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Deposito del 23/07/2010 (dalla 279 alla 283)

 
S.279/2010 del 07/07/2010
Camera di Consiglio del 26/05/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Art. 119, c. 2°, del regio decreto 16/03/1942, n. 267, nel testo anteriore alle modifiche apportate da decreti legislativi 09/01/2006, n. 5 e 12/09/2007, n. 169.

Oggetto: Fallimento e procedure concorsuali - Decreto di chiusura del fallimento - Reclamo - Termine di quindici giorni - Decorrenza dalla data di affissione dell'estratto del decreto alla porta esterna del tribunale - Mancata previsione, per i soggetti legittimati al reclamo agevolmente identificabili sulla base degli atti della procedura fallimentare, della decorrenza dalla data della comunicazione ad essi dell'estratto del decreto.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ord. 18/2010
S.280/2010 del 07/07/2010
Udienza Pubblica del 06/07/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore FINOCCHIARO


Norme impugnate: Art. 180, c. 4°, del codice della strada (d.lgs. 30.4.1992, n. 285), come integrato dall'art. 3, c. 17°, del decreto legge 27/06/2003, n. 151, convertito con modificazioni in legge 01/08/2003, n. 214.

Oggetto: Circolazione stradale - Possesso dei documenti di circolazione e di guida - Obbligo del conducente di avere con sé, tra gli altri docum enti, la carta di circolazione - Previsione che la carta di circolazio ne possa essere sostituita, per i veicoli adibiti a servizio pubblico di trasporto di persone, da fotocopia autenticata e sottoscritta dal proprietario - Omessa estensione, in riferimento a tutti i veicoli delle Aziende pubbliche fornitrici di servizi essenziali come definiti dall'art. 1 della legge 12 giugno 1990, n. 146, della facoltà di tenere, a bordo dei detti veicoli, in luogo del previsto originale, fotocopia della carta di circolazione autenticata dal proprietario.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale
Atti decisi: ord. 96/2009
S.281/2010 del 07/07/2010
Udienza Pubblica del 06/07/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore CRISCUOLO


Norme impugn ate: Art. 1, c. 3° e 6°, del decreto legge 08/04/2008, n. 59, convertito con modificazioni in legge 06/06/2008, n. 101.

Oggetto: Procedimento civile - Giudizi civili concernenti gli atti e le procedure volti al recupero di aiuti di Stato in esecuzione di una decisione di recupero adottata dalla Commissione europea - Opposizione avverso cartella di pagamento tesa al recupero da parte dell'INPS di sgravi contributivi già goduti dall'opponente per contratti di formazione lavoro e ritenuti aiuti di Stato incompatibili con il mercato comune, ai sensi della decisione della Commissione europea n. 2000/128/CE dell'11 maggio 1999 - Obbligo del giudice, che abbia accolto l'istanza di sospensione dell'efficacia del titolo amministrativo o giudiziale di pagamento, di fissare la data dell'udienza di trattazione nel termine di trenta giorni e di decidere la causa nei successivi sessanta giorni, esclusi i casi in cui sia stato disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia - Previsione della pe rdita di efficacia del provvedimento di sospensione allo scadere del termine di novanta giorni dalla data di emanazione, salvo che il giudice, su istanza di parte, riesamini lo stesso e ne disponga la conferma, anche parziale, sulla base dei presupposti di legge, fissando un termine di efficacia non superiore a sessanta giorni, esclusi i casi in cui sia stato disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia;
Attribuzione al presidente di sezione del compito di vigilare, in ogni grado del procedimento, sul rispetto dei termini di legge e di riferire con relazione trimestrale, rispettivamente, al presidente del tribunale o della corte d'appello per le determinazioni di competenza.

Dispositivo: illegittimità costituzionale parziale - inammissibilità
Atti decisi: ord. 271/2009
S.282/2010 del 07/07/2010
Camera di Consiglio del 09/06/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore CRISCUOLO


Norme impugnate: Artt. 9, c. 2° (come modificato dall'art. 14 del decreto legge 27/07/2005, n. 144, convertito con modificazioni in legge 31/07/2005, n. 155), della legge 27/12/1956, n. 1423, in riferimento all'art. 5, c. 3°, prima parte, stessa legge.

Oggetto: Misure di prevenzione - Inosservanza degli obblighi e delle prescrizioni inerenti la sorveglianza speciale con l'obbligo o il divieto di soggiorno - Inosservanza delle prescrizioni " di vivere onestamente, di rispettare le leggi, di non dare ragione di sospetti " - Sanzione penale - Indeterminatezza della fattispecie incriminatrice
- Configurazione della fattispecie come delitto - Pena della reclusione da uno a cinque anni, con possibilit&agr ave; di arresto anche fuori dei casi di flagranza.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 314/2009
S.283/2010 del 07/07/2010
Udienza Pubblica del 22/06/2010, Presidente AMIRANTE, Redattore QUARANTA


Norme impugnate: Art. 2, c. 1°, lett. r), della legge della Regione autonoma Valle d'Aosta 07/08/2007, n. 20.

Oggetto: Elezioni - Norme della Regione Valle d'Aosta - Disciplina delle cause di ineleggibilità ed incompatibilità con la carica di consigliere regionale - Ineleggibilità del legale rappresentante e dei direttori di una struttura sanitaria o socio-sanitaria prevista che intrattenga rapporti contrattuali con l'USL regionale.

Dispositivo: non fondatezza
Atti decisi: ord. 321/2009

pronuncia successiva

SENTENZA N. 279

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 119, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, nel testo anteriore alle modifiche apportate dai decreti legislativi 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80) e 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nonché al d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’articolo 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80) promosso dalla Corte d’appello di Napoli nel procedimento vertente tra A.C. e A.G. ed altri con ordinanza del 30 aprile 2009, iscritta al n. 18 del registro ordinanze 2010 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 6, prima serie speciale, dell’anno 201 0.

Udito nella camera di consiglio del 26 maggio 2010 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro.

Ritenuto in fatto

Con ordinanza del 30 aprile 2009, la Corte d’appello di Napoli ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’articolo 119, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo anteriore alle modifiche apportate dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), e dal decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nonché al d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’articolo 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80), nella parte in cui prevede che il termine di quindici giorni per proporre reclamo avverso il decreto di chiusura del fallimento decorre, per i soggetti legittimati a tale impugnazione agevolmente identificabili sulla base degli atti della procedura fallimentare, dalla data dell’affissione di tale decreto alla porta esterna del tribunale, anziché dalla data della comunicazione dell’estratto del medesimo decreto che a tali soggetti deve essere inviata a norma del combinato disposto dello stesso art. 119, secondo comma, e dell’art. 17, primo comma, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (nel testo originario) e dell’art. 136 del codice di procedura civile, per violazione degli artt. 3 e 24 della Costituzione.

Il reclamo in questione risulta proposto da A.C. – titolare di un credito prededucibile liquidato dal giudice delegato, ma non integralmente soddisfatto, prima che la procedura fallimentare nei confronti della A.G. s.a.s. fosse chiusa ai sensi dell’art. 118, n. 2, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 e, dunque, certamente legittimata a proporre siffatta impugnazione – il 13 gennaio 2003, mediante il deposito nella cancelleria della Corte d’appello del relativo ricorso, allorché era già scaduto il termine di quindici giorni previsto dall’art. 119, secondo comma, della legge fallimentare, per la sua proposizione, termine che decorre dalla data dell’affissione per estratto alla porta esterna del tribunale del decreto di chiusura del fallimento. L’affissione, nella specie, risultava eseguita il 13 dicembre 2002: il reclamo andrebbe, pertanto, dichiarato inammissibile perché tardivo.

Il rimettente afferma di non ignorare che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 153 del 1980, ha già giudicato tale previsione normativa non in contrasto con l’art. 24, secondo comma, Cost., poiché giustificata: a) dalla difficoltà di identificare coloro che hanno interesse a proporre reclamo contro il decreto di chiusura del fallimento; b) dall’esigenza di assicurare un’unitaria trattazione e decisione di tutti i reclami eventualmente proposti; c) dalla possibilità per chi si ritenga pregiudicato dalla chiusura del fallimento disposta per insufficienza di attivo di chiederne la riapertura ai sensi dell’art. 121 della legge fallimentare.

Tuttavia, siffatti argomenti, secondo il giudice a quo, a maggior ragione se considerati alla stregua dell’art. 3 Cost., non appaiono convincenti e adeguati rispetto ad altre più recenti pronunce della medesima Corte costituzionale in ordine alle forme di propalazione degli atti – e, in particolare, di quelli aventi natura decisoria – previsti dalla legge fallimentare. Vengono citate le sentenze di questa Corte: n. 255 del 1974; nn. 151, 152 e 155 del 1980; n. 303 del 1985; nn. 55, 102 e 156 del 1986; n. 273 del 1987; n. 881 del 1988.

Il rimettente riferisce a questo punto di avere già sollevato questa stessa questione di costituzionalità e che tuttavia nelle more del relativo giudizio incidentale, l’art. 119 della legge fallimentare veniva modificato, prima, dal d.lgs. n. 5 del 2006, entrato in vigore il 16 luglio 2006, e, poi, dal d.lgs. n. 169 del 2007, entrato in vigore il 1° gennaio 2008, sicché questa Corte, con ordinanza n. 303 del 2008, dispose la restituzione degli atti alla Corte d’appello ai fini di una rivalutazione, sulla base dello ius superveniens, non solo della persistente rilevanza della questione, ma altresì della possibilità di un’interpretazione costituzionalmente orientata della norma censurata.

Riassunto il giudizio, il giudice rimettente ha osservato che la questione conserva intatta la sua rilevanza nel giudizio a quo.

Infatti, a suo avviso, secondo quanto può ricavarsi dagli artt. 150 e 153 d.lgs. n. 5 del 2006 e dall’art. 22 d.lgs. n. 169 del 2007, le modifiche apportate da tali decreti legislativi alla disciplina della procedura fallimentare contenuta nel r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nel suo testo originario, non sono applicabili alle procedure fallimentari aperte prima del 16 luglio 2006, come quella di specie, né, deve ritenersi, alle relative procedure incidentali, quali quella di chiusura del fallimento, regolata dagli artt. 118-120 della legge fallimentare.

Di conseguenza, deve ritenersi che, nella specie, vada ancora applicato l’art. 119, secondo comma, della legge fallimentare, nel testo anteriore alle modifiche apportatevi dai suindicati decreti legislativi, che faceva decorrere il termine per la proposizione del reclamo avverso il decreto di chiusura del fallimento dalla data dell’affissione di tale decreto per estratto alla porta esterna del tribunale per tutti i soggetti legittimati a tale impugnazione.

Né pare al rimettente che la questione incidentale già sollevata possa essere superata attraverso una lettura costituzionalmente orientata della norma impugnata, che fa chiaramente ed inequivocamente decorrere il termine per la proposizione del reclamo avverso il decreto di chiusura del fallimento dalla data dell’affissione di tale decreto per estratto alla porta esterna del tribunale per tutti i soggetti legittimati a tale impugnazione e, dunque, anche per quelli, come la reclamante, agevolmente identificabili sulla base degli atti della procedura fallimentare.

Ritiene pertanto il rimettente che la questione sia tuttora rilevante nel caso di specie, in cui il decreto di chiusura reclamato non risulta esser mai stato comunicato, a norma dell’art. 136 cod. proc. civ., alla reclamante, che ne ha preso visione per la prima volta il 7 gennaio 2003, ossia quando ormai era troppo tardi per proporre reclamo.

Considerato in diritto

1. – La Corte d’Appello di Napoli dubita della legittimità costituzionale dell’art. 119, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo anteriore alle modifiche apportate dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), e dal decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nonché al d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’articolo 1, commi 5, 5-bis e 6, della legge 14 maggio 2005, n. 80), nella parte in cui prevede che il termine di quindici giorni per proporre reclamo avverso il decreto di chiusura del fallimento decorre, per i soggetti legittimati a tale impugnazione, agevolmente identificabili sulla base degli atti della procedura fallimentare, dalla data dell’affissione alla porta esterna del tribunale, anziché dalla data della comunicazione dell’estratto del medesimo decreto, che a tali soggetti deve essere inviata a norma del combinato disposto degli artt. 119, secondo comma e 17, primo comma, dello stesso r.d. 16 marzo 1942, n. 267, e 136 del codice di procedura civile, in violazione degli artt. 3 e 24, secondo comma, della Costituzione, per la irragionevolezza della individuazione del dies a quo per la proposizione del reclamo dall’affissione dell’estratto del decreto anche con riguardo ai creditori agevolmente identificabili solo a causa della difficoltà, agli stessi non addebitabile, di identificare gli altri creditori, e per il vulnus al diritto di difesa dei primi.

2. – La questione è fondata.

2.1. – Questa Corte, nell’esaminare identico problema, ha dichiarato, a suo tempo, non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 119, secondo comma, della legge fallimentare, nella parte in cui fa decorrere il termine per la proposizione del reclamo dalla data di affissione del decreto di chiusura del fallimento (sentenza n. 153 del 1980), argomentando la legittimità della scelta del legislatore sulla base della difficoltà di identificare coloro che hanno interesse a proporre reclamo contro il decreto di chiusura del fallimento e sulla esigenza di riunione di più reclami in unica trattazione camerale.

Successivamente a tale decisione, però, la Corte ha avuto modo di pronunciarsi più volte – a proposito di disposizioni della legge fallimentare nella versione originaria – sulla possibilità che la legge faccia decorrere termini perentori, previsti per impugnare provvedimenti (asseritamente) lesivi di diritti soggettivi, da momenti (emanazione del provvedimento, affissione) diversi da quelli della notificazione o comunicazione dei provvedimenti stessi.

In proposito è stato osservato che «la scelta dell’affissione, quale forma di pubblicità idonea a far decorrere il termine per l’impugnazione di un atto, può essere giustificata solo dalla difficoltà di individuare coloro che possono avere interesse a proporre l’impugnazione stessa (sentenze n. 273 del 1987 e n. 153 del 1980), risultando priva di razionale giustificazione se riferita a soggetti preventivamente individuati dal legislatore (sentenze n. 251 del 2001, n. 151 del 1980, n. 255 del 1974). Ciò in quanto l’affissione determina una mera presunzione legale, peraltro insuperabile, di conoscenza dell’atto ed è quindi compatibile con il diritto di difesa del destinatario nei soli casi in cui l’individuazione di questi, ed il conseguente ricorso a mezzi di comunicazione diretta dell’atto stesso risultino impossibili o estremamente difficoltosi» (sentenza n. 224 del 2004, n. 154 del 2006 ).

Sulla base di questi principi la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale: a) dell’art. 98, primo comma, della legge fallimentare, nella parte in cui prevede che il termine per l’opposizione dei creditori esclusi o ammessi con riserva decorra dalla data del deposito dello stato passivo in cancelleria anziché dalla data di ricezione delle raccomandate con avviso di ricevimento, con le quali il curatore deve dare loro notizia dell’avvenuto deposito (sentenza n. 102 del 1986); b) dell’art. 190, secondo comma, della legge fallimentare, nella parte in cui fa decorrere il termine di decadenza di dieci giorni per il reclamo avverso il provvedimento del giudice delegato di cessazione degli effetti dell’amministrazione controllata dalla data del decreto anziché dalla sua rituale comunicazione all’interessato (sentenza n. 881 del 1988); c) dell’art. 209, secondo comma, della legge fallimentare, ne lla parte in cui prevede, per la liquidazione coatta amministrativa, che il termine di quindici giorni per proporre l’impugnazione dei crediti ammessi decorre dalla data del deposito in cancelleria, da parte del commissario liquidatore, dell’elenco dei crediti medesimi, anziché da quella di ricezione della lettera raccomandata con avviso di ricevimento, con la quale lo stesso commissario deve dare notizia dell’avvenuto deposito ai singoli interessati (sentenza n. 201 del 1993); d) dell’articolo 144, quarto comma, della legge fallimentare, nella parte in cui prevede che il termine per la proposizione del reclamo decorre dalla affissione della sentenza stessa anziché dalla sua comunicazione (sentenza n. 224 del 2004); e) dell’articolo 213, secondo comma, della stessa legge fallimentare, nella parte in cui fa decorrere, nei confronti dei creditori ammessi, il termine perentorio di venti giorni per proporre contestazioni avverso il piano di riparto, totale o parziale, dalla pubblicazione nella Gazzetta Uffi ciale della notizia dell’avvenuto deposito del medesimo in cancelleria, anziché dalla comunicazione dell’avvenuto deposito effettuata a mezzo di raccomandata con avviso di ricevimento ovvero con altre modalità previste dalla legge (sentenza n. 154 del 2006).

Alla luce dei principi enunciati dalla richiamata giurisprudenza è evidente che la norma denunciata nel testo anteriore alle modifiche apportate – non potendosi queste ultime, contenute nel d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’articolo 1, comma 5, della l. 14 maggio 2005, n. 80) e nel decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al r.d. 16 marzo 1942, n. 267, nonché al d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’articolo 1, commi 5, 5-bis della l. 14 maggio 2005, n. 80) applicarsi a procedure fallimentari chiuse nel 2003 (argomentando dagli artt. 150 e 153 d.lgs. n. 5 del 2006 e 22 d.lgs. n. 169 del 2007), come ha plausibilmente motivato il giudice a quo – nello stabilire c he il termine di quindici giorni per proporre reclamo avverso il decreto di chiusura del fallimento decorre, per i soggetti legittimati a questa impugnazione, dalla data dell’affissione di tale decreto alla porta esterna del tribunale, sacrifica gravemente ed ingiustificatamente il diritto dei creditori di avere conoscenza del decreto, per potere proporre reclamo avverso lo stesso. Gravemente, in quanto richiede un onere di diligenza inesigibile, attesa la necessità di accedere, almeno ogni quindici giorni, per tutta la durata della procedura, sovente tutt’altro che breve, per accertare la data del deposito, dal quale soltanto decorre il termine de quo; ingiustificatamente, perché l’indeterminatezza dei soggetti interessati può legittimare modalità di “informazione”, quale quella prevista dalla norma censurata; il che però non avviene nel caso come quello del titolare di un credito prededucibile liquidato dal giudice de legato, ma non integralmente soddisfatto, in cui tali soggetti siano n on solo individuabili, ma altresì individuati. In tale ipotesi, che ricorre nel caso di specie, l’onere di diligenza che la norma censurata impone ai creditori è incomparabilmente più gravoso e gravido di conseguenze pregiudizievoli di quello cui deve sottoporsi l’ufficio che sia tenuto a dare conoscenza del decreto di chiusura del fallimento ai creditori ben individuati (sentenza n. 154 del 2006).

L’art. 119, secondo comma, della legge fallimentare – nel suo testo originario – deve, pertanto, essere dichiarato costituzionalmente illegittimo, nella parte in cui fa decorrere, nei confronti dei soggetti interessati e già individuati sulla base degli atti processuali, il termine per il reclamo avverso il decreto motivato del tribunale di chiusura del fallimento dalla data di pubblicazione dello stesso nelle forme prescritte dall’art. 17 della stessa legge fallimentare, anziché dalla comunicazione dell’avvenuto deposito effettuata a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento ovvero a mezzo di altre modalità di comunicazione previste dalla legge (sentenza n. 154 del 2006).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 119, secondo comma, del r.d. 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), nel testo anteriore alle modifiche apportate dal decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5 (Riforma organica della disciplina delle procedure concorsuali a norma dell’art. 1, comma 5, della legge 14 maggio 2005, n. 80), e dal decreto legislativo 12 settembre 2007, n. 169 (Disposizioni integrative e correttive al r. d. 16 marzo 1942, n. 267, nonché al d.lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, in materia di disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa, ai sensi dell’articolo 1, commi 5, 5-bis della legge 14 maggio 2005, n. 80), nella parte in cui fa decorrere, nei confronti dei soggetti interessati e già indivi duati sulla base degli atti processuali, il termine per il reclamo avverso il decreto motivato del tribunale di chiusura del fallimento, dalla data di pubblicazione dello stesso nelle forme prescritte dall’art. 17 della stessa legge fallimentare, anziché dalla comunicazione dell’avvenuto deposito effettuata a mezzo lettera raccomandata con avviso di ricevimento ovvero a mezzo di altre modalità di comunicazione previste dalla legge.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2010.

Il Cancelliere

F.to: MILANA


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SENTENZA N. 280

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 180, comma 4, del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), come integrato dall’art. 3, comma 17, del decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni ad codice della strada), convertito, con modificazioni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 214, promosso dal Giudice di pace di Genova, nel procedimento vertente tra la AMIU s.p.a. - Azienda multiservizi e d’igiene urbana di Genova e il Prefetto di Genova, con ordinanza del 24 luglio 2008, iscritta al n. 96 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visto l’atto di costituzione della AMIU s.p.a. - Azienda multiservizi e d’igiene urbana di Genova;

udito nell’udienza pubblica del 6 luglio 2010 il Giudice relatore Alfio Finocchiaro;

udito l’avvocato Paolo Pugliese per l’AMIU s.p.a. - Azienda multiservizi.

Ritenuto in fatto

1. – Il Giudice di pace di Genova – nel corso del giudizio, promosso dal legale rappresentante dell’AMIU s.p.a. - Azienda multiservizi e d’igiene urbana di Genova, ai sensi dell’articolo 204-bis del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice della strada), e articoli 22 e 22-bis della legge 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al sistema penale), e successive modifiche, di opposizione ad un verbale di contestazione per la violazione dell’articolo 180, comma 7, del citato d.lgs. n. 285 del 1992, con il quale era stata irrogata alla stessa AMIU, una sanzione amministrativa pecuniaria, con l’obbligo di esibire, ai sensi del comma 8 dello stesso articolo, la carta di circolazione – ha sollevato, in riferimento agli articoli 3 e 41 della Costituzione (parametro, quest’ultimo, non evocato nel dispositivo della ordinanza di rimessione, ma considerato nella motivazione della stessa), questione di legi ttimità costituzionale dell’art. 180, comma 4, del citato d.lgs. n. 285 del 1992, come integrato dall’art. 3, comma 17, del decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni ad codice della strada), convertito, con modificazioni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 214, nella parte in cui non estende a tutti i veicoli delle aziende pubbliche fornitrici di servizi essenziali, come definiti dall’articolo 1 della legge 12 giugno 1990, n. 146 (Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge), la facoltà, prevista a favore dei mezzi di trasporto pubblico di persone, di tenere a bordo, in luogo dell’originale, una fotocopia della carta di circolazione, autenticata dal proprietario del veicolo.

Il rimettente fa presente che, all’atto dell’accertamento che ha dato luogo alla contestazione, alla guida del veicolo di proprietà dell’AMIU si trovava un dipendente della predetta società indicato come responsabile in solido della sanzione, il quale, a richiesta degli agenti accertatori, aveva esibito, oltre alla propria patente di guida, fotocopia della carta di circolazione autenticata dal responsabile del servizio aziendale, e che tuttavia gli agenti della Polizia stradale di Savona, non ritenendo idonea detta fotocopia, gli avevano contestato la violazione dell’art. 180, commi 1 e 7, del d.lgs. n. 285 del 1992. L’AMIU aveva poi provveduto, nei termini previsti, ad esibire l’originale della carta di circolazione.

La questione di legittimità costituzionale dell’art. 180, comma 4, del codice della strada era stata proposta nel ricorso avverso il verbale di contestazione dalla stessa AMIU, che aveva ravvisato un vulnus all’art. 3 Cost. nella parte in cui la norma citata consente, per i veicoli adibiti a servizio pubblico di trasporto di persone e per quelli adibiti a locazione senza conducente, di tenere a bordo, in sostituzione dell’originale, una fotocopia della carta di circolazione autenticata dal proprietario, senza estendere tale previsione a società come l’AMIU, aventi le stesse caratteristiche ma dedite al trasporto di cose, anziché di persone.

Nell’ordinanza di rimessione si rileva poi che la modifica introdotta al codice della strada dal citato d.l. n. 151 del 2003, oltre ad essere coerente con la legge relativa all’autocertificazione, non solo è opportuna e in linea con lo spirito della norma che l’ha adottata, ma rappresenta un raro esempio di equa concretezza legislativa. Peraltro – osserva il rimettente – se rientra nella autonoma valutazione del legislatore la diversa disciplina di situazioni giuridiche, di facoltà e diritti dei destinatari della norma, tale autonomia incontra un limite nella coerenza con i principi costituzionali. La norma in esame introduce una singolare disciplina che sembra al giudice a quo autorizzare un «trattamento di maggior favore» in merito alla tenuta della carta di circolazione per le sole aziende esercenti il servizio di trasporto pubblico di persone, escludendone quelle di trasporto/smaltimento di rifiuti solidi urbani, e comunque tutte quelle aziende che, aventi le stesse problematiche, esercitano la prestazione di servizi essenziali.

La richiesta estensione della facoltà di cui si tratta, prevista dall’art. 180, comma 4, non arrecherebbe alcun pregiudizio al legittimo e doveroso controllo da parte della p.a. della correttezza dei dati costituenti le caratteristiche dei veicoli. Tale esigenza ben potrebbe, infatti, essere soddisfatta dalla fotocopia autenticata dal responsabile del servizio o dal proprietario del veicolo, che in tal modo assumerebbe la responsabilità civile e penale del contenuto dell’omologo documento, che potrebbe essere controllato con l’obbligo di esibizione previsto dallo stesso art. 180, comma 8.

Tale sistema legislativo, di opportuno favore in ordine alla presenza o meno a bordo del veicolo della carta di circolazione, ad avviso del giudice a quo, nel rispetto del principio di eguaglianza di cui all’art. 3 Cost., andrebbe applicato a tutte le situazioni eguali, comprese quelle che si riferiscono ad un servizio essenziale, quale quello della raccolta dei rifiuti. Né alcun pregiudizio all’interesse collettivo e alla fede pubblica potrebbe derivare dall’estensione della facoltà di cui si tratta anche ai veicoli destinati alla raccolta dei rifiuti, ma, piuttosto, un vantaggio per la collettività.

Il vulnus sospettato riguarderebbe l’art. 3 Cost. nella sua duplice portata di principio di uguaglianza formale (primo comma) – preclusiva delle arbitrarie discriminazioni fra soggetti che si trovino in situazioni identiche o affini (come pure delle arbitrarie assimilazioni tra soggetti che si trovino in situazioni diverse) – e sostanziale (secondo comma).

Nel caso di specie non sarebbe ragionevole sottoporre ad una particolare disciplina le aziende di trasporto pubblico di persone e ignorare che le medesime esigenze, sopra evidenziate, si riscontrano, senza eccezioni, nelle aziende di trasporto pubblico di cose. Tale differenziazione normativa verrebbe ulteriormente in rilievo in connessione con altre e più specifiche norme costituzionali, quale quella di cui all’art. 41 Cost. sulla iniziativa economica privata.

In definitiva, secondo il giudice a quo, imporre alle aziende di smaltimento rifiuti solidi urbani una normativa che incida pesantemente sulle modalità organizzative aziendali di tenuta del parco automezzi con una disposizione rigida ed insuperabile significherebbe dettare una disciplina che necessariamente influisce sull’iniziativa economica e sulle modalità operative di una componente importantissima dell’azienda, appesantendone e complicandone la gestione operativa.

2. – Nel giudizio innanzi alla Corte si è costituita l’AMIU, che ha premesso di essere l’azienda incaricata dello smaltimento dei rifiuti solidi urbani della città di Genova, ed ha insistito per la declaratoria di illegittimità costituzionale, per contrasto con gli artt. 3 e 41 Cost., della norma censurata nella parte in cui non estende a tutte le aziende esercenti servizio pubblico di trasporto la facoltà di tenere a bordo dei propri veicoli, in luogo dell’originale, la fotocopia della carta di circolazione, autenticata dal proprietario del veicolo.

Considerato in diritto

1. – Il Giudice di pace di Genova dubita della legittimità costituzionale dell’articolo 180, comma 4, del decreto legislativo 30 aprile 1992 (Nuovo codice della strada), come integrato dall’articolo 3, comma 17, del decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni ad codice della strada), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 214, nella parte in cui non estende a tutti i veicoli delle aziende pubbliche fornitrici di servizi essenziali, come definiti dall’articolo 1 della legge 12 giugno 1990, n. 146 (Norme sull’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali e sulla salvaguardia dei diritti della persona costituzionalmente tutelati. Istituzione della Commissione di garanzia dell’attuazione della legge), e, in particolare, del servizio di raccolta e smaltimento dei rifiuti solidi urbani, la facoltà di tenere, a bordo dei veicoli, in luogo dell’ originale, una fotocopia della carta di circolazione, autenticata dal proprietario del veicolo, come previsto per i mezzi di trasporto pubblico di persone.

La norma violerebbe l’articolo 3 della Costituzione per la irragionevole disparità di trattamento, differenziandosi le tipologie di pubblico servizio di cui si tratta solo per un fattore estrinseco, e cioè il bene trasportato, ed essendo esse invece identiche per la natura dell’attività e l’elevato numero di mezzi utilizzati; nonché l’articolo 41 della Costituzione, in quanto la imposizione alle aziende di una normativa che incide sulle modalità organizzative di tenuta del parco automezzi, con una disposizione rigida ed insuperabile, influirebbe sull’iniziativa economica, appesantendo la gestione operativa dell’attività produttiva.

2. – La questione è fondata, con riferimento alla violazione dell’art. 3 della Costituzione.

2. 1. – Va, preliminarmente, richiamato il quadro normativo in cui si iscrive la questione all’esame della Corte.

L’art. 180 del codice della strada, al comma 1, prescrive che il conducente di veicoli a motore deve avere con sé, oltre alla patente di guida, la carta di circolazione. La inosservanza del relativo obbligo è sanzionata dal comma 7. Lo stesso art. 180, comma 4, precisa che, allorché l’autoveicolo sia adibito ad uso diverso da quello risultante dalla carta di circolazione, ovvero quando sia in circolazione di prova, il conducente deve avere con sé la relativa autorizzazione. Il successivo periodo – aggiunto in sede di conversione, avvenuta con legge n. 214 del 2003, del decreto-legge n. 151 del 2003 – dispone che, per i veicoli adibiti a servizio pubblico di trasporto di persone e per quelli adibiti a locazione senza conducente, la carta di circolazione può essere sostituita da fotocopia autenticata dallo stesso proprietario con sottoscrizione del medesimo.

2.2. – La ratio, posta alla base della scelta legislativa, di consentire ai conduttori di mezzi adibiti al servizio pubblico di trasporto di persone di tenere a bordo la fotocopia della carta di circolazione invece dell’originale, deve essere ravvisata nella ragionevole esigenza, segnalata anche dalla difesa dell’AMIU, parte privata costituita nel giudizio innanzi alla Corte, di una rapida e sistematica rintracciabilità della documentazione originale, per l’espletamento delle pratiche di rinnovo, aggiornamento e revisione periodica dei veicoli, e di prevenire il rischio di smarrimento dei documenti, con conseguente fermo dei veicoli, oltre che di realizzare una sorta di tutela dei dipendenti, esonerandoli da una gravosa responsabilità connessa all’eventuale smarrimento.

Siffatte finalità si attagliano anche ad ogni altro servizio pubblico che abbia il carattere della essenzialità – quale delineato nell’art. 1 della legge n. 146 del 1990 – e si connoti per la gestione di un parco automezzi: e ciò specie ove si consideri che la norma censurata estende la facilitazione di cui si tratta, consistente nella facoltà di portare a bordo del veicolo la fotocopia autenticata anziché l’originale della carta di circolazione, anche ai veicoli adibiti a locazione senza conducente.

Inoltre, tale facilitazione appare coerente con la generale tendenza alla autocertificazione.

Del resto, il controllo dell’effettivo possesso del documento originale è agevolmente realizzabile – in ogni ipotesi – attraverso l’invito alla presentazione presso gli uffici di polizia per la esibizione dello stesso.

La facoltà di tenere a bordo del veicolo una fotocopia in luogo dell’originale, che trova fondamento in una esigenza di semplificazione nella gestione del servizio, limitata ai soli veicoli adibiti a servizio pubblico di trasporto di persone e a quelli adibiti a locazione senza conducente, è, dunque, in contrasto con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 della Costituzione, nella parte in cui non è estesa a tutti i veicoli delle aziende fornitrici di servizi pubblici essenziali (art. 1 della legge n. 146 del 1990), quale deve definirsi l’attività di raccolta e di smaltimento dei rifiuti urbani.

3. – E’ assorbito l’ulteriore profilo di censura.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 180, comma 4, del decreto legislativo 30 aprile 1992 (Nuovo codice della strada), come integrato dall’articolo 3, comma 17, del decreto-legge 27 giugno 2003, n. 151 (Modifiche ed integrazioni ad codice della strada), convertito, con modificazioni, dalla legge 1° agosto 2003, n. 214, nella parte in cui non estende a tutti i veicoli delle aziende fornitrici di servizi pubblici essenziali, ai sensi dell’art. 1 della legge n. 146 del 1990, la facoltà di tenere a bordo dei veicoli, in luogo dell’originale, una fotocopia della carta di circolazione, autenticata dal proprietario del veicolo, con sottoscrizione del medesimo.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alfio FINOCCHIARO, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2010.

Il Cancelliere

F.to: MILANA


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SENTENZA N. 281

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 1, commi 3 e 6, del decreto-legge 8 aprile 2008, n. 59 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 giugno 2008, n. 101, promosso dal Tribunale di Roma, nei procedimenti riuniti vertenti tra la C. S. C. Computer Sciences Corporation Italia s.r.l. e l’INPS ed altra, con ordinanza del 9 ottobre 2008, iscritta al n. 271 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, prima serie speciale, dell’anno 2009.

Visti gli atti di costituzione della C. S. C. Computer Sciences Corporation Italia s.r.l., dell’INPS. ed altra nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 6 luglio 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo;

uditi gli avvocati Michel Martone per la C. S. C. Computer Sciences Corporation Italia s.r.l., Antonino Sgroi per l’I.N.P.S. ed altra e l’avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri.

Ritenuto in fatto

1. — Il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, con ordinanza del 9 ottobre 2008, ha sollevato, in riferimento agli articoli 24, secondo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 3, del decreto-legge 8 aprile 2008, n. 59 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 giugno 2008, n. 101; nonché, in riferimento agli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost., questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dei commi 3 e 6 del medesimo art. 1, come risultante dopo la citata legge di conversione.

2. — Il rimettente premette di essere chiamato a pronunciare sulla tempestiva opposizione proposta da C. S. C. Italia s.r.l. avverso una cartella di pagamento, notificatale da Equitalia Esatri s.p.a., in qualità di agente per la riscossione dei tributi, con la quale le era stato intimato il versamento della complessiva somma di euro 938.836,32 – iscritta a ruolo dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS) – a titolo di restituzione di sgravi contributivi, dei quali la stessa società aveva beneficiato per n. 121 contratti di formazione e lavoro stipulati nel periodo compreso tra il gennaio del 1997 e il maggio del 2001.

La restituzione era stata chiesta sulla base di una decisione adottata dalla Commissione delle Comunità europee l’11 maggio 1999, con la quale i menzionati benefici contributivi erano stati considerati aiuti di Stato non compatibili con il mercato comune, in assenza delle condizioni stabilite nella medesima pronuncia.

3. — L’opponente, nel quadro di una serie di eccezioni e difese, aveva sostenuto la legittimità delle agevolazioni contributive godute sulla base della normativa al tempo vigente in materia di contratti di formazione e lavoro, ed aveva chiesto la sospensione dell’efficacia esecutiva del ruolo.

4. — L’INPS, in proprio e per conto della società di cartolarizzazione S. C. C. I., si era costituita tempestivamente, ponendo in evidenza la legittimità della pretesa azionata, stante l’accertata incompatibilità con il mercato comune delle agevolazioni contributive; la sussistenza, in capo all’opponente, dell’onere di provare che i contratti di formazione e lavoro stipulati rispondessero ai requisiti individuati dalla menzionata decisione della Commissione come necessari per riconoscerne la compatibilità con il detto mercato comune; l’infondatezza delle altre eccezioni sollevate e dell’istanza di sospensione, peraltro in contrasto con l’efficacia diretta e vincolante degli ordini della Comunità.

Si era altresì costituita tardivamente in giudizio Equitalia Esatri s.p.a., in qualità di agente per la riscossione dei tributi, eccependo la tardività dell’opposizione ai sensi dell’art. 617 codice di procedura civile, nonché la propria carenza di legittimazione passiva sulle questioni relative al merito dell’opposizione e l’infondatezza delle domande proposte nei propri confronti.

5. — Il giudice a quo prosegue, esponendo che in udienza l’opponente aveva insistito per la sospensione dell’efficacia esecutiva del ruolo, segnalando l’esistenza di pericoli irreparabili per la vita della società qualora la pretesa azionata fosse stata posta in esecuzione, avuto riguardo alle condizioni economiche della società stessa.

Pertanto egli, con ordinanza del 28 dicembre 2007, aveva sospeso l’efficacia esecutiva della cartella di pagamento, ravvisando i gravi motivi di cui all’art. 24, comma 6, del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell’articolo 1 della L. 28 settembre 1998, n. 337).

6. — Il rimettente aggiunge che il 9 aprile 2008 è stato pubblicato il d.l. n. 59, poi convertito, a seguito del quale egli ha anticipato l’udienza al 17 giugno 2008, «al fine di assicurare il rispetto dei termini di cui al comma 3° della norma sopra citata». In tale udienza egli ha sospeso nuovamente l’efficacia esecutiva della cartella, avendo ravvisato «i presupposti di cui all’art. 1, comma 1°, del sopra citato d. l. 59/2008», nel frattempo convertito e, in particolare, un evidente errore nel calcolo dell’intera somma da recuperare e la sussistenza del «pericolo di un pregiudizio imminente e irreparabile», per l’ingente ammontare della somma richiesta, per le costanti perdite di bilancio registrate dalla società negli ultimi anni, per l’impossibilità di ottenere il documento unico di regolarità contributiva (DURC) e di pretendere il pagamento di crediti scaduti nei confronti di pubbliche ammini strazioni.

Il giudicante rileva ancora che, in corso di causa, l’INPS, pur ribadendo le proprie eccezioni e difese, ha dato atto di aver provveduto allo sgravio parziale dell’importo azionato con la cartella e, pertanto, di voler ridurre la propria domanda al pagamento della somma residua di euro 285.271,00, relativa ai benefici contributivi goduti dalla società per 41 lavoratori assunti con contratto di formazione e lavoro. L’opponente, dal canto suo, ha dato atto di aver ricevuto il parziale provvedimento di sgravio, insistendo per il totale annullamento della cartella esattoriale.

7. — In questo quadro il giudice a quo, richiamata la normativa sui contratti di formazione e lavoro, nonché il contenuto della decisione adottata l’11 maggio 1999 dalla Commissione delle Comunità europee, riferisce che tale decisione era stata impugnata dallo Stato italiano, il cui ricorso, però, è stato rigettato dalla Corte di giustizia delle Comunità europee con sentenza del 7 marzo 2002.

La stessa Corte, adita dalla Commissione, ha dichiarato che l’Italia, non avendo assunto nei termini assegnati tutte le misure necessarie per recuperare le somme presso i beneficiari, è venuta meno agli obblighi che le incombevano per effetto della medesima pronuncia. Pertanto «lo Stato italiano – e per esso l’INPS – avrebbe dovuto procedere a richiedere ai soggetti beneficiari delle agevolazioni contributive sopra citate il pagamento dei contributi dovuti in relazione a quei contratti di formazione e lavoro stipulati in assenza delle condizioni legittimanti indicate dalla decisione della Commissione europea dell’11.5.1999».

Ciò posto, il rimettente osserva che, nella materia oggetto del giudizio, l’onere di provare la sussistenza dei requisiti per poter beneficiare degli sgravi contributivi ricade, per costante giurisprudenza, sulla parte che ha ottenuto tali sgravi. Nel caso di specie, dunque, l’onere probatorio spetta all’opponente, che, al fine di fornire la detta prova, «ha prodotto copiosa documentazione di natura contabile (tra cui il libro matricola e diversi prospetti dell’incremento occupazionale realizzato nel periodo di riferimento) ed ha invocato l’ammissione di prova per testi su molte delle circostanze indicate in ricorso».

Il rimettente, al fine di verificare la fondatezza di quanto sostiene la società C. S. C., ritiene indispensabile disporre di ufficio una consulenza contabile che, in applicazione dei criteri stabiliti dalla Commissione europea con la menzionata decisione, e previo esame della documentazione esibita e di quella ritenuta necessaria per un corretto espletamento dell’incarico: 1) verifichi la sussistenza delle condizioni per procedere al recupero dei contributi in relazione a ciascuno dei 41 contratti di formazione e lavoro, oggetto di (residua) contestazione tra le parti; 2) in caso di risposta negativa (anche solo in parte) a tale quesito, determini l’ammontare dei contributi eventualmente da recuperare, anche in relazione alla regola cosiddetta de minimis; 3) determini l’ammontare delle spese sostenute dall’opponente per la formazione del personale assunto con i contratti di formazione e lavoro, per i quali risultassero illegittim e le esenzioni contributive godute, dei relativi oneri fiscali e delle spese per le cosiddette marche settimanali.

Il giudice a quo richiama il dettato dell’art. 1 del d.l. n. 59 del 2008 (nel testo risultante dalla legge di conversione) e rileva che la sospensione dell’efficacia esecutiva della cartella di pagamento è stata concessa, nel mutato contesto normativo, con ordinanza depositata l’11 luglio 2008. Pertanto, in applicazione del comma 3 della norma ora citata, il giudice deve decidere la causa nel termine complessivo di 90 giorni dalla data della sospensione. In difetto, la legge prevede le seguenti conseguenze: 1) l’ordinanza di sospensione «perde efficacia»; 2) il presidente di sezione riferisce al presidente del tribunale circa il mancato rispetto del suddetto termine da parte del giudice, «per le determinazioni di competenza».

Ad avviso del giudicante, la sospensione a tempo dell’efficacia esecutiva della cartella di pagamento sarebbe in contrasto, in primo luogo, con l’art. 24, secondo comma, Cost.

Infatti, tale sospensione sarebbe essenziale per un concreto e pieno esercizio del diritto di difesa, «nella misura in cui consente alla medesima parte – nella specie gravata del relativo onere probatorio – di richiedere l’espletamento di ogni attività istruttoria necessaria al fine di provare la fondatezza dei propri assunti, senza dover temere che la fisiologica durata del processo conseguente allo svolgimento di tale attività si ripercuota negativamente sulla propria situazione patrimoniale (anche in forza della quale la stessa ha ottenuto, come premesso, la sospensione dell’esecutività della cartella di pagamento opposta)». In altre parole, in forza del meccanismo in esame, il diritto di difesa della parte, che ha ottenuto la sospensione dell’esecutività della cartella, risulta di fatto tutelato al massimo per novanta giorni, decorsi i quali, a prescindere dalla (ovvia) persistenza dei requisiti richiesti, il provvedimento di sospensione perde comunque effetto, consentendo all’Istituto di agire in via esecutiva.

Né si potrebbe giungere a diversa conclusione valorizzando la circostanza che la norma censurata consente al giudice, «sulla base dei presupposti di cui ai commi 1 e 2», di confermare anche parzialmente la sospensione già concessa, fissando un termine di efficacia non superiore a sessanta giorni.

Invero, a prescindere dal rilievo che questo ulteriore termine non sarebbe idoneo a consentire la conclusione dell’istruttoria richiesta né il completamento della consulenza, è la previsione di un termine finale di efficacia entro il quale il processo deve essere concluso (pena la ripresa dell’esecutività provvisoria della cartella) a porsi in contrasto con il diritto costituzionale ad una piena ed effettiva difesa.

8. — Secondo il giudice a quo, la sospensione a tempo contrasterebbe anche con il disposto dell’art. 111, secondo comma, Cost., in quanto attribuisce all’INPS una posizione di indubbio quanto ingiustificato vantaggio nei confronti della controparte.

Infatti l’Istituto, trascorso un breve lasso di tempo a decorrere dall’emissione della sospensiva, può agire esecutivamente in forza di un titolo in relazione al quale il giudice ha già posto in luce sia un evidente errore nel calcolo di una parte rilevante della somma da recuperare, sia un concreto pericolo di un pregiudizio imminente e irreparabile derivante alla parte opponente dalla minacciata esecuzione forzata. Nel caso di specie, il concreto pericolo di tale pregiudizio imminente e irreparabile – che non è, per sua natura, un pericolo a tempo – rende palese lo squilibrio tra le posizioni processuali assunte dalle parti in causa: mentre l’INPS. si è limitato a richiedere alla società opponente il pagamento di tutti i contributi non versati in relazione ai 121 contratti di formazione e lavoro – salvo poi procedere, su invito del giudice ed all’interno del giudizio di opposizione, ad effet tuare una verifica circa la fondatezza di tale pretesa e a procedere allo sgravio parziale – la società opponente ha dovuto proporre opposizione avverso una cartella di pagamento contenente una pretesa vistosamente errata in eccesso e dovrebbe anche riuscire, dopo aver ottenuto la sospensione dell’efficacia esecutiva della stessa, a provare la fondatezza delle proprie difese in relazione alla residua somma in contestazione nel termine massimo di 90 giorni, come se il periculum in mora, già riconosciuto dal giudice, avesse perduto ogni rilevanza una volta scaduto il termine sopra indicato.

Ad avviso del rimettente, la disposizione in esame, nella parte in cui introduce la suddetta sospensione a tempo, contrasterebbe, inoltre, con l’art. 117, primo comma, Cost., per violazione dell’obbligo internazionale assunto dall’Italia con la sottoscrizione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, il cui art. 6, primo comma, nel prescrivere il diritto di ogni persona ad un giusto processo dinanzi ad un tribunale indipendente ed imparziale, imporrebbe al potere legislativo di non intromettersi nell’amministrazione della giustizia allo scopo d’influire sulla singola causa o su di una determinata categoria di controversie; tale disposizione della CEDU, infatti, costituirebbe fonte interposta, secondo l’interpretazione fornita dalla Corte europea di Strasburgo sul punto, nel senso che la par ità delle parti dinanzi al giudice implica la necessità che il potere legislativo non si intrometta nell’amministrazione della giustizia allo scopo d’influire sulla risoluzione della controversia o di una determinata categoria di controversie. Al riguardo, l’ordinanza di rimessione richiama la giurisprudenza della Corte di cassazione e della stessa Corte europea.

Il giudice a quo ritiene che le esigenze manifestate dal legislatore nell’emanare la disposizione censurata, dirette a consentire all’INPS un sollecito recupero degli aiuti di Stato non dovuti, non possano integrare le «imperiose ragioni d’interesse generale» richieste dalla Corte europea come condizione per superare il generale divieto di ingerenza. Lo Stato italiano – e per esso l’INPS – avrebbe dovuto celermente richiedere ai soggetti beneficiari delle agevolazioni sopra citate il pagamento dei contributi dovuti in relazione non a tutti i contratti di formazione e lavoro stipulati, bensì soltanto a quei contratti posti in essere in assenza delle condizioni legittimanti indicate dalla medesima decisione; né la dichiarazione di inadempienza dell’Italia, contenuta nella sentenza della Corte di giustizia del 1° aprile 2004, potrebbe costituire un’imperiosa ragione di interesse generale per procedere ese cutivamente nei confronti dei predetti beneficiari: il ritardo accumulato dallo Stato nel procedere ai recuperi dovuti non potrebbe incidere negativamente sul diritto di difesa di una delle parti e sul principio della loro parità davanti al giudice, e ciò sarebbe ancor più valido quando, come nel caso in esame, la norma introdotta sia a favore della parte che tale ritardo ha accumulato.

9. — Quanto alla disposizione dettata dal comma 6 della norma censurata, che prevede il dovere per il presidente di sezione di vigilare «sul rispetto dei termini di cui al comma 3» e di riferire «con relazione trimestrale, rispettivamente, al presidente del tribunale o della Corte d’appello per le determinazioni di competenza», il rimettente ritiene che essa sia lesiva dei princìpi di cui agli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma Cost.

Infatti, il legislatore avrebbe così introdotto «un inammissibile strumento di pressione sul giudice che, avendo riscontrato la sussistenza dei requisiti di cui al comma 1° della stessa norma, abbia disposto la sospensione dell’efficacia esecutiva della cartella opposta, e ciò al solo fine di ottenere una più celere definizione di una determinata categoria di processi in cui è direttamente (per il tramite dell’INPS) parte in causa ed all’interno dei quali – lo si è detto più volte ma giova ricordarlo – l’onere della prova grava sulla controparte».

Risulterebbe lesiva dei menzionati parametri costituzionali anche l’assoluta genericità del riferimento alle «determinazioni di competenza», che il capo dell’ufficio dovrebbe adottare in caso di mancato rispetto dei termini in questione, in quanto sarebbe adombrato il “fantasma” dell’attivazione di un non meglio precisato procedimento disciplinare, a carico del magistrato giudicante che abbia concesso la sospensione dell’esecutività della cartella di pagamento opposta e che non sia stato poi in grado di definire il processo nei successivi 90 giorni, senza tuttavia alcun esplicito riferimento alla vigente normativa sugli illeciti disciplinari.

Il decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109 (Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f) della legge 25 giugno 2005, n. 150), nell’art. 2, prevede tra gli illeciti commessi nell’esercizio delle funzioni «[...]il reiterato, grave e ingiustificato ritardo nel compimento degli atti relativi all’esercizio delle funzioni[...]», quale, ad esempio, il mancato rispetto dei termini previsti dalla legge per il deposito della motivazione delle sentenze o delle ordinanze, mentre il termine introdotto con la norma impugnata, più che riferirsi al compimento di un atto, andrebbe piuttosto ad incidere sulla gestione ordinaria dei tempi del processo e sulla facoltà del giudice , fino ad ora insindacabile, di valutare in quale momento la causa sia effettivamente matura per la decisione. Tra l’altro, tale controllo risulterebbe formale soltanto in apparenza, essendo invece idoneo a sconfinare nel merito delle scelte del giudice in ordine sia alla valutazione delle istanze istruttorie che alla fondatezza, o meno, delle opposte istanze ed eccezioni.

Pertanto, a parere del tribunale rimettente, in un ipotetico procedimento disciplinare, il giudice cui sia stato contestato di non aver rispettato il suddetto termine si dovrebbe difendere allegando i contenuti delle proprie ordinanze, con ciò sottoponendosi a valutazione l’esercizio dell’attività giurisdizionale.

10. — La società opponente nel giudizio a quo si è costituita nel giudizio costituzionale e, dopo aver riassunto lo svolgimento della causa innanzi al Tribunale di Roma, ha chiesto che la questione sia dichiarata fondata, sottolineando la violazione del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e segnalando come, nel caso di specie, il limite temporale di sospensione dell’esecutività di novanta giorni risulti insufficiente, in quanto è decisivo verificare la condizione dell’incremento netto dell’occupazione, richiamata dall’art. 3, lettera a), della decisione della Commissione europea in data 11 maggio 1999 quale requisito di legittimità delle agevolazioni contributive fruite, per il cui accertamento è in corso la consulenza tecnica. La parte privata sottolinea l’inadeguatezza dei termini imposti dalla norma impugnata ed il fatto che, nonostante una verifica giurisdizionale dei presuppos ti della sospensione del ruolo, decorso il termine di legge, l’istituto previdenziale potrebbe procedere immediatamente al recupero delle agevolazioni, a prescindere dalla durata del giudizio.

11. — Anche l’INPS si è costituito nel giudizio di legittimità costituzionale ed ha richiamato alcuni aspetti del procedimento davanti al Tribunale di Roma, segnalando come il giudice rimettente avesse già sospeso una prima volta la provvisoria esecutività della cartella e ritenuto la causa matura per la decisione. Soltanto dopo la promulgazione della normativa ora censurata, il giudice rimettente aveva ritenuto di dovere esperire un’istruzione probatoria, concedendo, nelle more, una seconda sospensione dell’efficacia esecutiva della cartella, con decreto dell’8 luglio 2008.

Pertanto, il giudice non avrebbe rispettato i termini di legge fissati per il celere andamento processuale delle cause di lavoro e previdenza. Per quello che concerne l’altra disposizione sottoposta a censura, la stessa non riguarda né il giudice rimettente, né il processo di cui lo stesso è assegnatario, ma vede come destinatario il presidente della sezione, al quale sono demandati compiti organizzativi in relazione alla scansione temporale prescritta per la procedura del recupero degli aiuti di stato.

12. — Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio di legittimità costituzionale ed ha posto in evidenza le analogie che, a suo avviso, sussisterebbero tra la questione qui in esame ed altra questione, già sottoposta alla Corte, e decisa con sentenza n. 8 del 1982, relativa alla disposizione di cui all’art. 5, quarto comma, della legge 3 gennaio 1978, n. 1 (Accelerazione delle procedure per la esecuzione di opere pubbliche e di impianti e costruzioni industriali), norma ora abrogata dall’art. 256 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE).

Secondo la difesa dello Stato, la Corte avrebbe già ritenuto conforme alla Costituzione la previsione di un termine finale di efficacia della sospensiva disposta, a tutela delle particolari ragioni di pubblico interesse. Anche nel caso in esame, le motivazioni di interesse pubblico, ben evidenziate nella relazione governativa al disegno di legge di conversione del decreto, sarebbero da individuare nel fatto che la Commissione europea ha già annunciato l’imminente ricorso alla Corte di giustizia delle Comunità europee, ai sensi dell’art. 228 del Trattato istitutivo della Comunità europea, e successive modificazioni. «Senza un immediato intervento legislativo che eviti tale ricorso, l’Italia rischia, per ciascuna delle tre procedure di infrazione indicate, la condanna al pagamento di una somma forfettaria minima di 9.920.000 euro, oltre ad una penalità di mora compresa tra 22.000 e 700.000 euro per ogni giorno di ritar do nell'attuazione della seconda sentenza». Nell’atto di intervento è richiamato, inoltre, quanto la Corte ha già affermato in ordine alla necessità per lo Stato di procedere tempestivamente al recupero di aiuti dichiarati illegittimi (ordinanza n. 36 del 2009) e si insiste per la dichiarazione di infondatezza della questione di legittimità del comma 3, in riferimento a tutti i parametri evocati.

In particolare, del tutto incoerente sarebbe il richiamo all’art. 111, secondo comma, Cost., relativamente al principio di parità delle parti nel processo: la previsione legislativa non esclude affatto che si possa procedere con una c.t.u., la quale può essere espletata in tempi brevi (e del resto, nel caso di specie, la causa era pendente dal 2007); inoltre, anche dopo la ripresa di esecutività della cartella per il decorso del termine, l’emanazione del dispositivo di una sentenza di merito che accolga il ricorso sarebbe idonea a ripristinare immediatamente l’effetto sospensivo dell’atto di riscossione.

Anche la questione sollevata in riferimento alla disposizione di cui al comma 6 sarebbe manifestamente infondata, in quanto essa si limita a stabilire un monitoraggio in ordine al rispetto dei termini previsti dalla norma, affidandolo alla responsabilità del presidente del tribunale.

13. — La società opponente nel giudizio principale, in prossimità dell’udienza di discussione, ha depositato una memoria che, però, risulta fuori termine (art. 10, primo comma, delle vigenti norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale).

Considerato in diritto

1. — Il Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, dubita, in riferimento agli articoli 24, secondo comma, 111, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 3, del decreto-legge 8 aprile 2008, n. 59 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 giugno 2008, n. 101; nonché della legittimità costituzionale del combinato disposto dei commi 3 e 6 del medesimo art. 1, in riferimento agli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost.

Il rimettente espone di essere chiamato a decidere sull’opposizione proposta dalla società C. S. C. – Computer Sciences Corporation – Italia s.r.l. avverso una cartella di pagamento, ad essa notificata da Equitalia Esatri s.p.a., in qualità di agente per la riscossione, su iscrizione a ruolo operata dall’Istituto nazionale della previdenza sociale (INPS), in proprio e quale mandatario della Società di cartolarizzazione dei Crediti Inps (S. C. C. I.), s.p.a., per il recupero della somma complessiva di euro 938.836,62, a titolo di restituzione degli sgravi contributivi dei quali la società aveva beneficiato per 121 contratti di formazione e lavoro, stipulati tra il gennaio 1997 e il maggio 2001.

L’azione di recupero era stata intrapresa in forza di decisione della Commissione delle Comunità europee in data 11 maggio 1999, confermata, a seguito di ricorso dello Stato italiano, dalla Corte di giustizia delle Comunità europee, con sentenza del 7 marzo 2002, cui era seguita altra sentenza della medesima Corte di giustizia (in data 1° aprile 2004), la quale aveva dichiarato che l’Italia, non avendo adottato nei termini assegnati tutte le misure necessarie per recuperare le somme presso i beneficiari, era «venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi…della detta decisione».

In effetti, con la citata pronuncia la Commissione delle Comunità europee aveva affermato l’illegittimità delle agevolazioni contributive previste dalla normativa italiana, in quanto configuranti “aiuti di Stato” incompatibili con le regole del mercato comune, qualora non fossero state conformi alle condizioni nella pronuncia stessa indicate.

2. — Il giudice a quo riferisce, per quanto qui rileva (e rinviando, per il resto, alle circostanze esposte in narrativa), che l’opponente, tra l’altro, aveva dedotto, e chiesto di provare, la conformità delle agevolazioni ottenute alle prescrizioni della citata decisione; che egli aveva sospeso l’efficacia esecutiva della cartella; che in corso di causa l’INPS aveva provveduto allo sgravio parziale delle pretese azionate con la detta cartella, riducendo l’importo richiesto ad euro 285.271,00; che, nelle more della controversia, è sopravvenuto il d.l. n. 59 del 2008 (convertito, con modificazioni, dalla legge n. 101 del 2008), il cui art. 1, comma 3, ha previsto un termine di novanta giorni, eventualmente prorogabile per altri sessanta, alla cui scadenza il provvedimento di sospensione (rinnovato dal giudicante in base alle nuove disposizioni) perde efficacia; che tale sospensione “a tempo” sarebbe in contrasto sia con l’art. 24, secondo comma, sia con l’art. 111, secondo comma, sia con l’art. 117, primo comma, Cost., in quanto del tutto inadeguata rispetto ai tempi necessari per l’espletamento di una completa attività istruttoria, tanto più considerando che l’onere di provare la sussistenza dei requisiti per beneficiare degli sgravi contributivi in questione ricade sulla parte che in concreto ne abbia goduto.

Il rimettente censura poi il comma 6, in combinato disposto con il comma 3 della menzionata disposizione, richiamandosi agli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost. e ravvisando nella norma stessa una violazione del principio d’indipendenza del giudice.

3. — La questione relativa all’art. 1, comma 3, terzo periodo, del d.l. n. 59 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 101 del 2008, è fondata.

4. — Si deve premettere che la decisione della Commissione europea adottata l’11 maggio 1999, relativa al regime di aiuti concessi dall’Italia per interventi a favore dell’occupazione, non statuì l’assoluta incompatibilità di tali aiuti con il mercato e con l’accordo SEE. Come risulta dalla parte dispositiva essa, con l’art. 1, stabilì che gli aiuti medesimi, concessi a decorrere dal novembre 1975, per l’assunzione di lavoratori mediante i contratti di formazione e lavoro previsti dall’apposita normativa, sono compatibili con l’ordinamento comunitario a condizione che riguardino: a) la creazione di nuovi posti di lavoro nell’impresa beneficiaria a favore di lavoratori che non hanno ancora trovato un impiego o che hanno perso l’impiego precedente, nel senso definito dagli orientamenti in materia di aiuti all’occupazione; b) l’assunzione di lavoratori che incontra no difficoltà specifiche ad inserirsi o a reinserirsi nel mercato di lavoro, chiarendo che, ai fini della citata decisione, per tali «s’intendono i giovani con meno di 25 anni, i lavoratori fino a 29 anni compresi, i disoccupati di lunga durata, vale a dire le persone disoccupate da almeno un anno». Con l’art. 2, poi, dispose che gli aiuti «concessi dall’Italia in virtù dell’art. 15 della legge n. 197/97 per la trasformazione di contratti di formazione e lavoro in contratti a tempo indeterminato sono compatibili col mercato comune e con l’accordo SEE purché rispettino la condizione della creazione netta di posti di lavoro come definita dagli orientamenti comunitari in materia di aiuti all’occupazione», con la precisazione che «il numero dei dipendenti delle imprese è calcolato al netto dei posti che beneficiano della trasformazione e dei posti creati per mezzo di contratti a tempo determinato o che non garantiscono una certa stabilità dell’impiego».

Pertanto, come la decisione rende palese, soltanto gli aiuti che non si conformano alle dette condizioni sono incompatibili con il mercato comune e, perciò, impongono l’adozione dei provvedimenti necessari per recuperare presso i beneficiari gli aiuti medesimi. Il recupero, la cui finalità consiste nel ripristinare la situazione esistente sul mercato prima della concessione dell’aiuto, deve aver luogo in base alle procedure di diritto interno (decisione citata, parte dispositiva, art. 3, comma 2). La relativa azione postula la verifica dei singoli contratti e, qualora insorgano contrasti circa la rispondenza di essi alle condizioni ora indicate, nasce una controversia che deve essere risolta nelle competenti sedi giurisdizionali.

In Italia la norma applicabile è l’art. 24 del decreto legislativo 26 febbraio 1999, n. 46 (Riordino della disciplina della riscossione mediante ruolo, a norma dell’articolo 1 della L. 28 settembre 1998, n. 337), e successive modificazioni, il cui comma 5 prevede che contro l’iscrizione a ruolo operata dall’ente previdenziale il contribuente può proporre opposizione al giudice del lavoro entro il termine di quaranta giorni dalla notifica della cartella di pagamento, mentre il comma 6 aggiunge che «il giudizio di opposizione contro il ruolo per motivi inerenti il merito della pretesa contributiva è regolato dagli articoli 442 e seguenti del codice di procedura civile. Nel corso del giudizio di primo grado il giudice del lavoro può sospendere l’esecuzione del ruolo per gravi motivi».

Con riguardo al citato art. 24 questa Corte, con ordinanza n. 111 del 2007, nel dichiarare la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale relativa a tale norma, sollevata in riferimento all’art. 111, secondo comma, Cost., ha chiarito che «da un lato, non è irragionevole la scelta del legislatore di consentire ad un creditore, attesa la sua natura pubblicistica e l’affidabilità derivante dal procedimento che ne governa l’attività, di formare unilateralmente un titolo esecutivo, e, dall’altro lato, è rispettosa dei diritti di difesa e dei principi del giusto processo la possibilità, concessa al preteso debitore di promuovere, entro un termine perentorio ma adeguato, un giudizio ordinario di cognizione nel quale far efficacemente valere le proprie ragioni, sia grazie alla possibilità di ottenere la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo e/o dell’esecuzione, s ia grazie alla ripartizione dell’onere della prova in base alla posizione sostanziale (e non già formale) assunta dalle parti nel giudizio di opposizione».

In proposito, è il caso di sottolineare fin d’ora che soltanto nel giudizio di opposizione alla cartella esattoriale il destinatario di questa ha la possibilità di far accertare l’inesistenza, o la minore entità, del proprio debito. Di qui la centralità di tale momento processuale, del quale la tutela cautelare esperibile con la sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo costituisce profilo essenziale.

5. — In questo quadro è sopravvenuto il d.l. n. 59 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 101 del 2008. Si tratta di una normativa a carattere speciale, e quindi derogatoria rispetto a quella generale contemplata dal menzionato art. 24. Essa (come si legge nel preambolo del decreto) è stata dettata dalla «straordinaria necessità ed urgenza di emanare disposizioni al fine di adempiere ad obblighi comunitari derivanti da sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee e da procedure di infrazione pendenti nei confronti dello Stato italiano».

In particolare, l’art. 1, sotto la rubrica «Disposizioni in materia di recupero di aiuti di Stato innanzi agli organi di giustizia civile», condiziona la possibilità per il giudice di concedere la sospensione dell’efficacia del titolo di pagamento alle seguenti specifiche condizioni, che devono ricorrere cumulativamente: a) la sussistenza di gravi motivi d’illegittimità della decisione di recupero, ovvero un evidente errore nella individuazione del soggetto tenuto alla restituzione dell’aiuto di Stato o un evidente errore nel calcolo della somma da recuperare e nei limiti di tale errore; b) pericolo di un pregiudizio imminente e irreparabile.

Il comma 2 disciplina l’ipotesi, estranea alla fattispecie in esame, in cui la sospensione dell’efficacia del titolo si fondi su motivi attinenti alla illegittimità della decisione di recupero.

Il comma 3, qui censurato, così dispone:«Fuori dei casi in cui è stato disposto il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, con il provvedimento che accoglie l’istanza di sospensione, il giudice fissa la data dell’udienza di trattazione nel termine di trenta giorni. La causa è decisa nei successivi sessanta giorni. Allo scadere del termine di novanta giorni dalla data di emanazione del provvedimento di sospensione, il provvedimento perde efficacia salvo che il giudice, su istanza di parte, riesamini lo stesso e ne disponga la conferma, anche parziale, sulla base dei presupposti di cui ai commi 1 e 2, fissando un termine di efficacia non superiore a sessanta giorni».

Il termine di trenta giorni per fissare l’udienza di trattazione, e quello successivo di sessanta giorni per la decisione, hanno carattere ordinatorio (art. 152, secondo comma, cod. proc. civ.) e finalità accelerativa. Il legislatore, in sostanza, intende garantire alla categoria di controversie in esame una sorta di corsia preferenziale, in guisa da consentire l’esecuzione immediata ed effettiva della decisione della Commissione.

Si tratta di un’esigenza reale e meritevole di tutela, che però deve essere bilanciata con il diritto inviolabile di difesa assicurato alla parte in ogni stato e grado del procedimento (art. 24, secondo comma, Cost.).

La norma censurata non realizza tale bilanciamento e, dunque, si pone in contrasto con il citato parametro costituzionale.

Essa, infatti, prevede la perdita di efficacia del provvedimento che ha sospeso l’efficacia del titolo di pagamento, allo scadere del termine di novanta giorni dalla data di emanazione del provvedimento stesso, con possibilità di conferma, ad istanza di parte, per ulteriori sessanta giorni, col decorso dei quali la perdita di efficacia comunque si realizza. Si è in presenza, dunque, di un effetto legale che consegue al mero decorso del tempo, prescindendo da ogni verifica sulla persistenza (o magari l’aggravamento) delle circostanze che avevano condotto al provvedimento di sospensione, rispetto alle quali il giudice resta privato di ogni potere valutativo. E ciò con la previsione di un termine che, pur se prorogato, è in ogni caso contenuto nella durata massima di centocinquanta giorni.

Al riguardo si deve osservare che il potere di sospensione dell’efficacia del titolo di pagamento, attribuito al giudice dall’art. 1, comma 1, del d.l. n. 59 del 2008, rientra nell’ambito della tutela cautelare, della quale condivide la ratio ispiratrice, ravvisabile nell’esigenza di evitare che la durata del processo si risolva in un pregiudizio per la parte che dovrebbe vedere riconosciute le proprie ragioni (sentenze n. 26 del 2010, n. 144 del 2008 e n. 253 del 1994). La detta sospensione, come le altre misure cautelari a contenuto anticipatorio o conservativo, ha funzione strumentale all’effettività della stessa tutela giurisdizionale, sicché il vulnus prodotto dalla sua efficacia contenuta nei ristretti termini sopra indicati incide inevitabilmente sulla detta effettività e, quindi, sul diritto fondamentale garantito dall’art. 24, secondo comma, Cost. «in ogni stato e grado del procedimento».

Infatti, se è fuor di dubbio che il legislatore gode di ampia discrezionalità nella conformazione degli istituti processuali (giurisprudenza costante di questa Corte), è pur vero che il diritto di difesa, al pari di ogni altro diritto garantito dalla Costituzione, deve essere regolato dalla legge ordinaria in modo da assicurarne il carattere effettivo.

Pertanto, qualora per l’esercizio di esso, anche e tanto più sotto il profilo della tutela cautelare, siano stabiliti termini così ristretti da non realizzare tale risultato, il precetto costituzionale è violato. La congruità di un termine in materia processuale, se da un lato va valutata in relazione alle esigenze di celerità cui il processo stesso deve ispirarsi, dall’altro deve tener conto anche dell’interesse del soggetto che ha l’onere di compiere un certo atto per salvaguardare i propri diritti.

In casi come quello in esame, in cui adempiere all’onere probatorio, ricadente sulla parte che ha promosso il giudizio, richiede di regola l’espletamento di un’attività istruttoria anche complessa, il termine di soli centocinquanta giorni (complessivi) per la conservazione dell’efficacia del provvedimento di sospensione si rivela non congruo, sulla base delle considerazioni dianzi svolte.

Il richiamo, compiuto dalla difesa dello Stato, alla sentenza di questa Corte n. 8 del 1982 non è pertinente.

La Corte, con tale sentenza, dichiarò non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 5, penultimo comma, della legge 3 gennaio 1978, n. 1 (Accelerazione delle procedure per l’esecuzione di opere pubbliche e di impianti e costruzioni industriali), «nella parte in cui limita a sei mesi la durata dell’efficacia delle ordinanze dei TT. AA. RR. che sospendano la esecuzione dell’atto impugnato» (disposizione poi abrogata). La Corte ritenne che il detto termine, decorrente dalla data dell’ordinanza che aveva sospeso l’efficacia dell’atto amministrativo impugnato, fosse «congruo e ragionevole in relazione alla durata normale di un processo amministrativo, tenuto anche conto delle particolari ragioni di pubblico interesse che sono insite nelle materie che formano oggetto della disciplina di cui alla legge n. 1 del 1978».

Orbene, come risulta da detta motivazione, il giudizio di congruità fu espresso con riferimento al processo amministrativo che, soprattutto nell’epoca in cui la decisione fu adottata e con riguardo al settore dei lavori pubblici, era un processo sull’atto e non sul rapporto, si esauriva di regola in un’udienza e lasciava margini molto ridotti all’attività istruttoria.

Ben diverso è il giudizio di cognizione davanti al giudice ordinario, nel cui schema va ricondotta anche l’opposizione alla cartella di pagamento, che postula l’esame dell’intero rapporto e, pur con la maggior concentrazione garantita dall’adozione del rito del lavoro, richiede di regola lo svolgimento di attività istruttorie che possono rivelarsi anche molto complesse.

Le due situazioni poste a confronto dalla difesa pubblica, dunque, non sono omogenee.

6. — La norma censurata, inoltre, si pone in contrasto con l’art. 111, secondo comma, Cost.

In primo luogo, essa rende asimmetrica la posizione delle parti, con conseguente lesione del principio costituzionale di parità, in quanto la perdita di efficacia del provvedimento di sospensione del titolo, collegata al mero decorso di un breve arco di tempo, consente all’ente, che ha proceduto ad iscrivere a ruolo il presunto credito, di azionarlo in via esecutiva pur in presenza delle condizioni che avevano condotto il giudice a disporre la sospensione stessa, così attribuendogli una ingiustificata posizione di vantaggio.

In secondo luogo, il principio di durata ragionevole del processo, ribadito dall’art. 111, secondo comma, Cost., in coerenza con l’art. 6, primo comma, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848), se è diretto a disporre che il processo stesso non si protragga oltre certi limiti temporali, assicura anche che esso duri per il tempo necessario a consentire un adeguato spiegamento del contraddittorio e l’esercizio del diritto di difesa, di cui il diritto di avvalersi di una sufficiente tutela cautelare è componente essenziale. Infatti, anche questo aspetto è compreso nel canone della ragionevole durata affermato dal suddetto parametro. Pertanto, l’automatica cessazione del provvedimento di sospensione dell’efficacia esecutiva del titolo, in assenza di qualsiasi verifica circa la perma nenza delle ragioni che ne avevano determinato l’adozione, si risolve in un deficit di garanzie che rende la norma censurata non conforme al modello costituzionale.

Sulla base delle considerazioni che precedono deve essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, comma 3, terzo periodo, del d.l. n. 59 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 101 del 2008, nella parte in cui stabilisce la perdita di efficacia del provvedimento di sospensione, adottato o confermato dal giudice.

Ogni altro profilo resta assorbito.

7. — La questione di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 6 (in combinato disposto con il comma 3), della normativa ora citata, in riferimento agli artt. 101, secondo comma, e 104, primo comma, Cost., è inammissibile per difetto di rilevanza.

La norma denunziata dispone quanto segue. «Il presidente di sezione, in ogni grado del procedimento, vigila sul rispetto dei termini di cui al comma 3 e riferisce con relazione trimestrale, rispettivamente, al presidente del tribunale o della corte d’appello per le determinazioni di competenza. Nei tribunali non divisi in sezioni le funzioni di vigilanza sono svolte direttamente dal presidente del tribunale».

Si tratta di una disposizione diretta ad agevolare le funzioni di vigilanza affidate al dirigente dell’ufficio, anche attraverso l’attività di collaborazione semidirettiva svolta dai presidenti di sezione. La norma non riguarda il thema decidendi sul quale il giudicante è chiamato a pronunciare, concernente la sussistenza o meno del credito azionato con il titolo di pagamento contro il quale è stata proposta opposizione, con le statuizioni consequenziali. Pertanto, il giudice a quo non deve applicarla.

Ne deriva l’inammissibilità della questione (ex plurimis: ordinanze n. 64 del 2010; n. 122 e n. 50 del 2009; n. 419 del 2008).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

a) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 1, comma 3, terzo periodo, del decreto-legge 8 aprile 2008, n. 59 (Disposizioni urgenti per l’attuazione di obblighi comunitari e l’esecuzione di sentenze della Corte di giustizia delle Comunità europee), convertito, con modificazioni, dalla legge 6 giugno 2008, n. 101, nella parte in cui stabilisce la perdita di efficacia del provvedimento di sospensione, adottato o confermato dal giudice;

b) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto dei commi 3 e 6 del medesimo art. 1 del d.l. n. 59 del 2008, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 101 del 2008.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2010.

Il Cancelliere

F.to: MILANA


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SENTENZA N. 282

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 9, secondo comma, della legge 27 dicembre 1956 n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), come sostituito dall’art. 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, promosso dal Tribunale di Trani, sezione distaccata di Andria, nel procedimento penale a carico di G. D., con ordinanza del 12 ottobre 2009, iscritta al n. 314 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 9 giugno 2010 il Giudice relatore Alessandro Criscuolo.

Ritenuto in fatto

1. — Il Tribunale di Trani, sezione distaccata di Andria, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe ha sollevato, in riferimento agli articoli 25, secondo comma, e 3 della Costituzione, questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, secondo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), come sostituito dall’articolo 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, in relazione all’art. 5, terzo comma, prima parte, della stessa legge n. 1423 del 1956.

Il rimettente premette di essere chiamato a giudicare in un procedimento penale a carico di G. D., arrestato in flagranza del reato previsto e punito dalla norma censurata e tratto a giudizio con rito direttissimo per avere, «quale soggetto sottoposto alla misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel Comune di Andria, in forza del decreto n. 5/06 M. P. emesso in data 11.1.2006 dal Tribunale di Bari, violato, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, le prescrizioni di cui al punto n. 4 del citato decreto e cioè quelle di “vivere onestamente, rispettare le leggi dello Stato e non dare ragione alcuna di sospetto in ordine alla propria condotta” e precisamente perché: 1) si poneva alla guida di un ciclomotore senza aver conseguito il previsto certificato di idoneità alla guida dei ciclomotori e senza essere munito di patente perché revocata; 2) si poneva alla guida dello stesso ciclomotore senza indossare il casco protettivo; 3) transitava nella zona battuta da spacciatori e tossicodipendenti, così dando ragione di sospetto con la propria condotta».

Il giudice a quo prosegue esponendo che, all’esito della convalida dell’arresto, l’imputato ha formulato richiesta di giudizio abbreviato, che è stato disposto.

Nell’ambito di tale giudizio il difensore ha sollevato questione di legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 3, 13, 25 e 27 Cost. – dell’art. 9 della legge n. 1423 del 1956, nella parte in cui, richiamando il dettato dell’art. 5 della stessa legge, sanziona la prescrizione di «rispettare le leggi».

2. — Tanto premesso, il giudicante osserva che «l’art. 9, 2° comma, L. 1423/1956, come modificato dall’art. 14 D. L. 144/2005, si pone in contrasto sia con l’art. 25, 2° comma, che con l’art. 3 della Costituzione facendo emergere due profili autonomi e distinti di illegittimità costituzionale».

Ad avviso del giudice a quo, in relazione al contrasto con l’art. 25, secondo comma, Cost., il detto art. 9, nella parte in cui sanziona penalmente l’inosservanza della prescrizione prevista nell’art. 5, terzo comma, della stessa legge n. 1423 del 1956, cioè quella di “vivere onestamente, di rispettare le leggi e non dare ragione di sospetti”, violerebbe il principio di tassatività sancito, in modo implicito ma certo, dal citato art. 25 Cost., «quale corollario e completamento logico dei princìpi della riserva di legge e della irretroattività».

Il detto principio di tassatività imporrebbe la tipizzazione e la determinatezza della fattispecie di reato, affinché la condotta sanzionata penalmente possa essere sempre individuata, o, comunque, individuabile con sicurezza.

Tuttavia, l’obbligo di vivere onestamente, di rispettare le leggi e non dare ragione di sospetti, pur essendo compreso tra le prescrizioni imposte al sorvegliato speciale, costituirebbe un obbligo di carattere generale, concernente tutta la collettività, non riferibile specificamente al detto soggetto. Pertanto, proprio per la sua portata generale, l’obbligo indicato non potrebbe individuare una prescrizione a contenuto precettivo, tipico e specifico, della misura della sorveglianza speciale, onde non sarebbe possibile riconoscere con precisione la condotta idonea ad integrare il reato di violazione della sorveglianza speciale, dato il carattere vago ed indeterminato degli elementi utilizzati per la tipizzazione della fattispecie.

Infatti, andrebbe definito il concetto di “vivere onestamente” e sarebbe necessario stabilire le leggi di cui si impone il rispetto; inoltre bisognerebbe chiedersi quali siano i comportamenti idonei a generare ragioni di sospetto.

Il rimettente richiama, poi, l’ordinanza di questa Corte n. 354 del 2003 e, pur rimarcando che essa dichiarò inammissibile, per difetto di rilevanza in quella fattispecie, la questione di legittimità costituzionale della norma in questa sede censurata in riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., pone in evidenza quanto si legge in detto provvedimento, cioè che «l’art. 5 prevede – accanto a specifiche e qualificate condotte che configurano altrettanti e ben precisi “obblighi”, tutti puntualmente circoscritti nominatim dalla previsione di legge la quale evidentemente assume in parte qua valore precettivo – alcune prescrizioni di “genere”; queste ultime, riconducibili al paradigma dell’honeste vivere, sono anch’esse funzionali alla ratio essendi della sorveglianza speciale, ma non sono certo qualificabili alla stregua di specifici “obblighi” penalmente sanzionati; p aradigma, quello accennato, al quale è certamente possibile ricondurre anche la prescrizione di “non dare ragione di sospetti”, rappresentando essa null’altro che la proiezione esteriore del comportamento di chi osservi appunto il più generale precetto costituzionalmente imposto a chiunque di vivere onestamente».

Ciò posto, e riferito l’orientamento dominante nella giurisprudenza della Corte di cassazione, secondo cui l’inosservanza – da parte del sorvegliato speciale di pubblica sicurezza – delle menzionate prescrizioni integra pur sempre il reato di cui all’art. 9 della legge 1423 del 1956 (nel testo vigente), ad avviso del giudicante è inevitabile rilevare come tale norma, «nella parte in cui sanziona penalmente la violazione delle prescrizioni di cui alla prima parte del terzo comma del predetto art. 5, si ponga in evidente contrasto con l’art. 25, 2° comma, della Costituzione in quanto viola il principio costituzionale di tassatività sancito in detto articolo della Costituzione».

La questione, per le considerazioni esposte, sarebbe non manifestamente infondata e risulterebbe, altresì, rilevante, «in quanto la eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale è destinata ad incidere sulle decisioni del giudice remittente nella misura in cui porterebbe ad escludere la sussistenza del fatto di reato contestato».

3. — Sotto altro profilo, il rimettente ritiene la norma censurata in contrasto con l’art. 3 Cost. per violazione del principio di eguaglianza.

Richiamato il precetto dell’art. 9, secondo comma, della legge n. 1423 del 1956, come sostituito dall’art. 14 del d.l. n. 144 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 155 del 2005, il giudice a quo rileva che esso «tipizza come delitto la violazione della misura di sorveglianza speciale in alternativa alla previsione del 1° comma dello stesso art. 9 che invece configura come contravvenzione la semplice inosservanza degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale senza l’obbligo o il divieto di soggiorno».

Tuttavia, dal punto di vista della concreta offensività della condotta, l’inosservanza degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale presenta la stessa carica di disvalore, «a prescindere dal fatto che il sorvegliato speciale sia o meno gravato anche dall’obbligo o dal divieto di soggiorno, diversamente dal caso in cui sia invece proprio questa, e cioè la prescrizione inerente all’obbligo o al divieto di soggiorno, ad essere violata».

Per conseguenza, il più severo trattamento sanzionatorio previsto dall’art. 9, secondo comma (testo vigente), della legge n. 1423 del 1956 crea, ad avviso del giudicante, una ingiustificata disparità di trattamento tra sorvegliato speciale semplice e sorvegliato speciale con obbligo o divieto di dimora.

Infatti, la diversità del trattamento sanzionatorio andrebbe ancorata alla maggiore gravità del fatto, da valutare in relazione alla concreta offensività di esso, e non alla qualità del soggetto, sicché «va apprezzata allo stesso modo con riferimento alle prescrizioni concretamente violate a prescindere dalla previsione o meno nel provvedimento applicativo della misura della sorveglianza speciale dell’obbligo o del divieto di soggiorno; la previsione di tale obbligo o divieto non incide sulla offensività e gravità della condotta, ma serve solo a connotare diversamente il comportamento imposto al sorvegliato speciale e ad imporgli una più gravosa prescrizione che se violata può sì giustificare la configurabilità della fattispecie delittuosa prevista nel 2° comma dell’art. 9 L. 1423/1956».

4. — Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel presente giudizio di legittimità costituzionale, chiedendo che la questione sia dichiarata manifestamente infondata.

La difesa dello Stato, con riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., sostiene che la pretesa anomalia denunziata nell’ordinanza di rimessione va inquadrata «nell’ambito del noto e non infrequente fenomeno delle così dette leggi penali in bianco: espressione coniata dalla dottrina con cui si suole denominare quella legge che faccia rinvio a un atto normativo di grado inferiore, per indicare tutte le connotazioni di un fatto che la legge medesima considera penalmente illecito».

Al riguardo, l’Avvocatura richiama l’art. 650 del codice penale ed osserva che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, detta norma «non contrasta con la riserva di legge sancita dall’articolo 25, secondo comma, della Costituzione. La Corte ha in più occasioni affermato che il principio di legalità non è violato quando sia una legge dello Stato, non importa se proprio la medesima legge o un’altra legge, ad indicare con sufficiente specificazione i presupposti, i caratteri, il contenuto e i limiti del provvedimento dell’autorità non legislativa, alla cui trasgressione deve seguire la pena (sent. n. 26 del 1966 e sent. n. 62 del 1969); nel caso dell’art. 650 c. p., la materialità della contravvenzione è descritta tassativamente in tutti i suoi elementi costitutivi, spettando al giudice penale di indagare, volta per volta, se il provvedimento sia stato legittimamente emesso nell’esercizio di un potere-dovere previsto da una legge che determini con “sufficiente specificazione” le condizioni e l’ambito di applicazione del provvedimento».

Ad avviso della difesa dello Stato, lo stesso paradigma si osserva anche nella fattispecie normativa in esame, nella quale l’art. 9, secondo comma, prevede la reclusione da uno a cinque anni, ed è consentito l’arresto anche fuori dei casi di flagranza, quando l’inosservanza riguardi gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale.

Il contenuto delle prescrizioni è ricavabile con riferimento indiretto ed implicito alle misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose, dettate dall’art. 5 della stessa legge n. 1423 del 1956. Al terzo comma di detto articolo fanno riferimento le prescrizioni di «vivere onestamente, rispettare le leggi dello Stato, non dare ragione alcuna di sospetto in ordine alla propria condotta», indicate nel punto 4 del decreto del Tribunale di Bari; e, nella specie, la violazione di tali prescrizioni era stata accertata in flagrante, con riferimento a comportamenti posti in essere dal sorvegliato speciale in violazione di specifiche norme di legge dettate dall’ordinamento generale, come quelle del vigente codice della strada.

Secondo l’Avvocatura dello Stato, anche la questione sollevata con riguardo all’art. 3 Cost. sarebbe manifestamente infondata.

Infatti, un trattamento più severo per chi non osservi gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale, con obbligo o divieto di soggiorno, non può dirsi irragionevole, trattandosi di obblighi e prescrizioni relative alla misura di prevenzione più grave, irrogata a soggetto ritenuto portatore di speciale pericolosità. In proposito, è richiamata la sentenza di questa Corte n. 161 del 2009.

Considerato in diritto

1. — Il Tribunale di Trani, sezione distaccata di Andria, in composizione monocratica, dubita, in riferimento agli articoli 25, secondo comma, e 3 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’articolo 9, secondo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), come sostituito dall’articolo 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, in relazione all’art. 5, terzo comma, prima parte, della stessa legge n. 1423 del 1956.

Il rimettente premette di essere chiamato a giudicare in un procedimento penale con rito direttissimo a carico di G. D., arrestato in flagranza del reato di cui al denunziato art. 9, secondo comma, della legge n. 1423 del 1956, per avere, «quale soggetto sottoposto alla misura della sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno nel Comune di Andria, in forza del decreto n. 5/06 M. P. emesso in data 11.1.2006 dal Tribunale di Bari, violato, con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, le prescrizioni di cui al punto n. 4 del citato decreto e cioè quelle di “vivere onestamente, rispettare le leggi dello Stato e non dare ragione alcuna di sospetto in ordine alla propria condotta” e precisamente perché: 1) si poneva alla guida di un ciclomotore senza aver conseguito il previsto certificato di idoneità alla guida dei ciclomotori e senza essere munito di patente perché revocata; 2) si poneva alla guida dello stess o ciclomotore senza indossare il casco protettivo; 3) transitava nella zona battuta notoriamente da spacciatori e tossicodipendenti, così dando ragione di sospetto con la propria condotta».

Il giudice a quo aggiunge che, dopo la convalida dell’arresto, l’imputato ha formulato richiesta di giudizio abbreviato, che è stato disposto, e nell’ambito di tale giudizio il difensore ha sollevato questione di legittimità costituzionale della normativa sopra indicata, per contrasto con gli artt. 3, 25, 27 e 13 Cost.

Ciò premesso, il giudicante ritiene che la normativa censurata violi sia l’art. 25, secondo comma, sia l’art. 3 Cost., facendo emergere due profili autonomi e distinti di illegittimità costituzionale.

Con riguardo al primo profilo, il rimettente osserva che detta normativa, nella parte in cui sanziona come delitto di violazione della sorveglianza speciale l’inosservanza della prescrizione prevista dall’art. 5, terzo comma, prima parte, della legge n. 1423 del 1956 (vivere onestamente, rispettare le leggi e non dare ragione di sospetti), si pone in contrasto con il principio di tassatività, sancito in modo implicito ma certo dall’art. 25 Cost., «quale corollario e completamento logico dei princìpi della riserva di legge e della irretroattività». Il principio di tassatività «impone la determinazione e la determinatezza della fattispecie di reato affinché possa essere sempre individuata o comunque individuabile con sicurezza la condotta sanzionata penalmente». Tali caratteri mancherebbero nelle menzionate prescrizioni, che si limiterebbero a prevedere obblighi generali riguardanti tutta la collettività, sicch 33; non sarebbe possibile riconoscere con precisione la condotta idonea ad integrare il reato contestato.

Quanto al secondo profilo, il trattamento sanzionatorio ben più severo, previsto dalla norma censurata per il sorvegliato speciale con obbligo o divieto di soggiorno rispetto al sorvegliato speciale non gravato da tali obblighi, darebbe luogo ad una ingiustificata disparità di trattamento, in quanto «dal punto di vista della concreta offensività della condotta, la inosservanza degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale presenta oggettivamente la stessa carica di disvalore», nell’uno e nell’altro caso, onde sarebbe violato il principio dettato dall’art. 3 Cost.

2. — La questione, in relazione ad entrambi i profili, non è fondata, nei sensi di seguito precisati.

2.1. — Va premesso che l’art. 9 della legge n. 1423 del 1956, come oggi vigente dopo le modifiche apportate con l’art. 14 del d.l. n. 144 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 155 del 2005, dispone nel primo comma che il «contravventore agli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno»; nel secondo comma aggiunge che se «l’inosservanza riguarda gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni ed è consentito l’arresto anche fuori dei casi di flagranza».

Questa Corte, con sentenza n. 161 del 2009, dopo avere ricostruito l’evoluzione della normativa in esame (punto 3 del Considerato in diritto), ha ritenuto non irragionevole la scelta legislativa di inasprire il trattamento sanzionatorio delle condotte penalmente illecite, inerenti alla misura della sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, scelta attuata collocando nella relativa fattispecie criminosa, punita con la reclusione da uno a cinque anni, anche l’inosservanza delle prescrizioni inerenti a tale misura, disposte dal tribunale ai sensi dell’art. 5 della legge n. 1423 del 1956 e successive modificazioni. Al riguardo, si è posto in rilievo che la pur severa sanzione prevista dalla norma denunziata (peraltro con un consistente divario tra il minimo e il massimo edittale della pena, con conseguente ampia flessibilità del trattamento punitivo) concerne soggetti sottoposti ad una grave misura di prevenzi one, perché ritenuti pericolosi per la sicurezza pubblica, in relazione alla cui salvaguardia altre misure non sono state considerate idonee.

Le prescrizioni – che la persona sottoposta ad una delle misure di prevenzione previste dall’art. 3 della legge n. 1423 del 1956 deve osservare – sono determinate dal tribunale, all’esito del procedimento giurisdizionale applicativo della misura stessa, in base al citato art. 5 della medesima legge, il cui terzo comma così dispone: «In ogni caso prescrive di vivere onestamente, di rispettare le leggi, di non dare ragione di sospetti e di non allontanarsi dalla dimora senza preventivo avviso all’autorità locale di pubblica sicurezza; prescrive, altresì, di non associarsi abitualmente alle persone che hanno subìto condanne e sono sottoposte a misure di prevenzione o di sicurezza, di non rincasare la sera più tardi e di non uscire la mattina più presto di una data ora e senza comprovata necessità e, comunque, senza averne data tempestiva notizia all’autorità locale di pubblica sicurezza, di non detenere e non portare armi, di non trattenersi abitualmente nelle osterie, bettole, o in case di prostituzione e di non partecipare a pubbliche riunioni».

Come questa Corte ha già osservato, il fondamento delle misure di prevenzione è nel principio secondo cui l’ordinato e pacifico svolgimento dei rapporti sociali deve essere garantito, oltre che dal complesso di norme repressive di fatti illeciti, anche da un sistema di misure preventive contro il pericolo del loro verificarsi in avvenire, sistema che corrisponde ad una esigenza fondamentale di ogni ordinamento, accolta e riconosciuta negli artt. 13, 16 e 17 Cost. (sentenze n. 23 del 1964 e n. 27 del 1959). E le prescrizioni sopra indicate mirano appunto a garantire il detto fine di tutela preventiva, anche allo scopo di consentire l’esercizio di adeguati controlli da parte dell’autorità di pubblica sicurezza.

Ciò posto, venendo alla questione di legittimità costituzionale sollevata dal rimettente con riferimento all’art. 25, secondo comma, Cost., si deve osservare che, per costante giurisprudenza di questa Corte, per verificare il rispetto del principio di tassatività o di determinatezza della norma penale occorre non già valutare isolatamente il singolo elemento descrittivo dell’illecito, bensì collegarlo con gli altri elementi costitutivi della fattispecie e con la disciplina in cui questa s’inserisce.

In particolare, «l’inclusione nella formula descrittiva dell’illecito di espressioni sommarie, di vocaboli polisensi, ovvero di clausole generali o concetti elastici, non comporta un vulnus del parametro costituzionale evocato, quando la descrizione complessiva del fatto incriminato consenta comunque al giudice – avuto riguardo alle finalità perseguite dall’incriminazione ed al più ampio contesto ordinamentale in cui essa si colloca – di stabilire il significato di tale elemento mediante un’operazione interpretativa non esorbitante dall’ordinario compito a lui affidato: quando cioè quella descrizione consenta di esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta, sorretto da un fondamento ermeneutico controllabile; e, correlativamente, permetta al destinatario della norma di avere una percezione sufficientemente chiara ed immediata del relativo valore precettivo » (ex plurimis: sentenze n. 327 del 2008; n. 5 del 2004; n. 34 del 1995; n. 122 del 1993).

In questo quadro, la prescrizione di «vivere onestamente», se valutata in modo isolato, appare di per sé generica e suscettibile di assumere una molteplicità di significati, quindi non qualificabile come uno specifico obbligo penalmente sanzionato (ordinanza n. 354 del 2003). Tuttavia, se è collocata nel contesto di tutte le altre prescrizioni previste dal menzionato art. 5 e se si considera che è elemento di una fattispecie integrante un reato proprio, il quale può essere commesso soltanto da un soggetto già sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo o divieto di soggiorno, essa assume un contenuto più preciso, risolvendosi nel dovere imposto a quel soggetto di adeguare la propria condotta ad un sistema di vita conforme al complesso delle suddette prescrizioni, tramite le quali il dettato di «vivere onestamente» si concreta e si individualizza.

Quanto alla prescrizione di «rispettare le leggi», contrariamente all’opinione espressa dal rimettente, essa non è indeterminata ma si riferisce al dovere, imposto al prevenuto, di rispettare tutte le norme a contenuto precettivo, che impongano cioè di tenere o non tenere una certa condotta; non soltanto le norme penali, dunque, ma qualsiasi disposizione la cui inosservanza sia ulteriore indice della già accertata pericolosità sociale.

Né vale addurre che questo è un obbligo generale, riguardante tutta la collettività, perché il carattere generale dell’obbligo, da un lato, non ne rende generico il contenuto e, dall’altro, conferma la sottolineata esigenza di prescriverne il rispetto a persone nei cui confronti è stato formulato, con le garanzie proprie della giurisdizione, il suddetto giudizio di grave pericolosità sociale.

Infine, in ordine alla prescrizione di «non dare ragione di sospetti», ancora una volta essa non va considerata in modo isolato ma nel contesto delle altre prescrizioni contemplate dall’art. 5, tra cui assume particolare rilevanza, al fine di dare concretezza al dettato normativo, il divieto posto al sorvegliato speciale di non frequentare determinati luoghi o persone.

Inoltre, non è esatto ritenere che la prescrizione de qua possa esaurirsi in un mero sospetto, disancorato da qualsiasi circostanza concreta. L’applicazione di essa, invece, richiede la valutazione oggettiva di fatti, collegati alla condotta della persona, che siano idonei a rivelarne la proclività a commettere reati. La valutazione di tale idoneità, dovendo essere compiuta in concreto e con riferimento alle singole fattispecie, non può che essere demandata al competente giudice penale.

La questione di legittimità costituzionale della norma censurata, in relazione all’art. 25, secondo comma, Cost., non è dunque fondata, nei sensi fin qui esposti.

2.2. — Anche la questione di legittimità costituzionale della medesima norma, sollevata in riferimento all’art. 3 Cost., non è fondata.

Questa Corte, con sentenza n. 161 del 2009, ha già sottoposto a scrutinio detta norma, con riferimento al parametro ora citato, e ne ha escluso la difformità rispetto alla Costituzione sotto i profili denunciati.

Gli argomenti addotti in questa sede dal rimettente non consentono di modificare tale orientamento.

Invero, ad avviso del giudice a quo, sussiste una ingiustificata disparità di trattamento tra sorvegliato speciale cosiddetto “semplice” e sorvegliato speciale con obbligo o divieto di dimora. Infatti, mentre il contravventore agli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale è punito con l’arresto da tre mesi ad un anno (art. 9 citato, primo comma), se l’inosservanza riguarda gli obblighi e le prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con l’obbligo o il divieto di soggiorno, si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni ed è consentito l’arresto anche fuori dei casi di flagranza.

Tuttavia, secondo il rimettente, «dal punto di vista della concreta offensività della condotta, la inosservanza degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale presenta oggettivamente la stessa carica di disvalore a prescindere dal fatto che il sorvegliato speciale sia o meno gravato anche dall’obbligo o dal divieto di soggiorno, diversamente dal caso in cui invece sia proprio questa, e cioè la prescrizione inerente all’obbligo o al divieto di soggiorno, ad essere violata». Di qui l’ingiustificata disparità di trattamento.

Questo assunto non può essere condiviso, perché il rimettente muove da un presupposto interpretativo erroneo.

Invero, non è esatto che la condotta del sorvegliato speciale cosiddetto “semplice” e quella del sorvegliato speciale con obbligo di soggiorno in un determinato comune (come nella specie) abbiano pari carattere offensivo, e quindi pari gravità, in caso d’inosservanza agli obblighi e alle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale.

L’art. 3, terzo comma, della legge n. 1423 del 1956, e successive modificazioni, stabilisce che «Nei casi in cui le altre misure di prevenzione non sono ritenute idonee alla sicurezza pubblica può essere imposto l’obbligo di soggiorno nel comune di residenza o di dimora abituale». La stessa legge, dunque, prevede una graduazione nell’ambito delle misure di prevenzione, riservando la sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno ai casi di più accentuata pericolosità sociale, nei quali le altre misure non sono ritenute idonee; e questa maggiore pericolosità necessariamente rende più grave l’inosservanza delle prescrizioni imposte al soggetto.

Ne deriva che le due situazioni non sono omogenee, onde l’asserita violazione dell’art. 3 Cost. non è ravvisabile, dovendosi per il resto confermare la costante giurisprudenza di questa Corte, secondo cui le scelte legislative aventi ad oggetto la configurazione delle fattispecie criminose e il relativo trattamento sanzionatorio sono censurabili, in sede di costituzionalità, soltanto qualora la relativa discrezionalità sia stata esercitata in modo manifestamente irragionevole, arbitrario o radicalmente ingiustificato (ex plurimis: sentenze n. 161 del 2009, n. 324 del 2008, n. 22 del 2007, n. 394 del 2006); mentre il raffronto tra fattispecie normative, finalizzato a verificare la ragionevolezza delle scelte del legislatore, deve avere ad oggetto casistiche omogenee, risultando altrimenti improponibile la stessa comparazione (ex plurimis: sentenza n. 161 del 2009; ordinanze n. 41 del 2009, n. 71 e n. 30 del 2007).

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 9, secondo comma, della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza e per la pubblica moralità), come sostituito dall’articolo 14 del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144 (Misure urgenti per il contrasto del terrorismo internazionale), convertito, con modificazioni, dalla legge 31 luglio 2005, n. 155, sollevata, in riferimento agli articoli 25, secondo comma, e 3 della Costituzione, dal Tribunale di Trani, sezione distaccata di Andria, in composizione monocratica, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alessandro CRISCUOLO, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2010.

Il Cancelliere

F.to: MILANA


pronuncia precedente

SENTENZA N. 283

ANNO 2010

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera r), della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 7 agosto 2007, n. 20 (Disciplina delle cause di ineleggibilità e di incompatibilità con la carica di consigliere regionale, ai sensi dell’articolo 15, comma secondo, dello Statuto speciale), promosso dalla Corte di cassazione, sezione prima civile, nel procedimento vertente tra C.N. e L.T. e altri, con ordinanza del 14 settembre 2009, iscritta al n. 321 del registro ordinanze 2009 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 3, prima serie speciale, dell’anno 2010.

Visti gli atti di costituzione di C.N., di L.T., P.L., M.V. e G.B., di P.P., nonché l’atto di intervento della Regione Valle d’Aosta.

Udito nell’udienza pubblica del 22 giugno 2010 il Giudice relatore Alfonso Quaranta;

uditi gli avvocati Laura Formentin ed Enrico Lubrano per C.N., Domenico Palmas per L.T., P.L., M.V. e G.B., Roberto Longhin per P.P. e Francesco Saverio Marini per la Regione Valle d’Aosta.

Ritenuto in fatto

1.— La Corte di cassazione, sezione prima civile, con ordinanza del 14 settembre 2009, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera r), della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 7 agosto 2007, n. 20 (Disciplina delle cause di ineleggibilità e di incompatibilità con la carica di consigliere regionale, ai sensi dell’articolo 15, comma secondo, dello Statuto speciale), in riferimento agli articoli 3 e 51 della Costituzione.

L’ordinanza di rimessione è stata pronunciata nell’ambito del giudizio proposto contro la sentenza della Corte d’appello di Torino che annullava la delibera di convalida dell’elezione del Sig. C.N., adottata il 1° luglio 2008 dal Consiglio regionale della Valle d’Aosta, e dichiarava la situazione di ineleggibilità di quest’ultimo al momento della consultazione elettorale, in quanto svolgeva le funzioni di legale rappresentante di una struttura sanitaria privata che aveva stipulato una convenzione con l’Azienda regionale sanitaria della Valle d’Aosta, in ragione di accreditamento istituzionale.

Dopo aver specificato le ragioni della rilevanza nel giudizio a quo della questione, la Corte remittente, quanto alla non manifesta infondatezza della stessa, ha affermato che le disposizioni che prevedono l’ineleggibilità o l’incompatibilità a cariche elettive sono scrutinabili sotto il profilo del vaglio di ragionevolezza, dal momento che esse rispondono a specifiche e differenti finalità che non ne consentono la previsione discrezionale, o promiscua, da parte del legislatore.

L’ineleggibilità costituisce, infatti, una grave deroga al diritto di elettorato passivo tutelato dall’art. 51 Cost. e deve essere prevista in relazione a condizioni personali tassative, quali la condanna penale definitiva per determinati reati, oppure la titolarità di un ufficio o di una carica che possa determinare una captatio benevolentiae, o indurre un metus publicae potestatis.

Diversamente, l’incompatibilità sottende un conflitto di interessi o, quanto meno, un giudizio di inopportunità in ordine all’esercizio contemporaneo della carica elettiva e di altra, privata o pubblica, ricoperta dal candidato. In presenza di una causa di incompatibilità non si produce l’invalidità dell’elezione, ma l’eletto è chiamato ad effettuare l’opzione nei termini previsti dalla legge.

Il giudice a quo ricorda, quindi, come la Corte costituzionale abbia più volte affermato che le cause di ineleggibilità sono di stretta interpretazione e devono essere volte alla soddisfazione di effettive esigenze di pubblico interesse (sono richiamate le sentenze n. 25 del 2008, n. 306 del 2003, n. 53 del 1990).

L’articolo 51 Cost., infatti, stabilisce come regola l’eleggibilità e solo come eccezione l’ineleggibilità (è richiamata, «per affinità di oggetto», la sentenza n. 27 del 2009).

Ad avviso della Corte di cassazione, peculiare rilievo assumerebbe la sentenza di questa Corte n. 25 del 2008, che ha riguardato altra disposizione contenuta nella legge regionale n. 20 del 2007, e, segnatamente, nell’art. 2, commi 1, lettera s), e 2, lettera e).

Il remittente ritiene di non poter procedere ad un’interpretazione adeguatrice della norma censurata e che, quindi, la stessa debba essere sottoposta al vaglio di legittimità costituzionale sul seguente punto: «se la qualità di legale rappresentante di una struttura socio-sanitaria privata, che intrattenga rapporti contrattuali con l’Azienda USL regionale giustifichi la deroga assoluta al diritto di elettorato passivo, sotto forma di causa di ineleggibilità non rimovibile ex post».

Infine la Corte di cassazione osserva che gli argomenti addotti dai difensori delle parti resistenti, quali le dimensioni limitate della Regione e gli effetti sulla libertà di voto, non possono essere presi in esame dalla stessa in quanto esorbitano dalla valutazione della non manifesta infondatezza.

2.— In data 5 gennaio 2010, si è costituito il Sig. P.P., primo dei non eletti subentrato al Sig. C.N. e controricorrente nel giudizio principale, ed ha chiesto di dichiarare inammissibile – tenuto conto della discrezionalità del legislatore – o, comunque, non fondata, la questione in esame.

In primo luogo, la suddetta parte privata ha dedotto che il diritto di elettorato passivo non è un diritto incondizionato.

La disposizione censurata ravvisa una condizione di ineleggibilità nella qualità di legale rappresentante di una struttura sanitaria privata convenzionata con l’USL con la quale intrattiene rapporti contrattuali. Ed infatti, da un lato, sarebbe evidente il possibile conflitto di interessi; dall’altro, sarebbe parimenti evidente la posizione di potere – specie in una piccola realtà qual’é quella valdostana – che può consentire al suddetto soggetto di influire sull’esito del voto, potendo esercitare una indebita influenza distorsiva e condizionante sulle libere scelte degli elettori.

Non sarebbe leso, pertanto, né il principio di ragionevolezza, né l’art. 51 Cost., tenuto conto del bilanciamento di interessi sotteso alla previsione in questione. Non appare irragionevole, infatti, la preoccupazione che possa essere influenzata la scelta dell’elettore, con un eventuale pericolo per la deformazione del risultato elettorale.

La qualità soggettiva del legale rappresentante di una struttura sanitaria privata che operi contrattualmente con l’unica USL della Regione Valle d’Aosta, presa in considerazione dal legislatore regionale, si collocherebbe, in una posizione di interferenza e di conflitto potenziale tale da rendere necessario disciplinare come “ineleggibilità”, in senso tecnico, la fattispecie di cui alla lettera r) in esame, proprio a tutela dei principi di imparzialità e di buon andamento dell’amministrazione.

La difesa della parte privata rileva che analoga previsione è presente nell’art. 60 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) e che anche altre Regioni a statuto speciale e Province autonome hanno analoghe previsioni.

In proposito sono richiamati, in particolare:

a) l’art. 10 della legge della Regione Siciliana 20 marzo 1951, n. 29 (Elezione dei deputati dell’Assemblea regionale siciliana), come sostituito dall’art. 1, comma 3, della legge della Regione Siciliana 5 dicembre 2007, n. 22 (Norme in materia di ineleggibilità e di incompatibilità dei deputati regionali);

b) l’art. 2 della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 29 luglio 2004, n. 21 (Determinazione dei casi di ineleggibilità e incompatibilità relativi alla carica di consigliere regionale e di membro della Giunta regionale, ai sensi dell’articolo 12, secondo comma, dello Statuto);

c) l’art. 12 della legge della Provincia autonoma di Trento 30 novembre 1994, n. 3 (Elezione diretta del sindaco e modifica del sistema di elezione dei consigli comunali nonché modifiche alla legge regionale 4 gennaio 1993, n. 1).

Infine, è richiamata la sentenza di questa Corte n. 27 del 2009.

3.— Lo stesso 5 gennaio 2010, si è costituita la Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, chiedendo che la questione di costituzionalità sia dichiarata inammissibile oppure non fondata, e riservando le deduzioni difensive a successiva memoria.

4.— In data 5 febbraio 2010, si è costituito il Sig. C.N., che ha chiesto di accogliere la questione sottoposta all’esame della Corte.

Ad avviso della parte privata la norma censurata sarebbe del tutto irragionevole.

L’art. 51 Cost. prevede il libero accesso di tutti i cittadini alle cariche elettive, mentre l’ineleggibilità costituisce una «situazione limite».

Tradizionalmente, il legislatore ha ritenuto di ricollegare la previsione di cause di ineleggibilità a particolari condizioni personali o alla titolarità di uffici o cariche che la legge ritenga possano determinare il rischio di un’indebita influenza distorsiva sulle libere scelte degli elettori.

In tal senso, è richiamato l’art. 2, comma 1, lettera a), della legge 2 luglio 2004, n. 165 (Disposizioni di attuazione dell’articolo 122, primo comma, della Costituzione).

La parte privata ricorda, quindi, che l’art. 51 Cost. sottende un bilanciamento di interessi tra il diritto elettorale passivo e la tutela delle cariche pubbliche, che deve essere operato tenuto conto che le cause di ineleggibilità sono di stretta interpretazione e volte a soddisfare esigenze di pubblico interesse.

Diversamente, la ratio delle cause di incompatibilità va ravvisata nella inconciliabilità tra la cura dell’interesse dell’ente ed il diverso, potenzialmente contrastante, interesse dell’eletto, ragione per la quale l’eletto è chiamato a scegliere tra le due cariche.

Le differenze tra i due istituti non possono essere ignorate dal legislatore, né questi ultimi possono essere accomunati senza violare l’art. 3 Cost.

Ne deriva, ad avviso della difesa del Sig. C.N., che l’utilizzo di una causa di ineleggibilità o di incompatibilità per il perseguimento di un fine diverso dalla rispettiva ratio ispiratrice non può ritenersi costituzionalmente legittimo, poiché introduce una limitazione non giustificata del diritto di elettorato passivo, e determina la violazione del principio di eguaglianza.

Sono, quindi, richiamate, in particolare, alcune sentenze di questa Corte che hanno operato una distinzione tra i casi in cui il legislatore può stabilire rispettivamente una causa di ineleggibilità ovvero di incompatibilità.

5.— Il 9 febbraio 2010 si sono costituiti i Signori L.T., P.L., M.V. e G.B. altri controricorrenti nel giudizio principale, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata.

L’inammissibilità della questione viene argomentata sul rilievo secondo cui l’ordinanza di rimessione pur invocando, quali parametri che si assumono lesi dalla norma impugnata gli artt. 3 e 51 Cost., non illustra con chiarezza le ragione della asserita violazione.

Nel merito, si deduce che la norma censurata è conforme ai principi enunciati dalla Corte costituzionale, secondo i quali le norme che stabiliscono fattispecie di ineleggibilità devono avere portata generale ed astratta e devono essere formulate in termini precisi e chiari.

La norma in esame risponde, altresì, al principio di ragionevolezza, in quanto la volontà del legislatore valdostano non è stata quella di evitare una situazione di conflitto di interessi, ma è stata quella di evitare una potenziale alterazione della competizione elettorale.

Mentre, infatti, per i legali rappresentanti e per i direttori, quindi per i ruoli apicali, delle strutture sanitarie private è prevista l’ineleggibilità, per altre figure – sempre comprese nelle strutture sanitarie private che intrattengono rapporti contrattuali con l’Azienda USL, ma non in ruoli apicali, quali i dirigenti sanitari – è prevista l’incompatibilità.

Il legislatore valdostano – come si evince, altresì, dai lavori preparatori della normativa in oggetto – mostra, quindi, di avere ben chiara la. differenza tra il ruolo delle figure apicali ed il ruolo di chi, pur svolgendo funzioni dirigenziali nell’ambito della struttura sanitaria privata, non può determinarne gli indirizzi complessivi. Conseguentemente, ha ben distinto la posizione dei primi, prevedendo per essi un caso di ineleggibilità, da quella dei secondi, prevedendo per essi un’ipotesi di incompatibilità.

Si ricorda, inoltre, da un lato, che la norma impugnata ricalca la previsione dell’art. 2, comma 1, n. 9, della legge 23 aprile 1981, n. 154 (Norme in materia di ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche di consigliere regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale e in materia di incompatibilità degli addetti al Servizio sanitario nazionale); dall’altro, che l’art. 60, comma 1, n. 9, del d.lgs. n. 267 del 2000 – dopo la sentenza di questa Corte n. 27 del 2009 – contiene una previsione sostanzialmente uguale a quella contenuta nella legge regionale valdostana.

La norma impugnata, sempre sotto il profilo della ragionevolezza, è stata adottata tenendo conto – in armonia con quanto previsto dall’art. 2, comma 1, lettera a), della legge n. 165 del 2004 – delle peculiarità della Regione.

La Valle d’Aosta «è una Regione di 120.000 abitanti, nella quale accanto alla Azienda regionale USL, unica struttura sanitaria pubblica presente, totalmente finanziata dalla Regione, vi sono poche strutture sanitarie private, che operano quasi esclusivamente in rapporto contrattuale con l’Azienda regionale USL». Il legislatore regionale, ben consapevole di tale situazione, ha quindi ragionevolmente previsto la ineleggibilità di chi ricopra le cariche di vertice nelle strutture sanitarie private in questione.

6.— La Regione Valle d’Aosta ha depositato una memoria, in data 31 maggio 2010, con la quale ha esposto le proprie argomentazioni.

In primo luogo, la difesa regionale ritiene che l’ordinanza di remissione sia carente, in quanto non offre adeguate motivazioni in ordine alla assunta violazione degli artt. 3 e 51 Cost. Non sarebbe quindi rispettato, dando luogo ad inammissibilità, il principio di autosufficienza dell’atto con cui viene sollevata questione di legittimità costituzionale.

In secondo luogo, la questione si paleserebbe inammissibile anche in quanto si chiede alla Corte costituzionale una pronuncia additiva non a rime obbligate.

Nel merito la questione sarebbe non fondata per le seguenti ragioni: a) la discrezionalità della Regione Valle d’Aosta nel disciplinare le cause di ineleggibilità ed incompatibilità dei consiglieri regionali, come è dato evincere dall’art. 15 dello statuto di autonomia; b) la ragionevolezza della norma, tenuto conto, altresì, che i poteri spettanti al direttore e al legale rappresentante di una struttura sanitaria privata, contrattualmente legata alla ASL, possono essere assimilati a quelli esercitati dagli organi apicali di quest’ultima.

Infine la Regione Valle d’Aosta ritiene che il richiamo effettuato nell’ordinanza di remissione alle sentenze n. 27 del 2009 e n. 25 del 2008 di questa Corte sia inconferente.

7.— In data 1° giugno 2010 anche i controricorrenti L.T. e altri hanno depositato una memoria, insistendo nelle conclusioni già rassegnate e contrastando le argomentazioni difensive svolte da C.N.

Considerato in diritto

1.— La Corte di cassazione, sezione prima civile, con ordinanza del 14 settembre 2009, ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera r), della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 7 agosto 2007, n. 20 (Disciplina delle cause di ineleggibilità e di incompatibilità con la carica di consigliere regionale, ai sensi dell’articolo 15, comma secondo, dello Statuto speciale), in riferimento agli articoli 3 e 51 della Costituzione.

2.— La disposizione impugnata stabilisce che non sono eleggibili alla carica di consigliere regionale, tra gli altri, «il legale rappresentante e i direttori di struttura sanitaria o socio-sanitaria privata che intrattenga rapporti contrattuali con l’Azienda regionale Usl della Valle d’Aosta».

Tale causa di ineleggibilità, come sancito dal successivo art. 3, comma 1, della medesima legge regionale, non ha effetto «se l’interessato cessa dalle funzioni per dimissioni, trasferimento, revoca dell’incarico o del comando, collocamento in aspettativa non retribuita, non oltre sei mesi dalla data di scadenza naturale della legislatura».

Diversamente, l’art. 8, comma 4, della medesima legge stabilisce che in presenza di una delle cause di incompatibilità disciplinate dal precedente art. 5, l’eletto al Consiglio regionale deve dichiarare, entro otto giorni dalla data di convalida delle elezioni, quale carica presceglie.

3.— In punto di fatto, la vicenda che ha dato origine alla questione attiene alla partecipazione alla elezione per il rinnovo del Consiglio regionale della Valle d’Aosta del legale rappresentante di una struttura privata che aveva stipulato una convenzione con l’unica Azienda sanitaria locale della Regione, in ragione di accreditamento istituzionale.

L’ordinanza di rimessione è stata pronunciata nell’ambito del giudizio vertente sul ricorso proposto dall’interessato, Sig. C.N., eletto al Consiglio regionale, contro la sentenza della Corte d’Appello di Torino del 19 settembre 2008, n. 1258, che ha annullato la delibera adottata dal Consiglio regionale di convalida della sua elezione, sul presupposto della ineleggibilità in cui egli si trovava al momento della competizione elettorale.

3.1.— Il 5 gennaio 2010, si è costituito il primo dei non eletti, il Sig. P.P. (subentrato al soggetto dichiarato decaduto) controricorrente nel giudizio principale, che ha chiesto che sia dichiarata inammissibile – in ragione della discrezionalità del legislatore – o, comunque, non fondata la questione in esame.

La suddetta parte privata ha dedotto che il diritto di elettorato passivo non è incondizionato. Nella specie, non sarebbero lesi né il principio di ragionevolezza, né l’art. 51 Cost., tenuto conto del bilanciamento di interessi sotteso alla previsione normativa in questione.

3.2.— Lo stesso 5 gennaio 2010, si è costituita in giudizio la Regione Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata, riservando le deduzioni difensive a successiva memoria.

3.3.— In data 5 febbraio 2010, si è costituito C.N., ricorrente nel giudizio a quo, il quale ha chiesto l’accoglimento della questione.

A suo avviso, infatti, la norma censurata sarebbe irragionevole, in rapporto a quanto prescritto dall’art. 51 Cost., il quale prevede il libero accesso di tutti i cittadini alle cariche elettive, mentre l’ineleggibilità costituisce soltanto una «situazione limite» e le norme che prevedono cause di ineleggibilità sono di stretta interpretazione.

Al contrario, la ratio delle cause di incompatibilità deve essere ravvisata nella inconciliabilità tra la cura dell’interesse dell’organo elettivo ed il diverso, potenzialmente contrastante, interesse dell’eletto, ragione per cui quest’ultimo è chiamato ad una scelta tra le due cariche.

Le differenze tra i due istituti, a giudizio dell’interessato, non possono essere ignorate dal legislatore, né è possibile accomunare gli stessi senza violare l’art. 3 Cost.

3.4.— Il successivo 9 febbraio 2010 si sono costituiti i Signori L.T., P.L., M.V. e G.B., parti resistenti nel giudizio principale, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata.

L’inammissibilità della questione, viene eccepita sul rilievo secondo cui l’ordinanza di rimessione, pur invocando, quali parametri che si assumono lesi dalla norma impugnata gli artt. 3 e 51 Cost., non illustrerebbe con chiarezza le ragioni della asserita violazione.

Nel merito, si deduce, tra l’altro, che la norma censurata sarebbe conforme ai principi enunciati da questa Corte, secondo i quali le norme che stabiliscono fattispecie di ineleggibilità devono avere portata generale ed astratta e devono essere formulate in termini precisi e chiari.

3.5.— In prossimità dell’udienza pubblica, il 31 maggio 2010, la Regione Valle d’Aosta ha depositato una memoria con la quale ha esposto dettagliatamente le proprie difese.

La difesa regionale ritiene che la questione sia inammissibile, da un lato, in quanto l’ordinanza di remissione non sarebbe adeguatamente motivata in ordine alla dedotta violazione degli artt. 3 e 51 Cost.; dall’altro, in quanto si chiederebbe a questa Corte una pronuncia additiva non a rime obbligate.

Nel merito, la questione sarebbe non fondata sia per la dicrezionalità attribuita, in materia, al legislatore valdostano, sia per la ragionevolezza della norma censurata.

3.6.— Anche i Signori L.T. e altri hanno depositato memoria, il 1° giugno 2010, insistendo nelle conclusioni già rassegnate e contrastando le argomentazioni difensive svolte dal soggetto dichiarato decaduto dalla conseguita elezione.

4.— Ciò premesso, va osservato che, ad avviso della Corte remittente, la norma in esame violerebbe gli artt. 3 e 51 Cost., in quanto si prevede un’ipotesi di ineleggibilità, in presenza della quale è sancita la decadenza dell’eletto e non già l’esercizio del diritto di opzione da parte di questi tra le due cariche, come stabilito con riferimento alla sussistenza di cause di incompatibilità.

Di conseguenza, il remittente chiede a questa Corte di valutare «se la qualità di legale rappresentante di una struttura socio-sanitaria privata che intrattenga rapporti contrattuali con l’Azienda USL regionale giustifichi la deroga assoluta al diritto di elettorato passivo, sotto forma di causa di ineleggibilità non rimuovibile ex post», rilevando, in sostanza che la disposizione censurata violerebbe i suindicati parametri costituzionali.

5.— In via preliminare, deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità della questione sollevata dalle parti private resistenti sotto il profilo secondo cui il giudice a quo, pur invocando − quali parametri che si assumono violati − gli artt. 3 e 51 Cost., non illustrerebbe con chiarezza le ragioni della asserita violazione.

Contrariamente a tale assunto, deve, infatti, rilevarsi che l’ordinanza della Corte di cassazione indica in modo adeguatamente specifico le ragioni relative sia alla rilevanza, sia alla non manifesta infondatezza della questione di costituzionalità sollevata.

6.— Ancora in via preliminare, deve essere esaminata l’eccezione di inammissibilità proposta dalla difesa della Regione, e da quella del resistente Sig. P.P., sotto il profilo che, nella specie, sarebbe stata richiesta una non consentita pronuncia additiva, come si desumerebbe, in primo luogo, dal fatto che la Corte di cassazione afferma che «la questione si pone per contrasto con gli articoli 3 e 51 della Costituzione, nella parte in cui la norma in questione commina l’ineleggibilità nei confronti del legale rappresentante e dei direttori di struttura sanitaria o socio-sanitaria privata che intrattenga rapporti contrattuali con l’Azienda regionale USL della Valle d’Aosta – rimuovibile, ai sensi dell’art. 3 della medesima legge, non oltre sei mesi dalla data di scadenza della legislatura – anziché stabilire una causa di incompatibilità, sanabile con l’opzione da effettuare entro otto gi orni dalla data di convalida dell’elezione, ai sensi dell’art. 8, quarto comma, della stessa legge». A ciò va aggiunto che, nel dispositivo dell’ordinanza di rimessione, la medesima Corte ha chiesto la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 2, comma 1, lettera r), della legge regionale in esame, per contrasto, «nei sensi di cui in motivazione», con gli artt. 3 e 51 della Costituzione.

L’eccezione non è fondata.

Il giudice a quo, in effetti, non chiede un intervento di questa Corte che possa ritenersi manipolativo della norma impugnata, in quanto viene prospettato soltanto che vi sarebbe stata una erronea valutazione, da parte del legislatore valdostano, circa la natura della situazione in cui versa il legale rappresentante di una struttura sanitaria privata convenzionata con il servizio regionale di sanità.

Il predetto legislatore erroneamente avrebbe qualificato come causa di ineleggibilità quella che, a dire del remittente, sarebbe, invece, sostanzialmente, una causa di incompatibilità. E dalla più esatta qualificazione giuridica di tale situazione deriverebbero, secondo l’impostazione dell’ordinanza di rimessione, conseguenze previste dalla normativa regionale attinente al procedimento elettorale per il rinnovo del Consiglio regionale, nel senso che, dopo la sua elezione, l’interessato dovrebbe soltanto optare tra il mantenimento della carica di legale rappresentante della struttura sanitaria e quella di consigliere regionale.

D’altronde, in numerose fattispecie (sentenze n. 129 del 1975, n. 45 del 1977, n. 129 del 1977, n. 171 del 1984, n. 450 del 2000) questa Corte ha riconosciuto l’illegittimità costituzionale di disposizioni che avevano previsto come cause di ineleggibilità situazioni integranti, invece, vere e proprie cause di incompatibilità, senza alcuna preliminare rilevanza della eventuale estraneità di tali pronunce al potere decisorio della Corte, sotto il profilo secondo cui sarebbero state richieste sentenze additive di tipo manipolativo, non consentite in sede di giudizio di costituzionalità.

Questa Corte ha, dunque, affermato, in rapporto a specifiche fattispecie sottoposte al suo esame, che determinate situazioni, qualificate dalla legge come cause di ineleggibilità, debbano essere ridotte, invece, a situazioni di incompatibilità attraverso la declaratoria di illegittimità costituzionale di norme che abbiano, viceversa, disposto la decadenza dell’eletto, in luogo della eliminazione ex post del contrasto di interessi mediante l’opzione da parte dell’interessato tra le due cariche, da effettuare in un termine breve.

7.— Nel merito, la questione non è fondata.

Al riguardo, va premesso che costituisce principio costantemente affermato dalla giurisprudenza costituzionale quello secondo cui la eleggibilità costituisce la regola, mentre la ineleggibilità rappresenta una eccezione; sicché le norme che disciplinano quest’ultima sono di stretta interpretazione.

Analogamente è a dirsi per le cause di incompatibilità. Le une e le altre, in definitiva, introducono limitazioni al diritto di elettorato passivo.

Diverse, però, sono le ragioni giustificative dei due istituti.

La differenza tra ineleggibilità e incompatibilità è data dal fatto che la prima situazione è idonea a provocare effetti distorsivi nella parità di condizioni tra i vari candidati nel senso che – avvalendosi della particolare situazione in cui versa il soggetto «non eleggibile» – egli può variamente influenzare a suo favore il corpo elettorale. La seconda, invece, è una situazione che non ha riflessi nella parità di condizioni tra i candidati, ma attiene alla concreta possibilità, per l’eletto, di esercitare pienamente le funzioni connesse alla carica anche per motivi concernenti il conflitto di interessi nel quale il soggetto verrebbe a trovarsi se fosse eletto. Di qui la conseguenza che il soggetto ineleggibile deve eliminare ex ante la situazione di ineleggibilità nella quale versa, mentre il soggetto soltanto incompatibile deve optare, ex post, cioè ad elezione avvenuta, tra il mante nimento della precedente carica e il munus pubblico derivante dalla conseguita elezione.

8.— Tanto premesso, è anche opportuno delineare, sia pure in sintesi, la ricostruzione del quadro normativo, statale e regionale, in cui si inserisce la norma impugnata.

Se, infatti, da un lato, come questa Corte ha già avuto modo di affermare, il principio di ragionevolezza opera con particolare rigore nella materia elettorale (sentenza n. 376 del 2004), dall’altro, non di meno, occorre ricordare che, in primo luogo, sussiste un’esigenza di tendenziale uniformità sul piano nazionale della disciplina dell’elettorato passivo (così la citata sentenza), e, in secondo luogo, che la costante giurisprudenza costituzionale ha subordinato la possibilità di introdurre discipline regionali differenziate, rispetto a quella nazionale, solo in presenza di particolari situazioni ambientali che giustifichino normative autonome (da ultimo, sentenza n. 143 del 2010).

Tali discipline, pertanto, possono considerarsi legittime, sul piano costituzionale, solo se trovano ragionevole fondamento in situazioni idonee a giustificare il peculiare trattamento riconosciuto dalle relative disposizioni (citata sentenza n. 143 del 2010).

9.— Punto di partenza dell’indagine è la considerazione che, con riferimento alla legislazione statale in materia elettorale, non è senza significato che si rinvengano disposizioni analoghe a quella ora censurata.

Assume, in tal senso, rilievo quanto disposto dall’art. 2, comma 1, numero 9, della legge 23 aprile 1981, n. 154 (Norme in materia di ineleggibilità ed incompatibilità alle cariche di consigliere regionale, provinciale, comunale e circoscrizionale e in materia di incompatibilità degli addetti al Servizio sanitario nazionale) che – pur essendo stata abrogata dall’art. 274, comma 1, lettera l), del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali) – continua ad essere operante, per espressa disposizione della norma abrogatrice, per le elezioni regionali.

Il citato articolo 2, comma 1, numero 9, prevede che non sono eleggibili alle suddette cariche i legali rappresentanti ed i dirigenti delle strutture convenzionate con gli enti locali il cui territorio coincide con quello dell’unità sanitaria locale con cui sono convenzionate o lo ricomprende o degli enti che concorrono a costituire la stessa unità sanitaria locale.

Detta norma è stata sottoposta al vaglio di questa Corte, la quale (sentenza n. 510 del 1989) ha riconosciuto la «ragionevolezza della disposizione, di cui al n. 8 dell’art. 2 della legge impugnata, che limita l’ineleggibilità a coloro che rivestono uffici direttivi nelle U.S.L., in quanto, avvalendosi del prestigio e delle occasioni inerenti alla loro posizione, hanno la possibilità di condizionare istituzionalmente il voto di settori significativi dell’elettorato. Ed è evidente che alla base della disposizione contenuta nel successivo n. 9 dello stesso art. 2 è la medesima ratio, in quanto il dirigente delle strutture convenzionate viene a trovarsi in una uguale posizione di prestigio rispetto agli assistiti».

La successiva legislazione speciale sanitaria, contenuta nel decreto legislativo 30 dicembre 1992, n. 502 (Riordino della disciplina in materia sanitaria a norma dell’articolo 1 della legge 23 ottobre 1992, n. 421) e successive modifiche, ha confermato che versano in situazione di ineleggibilità «a membro dei consigli comunali, dei consigli provinciali, dei consigli e assemblee delle Regioni e del Parlamento, salvo che le funzioni esercitate non siano cessate almeno centottanta giorni prima della data di scadenza dei periodi di durata dei predetti organi», il direttore generale, i direttori amministrativi e i direttori sanitari (art. 3, comma 9).

Infine, il d.lgs. n. 267 del 2000 (art. 60, comma 1, numeri 8 e 9), in tema di elezioni comunali e provinciali, ha disposto la non eleggibilità a sindaco, presidente della provincia, consigliere comunale, provinciale e circoscrizionale, da un lato, del direttore generale, del direttore amministrativo e del direttore sanitario delle Aziende sanitarie locali e ospedaliere; dall’altro, dei «legali rappresentanti» e dei dirigenti delle strutture convenzionate per i consigli dei comuni, il cui territorio coincide con il territorio dell’unità sanitaria locale con cui sono convenzionate o lo ricomprende o dei comuni che concorrono a costituire la medesima unità sanitaria locale.

10.— Alla luce della suindicata ricognizione normativa, l’ineleggibilità dei vertici delle Aziende sanitarie locali e delle strutture sanitarie private che operano in regime di convenzione o di accreditamento, costituisce un dato di sistema della legislazione statale e configura, dunque, un principio generale dell’ordinamento giuridico elettorale, il quale tiene conto e attribuisce rilievo, da una parte, al ruolo della Regione in tema di servizi sanitari, e, dall’altra, al parallelismo esistente tra le suddette cariche operanti in modo analogo nelle strutture sia pubbliche che private (sentenza n. 27 del 2009).

D’altronde, questa Corte, con specifico riferimento alla potestà legislativa esclusiva di una Regione a statuto speciale (quella Siciliana), proprio in tema di ineleggibilità ed incompatibilità, ha in più occasioni affermato che «la disciplina regionale d’accesso alle cariche elettive deve essere strettamente conforme ai principi della legislazione statale, a causa della esigenza di uniformità in tutto il territorio nazionale discendente dalla identità di interessi che Comuni e Province rappresentano riguardo alle rispettive comunità locali, quale che sia la Regione di appartenenza» (così la sentenza n. 288 del 2007, che ha richiamato le sentenze n. 235 del 1988, n. 20 del 1985, n. 171 del 1984, n. 26 del 1965 e n. 105 del 1957). Nondimeno, con la stessa sentenza n. 288 del 2007 sopra citata, la Corte ha richiamato anche il proprio orientamento secondo cui discipline legislative differenziate possono essere ammissibili, ma solo «in presenza di situazioni concernenti categorie di soggetti, le quali siano esclusive» per le Regioni a statuto speciale, «ovvero si presentino diverse, messe a raffronto con quelle proprie delle stesse categorie di soggetti nel restante territorio nazionale ed in ogni caso per motivi adeguati e ragionevoli, e finalizzati alla tutela di un interesse generale». Evenienza questa che non può ritenersi sussistente nel presente giudizio di costituzionalità, che riguarda la legislazione elettorale della Valle d’Aosta e, in particolare, la disciplina della ineleggibilità alla carica di consigliere regionale.

11.— Sotto altro, non meno importante, aspetto assumono rilievo nella materia in questione anche ulteriori disposizioni contenute nella stessa legge regionale della Valle d’Aosta n. 20 del 2007.

Come questa Corte ha precisato nella sentenza n. 25 del 2008, le disposizioni di cui si tratta, contenute nella citata legge, sono state adottate dalla predetta Regione in applicazione dell’art. 15 del vigente statuto speciale approvato con la legge costituzionale 31 gennaio 2001, n. 2 (Disposizioni concernenti l’elezione diretta dei presidenti delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e di Bolzano) e successive modifiche.

Ai sensi di tale disposizione statutaria, sussiste, infatti, la potestà legislativa primaria della Regione in materia di ineleggibilità e di incompatibilità alla carica di consigliere regionale; competenza che deve essere esercitata, tuttavia, in armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica, nonché in conformità con quanto previsto dallo statuto stesso.

Ciò premesso, occorre ricordare come l’originaria Unità sanitaria locale della Valle d’Aosta sia stata trasformata in Azienda dalla legge regionale 8 giugno 1994, n. 24 (Trasformazione in Azienda regionale dell’Unità sanitaria locale della Valle d’Aosta: organi di gestione) e come, successivamente, essa sia stata denominata «Azienda regionale sanitaria USL della Valle d’Aosta» dall’art. 9, comma 3, della legge 25 gennaio 2000, n. 5 (Norme per la razionalizzazione dell’organizzazione del Servizio socio-sanitario regionale e per il miglioramento della qualità e dell’appropriatezza delle prestazioni sanitarie, socio-sanitarie e socio-assistenziali prodotte ed erogate nella Regione).

Tale Azienda sanitaria ha competenza sull’intero territorio della Regione ed è dotata di personalità giuridica pubblica, oltre che di autonomia imprenditoriale (art. 9, comma 3, citata legge reg. n. 5 del 2000).

Sempre la legge ora citata, all’art. 13, commi 2 e 3, stabilisce che al direttore generale dell’azienda si applicano le cause di ineleggibilità e di incompatibilità previste dalle vigenti disposizioni statali. Le medesime disposizioni si applicano anche al direttore amministrativo e al direttore sanitario dell’azienda stessa.

La disciplina regionale sopra citata non si discosta, dunque, da quanto previsto dal richiamato art. 3, comma 9, del d.lgs. n. 502 del 1992.

La legislazione regionale stabilisce, altresì, che, qualora il direttore generale, il direttore amministrativo e il direttore sanitario dell’Azienda sanitaria regionale della Valle d’Aosta si siano candidati e non siano stati eletti, non possono esercitare le loro funzioni nella suddetta Azienda per un periodo di cinque anni, decorrenti dalla data di svolgimento delle elezioni (art. 4 della legge reg. n. 20 del 2007), analogamente a quanto previsto dal suddetto art. 3, comma 9, del citato d.lgs. n. 502 del 1992.

Diversamente da quanto sopra previsto, il dirigente dell’area sanitaria della medesima Azienda sanitaria regionale (art. 30 della legge reg. n. 5 del 2000) e il dirigente sanitario di struttura sanitaria o socio-sanitaria privata che intrattenga rapporti contrattuali con l’azienda stessa, versano in situazione di incompatibilità con la carica di consigliere regionale (art. 5, comma 1, lettera p, della legge reg. n. 20 del 2007).

Dal suddetto quadro della legislazione della Regione valdostana, si ricava che sia per le posizioni apicali dell’unica Azienda sanitaria regionale ivi esistente, sia per quelle delle strutture sanitarie o socio-sanitarie private in regime di accreditamento con tale azienda, vige il medesimo regime di ineleggibilità alla carica di consigliere regionale. Diversamente, per le figure professionali intermedie è sancita soltanto l’incompatibilità, rimuovibile ex post nel termine stabilito dal già citato art. 8, comma 4, della legge reg. n. 20 del 2007.

Si deve osservare, inoltre, come lo stesso art. 2 della medesima legge ora citata, alle lettere n), o), p), e q), preveda numerose altre ipotesi nelle quali la situazione di soggetti che abbiano la “legale rappresentanza”, tra l’altro, di enti pubblici non economici, agenzie, aziende dipendenti dalla Regione o partecipate dalla stessa, integra una causa di ineleggibilità rimuovibile soltanto prima delle elezioni e non già una causa di incompatibilità sottoposta, come si è precisato, ad un diverso regime giuridico.

12.— Alle considerazioni che precedono va aggiunto che in altre Regioni a statuto speciale e nella Provincia autonoma di Trento, sono previste analoghe ipotesi di ineleggibilità a componenti dei consigli e delle assemblee elettive.

In particolare, la legge della Regione Siciliana 20 marzo 1951, n. 29 (Elezione dei deputati dell’Assemblea regionale siciliana), all’art. 8, comma 1, lettera l), come sostituito dall’art. 1 della legge regionale 5 dicembre 2007, n. 22 (Norme in materia di ineleggibilità e di incompatibilità dei deputati regionali), stabilisce l’ineleggibilità a deputato regionale dei direttori generali, dei direttori amministrativi e dei direttori sanitari delle aziende unità sanitarie locali, delle aziende ospedaliere e delle aziende policlinico universitarie esistenti nel territorio della Regione, nonché degli amministratori straordinari delle suddette aziende. Al successivo art. 10, comma 1, lettera g) – anch’esso sostituito dalla legge reg. n. 22 del 2007 – la stessa legge reg. n. 29 del 1951 prevede che non sono, del pari, eleggibili «i legali rappresentanti ed i dirigenti delle strutture convenzionate c on la Regione, di cui agli artt. 43 e 44 della legge 23 dicembre 1978, n. 833».

Identica disposizione si rinviene poi nell’art. 2, comma 1, lettera l), della legge della Regione Friuli-Venezia Giulia 29 luglio 2004, n. 21 (Determinazione dei casi di ineleggibilità e incompatibilità relativi alla carica di consigliere regionale e di membro della Giunta regionale, ai sensi dell’articolo 12, secondo comma, dello Statuto).

A sua volta, l’art. 12, comma 1, lettera i), della legge della Provincia autonoma di Trento 30 novembre 1994, n. 3 (Elezione diretta del sindaco e modifica del sistema di elezione dei consigli comunali nonché modifiche alla legge regionale 4 gennaio 1993, n.1), prevede che non sono eleggibili a consigliere comunale «i legali rappresentanti ed i dirigenti delle strutture convenzionate con il Servizio sanitario provinciale».

13.— Pur riguardando la questione ora oggetto di controversia una Regione a statuto speciale, occorre ricordare che, quanto alle Regioni a statuto ordinario, la legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1 (Disposizioni concernenti l’elezione diretta del Presidente della Giunta regionale e l’autonomia statutaria delle Regioni), ha modificato l’art. 122 Cost., prevedendo che «i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale, nonché dei consiglieri regionali sono disciplinati con legge della Regione nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, che stabilisce anche la durata degli organi elettivi» (sentenza n. 2 del 2004).

In attuazione della suddetta novella costituzionale, lo Stato ha adottato la legge 2 luglio 2004, n. 165 (Disposizioni di attuazione dell’articolo 122, primo comma, della Costituzione), la quale ha fissato i principi fondamentali che le Regioni a statuto ordinario devono osservare. In particolare, l’art. 2, comma 1, lettera a), della citata legge ha stabilito che tali Regioni possono prevedere i casi di ineleggibilità «qualora le attività o le funzioni svolte dal candidato, anche in relazione a peculiari situazioni delle regioni, possano turbare o condizionare in modo diretto la libera decisione di voto degli elettori ovvero possano violare la parità di accesso alle cariche elettive rispetto agli altri candidati».

La citata statuizione deve essere letta in uno con la previsione di cui all’art. 2, comma 1, lettera b), della medesima legge, che stabilisce la «inefficacia delle cause di ineleggibilità qualora gli interessati cessino dalle attività o dalle funzioni che determinano l’ineleggibilità, non oltre il giorno fissato per la presentazione delle candidature o altro termine anteriore altrimenti stabilito, ferma restando la tutela del diritto al mantenimento del posto di lavoro, pubblico o privato, del candidato».

Nel dettare la disciplina in materia, diverse Regioni hanno rinviato alla legislazione statale vigente in materia di ineleggibilità, introducendo in tal modo nel proprio interno una normativa analoga a quella sopra richiamata.

14.— Dall’esame della suindicata legislazione, sia statale che regionale, emerge, pertanto, che la Regione Valle d’Aosta si è dotata di una normativa in materia coerente con quella statale, da un lato, soddisfacendo l’esigenza di una disciplina tendenzialmente unitaria a livello nazionale in materia di ineleggibilità; dall’altro, superando il vaglio di ragionevolezza, tenuto conto delle peculiarità dell’azienda sanitaria regionale cui si è innanzi fatto riferimento.

15.— Alla luce delle considerazioni fin qui svolte non è dubitabile che la posizione delle autorità di vertice delle strutture sanitarie private, le quali operino in stretta collaborazione con le strutture sanitarie pubbliche della Regione, consenta di influire in vario modo sugli orientamenti degli elettori, sicché possono essere ravvisati, in concreto, pericoli di captatio benevolentiae o di metus publicae potestatis.

D’altra parte, la scelta tra la previsione di una ipotesi di ineleggibilità o, in alternativa, di una ipotesi di incompatibilità appartiene a quella discrezionalità legislativa che, nella specie, non risulta esercitata in modo irragionevole.

16.— Né elementi a favore dell’illegittimità della norma impugnata possono trarsi dalla sentenza di questa Corte n. 25 del 2008, relativa ad una diversa fattispecie. La suddetta pronuncia ha affermato che le peculiarità che caratterizzano la figura del Rettore dell’Università della Valle d’Aosta consentivano di ritenere ragionevole la prevista ineleggibilità al fine di evitare che dette peculiarità potessero dare luogo ad interferenze sulla consultazione elettorale regionale, avuto riguardo alla posizione del Rettore, sia per le funzioni che è chiamato ad esercitare, sia per le modalità della sua nomina, nonché per le interazioni con gli altri organi dell’Università. Al contrario, questa Corte ha ritenuto che, per quanto concerne i professori, i ricercatori in ruolo ed i titolari di contratti di insegnamento in corsi universitari realizzati in Valle d’Aosta, proprio in ragio ne del ruolo e delle funzioni degli stessi, non sussistessero analoghe esigenze di interesse pubblico o adeguate motivazioni idonee a legittimare restrizioni al diritto di elettorato passivo dei soggetti sopra indicati.

per questi motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara non fondata la questione di legittimità costituzione dell’art. 2, comma 1, lettera r), della legge della Regione autonoma Valle d’Aosta/Vallée d’Aoste 7 agosto 2007, n. 20 (Disciplina delle cause di ineleggibilità e di incompatibilità con la carica di consigliere regionale, ai sensi dell’articolo 15, comma secondo, dello Statuto speciale), sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 51 della Costituzione, dalla Corte di cassazione, sezione prima civile, con l’ordinanza indicata in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 luglio 2010.

F.to:

Francesco AMIRANTE, Presidente

Alfonso QUARANTA , Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 23 luglio 2010.

Il Cancelliere

F.to: MILANA