Deposito del 06/05/2010 (dalla 156 alla 168) |
S.156/2010 del 28/04/2010 Udienza Pubblica del 13/04/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore CASSESE Norme impugnate: Art. 9, c. 1° bis, del decreto legge 01/07/2009, n. 78, convertito con modificazioni in legge 03/08/2009, n. 102. Oggetto: Amministrazione pubblica - Bilancio e contabilità pubblica - Tempestività dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni - Somme dovute da una Regione commissariata nei confronti di un'amministrazione pubblica - Regolazione mediante intervento del tesoriere con delegazione di pagamento, che si determina automaticamente al momento del riconoscimento del debito da parte dell'amministrazione de bitrice, da effettuare entro trenta giorni dall'istanza dell'amministrazione creditrice Previsione di un meccanismo di silenzio-assenso per il riconoscimento del debito - Lamentata sostituzione del tesoriere (una banca) all'amministrazione regionale, previsione di un termine irragionevole e discriminatorio, nonché creazione di una volontà fittizia della Regione che non si sia espressa. Dispositivo: illegittimità costituzionale - inammissibilità Atti decisi: ric. 81/2009 |
S.157/2010 del 28/04/2010 Camera di Consiglio del 14/04/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SILVESTRI Norme impugnate: Art. 56, c. 3°, del decreto legislativo 28/08/200 0, n. 274. Oggetto: Reati e pene - Sa nzioni applicabili dal giudice di pace - Obbligo di permanenza domiciliare - Allontanamento del condannato dai luoghi in cui è obbligato a permanere - Pena della reclusione fino ad un anno - Inapplicabilità delle sanzioni sostitutive previste dagli artt. 53 e seguenti della legge n. 689 del 1981. Dispositivo: non fondatezza Atti decisi: ord. 243/2009 |
O.158/2010 del 28/04/2010 Udienza Pubblica del 23/03/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore NAPOLITANO Norme impugnate: Art. 2 e allegato 1 del decreto legge 22/12/2008, n. 200, convertito con modificazioni in legge 18/02/2009, n. 9. Oggetto: Comuni, Province e Città metropolitane - Abrogazione di provvedimenti normativi concernenti l'istituzione o ricostituzione o la variazione dei territori di diversi comuni siciliani. Dispositivo: estinzione del processo Atti decisi: ric. 27/2009 |
O.159/2010 del 28/04/2010 Udienza Pubblica del 13/04/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore QUARANTA Norme impugnate: Art. 8 della legge della Regione Lazio 02/12/2008, n. 20. Oggetto: Enti locali - Norme della Regione Lazio - Comunità montane - Obbligo generale di riordino sulla base di parametri autoritativamente imposti dallo Stato, con la legge n. 244/2007, al fine del contenimento della spesa pubblica - Previsione di un intervento statale di soppres sione delle comunità montane per il caso di mancato intervento del riordino regionale entro il termine di sei mesi, e subentro dei Comuni alle soppresse comunità montane - Tardiva entrata in vigore della legge della Regione Lazio - Disciplina regionale che non tiene conto dell'avvenuta produzione automatica degli effetti stabiliti dal legislatore statale, nonché mancata riduzione della spesa per il funzionamento delle comunità montane nella misura fissata dalla legge statale e mancato mantenimento dei rapporti a tempo indeterminato, intrattenuti dalle comunità montane alla data di entrata in vigore della legge statale. Dispositivo: cessata materia del contendere Atti decisi: ric. 10/2009 |
O.160/2010 del 28/04/2010 Camera di Consiglio del 14/04/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore TESAURO Norme impugnate: Art. 26 del decreto legislativo 02/02/2006, n. 40. Oggetto: Procedimento civile - Impugnazioni - Appellabilità delle sentenze rese nei giudizi di opposizione ad ordinanza ingiunzione di cui agli artt. 22 e ss. della legge n. 689 del 1981 - Previsione introdotta dal decreto legislativo n. 40 del 2006 - Estraneità all'oggetto della delega conferita al Governo per apportare modifiche al codice di procedura civile e concernente la disciplina del processo di cassazione e dell'arbitrato. Dispositivo: manifesta infondatezza Atti decisi: ord. 289, 290 e 291/2009 |
O.161/2010 del 28/04/2010 Camera di Consiglio del 14/04/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore QUARANTA Norme impugnate: Art. 1, c. 12°, della deliberazione legislativa dell'Assemblea Regionale Siciliana 19/12/2008 (disegno di legge n. 328). Oggetto: Bilancio e contabilità pubblica - Norme della Regione Siciliana - Finanziamenti a carico del bilancio regionale agli enti locali che hanno assunto a tempo indeterminato i contrattisti del bacino dei lavori socialmente utili, pur in mancanza della preventiva istanza all'agenzia preposta all'istruttoria. Dispositivo: cessata materia del contendere Atti decisi: ric. 106/2008 |
O.162/2010 del 28/04/2010 Camera di Consiglio del 24/03/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore MADDALENA Norme impugnate: Art. 4 bis, c. 1°, primo periodo, della legge 26/07/1975, n. 354, come modificato dall'art. 3, c. 1°, lett. a), del decreto legge 23/02/2009, n. 11. Oggetto: Ordinamento penitenziario - Benefici penitenziari - Restrizioni introdotte dal decreto legge n. 11 del 2009 - Permessi premio - Concessione, sulla base della normativa previgente, ai condannati per il delitto di cui all'art. 609-quater, primo comma, n. 2, cod. pen. (atti sessuali con minorenne) che prima dell'entrata in vigore della novella abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato - Mancata previsione. Dispositivo: restituzione atti - jus superveniens Atti decisi: ord. 171/2009 |
O.163/2010 del 28/04/2010 Camera di Consiglio del 24/03/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore FINOCCHIARO Norme impugnate: Artt. 165, c. 1°, 645, c. 2°, e 647 del codice di procedura civile. Oggetto: Procedimento civile - Opposizione a decreto ingiuntivo - Assegnazione all'opposto di un termine a comparire inferiore a quello ordinario di 90 giorni - Conseguente dimidiazione del termine di costituzione in giudizio dell'opponente, alla stregua di quanto sostenuto dalla costante giurisprudenza di legittimità elevata a 'diritto vivente' - Ritenuta intempestività della costituzione effettuata tra il quinto e il decimo giorno successivo alla notificazione della citazione e connessa improcedibilità dell'opposizione per tardiva costituzione dell'opponente, equiparata dal 'diritto vivente' alla mancata costituzione, allorché l'opponente abbia assegnato, anche involontariamente, all'opposto un termine a comparire inferiore a quello previsto dall'art. 163-bis cod. proc. civ. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 244/2009 |
O.164/2010 del 28/04/2010 Camera di Consiglio del 24/03/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore MAZZELLA Norme impugnate: Art. 13, c. 6° bis, del decreto del Presidente della Repubblica 30/05/2002, n. 115, aggiunto dall'art. 21, c. 4°, del decreto legge 04/07/2006, n. 223, convertito con modificazioni in legge 04/08/2006, n. 248, e integrato dall'art. 1, c. 1307°, della legge 27/12/2006, n . 296. Oggetto: Imposte e tasse - Dis ciplina del contributo unificato per le spese degli atti giudiziari nel processo amministrativo - Previsione del contributo di euro duemila per i ricorsi di cui all'art. 23-bis, primo comma, della legge n. 1034 del 1971 in materia di affidamento di lavori, servizi e forniture, nonché di provvedimenti delle Autorità Disposizione introdotta dalla legge finanziaria per il 2007 - Ricorso proposto innanzi al giudice tributario da società tenuta a versare il detto contributo e destinataria di avviso di pagamento e contestuale irrogazione di sanzioni emesso dalla segreteria del giudice amministrativo. Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 266/2009 |
O.165/2010 del 28/04/2 010 Camera di Consiglio del 24/03/2010, Presidente DE SIERVO, Redattore SAULLE Norme impugnate: Art. 26, c. 7° bis, del decreto legislativo 25/07/1998, n. 286, aggiunto dall'art. 21 della legge 30/07/2002, n. 189. Oggetto: Straniero - Espulsione automatica in caso di condanna irrevocabile per determinati reati - Automaticità delle sanzioni Dispositivo: manifesta inammissibilità Atti decisi: ord. 265/2009 |
O.166/2010 del 28/04/2010 Camera di Consiglio del 14/04/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore SILVESTRI Norme impugnate: Art. 656, c. 9°, del codice di procedur a penale; art. 4 bis della legge 26/07/1975, n. 354, come modificato d all'art. 3 del decreto legge 23/02/2009, n. 11, convertito, con modificazioni, in legge 23/04/2009, n. 38. Oggetto: Ordinamento penitenziario - Benefici penitenziari - Condizioni di accesso per i condannati per i delitti di cui all'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975 - Applicabilità a condannati per fatti commessi da minorenni, nella specie, per delitti di cui agli artt. 605, 609-quater e 609-octies cod. pen. - Violazione dei principi della finalità rieducativa della pena e di protezione dei minori. Dispositivo: manifesta inammissibilità - restituzione atti - jus superveniens Atti decisi: ord. 250/2009 |
S.167/2010 del 28/04/2010 Udienza Pubblica de l 10/03/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore TESAURO Norme impugnate: Artt. 2, c. 1°, lett. h), 5, c. 1°, 8, c. 6°, 10, 15, c. 1° e 18, c. 1° e 4°, della legge della Regione autonoma Friuli-Venezia Giulia 29/04/2009, n. 9. Oggetto: Sicurezza pubblica - Norme della Regione Friuli-Venezia Giulia - Politiche di sicurezza e ordinamento della polizia locale - Previsione che la Regione promuova lo "sviluppo di politiche di sicurezza transfrontaliere" - Lamentata estensione delle competenze della Regione, competente solo nella materia della "polizia locale" e non legittimata a concludere accordi con Stati o enti esteri in materia di politiche di sicurezza; Volontari per la sicurezza - Previsione che la Regione promuova e sostenga finanziariamente l'impiego del volontariato e dell'associazionismo "ivi comprese le associazioni d'arma e le associazioni delle Forze dell'ordine" - Lamentata esorbitanz a dalle competenze statutarie; Ordinamento della polizia locale - Previsione che "nell'esercizio delle funzioni di pubblica sicurezza previste dalla normativa statale, la polizia locale assuma il presidio del territorio tra i suoi compiti primari, al fine di garantire, in concorso con le forze di polizia dello Stato, la sicurezza urbana degli ambiti territoriali di riferimento" - Contrasto con la legge quadro sull'ordinamento della polizia municipale - Lamentata esorbitanza dalle competenze statutarie; Ordinamento della polizia locale - Previsione che i comuni e le province istituiscano i corpi di polizia locale e ne regolamentino l'organizzazione ed il funzionamento, secondo i principi organizzativi contenuti nella legge regionale - Lamentata esorbitanza dalle competenze statutarie ed invasione della sfera di competenza dei comuni e delle province; Personale dei Corpi e dei Servizi di polizia locale - Previsione che gli agenti, gli ispettori e i commissari della polizia locale sono rispettivamente agenti ed ufficiali di polizia gi udiziaria e che il comandante del Corpo di polizia locale dei comuni capoluogo di provincia non riveste la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria - Omissione di qualunque riferimento alla normativa statale in materia - Lamentata esorbitanza dalle competenze statutarie e contrasto con la legislazione nazionale; Polizia locale - Armamento e strumenti di autotutela - Previsione che il personale di polizia locale sia dotato di armamento secondo quanto previsto dalla normativa statale e che gli addetti alla polizia locale espletino "muniti di armi almeno i servizi di vigilanza, protezione degli immobili di proprietà dell'ente locale e dell'armeria del Corpo o Servizio, quelli notturni e di pronto intervento" - Lamentata esorbitanza dalle competenze regionali e contrasto con la legislazione nazionale. Dispositivo: illegittimità costituzionale - non fondatezza Atti decisi: ric. 46/2009 |
S.168/2010 del 28/04/2010 Udienza Pubblica del 13/04/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore DE SIERVO Norme impugnate: Artt. 2, 4 e 6, c. 3°, della legge della Regione autonoma Valle d'Aosta 17/06/2009, n. 18. Oggetto: Ambiente - Edilizia e urbanistica - Norme della Regione Valle d'Aosta - Introduzione dell'art. 90-bis nella legge regionale n. 11/1998 - Ampliamento di esercizi di ristorazione e di strutture alberghiere, nelle more dell'adeguamento dei Piani Regolatori Generali - Omessa previsione di una clausola di salvezza delle disposizioni dettate in materia di valutazione di impatto ambientale, con specifico riferimento a strutture alberghiere con più di 300 posti letto - Omessa esclusione degli interventi di ampliamento in tutti i casi in cui le norme di attuazione dei piani di bacino o la normativa di salvaguardia non li consentano; Energia - Norme della Regione Valle d'Aosta - Impianti di energia eolica - Sospensione sine die dei procedimenti di autorizzazione sino all'individuazione, da parte dei Comuni, degli ambiti territoriali nei quali potranno essere realizzati gli impianti medesimi, sulla base delle linee-guida previste dalla legge impugnata; Introduzione dell'art. 32-bis nella legge regionale n. 11/1998 - Linee-guida, da deliberarsi da parte della Giunta regionale, per la individuazione degli ambiti territoriali sui quali potranno essere realizzati gli impianti di energia eolica - Omesso coordinamento con le linee-guida nazionali espressione di principi fondamentali correlati alle materie tutela dell'ambiente, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia, governo del territorio. Dispositivo: illegittimità costituzionale - non fondatezza Atti decisi: ric. 58/2009 |
SENTENZA N. 156 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1-bis, del decreto-legge 1 luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, promosso dalla Regione Campania con ricorso notificato il 3 ottobre 2009, depositato in cancelleria il 7 ottobre 2009 ed iscritto al n. 81 del registro ricorsi 2009. Visto l’atto di costituzione del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella udienza pubblica del 13 aprile 2010 il Giudice relatore Sabino Cassese; uditi l’avvocato Giandomenico Falcon per la Regione Campania e l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1. – La Regione Campania, con ricorso del 3 ottobre 2009, depositato il 7 ottobre 2009 (reg. ric. n. 81 del 2009), ha impugnato l’art. 9, comma 1-bis, del decreto-legge 1 luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, per violazione degli artt. 3, primo comma, anche sotto il profilo della ragionevolezza, 24, primo comma, 97, primo comma, 117, terzo e quarto comma, e 119 della Costituzione. 2. – La disposizione impugnata prevede che «le somme dovute da una regione commissariata ai sensi dell’articolo 1, comma 174, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, e successive modificazioni, nei confronti di un’amministrazione pubblica di cui all’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, e successive modificazioni, sono regolate mediante intervento del tesoriere con delegazione di pagamento ai sensi degli articoli 1268 e seguenti del codice civile, che si determina automaticamente al momento del riconoscimento del debito da parte dell’amministrazione debitrice, da effettuare entro trenta giorni dall’istanza dell’amministrazione creditrice. Decorso tale termine senza contestazioni puntuali da parte della pubblica amministrazione debitrice, il debito si intende comunque riconosciuto nei termini di cui all’istanza». 3. – La Regione Campania afferma in via preliminare di non ritenersi inclusa tra le Regioni destinatarie della norma impugnata. La Regione, infatti, rileva di essere stata commissariata in base alla delibera del Consiglio dei ministri del 28 luglio 2009, concernente la «Nomina del Presidente pro-tempore della Regione Campania quale commissario ad acta per il risanamento del servizio sanitario regionale, a norma dell’articolo 4 del decreto-legge 1 ottobre 2007, n. 159 (Interventi urgenti in materia economico−finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale), convertito con modificazioni dalla legge 29 novembre 2007, n. 222», e non, come previsto dalla norma censurata, in base all’art. 1, comma 174, della legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005). Ciò nonostante, la Regione Campania si considera legittimata, al pari di qualu nque altra Regione, a proporre il presente ricorso, in quanto potenziale destinataria della disposizione impugnata. 3.1. – La Regione Campania sostiene, in primo luogo, che la norma censurata produce l’effetto di spostare dall’amministrazione regionale al tesoriere la competenza a disporre – oltre che ad effettuare concretamente – il pagamento delle somme di cui la Regione risulti debitrice nei confronti di altre pubbliche amministrazioni. Tale disposizione lederebbe l’autonomia finanziaria regionale assicurata dall’art. 119 Cost. e la potestà legislativa in materia di organizzazione dei propri procedimenti garantita dall’art. 117, quarto comma, Cost., né potrebbe essere qualificata come principio di coordinamento della finanza pubblica. 3.2. – Ad avviso della Regione, in secondo luogo, risulterebbero violati il principio di ragionevolezza e quello di buon andamento dell’amministrazione (art. 97, primo comma, Cost.), perché la disposizione impugnata «discrimina alcuni creditori rispetto ad altri» e per «l’assenza di ragioni giustificatrici della norma e l’evidenza del suo carattere controproducente». Tali violazioni si rifletterebbero in ulteriori lesioni delle competenze regionali costituzionalmente garantite, considerato che l’autonomia finanziaria e l’autonomia organizzativa della Regione sono compresse senza ragionevoli giustificazioni di efficienza amministrativa. 3.3. – La ricorrente, in terzo luogo, sostiene che la disposizione, laddove prevede che il riconoscimento del debito da parte della Regione commissariata debba effettuarsi entro trenta giorni dall’istanza della amministrazione creditrice, non avrebbe la natura di principio fondamentale, in quanto applicabile solo alle Regioni commissariate e soltanto nei rapporti tra amministrazioni. Esso, quindi, lederebbe, in modo irragionevole e discriminatorio, l’autonomia organizzativa della Regione, nonché «la generale autonomia di cui essa gode almeno al pari di tutti gli altri soggetti dell’ordinamento, e che gode anch’essa di tutela costituzionale». 3.4. – La Regione, in quarto luogo, dubita della legittimità costituzionale del meccanismo di silenzio-assenso previsto dalla norma censurata per il riconoscimento del debito da parte della Regione commissariata, in quanto violerebbe primariamente «il diritto della Regione di disciplinare “il significato delle proprie azioni e determinazioni amministrative”, garantito dall’art. 117, quarto comma, Cost.». La norma, inoltre, lederebbe l’art. 3, primo comma, Cost., comprimendo l’autonomia privata della Regione commissariata in modo discriminatorio rispetto a tutte le altre Regioni e le altre pubbliche amministrazioni. Risulterebbero manifestamente non rispettati, ad avviso della Regione, anche i principi di autonomia finanziaria di cui all’art. 119 Cost. e di buon andamento dell’amministrazione di cui all’art. 97, primo comma, Cost., in quanto l’amministrazione regionale sarebbe esposta al «rischio di una enorme pluralità di richieste di pagamento da parte di enti locali o di altri enti, alle quali essa dovrebbe far fronte distraendo i propri uffici dal lavoro ordinario, per non incorrere nel riconoscimento del debito». Il meccanismo di silenzio-assenso previsto dalla norma impugnata violerebbe, inoltre, l’art. 24, primo comma, Cost., precludendo alla Regione commissariata «di far valere in un momento successivo l’infondatezza della pretesa creditoria». La ricorrente sostiene, inoltre, di essere pienamente legittimata a ricorrere avverso tutte queste violazioni, poiché di esse la Regione sarebbe «vittima diretta». 3.5. – Secondo la Regione Campania, infine, la previsione che il debito possa essere riconosciuto ove le contestazioni non siano puntuali finirebbe «per attribuire a chi dovrebbe applicare la norma – cioè alla stesso tesoriere – il giudizio sulla sufficienza e sulla fondatezza delle contestazioni», con violazione del diritto della Regione alla difesa giurisdizionale (art. 24, primo comma, Cost.). 4. – Si è costituito il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, sostenendo l’infondatezza del ricorso. Ad avviso della difesa dello Stato, la norma impugnata si colloca nell’ambito di una serie di disposizioni volte a garantire la tempestività dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni, rispondendo così «alla primaria esigenza del legislatore nazionale di dare attuazione alle disposizioni comunitarie in materia di ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali». È al fine di assicurare il raggiungimento di tale obiettivo che la norma prevede, per le Regioni sottoposte a commissariamento, meccanismi più stringenti per il riconoscimento e la liquidazione dei crediti delle amministrazioni. Questi meccanismi, «lungi dal comprimere l’autonomia organizzativa della Regione nella gestione dei propri pagamenti, rispond[ono] ad esigenze di coordinam ento della finanza pubblica e a esigenze di tutela dei livelli essenziali delle prestazioni». 5. – Il 23 marzo 2010 la Regione Campania ha depositato memoria illustrativa di replica a quanto sostenuto dal Presidente del Consiglio dei ministri nel proprio atto di costituzione. La ricorrente rileva, innanzitutto, che la norma impugnata risulta estranea alle esigenze di attuazione del diritto comunitario in materia di ritardi di pagamento di cui alla direttiva 2000/35/CE, in quanto la disposizione «attiene solo ai rapporti tra amministrazioni, cioè a debiti che raramente avranno il proprio titolo in transazioni commerciali». La Regione ribadisce, poi, che la disposizione impugnata neppure può trovare la propria base costituzionale nella competenza statale in materia di coordinamento della finanza pubblica, poiché essa «ha carattere dettagliato, autoapplicativo e non lascia alcun margine di scelta alle Regioni sugli strumenti con i quali conseguire il (presunto) fine di coordinamento». Inoltre, la norma non sarebbe diretta a limitare una spesa della Regione o delle amministrazioni pubbliche in generale, bensì a «prevedere una anomala procedura di spesa regionale, con il risultato illegittimo di privare la Regione della capacità di gestire la propria spesa». Infine, la ricorrente contesta l’invocazione della competenza statale a determinare i livelli essenziali delle prestazioni. 6. – Il 23 marzo 2010 l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato memoria illustrativa, chiedendo che il ricorso venga dichiarato inammissibile e, comunque, non fondato. Quanto alla ammissibilità, la difesa dello Stato rileva che la Regione, per poter proporre la questione di costituzionalità, «deve essere titolare dell’interesse a ricorrere che abbia i requisiti di concretezza, di attualità e di immediatezza e che, perciò, tale interesse non possa essere solo potenziale o solo astrattamente configurabile». Dalla non applicabilità della norma impugnata alla Regione Campania – attualmente commissariata in base a procedura diversa da quella indicata dalla disposizione – deriverebbe «l’insussistenza ab origine della materia del contendere». Con riguardo al merito, la difesa dello Stato ribadisce che la norma censurata va ricondotta nell’ambito di una serie articolata di disposizioni dirette a garantire la tempestività dei pagamenti delle amministrazioni pubbliche, «al fine di ridurre i possibili oneri a carico delle imprese e sanare i debiti pregressi attraverso l’avvio di un processo di liquidazione dei residui cumulati nel passato». La disposizione impugnata, pertanto, oltre ad attuare le previsioni comunitarie di cui alla direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali del 29 giugno 2000, 2000/35/CE, rappresenta un «principio fondamentale di coordinamento della finanza pubblica». A tal fine, sostiene l’Avvocatura generale dello Stato, la norma doveva necessariamente prevedere, per le Regioni commissariate, «meccanismi più incisivi» che, data la particolare situazione finanziaria di tal i enti, garantissero una tempestiva riscossione dei crediti da parte delle altre amministrazioni, «anche allo scopo di assicurare il regolare funzionamento dei servizi pubblici essenziali». La norma sarebbe inoltre circoscritta entro confini, anche temporalmente, delineati, vista la correlazione della disposizione alla circostanza, e perciò alla durata, del commissariamento previsto per il risanamento del servizio sanitario. Considerato in diritto 1. – La Regione Campania ha promosso, in relazione agli artt. 3, primo comma, anche sotto il profilo della ragionevolezza, 24, primo comma, 97, primo comma, 117, terzo e quarto comma, e 119 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1-bis, del decreto-legge 1 luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102. Ad avviso della Regione Campania, la norma impugnata violerebbe, innanzitutto, l’art. 117, terzo e quarto comma, Cost., in quanto travalicherebbe le competenze dello Stato nello stabilire i principi fondamentali in materia di coordinamento della finanza pubblica e lederebbe la potestà legislativa esclusiva delle Regioni di organizzare i propri procedimenti. La disposizione violerebbe anche l’autonomia finanziaria regionale in materia sia di entrate che di spesa garantita dall’art. 119 Cost. La norma, inoltre, sarebbe contraria all’art. 3, primo comma, Cost., sia sotto il profilo della ragionevolezza, per «l’assenza di ragioni giustificatrici […] e l’evidenza del suo carattere controproducente», sia sotto il profilo dell’uguaglianza, perché discriminerebbe le Regioni commissariate rispetto alle altre Regioni e pubbliche amministrazioni nel riconoscimento dei propri debiti verso altre amministrazioni. Sa rebbe leso, poi, l’art. 24, primo comma, Cost., in riferimento al diritto delle Regioni commissariate a far valere in via giudiziaria l’infondatezza della pretesa creditoria vantata nei loro confronti da altre amministrazioni e in quanto la disposizione impugnata di fatto attribuisce «a chi dovrebbe applicare la norma – cioè allo stesso tesoriere – il giudizio sulla sufficienza e sulla fondatezza delle contestazioni». Vi sarebbe, infine, una violazione dell’art. 97, primo comma, Cost., poiché la norma minerebbe il buon andamento delle Regioni commissariate. 2. – Preliminarmente deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse sollevata dall’Avvocatura generale dello Stato, ad avviso della quale la norma censurata non si applicherebbe alla Regione Campania. La Regione, infatti, è attualmente commissariata in base a una disposizione (articolo 4 del decreto-legge 1 ottobre 2007, n. 159 – Interventi urgenti in materia economico-finanziaria, per lo sviluppo e l’equità sociale, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 novembre 2007, n. 222) diversa da quella richiamata dalla norma impugnata (articolo 1, comma 174, della legge 30 dicembre 2004, n. 311, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2005»). 3. – L’eccezione non è fondata. Come più volte ribadito da questa Corte, «le questioni di legittimità costituzionale delle leggi devono essere proposte, in via principale, entro il termine di decadenza fissato dall’art. 127 Cost.; dal che discende che la lesione della sfera di competenza lamentata dalla ricorrente presuppone la sola esistenza della legge oggetto di censura, a prescindere dal fatto che essa abbia avuto concreta attuazione, ed essendo sufficiente che essa sia, ancorché non immediatamente, applicabile» (sentenze n. 141 del 2010 e n. 133 del 2006). L’interesse della ricorrente, pertanto, sussiste indipendentemente dal fatto che la norma impugnata abbia avuto o meno applicazione nella Regione Campania. E ciò a prescindere dalla circostanza che le due previsioni legislative – quella di cui all’art. 1, comma 174, della legge n. 311 del 2004, indicata dalla disposizione censurata, e quella di cui all’art. 4 della legge n. 159 del 20 07, in base al quale la Regione Campania è stata commissariata nel luglio 2009 – non solo si sovrappongono, senza escludersi a vicenda, ma costituiscono un corpo unico. Se così non fosse, non si spiegherebbe perché la disposizione impugnata si sia limitata a richiamare la legge n. 311 del 2004 e successive modificazioni, senza riferirsi espressamente anche alla norma del 2007. 4. – Sono, invece, inammissibili le censure prospettate in merito agli artt. 24, primo comma, e 97, primo comma, Cost., trattandosi di parametri non invocabili nel giudizio di costituzionalità in via principale promosso da una Regione perché, nella fattispecie, le violazioni lamentate non comportano una compromissione delle attribuzioni regionali costituzionalmente garantite, né ridondano sul riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni (ex multis, sentenza n. 52 del 2010). 5. – Nel merito, la questione è fondata. 5.1. – La disposizione impugnata riguarda il pagamento di somme da parte di pubbliche amministrazioni, vale a dire l’ultima delle quattro fasi generalmente previste per la procedura di spesa (impegno, liquidazione, ordinazione, pagamento). La norma, pertanto, deve essere inquadrata nell’ambito del bilancio e della contabilità delle Regioni, riconducibile alla materia «armonizzazione dei bilanci pubblici e coordinamento della finanza pubblica», di competenza concorrente tra Stato e Regioni ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost. In tale settore, la legislazione statale di principio sulla contabilità regionale è stata dettata con il decreto legislativo 28 marzo 2000, n. 76 (Principi fondamentali e norme di coordinamento in materia di bilancio e di contabilità delle regioni, in attuazione dell'articolo 1, comma 4, della legge 25 giugno 1999, n. 208), che agli artt. 18 e 19 regola gli impegni e il pagamento delle spese pubbliche, limitandosi a stabilire che gli impegni e i pagamenti non eccedano i rispettivi stanziamenti di bilancio. Le disposizioni statali hanno trovato attuazione, nella Regione Campania, con la legge regionale 30 aprile 2002, n. 7 (Ordinamento contabile della Regione Campania articolo 34, comma 1, d.lgs. 28 marzo 2000, n. 76). In particolare, gli artt. 34 e seguenti di tale legge dettano puntuali previsioni sulla liquidazione, sull’ordinazione e sul pagamento delle spese da parte dell’amministrazione regionale, con specifico riguardo alla ve rifica della esigibilità dei crediti e alla successiva ordinazione delle spese impartita al tesoriere. 5.2. – Secondo la giurisprudenza di questa Corte, le norme statali recanti principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica possono «porre obiettivi di riequilibrio della medesima», non debbono prevedere «in modo esaustivo strumenti o modalità per il perseguimento dei suddetti obiettivi» (sentenze n. 284 e n. 237 del 2009) e debbono lasciare alle Regioni «la possibilità di scegliere in un ventaglio di strumenti concreti da utilizzare per raggiungere quegli obiettivi» (sentenze n. 341 e n. 237 del 2009). 5.3. – La disposizione impugnata, invece, non detta principi, ma prevede modalità di pagamento delle spese dettagliate sia sotto il profilo organizzativo, sia sotto l’aspetto procedurale. Essa trasforma il tesoriere in ordinatore del pagamento, modifica la sequenza delle fasi del procedimento di spesa e inserisce in questa un atto dell’amministrazione creditrice: regola, quindi, in modo esaustivo l’intera procedura, determinando sia obiettivi, sia strumenti, senza lasciare alcuna scelta alla Regione. Ne discende la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. 6. – Né può affermarsi, come sostenuto dalla Avvocatura generale dello Stato, che la norma censurata sia rivolta ad attuare la direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 giugno 2000, 2000/35/CE, recepita con il decreto legislativo 9 ottobre 2002, n. 231 (Attuazione della direttiva 2000/35/CE relativa alla lotta contro i ritardi di pagamento nelle transazioni commerciali). La norma impugnata disciplina, infatti, rapporti tra Regioni commissariate e amministrazioni pubbliche, mentre la direttiva 2000/35/CE riguarda le «transazioni commerciali», riferite a contratti tra imprese ovvero tra imprese e pubbliche amministrazioni, in cui almeno una delle due parti sia un soggetto privato. Nel rendere più celeri i pagamenti tra amministrazioni pubbliche, la disposizione stessa, inoltre, sottrae alle Regioni commissariate risorse finanziarie potenzialmente destinate a soggetti privati, con esito opposto a quello indicato dalla direttiva comunitaria e rendendo, quindi, la norma anche irragionevole. La disposizione censurata, infine, prevedendo l’intervento diretto del tesoriere, introduce un meccanismo non contemplato dalla direttiva 2000/35/CE. Questa individua, quali strumenti diretti a contrastare i casi di ritardo di pagamento, gli interessi e la riserva di proprietà. 7. – Restano assorbiti gli ulteriori profili di censura dedotti dalla ricorrente. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1-bis, del decreto-legge 1 luglio 2009, n. 78 (Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102; dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 1-bis, del suddetto decreto-legge n. 78 del 2009, promosse dalla Regione Campania, in riferimento agli artt. 24, primo comma, e 97, primo comma, Cost., con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 aprile 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Sabino CASSESE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA SENTENZA N.157 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 56, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), promosso dalla Corte di cassazione con ordinanza del 3 marzo 2009, iscritta al n. 243 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 2009. Udito nella camera di consiglio del 14 aprile 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri. Ritenuto in fatto 1. – La Corte di cassazione, con ordinanza del 3 marzo 2009, ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 56, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468). La norma censurata preclude, quanto alla pena della reclusione inflitta per i reati previsti dai due commi precedenti dello stesso art. 56, l’applicazione delle sanzioni sostitutive di cui agli artt. 53 e seguenti della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale). Secondo quanto riferito dalla Corte rimettente, l’imputato, nella fase di merito del giudizio a quo, ha chiesto ed ottenuto una sentenza di applicazione della pena, ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale, relativamente ad un delitto di violazione degli obblighi connessi alla sanzione della permanenza domiciliare (art. 56, comma 1, del d.lgs. n. 274 del 2000). La pena, concordata nella misura di dieci giorni di reclusione, è stata sostituita con la pena pecuniaria di specie corrispondente, e cioè con la multa per 380 euro. Il provvedimento è stato impugnato dal pubblico ministero, e la Corte rimettente osserva che il ricorso dovrebbe essere accolto, in quanto il terzo comma dell’art. 56 espressamente preclude la sostituzione della pena inflitta per i delitti di violazione degli obblighi connessi alle sanzioni, cosiddette «paradetentive», della permanenza domiciliare e del lavoro di pubblica utilità. Al tempo stesso, la Corte di cassazione ritiene che la norma preclusiva contrasti con l’art. 3 Cost. La disposizione censurata, infatti, delinea un caso di esclusione su base oggettiva dell’applicazione di pene sostitutive, che nel contesto originario si accordava con casi analoghi, regolati dall’art. 60 della legge n. 689 del 1981, ove la sostituzione delle pene detentive brevi era tra l’altro inibita per il delitto di evasione (art. 385 del codice penale). Tale ultima norma, però, è stata successivamente abrogata, con conseguente eliminazione di tutti i casi di esclusione oggettiva in essa contemplati (art. 4 della legge 12 giugno 2003, n. 134, recante «Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti»). In conseguenza della riforma, le pene inflitte per il delitto di evasione sono ormai suscettibili di sostituzione a norma degli artt. 53 e seguenti della legge n. 689 del 1981, e ciò vale anche per i fatti concernenti la detenzione domiciliare, di cui al primo ed all’ottavo comma dell’art. 47-ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), che sono appunto sanzionati a norma dell’art. 385 cod. pen. Il perdurante divieto di sostituzione per le violazioni concernenti la permanenza domiciliare o il lavoro di pubblica utilità sarebbe privo di giustificazione, in quanto retaggio di una ratio che il legislatore ha sconfessato con l’abrogazione dell’art. 60 della legge n. 689 del 1981. In altre parole, il rimettente considera irragionevole che, per effetto della preclusione posta dalla norma censurata, il reato contestato nel giudizio a quo sia trattato più severamente di quanto non accada per condotte di gravità analoga, se non addirittura maggiore, come quelle di evasione dal luogo degli arresti domiciliari o della detenzione domiciliare. 2. – Nel presente giudizio non è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri né vi è stata costituzione delle parti del procedimento principale. Considerato in diritto 1. – La Corte di cassazione ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 56, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468). La norma censurata preclude, quanto alla pena della reclusione inflitta per i delitti previsti dai primi due commi dello stesso art. 56 (inosservanza degli obblighi concernenti la permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità), l’applicazione delle sanzioni sostitutive di cui agli artt. 53 e seguenti della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), e ciò sebbene un analogo divieto, già operante riguardo a condotte di evasione sanzionate dall’art. 385 del codice penale, sia stato rimosso dal legislatore mediante l’abrogazione dell’art. 60 della citata legge n. 689 del 1981 (art. 4 della legge 12 giugno 2003, n. 134, recante «Modifiche al codice di procedura penale in materia di applicazione della pena su richiesta delle parti»). 2. – La questione non è fondata. 2.1. – La norma censurata dal rimettente costituisce espressione di una scelta legislativa volta a conferire effettività alle sanzioni cosiddette «paradetentive» previste per i reati di competenza del giudice di pace. Allo scopo di valutare la ragionevolezza della norma, si deve innanzitutto osservare che la permanenza domiciliare ed il lavoro di pubblica utilità colpiscono i più gravi tra i fatti attribuiti alla competenza del predetto magistrato, e che vengono irrogati solo a seguito del fallimento, nel caso concreto, dei meccanismi di riparazione e conciliazione che caratterizzano il relativo procedimento penale. D’altra parte non è sufficiente, per integrare il reato di cui all’art. 56 d.lgs. n. 274 del 2000, una qualsiasi violazione delle prescrizioni connesse all’esecuzione delle citate sanzioni «paradetentive». Difatti il comma 1 dispone che la ricorrenza di un «giusto motivo» per il comportamento trasgressivo esclude la rilevanza penale del medesimo, assicurando in tal modo un’area di non punibilità più ampia di quella derivante dalle esimenti a carattere generale. A ciò si deve aggiungere che, mentre l’al lontanamento ingiustificato dai luoghi in cui il condannato è obbligato a permanere o a prestare il lavoro di pubblica utilità, anche se compiuto una tantum, è sufficiente ad integrare il reato, non così è stabilito per gli altri obblighi e divieti inerenti alle due pene di cui sopra, che devono essere violati «reiteratamente senza giusto motivo» (comma 2) perché la norma incriminatrice sia applicabile. L’ordinamento riserva dunque una risposta graduata ai comportamenti trasgressivi posti in essere dai condannati a pene «paradetentive», ricorrendo alla pena detentiva solo nelle ipotesi più gravi, per le quali il legislatore ha ritenuto di non dover consentire l’applicazione di pene sostitutive. L’oggetto del presente giudizio di legittimità costituzionale è dunque la rigidità di tale estremo esito sanzionatorio, anche in rapporto a quanto disposto dalla legge per la generalità delle pene detentive brevi. 3. – Il fulcro del ragionamento del rimettente poggia sulla abrogazione – ad opera dell’art. 4 della legge n. 134 del 2003 – dell’art. 60 della legge n. 689 del 1981, che prevedeva una serie di esclusioni oggettive dall’applicabilità delle pene sostitutive, riguardanti specifici reati in esso elencati. Tale innovazione legislativa è avvenuta in occasione dell’introduzione nel codice di procedura penale del cosiddetto «patteggiamento allargato», con il chiaro intento di incentivare la scelta del rito premiale, favorendo la conclusione di accordi su pene detentive brevi, con la contestuale previsione che le stesse possano essere sostituite, quale che sia il reato in contestazione, ai sensi dell’art. 53 della legge n. 689 del 1981. La sopravvivenza di un’esclusione oggettiva per il solo reato di inosservanza delle pene inflitte dal giudice di pace avrebbe determinato, secondo il rimettente, una ille gittimità costituzionale sopravvenuta, essendo irragionevole che tale ultimo reato sia soggetto ad un trattamento più rigoroso di quello riservato a fatti di indole analoga, ed anche più gravi, come l’evasione, per i quali invece le pene sostitutive sono ammesse. 3.1. – L’illegittimità costituzionale ravvisata dal rimettente sussisterebbe solo se vi fosse una identità di ratio tra le esclusioni oggettive previste dall’abrogato art. 60 della legge n. 689 del 1981 e la preclusione disposta dalla norma censurata. L’esame delle fattispecie in oggetto, e del contesto in cui le singole norme spiegano i loro effetti, induce tuttavia a concludere che dette norme non esprimano rationes sovrapponibili, con la conseguenza che l’evocazione di altre fattispecie penali, come termini di confronto ai fini di un giudizio di irragionevolezza, non vale a dimostrare la fondatezza della questione. Giova innanzitutto notare che le sanzioni «paradetentive» non sono pene sostitutive, ma principali, e costituiscono l’effetto di un’apertura fiduciaria verso i condannati – assente invece quanto al reato di evasione, almeno nell’ipotesi della restrizione in carcere – che l’ordinamento ha voluto esprimere mediante la loro previsione come pene edittali. La misura domiciliare che, anche in via cautelare, sostituisce la detenzione intramuraria, implica una valutazione fiduciaria che il giudice può dare caso per caso, e che, nell’eventualità di trasgressioni, viene revocata, con conseguente ripristino della restrizione in carcere. Nell’ipotesi delle pene «paradetentive» – che consistono in partenza in misure limitative non carcerarie – il comportamento trasgressivo non può determinare, invece, alcun inasprimento del regime originario. L’effetto dissuasivo si connette, dunque, unicamen te alla sanzione applicabile per la violazione degli obblighi concernenti la permanenza domiciliare o il lavoro di pubblica utilità, e sarebbe fortemente ridotto se detta sanzione fosse attenuabile con la pena sostitutiva, in quanto il trasgressore verrebbe a trovarsi in una situazione molto vicina a quella iniziale. Questa Corte – in tema di applicabilità delle sanzioni sostitutive – ha già messo in rilievo che l’elemento cui deve essere attribuito un ruolo centrale nel giudizio di eguaglianza, per giustificare o non il differente trattamento tra reati, non è l’entità della pena edittale, bensì l’efficacia deterrente ragionevolmente esercitabile dalla pena sostitutiva in rapporto ai caratteri oggettivi della condotta (ordinanza n. 184 del 2001). Nel caso di specie, l’efficacia deterrente di una pena, potenzialmente convertibile in un trattamento simile a quello proprio della sanzione «paradetentiva» inflitta ab initio, sarebbe minima, con la conseguenza di rendere scarsamente effettivo il sistema delle pene irrogabili dal giudice di pace, ispirato a particolare mitezza, sul presupposto di una fiducia che l’ordinamento accorda al reo. 3.2. – Va anche considerato, d’altra parte, che il massimo edittale della pena detentiva irrogabile per le ipotesi di trasgressione di cui al comma 1 dell’art. 56 del d.lgs. n. 274 del 2000 è la reclusione per un anno. È appena il caso di ricordare che la pena in concreto applicata può essere soggetta a sospensione condizionale e che non è precluso al condannato l’accesso a misure alternative in fase di esecuzione. Il necessario rigore «astratto» – volto ad evitare che le pene «paradetentive» siano considerate trascurabili – può quindi essere attenuato nei casi concreti, avendo riguardo alle caratteristiche specifiche della condotta, alle sue motivazioni ed alla personalità del soggetto. In definitiva, la norma censurata non è irragionevole per i profili denunciati in quanto bilancia, con il divieto di conversione della pena per i trasgressori degli obblighi nascenti da pene «paradetentive», l’impossibilità di aggravare il trattamento concernente la sanzione originariamente irrogata, come invece è previsto riguardo alle fattispecie evocate in comparazione dal rimettente. Riguardo a queste ultime, il comportamento trasgressivo incontra una doppia risposta sanzionatoria, il che giustifica la possibilità che per la seconda delle risposte in questione, cioè la pena irrogata per la trasgressione, possa eventualmente essere applicata una sanzione sostitutiva, secondo la disciplina generale dei reati che comportano pene detentive brevi. Si tratta di sistemi diversi, ispirati a logiche in parte differenti e quindi non del tutto omologabili, come invece sarebbe necessario per rilevare una violazione dell’art. 3 Cost. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 56, comma 3, del decreto legislativo 28 agosto 2000, n. 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, a norma dell’articolo 14 della legge 24 novembre 1999, n. 468), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 aprile 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Gaetano SILVESTRI, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ORDINANZA N. 158 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 2 e dell’allegato 1 del decreto-legge 22 dicembre 2008, n. 200 (Misure urgenti in materia di semplificazione normativa), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2009, n. 9, promosso dalla Regione siciliana con ricorso notificato l’8 aprile 2009, depositato in cancelleria il 15 aprile 2009 ed iscritto al n. 27 del registro ricorsi 2009. Udito nell’udienza pubblica del 23 marzo 2010 il Giudice relatore Paolo Maria Napolitano; udito l’avvocato Michele Arcadipane per la Regione siciliana. Ritenuto che con ricorso notificato il 7 aprile 2009 e depositato il successivo 15 aprile, la Regione siciliana ha promosso questione di legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 14, lettera o), e 15, comma terzo, del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana), convertito dalla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, nonché agli artt. 3 e 97 della Costituzione – del combinato disposto dell’art. 2 e dell’allegato 1 del decreto-legge 22 dicembre 2008, n. 200 (Misure urgenti in materia di semplificazione normativa), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2009, n. 9; che la ricorrente premette che le norme impugnate prevedono l’abrogazione, tra le altre, di numerose leggi concernenti l’istituzione o la variazione dei territori di diversi Comuni siciliani; che l’abrogazione di tali disposizioni, secondo la ricorrente, è costituzionalmente illegittima in quanto lesiva delle attribuzioni proprie della Regione siciliana quali risultano garantite dalla Costituzione, dallo statuto speciale e dalle correlate norme di attuazione; che l’art. 14, lettera o), dello statuto regionale, infatti, assegna all’Assemblea regionale la competenza legislativa esclusiva nella materia «regime degli enti locali e delle circoscrizioni relative»; che l’art. 15 del medesimo statuto ribadisce, al terzo comma, l’attribuzione alla Regione siciliana di tale competenza legislativa esclusiva e dell’«esecuzione diretta in materia di circoscrizione, ordinamento e controllo degli enti locali»; che, pertanto, le abrogazioni disposte dalla predetta normativa statale violerebbero le indicate norme statutarie che attribuiscono alla Regione siciliana la competenza esclusiva in materia di circoscrizione e ordinamento degli enti locali, competenza che la Regione ha esercitato sin dal 1948 sia con specifiche disposizioni legislative che con leggi organiche; che, sotto altro profilo, risulterebbe leso il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., vista l’evidente arbitrarietà e contrarietà al pubblico interesse dell’abrogazione di disposizioni che hanno determinato l’ambito territoriale di Comuni o, addirittura, la loro istituzione o ricostituzione; che la Regione siciliana ritiene leso anche il principio di buon andamento dell’attività amministrativa di cui all’art. 97 Cost., dal momento che l’abrogazione delle norme sopraelencate comporta sicuri elementi d’incertezza per l’operatività degli enti locali stessi e, quindi, del loro corretto andamento gestionale; che il Presidente del Consiglio dei ministri non si è costituito in giudizio; che, all’udienza del 23 marzo 2010, a seguito dell’emanazione del decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179 (Disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246), la difesa della Regione siciliana, ha depositato atto di rinuncia al ricorso. Considerato che la Regione siciliana ha promosso questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dell’art. 2 e dell’allegato 1 del decreto-legge 22 dicembre 2008, n. 200 (Misure urgenti in materia di semplificazione normativa), convertito, con modificazioni, dalla legge 18 febbraio 2009, n. 9, per violazione degli artt. 14, lettera o), e 15, comma terzo, del regio decreto legislativo 15 maggio 1946, n. 455 (Approvazione dello statuto della Regione siciliana), convertito dalla legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 2, nonché degli artt. 3 e 97 Cost.; che, successivamente alla proposizione del ricorso, è intervenuto il decreto legislativo 1° dicembre 2009, n. 179 (Disposizioni legislative statali anteriori al 1° gennaio 1970, di cui si ritiene indispensabile la permanenza in vigore, a norma dell’articolo 14 della legge 28 novembre 2005, n. 246), che ha sottratto all’effetto abrogativo di cui all’art. 2 del d.l. n. 200 del 2008 tutte le disposizioni riguardanti l’istituzione, ricostituzione o variazione dei territori di Comuni siciliani, di cui la Regione lamentava l’abrogazione; che, proprio in considerazione dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 179 del 2009, il Presidente della Regione siciliana, previa delibera della Giunta regionale in data 18 marzo 2010, ha rinunciato al ricorso, affermando che sono venute meno le ragioni dell’impugnazione; che, in mancanza di costituzione in giudizio della parte resistente, ai sensi dell’art. 23 delle norme integrative per i giudizi dinanzi alla Corte costituzionale, la mera rinuncia al ricorso è di per sé idonea a determinare l’estinzione del processo. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara estinto il processo. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 aprile 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Paolo Maria NAPOLITANO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ORDINANZA N. 159 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Lazio 2 dicembre 2008, n. 20, che reca «Disposizioni per il contenimento della spesa pubblica relativa agli organi delle comunità montane e per il riordino delle comunità montane di cui alla legge regionale 22 giugno 1999, n. 9 (Legge sulla montagna) e successive modifiche», ed in particolare dell’art. 8 della suddetta legge, promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 4 febbraio 2009, depositato in cancelleria il successivo 10 febbraio ed iscritto al n. 10 del registro ricorsi 2009. Visto l’atto di costituzione della Regione Lazio; udito nell’udienza pubblica del 13 aprile 2010 il Giudice relatore Alfonso Quaranta; uditi l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Claudio Chiola per la Regione Lazio. Ritenuto che, con ricorso notificato il 4 febbraio 2009 e depositato presso la cancelleria della Corte il successivo 10 febbraio, il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato la legge della Regione Lazio 2 dicembre 2008, n. 20, che reca «Disposizioni per il contenimento della spesa pubblica relativa agli organi delle comunità montane e per il riordino delle comunità montane di cui alla legge regionale 22 giugno 1999, n. 9 (Legge sulla montagna) e successive modifiche», in particolare quanto all’art. 8, per violazione, nel complesso, dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 2, commi da 17 a 22, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008); che il ricorrente sottolinea che la Regione Lazio non ha ottemperato, nel termine del 30 settembre 2008, a quanto disposto dall’art. 2, comma 17, della legge n. 244 del 2007; che, successivamente, il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 19 novembre 2008 (Riordino della disciplina delle Comunità montane, ai sensi dell’articolo 2, comma 21, della legge 24 dicembre 2007, n. 244), all’art. 2, ha statuito che, nei confronti della suddetta Regione, «si producono gli effetti del comma 20 dell’art. 2 della legge 24 dicembre 2007, n. 244, dalla data di pubblicazione del presente decreto» (intervenuta il 27 novembre 2008); che in data 7 dicembre 2008, quando, ad avviso del ricorrente, i suddetti effetti si erano prodotti, è entrata in vigore la legge regionale sospettata di illegittimità costituzionale; che, secondo la difesa dello Stato, il legislatore regionale si sarebbe dovuto limitare ad adottare una normativa regolatrice di tali effetti; che, invece, la disciplina regionale e, in particolare, l’art. 8, la cui rubrica reca «Riordino delle comunità montane di cui alla legge regionale n. 9 del 1999» − laddove prevede che le nuove comunità montane debbano avere popolazione e superficie montana superiore al 50 per cento − contrasterebbe con l’art. 2, comma 20, lettere a) e b), della legge n. 244 del 2007; che vi sarebbe una palese violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., vertendosi in materia di coordinamento della finanza pubblica; che la Regione avrebbe disatteso quanto stabilito dai commi 17 e 20 del richiamato art. 2 della legge n. 244 del 2007, non tenendo conto degli effetti che, in ragione del proprio inadempimento, si erano già prodotti; che la disciplina sospettata di illegittimità costituzionale contrasterebbe, altresì, con l’art. 2, comma 17, della legge finanziaria per il 2008, in ordine alla riduzione della spesa corrente per il funzionamento delle comunità montane, nonché con l’art. 2, comma 22, che prevedeva la salvezza dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato esistenti alla data di entrata in vigore della legge finanziaria; che nella legge regionale in esame, da un lato, non vi sarebbe alcuna previsione sul risparmio di spesa; dall’altro, mancherebbe qualsiasi disposizione volta ad assicurare il mantenimento dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato; che con atto depositato il 13 marzo 2009 si è costituita la Regione Lazio, la quale ha dedotto la infondatezza della questione; che la difesa regionale, in particolare, osserva che la materia delle comunità montane è rimessa alla potestà legislativa residuale delle Regioni, ai sensi dell’art. 117, quarto comma, Cost. (sono richiamate le sentenze n. 456 e n. 244 del 2005), né potrebbe ritenersi che la disciplina in esame sia riconducibile alla materia del coordinamento della finanza pubblica; che in data 26 febbraio 2010 il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato atto di rinuncia al ricorso, poiché nelle more del giudizio è intervenuta la sentenza n. 237 del 2009, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, commi 20 e 22, della legge n. 244 del 2007, nonché dell’art. 2, comma 21, ultimo periodo, della medesima legge, il quale dispone che «gli effetti di cui al comma 20 si producono dalla data di pubblicazione del predetto decreto»; che in data 23 marzo 2009 la Regione Lazio ha depositato in cancelleria memoria con la quale ha ribadito le difese svolte; che la difesa regionale, il 1° aprile 2010, ha depositato nota con la quale ha messo in evidenza una «situazione di sostanziale vacatio» degli organi deliberanti della Regione medesima, dovuta alle consultazioni elettorali; che, per tale ragione, ha prospettato di non poter depositare formale accettazione della rinuncia al ricorso ed ha allegato «proposta di accettazione» di quest’ultima del Direttore della Direzione regionale istituzionale ed enti locali-sicurezza della Regione Lazio; che, nell’udienza pubblica, la difesa regionale ha specificato che, medio tempore, le norme impugnate non hanno avuto attuazione. Considerato che, con ricorso notificato il 4 febbraio 2009 e depositato presso la cancelleria della Corte il successivo 10 febbraio, il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato la legge della Regione Lazio 2 dicembre 2008, n. 20, che reca «Disposizioni per il contenimento della spesa pubblica relativa agli organi delle comunità montane e per il riordino delle comunità montane di cui alla legge regionale 22 giugno 1999, n. 9 (Legge sulla montagna) e successive modifiche», in particolare l’art. 8 della suddetta legge, per violazione, nel complesso, dell’art. 117, terzo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 2, commi da 17 a 22, della legge 24 dicembre 2007, n. 244 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2008); che, ad avviso del ricorrente, il legislatore regionale avrebbe disciplinato il riordino delle comunità montane oltre il termine stabilito dall’art. 2, comma 17, della legge n. 244 del 2007, quando già era intervenuto il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 19 novembre 2008 (Riordino della disciplina delle Comunità montane, ai sensi dell’articolo 2, comma 21, della legge 24 dicembre 2007, n. 244), nonché in contrasto con quanto stabilito dalla normativa statale, così violando l’art. 117, terzo comma, della Costituzione, in riferimento all’art. 2, commi da 17 a 22 della legge n. 244 del 2007; che si è costituita in giudizio la Regione Lazio, sostenendo la infondatezza del ricorso; che, nelle more del giudizio, è intervenuta la sentenza di questa Corte n. 237 del 2009, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 2, commi 20 e 22 della legge n. 244 del 2007, nonché dell’art. 2, comma 21, ultimo periodo, della medesima legge, il quale dispone che «gli effetti di cui al comma 20 si producono dalla data di pubblicazione del predetto decreto»; che il ricorrente, in data 26 febbraio 2010, ha depositato atto di rinuncia al ricorso; che la difesa regionale, in ragione di una «sostanziale vacatio degli organi deliberanti della Regione, dovuta alle recenti elezioni», ha depositato «proposta di accettazione della rinuncia del Direttore regionale» della Direzione regionale istituzionale ed enti locali-sicurezza della Regione Lazio, precisando, nell’udienza pubblica, che le disposizioni impugnate, medio tempore, non hanno avuto attuazione; che detto atto non integra accettazione formale ai fini dell’estinzione del giudizio; che, tuttavia, secondo la giurisprudenza di questa Corte, la rinuncia non regolarmente accettata dalla controparte, pur non comportando l’estinzione del processo, può fondare, unitamente ad altri elementi, una dichiarazione di cessazione della materia del contendere per carenza di interesse del ricorrente (ex plurimis, sentenza n. 52 del 2010; ordinanze n. 153 del 2009 e n. 418 del 2008); che, nella specie, l’intervenuta declaratoria di illegittimità costituzionale di alcune delle norme invocate quali parametri interposti dal Presidente del Consiglio dei ministri, nel prospettare la violazione in relazione all’art. 117, terzo comma, Cost., ha fatto venir meno l’interesse del ricorrente a coltivare il ricorso, con conseguente cessazione della materia del contendere. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara cessata la materia del contendere in ordine al ricorso in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 aprile 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Alfonso QUARANTA , Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ORDINANZA N. 160 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 26 del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80), promossi dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia con tre ordinanze del 27 novembre 2007 rispettivamente iscritte ai nn. 289, 290 e 291 del registro ordinanze 2009 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell’anno 2009. Visti gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 14 aprile 2010 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro. Ritenuto che, con tre distinte ordinanze in data 27 novembre 2007, emanate nel corso di altrettanti giudizi, il Tribunale ordinario di Reggio Emilia ha sollevato, in riferimento agli artt. 76 e 77, primo comma, della Costituzione, ed in relazione all’art. 1, commi 2 e 3, della legge 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), questione di legittimità costituzionale dell’art. 26 (recte: art. 26, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di ar bitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80), il quale ha abrogato l’ultimo comma dell’art. 23 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale); che i tre giudizi principali hanno ad oggetto l’appello di altrettante sentenze emesse dal Giudice di pace di Castelovo ne’ Monti, aventi ad oggetto opposizioni avverso provvedimenti di irrogazione di sanzioni amministrative, per violazione di norme del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada); che, secondo i provvedimenti di rimessione, di contenuto sostanzialmente identico, l’art. 26, comma 1, lettera b), del d.lgs. n. 40 del 2006, abrogando l’ultimo comma dell’art. 23 della legge n. 689 del 1981, ha reso impugnabile con l’appello la sentenza prevista da detta disposizione, con conseguente rilevanza della questione; che, ad avviso dei giudici a quibus, la norma censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 76 e 77, primo comma, Cost., in relazione all’art. 1, commi 2 e 3, della legge 14 maggio 2005, n. 80, in quanto la delega contenuta in quest’ultima disposizione concerneva esclusivamente l’introduzione di modificazioni al codice di procedura civile ed al processo di cassazione, non all’art. 23 della legge n. 689 del 1981. che, inoltre, secondo i rimettenti, l’abrogazione non era prevista neppure implicitamente dai principi e criteri direttivi contenuti nella legge-delega, in quanto l’art. 1, comma 3, lettera a), della legge n. 80 del 2005, aveva conferito al Governo il potere di modificare il processo di legittimità e di prevedere «la non ricorribilità immediata delle sentenze che decidono di questioni insorte senza definire il giudizio», ipotesi differente da quella disciplinata dalla norma censurata; che in tutti i giudizi è intervenuto, con distinti atti, di contenuto in larga misura coincidente, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. Considerato che i giudizi hanno ad oggetto la stessa norma, censurata in riferimento ai medesimi parametri costituzionali e con argomentazioni sostanzialmente coincidenti, quindi vanno riuniti, ai fini di una decisione congiunta; che la questione di legittimità costituzionale investe, in riferimento agli artt. 76 e 77, primo comma, della Costituzione, ed in relazione all’art. 1, commi 2 e 3, della legge 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), l’art. 26, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80), che ha abrogato l’ultimo comma dell’art. 23 della legge 24 novembre 1 981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), rendendo in tal modo impugnabile con l’appello la sentenza che decide l’opposizione avverso il provvedimento di irrogazione di una sanzione amministrativa, prima soltanto ricorribile per cassazione; che una questione identica a quella sollevata dalle ordinanze in esame, proposta in riferimento agli stessi parametri costituzionali, e sotto gli stessi profili, tra l’altro, anche dallo stesso Tribunale ordinario di Reggio Emilia, è stata già dichiarata da questa Corte non fondata (sentenza n. 98 del 2008) e, quindi, manifestamente infondata (ordinanze n. 281 e n. 396 del 2008, n. 8, n. 127 e n. 192 del 2009); che dette pronunce hanno sottolineato che la corretta interpretazione dell’art. 1 della legge n. 80 del 2005, in considerazione dello scopo di disciplinare il processo di cassazione in funzione nomofilattica (comma 3, lettera a), alla luce del significato assunto da tale espressione, di rafforzamento di detta funzione, rende chiara l’attribuzione al legislatore delegato della facoltà di ridurre i casi di immediata ricorribilità per cassazione delle sentenze, anche mediante la modifica di disposizioni non collocate nel codice di rito civile, con conseguente infondatezza delle censure; che le ordinanze non deducono argomenti differenti e ulteriori rispetto a quelli valutati nelle pronunce sopra richiamate e, quindi, la questione deve essere dichiarata manifestamente infondata. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 1, lettera b), del decreto legislativo 2 febbraio 2006, n. 40 (Modifiche al codice di procedura civile in materia di processo di cassazione in funzione nomofilattica e di arbitrato, a norma dell’articolo 1, comma 2, della legge 14 maggio 2005, n. 80), sollevata, in riferimento agli artt. 76 e 77, primo comma, della Costituzione, ed in relazione all’art. 1, commi 2 e 3, della legge 14 maggio 2005, n. 80 (Conversione in legge, con modificazioni, del decreto-legge 14 marzo 2005, n. 35, recante disposizioni urgenti nell’ambito del Piano di azione per lo sviluppo economico, sociale e territoriale. Deleghe al Governo per la modifica del codice di procedura civile in materia di processo di cassazione e di arbitrato nonché per la riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali), dal Tribunale ordinario di Reggio Emilia, con le ordinanze indicate in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 aprile 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Giuseppe TESAURO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ORDINANZA N. 161 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 12, della delibera legislativa della Assemblea regionale siciliana del 19 dicembre 2008 (disegno di legge n. 328, stralcio I), recante «Interventi finanziari urgenti per l’occupazione e lo sviluppo», promosso dal Commissario dello Stato per la Regione siciliana con ricorso notificato il 27 dicembre 2008, depositato in cancelleria il successivo 31 dicembre ed iscritto al n. 106 del registro ricorsi 2008. Udito nella camera di consiglio del 14 aprile 2010 il Giudice relatore Alfonso Quaranta. Ritenuto che, con ricorso notificato il 27 dicembre 2008 e depositato il successivo 31 dicembre, il Commissario dello Stato per la Regione siciliana ha sollevato, in riferimento all’art. 81, quarto comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 12, della delibera legislativa della Regione siciliana, approvata dall’Assemblea regionale nella seduta del 19 dicembre 2008 (disegno di legge n. 328, stralcio I), recante «Interventi finanziari urgenti per l’occupazione e lo sviluppo»; che la norma impugnata consente la corresponsione di finanziamenti, a carico del bilancio regionale, alle amministrazioni locali che, nell’attivare procedure di stabilizzazione del precariato, hanno assunto con contratti a tempo indeterminato lavoratori provenienti dal bacino dei lavori socialmente utili, pur in mancanza della preventiva istanza dell’Agenzia regionale per l’impiego preposta all’istruttoria; che, ad avviso del ricorrente, la disposizione in esame, da un lato, pur comportando nuove e maggiori spese per il bilancio regionale, non contiene né la quantificazione delle stesse, né l’indicazione delle risorse con cui farvi fronte; dall’altro, in ragione della propria genericità, non consente alcuna stima presumibile dei suddetti oneri; che sarebbe, dunque, violato l’art. 81, quarto comma, Cost.; che, infatti, come la giurisprudenza della Corte costituzionale ha avuto modo di affermare (sono richiamate le sentenze n. 386, n. 213 del 2008, n. 359 del 2007 e n. 9 del 1958) le leggi istitutive di nuove spese debbono recare una esplicita indicazione del relativo mezzo di copertura e a tale obbligo non sfuggono le norme regionali. Considerato che il Commissario dello Stato per la Regione siciliana ha sollevato, in riferimento all’art. 81, quarto comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 12, della delibera legislativa della Regione siciliana, approvata dall’Assemblea regionale nella seduta del 19 dicembre 2008 (disegno di legge n. 328, stralcio I), recante «Interventi finanziari urgenti per l’occupazione e lo sviluppo»; che, successivamente all’impugnazione, la predetta delibera legislativa è stata pubblicata come legge della Regione siciliana 29 dicembre 2008, n. 25, recante «Interventi finanziari urgenti per l’occupazione e lo sviluppo», con omissione della disposizione oggetto di censura; che l’intervenuto esaurimento del potere promulgativo, che si esercita necessariamente in modo unitario e contestuale rispetto al testo deliberato dall’Assemblea regionale, preclude definitivamente la possibilità che le parti della legge impugnate ed omesse in sede di promulgazione acquistino o esplichino una qualche efficacia, privando così di oggetto il giudizio di legittimità costituzionale (ex plurimis, ordinanze n. 74 del 2010; n. 304 del 2008; n. 358 e n. 229 del 2007; n. 389, n. 340 e n. 136 del 2006); che, pertanto, in conformità alla giurisprudenza di questa Corte, deve dichiararsi cessata la materia del contendere. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara cessata la materia del contendere in ordine al ricorso in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 aprile 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Alfonso QUARANTA , Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ORDINANZA N. 162 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come novellato dall’art. 3, comma 1, lettera a), del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), promosso dal Tribunale di sorveglianza di Catanzaro sul reclamo proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cosenza con ordinanza del 7 aprile 2009, iscritta al n. 171 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell’anno 2009. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 24 marzo 2010 il Giudice relatore Paolo Maddalena. Ritenuto che nel corso di un procedimento di reclamo avanzato dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Cosenza avverso il provvedimento emesso dal Magistrato di sorveglianza di Cosenza in data 17 febbraio 2009, con il quale era stato concesso un permesso premio ad un condannato, detenuto per l’espiazione della pena di anni quattro di reclusione inflittagli dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Crotone con sentenza del 13 maggio 2004 per il delitto di atti sessuali con minorenni, di cui all’art. 609-quater, primo comma, numero 2), cod. pen., il Tribunale di sorveglianza di Catanzaro, con ordinanza emessa il 7 aprile 2009, ha sollevato, in riferimento all’art. 27 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitati ve della libertà), come novellato dall’art. 3, comma 1, lettera a), del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso sulla base della normativa previgente nei confronti dei condannati per il delitto di cui all’art. 609-quater, primo comma, n. 2), cod. pen., che, prima della entrata in vigore dello stesso decreto-legge n. 11 del 2009, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto; che, in punto di descrizione della fattispecie, il Tribunale rimettente riferisce che, in base ai dati di sviluppo della personalità e del livello di rieducazione maturato dal condannato, sussisterebbero le condizioni per l’ammissione al beneficio del permesso premio; che il giudice a quo osserva tuttavia che, successivamente al reclamo avanzato dal pubblico ministero, è entrato in vigore l’art. 3 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, che, novellando l’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, dell’Ordinamento penitenziario (legge n. 354 del 1975), ha previsto che la condanna per il reato di cui all’art. 609-quater, primo comma, n. 2), cod. pen. rientra tra quelle che precludono a chi l’abbia subita la concessione di benefici premiali, salvo che il detenuto collabori con la giustizia ex art. 58-ter dell’Ordinamento penitenziario e sempre che siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata; che il rimettente osserva che, pur risultando in atti dimostrata l’assenza di collegamenti con la criminalità organizzata, non emerge invece dalla sentenza di condanna né dal comportamento successivo del reo la sussistenza di “collaborazione” finalizzata alla cessazione dell’attività delittuosa posta in essere od alla ricostruzione dei fatti od alla individuazione dei colpevoli, né questa si appalesava inesigibile, impossibile o irrilevante, stante la dinamica dei fatti come ricostruiti in sentenza ed il ruolo svolto nella vicenda dal condannato; che il Tribunale di sorveglianza rileva che la novella legislativa – in mancanza di disposizioni transitorie – integra un precetto immediatamente applicabile in materia di esecuzione della pena, non versandosi in ipotesi di norme penali sostanziali; che, ad avviso del rimettente, la norma censurata contrasterebbe con il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena sancito dall’art. 27 Cost.; che, secondo il giudice a quo, pur nella ragionevolezza delle scelte del legislatore volte a far tendenzialmente prevalere, di volta in volta, le esigenze di prevenzione generale e difesa sociale (e dunque afflittività e retributività della pena) o quelle di prevenzione speciale e rieducazione (e dunque flessibilità della pena e risocializzazione del reo), il primo obiettivo non potrebbe spingersi sino ad autorizzare il pregiudizio della finalità rieducativa espressamente consacrata dalla Costituzione nel contesto dell’istituto della pena; che, in particolare, la preclusione alla fruizione di benefici scaturente dalla novella legislativa sopravvenuta, ove applicata nei confronti di quanti abbiano già raggiunto, all’atto della relativa entrata in vigore, uno stadio del percorso rieducativo adeguato al godimento dei permessi premio, finirebbe per tradursi in un incoerente arresto dell’iter trattamentale, in violazione dell’art. 27 Cost., senza che ricorra alcun comportamento colpevole del condannato, che subirebbe pertanto una regressione trattamentale incompatibile con la logica della progressività che ispira il percorso rieducativo del detenuto; che il rimettente esclude che sia possibile avanzare un’interpretazione alternativa e costituzionalmente orientata della norma denunciata, in quanto essa presupporrebbe l’applicabilità del principio di irretroattività ex art. 2 cod. pen. in subiecta materia, che invece è già stata negata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, anche a sezioni unite; che, quanto alla rilevanza della questione, il giudice a quo ne motiva la sussistenza, osservando che dalla disposizione del novellato art. 4-bis, comma 1, primo periodo, dell’Ordinamento penitenziario discende, nell’applicazione al caso concreto, che sia precluso l’accesso al beneficio premiale per il condannato, che ha invece maturato un grado di percorso rieducativo adeguato al beneficio medesimo, beneficio al quale lo stesso potrebbe essere ammesso nel caso di accoglimento della sollevata questione di legittimità costituzionale; che nel giudizio dinanzi alla Corte è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, che ha concluso per la non fondatezza della questione; che la difesa erariale rileva che, in sede di conversione ad opera della legge 23 aprile 2009, n. 38, l’art. 3, comma 1, primo periodo, del decreto-legge n. 11 del 2009 è stato modificato; che, secondo il testo risultante dalla legge di conversione, i benefici penitenziari possono essere concessi anche ai detenuti per i delitti di cui agli artt. 609-bis, 609-ter e 609-quater cod. pen. solo sulla base dei risultati dell’osservazione scientifica della personalità condotta collegialmente per almeno un anno anche con la partecipazione di esperti. Considerato che la questione di legittimità costituzionale investe l’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), che, per effetto delle modifiche apportate dall’art.3, comma 1, lettera a), del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), comprende i condannati per il delitto di cui all’art. 609-quater, primo comma, cod. pen. tra coloro che non possono accedere ai permessi premio, salvo che collaborino con la giustizia a norma dell’art. 58-ter dell’Ordinamento penitenziario e purché sussistano le ulteriori condizioni (esclusione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e simili) previste nel secondo periodo del comma 1 d ello stesso art. 4-bis; che questa disposizione è denunciata nella parte in cui non prevede che il beneficio del permesso premio possa essere concesso sulla base della normativa previgente nei confronti dei condannati per il delitto di cui all’art. 609-quater, primo comma, n. 2), cod. pen. che, prima della entrata in vigore del citato decreto-legge n. 11 del 2009, abbiano raggiunto un grado di rieducazione adeguato al beneficio richiesto; che, ad avviso del rimettente, la preclusione introdotta violerebbe l’art. 27 della Costituzione, per contrasto con la finalità rieducativa della pena; che la legge di conversione 23 aprile 2009, n. 38, ha modificato la disciplina recata dall’art. 3 del decreto-legge, procedendo ad una integrale riformulazione di questa disposizione; che, infatti, i detenuti per il delitto di cui all’art. 609-quater cod. pen. non sono più compresi tra quelli assoggettati alla disciplina restrittiva in tema di permessi premio dettata dal comma 1 dell’art. 4-bis, essendosi previsto, con il nuovo comma 1-quater del citato art. 4-bis, che tale beneficio può essere concesso solo sulla base dei risultati dell’osservazione scientifica della personalità condotta collegialmente per almeno un anno anche con la partecipazione degli esperti di cui al quarto comma dell’art. 80 dell’Ordinamento penitenziario; che la disciplina sopravvenuta ha determinato una profonda modificazione del quadro normativo interessato dall’odierna censura, di talché si rende necessaria, con ogni evidenza, la restituzione degli atti al giudice a quo, affinché proceda ad una nuova valutazione di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione sollevata. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE ordina la restituzione degli atti al Tribunale di sorveglianza di Catanzaro. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 aprile 2010. F.to: Ugo DE SIERVO, Presidente Paolo MADDALENA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ORDINANZA N. 163 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 165, primo comma, 645, secondo comma e 647 del codice di procedura civile promosso dal Giudice istruttore del Tribunale ordinario di Messina nel procedimento vertente tra la Società Cooperativa di Navigazione a r.l. Garibaldi e l’Ital Proget s.r.l. ed altra con ordinanza del 28 novembre 2008 iscritta al n. 244 del registro ordinanze 2009 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2009. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio del 24 marzo 2010 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro. Ritenuto che nel corso del giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo proposto dalla Società Cooperativa di navigazione a.r.l. Garibaldi, il Tribunale ordinario di Messina in funzione di giudice istruttore, con ordinanza del 28 novembre 2008 (reg. ord. n. 244 del 2009), ha sollevato questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 645, secondo comma, 647, e 165, primo comma, codice di procedura civile, per violazione degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione e dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmata a Parigi il 20 marzo 1952); che il giudice a quo riferisce che il decreto ingiuntivo era stato ottenuto il 24 luglio 2007 da Ital Proget s.r.l., che lo aveva notificato alla Società Cooperativa di navigazione a r.l. Garibaldi; che l’intimata aveva proposto opposizione notificata il 27 settembre 2007, con invito a comparire per l’udienza del 24 novembre 2007, costituendosi in giudizio il 4 ottobre 2007; che l’opposta Ital Proget s.r.l., costituendosi in giudizio il 31 ottobre 2007, aveva eccepito in limine litis la «improcedibilità e/o inammissibilità dell’opposizione per la tardiva costituzione della opponente», sulla base dell’orientamento giurisprudenziale consolidato, costituente diritto vivente, secondo cui, nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, la riduzione alla metà del termine di costituzione dell’opponente, ai sensi dell’art. 645, secondo comma, cod. proc. civ., consegue automaticamente al fatto obiettivo della concessione all’opposto di un termine di comparizione inferiore a quello previsto dall’art. 163-bis cod. proc. civ., e che la tardiva costituzione dell’opponente è equiparata alla mancata costituzione, determinando l’improcedibilità dell’opposizione; che, secondo il giudice a quo, il richiamato diritto vivente non può essere seguito, anche alla luce delle argomentazioni sviluppate dal Tribunale di Monza con ordinanza del 5 maggio 2007, che ha sollevato la stessa questione di legittimità costituzionale, peraltro già definita da questa Corte con ordinanza n. 407 del 2008 di manifesta inammissibilità; che l’art. 645 cod. proc. civ. prevede la riduzione dei termini di comparizione, non anche di quelli di costituzione; che l’opponente è convenuto in senso sostanziale e non ha pertanto l’onere, presupposto dall’art. 165 cod. proc. civ., di dare contezza dei documenti al creditore opposto, perché questi possa preparare la difesa, giacché costui, attore in senso sostanziale, già conosce la materia del contendere, per avere introdotto la lite; che, ove poi l’opponente intenda proporre domanda riconvenzionale, la citazione in opposizione sarà, limitatamente a questa, eventualmente nulla per inosservanza del termine a comparire inferiore al minimo legale, ma non certo improcedibile, se l’iscrizione avvenga dopo i cinque giorni, nel senso che si attiveranno i meccanismi di sanatoria disciplinati dall’art. 164 cod. proc. civ., ma la riconvenzionale non sarà in alcun modo affetta da improcedibilità; che l’oggetto del giudizio di opposizione è determinato dal ricorso per ingiunzione, non dall’atto di opposizione, e la facoltà di dimidiare i termini a comparire con l’atto di opposizione appare al rimettente coerente con le caratteristiche del procedimento monitorio, che vedono l’inversione delle parti e il succedersi, alla fase strettamente monitoria, dell’iniziativa impugnatoria dell’opponente, volta ad instaurare un giudizio ordinario di cognizione; che, mentre la ratio della facoltà di dimidiare il termine a comparire di cui all’art. 645 cod. proc. civ. è l’innestarsi dell’opposizione sul pregresso procedimento monitorio, la ratio della dimidiazione prevista dall’art. 163-bis, secondo comma, cod. proc. civ., consiste nella pronta spedizione della causa e richiede il vaglio del Presidente del Tribunale sulla sussistenza del presupposto applicativo della norma; che l’art. 645, secondo comma, ultimo periodo, cod. proc. civ., lascia all’attore la libera facoltà di ridurre il termine a comparire, proprio in considerazione del fatto che: a) egli non è attore in senso sostanziale, b) l’oggetto del giudizio di opposizione è già stato predeterminato, con il ricorso monitorio, dal creditore intimante, c) l’opposizione s’innesta su un procedimento giurisdizionale composito la cui pendenza ad ogni effetto si produce e si determina, a livello prodromico, con il deposito del ricorso monitorio e, sul piano della produzione degli effetti sostanziali e processuali dalla domanda giudiziale, con la notificazione del decreto ingiuntivo; che l’equiparazione della costituzione tardiva alla costituzione mancata, laddove l’art. 647 cod. proc. civ. fa riferimento soltanto a quest’ultima, non è affatto scontata, né può discendere tout court dalla natura impugnatoria dell’opposizione; che gli artt. 348, 369 e 399 cod. proc. civ. contemplano espressamente la sanzione d’improcedibilità dell’impugnazione per tardiva costituzione dell’impugnante, mentre l’art. 647 cod. proc. civ. disciplina il solo caso della mancata costituzione dell’opponente e non quello della tardiva costituzione; che una sanzione d’improcedibilità deteriore rispetto ai consueti meccanismi applicabili alla tardiva iscrizione della causa a ruolo del processo di prime cure, qual è pur sempre il giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo (art. 307 cod. proc. civ.), appare incompatibile con i principi del «giusto processo regolato dalla legge», poiché tale sanzione, a differenza delle suddette regole in materia d’impugnazioni, non è espressamente sancita dalle norme processuali e, in difetto di ciò, non può essere desunta in via interpretativa; che, alla luce del combinato disposto degli artt. 645, secondo comma, ultima frase, 165, 647, primo comma (seconda ipotesi) cod. proc. civ., ben può dubitarsi della conformità agli artt. 111, 24 e 3 Cost. della norma che, nel diritto vivente, rende improcedibile l’opposizione a decreto ingiuntivo iscritta a ruolo oltre cinque giorni dalla notificazione; che la contrarietà al principio del giusto processo «regolato dalla legge» (art. 111 Cost.) si coglie nella creazione, per via giurisprudenziale, di una sanzione d’improcedibilità dell’opposizione che l’art. 647, primo comma (seconda ipotesi), cod. proc. civ., commina soltanto per il caso di mancata costituzione dell’opponente, ma non per quello di costituzione tardiva, specialmente se si considera che l’opposizione a decreto ingiuntivo instaura pur sempre un processo di primo grado, in cui l’ipotesi di tardiva iscrizione a ruolo di una causa non è sanzionata dall’improcedibilità; che la disciplina appare altresì in contrasto anche con il diritto ad un equo vaglio giurisdizionale, cui ogni persona ha diritto ai sensi dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848, che verrebbe a mancare ove si voglia che dal mancato rispetto del termine di soli cinque giorni derivino effetti irreversibili – anche quando l’assegnazione di termine a comparire dimidiato ex art. 645 cod. proc. civ. non sia stata frutto di consapevole scelta – se poi la sentenza di definizione di giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo, ove ne manchi la notificazione, divenga irrevocabile solo con il decorso del termine di un anno (oltre al periodo di sospensione feriale); che nel giudizio è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, che ha concluso per l’inammissibilità e, comunque, per la manifesta infondatezza della questione, posto che la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Monza, cui l’attuale rimettente si richiama, è stata dichiarata inammissibile dalla Corte costituzionale, per omessa motivazione sulla circostanza che la dimidiazione del termine a comparire sia stata effettivamente inconsapevole; che, nel merito, non risultano prospettate – osserva la difesa erariale –argomentazioni nuove o diverse rispetto a quelle già esaminate e disattese dalla giurisprudenza costituzionale che ha dichiarato la questione manifestamente infondata. Considerato che il Tribunale ordinario di Messina dubita della legittimità costituzionale del combinato disposto degli articoli 645, secondo comma, 647 e 165, primo comma, del codice di procedura civile, nella parte in cui prevede, secondo il diritto vivente, che l’opposizione a decreto ingiuntivo è improcedibile se iscritta a ruolo dopo il termine dimidiato di cinque giorni, allorché l’opponente abbia assegnato, anche involontariamente, all’opposto un termine inferiore a quello previsto dall’art. 163-bis cod. proc. civ., per violazione degli artt. 111, 24 e 3 della Costituzione, nonché dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo; che la questione proposta è manifestamente inammissibile per una molteplicità di ragioni; che, anzitutto, l’ordinanza è carente nella motivazione in ordine al contrasto con taluni dei parametri costituzionali rilevati; che l’art. 3 Cost. è invocato nella motivazione dell’ordinanza, senza che tale parametro sia richiamato nel dispositivo; che l’eventuale disparità di trattamento, con riguardo alla sanzione dell’improcedibilità per tardiva costituzione, è solo intuibile nel riferimento, che compare nella motivazione dell’ordinanza, alla mancata costituzione e alla tardiva iscrizione della causa a ruolo nel processo di primo grado, senza però che la motivazione sia adeguatamente sviluppata come discriminazione tra soggetti in posizioni processuali diverse (il che si risolve in carente motivazione sulla non manifesta infondatezza: ordinanze n. 191 del 2009, n. 114 del 2007 e n. 39 del 2005); che neppure la violazione dell’art. 24 Cost. è argomentata, dal momento che l’ordinanza richiama solo i principi del giusto processo, sicché il dubbio finisce per confluire nell’art. 111 Cost., sia per la creazione, da parte del diritto vivente, di una regola pregiudizievole per le parti, quella dell’improcedibilità dell’opposizione a decreto ingiuntivo per tardiva costituzione, sia per l’assenza «di un adeguato vaglio giurisdizionale cui ogni persona ha diritto ai sensi dell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo»; che se dai principi del giusto processo discende il diritto ad un «equo vaglio giurisprudenziale», ciò non toglie che il processo debba esser governato, per esigenze di certezza e ragionevole durata, da scansioni temporali, il cui mancato rispetto va assoggettato alla sanzione della decadenza dal compimento di determinate attività (sentenze n. 11 del 2008 e n. 462 del 2006); che, sul punto, nulla dice il rimettente, anche solo per verificare la ragionevolezza della sanzione di improcedibilità dell’opposizione per tardiva costituzione dell’opponente, rispetto all’esigenza di certezza e di contenimento dei tempi processuali, sicché, anche in tal caso, si profila la manifesta inammissibilità per carente motivazione sulla non manifesta infondatezza, perché l’invocazione della disciplina dell’irrevocabilità della sentenza resa in esito al giudizio di opposizione, solo per decorso del termine annuale, investe un ordine di questioni, relativo alla stabilità delle decisioni rese dal giudice, che è diverso dalle sanzioni processuali per tardivo compimento di attività, per non dire che anche in tal caso vi è un termine di decadenza dall’impugnazione, che può essere più ristretto ove la sentenza sia stata notificata; che l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo non costituisce disposizione da potere invocare come parametro al fine di affermare l’incostituzionalità delle norme denunciate, dal momento che la stessa costituisce solo norma interposta al fine di accertare la violazione dell’art. 117, primo comma, Cost., non invocato dal giudice a quo. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 645, secondo comma, ultima frase, 647 e 165, primo comma, del codice di procedura civile, sollevata, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione e all’art. 6 della Convenzione dei diritti dell’uomo, dal Tribunale ordinario di Messina, con l’ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 aprile 2010. F.to: Ugo DE SIERVO, Presidente Alfio FINOCCHIARO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ORDINANZA N. 164 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 6-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A) aggiunto dall’art. 21, comma 4, del decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), convertito, con modificazioni, in legge 4 agosto 2006, n. 248, come modificato dall’art. 1, comma 1307, legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Milano nel procedimento vertente tra la ESM Impianti s.r.l. ed altri ed il T.A.R. per la Lombardia con ordinanza del 3 giugno 2008 iscritta al n. 266 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 2009. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 24 marzo 2010 il Giudice relatore Luigi Mazzella. Ritenuto che, con ordinanza del 3 giugno 2008, la Commissione tributaria provinciale di Milano ha sollevato, con riferimento agli artt. 3, 97 e 81, terzo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 6-bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – testo A), come modificato dall’art. 1, comma 1307, della legge 7 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007); che, riferisce la Commissione tributaria rimettente, la società E.S.M. Impianti S.r.l. aveva presentato domanda di partecipazione ad una gara di appalto indetta dal Comune di Milano per l’aggiudicazione di alcuni lavori ed era stata esclusa sul rilievo dell’avvenuta partecipazione alla stessa in collegamento con altra impresa, con conseguente perdita della cauzione provvisoria prestata per la partecipazione alla gara ed iscrizione del provvedimento dì esclusione nel casellario informatico tenuto dall’Autorità per la vigilanza sui contratti pubblici; che, dunque, la società esclusa aveva proposto ricorso al T.a.r. Lombardia, contestando tale provvedimento anche al fine di recuperare la cauzione e di vedersi cancellata l’iscrizione del provvedimento di esclusione dal casellario; che, in relazione a tale procedimento, il Segretario generale dello stesso T.a.r. ( Ufficio incaricato delle attività connesse alla riscossione del contributo unificato per i ricorsi presentati avanti il medesimo Tribunale – aveva emesso l’avviso di pagamento e contestuale irrogazione di sanzioni, nel quale veniva richiesto alla società ricorrente il pagamento del contributo unificato dovuto, nella misura di euro 2.000,00 ( ai sensi dell’art. 13, comma 6-bis, del d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, comma 1307, della legge n. 296 del 2006; che, avverso tale provvedimento, la E.S.M. Impianti aveva proposto ricorso alla Commissione tributaria rimettente, assumendo l’illegittimità del contributo unificato - come stabilito, per i ricorsi innanzi al giudice amministrativo in materia di affidamento di lavori, forniture e servizi pubblici nonché avverso atti delle Autorità amministrative indipendenti, nella misura fissa di euro 2.000,00 (a prescindere dall’effettivo valore della controversia) - per contrasto con gli artt. 3, 24, 97, 111, 113 e 117 della Costituzione, chiedendo, nel merito, l’annullamento dell’atto impugnato, previa sospensione del giudizio in corso e rimessione degli atti a questa Corte; che, in punto di rilevanza, la Commissione afferma che l’atto impugnato, in quanto manifestazione di una compiuta e ben definita pretesa di natura tributaria e di contenuto comunque concretamente ed immediatamente impositivo, rientrerebbe nella sfera di attribuzioni della giurisdizione tributaria, delineata nell’art. 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), anche se nominativamente non compreso nell’elencazione di cui all’art. 19 del medesimo decreto; e che, per quanto attiene alla legittimazione passiva, appare corretta l’instaurazione del giudizio de quo nei riguardi del T.a.r. Lombardia-Milano, trattandosi dell’Ufficio che ha emanato l’atto impugnato (art. 10 del d.lgs. n. 546 del 1992); che, nel merito, secondo la Commissione tributaria la norma denunciata, nella vigente formulazione, si porrebbe in contrasto, in primo luogo, con l’art. 81, terzo comma, della Costituzione, dato che la violazione del divieto di introdurre nuovi tributi con la legge di approvazione del bilancio, prevista nella citata disposizione costituzionale, sarebbe configurabile non solo nel caso in cui siano introdotti veri e propri «nuovi» tributi, ma anche nel caso in cui sia stabilito un inasprimento della prestazione impositiva, come nel caso della legge censurata; che, secondo la Commissione tributaria, sarebbero lesi altresì il principio di uguaglianza e di non irrazionale discriminazione fissato dall’art. 3 della Costituzione, e il principio di buon andamento della p.a. fissato dall’art. 97 della Costituzione; che, invero, secondo il rimettente, l’innalzamento della misura del contributo unificato a Euro 2.000,00 sarebbe stato previsto dalla legge finanziaria per l’anno 2007 soltanto per i ricorsi proposti innanzi ai T.A.R. ed al Consiglio di Stato (in sede di impugnazione delle decisioni di primo grado) concernenti le controversie in materia di affidamento di lavori, forniture e servizi, nonché i provvedimenti emessi da Autorità amministrative indipendenti; che, a parere del rimettente, non sarebbe dato rinvenire, nella normativa di riferimento, alcuna ragionevole giustificazione di un siffatto più gravoso trattamento tributario nelle materie in questione rispetto a quello (euro 1.000,00) stabilito per la generalità dei ricorsi previsti dall’art. 23-bis, della legge 6 dicembre 1971, n. 1034 (Istituzione dei Tribunali amministrativi regionali), richiamato nell’art. 13, comma 6-bis, del d.P.R. n. 115 del 2006: specie ove si tenga conto che tra le controversie in materia di affidamento di lavori, servizi e forniture, rientrerebbero anche vertenze di modesto contenuto economico; che, d’altro canto, la previsione di un tal maggiore contributo unificato neppure potrebbe ritenersi giustificata sotto il profilo della peculiare celerità della disciplina processuale, in realtà prevista dall’art. 23-bis, comma 1, della legge n. 1034 del 1971 per tutta una serie di materie, fra le quali anche quelle ora in considerazione; che è intervenuto nel giudizio incidentale di costituzionalità il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, manifestamente infondata; che, con riferimento al preteso contrasto con l’art. 81, terzo comma, Cost., il Presidente del Consiglio fa rilevare che il parametro costituzionale invocato appare del tutto inconferente, dato che la disposizione in esame (art. 1, comma 307, della legge 296 del 2006) non sarebbe contenuta in una legge di approvazione del bilancio dello Stato, ma sarebbe stata introdotta da una norma di legge finanziaria (legge 27 dicembre 2006 n. 296, per l’anno 2007), la quale, ai sensi dell’art. 11 della legge 5 agosto 1978, n. 468 (Riforme di alcune norme in tema di contabilità generale dello Stato in materia di bilancio), ben può contenere disposizioni di natura fiscale, e, quindi, anche modificative del regime impositivo connesso all’attivazione dei rimedi giurisdizionali previsti dall’ordinamento; che, quanto al profilo concernente il presunto contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost., l’Avvocatura osserva che anche il richiamo all’art. 97 Cost. sarebbe assolutamente inconferente, in primo luogo perchè il parametro viene apoditticamente enunciato (viene lamentata, in concreto, esclusivamente una disparità di trattamento tra situazioni uguali) e, comunque, perché tale norma costituzionale detta principi in tema di attività procedimentale e, quindi, di diritto sostanziale della pubblica amministrazione del tutto estraneo alla disciplina in esame; che, quanto alla questione riguardante la presunta violazione dell’art. 3 Cost, il legislatore, nel censurato art. 13 comma 6-bis, opera numerosi differenziazioni, in ragione sicuramente delle peculiarità delle singole tipologie di processo amministrativo, conosciute dall’ordinamento, con riguardo sia alle materie rispettivamente trattate, sia agli interessi - pubblici e privati - in gioco, sia, in almeno due casi, alle posizioni soggettive coinvolte in giudizio e, dunque, non avrebbe inteso introdurre un criterio automatico ed indifferenziato di determinazione del contributo, ma, abbandonando un sistema che si era rivelato inadeguato, ne avrebbe previsto uno, alternativo, che, oltre che facilitare l’applicazione del tributo, meglio terrebbe conto delle peculiarità delle procedure azionabili dinanzi al giudice amministrativo; che, d’altra parte, secondo l’Avvocatura, la legittimità della scelta operata dal legislatore andrebbe verificata in via generale ed astratta, prescindendo cioè da singoli e specifici risultati applicativi che non possono, da soli, inficiare la ragionevolezza del sistema introdotto, sganciato, com’esso è, dal valore della singola controversia azionata. Considerato che la Commissione tributaria provinciale di Milano dubita, con riferimento agli artt. 3, 97 e 81, terzo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 6-bis, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A), come modificato dall’art. 1, comma 1307, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007; che il rimettente non effettua una ricostruzione completa delle vicende legislative della norma impugnata, modificata più di una volta, e che, pertanto, la motivazione sulla non manifesta infondatezza risulta del tutto insufficiente; che, invero, il censurato comma 6-bis – originariamente introdotto, nell’art. 13 del d.P.R. n. 115 del 2002, dal decreto-legge 4 luglio 2006, n. 223 (Disposizioni urgenti per il rilancio economico e sociale, per il contenimento e la razionalizzazione della spesa pubblica, nonché interventi in materia di entrate e di contrasto all’evasione fiscale), come modificato dalla relativa legge di conversione – già prima di essere modificato dall’art. 1, comma 1307, della legge n. 296 del 2006, menzionato dal rimettente – che ha modellato la norma dell’attuale formulazione, oggetto di censura – aveva introdotto, per i giudizi amministrativi, il sistema forfettario di determinazione del contributo unificato basato sul valore della controversia, sia pure ancorandolo a diverse tariffe; che, d’altronde, il rimettente, pur dichiarando, nella motivazione dell’ordinanza, di non contestare il sistema forfettario di determinazione del contributo e pur dolendosi solo dell’eccessiva misura della tariffa prevista per le controversie in materia di affidamento dei lavori pubblici, nel petitum, in contraddizione con tale premessa, chiede la declaratoria sic et simpliciter di illegittimità costituzionale della norma (ossia l’art. 13, comma 6-bis); che la pronuncia caducatoria richiesta dal rimettente, per effetto delle modifiche normative intervenute, determinerebbe la reviviscenza del sistema di determinazione del contributo ancorato al valore della controversia, antecedente alla riforma introdotta con il decreto-legge n. 223 del 2006, con evidente distonia tra petitum e argomentazioni a sostegno del medesimo; che, pertanto, la questione è inammissibile anche per contraddittorietà del petitum (v. ordinanza n. 400 del 2006); che, in ogni caso, la questione è inammissibile per la pluralità delle soluzioni che possono essere offerte dal legislatore in una materia, quale quella della determinazione delle spese processuali poste a carico degli utenti della giustizia ed altresì quella tributaria, nella quale vige il principio della sua discrezionalità e della insindacabilità delle opzioni legislative che non siano caratterizzate da una manifesta irragionevolezza (v. sentenza n. 162 del 1983); che, nel caso di specie, la norma censurata, introducendo una più articolata distinzione tra diverse categorie di controversie amministrative ed elevando la misura dei contributi per alcune di esse, deve ritenersi frutto di una scelta discrezionale non manifestamente irragionevole. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. per questi motivi la corte costituzionale dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 6-bis, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia di spese di giustizia – Testo A), come modificato dall’art. 1, comma 1307, della legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – legge finanziaria 2007), sollevata, con riferimento agli artt. 3, 97 e 81, terzo comma, della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Milano con l’ordinanza in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 aprile 2010. F.to: Ugo DE SIERVO, Presidente Luigi MAZZELLA, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ORDINANZA N. 165 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Ugo DE SIERVO; Giudici : Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 7-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 aggiunto dall’art. 21 della legge 30 luglio 2002, n. 189 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), promosso dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto nel procedimento vertente tra G. C. e il Ministero dell’interno con ordinanza dell’11 giugno 2009, iscritta al n. 265 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 42, prima serie speciale, dell’anno 2009. Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 24 marzo 2010 il Giudice relatore Maria Rita Saulle. Ritenuto che il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto ha sollevato, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 7-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero); che, in particolare, la norma censurata violerebbe il suddetto parametro costituzionale «nella parte in cui prevede che la condanna, con provvedimento irrevocabile, per alcuno dei reati previsti dalle disposizioni del Titolo III, Capo III, Sezione II, della legge 22 aprile 1941, n. 633, e successive modificazioni, relativi alla tutela del diritto di autore, e dagli articoli 473 e 474 del codice penale, comporta in via automatica la revoca del permesso di soggiorno (e quindi, implicitamente ma in modo inequivoco, il diniego del suo rinnovo alla scadenza)»; che il giudizio a quo ha ad oggetto il ricorso avverso il provvedimento del Questore di Rovigo in data 5 gennaio 2009 di diniego del rinnovo del permesso di soggiorno richiesto, per motivi di lavoro autonomo, da un cittadino senegalese che afferma di «vivere in Italia dal 1989 e di aver conseguito il primo permesso di soggiorno nel 1990»; che il rimettente specifica che il provvedimento impugnato, nonostante richiami nelle premesse altri «cinque deferimenti all’autorità giudiziaria […] per lo più per violazioni di norme in materia di tutela del diritto d’autore e per commercio di prodotti con segni falsi», si fonderebbe esclusivamente «sul fatto che lo straniero, il 13 gennaio 2003, è stato condannato, con decreto emesso dal GIP del Tribunale di Rovigo, divenuto esecutivo il 4 febbraio 2005, alla pena di due mesi e otto giorni di reclusione, oltre alla multa, per il reato di violazione delle norme sul diritto d’autore continuato»; che, pertanto, il provvedimento impugnato sarebbe frutto dell’«automatismo di cui al citato comma 7-bis dell’art. 26 del d.lgs. n. 286 del 1998»; che, inoltre, secondo il giudice a quo, risulterebbe ininfluente la circostanza dedotta con il ricorso per la quale lo straniero avrebbe maturato da «tempo i requisiti per chiedere il rilascio di un permesso […] per soggiornanti di lungo periodo ex art. 9 del d.lgs. n. 286 del 1998», giacché «nella specie» il ricorrente avrebbe chiesto un «semplice rinnovo del permesso»; che, quanto alla non manifesta infondatezza della questione, il TAR del Veneto dubita «che la disciplina introdotta con il citato art. 26, comma 7-bis, sia coerente con i principi di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione»; che, in particolare, secondo il giudice a quo, la disposizione denunciata, «ove raffrontata con la disposizione, omogenea, di cui all’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998, applicata in correlazione con il successivo art. 5, comma 5, […]» opererebbe una «irragionevole equiparazione», sotto il profilo degli effetti di natura amministrativa, di «fattispecie delittuose tra loro assai eterogenee in termini di gravità della condotta commessa e della pena prevista»; che, infatti, con la disposizione censurata, sarebbero state irragionevolmente equiparate, «ai fini dell’automatismo nel disporre la revoca del permesso di soggiorno o nel rifiutarne il rinnovo […], situazioni caratterizzate dalla accertata commissione di fatti-reato particolarmente gravi (come nel caso dell’art. 4, comma 3, del d.lgs. n. 286 del 1998 che richiama le ipotesi di reato disciplinate dall’art. 380, commi 1 e 2, c.p.p.), ad altre situazioni contraddistinte, invece, dall’accertato compimento di reati di lieve entità, di scarso rilievo o, in ogni caso, non gravi (come nel caso degli artt. 171-171-quinquies della legge n. 633 del 1941)»; che è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente inammissibile o, comunque, manifestamente infondata; che, in particolare, in una successiva memoria, la difesa erariale deduce che il giudice rimettente avrebbe trascurato una «serie di decisivi elementi»; che, in primo luogo, «l’automatismo di cui all’art. 26, comma 7-bis, presuppone una condanna irrevocabile, mentre invece, per l’applicazione del meccanismo di cui al combinato disposto degli artt. 4 comma 3 e 5 comma 5, è sufficiente, almeno sul piano del diritto vivente, una sentenza di condanna in primo grado, anche a seguito di patteggiamento»; che, in secondo luogo, sempre ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, il rimettente non considera che «anche reati più lievi possono essere assunti a sintomo della pericolosità sociale rilevante in ambiti amministrativi miranti alla tutela preventiva dell’ordine pubblico, quando si tratti di fattispecie particolarmente diffuse, o che possano determinare complessivamente, e non singolarmente considerati, danni significativi al tessuto economico e sociale interessato», come, appunto, nel caso delle fattispecie penali poste a presidio del diritto d’autore; che, inoltre, la difesa erariale contesta la appropriatezza della scelta, quale tertium comparationis della questione di legittimità sollevata in riferimento all’art. 3 della Costituzione, di «reati ritenuti maggiormente gravi», riferendo ad essi la «soglia al di sotto della quale la scelta del legislatore diverrebbe irragionevole», dal momento che il riferimento legislativo ad alcuni reati più gravi non escluderebbe la rilevanza, ai fini del giudizio operato dalla norma impugnata, di «altri reati» sebbene sanzionati «con più lieve pena edittale». Considerato che il Tribunale amministrativo regionale per il Veneto dubita, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 7-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero); che, in particolare, a parere del giudice a quo, la disposizione censurata violerebbe il citato parametro costituzionale nella parte in cui prevede l’automatica revoca del permesso di soggiorno del cittadino straniero, condannato con provvedimento irrevocabile per alcuno dei reati previsti dalle disposizioni del titolo III, capo III, sezione II, della legge 22 aprile 1941, n. 633, e dagli artt. 473 e 474 del codice penale; che, tuttavia, il rimettente ha fornito una carente descrizione della fattispecie sottoposta al suo esame: in particolare ha omesso di specificare se risulti o meno fondata la circostanza dedotta dal ricorrente concernente l’asserito possesso dei requisiti prescritti per il rilascio del «permesso CE per soggiornanti di lungo periodo», nonché se il ricorrente abbia o meno esercitato il diritto al ricongiungimento familiare ovvero se sia un familiare ricongiunto; che tali elementi, come più volte sottolineato da questa Corte (sentenza n. 148 del 2008, nonché ordinanze n. 219 del 2009 e n. 378 del 2008), assumono grande rilievo nella disciplina del rilascio e del rinnovo del permesso di soggiorno per effetto del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3 (Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo), e del decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 5 (Attuazione della direttiva 2003/86/CE relativa al diritto di ricongiungimento familiare); che, pertanto, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l’insufficiente descrizione della fattispecie, poiché impedisce di vagliare l’effettiva applicabilità della norma al caso dedotto, si risolve in carenza della motivazione sulla rilevanza della questione, determinandone la manifesta inammissibilità. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 26, comma 7-bis, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), sollevata, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Tribunale amministrativo regionale per il Veneto, con l’ordinanza indicata in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 aprile 2010. F.to: Ugo DE SIERVO, Presidente Maria Rita SAULLE, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA ORDINANZA N. 166 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente ORDINANZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, del codice di procedura penale e dell’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall’art. 3 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 23 aprile 2009, n. 38, promosso dal Tribunale per i minorenni di Trento con ordinanza del 6 luglio 2009, iscritta al n. 250 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 41, prima serie speciale, dell’anno 2009. Udito nella camera di consiglio del 14 aprile 2010 il Giudice relatore Gaetano Silvestri. Ritenuto che con ordinanza deliberata il 6 luglio 2009 il Tribunale per i minorenni di Trento, in funzione di sorveglianza, ha sollevato, in riferimento agli artt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, del codice di procedura penale e dell’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) – come modificato dall’art. 3 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 23 aprile 2009, n. 38 –, nella parte in cui prevede che le suddette disposizioni si applicano anche ai condannati per fatti commessi da minorenni, con conseguente possibilità di accesso ai benefici penitenziari, in caso di condanna per i reati previsti dagli artt. 609-quater e 609-octies del codice penale, solo sulla base dell’osservazione scientifica della personalità, attuata in regime di restrizione carceraria per la durata di un anno; che il rimettente è chiamato a provvedere sull’istanza di affidamento in prova al servizio sociale presentata da un giovane ultraventunenne, condannato alla pena di anni due e mesi otto di reclusione per aver commesso, da minorenne, i reati di cui agli artt. 110, 605, 609-quater e 609-octies cod. pen.; che, secondo quanto precisato dallo stesso rimettente, il pubblico ministero, dopo che la sentenza di condanna è divenuta irrevocabile, ha emesso ordine di carcerazione con contestuale sospensione dell’esecuzione, e successivamente il condannato ha presentato istanza di ammissione alla misura alternativa alla detenzione; che nel giudizio conseguente il pubblico ministero ha chiesto, in via principale, il rigetto dell’istanza difensiva, sul rilievo che l’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, come modificato dal d.l. n. 11 del 2009 e dalla relativa legge di conversione n. 38 del 2009, prevede che i condannati per delitti di cui agli artt. 609-bis, 609-ter, 609-quater e 609-octies cod. pen. possano accedere ai benefici penitenziari «solo sulla base dei risultati dell’osservazione scientifica della personalità condotta collegialmente per almeno un anno anche con la partecipazione degli esperti di cui al quarto comma dell’art. 80 della presente legge»; che inoltre lo stesso pubblico ministero, in via subordinata, si è rimesso alla valutazione del Tribunale in merito alla legittimità costituzionale della previsione indicata, tenuto conto delle peculiarità dell’esecuzione minorile, mentre la difesa dell’istante ha formalizzato eccezione di illegittimità costituzionale del novellato art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, in quanto incompatibile con il principio del recupero e della risocializzazione del condannato; che, dopo tali premesse in fatto, il rimettente osserva come, in applicazione degli artt. 656, comma 9, cod. proc. pen. e 4-bis della legge n. 354 del 1975, l’istanza sottoposta al suo giudizio dovrebbe essere dichiarata inammissibile o, comunque, rigettata, e ciò senza alcuna possibilità di valutare la situazione specifica del condannato al fine di individuare «la modalità esecutiva più idonea a garantire il mantenimento del percorso di reinserimento sociale attuato»; che, a parere del rimettente, la rigidità delle richiamate previsioni non sarebbe compatibile con il principio della finalità rieducativa della pena, a maggior ragione ove riferito alla persona condannata per fatti commessi da minorenne, per la quale deve ritenersi sicuramente prevalente l’esigenza di garantire il «recupero sociale», attraverso la valorizzazione delle specifiche caratteristiche della personalità; che il Tribunale richiama la giurisprudenza costituzionale la quale ha più volte sottolineato la necessità di una diversificazione della disciplina dell’esecuzione penale nel caso di condannato minorenne, rilevando, in particolare, come le previsioni che sanciscono divieti generalizzati ed automatici siano da ritenersi incompatibili con gli artt. 27 e 31 Cost., poiché non consentono quelle valutazioni flessibili ed individualizzanti che sono strumentali alla risocializzazione del condannato medesimo (sentenze n. 436 del 1999, n. 450 del 1998, n. 403 del 1997 e n. 168 del 1994); che le considerazioni svolte nelle richiamate decisioni varrebbero, a parere del rimettente, anche con riferimento alle disposizioni oggetto di censura, posto che «l’esclusione rigida delle misure alternative alla detenzione sulla base della mera tipologia dei delitti e prima del decorso di almeno un anno di permanenza in carcere» risulterebbe di ostacolo al recupero sociale del condannato; che nella specie il Tribunale, anche in base alla relazione ed al progetto inviati dal competente Ufficio per l’esecuzione penale esterna, rileva come l’istante non abbia riportato altre condanne, mantenendo una condotta esente da rimproveri, con la conseguenza che, «a distanza di oltre quattro anni dai fatti ed a fronte della positiva evoluzione di crescita del ricorrente, impegnato nel lavoro e nel volontariato, l’inevitabile impatto carcerario, in mancanza di qualsiasi possibilità di diversa valutazione da parte dell’autorità giudiziaria, ne potrebbe compromettere in modo radicale l’avvenuto recupero e risocializzazione»; che non vi è stata costituzione di parti, né intervento del Presidente del Consiglio dei ministri. Considerato che il Tribunale per i minorenni di Trento, in funzione di sorveglianza, solleva, in riferimento agli artt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost., questioni di legittimità costituzionale degli artt. 656, comma 9, del codice di procedura penale e dell’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà) – come modificato dall’art. 3 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 23 aprile 2009, n. 38 – nella parte in cui prevede che le suddette disposizioni si applicano anche ai condannati per fatti commessi da minorenni, con conseguente possibilità di accesso ai benefici penitenziari, in caso di condanna per i reati previsti dagli artt. 609-quater e 609-octies del codice penale, solo sulla base dell’osservazione scientifica della personalità, attuata in regime di restrizione carceraria per la durata di un anno; che, in via preliminare, va rilevata la manifesta inammissibilità della questione sollevata riguardo all’art. 656, comma 9, cod. proc. pen., per la palese irrilevanza della predetta norma nel giudizio a quo; che infatti, nell’ambito della disciplina della fase iniziale di esecuzione delle pene detentive, cui procede il pubblico ministero con l’emissione dell’ordine di carcerazione, la disposizione in esame stabilisce i casi in cui, in deroga alla regola fissata dal comma 5 del medesimo art. 656, lo stesso pubblico ministero non può comunque sospendere l’esecuzione delle pene detentive brevi; che, in particolare, il comma 9, alla lettera a), prevede che la sospensione dell’esecuzione non possa essere disposta «nei confronti dei condannati per i delitti di cui all’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni», sicché, per effetto del rinvio in essa contenuto, la norma processuale recepisce automaticamente le variazioni del catalogo dei delitti indicati nello stesso art. 4-bis (Corte di cassazione, Sezioni unite penali, sentenza n. 24561 del 2006); che dunque l’art. 656, comma 9, cod. proc. pen. disciplina unicamente l’attività del pubblico ministero, vincolandone il contenuto in funzione della presunzione di pericolosità che concerne i condannati per i delitti compresi nel catalogo appena citato, mentre spetta al Tribunale di sorveglianza la valutazione delle istanze di condannati, i quali, dopo l’ordine di carcerazione e l’eventuale provvedimento sospensivo che può accompagnarlo, chiedano l’accesso a forme alternative di esecuzione della pena; che va notato peraltro come, nel caso di specie, l’art. 656, comma 9, del codice di rito non abbia trovato applicazione (o, meglio, sia stato disapplicato) nella fase antecedente alla presentazione dell’istanza del condannato, risultando dall’ordinanza di rimessione che il pubblico ministero ha emesso l’ordine di carcerazione contestualmente sospendendone l’efficacia, e ciò sebbene alcuni tra i reati per i quali è intervenuta la condanna dell’istante fossero inseriti nel catalogo dell’art. 4-bis da epoca antecedente al momento in cui la sentenza di condanna è divenuta irrevocabile; che, in particolare, i delitti previsti dagli artt. 609-quater e 609-octies cod. pen. risultano ostativi alla concessione dei benefici penitenziari – e quindi alla sospensione iniziale della pena detentiva breve – a far tempo dall’entrata in vigore dell’art. 15 della legge 6 febbraio 2006, n. 38 (Disposizioni in materia di lotta contro lo sfruttamento sessuale dei bambini e la pedopornografia anche a mezzo Internet); che il giudice rimettente, pur nel complesso quadro che si è descritto, non ha svolto alcuna considerazione circa la rilevanza nel giudizio a quo della norma processuale, peraltro disapplicata dal pubblico ministero, e neppure in merito alle conseguenze della disposta sospensione dell’esecuzione sulle modalità applicative, nel caso di specie, dell’art. 4-bis; che comunque, in riferimento alla questione concernente l’art. 4-bis della legge n. 354 del 1975, gli atti devono essere restituiti al Tribunale, poiché il legislatore è nuovamente intervenuto sulla disposizione censurata, in epoca successiva alla deliberazione dell’ordinanza di rimessione, modificando il trattamento dei condannati per il delitto di cui all’art. 609-octies cod. pen.; che infatti, mentre nel testo dell’art. 4-bis considerato dal rimettente, l’accesso ai benefici penitenziari, per tale categoria di condannati, era subordinato alla compresenza delle condizioni previste nei commi 1 e 1-quater, e quindi alla collaborazione e all’osservazione inframuraria della personalità per la durata di un anno, il testo vigente della norma censurata non prevede più, in modo espresso, entrambe le condizioni, in quanto l’art. 2 della legge 15 luglio 2009, n. 94 (Disposizioni in materia di sicurezza pubblica), ha eliminato l’inciso «qualora ricorra anche la condizione di cui […]», che era contenuto in ciascuno dei commi indicati; che, peraltro, il delitto di cui all’art. 609-octies cod. pen. continua ad essere inserito sia nel comma 1 sia nel comma 1-quater dell’art. 4-bis, i quali, come si è visto, richiedono condizioni diverse ai fini dell’accesso ai benefici penitenziari; che, stante l’applicabilità della modifica ai procedimenti in corso, spetta al giudice a quo stabilire in primo luogo quale sia il regime applicabile ai condannati per il delitto di cui all’art. 609-octies cod. pen., e quindi procedere, sulla base dell’opzione prescelta, ad una nuova valutazione della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione (ex plurimis, ordinanza n. 66 del 2010). Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 656, comma 9, del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento agli artt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma, della Costituzione, dal Tribunale per i minorenni di Trento, in funzione di tribunale di sorveglianza, con l’ordinanza indicata in epigrafe; ordina la restituzione degli atti al medesimo Tribunale per i minorenni di Trento con riguardo alla questione di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), come modificato dall’art. 3 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonché in tema di atti persecutori), convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 23 aprile 2009, n. 38. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 aprile 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Gaetano SILVESTRI, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA SENTENZA N. 167 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2, comma 1 lettera h), 5, comma 1, 8, comma 6, 10, 15, comma 1, 18, commi 1 e 4 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 29 aprile 2009, n. 9 (Disposizioni in materia di politiche di sicurezza e ordinamento della polizia locale), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 3-7 luglio 2009, depositato in cancelleria l’8 luglio 2009 ed iscritto al n. 46 del registro ricorsi 2009. Visto l’atto di costituzione della Regione Friuli-Venezia Giulia; udito nell’udienza pubblica del 10 marzo 2010 il Giudice relatore Giuseppe Tesauro; uditi l’avvocato dello Stato Gabriella Palmieri per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Giandomenico Falcon per la Regione Friuli-Venezia Giulia. Ritenuto in fatto 1.– Con ricorso depositato l’8 luglio 2009, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale in via principale degli articoli 2, comma 1, lettera h); 5, comma 1; 8, comma 6; 10; 15, comma 1; 18, commi 1 e 4, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 29 aprile 2009, n. 9 (Disposizioni in materia di politiche di sicurezza e ordinamento della polizia locale). 1.1. – Il ricorrente premette che lo statuto speciale della Regione Friuli-Venezia Giulia di cui alla legge costituzionale 31 gennaio 1963, n. 1, all’articolo 5, comma 1, punto 13, attribuisce alla predetta Regione competenza legislativa concorrente nella materia della «polizia locale». Considerato che, a seguito della riforma del Titolo V della parte II della Costituzione, è riconosciuta alle Regioni a statuto ordinario potestà legislativa residuale in ordine alla polizia amministrativa locale (art. 117, secondo comma, lettera h), Cost.), in base all’articolo 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, deve ritenersi estesa anche alla predetta Regione la competenza legislativa residuale in tale materia, con il limite costituito dalla competenza statale in tema di ordine pubblico e sicurezza pubblica. Ad avviso del ricorrente, le disposizioni regionali impugnate avrebbero ecceduto dalla propria competenza in materia di polizia amministrativa locale, invadendo sfere di competenza statale. In particolare, il ricorrente censura l’articolo 2, comma 1, lettera h), della legge regionale n. 9 del 2009, nella parte in cui stabilisce che la Regione promuove «lo sviluppo di politiche di sicurezza transfrontaliere», in quanto esso, così disponendo, invaderebbe la competenza statale esclusiva in materia di ordine pubblico e sicurezza, posto che le Regioni non possono concludere accordi con Stati ed enti territoriali interni ad altri Stati in una materia, quella delle politiche di sicurezza, che non rientra nella loro competenza. Anche l’articolo 5, comma 1, della legge regionale n. 9 del 2009, nella parte in cui stabilisce che la Regione promuove e sostiene finanziariamente l’impiego del volontariato e dell’associazionismo, «ivi comprese le associazioni d’arma e le associazioni delle Forze dell’ordine», sarebbe lesivo della competenza esclusiva dello Stato in tema di ordine pubblico e sicurezza pubblica, in quanto non sarebbe dato rinvenire nello Statuto alcuna disposizione idonea a giustificare la competenza regionale in tema di utilizzo delle associazioni d’arma e delle Forze dell’ordine. Quanto, poi, all’articolo 8, comma 6, della citata legge regionale, nella parte in cui dispone che «nell’esercizio delle funzioni di pubblica sicurezza previste dalla normativa statale, la polizia locale assume il presidio del territorio tra i suoi compiti primari, al fine di garantire, in concorso con le forze di polizia dello Stato, la sicurezza urbana degli ambiti territoriali di riferimento», la violazione della competenza statale esclusiva in tema di sicurezza pubblica si desumerebbe dal contrasto della richiamata disposizione con la legge statale 7 marzo 1986, n. 65 (Legge-quadro sull’ordinamento della polizia municipale), che, all’art. 5, comma 1, lettera c), definisce «ausiliarie» le funzioni di pubblica sicurezza della polizia locale, e, all’art. 3, prevede che gli addetti al servizio di polizia municipale collaborino, «nell’ambito delle proprie attribuzioni, con le Forze di polizia dello Stato, previa disposizione del sindaco, quando ne venga fatta, per specifiche operazioni, motivata richiesta dalle competenti autorità». Il ricorrente sostiene, inoltre, l’illegittimità costituzionale, in riferimento all’art. 114 della Costituzione, dell’art. 10 della citata legge regionale, nella parte in cui fissa i principi organizzativi per l’esercizio delle funzioni di polizia locale, prevedendo, al comma 1, che i comuni e le province istituiscono i corpi di polizia locale e ne regolamentano l’organizzazione ed il funzionamento: non competerebbe, infatti, alla Regione disciplinare minuziosamente il contingente numerico degli addetti al servizio, il tipo di organizzazione del Corpo di polizia municipale né lo stato giuridico del personale ed il relativo trattamento economico, posto che simili compiti rientrerebbero nella sfera di competenza dei comuni che sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni, equiordinati alle regioni. L’art. 15, comma 1, della citata legge regionale n. 9 del 2009, sarebbe, poi, costituzionalmente illegittimo per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione. Tale disposizione, nella parte in cui prevede che «Gli agenti della polizia locale sono agenti di polizia giudiziaria. Gli ispettori e i commissari della polizia locale sono ufficiali di polizia giudiziaria. Il comandante del Corpo di polizia locale dei comuni capoluogo di provincia (..) non riveste la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria», si porrebbe in contrasto con la competenza esclusiva dello Stato in materia di giurisdizione penale, posto che la polizia giudiziaria, a norma degli articoli 55 e 57 del codice di procedura penale, opera di propria iniziativa e per disposizione o delega dell’Autorità giudiziaria, ai fini dell’applicazione della legge penale. Il ricorrente censura, infine, l’articolo 18, commi 1 e 4, della legge regionale in esame, nella parte in cui prevede che il personale di polizia locale sia dotato di armamento secondo quanto previsto dalla normativa statale e che gli addetti alla polizia locale espletino «muniti di armi almeno i servizi di vigilanza, protezione degli immobili di proprietà dell’ente locale e dell’armeria del Corpo o Servizio, quelli notturni e di pronto intervento», per violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di «armi, munizioni ed esplosivi» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera d), della Costituzione. 2.– Si è costituita in giudizio la Regione Friuli-Venezia Giulia, chiedendo che la Corte respinga il ricorso. 2.1.– La resistente premette che la legge regionale n. 9 del 2009 è stata adottata nell’esercizio della competenza legislativa regionale residuale nella materia della polizia amministrativa locale (ex art. 117, quarto comma, Cost.) e piena nella materia dell’ordinamento degli enti locali (ex art. 4, n. 1-bis dello Statuto speciale). Un peculiare ruolo della Regione Friuli-Venezia Giulia nella materia della sicurezza dovrebbe, poi, riconoscersi – ad avviso della resistente - non solo in considerazione del carattere della Regione di ente esponenziale della rispettiva comunità, che legittimerebbe interventi regionali di promozione pure fuori delle materie indicate dall’art. 117 della Costituzione, ma anche sulla base dell’Intesa istituzionale di programma raggiunta tra il Governo e la medesima Regione, il 9 maggio 2001, che individuava, tra gli obiettivi da perseguire, quello del miglioramento della qualità dell e città, delle istituzioni locali, della vita associata e della sicurezza, nonché del Protocollo d’intesa stipulato tra il Ministero dell’interno e la Regione Friuli-Venezia Giulia, il 27 marzo 2007, in materia di politiche integrate di sicurezza urbana, in attuazione dell’art. 7, comma 3, del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 12 settembre 2000 (Individuazione delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative da trasferire alle regioni ed agli enti locali per l’esercizio delle funzioni e dei compiti amministrativi in materia di polizia amministrativa). Con riferimento, poi, alle singole censure, la Regione osserva che quelle proposte nei confronti dell’art. 2, comma 1, lettera h), sarebbero inammissibili – essendo tale previsione priva di attitudine lesiva – o comunque infondate, limitandosi la predetta norma a fissare un obiettivo politico-programmatico, senza stabilire alcuna competenza alla conclusione di particolari accordi. Anche le censure sollevate nei confronti dell’art. 5, comma 1, sarebbero prive di fondamento, posto che detta norma, limitandosi a prevedere un mero sostegno economico alle convenzioni che le associazioni stesse e gli enti locali provvedano a stipulare, costituirebbe esercizio delle competenze regionali in materia di polizia amministrativa. Quanto, poi, all’art. 8, comma 6, la Regione osserva che esso si limiterebbe ad incentivare la presenza della polizia locale sul territorio al fine di rendere sensibile quella delle istituzioni, non aggiungendo alcun compito alla polizia locale né mutando il carattere ausiliario dei compiti già assegnati ad essa, ma indicando solo una loro modalità operativa. La censura proposta nei confronti dell’art. 10, particolarmente quanto ai commi 4, 5, 6, 7 ed 8, sarebbe in primo luogo inammissibile, in quanto, pur riferita a disposizioni diverse, sarebbe genericamente motivata, sia rispetto a ciascuna di esse che rispetto al loro insieme. Nel merito, essa sarebbe comunque infondata, tenuto conto del fatto che la disciplina posta dalle disposizioni impugnate in tema di servizio di polizia municipale lascerebbe ampio spazio all’autonomia degli enti locali, limitandosi a definire requisiti minimi, in piena coerenza con quanto risulta dal l’art. 4, comma 4, della legge n. 131 del 2003. Inammissibili e comunque infondate sarebbero, altresì, le censure sollevate nei confronti dell’art.15, comma 1: il senso della disposizione non sarebbe, infatti, quello di attribuire la qualifica di appartenente alla polizia giudiziaria, ma solo quello di eliminare una situazione di incertezza, derivante dalla formulazione dell’art. 5 della legge n. 65 del 1986. Infine, la Regione sostiene che anche le censure sollevate nei confronti dell’art. 18, commi 1 e 4, siano infondate, posto che, quanto al comma 1, esso conterrebbe un mero rinvio alla normativa statale, mentre, con il comma 4, si limiterebbe a stabilire quali servizi sono necessariamente svolti dal personale armato, secondo le regole di cui all’art. 5 della legge n. 65 del 1986. 3.– Il ricorrente e la resistente, all’udienza pubblica, hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni svolte nelle difese scritte. Considerato in diritto 1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri dubita della legittimità costituzionale degli articoli 2, comma 1, lettera h); 5,comma 1; 8, comma 6; 10; 15, comma 1; 18, commi 1 e 4, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 29 aprile 2009, n. 9 (Disposizioni in materia di politiche di sicurezza e ordinamento della polizia locale). Il ricorrente assume che le citate disposizioni, pur contenute nella legge regionale n. 9 del 2009, riconducibile, essenzialmente, alla materia della polizia amministrativa locale, esorbiterebbero dalla competenza legislativa residuale, assegnata in detta materia alle Regioni dall’art. 117 della Costituzione, ed applicabile anche alla Regione Friuli-Venezia Giulia in virtù dell’art. 10 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione), ponendosi in contrasto con gli artt. 114 e 117, secondo comma, lettere d), l) ed h), della Costituzione. 2.– In particolare, è impugnato l’articolo 2, comma 1, lettera h), della legge regionale citata nella parte in cui stabilisce che la Regione promuove «lo sviluppo di politiche di sicurezza transfrontaliere», per violazione della competenza statale esclusiva in materia di ordine pubblico e sicurezza, posto che le politiche di sicurezza non rientrano tra le materie per le quali le Regioni possono concludere accordi con Stati ed enti territoriali interni ad altri Stati. 2.1.– La questione non è fondata. 2.2.– In linea preliminare, occorre ricordare che lo statuto speciale, all’articolo 5, comma 1, punto 13, attribuisce alla Regione potestà legislativa concorrente nella materia della «polizia locale». A seguito della riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, è riconosciuta alle regioni a statuto ordinario potestà legislativa residuale in ordine alla polizia amministrativa locale (art. 117, comma 2, lettera h), Cost.). Pertanto, in base all’articolo 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, deve ritenersi estesa alla Regione Friuli-Venezia Giulia la competenza legislativa residuale in tale materia, ferme restando le competenze esclusive statali, in particolare quella in tema di ordine pubblico e sicurezza. Questa Corte ha più volte affermato che Regioni e Province autonome non sono titolari di competenza propria nella materia dell’ordine pubblico e della sicurezza, nella materia cioè relativa sia alla prevenzione dei reati, sia al mantenimento dell’ordine pubblico (sentenze n. 237 e n. 222 del 2006), inteso quest’ultimo, in senso stretto, quale «complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale» (sentenza n. 290 del 2001). Rientrano, invece, fra i compiti di polizia amministrativa, di competenza regionale (sentenza n. 196 del 2009), le «misure dirette ad evitare danni o pregiudizi che possono essere arrecati a soggetti giuridici e alle cose nello svolgimento di attività relative alle materie nelle quali vengono esercitate le competenze [...] delle Regioni e degli enti locali, purché non siano coinvolti beni o int eressi specificamente tutelati in funzione dell’ordine pubblico e della sicurezza pubblica» (sentenza n. 290 del 2001). Con la legge regionale n. 9 del 2009 in esame, la Regione Friuli-Venezia Giulia ha ridefinito il quadro normativo in materia di polizia locale, in vista dell’obiettivo della «promozione di politiche locali ed integrate per la sicurezza sul territorio regionale» (art. 1, comma 2). All’art. 2 della medesima legge regionale, è stabilito che «per il perseguimento delle finalità generali della legge, indicate all’art. 1», la Regione promuova una serie di interventi – l’integrazione tra gli interventi regionali e degli enti locali per la sicurezza urbana con le politiche di contrasto alla criminalità e di sicurezza pubblica di competenza degli organi statali (lettera a); il sostegno alla conoscenza ed allo scambio di informazioni sui fenomeni criminali e sulle situazioni a rischio (lettera b); l’applicazione di tecnologie finalizzate al coordinamento, alla collaborazione ed alla comunicazione tra le polizie locali e le forze dell’ordine presenti sul territorio regionale (lettera g), eccetera – fra i quali sono annoverati anche quelli di promozione dello sviluppo di «politiche di sicurezza transfrontaliere» recati dalla disposizione (lettera h) oggetto di censura. Tali interventi devono essere intesi nel senso che la Regione, nell’esercizio delle proprie competenze, svolge una mera attività di stimolo e d’impulso, nei limiti consentiti, presso i competenti organi statali, all’adozione di misure volte al perseguimento del fine della tutela della sicurezza. La norma in esame, pertanto, si limita a prevedere simili interventi promozionali anche nel settore delle politiche di sicurezza transfrontaliere, senza stabilire alcuna competenza regionale alla conclusione di accordi in materia di sicurezza pubblica, nel rispetto dell’art. 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione, alla stregua del quale solo «nelle materie di sua competenza la Regione può concludere accordi con Stati e intese con enti territoriali interni ad altro Stato, nei casi e con le forme disciplinati da leggi dello Stato (nono comma)» (sentenza n. 238 del 2004). 3.– Viene, poi, impugnato l’articolo 5, comma 1, della citata legge n. 9 del 2009, nella parte in cui stabilisce che la Regione promuove e sostiene finanziariamente l’impiego del volontariato e dell’associazionismo, «ivi comprese le associazioni d’arma e le associazioni delle Forze dell’ordine». Anche tale disposizione sarebbe lesiva della competenza esclusiva dello Stato in tema di ordine pubblico e sicurezza pubblica, tenuto conto che nello Statuto non vi è alcuna previsione che si riferisca all’utilizzo delle associazioni d’arma e delle Forze dell’ordine idonea a fondare la competenza regionale. 3.1.– La questione non è fondata. L’art. 5 della legge n. 9 del 2009 è censurato nella sola parte (comma 1) in cui dispone che «al fine di favorire il rispetto della legalità e migliorare la qualità della convivenza civile, la Regione promuove e sostiene finanziariamente l’impiego del volontariato e dell’associazionismo, ivi comprese le associazioni d’arma e le associazioni delle Forze dell’ordine, nel rispetto dei principi e delle finalità previste dalle leggi statali e regionali in materia». Tale norma si inserisce nel quadro del programma regionale di finanziamento annuale volto ad individuare le risorse da destinare a progetti ed interventi di rilievo regionale, locale o attuativi di accordi con lo Stato, anche favorendo il coinvolgimento delle organizzazioni di volontariato e di singoli volontari, nell’espletamento delle attività volte a promuovere l’educazione alla convivenza ed il rispetto della legalità. Essa si limita, pertanto, a prevedere un mero sostegno economico alla stipulazione delle convenzioni che le predette associazioni provvedono a stipulare con i Comuni e le Province interessate, nell’ambito delle rispettive competenze, peraltro precisando che ciò deve avvenire «nel rispetto dei principi e delle finalità previste dalle leggi statali e regionali», senza disporre alcunché sui casi ed i modi di utilizzo delle associazioni d’arma e delle Forze dell’ordine. Il richiamato conten uto della norma censurata esclude, quindi, che essa invada la competenza statale esclusiva nella materia dell’ordine pubblico e della sicurezza. 4.– Anche l’articolo 8, comma 6, della legge regionale n. 9 del 2009 è impugnato in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione, nella parte in cui stabilisce che «nell’esercizio delle funzioni di pubblica sicurezza previste dalla normativa statale, la polizia locale assume il presidio del territorio tra i suoi compiti primari, al fine di garantire, in concorso con le forze di polizia dello Stato, la sicurezza urbana degli ambiti territoriali di riferimento». La richiamata disposizione contrasterebbe, infatti, con quanto stabilito dal legislatore statale, nell’esercizio della competenza esclusiva in tema di sicurezza pubblica, nella legge n. 65 del 1986, all’ art. 5, comma 1, lettera c). 4.1.– La questione è fondata. Già con la legge 7 marzo 1986, n. 65 (Legge-quadro sull’ordinamento della polizia municipale), il legislatore statale, nell’esercizio della propria competenza aveva fissato i principi fondamentali in tema di polizia municipale, stabilendo espressamente che gli addetti alla polizia municipale «collaborano, nell’ambito delle proprie attribuzioni, con le forze di polizia dello Stato» (art. 3), precisando che ciò può avvenire solo «previa disposizione del Sindaco, quando ne venga fatta, per specifiche operazioni, motivata richiesta dalle competenti autorità» e puntualizzando che «il personale che svolge servizio di polizia municipale, nell’ambito territoriale dell’ente di appartenenza e nei limiti delle proprie attribuzioni, esercita anche […] funzioni ausiliarie di pubblica sicurezza» (art. 5). Prima dell’entrata in vigore del nuovo Titolo V della parte seconda della Costituzione, poi, l’art. 159, comma 2, del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della L. 15 marzo 1997, n. 59), nell’ambito dell’ampio conferimento di funzioni e compiti alle regioni ed agli enti locali operato in attuazione della legge di delega n. 59 del 1997, ha precisato che restano riservate allo Stato le funzioni ed i compiti amministrativi relativi all’ordine pubblico ed alla sicurezza pubblica che si riferiscono alle misure preventive e repressive atte al mantenimento dell’ordine pubblico, inteso come il complesso dei beni giuridici fondamentali e degli interessi pubblici primari sui quali si regge l’ordinata e civile convivenza nella comunità nazionale. In attuazione di tale previsione, è stato adotta to il decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 12 settembre 2000 (Individuazione delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative da trasferire alle regioni ed agli enti locali per l’esercizio delle funzioni e dei compiti amministrativi in materia di polizia amministrativa), con il quale si è stabilito, fra l’altro, che «lo Stato, le Regioni e gli Enti locali collaborano in via permanente, nell’ambito delle rispettive competenze, al perseguimento di condizioni ottimali di sicurezza delle città e del territorio extraurbano e di tutela dei diritti di sicurezza dei cittadini, nonché per la realizzazione di specifici progetti di ammodernamento e potenziamento tecnico-logistico delle strutture e dei servizi di polizia amministrativa regionale e locale, nonché dei servizi integrativi di sicurezza e di tutela sociale, agli interventi di riduzione dei danni, all’educazione alla convivenza nel rispetto della legalit&# 224;» (art. 7, comma 1). Si è, poi, aggiunto, al comma 3, che «il Ministro dell’Interno, nell’ambito delle sue attribuzioni, promuove le iniziative occorrenti per incrementare la reciproca collaborazione fra gli organi dello Stato, le regioni e le Amministrazioni locali in materia, anche attraverso la stipula di protocolli d’intesa o accordi per conseguire specifici obiettivi di rafforzamento delle condizioni di sicurezza delle città e del territorio extraurbano». In attuazione di tale norma è stato stipulato tra il Ministero dell’interno e la Regione Friuli-Venezia Giulia, il 27 marzo 2007, il Protocollo d’intesa in materia di politiche integrate di sicurezza urbana, il quale prevede, fra l’altro, la «promozione, da parte della Regione, di politiche e di interventi sul piano della prevenzione sociale, situazionale e comunitaria, anche attraverso intese locali in materia di sicurezza urbana in raccordo con le politiche di sicurezza adottate dalle competenti autorità statali, tenuto conto della specificità del territorio e dell’andamento dei fenomeni criminali», sempre però nel rispetto delle proprie competenze ed in eventuale attuazione di indicazioni del legislatore statale. Con la modifica del Titolo V è stata riservata allo Stato, dall’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., la competenza in tema di ordine pubblico e pubblica sicurezza; ed alla competenza regionale residuale - e non più concorrente – è stata attribuita la materia della polizia amministrativa locale. Quanto alla necessità di una collaborazione fra forze di polizia municipale e forze di polizia di Stato, l’art. 118, terzo comma, Cost., ha provveduto espressamente a demandare alla legge statale il compito di disciplinare eventuali forme di coordinamento nella materia dell’ordine pubblico e della sicurezza. Sul tema, poi, questa Corte si è già pronunciata, affermando che le «auspicabili forme di collaborazione tra apparati statali, regionali e degli enti locali volti a migliorare le condizioni di sicurezza dei cittadini e del territorio, sulla falsariga di quanto ad esempio prevede il d.P.C.M. 12 settembre 2000 […] non possono essere disciplinate unilateralmente e autoritativamente dalle regioni, nemmeno nell’esercizio della loro potestà legislativa» (sentenza n. 134 del 2004; sentenze n. 10 del 2008, n. 322 del 2006, n. 429 del 2004). Nella specie, la norma regionale censurata dispone, pur in assenza di indicazioni del legislatore statale, che «nell’esercizio delle funzioni di pubblica sicurezza previste dalla normativa statale, la polizia locale assume il presidio del territorio tra i suoi compiti primari, al fine di garantire, in concorso con le forze di polizia dello Stato, la sicurezza urbana degli ambiti territoriali di riferimento», disciplinando non solo modalità di esercizio delle funzioni di pubblica sicurezza da parte della polizia locale, ma anche le forme della collaborazione con le forze della polizia dello Stato, in evidente violazione della competenza esclusiva statale in tema di sicurezza pubblica. 5.– Il Presidente del Consiglio dei ministri deduce, inoltre, l’illegittimità costituzionale dell’articolo 10 della citata legge della Regione Friuli-Venezia Giulia n. 9 del 2009 per violazione dell’art. 114 della Costituzione. La norma censurata invaderebbe la sfera di competenza dei Comuni, enti con propri statuti, poteri e funzioni, equiordinati alle Regioni, nella parte in cui fissa i principi organizzativi per l’esercizio delle funzioni di polizia locale, e prevede, al comma 1, che i Comuni e le Province istituiscano i corpi di polizia locale e ne regolamentino l’organizzazione ed il funzionamento, disciplinando, poi – nei successivi commi 4, 5, 6, 7 e 8 –minuziosamente il contingente numerico degli addetti al servizio, il tipo di organizzazione del Corpo di polizia municipale e lo stato giuridico del personale e il relativo trattamento economico. 5.1.– La questione non è fondata. L’art. 114 della Costituzione stabilisce che anche i Comuni – come le Province, le Città metropolitane e le Regioni – sono enti autonomi con propri statuti, poteri e funzioni, secondo i principi stabiliti dalla Costituzione, ma non attribuisce alcuna competenza statutaria o regolamentare ai predetti Comuni. Deve, pertanto, escludersi la denunciata violazione del predetto parametro costituzionale. 6.– Il ricorrente impugna, poi, l’art. 15, comma 1, della legge regionale in esame, nella parte in cui prevede che «Gli agenti della polizia locale sono agenti di polizia giudiziaria. Gli ispettori e i commissari della polizia locale sono ufficiali di polizia giudiziaria. Il comandante del Corpo di polizia locale dei comuni capoluogo di provincia non riveste la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria». Considerato che la polizia giudiziaria, a norma degli articoli 55 e 57 del codice di procedura penale, opera di propria iniziativa e per disposizione o delega dell’Autorità giudiziaria, ai fini dell’applicazione della legge penale, la norma regionale censurata sarebbe in contrasto con la competenza esclusiva dello Stato in materia di giurisdizione penale. 6.1.– La questione è fondata. Questa Corte ha già avuto occasione di affermare che «quanto alla polizia giudiziaria che, a norma dell’art. 55 del codice di procedura penale, opera, di propria iniziativa e per disposizione o delega dell’Autorità giudiziaria, ai fini della applicazione della legge penale, l’esclusione della competenza regionale» in materia di attribuzione di funzioni di polizia giudiziaria «risulta dalla competenza esclusiva dello Stato in materia di giurisdizione penale disposta dalla lettera l) del secondo comma dell’art. 117 della Costituzione» (sentenza n. 313 del 2003). La norma regionale censurata è, pertanto, costituzionalmente illegittima, in quanto, provvedendo ad attribuire agli addetti alla polizia locale la qualifica di agenti ed ufficiali di polizia giudiziaria, invade la sfera di competenza esclusiva statale in materia di giurisdizione penale. Nessun rilievo assume, al riguardo, l’esistenza di norme statali (ed in particolare dell’art. 5 della legge n. 65 del 1986) che già riconoscono la qualifica di ufficiali e agenti di polizia giudiziaria al personale della polizia locale, posto che «il problema qui in discussione non è di stabilire chi, attualmente, sia riconosciuto come ufficiale o agente di polizia giudiziaria, ma di stabilire chi abbia la competenza a operare il riconoscimento» (sent. n. 313 del 2003), competenza «riservata a leggi e regolamenti che debbono essere, in quanto attinenti alla sicurezza pubblica, esclusivamente di fonte statale» (sent. n. 185 del 1999). 7.– E’ impugnato, infine, l’art. 18 della legge regionale n. 9 del 2009, in quanto, stabilendo che il personale di polizia locale è dotato di armamento secondo quanto previsto dalla normativa statale (comma 1) e che gli addetti alla polizia locale espletano muniti di armi almeno i servizi di vigilanza, protezione degli immobili di proprietà dell’ente locale e dell’armeria del Corpo o Servizio, quelli notturni e di pronto intervento (comma 4), invaderebbe la competenza esclusiva dello Stato in materia di «armi, munizioni ed esplosivi». 7.1.– La questione relativamente all’art. 18, comma 1, non è fondata. La disposizione in esame, nel prevedere che «il personale di polizia locale è dotato di armamento secondo quanto previsto dalla normativa statale» non contiene, infatti, una disciplina dell’uso delle armi da parte dei membri della polizia locale, ma si limita a rinviare a tal proposito a quanto disposto dal legislatore statale, la cui competenza non è quindi violata. 7.2.– E’, invece, fondata, la questione di legittimità costituzionale relativamente all’art. 18, comma 4, della legge regionale in esame. Tale norma, stabilendo che, «in conformità a quanto previsto dalla normativa statale, gli addetti alla polizia locale espletano muniti di armi almeno i servizi di vigilanza, protezione degli immobili di proprietà dell’ente locale e dell’armeria del Corpo o Servizio, quelli notturni e di pronto intervento», diversamente dal citato comma 1, non si limita a rinviare alla disciplina statale, ma identifica una serie di servizi in relazione ai quali gli agenti di polizia locale devono essere muniti di armi. L’articolo 5, comma 5, della legge quadro sull’ordinamento della polizia municipale (n. 65 del 1986), prevede che solo «gli addetti al servizio di polizia municipale ai quali è conferita la qualità di agente di pubblica sicurezza possono, previa deliberazione in tal senso del consiglio comunale, portare, senza licenza, le armi, di cui possono essere dotati in relazione al tipo di servizio nei termini e nelle modalità previsti dai rispettivi regolamenti», in linea con quanto stabilito, in via generale, «con apposito regolamento approvato con decreto del Ministro dell’Interno, sentita l’Associazione nazionale dei Comuni d’Italia»; dispone altresì che è «demandato al Prefetto il conferimento al suddetto personale, previa comunicazione al Sindaco, della qualità di agente di pubblica sicurezza». Emerge, con chiarezza, quindi, che la particolare tipologia di servizi ai quali gli agenti ed ufficiali di poli zia locale sono adibiti costituisce uno dei presupposti giustificativi dell’attribuzione, da parte della normativa statale, della possibilità per i medesimi di portare le armi. Pertanto, la norma regionale, enumerando esplicitamente ed autonomamente taluni servizi in relazione ai quali gli agenti di polizia locale devono portare le armi, interviene a disciplinare casi e modi di uso delle armi, invadendo la competenza statale esclusiva di cui all’art. 117, secondo comma, lettera d), della Costituzione. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale degli articoli 8, comma 6;15, comma 1; 18, comma 4, della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 29 aprile 2009, n. 9 (Disposizioni in materia di politiche di sicurezza e ordinamento della polizia locale); dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’articolo 2, comma 1, lettera h), e dell’art. 5, comma 1, della legge regionale n. 9 del 2009, promosse, in riferimento all’articolo 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 10 della legge regionale n. 9 del 2009, promossa, in riferimento all’art. 114 della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe; dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 18, comma 1, della legge regionale n. 9 del 2009, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera d), della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 aprile 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Giuseppe TESAURO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA SENTENZA N. 168 ANNO 2010 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 2, 4, 6, comma 3 della legge della Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 17 giugno 2009, n. 18 (Disposizioni urgenti in materia di aree boscate e di ampliamento di esercizi di somministrazione di alimenti e bevande e di strutture alberghiere e di realizzazione di centri benessere in alcune tipologie di strutture ricettive. Modificazioni alla legge regionale 6 aprile 1998, n. 11 – Normativa urbanistica e di pianificazione territoriale della Regione Valle d’Aosta) promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato l’8-11 settembre 2009, depositato in cancelleria il 14 settembre 2009 ed iscritto al n. 58 del registro ricorsi 2009. Visto l’atto di costituzione della Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste; udito nell’udienza pubblica del 13 aprile 2010 il Giudice relatore Ugo De Siervo; uditi l’avvocato dello Stato Maurizio Borgo per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Francesco Saverio Marini per la Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste. Ritenuto in fatto 1. – Con ricorso notificato l’11 settembre 2009 e depositato il successivo 14 settembre (iscritto al r.r. n. 58 del 2009), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha sollevato, in riferimento all’art. 117, commi secondo, lettera s), e terzo, della Costituzione, e all’art. 2 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per la Valle d’Aosta), questione di legittimità costituzionale degli articoli 2, 4 e 6, comma 3, della legge della Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 17 giugno 2009, n. 18 (Disposizioni urgenti in materia di aree boscate e di ampliamento di esercizi di somministrazione di alimenti e bevande e di strutture alberghiere e di realizzazione di centri benessere in alcune tipologie di strutture ricettive. Modificazioni alla legge regionale 6 aprile 1998, n. 11 – Normativa urbanistica e di pianificazione territoriale della Valle d’Aosta), pubblicata sul B.U.R. n. 28 del 14 luglio 2009. 2. – Il ricorrente prospetta, innanzitutto, due doglianze aventi per oggetto l’art. 4 in materia di esercizi di ristorazione e di strutture alberghiere. 2.1. – Per il ricorrente, l’art. 4, che introduce l’art. 90-bis nella legge della Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 6 aprile 1998, n. 11 (Normativa urbanistica e di pianificazione territoriale della Valle d’Aosta), nel disciplinare l’ampliamento degli esercizi di ristorazione e delle strutture alberghiere, nelle more dell’adeguamento dei Piani regolatori generali, contrasterebbe con la normativa statale in quanto non contempla una clausola di salvezza delle disposizioni dettate in materia di valutazione di impatto ambientale, con specifico riferimento ai casi in cui le strutture alberghiere superino i trecento posti letto. Così statuendo, l’impugnata disposizione esorbiterebbe dalle competenze legislative attribuite alla Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste dall’art. 2 dello Statuto speciale e violerebbe la competenza legislativa esclusiva dello Stato, in materia di tute la dell’ambiente e dell’ecosistema, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. In tale ipotesi – sostiene il ricorrente – il punto 8, lettera a), dell’allegato IV alla parte seconda del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152 (Norme in materia ambientale), impone la verifica della assoggettabilità alla V.I.A. regionale. 2.2. – A detta del ricorrente, gli stessi parametri costituzionali sarebbero violati dal medesimo art. 4 nella parte in cui non prevede l’esclusione degli interventi di ampliamento, sopra menzionati, in tutti i casi in cui le norme di attuazione dei piani di bacino o la normativa di salvaguardia non consentano la realizzazione dei predetti interventi. Ai sensi dell’art. 65, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 152 del 2006, le prescrizioni più restrittive, contenute negli atti di pianificazione di bacino, hanno carattere vincolante per le amministrazioni e gli enti pubblici e sono sovraordinate ai piani territoriali e ai programmi regionali. Al riguardo, la difesa erariale richiama la sentenza n. 226 del 2009, con la quale questa Corte ha statuito che il titolo di competenza esclusiva statale in materia di tutela dell’ambiente «riverbera i suoi effetti anche quando si tratta di regioni speciali o di province autonome, con l’ulteriore precisazione, però, che qui occorre tener conto degli statuti speciali di autonomia». In quella occasione – prosegue l’Avvocatura generale dello Stato – questa Corte aveva richiamato la sentenza n. 164 del 2009, pronunciata in un giudizio avente per oggetto una legge della Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste. In quest’ultima pronuncia è stato precisato che la compatibilità costituzionale delle norme regionali, dettate dalla predetta Regione, deve essere verificata alla stregua delle previsioni contenute nello Statuto speciale alla luce, in particolare, dell’art. 2 che impone alla Regione di esercitare la potestà legislativa, con riferimento alle materie quivi elencate, «in armonia con la Costituzione e con i principi dell’ordinamento, nonché delle norme fondamentali e di riforma economico-sociale». Ebbene, per il ricorrente l’impugnata disposizione, adottata nell’esercizio della potestà legislativa primaria nelle materie dell’urbanistica, dell’industria alberghiera e del turismo (ex art. 2, lettere g e q, dello Statuto speciale), si porrebbe in stridente contrasto con le invocate previsioni del d.lgs. n. 152 del 2006. La disciplina posta dal legislatore statale – sottolinea la difesa erariale – «scaturisce dall’esercizio di una competenza esclusiva dello Stato, quella in materia di “tutela dell’ambiente e dell’ecosistema”, e viene a funzionare come un limite alla disciplina che le regioni e le province autonome dettano in altre materie di loro competenza, per cui queste ultime non possono in alcun modo derogare o peggiorare il livello di tutela ambientale stabilito dallo Stato» (così le sentenze n. 62 del 2008 e n. 378 del 2007). Questo principio giurisprudenziale – osserva il ricorrente – risulta oggi codificato all’art. 3-quinques del d.lgs. n. 152 del 2006 ove si afferma, al comma 1, che «i principi desumibili dalle norme del decreto legislativo costituiscono le condizioni minime ed essenziali per assicurare la tutela dell’ambiente su tutto il territorio nazionale», prevedendosi, poi, al comma 2, che «le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano possono adottare forme di tutela giuridica dell’ambiente più restrittive». 3. – Il denunciato art. 2 della legge regionale n. 18 del 2009, con il quale è stato introdotto l’art. 32-bis della legge regionale n. 11 del 1998, prevede che i Comuni procederanno ad individuare gli ambiti territoriali sui quali potranno essere realizzati gli impianti di energia eolica sulla base degli indirizzi di cui alle linee-guida adottate dalla Giunta regionale con propria deliberazione. Per il ricorrente l’impugnata previsione legislativa regionale, non disciplinando il contenuto di tali linee-guida, ometterebbe di coordinare le stesse con le linee-guida nazionali di cui all’art. 12, comma 10, del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità), a mente del quale queste ultime sono approvate «in Conferenza unificata su proposta del Ministro delle attività produttive di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del Ministro per i beni e le attività produttive». In virtù della evocata disposizione legislativa statale – sostiene il ricorrente – le Regioni possono procedere all’individuazione di specifici siti ed aree non idonee sulla base dei criteri stabiliti dalle lineeguida nazionali, il cui procedimento di approvazione si trova in avanzata fase istruttoria. Le Regioni sarebbero, quindi, prive di un autonomo potere di individuazione dei criteri generali o delle aree e siti non idonei, del tutto svincolato dalla determinazione assunta, in questo ambito, a livello nazionale. Rileva il ricorrente che l’adìta Corte, nella sentenza n. 166 del 2009, ha chiarito che l’evocata disposizione di cui all’art. 12, comma 10, del d.lgs. n. 387 del 2003, non consente alle Regioni, proprio in considerazione del preminente interesse di tutela ambientale, di provvedere autonomamente alla individuazione dei criteri per il corretto inserimento nel paesaggio degli impianti alimentati da fonti di energia rinnovabili. 4. – L’impugnato art. 6, comma 3, prevede la sospensione dei procedimenti di autorizzazione per gli impianti di energia eolica, in corso alla data di entrata in vigore della legge regionale in parola, sino all’individuazione, da parte dei Comuni, degli ambiti territoriali nei quali potranno essere realizzati i predetti impianti, sulla base di quanto sarà previsto dalle lineeguida di cui all’art. 32-bis della legge regionale n. 11 del 1998, introdotto dall’art. 2 della stessa legge regionale n. 18 del 2009. Per il ricorrente, le disposizioni statutarie di cui agli artt. 2 e 3 non riconoscono alla Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste alcuna competenza legislativa in materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionale di energia. Ne consegue che, ai sensi della clausola di equiparazione di cui all’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, deve ritenersi che anche la suddetta Regione goda, in materia di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale di energia», di competenza legislativa di tipo concorrente. Ciò premesso, il contestato art. 6, comma 3, violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., risultando in contrasto con il principio fondamentale, fissato dall’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003, il quale stabilisce il termine massimo per il rilascio dell’autorizzazione alla costruzione ed all’esercizio degli impianti alimentati da fonti rinnovabili. Ricorda il ricorrente che a norma dell’invocato art. 12 la suddetta autorizzazione è rilasciata a seguito di un procedimento unico al quale partecipano tutte le amministrazioni interessate, svolto nel rispetto dei principi di semplificazione e con le modalità disciplinate dalla legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi). È previsto, inoltre, che «il termine massimo per la conclusione del procedimento di autorizzazione non può comunque essere superiore a centottanta giorni». Come statuito da questa Corte nella sentenza n. 364 del 2006, la fissazione di tale termine deve qualificarsi quale principio fondamentale in materia di produzione, trasporto e distribuzione nazionale di energia, in quanto la disposizione risulta ispirata alle regole di semplificazione amministrativa e celerità garantendo, in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, la conclusione, entro un termine definito, del procedimento di autorizzazione. Al contrario, l’impugnata disposizione non fissa alcun termine massimo di sospensione del procedimento, determinando così una sospensione sine die del procedimento di autorizzazione medesimo. 5. – Con atto depositato il 30 settembre 2009, la Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste si è costituita nel presente giudizio di legittimità costituzionale e, con riserva di ulteriori deduzioni, ha chiesto a questa Corte di dichiarare le suesposte questioni inammissibili e, comunque, non fondate. 6. – Con memoria depositata il 2 marzo 2010, il ricorrente ha eccepito «l’irritualità, per non dire illegittimità, delle modalità di costituzione della Regione Valle d’Aosta», non avendo la relativa difesa addotto alcuna argomentazione in merito alle doglianze prospettate nel ricorso. Questa tecnica difensiva – ricorda l’Avvocatura dello Stato – ha ricevuto, in passato l’avallo di questa Corte, in relazione a quanto disposto dall’art. 23 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, nel testo anteriore alle modifiche apportate con la delibera del 7 ottobre 2008 (cfr. sentenze n. 324 e n. 308 del 2003). Tuttavia – prosegue la difesa erariale – questa Corte, con la sentenza n. 40 del 2010, ha ritenuto «impregiudicata l’interpretazione, con riguardo all’ipotesi verificatasi in giudizio, della più analitica lettera del vigente art. 19, comma 3, per il quale la parte convenuta si costituisce con memoria “contenente le conclusioni e l’illustrazione delle stesse”». 7. – Con memoria depositata il 23 marzo 2010, la Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste ha sviluppato argomentazioni volte a dimostrare l’infondatezza delle impugnazioni aventi per oggetto gli artt. 2 e 6, comma 3, della legge regionale n. 18 del 2009. 7.1. – Per quanto concerne la doglianza relativa all’art. 2, in primo luogo la difesa regionale contesta l’inquadramento materiale ipotizzato dal ricorrente, trattandosi al contrario di previsione riconducibile alla materia, di competenza primaria, della «urbanistica e piani regolatori per zone di particolare importanza turistica» di cui all’art. 2, lettera g), dello statuto speciale. Il legislatore regionale, invero, avrebbe inteso dettare norme di pianificazione territoriale, con particolare riferimento all’adeguamento dei piani regolatori ad opera dei comuni. Ben potrebbe, dunque, lo stesso legislatore assegnare ai comuni il compito di individuare, in sede di adeguamento dei predetti piani, i siti di interesse energetico sulla base delle sole linee guida regionali. Ove, invece, questa Corte dovesse ascrivere il contestato intervento normativo alla materia concorrente della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale di energia», secondo la resistente l’evocato principio fondamentale di cui all’art. 12, comma 10, del d.lgs. n. 387 del 2003 sarebbe del tutto privo di efficacia nel caso di specie giacché, ad oggi, non risultano essere state ancora approvate le linee guida nazionali. Quale ultima possibile interpretazione del denunciato intervento regionale, secondo la difesa della resistente le linee guida regionali «potrebbero comunque essere intese, secundum constitutionem, a carattere suppletivo, nel senso che avrebbero natura recessiva rispetto a quelle nazionali eventualmente approvate». 7.2. – In merito alla impugnazione dell’art. 6, comma 3, analogamente a quanto sviluppato in precedenza, la difesa regionale esclude l’operatività del principio fondamentale enunciato dall’art. 12 del d.lgs. n. 387 del 2003, giacché la contestata previsione legislativa regionale sarebbe anch’essa riconducibile alla materia, di competenza primaria, della «urbanistica e piani regolatori per zone di particolare importanza turistica». Così inquadrata, l’impugnata disposizione potrebbe legittimamente derogare al principio sancito a livello statale. Considerato in diritto 1. – Il Presidente del Consiglio dei ministri dubita della legittimità costituzionale degli artt. 2, 4 e 6, comma 3, della legge della Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 17 giugno 2009, n. 18 (Disposizioni urgenti in materia di aree boscate e di ampliamento di esercizi di somministrazione di alimenti e bevande e di strutture alberghiere e di realizzazione di centri benessere in alcune tipologie di strutture ricettive. Modificazioni alla legge regionale 6 aprile 1998, n. 11 – Normativa urbanistica e di pianificazione territoriale della Valle d’Aosta). 1.1. – A detta del ricorrente, l’art. 4, nel disciplinare l’ampliamento degli esercizi di ristorazione e delle strutture alberghiere, nelle more dell’adeguamento dei Piani regolatori generali, violerebbe gli artt. 117, secondo comma, lettera s), Cost. e 2 dello Statuto speciale per la Valle d’Aosta, in quanto, non contemplando una clausola di salvezza delle disposizioni dettate in materia di valutazione di impatto ambientale, con specifico riferimento ai casi in cui le strutture alberghiere superino i trecento posti letto, si porrebbe in contrasto con il punto 8, lettera a), dell’allegato IV alla parte seconda del d.lgs. n. 152 del 2006, che impone la verifica della assoggettabilità alla V.I.A. regionale. Lo stesso art. 4 è, inoltre, denunciato nella parte in cui non prevede l’esclusione degli interventi di ampliamento, sopra menzionati, in tutti i casi in cui le norme di attuazione dei piani di bacino o la normativa di salvaguardia non consentano la realizzazione dei predetti interventi, per asserito contrasto con gli artt. 117, secondo comma, lettera s), Cost. e 2 dello Statuto speciale per la Valle d’Aosta, giacché, ai sensi dell’art. 65, commi 4 e 5, del d.lgs. n. 152 del 2006, le prescrizioni più restrittive, contenute negli atti di pianificazione di bacino, hanno carattere vincolante per le amministrazioni e gli enti pubblici e sono sovraordinate rispetto ai piani territoriali e ai programmi regionali. 1.2. – Il ricorrente lamenta l’incostituzionalità dell’art. 2, il quale prevede che i comuni procederanno ad individuare gli ambiti territoriali sui quali potranno essere realizzati gli impianti di energia eolica sulla base degli indirizzi di cui alle lineeguida adottate dalla Giunta regionale con propria deliberazione, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost. (applicabile ai sensi dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001). L’impugnata disposizione risulterebbe incompatibile con il principio fondamentale di cui all’art. 12, comma 10, del d.lgs. n. 387 del 2003, nella materia concorrente della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale di energia», a mente del quale le lineeguida nazionali sono approvate «in Conferenza unificata su proposta del Ministro delle attività produttive di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del Ministro per i beni e le attività produttive». 1.3. – Infine, l’art. 6, comma 3, che prevede la sospensione dei procedimenti di autorizzazione per gli impianti di energia eolica, in corso alla data di entrata in vigore della legge regionale in parola, sino all’individuazione, da parte dei comuni, degli ambiti territoriali nei quali potranno essere realizzati i predetti impianti, sulla base di quanto sarà previsto dalle lineeguida di cui all’art. 32-bis della legge regionale n. 11 del 1998, introdotto dall’art. 2 della stessa legge regionale n. 18 del 2009, è impugnato in relazione all’art. 117, terzo comma, Cost. (applicabile ai sensi dell’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001), in quanto in contrasto con il principio fondamentale, fissato dall’art. 12, comma 4, del d.lgs. n. 387 del 2003, nella materia concorrente della «produzione, trasporto e distribuzione nazionale di energia», il quale stabilisce il termine massimo per il rilascio d ell’autorizzazione alla costruzione ed all’esercizio degli impianti alimentati da fonti rinnovabili. 2. – L’Avvocatura generale dello Stato ha eccepito «l’irritualità, per non dire illegittimità, delle modalità di costituzione della Regione Valle d’Aosta», non avendo la relativa difesa addotto alcuna argomentazione in ordine alle doglianze prospettate nel ricorso, malgrado che l’art. 19, comma 3, delle nuove Norme integrative preveda che l’atto di costituzione della parte resistente rechi «le conclusioni e l’illustrazione delle stesse». Ciò mentre la disposizione vigente prima della modifica del 2008 – l’art. 23, comma 3, delle Norme integrative – dettava una previsione più lata, contemplando la costituzione in giudizio attraverso la presentazione di «deduzioni». Lo scarto lessicale tra le due norme integrative non è tale da avvalorare l’esito interpretativo cui accede il ricorrente. L’instaurazione del contraddittorio nel giudizio principale di legittimità costituzionale è scandita da termini perentori, tesi a soddisfare esigenze di certezza nella dinamica processuale. L’inosservanza del termine per il deposito del ricorso ne determina l’inammissibilità (da ultimo ordinanze n. 218 del 2006, n. 20 del 2005 e n. 48 del 2004) e inficia, parimenti, la validità della costituzione in giudizio della parte convenuta (tra le altre, v. le sentenze n. 331 e n. 313 del 2003, n. 477 del 2000, nonché l’ordinanza n. 373 del 2001). La ratio sottesa all’art. 19, comma 3, delle nuove Norme integrative non è, invece, quella di subordinare l’ammissibilità o validità della costituzione in giudizio all’adempimento ivi previsto. La corretta instaurazione del contraddittorio, in nome di un principio generale di diritto processuale, è subordinata al rispetto dei previsti termini perentori, mentre la disposizione secondo cui l’atto di costituzione della parte resistente deve contenere anche l’illustrazione delle conclusioni mira a sollecitare una adeguata prospettazione delle rispettive posizioni sin dall’ingresso delle parti nel giudizio, ai fini di un arricchimento della dialettica processuale. Peraltro, il thema decidendum è circoscritto dal ricorso, quale atto introduttivo del giudizio. Le argomentazioni sviluppate nei successivi atti, a cominciare dall’atto di costituzione della parte convenuta, sono dirette a fornire elementi idonei a influenzare, sotto forma di fattori di conoscenza e di deduzioni logiche, il convincimento dell’organo giudicante intorno alle specifiche questioni di costituzionalità. Del resto, la mancata costituzione in giudizio della parte resistente o l’allegazione di rilievi insufficienti non conducono necessariamente all’accoglimento della questione di costituzionalità. È nell’interesse del resistente far valere le proprie ragioni in giudizio, assolvendo all’onere di prospettare argomenti difensivi. È, dunque, nella prospettiva di stimolare, sin da subito, l’apporto argomentativo delle parti che le nuove norme integrative, all’art. 19, comma 3, reclamano, senza conseguenze sanzionatorie, l’illustrazione delle conclusioni formulate nell’atto di costituzione della parte convenuta. Per queste ragioni, l’eccezione della difesa dello Stato non può essere accolta. 3. – Passando ad esaminare il merito delle questioni sollevate, le censure aventi ad oggetto l’art. 4 della legge regionale n. 18 del 2009 non sono fondate. 3.1. – Tale disposizione introduce nella legge regionale n. 11 del 1998 l’art. 90-bis il quale consente, nelle more dell’adeguamento dei P.R.G. alle previsioni di cui agli artt. 13 e 15 della medesima legge del 1998 ed entro certi limiti, l’ampliamento volumetrico – tra l’altro – degli alberghi esistenti «per soddisfare esigenze connesse al miglioramento e al potenziamento dei servizi offerti, all’adeguamento delle condizioni igienico-sanitarie e funzionali all'efficienza energetica, anche con aumento della capacità ricettiva». L’Avvocatura generale dello Stato lamenta la mancata previsione del rispetto delle disposizioni in tema di valutazione di impatto ambientale nel caso in cui l’ampliamento delle strutture alberghiere superi i 300 posti letto, come invece previsto dal punto 8, lettera a), dell’allegato IV alla parte II del d.lgs. n. 152 del 2006. Occorre considerare che il decreto ora citato all’art. 7 stabilisce che sono sottoposti a V.I.A in sede statale i progetti indicati nell’allegato II (comma 3), mentre sono assoggettati a V.I.A secondo le disposizioni delle leggi regionali i progetti di cui agli allegati III e IV (comma 4). Tra tali ultimi progetti rientrano, appunto, quelli richiamati dalla difesa dello Stato. La Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste con la legge regionale 26 maggio 2009, n. 12 (Disposizioni per l’adempimento degli obblighi della Regione autonoma Valle d’Aosta derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Attuazione delle direttive 2001/42/CE, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente, e 85/337/CEE, concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati. Disposizioni per l’attuazione della direttiva 2006/123/CE, relativa ai servizi nel mercato interno e modificazioni di leggi regionali in adeguamento ad altri obblighi comunitari. Legge comunitaria 2009) ha regolato la valutazione di impatto ambientale e la procedura di verifica di assoggettabilità a tale valutazione di determinati interventi. Essa, in particolare, contiene una disciplina che, per il profilo che qui interessa, risulta più restrittiva rispetto a quella statale di cui al d.lgs. n. 152 del 2006. Infatti, l’art. 17 sottopone alla procedura di verifica della assoggettabilità a V.I.A i progetti e «le modifiche sostanziali» dei progetti relativi ad «alberghi e residenze turistico-alberghiere con capacità recettiva oltre 50 posti letto» (allegato B, punto 8, lettera b), e dunque a strutture alberghiere di dimensioni più ridotte rispetto a quelle contemplate nel codice dell’ambiente. Ciò posto, occorre considerare che la disposizione impugnata regola soltanto i profili urbanistici degli interventi di ampliamento e non contiene alcuna clausola di esclusione della applicabilità della disciplina, né statale né regionale, relativa alla valutazione di impatto ambientale. D’altra parte, tale normativa ha portata generale di tal che essa trova applicazione per i casi dalla medesima previsti senza necessità di uno specifico richiamo. Conseguentemente, la censura deve essere rigettata. 3.2. – Il ricorrente ha impugnato l’art. 4 della legge regionale n. 18 del 2009 anche nella parte in cui non prevede l’esclusione degli interventi di ampliamento, sopra menzionati, in tutti i casi in cui le norme di attuazione dei piani di bacino o la normativa di salvaguardia non consentano la realizzazione dei predetti interventi. Il piano di bacino è previsto e disciplinato dall’art. 65 del d.lgs. n. 152 del 2006, il quale lo definisce come «piano territoriale di settore» e «strumento conoscitivo, normativo e tecnico-operativo mediante il quale sono pianificate e programmate le azioni e le norme d'uso finalizzate alla conservazione, alla difesa e alla valorizzazione del suolo e alla corretta utilizzazione della acque, sulla base delle caratteristiche fisiche ed ambientali del territorio interessato». Detto piano, secondo quanto affermato da questa Corte, «costituisce il fondamentale strumento di pianificazione in tema di difesa del suolo, lotta alla desertificazione e tutela delle acque, onde esso appartiene alla materia della tutela dell'ambiente» (sentenza n. 232 del 2009). L’art. 4 impugnato non prevede che gli ampliamenti disciplinati possano avvenire in deroga o comunque senza tener conto delle previsioni dei piani di bacino. D’altra parte, tali piani, per espressa previsione proprio dell’art. 65, comma 4, del d.lgs. n. 152 del 2006, sono immediatamente vincolanti anche per i soggetti privati, ove siano dichiarati tali dal piano di bacino medesimo. Inoltre, il comma 7 del citato articolo, stabilisce che nelle more dell’approvazione del piano, le Autorità di bacino adottano misure di salvaguardia anch’esse immediatamente vincolanti. Stante il carattere immediatamente precettivo di tali strumenti di pianificazione, ai fini del loro rispetto – e nonché di quello dell’art. 65 – non è necessario che per ciascun intervento sia espressamente prevista la loro osservanza. Pertanto, nel caso in esame, il mancato richiamo al rispetto del piano di bacino non significa che la disposizione regionale consenta di disattendere detto piano. Anzi, dall’art. 4 impugnato emerge la chiara volontà di salvaguardia del suolo, dal momento che, proprio la medesima disposizione stabilisce che gli interventi di ampliamento da esso previsti sono realizzabili nel rispetto delle disposizioni del Titolo V, parte II, della legge regionale n. 11 del 1998, il quale detta, appunto, norme a tutela del suolo circoscrivendo analiticamente gli interventi edilizi ammissibili in aree boschive, zone umide e laghi, terreni sedi di frane, a rischio di inondazioni, di valanghe o slavine (cfr. artt. 34 e ss. della legge regionale n. 11 del 1998). Conseguentemente, anche tale censura deve essere rigettata. 4. – La questione di legittimità costituzionale dell’art. 2 della legge regionale n. 18 del 2009 è fondata. 4.1. – In via preliminare, questa Corte ribadisce, innanzitutto, che la disciplina degli insediamenti di impianti di energia eolica è attribuita alla potestà legislativa concorrente in materia di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia» di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. (cfr. le sentenze n. 124 e n. 119 del 2010, n. 282 del 2009 e n. 342 del 2008). Pur non trascurando la rilevanza che, in relazione a questi impianti, riveste la tutela dell’ambiente e del paesaggio (sentenza n. 166 del 2009), si rivela centrale nella disciplina impugnata il profilo afferente alla gestione delle fonti energetiche in vista di un efficiente approvvigionamento nei diversi ambiti territoriali (sentenza n. 282 del 2009). Questo inquadramento materiale vale anche per la Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste. Gli artt. 2 e 3 dello Statuto speciale non contemplano, infatti, l’ambito in oggetto. Questa lacuna va, tuttavia, colmata applicando l’art. 10 della legge costituzionale n. 3 del 2001, in forza del quale anche la Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste è titolare di potestà legislativa concorrente, ai sensi dell’art. 117, terzo comma, Cost. nella materia della produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia (analogamente si vedano le sentenze n. 1 del 2008 e n. 383 del 2005). Pertanto, la Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, nel disciplinare gli impianti in parola, essendo titolare della potestà legislativa concorrente, è tenuta al rispetto dei princìpi fondamentali dettati dal legislatore statale. 4.2. – A norma del denunciato art. 2 i Comuni procederanno ad individuare gli ambiti territoriali di insediamento degli impianti di energia eolica sulla base degli indirizzi di cui alle lineeguida adottate con deliberazione della Giunta regionale. Dal canto suo, l’art. 12, comma 10, del d.lgs. n. 387 del 2003, prevede che le Regioni possano procedere all’individuazione di specifici siti ed aree non idonee sulla base dei criteri stabiliti dalle lineeguida nazionali. Queste ultime sono adottate «in Conferenza unificata, su proposta del Ministro delle attività produttive, di concerto con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del Ministro per i beni e le attività culturali». Ad oggi le lineeguida nazionali non sono state ancora approvate. Con la sentenza n. 166 del 2009, questa Corte ha affermato che l’art. 12, comma 10, del d.lgs. n. 387 del 2003 non consente alle Regioni «di provvedere autonomamente alla individuazione di criteri per il corretto inserimento nel paesaggio degli impianti alimentati da fonti di energia alternativa» (analogamente: v. sentenza n. 282 del 2009). Ebbene, la denunciata disposizione disattende l’assetto delle rispettive attribuzioni definite, in modo cogente, dal legislatore statale. La mancanza di lineeguida nazionali, assunte secondo modalità informate al principio di leale collaborazione, preclude alle Regioni di procedere ad una autonoma individuazione dei criteri generali o delle aree e siti non idonei alla localizzazione degli impianti in oggetto (cfr. sentenze n. 124 e n. 119 del 2010, n. 282 del 2009). Pertanto, l’art. 2 della legge regionale n. 18 del 2009 è incostituzionale per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto in contrasto con il principio fondamentale fissato dall’art. 12, comma 10, del d.lgs. n. 387 del 2003. 5. – La questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, della legge regionale n. 18 del 2009 è fondata. La denunciata disposizione prevede la sospensione dei procedimenti di autorizzazione per gli impianti di energia eolica, in corso alla data di entrata in vigore della legge regionale in oggetto, sino all’individuazione, da parte dei Comuni, degli ambiti territoriali nei quali potranno essere insediati i predetti impianti, sulla base di quanto sarà previsto dalle lineeguida regionali. Dal canto suo, l’art. 12, comma 4, del d.lgs. n. 387 del 2003, dispone che «il termine massimo per la conclusione del procedimento di autorizzazione non può comunque essere superiore a centottanta giorni». Questa Corte ha più volte statuito che l’evocato art. 12, comma 4, reca un principio fondamentale vincolante per il legislatore regionale, ispirato «alle regole della semplificazione amministrativa e della celerità» e volto a garantire, «in modo uniforme sull’intero territorio nazionale, la conclusione entro un termine definito del procedimento autorizzativo» (sentenza n. 364 del 2006; analogamente le sentenze n. 124 del 2010 e n. 282 del 2009). Al contrario, l’impugnata previsione legislativa regionale non fissa alcun termine massimo di sospensione, giacché, nel testo attualmente vigente, rinvia ad un momento – l’individuazione, da parte dei Comuni, degli ambiti territoriali di insediamento dei predetti impianti – non puntualmente definito. L’art. 6, comma 3, della legge regionale n. 18 del 2009 è, dunque, costituzionalmente illegittimo per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto in contrasto con il principio fondamentale fissato dall’art. 12, comma 4, del d.lgs. n. 387 del 2003. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 2 della legge della Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 17 giugno 2009, n. 18 (Disposizioni urgenti in materia di aree boscate e di ampliamento di esercizi di somministrazione di alimenti e bevande e di strutture alberghiere e di realizzazione di centri benessere in alcune tipologie di strutture ricettive. Modificazioni alla legge regionale 6 aprile 1998, n. 11 – Normativa urbanistica e di pianificazione territoriale della Valle d’Aosta); dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 3, della legge della Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste n. 18 del 2009; dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge della Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste n. 18 del 2009 proposte, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione e all’art. 2 della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 4 (Statuto speciale per Valle d’Aosta), dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 aprile 2010. F.to: Francesco AMIRANTE, Presidente Ugo DE SIERVO, Redattore Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2010. Il Direttore della Cancelleria F.to: DI PAOLA |