevole regime di cumulo all’atto del successivo pensionamento (divieto di cumulo pensione-pensione), ma solo per i pensionati ante 1995 (e per le relative pensioni di reversibilità, se maturate entro il 17 agosto 1995), così introducendo, tra l’altro, una forte ed irragionevole cesura sul piano temporale senza la contestuale previsione di alcun meccanismo di graduale adeguamento dal “vecchio” al “nuovo” sistema di computo della i.i.s., con particolare riguardo alla salvaguardia delle posizioni pregresse. Irragionevolmente distonico appare, poi, il “conglobamento” della i.i.s. nelle pensioni di reversibilità comunque sorte dopo il 17 agosto 1995 dal momento che quella stessa i.i.s., in capo al dante causa, è tuttora considerata voce “accessoria” di contingenza». Inoltre, andrebbe rimarcata l’irragionevole disparità di trattamento venutasi a creare tra i pensionati della Regione Sicilia (tuttora interessati dalla pronuncia ablatoria n. 516 del 2000) e il resto dei pensionati pubblici, interessati, invece, dalla sentenza “manipolativa” n. 434 (recte: 494) del 1993. Del resto, se nel 2000 il criterio del “minimo INPS” è stato ritenuto non più idoneo a rendere conforme a Costituzione la citata norma della Regione Sicilia, non sarebbe equo, ragionevole e coerente che quello stesso criterio, ormai abbandonato dalla Corte costituzionale, sia parzialmente tenuto fermo dalla giurisprudenza contabile, tanto più che si tratta di un correttivo soltanto nominale, giacché quasi tutte le pensioni dei dipendenti pubblici sono, in concreto, superiori al detto “minimo”. Verrebbe così a configurarsi «in aggiunta ai profili di incostituzionalità già delineati nelle richiamate ordinanze, una macroscopica violazione dei princìpi fondamentali di uguaglianza e ragionevolezza, sottesi all’art. 3 della Costituzione, non essendo di agevole percezione la ragione (salvo dar rilievo, per l’appunto, al diverso contesto “storico” dell’ordinamento pensionistico pubblico entro cui sono state pronunciate le rispettive declaratorie di illegittimità costituzionale) per cui le due originarie (e sostanzialmente equivalenti) norme (statale e regionale), entrambe recanti il divieto totale di cumulo della i.i.s., siano poi venute paradossalmente a dipanarsi, per l’effetto di pronunce della Corte costituzionale (e non di scelte legislative espressive di discrezionalità nella materia) in due regole giuridiche incommensurabilmente diverse (cumulo pieno per il solo personale della Region e Sicilia; cumulo parziale ma, in concreto, inoperante per gli altri»). Infine, la rimettente rileva che, «trattandosi di una rendita vitalizia pubblica, corrisposta mensilmente agli interessati per importi tutt’altro che irrilevanti, l’irragionevole perdurante sperequazione può finire, in concreto, per minare non soltanto l’effettività del canone di uguaglianza, ma anche il principio stesso di solidarietà sociale ed economica su cui si fonda la Repubblica (art. 2 Cost.)». Le suddette censure, mosse con riferimento all’art. 3 Cost. sotto i profili della disparità di trattamento e dell’irragionevolezza, non sono fondate. Quanto alle presunte incongruenze derivanti dalla piena cumulabilità dell’indennità integrativa speciale per i pensionati che siano ancora lavoratori attivi, con cessazione di tale regime all’atto del successivo pensionamento, si deve osservare che la posizione del personale in quiescenza, che sia titolare di due pensioni, non è omogenea a quella del personale in quiescenza che, essendo titolare di una pensione, svolga anche attività lavorativa retribuita. Infatti, in questa seconda ipotesi, alla pensione si aggiunge una ulteriore fonte di reddito, costituita dal corrispettivo del lavoro svolto, di entità variabile in relazione al lavoro stesso, il cui ammontare può giustificare una diminuzione del trattamento pensionistico complessivo qualora sia correlata ad una retribuzione che ne giustifichi la misura (sentenza n. 566 del 1989, che non a caso escluse violazioni dell’art. 3 Cost. per i profili in quella sede dedotti: punto 3 del Considerato in diritto). La diversa condizione del pensionato che svolga anche attività lavorativa rispetto a quella del titolare di più pensioni o assegni rende non irragionevole un trattamento giuridico differenziato. In ordine alla disparità di trattamento per i pensionati anteriori al 1995, è sufficiente richiamare le considerazioni svolte in precedenza. La disparità di trattamento venutasi a creare tra i pensionati della Regione Sicilia ed il resto dei pensionati pubblici non deriva da vizi di legittimità della norma censurata (nel testo risultante a seguito della sentenza additiva di questa Corte n. 494 del 1993), bensì dai contrasti ermeneutici emersi nella giurisprudenza, attualmente peraltro superati, come sopra si è notato. Né può condividersi l’assunto secondo il quale già nel 2000 il criterio del “minimo INPS” sarebbe stato ritenuto «non più idoneo a riportare a legittimità costituzionale la citata norma della Regione Sicilia» (corrispondente alla disposizione in questa sede censurata), e quindi sarebbe stato «abbandonato dalla Corte costituzionale». Se con tale assunto si vuol fare riferimento alla sentenza di questa Corte n. 516 del 2000, si deve ribadire che essa non fa alcun cenno al “minimo INPS” e chiarisce, in motivazione, che il divieto di cumulo delle indennità integrative di per sé non è costituzionalmente illegittimo, così ricollegandosi all’orientamento sopra richiamato. Orbene, fermo il punto che alla Corte costituzionale non è consentito fornire l’interpretazione autentica delle proprie precedenti decisioni (ordinanza n. 438 del 1998), né dirimere contrasti sulla inte rpretazione della legge ordinaria (ordinanza n. 89 del 2005), va osservato che, nel contesto di quell’orientamento, l’affermazione relativa al presunto abbandono del suddetto criterio si rivela priva di adeguata motivazione. Infine, il rilievo secondo cui il criterio del “minimo INPS” sarebbe soltanto nominale si risolve in una valutazione di fatto che non può trovare ingresso nel giudizio di legittimità costituzionale. 6. — Da ultimo, la sezione rimettente assume che, considerata la natura dell’indennità integrativa, «l’irragionevole perdurante sperequazione può finire, in concreto, per minare non soltanto l’effettività del canone di uguaglianza, ma anche il principio stesso di solidarietà sociale ed economica su cui si fonda la Repubblica (art. 2 Cost.)». Questo parametro, però, è evocato in forma non soltanto ipotetica, ma anche generica e meramente assertiva. Ne segue che la questione, sollevata con riferimento ad esso, è inammissibile. Analoga declaratoria d’inammissibilità deve emettersi con riguardo ai parametri individuati negli artt. 36 e 38 Cost., del pari evocati senza adeguata motivazione (ex plurimis: ordinanze n. 181 e n. 35 del 2009, n. 32 del 2008). per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi; dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 99, secondo comma, del decreto del Presidente della Repubblica 29 dicembre 1973, n. 1092 (Approvazione del testo unico delle norme sul trattamento di quiescenza dei dipendenti civili e militari dello Stato), sollevate dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Toscana e sezione giurisdizionale per la Regione Piemonte, in riferimento agli articoli 2, 36 e 38 della Costituzione, con le ordinanze indicate in epigrafe; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 99, secondo comma, del d. P. R. n. 1092 del 1973, sollevata dalla Corte dei conti, sezione giurisdizionale per la Regione Toscana e sezione giurisdizionale per la Regione Piemonte, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 maggio 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Alessandro CRISCUOLO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 giugno 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA |